Ma quando seccato di non ottenere la sua attenzione, il bimbo, stende le braccia e sorride, lo riceva con bontà senza abbattere il suo amor proprio; poi che nel cedere, il bimbo, ha inconsciamente vinto il suo amor proprio. Non si obblighi il bambino a chiedere perdono dopo una bizza o un fallo. Se egli ha capito d'aver fatto male, basta. Se non ha capito, il chiedere perdono non sarà che un'abitudine, o peggio una menzogna.
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Chi non è forte a sopportare il male fisico, si lascia facilmente abbattere anche da quello morale. Alcuni scattano o piagnucolano per una sciocchezza:una parola pigliata a frullo, uno sguardo di sbieco, un saluto tepido, perfino un'osservazione amorevole fa montar loro la mosca al naso:e giù smusate a tutt'andare! Se poi il dolore è reale e sincero, non sanno più tenersi, e s'afflosciano come cenci, tremano come foglie sotto il turbine che passa; e allora rinnegano le più soavi idealità, o annullano tutto un passato di bontà, di devozione, per dar libero sfogo all'insoffribile angoscia, a cui maledicono come a un'ingiustizia. La piccol'anima, non temprata dall'esperienza, viene a galla in queste manifestazione di dolore. No, care, il dolore non si deve sbandierare a tutti i venti. La sofferenza vera ha il suo pudore. - Eh, ma chi raccappezza più qualche cosa in que' momenti? Se vi foste avvezzate a contenere un po'le piccole passioni, ora questa forte e vera non vi riboccherebbe così infrenabile che il cuore par che vi scoppi. Tutti, più o meno, sappiamo lo schianto d'un penoso estremo distacco, nè voi parlate a sordi, quando dite:"Se sapeste quant'ho sofferto! Ero fuori di me! ". E' vero, sembra che ci strappino violentemente le vene, e che il sangue nostro per esse voglia fuggirsene via fino all'ultima goccia; oppure ci prende un impeto di ribellione contro tutti e contro tutto, come se tutto e tutti fossero responsabili del nostro strazio. Allora, quando la ferita è ancora viva, ogni contatto sembra che ne rattizzi l'ardore, e ce ne stiamo lì tutti rattrappiti su noi stessi, per tema che altri ci s'accosti, e guardiamo sospettosi e crucciati e scattiamo d'ira, se ci balena il pensiero che meschina curiosità o falso rispetto umano conduca alcuni fra gli estranei vicino al nostro povero morto. Che cos'è tutto il mondo degli altri davanti a quel piccolo mondo nostro che s'è rinchiuso nella bara ancora scoperta? Che c'importa dell'altre persone, se quella che più amavamo è fuggita via? Le convenienze sociali ci sembrano un'insostenibile catena, che noi vorremmo spezzare con forza brutale. Distraendoci da quell'unico pensiero, ci par di mancare verso la creatura che, morta, sentiamo d'amare mille volte di più. Quanta forza bisogna in quei momenti! Lo so, si preferirebbe essere soli col nostro cuore ferito, anche perchè ci sembra di sentirci portar via, da ognuno che s'avvicina, qualcosa che toccava a noi soli, ch'era tutta nostra. Ma anche quello degli amici, figliole mie, è un tributo al povero morto; e son pochi, rarissimi coloro che, avvicinandosi a una bara, non si sentano compresi di gran pietà e di dolore vero, e non piangano sinceramente con noi, dimenticando le piccole passioni umane. Purtroppo càpita di vedere, in un corteo funebre, qualcuno che dimentica dietro a chi cammina, e si lascia andare a chiacchiere vane, o combina affari, o chiede un parere, o approfitta d'essersi ritrovato dopo tanto con un suo conoscente per aver notizie della famiglia perduta di vista, o, perfino, dice male della persona defunta. Ma voi non sarete così! Se siete obbligate voi pure a seguire una bara, posate lo sguardo sul feretro nero che vi precede, sul cero che, simbolo della vita, si consuma nella vostra mano; immaginate che l'anima separata da quel corpo portato al cimitero chieda l'aiuto d'una vostra preghiera, e allora vi passerà il ticchio di ciarlare di cose vane, di voltarvi in qua e in là, di curarvi della figura che può fare il vostro vestito:pregherete.
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E pazienza se si contentasse di masticar agro per conto suo e di veder nero co'suoi occhi, ma prova un gusto matto a far da spegnitoio all'allegria del prossimo e, come un velenoso microbo, pènetra nell'anima altrui per abbattere un'illusione, troncare un sogno, distruggere una felicità. Le confidi una speranza luminosa di cui il cuore ti ribocca? Un sorriso ironico, una parola pungente ti converte la speranza in un dubbio che tu non accogli intero, ma di cui un rimasuglio indugia nella tua anima. Le parli del bene ricevuto da una tua amica diletta e della dolcezza che tale intimità ti procura? Lei ti mette in guardia contro tale amicizia dimostrandoti come due e due fan quattro, ch'essa è fragile o interessata. E tu resti con in gola un non so che amaro. Se tu le dai un po'di braccio, lei diviene la regolatrice de'tuoi interessi, della tua volontà, della tua esistenza. Non conoscerai più entusiasmo, nè amicizia, nè ribellione, nè audacia: con le trecce sulle spalle, sarai vecchia. E, a forza di guardarti da'pericoli, inciamperai in essi e ti romperai il collo. Dio ti procuri un'amica che temperi i moti irriflessivi della tua anima e ne acqueti l'esaltazioni intempestive, che t'impedisca dal mettere un piede in fallo, ma ti liberi dall'imbatterti in madamigella"Prudenza! "
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V'accadrà, intanto, più raramente di dover tacere, quand'altri parlano, per ignoranza dell'argomento, o di pigliare lucciole per lanterne, o di non poter difendere un'opinione retta che sentiate abbattere o disprezzare. Un altro vantaggio sarà questo, che acquisterete una maggior precisione di linguaggio, di cui mancano assolutamente quelle vanerelle pettegole che non hanno un'idea propria o netta nella mente. Fidandosi delle ciance che raccolgono qua e là e non sapendole valutare con la propria testa, le ripetono come pappagalli, con entusiasmo o lode o disprezzo o biasimo eccessivi, adoprando superlativi ridicoli e iperboliche espressioni, servendosi di piccole astuzie, di giri di parole per dissimulare l'ignoranza dell'argomento. E quanto bene potrete fare! Le donne hanno il merito, riconosciuto anche dagli uomini, di possedere una più pronta intuizione delle anime, un tatto più fine, una sensibilità più squisita; con queste doti, congiunte al buon senso e a una cultura seria e non superficiale, voi, giovinette, potrete unire alla carità materiale, o sostituire a questa che sempre non ci è dato di fare, l'altra, più eletta e più vera, della parte più nobile di voi. Potrete educare più illuminatamente chi vi avvicina, ispirare la sete di tante cose belle a cui molte anime sono cieche; o, se a questo non riuscirete, vi sarà possibile almeno allontanare il male da voi e dalle persone più care. Non vi date pose, soprattutto! E poi siate pure intellettuali, nel senso buono dell'espressione. Del resto, v'assicuro che, anche se sulla parola"intellettualità"si spargesse un pizzico di quell'ironia che generalmente le va congiunta, il suo significato sarebbe sempre preferibile a quello di ozio e di frivolezza.
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Vogliamo dire infine che abbattere le barriere esistenti fra uomo e donna, è socialmente un errore. Lo sport non deve prestarsi a questo errore, e chi può impedirlo, anzi chi deve impedirlo, sono le famiglie e più precisamente le madri. Con la ragione sportiva si permette troppo di frequente che un giovanotto e una ragazza si eclissino dalle case e compiano gite, ascensioni, partite di sci o di altro sport, talvolta in comitiva, talvolta a coppie. Le comitive organizzate sono da approvarsi, le coppie isolate non rispondono a nessun criterio sportivo. Quanto alle ragazze, esse, non devono tollerare dai loro compagni, nei vari esercizi sportivi che mettono fianco a fianco uomo e donna, familiarità eccessive, nè di linguaggio nè di gesto. Ciò non esclude che possano crearsi fra giovani e ragazze simpatie e queste simpatie si risolveranno felicemente, quanto più sarà stato il riserbo che la donna avrà saputo ispirare e a sua volta usare. Galateo e sport non sono in antitesi, ma come per ogni relazione mondana possono associarsi per rendere perfetti i rapporti che tutti gli sport favoriscono. A qualunque istituzione sportiva si appartenga, occorre osservare lealmente le regole statutarie, mantenere fra i compagni e le compagne correttezza di modi, come copra si è detto, gentilezza di maniere, solidarietà nella buona e nella cattiva sorte, senza distinzione di classe e di condizioni sociali. Lo spirito sportivo crea automaticamente questo senso di solidarietà,che talvolta si spinge fino al sacrificio della vita. E l'educazione sportiva deve mantenersi anche negli stadi - soprattutto in questi - quando le parti avverse, poste di fronte, sono chiamate a combattere lealmente, e trasgredire significa incorrere nelle più incresciose squalifiche. Nello sport della neve, l'eleganza non è da trascurare, ma in montagna la vera eleganza è costituita dalla comodità dalla solidità del materiale e dalla semplicità maschile della linea. Cadere sulla neve, specie per chi è nuovo allo sci, è l'incidente più comune che possa capitare. Bisogna far buon viso a cattiva sorte, ricominciar da capo con tenacia, con fiducia; l'esercizio e il coraggio sono indispensabili a chi vuol riuscire; infine si arriverà a stare in equilibrio, a percorrere le discese senza ruzzolare, arrivando in fondo in perfetto stile. Il tennis è uno sport completo, che esige potenza muscolare, precisione e velocità, perciò una tensione nervosa considerevole. È quasi atletico e richiede quindi una buona preparazione e molta sorveglianza, ma resta sempre il grande sport femminile. La donna che gioca a tennis può esprimersi liberamente, rivelando doti di sveltezza, di resistenza, di agilità; può sfoggiare qualità morali d'intelligenza, di volontà, di sangue freddo, che spesso occorrono per vincere una partita. La cortesia esige dai giocatori di classe che non insistano con accanimento su un colpo dubbio. In generale l'arbitro è un esperto giocatore, e conviene accettare il suo giudizio. L'equitazione ha regole d'etichetta particolari, ma infine esse possono generalizzarsi a qualsiasi sport, mutando naturalmente i termini, secondo la natura dello sport stesso. Una donna non dovrebbe mai andare a cavallo senza essere scortata da un cavaliere; è però ammesso che due donne cavalchino insieme. L'uomo sale a cavallo dopo che è salita la signora sua compagna e discende prima di lei, porgendole la mano per aiutarla. Se due uomini vanno a cavallo insieme, il signore anziano tiene sempre la dritta. Il cavaliere è sempre alla sinistra dell'amazzone, se si tratta di un domestico esso resta dietro di qualche metro. Il cavaliere saluta, passando il frustino alla mano sinistra e togliendosi cappello con la mano destra. L'amazzone saluta, chinando leggermente il capo.
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No, non ti attaccare a quei beni che sfuggono e si dileguano come frutto delicato sotto i colpi della gragnuola; ma fa di attaccarti a quei beni che l'uomo non può involarti, nè abbattere, nè fugare; questi beni tu li conosci, tu li coltivi in te stessa; essi si chiamano virtù cristiane, virtù che fecondando la tua vita di opere buone, ti circonderanno di un'aureola risplendente, e se non varranno sempre a rendere felice e fortunata la tua esistenza, la renderanno però ognora placida e rassegnata. Oh! le sventure sono inevitabili, le sventure sono il tessuto della vita; ma tu le sopporterai pazientemente, il che vale a dire con frutto, se il testimonio della buona coscienza ti assicurerà sempre di aver fedelmente compito il dover tuo. Se il Signore ti ha accordato la bellezza, ricordatelo: essa è un fiore che passa; no, non t'illudere, essa è un fiore che passa, e lascia dietro di sè una striscia luminosa soltanto quando è simbolo ed espressione della bellezza dell'anima.
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Essi come popoli vandali e selvaggi non sanno che abbattere e distruggere, senza pensare nè aver modo alcuno a riedificare. Io ho una casina modesta se vuoi, ma ben salda sui fondamenti, comoda e pulita, adattata ai miei bisogni e rispondente a tutto il confortevole alla vita: viene un mestatore e mi dice che quella casa è piccola, indecente, rovinosa, e, senz'aver mezzo alcuno di rifarmela poi pretende la mia adesione per atterrarla, o tenta passare dal detto al fatto colla violenza; non sarei io sommamente sconsigliata, assoggettandomi alla stolta prepotenza del temerario? Oh! non lasciamoci abbattere questo edificio: non lasciamoci rapir dal seno questo tesoro!
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Badino essi a sorvegliare se stessi in ogni occasione; e si ricordino che un sorriso di compatimento, una parola di canzonatura possono non solo guastare ed abbattere tutto l'edificio faticosamente costruito da chi si occupa dell'educazione religiosa dei loro figliuoli, ma produrre per l'avvenire conseguenze irreparabili. L'indifferenza e l'incredulità, se sono dannose in un uomo, sono addirittura deleterie in un fanciullo.
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Chi si lascia abbattere da un'afflizione, chi si stanca nell'opera del proprio miglioramento, chi si sbigottisce al comparire d'ogni ostacolo diventa debole, si rende incapace di sostenere la propria dignità, di saper vegliare alla propria difesa.
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Clemenceau scrisse che un libro è la morte di un albero, che cioè si è costretti ad abbattere un pioppo per estrarne la cellulosa necessaria a produrre quei quintali di carta. Ma per lo meno un libro è un libro, e se il lettore non avrà nulla da imparare e se il compratore si arresterà alla prima pagina, il suo autore ci avrà messo della speranza, dell'illusione, della buona fede. Pensate invece alle foreste che si spogliano ogni anno per mandare attraverso le terre e gli oceani tante parole d'amore senza amore, di ricordo senza concentrazione, di invocazione senza fondamento, che sono la replica di ciò che tutti dicono, la stereotipia di ciò che tutti fanno, la squallida manifestazione della pigrizia del cuore, mascherata di entusiasmo e di esuberanza, per formulare un augurio, questo collettivo ed epidemico controsenso escogitato dagli uomini per occultare malamente che «chaque instant de la vie est un pas vers la mort». E' un verso di Casimir Delavigne. Concludendo: 1°: non si mandino lettere e biglietti di augurio. 2°: avendone ricevuti, non si risponda. Le trecento persone che non avranno ricevuto il ringraziamento che aspettavano, non si raduneranno tutte trecento per stigmatizzare il vostro contegno. Ciascuno penserà che la lettera sia andata smarrita. Dopo sei anni capirà che è un vostro sistema; non so come lo potrà giudicare, ma avrete contribuito col vostro assenteismo a far avanzare di un dente la ruota della civiltà.
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Disgustevole e volgare è il gesto tedesco di abbattere le due mani in avanti come per schiacciare simultaneamente due mosche contro la parete, e di rovesciare la destra e sventolarla verso l'esterno per respingere una proposta o criticare un'idea o scartare un affare. Spigliato e vivace è invece il movimento delle due mani aperte dal basso verso l'alto delle donne francesi per dire che hanno «balancé» l'innamorato che cominciava a essere attaccaticcio o che hanno abbandonato per sempre un proposito, un programma o una carriera. In fondo non si tratta che della posizione delle mani, ma fra il gesto teutonico e quello francese c'è la differenza che corre fra il brutale «Diktat» del quartiere generale prussiano e il sorriso di una mannequin di Christian Dior. Sedersi. Se la donna è bassa di statura, eviti le sedie alte. Quelle gambette che oscillano comicamente dall'alto di uno sgabello di bar le conferiscono un'aria di marionetta. Cerchi le sedie basse, butti sul tappeto un cuscino, o si collochi sopra un'ottomana, ma non faccia ciondolare le gambe. Gli uomini non avvolgano i piedi come gli acrobati sospesi al trapezio intorno ai piedi della sedia. Accavallare le gambe è facoltativo per le donne; incrociarle obbligatorio. Il sedersi sulle tavole o il cavalcare «all'amazzone» i braccioli delle poltrone pretende ostentare una certa disinvoltura, ma l'ostentazione di disinvoltura è una confessione di timidezza. Utilissima, per l'educazione del gesto, è una scuola di danza. Abituando l'orecchio alla disciplina del ritmo, i movimenti si misurano e si controllano: e il dover interpretare con gli atteggiamenti del corpo il significato della coreografia, conferisce al gesto un'assidua coordinazione con la parola. Nessuna donna cammina con tanta grazia come le danzatrici classiche; nessuna donna si siede dignitosamente e castamente come le attrici. Osservatele. Esse non piombano violentemente sulla sedia; non cercano col corpo il sedile; non si muovono come i cani che si scavano una nicchia nella paglia. Le attrici incrociano le gambe, ne flettono una, scendono lentamente verso il sedile; senza lasciarsi cadere. Obbediscono alla forza di volontà, non alla forza di gravità. Né il proprio corpo né gli oggetti debbono essere buttati. Gli oggetti si posano. Anche un mozzicone di sigaretta, an- che il nocciolo di un'oliva. Ricordate il verso di Baudelaire nel sonetto «La Beauté»: io odio il movimento che sposta le linee : «Je hais le mouvement qui déplace les lignes:...» e non dimenticate che nella Francia degli ultimi grandi Re, alla corte di Versailles, quando si ordinava a qualcuno di chiudere una porta, gli si diceva : «conduisez cette porte», conducetela, accompagnatela. Si deve «accompagnare» la porta, e non sbatterla, anche quando la chiudiamo in faccia a qualcuno o quando la chiudiamo per sempre dietro di noi.
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Non temete niente, gli disse Enrico, poiché se il re di Francia vi facesse morire, io farei abbattere la testa a molti Francesi che sono in mio potere. - Va benissimo, replicò il vescovo, ma di tutte queste teste nissuna s'adatterebbe sì bene al mio busto come quella che vi è. - Questa celia, che fece ridere Enrico, riuscì a farlo cambiare di risoluzione; senza di essa forse l' Inghilterra e la Francia conterebbero una guerra di più. Nouchirevan, re di Persia, aveva condannato a morte uno de' suoi paggi per aver questi inavvertentemente sparsa sopra dì lui della salsa servendolo a mensa: il paggio, non vedendo speranza di perdono, versò tutto il piatto sopra quell'implacabile re. Nouchirevan, più sorpreso che sdegnato, volle sapere la ragione di siffatta temerità. « Principe, gli disse il » paggio, io desidero che la mia morte non rechi » macchia alla vostra reputazione; corre voce che » voi siete il più giusto dei monarchi, ma voi perdereste » questo bel titolo, se la posterità sapesse » che per fievissima colpa condannaste a morte uno » de' vostri sudditi; perciò ho versato tutto il piatto». Nouchirevan, rientrato in si stesso, si vergognò della sua collera, e gli fece grazia. 3.° Partendo dall'idea imponente de' doveri di un ministro, della gravità de' motivi che devono determinarlo, da' danni che trae seco il demerito chiamato alle pubbliche cariche, si dura fatica a comprendere che con una celia si possa conseguire quell'impiego che ci era stato negato per demerito; e pure questa possibilità si è realizzata più volte. Il marchese di Sant'Andrea insisteva presso Louvois, ministro della guerra in Francia , onde ottenere una carica; il ministro, che aveva ricevute parecchie lagnanze contro questo officiale, gliela ricusava. S'io cominciassi a servire, so ben io ciò che farei , rispose l'officiale un po' commosso. - E che fareste voi? gli disse il ministro, con un tono risentito. - Regolerei sì bene la mia condotta, replicò l'officiate, che non vi trovereste nulla da ridire. - Il ministro sorpreso piacevolmente da questa risposta, accordò ciò che aveva negato. 4. Una celia può ottenere quel premio che non ottenne, la ragione, che non ottenne l'importunità, talvolta più valevole della ragione. Un poeta aspettava tutti i giorni Augusto a certo passaggio con un epigramma alla mano: egli sperava qualche ricompensa, ma la ricompensa non veniva mai. Un giorno l'imperatore, per divertirsi a spese del poetae trastullarlo piacevolmente, gli presentò de' versi che egli aveva composti in di lui onere. Il poeta, dopo d'averli letti tutti, trasse di tasca del danaro, e lo diede ad Augusto, dicendogli: Ciò ch'io v'offro non è degno del vostro, merito, ma io non posso fare di più. Augusto, incantato da questa risposta nuova e piccante, gli fece dare 100,000 sesterzi (circa 130,000 franchi). - Ecco una buona lezione di morale sotto il velo d'una facezia. 5.° Non v'ha cosa né più comune né più noiosa de' millantatori: mille volte udirono essi le ragioni che condannano la loro condotta, e mille volte tornano in campo colle loro millanterie. Una celia; può agevolmente ridurre a silenzio un millantatore; giacché in generale riesce più difficile il rispondere ad una celia, che ad una buona ragione. Un giovine che si vantava di sapere tutto e di averlo imparato in poco tempo, aggiungeva d'avere speso grosse somme per pagare i suoi maestri. Uno degli uditori, non potendo più contenersi a tali jattante, gli disse freddamente: Affè, se voi trovate cento scudi per tutto ciò che sapete, credetemi, non indugiate a prenderli. Il detto era eccellente, ma pungeva un po' troppo sul vivo. Uno spiantato lagnavisi in un crocchio di molte persone del guasto che la grandine aveva fatto nel suo paese, massimamente ne' suoi poderi. Un tale che a fondo conosceva quel millantatore, e che sapea quanto fosse povero in canna, non potendo più contenersi a tali, jattanze, gli mosse somigliante parlare. La colpa fu vostra, poiché se aveste avuto l'avvertenza di aprire l'ombrello quando si mise a grandinare, i vostri terreni non sarebbero stati danneggiati. Un gradasso vantavasi dinanzi a Cicerone d'essere rimasto ferito in volto nell'ultima battaglia ove avea combattuto - « Ecco ciò che succede, gli rispose » l'oratore romano, allorquando fuggendo si » guarda dietro di sè».
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Infatti abbattere le foreste, asciugare le maremme, distruggere gli animali malefici che le abitano, sono i primi oggetti che reclamano i lavori dell'uomo che vuole sottomettere la natura a' suoi bisogni. Ora tutti questi lavori erano interdetti da un'aristocrazia territoriale che reprimeva a suo piacimento i progressi dell'agricoltura, e non aveva ancora imparato a sacrificare i suoi piaceri alla sua avarizia. Quindi le più belle contrade d'Europa dal V al XIV secolo rimasero, ove più ove meno, sterili e deserte. Il selvaggiume ugualmente che i boschi custoditi da, leggi feroci fecero prevalere il principio e che per la conservazione delle foreste il re non era obbligato a rispettare le regole della giustizia. Così i divertimenti de' signori tendevano alla distruzione dello Stato, e sostituivano de' cervi agli agricoltori, come i regolamenti di Pio IV, delle mule agli artisti (pag. 23). » Oggigiorno, diceva Giovanni di Salisbury » nel XII secolo, i nobili riguardano la caccia come » l'occupazione più onorifica e il talento più desiderato. » Essi fanno più spese per disporsi a questi divertimenti, » che per prepararsi alla guerra, e inseguono » con maggior furore le bestie selvagge » che i nemici del loro paese. Abbandonandosi continuamente » a questo genere di vita, perdono a » poco a poco ogni sentimento umano, e divengono » selvaggi come gli animali che inseguono. Gli agricoltori » colle loro gregge sono cacciati da' » loro campi, prati e pascoli, acciò possa il salvaggiume » crescere ed estendersi. Se qualcuno di » questi grandi e barbari cacciatori passa dinanzi » alla vostra porta, portategli tosto tutti i rinfreschi » che avete o potete ottenere da' vostri vicini, » se non volete vedervi rovinati, ed anche » accusati dall'alto tradimento». Le abitudini selvagge s'introdussero nelle feste. Allorchè Enrico II re di Francia (XVI secolo) entrò solennemente in S. Giovanni di Maurienne, fu ricevuto da cento uomini vestiti di pelli d'orso: essi avevano esattamente l'apparenza di orsi naturali, ad eccezione d'una spada che portavano sulle spalle. Dapprima essi accompagnarono il re facendo mille salti e cavriole; e per meglio imitare gli orsi s'arrampicavano sulle muraglie delle case, sui pilastri de' mercati, e mandavano gridi simili a quelli che echeggiano ne' boschi. Finalmente diressero al principe una salva seguita da urli sì orribili, che i cavalli spaventati, rotte le redini e le cigne, si diedero alla fuga. - Non vi par egli nobile e gentile questo modo di divertirsi che fa spavento ai cavalli? Se i nobili alla corte volevano mostrare somiglianza cogli orsi, forse non recherà meraviglia se i re vollero mostrare domestichezza coi leoni. Don Giovanni re di Castiglia ricevette nel 1434 gli ambasciatori francesi seduto sopra magnifico trono, avendo a' suoi piedi un grosso Lione ch'egli aveva ammansato. I divertimenti corporei prevalenti negli scorsi secoli ci danno adunque i seguenti risultati generali: 1.° Conquiste, aggressioni, saccheggi, soperchierie proclamati come azioni onorifiche; 2.° Gli animali salvatici più apprezzati degli uomini; 3.° I grandi apparentati coi cani, coi cavalli, cogli orsi, coi lioni; 4.° Distruzione de' lavori agrari ed ostacoli ai loro progressi. Si potrebbe dire distruzione d'ogni civiltà; infatti Carlo IX re di Francia, nella seconda metà del eccolo XVI, eccessivamente passionato per la caccia, avrebbe voluto, se prestasi fede allo storico Mathieu, passare la sua vita ne' boschi, e chiamava il soggiorno nelle città il sepolcro dei viventi. Il quale sentimento non sembra discordare gran fatto dai titoli che furono dati a più sovrani: per es: troviamo come segue: X secolo, Enrico l'uccellatore, imperatore. XII - , Enrico il Lione, duca di Sassonia. XII - , Alberto l'orso, elettore di Brandeburgo. XV - , Filiberto il cacciatore, duca di Savoia, ecc. Paragonate questi titoli con quelli che i sovrani ambiscono ne' tempi, attuali, ed anche questo confronto vi dimostrerà il felice cambiamento dei costumi.
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Se mai tornasse a vedervi l' amico mio p***, e vi domandasse di me, ditegli che i miei poveri nervi risentono ancora a quando a quando le fiere commozioni patite, e che la mia testa qualche volta non è a segno del tutto; ch' egli stesso mi scriva se le lunghe peregrinazioni, che vo facendo ogni giorno per questi monti, possano o no di soverchio abbattere le mie forze e fare in me effetto contrario a quello ch' io m' era promesso. Un' altra cosa vi commetto per la mia cara sorella. Ella sa dove stanno i pochi libri che innanzi partire lasciai, fra l' altre cose mie, in quella che fu la mia povera e beata cella. Nello scaffaletto a manca dello scrittoio, vicino alla finestra, troverà alcuni vecchi volumi giallognoli, mezzo rosi dal tarlo: sono i cari e preziosi amici di mia passata gioventù. »Fra essi vi son due libri rilegati in carta pecora, e intitolati l'uno: I Soliloquii di sant'Agostino, e l'altro La Città di Dio. Nell'armadio situato nell' angolo dov'era il mio letto, ne troverà pure alcuni altri più vecchi ancora, fra cui un volume delle Opere di san Tomaso, e uno di quelle di Sant' Ambrogio; e un altro più piccolo, al quale manca il frontispizio, è il Trionfo della Croce di Fra Girolamo Savonarola: quest' ultimo lo conoscerà dal mio nome scritto sull'ultima pagina di mia mano, sotto ad un braccio che tiene impugnata una spada e che vi disegnai quand'ero chierico ancora. Se l'Angiola riesce a raccozzare quel piccol mucchio di libri, ne' quali pongo tutta la mia speranza per quest' inverno, voi, mio buon padre, fate di trovar modo a spedirmeli al più presto, per la via più sicura; ne pagherò la spesa all'uomo che me li porterà. Mio padre. Vi raccomando quello che già vi scrissi nell' altra, di tener sempre presso di voi le lettere che per me venissero alla posta di Como, e di non darle in mano di nessuno, fuorchè del Bernardo, che verrà a pigliarle alla fin del mese, a mio nome. Se ve ne fosse alcuna pressante, queila potreste consegnarla all'amico mio p***, che sa come mandarla a questo mio nido di montagna. Dite a mia madre che, al tornare della primavera, ho speranza di venire a casa per qualche giorno: che non veggo il momento di sedermi ancora, come quand'ero fanciullo, vicino a lei sugli scalini della nostra porta: e che le farò raccontare un'altra volta la storia de' poveri morti di Torno. Oh! quante memorie leggiere, fuggitive, tessute, come tutte le cose della nostra vita, di piccole gioie e di grandi dolori, mi rifanno dinanzi al pensiero tutta l'età passata, e mi sforzano a piangere un'altra volta Perchè non sono io nato che per invocar la benedizione del Signore sopra coloro i quali devono trovare ogni lor bene nel patimento mitigato dalla speranza?... Io la sentiva pure nel mio cuore una fiamma più ardente, l' alito della fede, il coraggio di morire per i miei fratelli.... 2 di maggio 18.... (*) « Niuna cosa violenta puo essere perpetua. » E fino a quando vedrò sulla terra il trionfo del male? O Signore, tu rovesci i potenti dal seggio, ed esalti gli umili; ma tu dicesti ancora: Il regno mio non è di questo mondo. Noi dovremo dunque piegar sempre la fronte, come in atto di vile osservanza, in faccia alla malizia che si veste di pompose apparenze, che vince la semplice onestà colle sue compre lusinghe, o colla ipocrisia, la peggiore delle tirannidi?... Combattere la forza brutale, che non concede alla stanca umanità di sollevare il capo da quella nebbia d' ignoranza in cui da secoli le misere generazioni son costrette a vivere, o piuttosto a morire; parlare in nome di Quello che dal Calvario annunziò agli uomini che sono tutti figliuoli dello stesso Padre che ama e perdona, è una grande e dolorosa parte, la quale a pochi fu dato di compire sulla terra! Il tempo, come spaventoso torrente, trascina via con sè uomini e idee: pochi nomi benedetti, poche sante e divine parole rimangono appena a far testimonianza del passato, a fermar la promessa del futuro. Avventurato chi visse nell'aspettazione de' tempi migliori, procacciando intanto e operando il bene, come se dovesse da un dì all'altro fruttare! Dio ha veduto il cuor suo, Dio raccolse le sue lagrime; e quando seduto in disparte, come Geremia, stette solitario e tacque, Dio gli perdonò il silenzio, e la luce del cielo venne sopra di lui. (*) Forse il manoscritto fu ripigliato all'entrar della seguente primavera; se pur non erano mancati alcuni foglietti. E il suo cuore sollevò un' altra volta quel profetico lamento: - « La parte mia è il Signore; e per questo io l' aspetterò. » Buono è il Signore all' anima che in lui pone speranza e lo cerca. » Buona cosa è procacciar nel silenzio la salute del Signore. » Buona cosa è all' uomo portare il giogo nella sua giovinezza. » Siederà solitario e tacerà; poiché Dio gl' impose il suo carico. » Metterà la sua bocca nella polve, cercando se vi sia speranza. » Porgerà la guancia a chi lo percote; sarà pasciuto d'obbrobrio; » Perocchè il Signore non lo respingerà da sé in sempiterno; » E s' egli affligge, ha pur compassione, secondo la moltitudine delle sue misericordie. » 12 di maggio. Qualche nuova e più grave sciagura sovrasta a me o ad alcuno de' miei cari. Io ne ho da parecchi giorni il doloroso presentimento; poichè alla pace gustata per alcun tempo, alle forti contemplazioni della scienza, infiammatrice dell' intelletto, alla soave poesia della natura, è succeduta nell'animo mio l'amarezza delle cose, la codardia del dubbio, e quasi una paura di me stesso. Questo fu sempre per me il presagio di un tristo giorno della vita. I miei vecchi volumi non mi racconsolano più; non mi sembrano più che vani, indicifrabili enigmi, i quali altra cosa non mi fanno certa, se non che quaggiù nulla è certo. Non posso scrivere, non posso nè manco pensare.... 19 d' agosto. Io mi reputava cosi forte, così provato nella vita, e padrone di me medesimo, da sostener con fronte serena e animo tranquillo ogni e qualunque nuova e più dura esperienza. Dopo essermi seduto tante volte al capezzale della morte, dopo aver veduto spirar nel bacio di Dio tante infelici e candide creature, e aver accompagnato sulla tremenda soglia dell'eternità tanti uomini ciechi del bene, travagliati dal patimento, consunti dalla disperazione o dal rimorso, io credeva che più nulla d'umano potesse conturbare ancora i miei pensieri - Deh! che cosa è mai l'uomo, se tu nol visiti colla tua forza, o Signore? Oggi, dopo molti anni, il caso, o piuttosto il volere di Chi tutto dispone per il bene, mi ricondusse dinanzi un uomo che forse fu la prima cagione di tutte le mie disgrazie. Io gli aveva dato, nella generosa effusione del mio cuore giovine ancora, il santo nome d'amico.... Ed egli lo rinnegò questo nome così bello! mi rapì la prima, la più poetica lusinga della vita, l'amore; mi derise con una crudele indifferenza nelle innocenti mie illusioni; e ligio a coloro che poco m' amavano, se pur non m' odiavano già per la mia naturale e avventata libertà del pensiero, per quello ardimento che di rado è scompagnato da un cuore acceso del desiderio d'operar qualche cosa a pro d'altrui, egli pose in mano de' potenti il segreto che doveva partorirmi l' infamia, farmi morire!... Ma, come Dio anche quaggiù non consente sempre la vittoria ai cattivi, io, povero, oscuro e calpestato verme, fui più forte di coloro che si levarono, come stormo nemico, contro di me. Vinsi l' impostura e l' aperta menzogna ; poi mi ritrassi a piangere il mio passato nel silenzio della casa nel Signore, e perdonai. Perdonai, sperando che Dio a me pure perdonasse. Ed Egli m'avea dato codesta pace: fatto puro il mio cuore del lievito dell' ira, parevami d'avere in me spogliato per sempre il vecchio Adamo. La mattina era bella. - Per sollevare i pensieri dal peso delle angosce che ne' passati dì m' avevano grandemente prostrato, m'incamminavo verso il sentiero della selva, dalla parte ove sorgono tappezzate di lambrusca e di parietaria le rovine dell' antica torre lombarda: è là dov' io passo, in faccia alle maestose, lontane ghiacciaie dell' alpi e all' interminato azzurro del cielo, le più solitarie e beate ore del viver mio. Appena fuor della porta, un uomo incappucciato in un gabbano da montanaro mi s'affaccia d' improvviso. Lo guardai; teneva china a terra la fronte, voleva come parlare; e pareva tremasse. « Chi siete? » domandai. « Uno che.... vi conosce; » rispose, o piuttosto balbettò, senza levar gli occhi. Quella voce non mi parve al tutto ignota; ma Io strano vestire, la sua dubitazione, lo sgomento con che andava guardandosi intorno, turbarono un poco me pure; e persuaso che foss'egli ben altro da quello che i suoi meschini panni mostravano, me gli feci più accosto e di nuovo il richiesi: « Che volete da me? » « Sono un povero fuggitivo; venni a chiedervi asilo. » « Ma, signore! » ripigliai; « nè vi conosco, nè so.... » « Sì, mi conoscete; è in nome dell'amicizia ch'io vengo a voi. » E dicendo così, tolse giù il vecchio cappellaccio che gli copriva mezzo il volto, e mi guardò con aria supplichevole, malcerta. Ancora noi ravvisai. « Per carità, apritemi la porta di casa vostra! voi, ministro del Signore, abbiate compassione del fuggiasco perseguitato.... » E qui abbassò la voce, e fatto un passo verso di me, dopo essersi di nuovo guardato dietro le spalle: « Io sono Alberto ***: fui vostro amico! » Era colui che m'avea tradito. Quello che passasse in quel momento nel mio cuore, non voglio nè potrei scriverlo. Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un uomo a cui egli aveva fatto tanto male, e che fors' anche avrebbe potuto restituirgli il suo tradimento. Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso: egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente, e per leggiere cause, non dubitò farsi reo contro di me. Io non so le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel poco denaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello; Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà! Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria di quello che fu tra me e lui: mi guardò egli pure , poi mi si gittò al collo, e pianse. 3 di maggio. . . . Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l' accompagni! Il mio cuore s' è allargato nella pace di prima sono rassegnato e tranquillo nella mia coscienza. Non so spiegarmi come non ricevessi ancora riscontro alcuno da ***, e da *** alle ultime mie lettere.... Queste note e questi pensieri trovai qua e la sparsi sopra alcuni brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto erano per avventura frammenti o postille di guaiate libricciuolo messo in luce, senza nome, in altro tempo. Ne tenni conto, perchè panni che rivelino meglio quali fossero la mente e il cuore del vicecurato. « Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non intendono, o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d' un esaltato fanatismo; e stanchi prima d' intraprendere, si addormono sui morbidi ma dannosi letti dell' ozio. Tanto è superbo l' amore di noi stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza; tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla! Frattanto l' infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle grandi cose, per non confessare il timore dell' utile fatica; e il vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo vile e iniquo; l' infingardaggine e il vizio diventano costume e perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato indegnamente in quest' ultima classe. .... « L'uomo contempla, rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura: una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l' animo s' eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s' infiamma ai plà scabrosi sperimenti; nulla più si tollera di mediocre, senza una nausea mortale e un magnanimo disprezzo. » .... « Nella rivoluzione de' tempi occorrono età cosi sciagurate per corruttela di costume, e cosi impudenti per abitudine di vizio, che portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria l' oro, mo- destia destia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardia, obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l' usura, avvedutezza la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria; in una parola, la colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d' ogni buono in cattivo, quasichè, per mutar di vocabolo, mutino le cose: ma dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù, che il delitto non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato, ama d' ingannarsi che non è; epperò, perdendo la virtù, ne conserva la divisa, onde molta è la ciurma degl' ipocriti: e così, se dappertutto ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti hanno bisogno di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i propri errori è pur d'uopo che le virtù contrarie condanni per evitar contraddizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue larve, e coll' opera del paragone squarcia la veste dell' impostura la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll' eguale facilità che da un re di scena un re da trono: ed è per questo che in tale condizione di tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche; è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto d'un' illustre povertà, e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene, e dentro la carcere dell'omicida e del ladro. » .... « Le grandi speranze e i grandi sforzi sono dei generosi; le forti presunzioni e i deboli attentati, de' superbi.... Io tutto spero, tutto tento, nulla presumo! » .... « Se è vero che dal conoscere scende ogni volere, e dal volere ogni .operazione umana, con cui si satisfà all'inesorabile bisogno, si accontenta il desio insaziabile, e si avverano le indelebili speranze, nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch' è data ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, deve scusarsi la nostra curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo onde la natura invita l' uomo a ricercarla nel sacrario della scienza: come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge dimore della riflessione, si avanza baldanzosa, prima fidata al solo probabile, poi al verisimile, ed in ultimo anche al falso in colore di vero; e così, per volere acquistare la vetta per la più spedita via, corre la più lubrica; e correndo questa, bene spesso precipita al basso. A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il vero, ce lo fabbrichiamo coll' ipotesi del nostro cervello; e vien poi una demenza filosofica, che delira argomenti in suo soccorso; i quali, accreditati dall' umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia la nube per la diva. - Non già ch' io abborra dall' uso giudizioso dell'ipotesi: so benissimo ch' essa sola batte alle porte della verità; anzi m' aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton, che con essa s' innalzò in mezzo de' cieli e che da essa imparò come due mirabili forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la cosa, che la via si reputi la meta, e voglio che l' ipotesi non si usurpi nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: decipimur specie recti. » .... « La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi preziosi ritiri, non ha nemmeno l' applauso che il saltimbanco ottiene sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue cautele da precipitato giudizio s' imputano a colpa, e si accusano d' ozio e di pi- grizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha bisogno d'assiduo cicaleccio, per non morir d' inedia sulla vie e ne' fori, ne confondono le menzogne, recando in pubblica luce il frutto delle loro nascoste fatiche. » « Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo del corto soffio dell' umana vita. Non bisogna solo calcolare quanto possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ognuno, al divisamento, è pari all' idea che lo move; ma, all' opera, non potendo quanto la specie, ciò che non sa non fa, lo reputa per un cotale astuto giro dell' amor di sè stesso, o inutile o impossibile. - Ma la specie, all'opposto, può di più che non sappia: ognuno porti quel masso che reggono le sue spalle, e l'edificio s' innalzerà verso il cielo saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: - Umana perfettibilità? una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io pure cammino.
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Chiudere le finestre, abbattere i muri delle stanze vicine. Non rom- però il prato. L'ingresso potrà essere nella stanza delle montagne. Ah, tuttavia... Il burban si interruppe, confuso, e guardò il pittore. — Scusami, amico mio, — disse, — parlo come se il tuo corpo e la tua mente fossero i miei. Sakumat sorrise. — Il mio corpo e la mia mente sono ben vivi, e in mio possesso, signore. Non c'è un solo istante del tempo che passo in questa casa che non sia da me voluto ed amato. Ci fu un breve silenzio. — Ho notato, amico mio, che da quando sei giunto, ed è ormai molto più di un anno, hai lasciato crescere la tua barba, — notò il burban in tono leggero. — Quando arrivasti eri poco più di un giovanotto dal volto liscio. Ora la barba ti fa piú solenne. Per quanto tempo ancora crescerà? Non temi che i tuoi amici non ti riconoscano, quando ti presenterai a loro? — Signore, io dirò loro: «Eccomi qui, sono Sakumat! Sono io, il vostro amico! Vi piace la mia lunga barba?» E ai miei amici piacerà. E forse, il piú scherzoso di loro me la tirerà con affetto. Ganuan sorrise. — Il tuo cuore è grande, amico mio e fratello. — Signore, — si inchinò Sakumat, — io te l'ho detto: sono qui per la mia gioia.
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Sarebbe stato più facile abbattere la Porta, davanti alla quale era stato innalzato un terrapieno per difesa. Ma quel generale Raffaele Cadorna, che tu Cherubino non ricordavi, preferì lasciare intatta la bella opera d'arte. - Raffaele Cadorna è parente del Maresciallo Cadorna, che ha combattuto nella nostra Grande Guerra? - interruppe Sergio. - Si: il padre. Quando fu aperta la breccia i soldati di Raffaele Cadorna si lanciarono all'assalto. Si vedevano in testa gli ufficiali con la sciabola in pugno, scintillante come un lampo, i trombettieri con la cornetta squillante fra le labbra gonfie, i bersaglieri, i fantaccini con le bocche rotonde, aperte nel grido della lotta. Vi furono caduti da una parte e dall'altra. La breccia fu conquistata. Durante questo episodio Pino, dopo aver detto al padre «Vado sino a Porta Pia e ritorno», aveva compiuto un atto eroico. Vi era una sorgente d'acqua nella campagna (in una località che oggi è un popoloso quartiere) che i nemici tenevano sotto il tiro delle loro artiglierie per impedire che i bersaglieri assetati potessero attingere. Era facile dall'alto delle mura scorgere i soldati del Cadorna che si sarebbero avviati alla sorgente e quindi fulminarli; di notte quel luogo dov'era l'acqua era continuamente fatto segno ai colpi di cannone.
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Eppure essi preferirono agli agi le fatiche ed i pericoli di un'audace spedizione nella Calabria, per tentare di abbattere il dominio del Re delle Due Sicilie. Attilio, poco prima di partire, scriveva al padre: Mio caro Padre, Tra poche ore, se non ci verrà impedito, partiremo per la Calabria, dove altri prodi figli d'Italia hanno proclamato la rigenerazione della Patria. Secondo ogni apparenza, soccomberemo; ma la esistenza non ci viene forse data per bene impiegarla? La nostra memoria suonerà benedetta fra quella dei generosi, che si dichiararono fautori dell'umanità e della Patria... Pur troppo quei generosi giovani furono assaliti da forze di gran lunga superiori, sopraffatti e catturati. Affilio ed Emilio Bandiera, con sette dei loro compagni, vennero fucilati nel vallone di Rovito, sotto Cosenza. Morirono come gli antichi eroi, e più forte del tuonar dei fucili suonò il loro grido estremo: «Viva l'Italia!»
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L'Italia non si lasciò abbattere dalla sventura. Anche all'interno fu compiuto un bellissimo sforzo con esemplare concordia, perchè i soldati mantenessero alto l'animo ed avessero i mezzi di ricacciare il nemico dal Veneto, e di riportare il tricolore vittorioso nelle terre da redimere. Se ne accorsero gli Austriaci nel giugno 1918, quando sferrarono un'altra offensiva sul Piave e
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Essi spingevano operai e contadini a scioperare, a devastare le officine e i campi, ad insultare e percuotere i reduci dalla grande guerra, gli ufficiali, i sacerdoti, a lacerare ed abbattere il nostro bel tricolore. L'Italia era su l'orlo di un terribile baratro Ma su la sua salvezza vigilava Benito Mussolini.
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Lo farò abbattere, statene certi. - Questo si vedrà! - disse l'Ernesto, muovendo un passo avanti e sfidando il direttore con tutta la mole del suo corpo robusto. - Giusto - rimarcò la Pinuccia, con un coraggio che le venne in gola insieme al cuore. - Questo si vedrà! - La battaglia è appena cominciata, signor Bagliotti - aggiunse calmo il professore. - E adesso se ne vada. Questa, fino a prova contraria, è la nostra stanza. Lei qui non è gradito. - Via! Via! Vada via! - gridarono tutti gli altri, mentre Argo principiava a mostrare di nuovo i denti. Il direttore si massaggiò la gamba, che aveva cominciato a sanguinare, e giudicò miglior partito ritirarsi, almeno per il momento. Uscì dunque dalla stanza, zoppicando e farfugliando oscuri propositi di vendetta.
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. - Romolo, tracciato il solco per la nuova città, dette ordine di abbattere tutte le piante lungo il confine perchè fosse ben netto, senza deviazioni. Gli alberi caddero, tranne un corniolo. Romolo, ispezionando il luogo, chiese perchè avevano risparmiato quella pianta. Gli fu risposto che secondo i sacerdoti, i veggenti del futuro, al corniolo era legata la fortuna della nuova città. Romolo esitò un momento, poi calò l'ascia sul corniolo e lo abbattè. - La fortuna della nuova città sta nelle braccia dei suoi figli - disse.
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Le trombe non mi fanno bollire il sangue e i tamburi non mi eccitano; e vedo troppo chiaramente che siamo stati trascinati dalla nostra stessa arroganza meridionale, illudendoci che uno di noi potesse abbattere una dozzina di yankees, credendo che Sua Maestà il Cotone potesse governare il mondo. Illusi anche da parole, frasi, pregiudizi e odii che venivano dalla bocca di coloro che erano in alto, di quegli uomini per cui avevamo rispetto e riverenza; parole come "Sua Maestà il Cotone, Schiavismo, Diritti di Stato, maledetti yankees". «Cosí, quando sono sdraiato a guardare le stelle e mi chiedo "per che cosa combatto", penso ai Diritti di Stato, al Cotone, ai Negri, ed agli yankees che siamo stati educati a odiare; e so che nessuna di queste è la ragione per cui combatto. Invece vedo le Dodici Querce e ricordo il chiaro di luna attraverso le bianche colonne, il divino aspetto delle magnolie, e le rose rampicanti che ombreggiano il porticato anche nei pomeriggi piú ardenti. E vedo la mamma seduta a cucire come quando ero bambino. E sento i negri che tornano cantando dai campi, al crepuscolo, stanchi e pronti per la cena, e il cigolio della carrucola quando il secchio scende nel pozzo fresco e poi vedo la lunga strada verso il fiume, attraverso i campi di cotone, e la nebbia che si alza dalla pianura al tramonto. Ed è per questo che io sono qui, io che non amo la morte né la miseria né la gloria e non odio nessuno. Forse questo è quello che si chiama patriottismo: amore per la propria casa e per il proprio paese. Ma la cosa, Melania, è ben piú profonda. Perché quanto ho nominato non è che il simbolo di ciò per cui arrischio la mia vita, il simbolo del genere di vita che amo. Io combatto per i vecchi giorni, per le vecchie abitudini che amo tanto e che temo siano oramai svanite per sempre, comunque si vada a finire. Perché, vincere o perdere, noi perderemo lo stesso. «Se noi vinciamo questa guerra e abbiamo il Regno del Cotone dei nostri sogni, avremo ugualmente perduto, perché diventeremo diversi e l'antica tranquillità sarà scomparsa. Il mondo sarà alle nostre porte a chiedere il cotone e noi potremo dettare i nostri prezzi. E allora temo che diventeremo come gli yankees, di cui oggi scherniamo l'attività per far quattrini e l'abilità commerciale. E se perdiamo, Melania, se perdiamo... «Non temo il pericolo di essere preso prigioniero o ferito o anche ucciso, se la morte deve venire; ma temo che una volta finita la guerra non torneremo piú agli antichi tempi. Non so che cosa ci porterà il futuro, ma certamente non potrà essere cosí bello come il passato. Guardo i ragazzi che dormono accanto a me e mi domando se i gemelli o Alessandro o Cade hanno gli stessi pensieri. Chi sa se essi sanno che combattono per una Causa che è stata perduta fin dalla prima fucilata. Ma non credo che vi pensino; quindi saranno felici. «Non prevedevo questa vita per noi, quando ti chiesi di sposarmi. Pensavo alla vita alle Dodici Querce, tranquilla, facile, immutata, come sempre. Noi ci somigliamo, Melania, perché amiamo le stesse cose; ed io vedevo dinanzi a noi una lunga serie di anni privi di avvenimenti, dedicati a leggere, ascoltar musica e sognare. Ma non questo! Non questo sconvolgimento, questo sangue, questo odio! Né i Diritti di Stato né gli Schiavi né il Cotone meritano questo. Nulla merita ciò che ci sta accadendo e che ci può accadere, perché se gli yankees vincono, il futuro sarà di un incredibile orrore. «Non dovrei scrivere questo, e neanche pensarlo. Ma tu mi hai chiesto che cosa avevo nel cuore; ed esso è pieno del timore della disfatta. Ti ricordi al banchetto, il giorno in cui fu annunziato il nostro fidanzamento, che un certo Butler suscitò quasi una questione con le sue osservazioni sull'ignoranza dei meridionali? Ricordi che i gemelli volevano ammazzarlo perché egli aveva detto che avevano poche fonderie, poche fabbriche, poche navi, arsenali e industrie meccaniche? Ti ricordi quando disse che la flotta yankee poteva imbottigliarci cosí strettamente che noi non avremmo piú potuto mandar fuori il nostro cotone? Egli aveva ragione. Noi combattiamo contro i nuovi fucili degli yankees, coi moschetti della Guerra Rivoluzionaria; e fra poco il blocco sarà troppo stretto per lasciar entrare anche i medicinali occorrenti. Dovevano dar retta a un cinico come Butler, che sapeva, invece che ad uomini di Stato che parlavano... e ignoravano. Infatti egli disse che il Sud non aveva nulla con cui iniziare la guerra, se non cotone e arroganza. Il nostro cotone oggi non val nulla ed è rimasto soltanto ciò che egli ha chiamato arroganza. Ma secondo me questa arroganza è coraggio incommensurabile e se...» Rossella ripiegò attentamente la lettera senza terminarla e la ficcò nella busta, troppo annoiata per continuare la lettura. Inoltre il tono di quelle parole e quegli sciocchi discorsi di disfatta la deprimevano alquanto. Dopo tutto, ella non leggeva la posta per apprendere le idee poco interessanti di Ashley. Ne aveva avuto abbastanza di ascoltarle quando in altri tempi egli sedeva sotto il porticato di Tara. La sola cosa che ella desiderava conoscere era se Ashley scriveva a sua moglie delle lettere appassionate. Fino ad ora non ne aveva scritte. Ella aveva letto tutte quelle che erano nella scatola di legno e in nessuna di esse era una frase che un fratello non avrebbe potuto scrivere a sua sorella, affettuose, umoristiche, discorsive, ma non certo le lettere di un innamorato. Rossella aveva ricevuto troppe ardenti lettere d'amore per non riconoscere a prima vista l'autentica nota della passione. E questa nota mancava. Come sempre, dopo le sue segrete letture, provò un senso di profonda soddisfazione, sentendosi sicura che Ashley l'amava ancora. La stupiva che Melania non si accorgesse che suo marito le voleva bene soltanto come a un'amica. Evidentemente non si accorgeva di ciò che mancava in quei messaggi; ma Melania non aveva ricevuto altre lettere d'amore per poter fare il confronto. «Che buffe lettere!» pensò Rossella. «Se un mio marito dovesse scrivermi di queste sciocchezze, mi farei sentire. Perfino Carlo scriveva delle lettere migliori di queste.» Fece scorrere i fogli guardando le date e ricordando il loro contenuto. E nessuno di essi conteneva descrizioni di bivacchi e di cariche come quelle che Darcy Meade scriveva ai suoi parenti o il povero Dallas McLure aveva scritto alle sorelle zitellone, Fede e Speranza. I Meade e i McLure leggevano orgogliosamente queste lettere a tutto il vicinato e Rossella aveva spesso provato un segreto senso di vergogna perché Melania non aveva lettere di Ashley da leggere ad alta voce nelle riunioni di lavoro. Sembrava che nello scrivere a Melania Ashley dimenticasse la guerra e cercasse di tracciare attorno a loro due un cerchio magico fuori del tempo, scrollando lontano da sé tutto ciò che era avvenuto da quando il Forte Sumter era il discorso del giorno. Parlava di libri che egli e Melania avevano letto, di canzoni che avevano cantato, di vecchi amici, di luoghi che egli aveva visitato in Europa. E attraverso le lettere era una malinconica nostalgia delle Dodici Querce; lunghe pagine egli dedicava a rievocare le gelide stelle di un cielo autunnale; i banchetti con la porchetta arrostita, le riunioni di pesca, le quieti notti bagnate di chiaro di luna e il fascino sereno della vecchia casa. Ella ripensò alle parole di quest'ultima lettera: «non questo!» E le sembrarono il grido di un'anima tormentata dinanzi a qualche cosa che non avrebbe voluto, eppure doveva affrontare. Ma se non temeva le ferite e la morte, che cosa erano i suoi timori? Completamente priva di spirito analitico, ella scrollò da sé questo pensiero complesso. - La guerra gli dà noia... ed egli detesta le cose che lo annoiano. Per esempio, io... Mi amava, ma ebbe paura di sposarmi perché... forse temeva che io avrei turbato il suo modo di pensare e di vivere. No; neanche precisamente paura. Ashley non è vile. Non può esserlo, dal momento che è citato all'ordine del giorno e che il colonnello Sloan ha scritto a Melly una lettera di elogi per il suo valoroso contegno nel guidare le truppe all'assalto. Quando si è messo in mente di fare una cosa, nessuno è piú deciso e piú coraggioso di lui, ma... Vive dentro di sé invece di viver fuori e detesta esser trascinato nel mondo... Mah! Non capisco. Se avessi capito questo allora, sono certa che mi avrebbe sposata. Rimase un istante a stringersi le lettere al seno, pensando con nostalgia ad Ashley. I suoi sentimenti verso di lui non erano mutati dal giorno in cui se n'era innamorata. Era la stessa emozione che l'aveva ammutolita quel giorno, - aveva quattordici anni - quando sotto il portico di Tara lo aveva visto giungere a cavallo, e sorriderle coi capelli che brillavano al sole. Il suo amore era ancora l'adorazione della giovinetta per un uomo che non riusciva a comprendere; un uomo che possedeva tutte le qualità che a lei mancavano; ma che destavano la sua ammirazione. Egli era ancora il Principe Azzurro sognato da una fanciulla, la quale non chiedeva altro guiderdone per il suo amore se non un bacio. Dopo aver letto quelle lettere, ebbe la sicurezza che egli amava lei, Rossella, benché avesse sposato Melania; e questo era quasi tutto ciò che ella poteva desiderare. Era ancora giovine e intatta. Se Carlo, con la sua goffaggine e inettitudine e con la sua imbarazzante intimità, si fosse imbattuto in una delle vene profonde di passione che erano nascoste entro di lei, i sogni della giovinetta non si sarebbero limitati a desiderare da Ashley un bacio. Ma le poche notti trascorse con Carlo non avevano toccato nulla nel suo intimo né l'avevano menomamente maturata. Suo marito non le aveva fatto comprendere che cosa poteva essere la passione, la tenerezza, la vera intimità del corpo e dello spirito. La passione a lei sembrava soltanto una servitú a un'inesplicabile follia maschile, non condivisa dalle donne; qualche cosa di doloroso e di imbarazzante che era stato una sorpresa per lei, perché prima delle nozze Elena le aveva fatto comprendere che il matrimonio è una cosa che le donne debbono sopportare con dignità e fermezza; e i commenti bisbigliati dopo la sua vedovanza dalle altre donne, avevano confermato in lei quest'idea. Rossella era dunque ben contenta di non aver piú a che fare con la passione e col matrimonio. Non aveva piú a che fare col matrimonio; ma con l'amore sí, perché il suo amore per Ashley era diverso; era qualche cosa di sacro che le toglieva il respiro, un'emozione che andava crescendo durante le lunghe giornate di silenzio forzato, e si nutriva di ricordi e di speranze. Sospirò nel legare nuovamente il nastro attorno al pacchetto e nel rimetterlo a posto. Allora aggrottò le ciglia perché le venne in mente l'ultima parte della lettera, quella che riguardava il capitano Butler. Strano che Ashley fosse rimasto impressionato da ciò che quel furfante aveva detto un anno fa. Innegabilmente il capitano Butler era un furfante, ma ballava divinamente. Solo un mascalzone poteva dire quello che egli aveva detto della Confederazione quella sera alla vendita di beneficenza. Si avvicinò allo specchio e si lisciò i capelli soddisfatta di sé. Si sentí sollevata come sempre quando vedeva la sua pelle di magnolia e i suoi occhi verdi, e sorrise per far apparire le due fossette. Quindi scacciò dalla sua mente il capitano Butler, ricordando soltanto che ad Ashley le sue fossette piacevano molto. Nessun rimorso per il fatto di amare il marito di un'altra o di leggere la posta di quest'altra turbò la gioia di vedersi giovine e bella e di sentirsi sicura dell'amore di Ashley. Riaperse l'uscio e discese a cuor leggero la scala tenuta in una semioscurità che dava un senso di fresco. A metà scala cominciò a cantare: «Quando questa guerra crudele sarà finita».
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Come ti lasci abbattere!
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Abbattere! Ci vuol altro. Rattristare sì. Tanto tanto. Ho lasciato la mia camera per non entrarci mai più. Ho chiuso le finestre, ho sbarrato le imposte così buio che non sapevo più venir via. Ho avuto come un senso di paura nell'uscirne. Mi pareva di vedermi morta sul letto. C'era morta tutta la mia gioventù, il fiore della vita.
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S'irritava, quasi si sentisse insidiato, quasi scorgesse attorno a lui le fila di una congiura per abbattere la sua prosperità, raggiunta con tanto lavoro, tanti stenti, tanti sacrifizi, con tanta onestà sopratutto. Non aveva fatto male a nessuno, eppure sapeva di aver molti invidiosi, molti nemici che avrebbero gongolato di gioia se i suoi affari, finalmente, fossero andati male. Lo invidiavano perchè, grazie alla Madonna e al fazzoletto di sua madre, non aveva mai sbagliato la minima speculazione. Di lui dicevano: Se mettesse acqua nel lume, invece di petrolio, l'acqua arderebbe ugualmente. - Ed era quasi vero! Ma non aggiungevano mai ch'egli non barava nel peso e nella misura, come loro! Non aggiungevano ch'egli non ingannava la clientela per la qualità delle merci, come loro! Di quel che dicevano gli altri, anche per screditarlo, egli non si era mai curato nè si curava. Il vedere però che ora l'insidia, il pericolo gli veniva da sua moglie e dal suocero che dava ragione alla figlia, gli faceva perder la calma. Ah! Se quel fazzoletto fosse stato un fazzoletto qualunque.... Ma era quello di sua madre, quello della buona fortuna stracciarlo, buttarlo via, bruciarlo, disperderne le ceneri per dare una stupida soddisfazione a sua moglie, sarebbe stata tale infamia!... Gli sarebbe parso di dissotterrare la sua povera morta e profanarne le ossa.... E più sua moglie e suo suocero si incaponivano a vedere in quel fazzoletto un ricordo di amore - aveva egli mai avuto tempo di pensare all'amore? - più egli diventava duro, intrattabile su questo punto. Così, soltanto così poteva spuntarla! E infatti si lusingò di averla spuntata. Due giorni dopo, Marina riapparve nel negozio accompagnata dal padre. Entrò, salutò, si tolse lo scialle e cominciò, come se nulla fosse stato, a servire gli avventori che attendevano. Giovanni non era svelto nei movimenti; pareva che riflettesse su ogni cosa, quasi avesse sempre paura di sbagliare. Marina, invece, sbrigava gli avventori in un batter d'occhio; prendeva la moneta, rendeva il resto con un sorriso, con una buona parola, con un motto scherzoso; e gli avventori andavano via contenti, senza accorgersi che quella buona parola, quel sorriso, quel motto eran costati grammi o centimetri di meno secondo la merce. Giovanni se n'era accorto una volta, e l'aveva, ammonita: - No, non sta bene. Ci vuol coscienza nel vendere.... - Il po' di meno che do io va pel più che dài tu. A loro non fa niente; ma tanti più e tanti meno, messi insieme, per noi fanno una somma. E quella volta Giovanni aveva avuto rimorso di aver riso alle parole della moglie, che gli aveva picchiato carezzevolmente su la spalla, ripetendo le parole: - fanno una somma - quasi per avvertirlo di pesarle bene. Marina intanto evitava fin di guardare lassù, in cima allo scaffale di fondo; in casa ciarlava, rideva al suo solito; o mai più, mai più una lontana allusione a quel che era accaduto tra loro settimane addietro. Nei primi giorni, Giovanni l'aveva osservata con un po' di diffidenza, messo in guardia dall'improvviso rabbonimento di lei. Poi aveva pensato che suo suocero doveva aver fatto una bella paternale alla figlia; e si era messo il cuore in pace. Quella mattina erano venuti insieme al negozio; e Giovanni, nell'aprire la porta, aveva sentito più forte l'ansietà di accertarsi che il fazzoletto fosse al suo posto, e più forte la soddisfazione di ritrovarlo colà! Cosa strana! Gli era però rimasto nel cuore un senso di pena, sottile sottile, un che di irrequieto e di smanioso che stava per fargli mandare a monte la compra di una grossa partita di mandorle amare. Il mediatore aveva insistito: - Non ve la lasciate scappar di mano, mastro Giovanni! Così era andato a veder la merce nel magazzino della vecchia signora Campanazzo, non a torto soprannominata Ciaula perchè ciarlava peggio di una cornacchia e quando cominciava non finiva più. Giovanni, due o tre volte, aveva fatto cenno di licenziarsi; l'affare era già concluso e la caparra consegnata per mano di mediatore; ma quella vera ciaula aveva voluto intrattenerlo con le confidenze dei guai di casa sua: un fratello dissipatore; la cognata con le braccia cionche; due nepoti uno più scavezzacollo dell'altro! Senza di lei, la casa sarebbe già sossopra da un pezzo. Faceva quel che poteva. Avrebbe dovuto infilarsi i calzoni.... ma!... - Due ore e mezzo! - esclamò Giovanni guardando l'orologio e affrettando il passo per arrivar più presto al negozio. - Due ore e mezzo, sì; ma avrete il guadagno di almeno tre cento lire, a dir poco! Giovanni crollò la testa alle parole del mediatore. Ogni volta che concludeva un affare, egli sentiva in fondo al cuore un battito di lieto presentimento che lo assicurava della buona riuscita. Quel giorno invece tornava al negozio ancora sotto la impressione di quel sottile senso di pena, di quella irrequietezza, e nessun battito lieto gli si era mosso in fondo al cuore. Il negozio rigurgitava di avventori. Pareva che si fossero dati la posta per trovarsi colà nell'assenza di lui. - Credevo che non tornassi più! - gli disse Marina. Egli non rispose e si diè a servire gli avventori che mostravano di aver più fretta degli altri. Badate! La Madonna sta per cascar giù. Alle parole e al gesto di quella ragazzina, Giovanni si voltò così rapidamente che urtò Marina, intenta a cavar lo zucchero da un cassetto. E appena vide.... diè un urlo, a cui seguì l'urlo di Marina sentitasi afferrare, di dietro, pel collo da due mani convulse che tentavano di soffocarla. Le donne e i ragazzi che erano presenti si misero a gridare, e un giovane operaio scavalcò il pancone, per strappar la moglie dalle granfie del marito! Pallido, con gli occhi sbarrati, con la fronte imperlata da fredde gocce di sudore, le labbra e la lingua così aride da non poter pronunziare una parola, Giovanni si era rovesciato sur una seggiola, coprendosi il capo con le mani, quasi avesse paura che la vôlta del negozio stesse per crollargli addosso. Poi scattò, coi pugni tesi verso Marina piangente, ritta in un angolo, tra due donne che la confortavano, trattenuto appena dal giovane operaio che cercava di calmarlo. - II fazzoletto! Il fazzoletto! - balbettava. - Dove lo hai buttato il fazzoletto? - Mastro Giovanili! Eh, via! Non mi sembrate più voi !... Per un fazzoletto.... Eh via! - Scellerata!... Tu non sai che danno hai fatto!... Dove lo hai buttato? - egli continuava a balbettare, coi pugni tesi e gli occhi sbarrati. - E diteglielo dove lo avete nascosto! Non lo fate irritare di più! - soggiunse rivolto a Marina, il giovane che non capiva come mai per un fazzoletto potesse esser nata tanta lite. - Il fazzoletto?... L'ho stracciato! rispose Marina, con mossa di sfida, asciugandosi il viso, e cessando di piangere.
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E la voce di quell'uomo che pareva un ciclope venuto giú dai monti pietrosi per abbattere qualche cosa che non gli andava a genio, era quella di un saggio. L'argomento era quello: l'affitto del bosco ghiandifero ai banditi. Egli non disse che era un loro favoreggiatore, anzi un loro complice, ancora a piede libero perché troppo furbo e prudente per lasciarsi scoprire; narrò che era un loro amico, perché i disgraziati erano pur degni di avere amici, fra tanti nemici che li perseguitavano come i cacciatori i cinghiali, colpevoli solo della loro fiera indipendenza: questi nemici arrivavano al punto di impedire ai due fratelli di far pascolare le loro greggie e i loro branchi di porci in terre di cristiani: onde il signor Antonio era pregato di aver compassione delle bestie e dei loro padroni. «Questo è il denaro: due, trecento scudi; quello che vuole, signor Antonio.» Trasse dal petto un portafogli legato con una correggia, e fece atto di toglierne il denaro: la mano bianca dell'altro fermò la sua, e non se ne staccò, mentre gli occhi chiari del galantuomo cercavano di penetrare in quelli scuri del colosso come un fanciullo fiducioso che si avanza in un bosco spinoso certo di trovarci un sentiero. Disse: «Amico, voi sapete che la cosa è impossibile.» Quel contatto, quello sguardo, sopra tutto la parola «amico» pronunziata in quel modo e in quel momento operarono, come l'uomo ebbe a dire piú tardi, un vero miracolo. Egli rimise il portafogli, ma insisté nella sua richiesta, calcando, forse con sincerità da parte sua, sul bisogno assoluto che i fratelli S. avevano di protezione e di soccorso da parte delle buone persone che conoscevano le loro disavventure. «L'unico soccorso che io posso suggerire ai due sviati, è che si costituiscano subito alle autorità» disse il signor Antonio; «prima che sia tardi per loro, ed anche per i loro amici.» L'uomo ha un sogghigno: il suo viso rassomiglia proprio, in quel momento, a quello del diavolo. Ma l'altro continua: «Noi un giorno ci rivedremo; e allora mi darete ragione. Quei due giovani sono come due pietruzze staccatesi dalla cima di una roccia: cadono, ne travolgono altre, precipitano sulla china, diventano una valanga, finiscono nell'abisso.» «Certo, se nessuno li aiuta.» Brontola il gigante. «È facile parlare cosí, seduti davanti a una tavola tranquilla, col foglio in mano. Bisogna però trovarsi nel loro covo, nelle loro difficoltà, per pensare in altro modo. E bisognerebbe parlare con loro, non coi loro ambasciatori.» «Io sono disposto a parlare con loro, e convincerli a cambiare strada. Procuratemi un abboccamento, dove e quando essi vogliono; parlerò ai due disgraziati ragazzi come fossi il padre loro.» Pensando forse che essi invece, noti anche per la loro loquela impetuosa e appassionata, avrebbero convinto lui, procurandosi in tal modo un nuovo amico e «protettore» potente per la sua sola bontà e la fama della sua rettitudine, l'uomo della montagna si animò insolitamente. Accettò il bicchiere di vino che l'ospite gli offriva, e se ne andò silenzioso, dopo aver promesso di tornare. Tornò, infatti, ma per il colloquio coi S. non si poté concludere nulla. I banditi erano diffidenti, e i discorsi romantici del signor Antonio li facevano ridere. Costituirsi? Può un guerriero barbaro, che difende la sua libertà e la sua sanguigna fame di vivere, darsi prigioniero al nemico? Eppure la profezia del signor Antonio si avverò. Di delitto in delitto, di rapina in rapina, essi e la loro banda precipitarono in un abisso. Fra gli illusi da loro travolti, vi fu anche, con dolore del signor Antonio, e di tutta la famiglia, anche il giovane servo, malarico e visionario, Juanniccu, che, senza aver commesso la piú lieve colpa, solo per spirito di avventura, si uní negli ultimi tempi alla banda e fu con loro preso. In compenso l'uomo della montagna tornò spesso dal signor Antonio, e diventò il suo «pastore porcaro». Per lunghi anni fu uno dei dipendenti piú fedeli e affezionati al signor Antonio. E confessò che quella notte era venuto con la sinistra intenzione di sopprimerlo, se non si piegava ai voleri dei malvagi.
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