Ed è un incanto vedere come tubano, come si girano intorno, abbassando e strisciando le ali, allargando la coda, e come si baciano. Appena incominciano le cure della famiglia, il maschio cova lui pure le ova, dalle dieci del mattino fino alle quattro pomeridiane: e la femmina nella rimanente parte del giorno. Dopo anni ed anni si ritrova ancora la stessa coppia nel medesimo nido. De'miei, sono quaranta o cinquanta famiglie in una stanza; ciascuna ha il suo numero e la sua casella negli scaffali intorno alle pareti; non c'è pericolo che abbandonino e scambino mai la loro casa, tanto è grande e indissolubile l'affetto del primo amore. Le femmine od i maschi staccati dal loro nido, dalle uova, o dai loro piccini, sentono più prepotente il bisogno di ritornare colla loro famiglia. È incredibile ciò che sopportano di fatica e di stenti per ritrovare la casa, quando sono portati lontano. Se smarriscono la via non hanno più pace: non vi è tempesta o burrasca che li trattenga. Si direbbe che solo acciecati, che non conoscono più pericoli, che non pensano più alla loro vita, che sono impazziti d'amore. Essi volano sul mare, attraversano le nubi, sfidano i fulmini, passano di città in città, indeboliti, estenuati, affranti, cercando la loro soffitta, vagando sui tetti, posandosi sulle torri a prender fiato, cercando spauriti nei campi qualche granello di cibo, finchè dopo l'affanno di giorni e di settimane, passate errando nella foga della ricerca, arrivano ansanti alla loro casa e si fermano sui tetti vicini, di fronte alla loro finestra e cadono guardandola, come se mancassero loro le forze, e soccombessero per la fatica e gli stenti.
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Me ne diede l'annunzio la mattina presto il solito cameriere, abbassando gli occhi: poichè aveva fra l'altre anche questa civetteria, d'abbassare gli occhi, mentre parlava, come per non lasciarsi leggere nell'anima la gioia del suo ultimo trionfo amoroso. Il tropico del Cancro! Era l'annunzio sgradito di quasi tremila miglia di zona torrida che s'avevano a percorrere prima di risentire la carezza fresca degli alisei dell'altro emisfero, e al solo pensarvi mi pareva di sentirmi filare due gocciole tepide giri dalle tempie. Misi il viso al finestrino: una maraviglia! L'oceano placidissimo, tutto argento e rosa, coperto d'un velo diafano di vapori a cui il sole nascente dava l'aspetto d'un leggerissimo polverìo luminoso, e a poche miglia lontano, in mezzo a quella bellezza immensa e virginea dell'acqua e dell'aria, un bastimento grande, che pareva immobile, con tutte le vele aperte e candide, come un gigantesco cigno dall'ali tese, che ci guardasse. Apro, e mi vien nella fronte e nel petto un soffio delizioso d'aria marina, che mi ricorre per le vene, e mi riscote tutto, come l'alito d'un mondo ringiovanito. Il bastimento era un veliere svedese che veniva probabilmente dal Capo di Buona Speranza, il primo che incontravamo dopo Gibilterra. Per pochi minuti mi biancheggiò agli occhi nella chiarezza di quell'aurora incantevole, simpatico come il saluto d'un amico: poi si nascose; e allora l'oceano mi parve più solitario e più silenzioso di prima; ma benigno sempre, come non l'avevo visto ancora, e d'una bellezza gentile, che faceva immaginare all'orizzonte le rive d'un giardino infinito. Era una di quelle mattine in cui i passeggieri si vanno incontro sul cassero col viso ridente e con le mani tese, come se il primo sofflo d'aria avesse portato a ciascun di loro una buona notizia. Ma quel bel tempo a capo di poche ore s'intorbidò, il cielo si coperse di nuvole, e l'aria divenne greve e calda, come se avessimo fatto un salto dalla primavera nell'estate. Eravamo entrati in quella grande massa di vapori, antico terrore dei naviganti, che il caldo dell'equatore solleva dall'oceano e ammonta su tutta la zona intertropicale: e che le creature fortunate di Giulio Verne, quando viaggiano per il cielo, vedono come una fascia oscura tesa attorno al nostro pianeta, simile alle strisce della faccia di Giove. Il bel mare della mattina era stato l'ultimo sorriso della zona temperata, blandita dall'ultimo soffio degli alisei. Ora navigavamo nella regione della nebbia, degli acquazzoni e dell'uggia. E se ne mostrarono subito gli effetti nelle terze classi. L'agente mi venue a cercare nel salone. - Venga a vedere, - mi disse, - le baruffe chiozzotte. Lo spettacolo comincia.
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Ma il risultato migliore ed il perfetto effetto si ottiene non piegando la mano, ma alzando od abbassando il gomito mentre la mano resta tenuta ferma ed orizzontale.
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Tutt'al più, incontrando nei corridoi una persona già vista altre volte, si farà atto di dovere abbassando leggermente la testa in segno di saluto, o sollevando il cappello. Ciò non toglie che non si possa, quando si voglia, avviare una di quelle conversazioni, che lasciano il tempo che trovano e servono a far passare un quarto d'ora d'attesa. Ma si anderà molto adagio con queste conoscenze effimere con persone ignote che possono esser ben diverse da quello che sembrano; e soprattutto si eviterà ogni intimità, non si accetteranno inviti, non si faranno promesse di futuri legami. In generale le amicizie contratte all'albergo non hanno seguito, ed è inutile far promesse che si è convinti di non mantenere. Chi sta in albergo deve adattarsi alla vita comune e non pretendere attenzioni speciali, cui creda aver diritto per il suo titolo o per la sua posizione. Tutti sono uguali dinanzi all'albergatore, il quale, se mai, favorirà di più coloro che si mostrano più gentili e meno esigenti. Se lo tengano per detto tutti quelli che credono d'imporsi con l'albagia e con le maniere arroganti. È un buon uso saldare i propri conti settimanalmente, e anche più spesso. Si evitano così molte contestazioni e molti errori, che è quasi impossibile mettere in chiaro, quando il conto risale a quindici giorni o un mese. Ad ogni modo, quando si abbiano reclami da fare, sarà bene farli con cortesia: così, oltre a dar prova di buona educazione, si raggiungerà più facilmente lo scopo. Lasciando l'albergo, si prenderà congedo soltanto da quelle persone con le quali si è fatto conoscenza, approfittando del momento in cui le incontriamo: per esempio a tavola o in sala di lettura. Non usa recarsi a salutare negli appartamenti altrui. Venendo a mancare l'occasione, si lascerà al bureau un biglietto da visita.
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I Romani, che non portavano cappello, si salutavano stendendo la mano in avanti e abbassando la testa. Oggi, ci si leva il cappello. Le donne, naturalmente, salutano soltanto con la testa. Vi figurate voi una donna che dovesse a ogni momento, per la strada, togliersi il cappello? Sarebbe un disastro! Ogni saluto richiederebbe, dopo, un quarto d'ora per accomodare i capelli e fermarsi di nuovo il cappello, e ci vorrebbero specchi sui muri di tutte le case. Il saluto dell'uomo dev'esser fatto con eleganza e con semplicità, soprattutto con naturalezza. Il gesto dev'esser sobrio e disinvolto, senza affettazione e nello stesso tempo senza impaccio: esso sarà tuttavia diverso nelle diverse circostanze. Una persona di rispetto, una signora, un uomo illustre devono esser salutati con una certa cerimonia, e il gesto avrà una certa ampiezza e solennità. Per gli amici, le persone di confidenza, i parenti basterà un saluto più semplice. Senza arrivare alla esagerazione di certuni, che colgono continuamente l'occasione di salutare, per far vedere che hanno molte conoscenze, ricordatevi che il saluto è un atto di civiltà, e non ne siate avari. Soprattutto, rispondete sempre a chi vi saluta: non c'è cosa più brutta che vedere un uomo che, salutato, non risponde, o si contenta di un vago cenno del capo. A chi si leva il cappello incontrandovi, fosse anche il vostro servitore o il vostro contadino, rispondete con un saluto uguale. Molte persone, per salutare, hanno la brutta abitudine di portar la mano al cappello, senza levarselo. Un tal gesto non è permesso che a un vetturino; in una persona civile, si considera a buon diritto come un atto di negligenza o anche come un'impertinenza. Quando salutate una persona di rispetto, se avete il sigaro o la sigaretta in bocca, levateveli prima di salutare. Se una signora, che avete salutata, si ferma a parlare con voi, sarà un atto cortese da parte vostra di parlarle col cappello in mano, finchè essa non vi preghi di coprirvi; ed è cortesia da parte sua pregarvene. Salutate la bandiera nazionale, quando sventola in testa a un reggimento o a un corteo: è un atto di patriottismo, doveroso in ogni buon italiano. Salutate i cortei funebri, i carri-lettiga che trasportano malati o feriti; è un omaggio all'infelicità e alla sventura. Non entrate mai in una casa, anche di persone di gran confidenza, col cappello in capo; ma levatevelo sulla porta d'ingresso, e non rimettetevelo che sul pianerottolo delle scale. Quanto alla precedenza del saluto, di regola l'inferiore deve salutare per il primo il suo superiore; ma il superiore preverrà il saluto dell'inferiore, se questo è accompagnato da una signora. Un uomo deve sempre salutare per il primo una signora, anche se inferiore a lui di condizione. In omaggio a quelle norme di civiltà che debbono osservarsi anche fra persone strettamente congiunte, noi stimiamo doveroso il saluto anche fra i componenti la stessa famiglia. È bello vedere un figlio salutare il padre o la madre con la stessa cortesia con la quale saluterebbe un superiore, o un fratello togliersi il cappello incontrando la propria sorella. Chi assiste a tali incontri, si fa subito un buon concetto di quel figlio o di quel fratello. In generale, il saluto, una volta fatto, non si ripete dopo breve tempo. Accade non di rado, su una passeggiata o per le vie d'una piccola città, d'incontrare di nuovo persone già salutate poco tempo prima: non è buona educazione ripetere il saluto. Se incontrate delle persone, e non siete sicuri se esse vi vedono o no, salutate lo stesso, senza avervi a male se il saluto non vi viene reso. Meglio un saluto perduto che il rischio di passare per ignoranti. In questo caso, incontrando di nuovo la stessa persona, rinnovate il vostro saluto. Se siete seduti in un giardino pubblico, salutate levandovi il cappello e facendo l'atto di alzarvi, se si tratta di uomini; se passano davanti a voi delle signore, salutatele alzandovi del tutto da sedere. Se vi trovate al caffè o al ristorante, e siete senza cappello, salutate con la testa. Oggi è di moda girare per la città senza cappello. L'uomo che è senza cappello, o che, per un caso qualunque, lo tiene in mano, saluterà inclinando la testa, su per giù come le signore. Se il saluto dovrà esser profondo e rispettoso, all' inclinazione della testa s'aggiungerà quella del busto, sempre però senza esagerazione. Avvezzate i vostri bambini a salutare tutte le volte che voi salutate. Le signore, come abbiamo detto, salutano con la testa. Come regola generale, esse non salutano mai per le prime, ma restituiscono il saluto, quando s'incontrano con uomini: potranno tuttavia, anzi dovranno salutare per le prime gli uomini di età, gli uomini illustri, coloro cui son legate da vincoli di obbedienza o di rispetto; ma questi, alla lor volta, faranno di tutto per prevenire il loro saluto. Incontrandosi con persone del loro sesso, osserveranno le stesse regole che abbiamo date per gli uomini.
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Piuttosto, virate rapidamente su un altro argomento, abbassando gradualmente il volume della voce fino a scomparire nel brusio generale. Se avete appena consumato la gaffe con il direttore, aggiungete una preghiera silenziosa al nume del lavoro.
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I guerrieri salutavano abbassando le armi, come si usa presentemente. Si tra i Greci che tra i Romani la pulitezza voleva che si salutassero le persone chiamandole col loro nome e soprannome, a fine di provare che conservavasi memoria de'nomi perchè si stimava ed era cara la persona. Plauto parla di popoli che si salutavano tirandosi l'orecchio. I guerrieri presso gli antichi Caledonii esternavano la loro amicizia e riconciliazione, gettando a piedi, l'uno dell'altro le loro lance. Gli inferiori ed oppressi che andavano a chiedere soccorso ai generosi e potenti, tenevano in una mano uno scudo coperto di sangue, nell'altra una lancia spezzata; quello in segno della morte de'loro amici, questa per emblema della loro miseria e disperazione. I Franchi si strappavano un capello e lo presentavano alla persona che volevano salutare. Col quale uso il salutatore voleva dire al salutato: Io sono a voi si ligio come se fossi vostro schiavo. In fatti l'uomo che allora diveniva schiavo, tagliava i suoi capelli e li presentava al suo padrone. Le donne della Costa d'oro, che portano nei loro capelli de'piccoli pettini a due denti, li tolgono colla sinistra, salutando quelli che vanno a visitarle. Al Giappone un amico, un conoscente vi saluta togliendosi dal piede una pantofola; e nell'Indostan viene a prendervi per la barba. A detta di Montaigne alcuni popoli si salutano voltandosi la schiena. I popoli d'Arrakan giungono le mani al di sopra della testa e curvano il corpo. Gli abitanti delle Filippine piegano il corpo molto basso ponendosi una od amendue le mani sulle guance, ed alzano nel tempo stesso un piede col ginocchio piegato. Gl'isolani della Nuova Guinea si contentano di porsi delle foglie d'albero sul capo, riguardate da essi come simboli d'amicizia e di pace. In una delle grandi Cicladi la pulitezza vuole che gettiate dell'acqua sui capelli di chi salutate. La maggior parte degl'isolani del Grande Oceano e gli abitanti di molte contrade boreali del globo si salutano fregando il proprio coll'altrui naso. Nell'isola Tonga il naso del salutante è applicato alla fronte del salutato. Quest'uso si estende dalle isole di Sandwick sino alla Nuova Zelanda. Gli Ayenis soffiano nell'orecchio alla persona salutata, fregando dolcemente il loro stomaco colla di lei mano. Gli abitanti dell'isola di S. Lorenzo (nel grande Oceano) volendo dar prova di grande affezione a qualcuno, si sputano villanamente nelle mani, e ancora più villanamente fregano con esse il di lui volto. Gl' isolani di Socotora si salutano baciandosi le spalle, e quelli d'Horne coricandosi col ventre a terra. Gli abitanti di Lamnrec, presso le lsole Filippine, e quelli de' Palaos prendono la mano o il piede di quello che vogliono onorare, e se lo fregano dolcemente sul loro volto. La maggior parte de'Negri si prendono a vicenda il pollice o tutte le dita, e le fanno scricchiolare. * Al Monomotapa quando il re starnuta devi starnutare tu pure, e chi t'ascolta imitarti, quindi lo starnuto passando dalla corte alla città, dalla città alla provincia, tutto il regno sembra affetto da reuma generale. * Alla China gli uomini tenendo le due mani unite sul petto, le movono in modo grazioso, ed abbassano un poco la testa, dicendo Isin, Isin. Abbordando una persona rispettabile, alzano le due mani giunte, quindi si abbassano sino al suolo. Se due persone dopo una lunga separazione vengono ad incontrarsi, s'inginocchiano amendue, abbassano la testa sino a terra, e ripetono due o tre volte la stessa cerimonia. Chi facesse la riverenza all'europea, riceverebbe cinquanta colpi di bambou per ordine paterno del benignissimo mandarino del suo quartiere. L'abitante della Nuova Orleans, allorchè presentasi al capo della sua nazione, lo saluta con un urlo: passa quindi nel fondo della regia capanna senza guardare nè a destra nè a sinistra, e là rinnova il saluto alzando le braccia sulla testa ed urlando tre volte. Il re lo invita a sedere con un piccolo sospiro; il suddito lo ringrazia con un nuovo urlo; a ciascuna dimanda del re il suddito urla pria di rispondere, e rinnova la stessa gentilezza allorché parte. Nelle Indie si misura il rispetto dalla distanza a cui si ritira il salutante dal salutato: allorché passa un Bramine (specie di sacerdote o di monaco) grida o fa gridare da lungi ad alcuno di casta impura di ritirarsi alla distanza che basta: questa distanza è fissata, ed é più o meno grande in proporzione della bassezza della, casta. Un Cego o Tier, per es., dee rimanersi a quella di 64 passi; e le caste più basse, come i calzolai, i Paria' i Pulià , a quella di 128. L'Europeo volendo cogli atti dar argomento di rispetto e di venerazione, si nuda il capo; l'Orientale se lo copre; quegli nella massima effusione del sentimento curva soltanto il capo e il dorso; questi volendo anch'egli esprimere la sua riverenza, nasconde il capo e prostrasi faccia a terra. L'lnglese in un accesso d'urbanità o d'amicizia vi afferra pel braccio, ve lo scuote vigorosamente come se volesse strapparvi la spalla, il tutto freddamente, senza che il volto dica nulla, e quasi che tutta l'anima fosse passata nel braccio che vi viene scosso a più e forti riprese. Questa gentilezza facchinesca fa le veci degli abbracci de'Francesi e degl'Italiani.
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Si sfiora la mano abbassando il capo. Consigliabile esercitarsi con amici compiacenti.
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Essi o chiedono un favore con insistenza dicendo che voi solo potete farglielo, e nel tempo stesso vi fanno comprendere che è una cosa da nulla, abbassando il valore della cosa richiesta; o vogliono sapere gli affari vostri e qual libro leggiate e chi avete veduto in quel giorno, o quanto avete speso pel vostro abito o per le derrate; essi vi troncano la parola in bocca, vi contraddicono, rettificano il vostro racconto, vi vogliono parlare in segreto, si vantano, hanno veduto tutto essi, sanno tutti essi i segreti, gli affari, i dolori, i piaceri del prossimo dall'a alla zeta; vi dicono dove e da chi si son recati in quel giorno e le cose più riservate di cui hanno parlato. Se avete fatto fare il vostro ritratto, ve ne domandano una copia, se avete scritto un libro ne vogliono un esemplare, se ne hanno (per disgrazia) fatto uno essi, vi chiedono una recensione, il vostro parere, il che vuol dire un elogio, una gonfiatura, un'apoteosi: e questo è ancora il minor male; spesso vogliono infliggervi lo spasimo d'una lettura, durante la quale vi sentite morire di noia e di rabbia compressa. Se sono specialisti, non sanno parlare e dire che di quella tal cosa di cui si occupano, e se pel Conte Zio tutte le strade conducevano a Madrid, e per il mondo tutte le strade conducono a Roma, per essi tutto serve per arrivare alla loro specialità prediletta. Se parlate un po' forte, un po' animato, vi dicono: «per carità calmatevi, ciò vi può far del male»; se un balbuziente è costretto a parlare con essi o un timido o un novizio, lo spronano con degli avanti! bene! e poi! e lo confondono fino alle lagrime; se avete un abito nuovo, ve lo criticano e vi dicono costa troppo, o troppo poco, o il taglio va male, ed è lungo, è corto, voleva così e così; se avete un piacere noto a tutti, di cui tutti parlano e si rallegrano e vi fanno felicitazioni, essi tacciono, dissimulano, portano via il discorso, fanno gli scordati, i noncuranti, gli indifferenti; e se avete un affanno, prendono gusto a ricordarlo a tutti e a voi stessi, compassionando, incoraggiando, mostrando un'aria di pietà e di protezione che vi offende: parlano del vostro nemico con ammirazione, del vostro amico con dispregio, di voi abbassandovi, di sè gloriandosi, del mondo come se essi soli avessero il diritto di starci, delle persone di casa loro come se facessero testo; e in presenza di altri si raccontano tra di loro dei fatti intimi di un tale che conoscono essi soli e che evidentemente si erano raccontati le mille volte, e che non dovevano ad ogni modo venirsi a raccontare in casa vostra. Se li fate entrare durante il pranzo, tanto per non farli impermalire, toccano la vostra tovaglia, il pane, le vivande; e pare proprio scelgano quell'ora per farvi visita, senza pensare che taluni sono ghiotti, taluni parchi, taluni prodighi, taluni avari e che non vogliono far sapere i loro gusti ad alcuno. Talvolta questi messeri appartengono alla specie pericolosa dei gloriosi; che battono nella tasca, mostrano il portamonete, si vantano dei loro possedimenti, dei loro avi, dei loro parenti ed affini, della confidenza che godono con grandi personaggi, del potere che esercitano sui dicasteri, e vi ripetono le spiritosità che hanno detto nella tale e tal'altra occasione, esigendo da voi l'applauso, il riso, il rallegramento. Talvolta ancora vi domandano un prestito, un piacere, un libro, la macchina da cucire, il vostro abito per cavarne il modello, il vostro merletto per cavarne il disegno; e infine vi molestano con quella specie di ricatto, che è il forzar la mano alla vostra cortesia, profittando della loro sfacciataggine contro la vostra buona educazione. Se il servo sbaglia, non la finiscono più di garrire in presenza dell'ospite; se voi senza volere avete fatto cosa che a loro spiaccia, non cessano di ritornare sul punto; se si sono dimenticati un nome o una data, stanno lì a cercarla, troncando la conversazione con degli aiutatemi a dirlo, con interminabili esclamazioni e insistenze, stringendo gli occhi e picchiandosi la fronte. Se voi conoscete un personaggio, vogliono essere presentati; se partite per un viaggio, vi caricano di commissioni e perfino vi dànno delle lettere da recapitare. In questo caso non si può biasimare un uomo di spirito, il quale offrì a uno di questi signori tre soldi per comperarsi il francobollo. Vi presentano talvolta un loro amico senza chiedervene licenza; e a farlo apposta ve lo presentano in quella stessa sera che avete un nucleo di invitati; e subito mettono bocca nei discorsi, stonatamente, senza misura e senza freno. Qualche volta si spingono ad atti anche più incivili; si ripuliranno i denti o le unghie; o si strofineranno le orecchie o si asciugheranno il sudore col fazzoletto in vostra presenza; si stenderanno nella vostra poltrona brancicando la spalliera o i bracciali; gireranno le loro dita l'uno intorno all'altro: faranno uno sbadiglio cavernoso... che fa sbadigliare solo a pensarci; o parleranno sempre, sempre, sempre, di cose insignificanti o per voi o per essi, ripetendosi e intercalando lunghe parentesi inutili; poi fischieranno tra i denti o canterelleranno cose da far ammalare d'itterizia un frate gaudente. Guai a voi se per disgrazia appartengono a qualche associazione benefica e pia! Non finiranno mai di spingervi sulla via della virtù e della carità; e all'epoca dei concerti e delle fiere di beneficenza, vi seppelliranno sotto una valanga di biglietti, di inviti, di partecipazioni, per cui ci vuole un coraggio da eroe a sottrarsi. Nel medio evo usava il trombone: uno si metteva dietro la siepe e diceva: o la borsa o la vita. Ma c'era un modo di schermirsi: se uno non si esponeva in strade fuor di mano o in luoghi solitarii, poteva entrare in casa ancora tutto intiero. Ora succede il contrario, e specialmente le signore si rendono colpevoli di tali e tante aggressioni a mano non armata, che si possono iscrivere nei registri dei ricattatori in guanti bianchi. È vero che hanno l'attenuante della carità, ma la carità si può praticare tanto diversamente, che sarebbe una cosa molto lodevole di darne delle lezioni in iscuola. Ciò sarebbe più utile di molte altre scienze. Il modo di praticare la carità sarebbe uno studio complessivo dei costumi e dei sentimenti: esso renderebbe più soave il cuore e più illuminato l'intelletto: esso servirebbe altresì a moderare impeti che sembrano generosi e in gran parte anche lo sono, ma hanno anche una certa dose di vanità e di egoismo, che lungi dal movere la gratitudine nei cuori dei beneficati, rendono più acre l'asprezza, più cocente l'invidia. Tutte queste cose ed altre consimili costituiscono il segreto di rendersi insopportabili alle persone per bene: sarà quindi necessario di fare uno scrupoloso esame di coscienza per evitare a noi la colpa e il rossore di averle commesse, agli altri il dispiacere di doverci tollerare o il disgusto di dover chiudere la porta davanti a coloro, che non sanno nè comprendere il loro ambiente morale, nè stare attenti a conformare le loro azioni ai dettami della civiltà e della buona educazione.
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. - Che cosa direste - riprende la signora d'Aufran abbassando il tono - se vi portassi una sorellina? - Una sorellina! - I tre fanciulli hanno fatto questa esclamazione ad una voce e con lo stesso tono deluso. - Sì, so che non vi piacciono le bambine, ma questa è così carina! - Uhm!... - fa Maurizio. Francesco è atterrito. Alano pure. - Sì, - continua la giovane signora - ho adottato una bambina. - Anche tu! - grida Francesco. La mamma sembra maravigliata. - Come anch' io? Ne hai forse adottata una anche tu? - No, - borbotta Francesco. - Ho detto così per dire.... - Una povera bambina infelice, senza genitori. Ho pensato che vi assocereste alla mia opera buona essendo buoni e gentili con lei. - I tre fanciulli si guardano con un'espressione imbronciata e afflitta. Come sono statì stupidi a non scrivere subito alla mamma la storia di Nicoletta!... Perchè, certamente, non possono adottarne due, ed è quella della mamma che resterà.... E la povera Nicoletta dove andrà? A meno che non provino a non accettare questa qui. E Francesco comincia: - Una bambina.... - Noi non vogliamo bambine, - dichiara Maurizio con energia. - Non quella.... - Perchè non quella? Ne vuoi un'altra? - No, - dice Maurizio - bambine, no. - Ma questa è tanto infelice! Vorreste rimandarla via? - È qui?... - domanda Alano. - Si annoierà con noi, - dice Francesco con un po' d' ipocrisia. - Una bambina con tre ragazzi, capirai, mamma.... - Se fossero due, - comincia Maurizio, il quale pensa che dopo tutto, quanto ad adottare bambini, tutto sta nel cominciare. Perchè non prenderebbero anche Nicoletta, insieme con « quella della mamma »?... - Ah, no! - protesta la mamma. - Io ne voglio soltanto una. Se voi non ne volete nessuna, oppure due, non potremo intenderci. Allora nessuna? Devo rimandar via questa poverina? - I tre fanciulli sono molto imbarazzati. E la mamma chiamava quella una bella sorpresa?! - Ebbene, - dice la signora d'Aufran - andate ad aprire quella porta, e dite voi stessi a quella povera bambina di andarsene. - Poverina! - esclama Francesco. Dopo tutto, se i ragazzì accettano quella fanciulla adottata dalla loro mamma, perchè la mamma alla sua volta non accetterebbe la loro? E tossicchiando per rischiarare la voce, egli prende la parola: - Ebbene, mamma, prendila, ma a una condizione.... - No, no, no! - protesta la mamma mettendosi le mani agli orecchi. - Niente condizioni! E con grande stupore dei ragazzi chiama: - Matù! - Prima che i fanciulli abbiano capito, la porta si apre e.... la loro figlia Nicoletta, fresca e ben vestita, entra. Non vi sono parole che possano descrivere questa scena. Grida, risate, baci, Maurizio che balla vertiginosamente, spiegazioni confuse e sconnesse.... Ma alla fine s' intendono, e i tre babbi, lieti di ritornare fratelli, sono ancora più felici che la mamma abbia accolto così bene Nicoletta. - Sì, - dice la mamma un po' severa - non voglio sciuparvi questa bella giornata sgridandovi, e rattristare Nicoletta, ma sono però molto afflitta di tutte queste menzogne. - L' intenzione era buona, però, - obietta Alano. - Non erano bugie cattive, - aggiunge Maurizio. - Una bugia è sempre cattiva, - riprende la mamma. - Perchè non mi avete scritto? - Francesco riprende la parola: - Avevamo paura di farti interrompere la cura, mamma; ed eri così sofferente, quando partisti! - Infine, - dice la mamma - per oggi non ne parliamo più: è giorno di gioia. - Ma ecco che arriva Maria, la quale non riesce a capire la storia se non dopo molto e molte spiegazioni. La sua
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Riaccendono il fornello, e ricominciano abbassando la fiamma. Questa volta non vuol più bollire, e quando infìne si decide, non va affatto meglio. Il semolino è tutto un grumo. Credi che sarà buono? - domanda Maurizio. Alano non è ben sicuro, Francesco alza le spalle per far capire che non lo sa. Non c' è che Nicoletta che è già sicura del resultato. - Sarà molto buono, - decide essa. Povera Nicoletta! Quando, alla fine, la minestra è cotta, bisogna che la mangi; ma allora sembra che cambi parere. Comincia col bruciarsi un poco. - È buona? - domanda una voce ansiosa. E Nicoletta risponde, con voce lamentosa: - Sì.... ma credo che non abbiate messo il sale. - Il campo dei cucinieri è costernato. Hanno dimenticato perfino di portarlo, il sale. Maurizio propone di andare a prenderlo. Ma prima propone a Nicoletta di portare dello zucchero al posto del sale. - Sarà più buona, - egli dice. Ma ad ogni modo non potrebbe esser più cattiva. Nicoletta è stoica: mangia la sua minestra. La mattina ha preso una limonata purgativa e un decotto d'erbe, e quella minestra completa la giornata. Quando ha finito, Alano getta un grido: hanno
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Francesco indica soltanto una porta, e abbassando la voce: - È quella della biblioteca, - dice. E vanno a visitare la camera dei bambini e la stanza da studio. Francesco è tutto contento di far vedere a « sua figlia» i libri, i balocchi, il posto dove lavorano. Poi vanno nella camera della mamma. Francesco mostra dove la mamma scrive, dove lavora. Indica la poltrona vicino alla quale vi è una sedia bassa. Là, i ragazzi vanno a raccontare le loro pene, a chiedere dei favori o a farsi sgridare. - E vi sgrida? - domanda Nicoletta. - Qualche volta; - risponde Francesco ridendo - ma la povera mammina è così dispiacente, e vediamo che soffre tanto quando noi siamo cattivi, che cerchiamo di esser buoni. Ora conosci la casa, - continua Francesco. - Vieni, andiamo a giocare. Che peccato non poterti far vedere il giardino! Sarebbe stato divertente correre un po'. Ma Leonia ci vedrebbe. - Tranquilli, sicuri della loro solitudine, i due fanciulli si preparano a risalire nella soffitta. - Potremmo divertirci nella stanza da studio, ma è seccante stare con la paura che qualcuno entri, - dichiara Francesco, e Nicoletta è del suo parere. Il pericolo viene qualche volta quando non ci si aspetta. Ecco che nel momento in cui i fanciulli passano senza timore davanti alla biblioteca, la porta s'apre pian pianino e lo zio Fil appare. Vi è un attimo di silenzio. I fanciulli sono serrati contro il muro, come se sperassero di scomparire nella tappezzeria. Francesco, sentendo tremare la mano di Nicoletta, la stringe forte per farle capire che è pronto a difenderla. Lo zio Fil ha gli occhiali sulla fronte. Ha l'aria distratta che gli è abituale, ma questa volta mista a una certa inquietudine. - Francesco, - comincia egli. Poi vede Nicoletta. - Chi è? - domanda macchinalmente. - È.... è Nicoletta, zio, - risponde coraggiosamente Francesco. E ciò pare che basti allo zio Fil, il quale dice: - Ah, bene, bene! - Poi torna all'argomento che lo preoccupa. - Francesco, Maria deve aver toccato una carta molto importante che non posso ritrovare.... Dov' è essa? - È andata al bosco delle Fate, zio.... - Al bosco delle Fate? - mormora lo zio Fil. - Male, male! - Evidentemente non pensa ad una passeggiata coi bambini, ma s' immagina che Maria sia andata sola sola a passeggiare nel bosco delle Fate. - Benissimo; ma ciò è seccante. Venite ad aiutarmi a cercare negli angoli, - dice ai fanciulli. E Nicoletta e Francesco entrano nella biblioteca. L'emozione di poco fa ha dato posto a un riso convulso, benchè Francesco non sia ancora molto rassicurato. Se lo zio Fil domanda spiegazionì a Maria, che cosa succederà? - Non sulla tavola, non sulla tavola, - urla lo zio Fil, vedendo Francesco avvicinarsi alla scrivania. - Cerca in terra, negli angoli, dappertutto, ma non lì. È un grande foglio giallo coperto di appunti. - E i fanciulli cercano. Ci sono dei fogli su tutti i mobili e anche sotto; ma non quello che cerca lo zio Fil. A un tratto la vocina timida di Nicoletta si fa sentire. Essa indica un angolo di carta gialla che si scorge sotto la carta asciugante dello zio Fil. - È forse quello? - dice essa, senza osare di toccare. Lo zio Fil manda un'esclamazione di gioia. - È questo, sì, - dice tirando fuori il foglio. - Alla buon'ora! - E senz'altri ringraziamenti, senza più pensare ai due fanciulli, si sprofonda nella lettura del foglio giallo : più nulla esiste per lui. Francesco e Nicoletta risalgono nella soffitta, molto scossi da quest' avventura. - Forse lo zio dimenticherà di parlarne, - dice Francesco, non molto convinto. - È tanto distratto! A volte non si ricorda più le cose importanti e parla di un particolare insignificante che tutti hanno dimenticato. - L' incontro dello zio Fil assorbe i pensieri dei fanciulli, che non cessano di parlarne. A un tratto, Francesco, stupefatto, sente la voce dei suoi fratelli al pianterreno. Scende a precipizio, prima che Nicoletta, sorpresa, abbia avuto il tempo di raccapezzarsi, ed esce dalla stanza da studio zoppicando un po', per andare incontro ad essi. Maria è molto inquieta sulla sua sorte e perciò sono ritornati più presto. Francesco dice che sta meglio e che Leonia l' ha quasi guarito con l'acqua fredda.... è sicuro che domani non avrà più nulla. Maria è un po' dispiacente perchè il dottore non è venuto. - È sempre meglio, - afferma. Essa s' intenderà fra poco con Leonia che, certamente, le riderà sul naso. I due fratelli cominciano a raccontare a Francesco come hanno passato la giornata. È stata una giornata magnifica. Hanno giocato a nascondino, hanno inventato aggressioni ai viaggiatori, hanno trovato un albero dove potranno giocare al Robinson. Hanno fatto colazione sul margine
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gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"
"È giusto" disse Giovanna, abbassando la mano. Quindi rivolta al maggiordomo Battista: "Digli che ci conducano dal loro capo..." Il maggiordomo Battista si rivolse all'indiano che gli stava più vicino e gli disse una lunga frase in dialetto caraibo. Il selvaggio esitò un istante poi rispose qualche cosa. "Cosa ha detto?" domandò Giovanna. "Ha detto che ci condurrà dal suo capo. Può darsi che sia una persona gentile..." "Speriamo che ci inviti a pranzo!" esclamò Nicolino. "Quando ho paura mi viene appetito..." "Infatti," disse Battista "ha detto questo qui che aspettano solo noi per mangiare..." Nel bel mezzo del villaggio dei caraibi, Giovanna, Nicolino, Jolanda e il maggiordomo Battista, legati strettamente a quattro pali sormontati da mostruosi totem, guardavano gli indigeni che danzavano intorno ad essi la cosiddetta "danza della morte". A un certo punto due donne indiane che portavano una enorme marmitta attraversarono il cerchio dei danzatori e andarono a collocarla sopra un gran fuoco che ardeva a poca distanza dai quattro prigionieri, cominciando a riempirla d'acqua che attingevano da una sorgente che scaturiva lì accanto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno" commentò Nicolino, cercando di essere ottimista ad ogni costo. "Sono gentili..." "Non sono gentili," rispose il maggiordomo Battista, amaramente, "sono semplicemente cannibali..." "Sì, mio povero Nicolino," gli spiegò Jolanda "quella marmitta serve per far cuocere il primo di noi che verrà mangiato..." "Oh, mio Dio, quanto mi dispiace!" esclamò ipocritamente Nicolino. "Povera contessa Giovanna!" "Perché pensate che comincino proprio da me, imbecille?" esclamò Giovanna, in tono irritato. "Perché bisogna dar sempre la precedenza alle signore anziane..." "La mia carne è vecchia e coriacea" disse Giovanna. "Forse questi indiani conoscono qualche polverina che ringiovanisce le carni" disse Nicolino. "In Italia la usano... Oh, mamma mia!" Questa ultima esclamazione di Nicolino era stata causata dal fatto che due indiani si erano messi a girare intorno al suo palo, indicandoselo l'uno con l'altro e scambiandosi misteriose parole nel loro dialetto. "Ci preparano l'acqua calda per il bagno..." 4. Giovanna "Questi" disse Nicolino, allarmatissimo "ce l'hanno con me..." "Proprio così" confermò il maggiordomo Battista. "Pe... perché?" balbettò Nicolino, impallidendo. "Che cosa hanno detto?" "'Cominciamo con questo viso pallido" disse il maggiordomo. "Conoscete anche la loro lingua?" esclamò Jolanda, ammirata. "Un perfetto cameriere deve conoscere tutte le lingue" rispose il maggiordomo. "E perché vogliono incominciare proprio con me?" piagnucolò Nicolino. "Lo hanno detto loro che sono pallido... La carne bianca non è buona per il lesso..." Quindi, indicando con un cenno della testa il maggiordomo ai due selvaggi: "Cominciate con lui, che è bello colorito" disse. "Lui sta bene... Guardate che bella faccia di salute che tiene..." E, cantilenando come un venditore napoletano che, è risaputo, mette anche le sue grida in musica, gridò: "È bianco! È rosso! Quant'è buono! Jammo, magnate, magnate!" "È inutile" disse Jolanda. "Non conoscono la vostra lingua..." "Ma Battista, che la conosce, glielo può spiegare..." "Bravo!" disse Battista. "Così mangiano prima me di te!" I due indiani si avvicinarono al palo di Nicolino e, senza parlare, cominciarono a scioglierlo dai suoi legami. Nicolino, terrorizzato, si mise a gridare: "Aiuto! Signora contessa, aiuto, mi vogliono mangiare! Mi vogliono fare lesso!" Come se fossero rimasti impressionati dalle grida che uscivano dalla gola del nostromo, gli indiani si guardarono, poi uno di essi gli disse qualche cosa nel suo dialetto. Nicolino si rivolse a Battista. "Che... Che cosa mi ha detto?" "Ti ha detto" tradusse Battista: "'Sta' tranquillo, viso pallido! I guerrieri della tribù dei Guana Guana non ti vogliono fare lesso!'..." Il povero nostromo respirò di sollievo. "Oh, meno male!" esclamò. "'Ti vogliono fare arrosto'..." concluse Battista. "Quella pila serve soltanto per sbollentarti e toglierti i peli..." "Ma io non voglio essere sbollentato e spelacchiato!" protestò Nicolino. "A me l'acqua bollente mi scotta!" Attratto dagli strilli di Nicolino che urlava come una scimmia rossa, un tipo di indiano dall'aspetto autorevole si avvicinò al gruppo composto da Nicolino e dai due indiani che stavano trascinando il malcapitato nostromo verso la pila. "Zitto, arrosto!" disse a Nicolino parlando in tono autoritario come persona abituata al comando. Quindi, rivolto ai due indiani: "Attizzate il fuoco!" "Ehi, buon uomo!" disse Giovanna, rivolgendogli la parola. L'indiano dall'aspetto autorevole, che era il Cacicco della tribù, si voltò verso Giovanna. "Cosa vuoi, vecchia pallida?" le domandò, parlando uno spagnolo abbastanza comprensibile. La faccenda di essere chiamata vecchia pallida da un selvaggio impermalì Giovanna che fu pronta a rispondergli: "Meglio essere pallida che con la faccia rossa e dipinta come la tua!" Quindi indicando il nostromo Nicolino con il mento: "Come avete intenzione di cucinare quell'uomo?" domandò. "Allo spiedo, vecchia pallida" rispose il Cacicco. Giovanna abbozzò una smorfia di disprezzo. "Peuh!" esclamò. "Che cucina primitiva! Io, se fossi in voi, lo cucinerei in tutt'altro modo..." "E in che modo?" domandò il Cacicco, incuriosito... "Ci sono mille maniere per cucinare il nostromo... Io, però, penso che la ricetta migliore sia quella chiamata: 'nostromo arrosto alla moda'." "E come faresti, vecchia pallida, a cucinarlo in questa maniera?" "È facilissimo" rispose Giovanna."Si prenda un nostromo e dopo averlo aperto e pulito come si deve, lo si disossi completamente..." "Ma io non voglio essere disossato completamente!" protestò Nicolino. "Le ossa servono! Altro che, se servono!" "Zitto, arrosto!" gli dette sulla voce il Cacicco. Quindi, rivolto a Giovanna: "Seguita pure, vecchia pallida..." "Dunque, dopo averlo disossato completamente farcitelo con un ripieno fatto delle sue stesse interiora e di prosciutto di porco selvatico tritati, pane grattato, cinque o sei grossi pizzichi di pepe, un grosso pugno di sale, tre o quattro pizzichi di noce moscata, due pugni di carne secca e un pugno di erbe aromatiche..." "Qui, fra pizzichi e pugni, mi riducono un 'ecce homo'!" esclamò Nicolino. "Aggiungete quindi sette od otto spicchi d'aglio..." "No, l'aglio no, non lo digerisco!" protestò Nicolino. "Zitto, arrosto!" gli impose il Cacicco. "Continua, signora pallida" disse in tono molto più gentile di prima a Giovanna. "Una volta che sia riempito per bene, lardellatelo con delle fettine di guanciale, e adagiatelo su un letto di cipolle e olio bollente... Fatelo cuocere a fuoco lento per tre ore, poi toglietelo dal fuoco e fatelo riposare per un'ora..." "Ma come volete che faccia a riposare su un letto di cipolle e olio bollente?" "Zitto, arrosto! E poi?" domandò il Cacicco, rivolto a Giovanna. "E poi non resta che circondarlo di patate arrosto che se non mi sbaglio sono un prodotto locale e servirlo in tavola. La dose è per venti persone... Vedrete che mangiarlo sarà proprio un piacere!" "Sarà un piacere per voi, ma non per me!" blaterò Nicolino. "Silenzio, arrosto!" "Questo qui che continua a chiamarmi arrosto, mi dà fastidio!" bofonchiò Nicolino di pessimo umore. Il Cacicco stette a pensare un momento leccandosi le labbra, poi sul suo viso apparve un'espressione di diffidenza. "I visi pallidi" disse "hanno la lingua biforcuta. Forse carne cucinata così diventa velenosa..." "Datemi un maiale selvatico ed io lo cucinerò come ho detto e lo mangerò" propose Giovanna. "In tal modo avrete la prova che il 'nostromo arrosto alla moda' non può far male." "E invece fa male, malissimo!" esclamò Nicolino, rivolto agli indiani. "Ricordatevi che non mi avete comprato al mercato, mi avete trovato nel bosco... Io non sono un nostromo mangereccio, sono un nostromo velenoso..." "Silenzio, arrosto!" "E dagli!" esclamò Nicolino. Il Cacicco senza più esitare si rivolse ai due selvaggi che erano accanto a lui. "Si faccia la prova con il maiale selvatico!" ordinò. I due si allontanarono, mentre Nicolino disperato esclamava: "Tutta colpa di quel dannato Trencabar! Ah, se avessi a portata di mano qualcuno di quei maledetti spagnoli che hanno affondato la Tonante!"
"No, la fuga" rispose il conte di Trencabar abbassando bruscamente la leva e facendo così cadere la saracinesca di ferro fra lui e gli altri. "No, la fuga" rispose il conte di Trencabar... Giovanna ruggì scagliandosi contro l'improvvisa barriera che si era frapposta fra lei e il suo nemico. "Traditore!" gridò. "Fellone! Mi ha giocato ancora una volta..." E rivolta al Viceré, a Battista e a Jolanda: "Voi aiutatemi a sollevare quest'accidente di saracinesca!" "Presto, seguitemi!" gridò il conte di Trencabar scendendo lo scalone a precipizio e rivolgendosi al capitano Squacqueras che era di guardia davanti alla porta dove l'aveva collocato poco prima il Viceré. "Giovanna la nonna del Corsaro Nero è nella mia camera!" "In questo caso" rispose il capitano "io vado nella mia!" "A che fare?" "A gettarmi un po'sul letto... Io sono come Francesco!... Dormo sempre alla vigilia di una battaglia per dar prova del mio sangue freddo..." E scappò di corsa verso il salone. "A me, soldati!" comandò il conte di Trencabar, rivolto alle guardie. Giovanna, aiutata dal maggiordomo, dal Viceré che ormai era passato completamente dalla sua parte e da Jolanda, si stava spezzando le unghie nel tentativo di sollevare la saracinesca. Ad un tratto esclamò con accento di trionfo: "Si solleva, si solleva!" La cortina di ferro, effettivamente, si stava sollevando, ma da sola, per rientrare nel soffitto. Alzandosi, però, scoprì una lunga fila di guardie schierate con gli archibugi puntati su Giovanna e i suoi. "Arrendetevi!" gridò Trencabar che stava dietro i soldati. Giovanna, che per sollevare la cortina di ferro aveva posato ín terra la spada, allargò le braccia. "Purtroppo," disse "non posso far resistenza..." "Impadronitevi di costoro, conduceteli fuori e fucilateli contro il muro di cinta" comandò Trencabar, rivolto al sergente Manuel. "Non vi sembra di esagerare?" domandò il Viceré, mentre i soldati circondavano i tre. "Bisogna dare un esempio!" rispose Trencabar. "Ve lo darò anch'io un esempio" disse freddamente Giovanna. "Vi farò vedere come sanno morire dei Ventimiglia..." E uscì dalla camera a testa alta, circondata dai soldati e seguita da Jolanda e dal maggiordomo. Il Viceré la seguì con lo sguardo, quindi scosse la testa. "Avrei preferito vedere come sa morire un Trencabar!" disse. "Andate, andate, conte, questa notte non avete fatto altro che darmi delle disillusioni!"
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. - Non lo farò più, mamma, - promise Nello un po' mortificato, abbassando gli occhi sul piatto. In quel momento la Letizia, che doveva portar il caffè e latte co' panini imburrati per la fine di tavola, entrò tutta turbata nella sala da pranzo, e domandò alla padrona: - Perdoni, signora contessa: li ha presi lei i tovaglioli per il caffè e latte? - Io, no, - rispose la signora. E soggiunse: - O che si sono smarriti? - Mah!... io non ci capisco nulla. Gli avevo messi nel cassetto di sotto della credenza, e non mi riesce più di trovarli. - O come va questa faccenda? Basta, porta il caffè e latte: i tovaglioli si cercheranno; intanto, prendine degli altri in guardaroba. - La donna portò il caffè e latte; ma scappò in fretta a cercare i tovaglioli che mancavano. Dove potevano essere andati? Lei avrebbe giurato che di lì non gli aveva mossi; e pure non c'erano! E non era entrato nessuno, nessuno! Proprio, era il diavolo che ci metteva la coda! E frugava, e rimescolava, e buttava tutto per aria: tempo perso! Quando la contessa Sernici e i suoi figliuoli si furon levati di tavola, la contessa andò a cercare la Letizia, e le chiese: - Be', gli hai poi ritrovati questi tovaglioli? - Signora mia, non me ne parli: io, proprio, mi ci sbattezzerei! - La signora conosceva la Letizia per incapace di commettere una cattiva azione; ma d' altra parte non voleva nè anco ch' ella fosse così sbadata da non sapere dove avesse messa la roba che le era stata data in consegna; così che fissò la donna severamente, e le disse: - Guarda bene di ritrovare que' tovaglioli, perchè mi dispiacerebbe assai d'aver affidata sinora la casa a una mosca senza capo.... Tu sai se te ne voglio, del bene; ma intendo che al mio servizio ci sia della gente che sappia dove ha la testa. - All'udire quelle parole della sua buona padrona, la Letizia non potè più tenersi, e diede in un dirotto pianto. La contessa stette a guardarla un momento; e vedendola così afflitta e smarrita, non ebbe cuore di rattristarla di più. - Via.... - disse - che c' è da piangere? Una volta si può sbagliar tutti. Animo, su: cerchiamo insieme. Ma sei poi certa di aver riposti que' tovaglioli nella credenza? - Sì signora;... - rispose la donna ancor singhiozzando. In quel momento s' udì Nella gridare dall' altra stanza: - Mamma! mamma! vieni a vedere! - La signora, non sapendo di che si trattasse, accorse subito; e trovò Rita e Nello che accoccolati davanti a un cantuccio della sala, tutto nascosto da una tenda pesante di velluto paonazzo, si tenevano i fianchi dal ridere. - Che c' è? - domandò la signora. - Guarda, guarda, mammina! - La contessa si curvò, e vide la Caciotta tutta affaccendata a tirar dentro con le zampine e co' denti qualcosa di bianco che strascicava per terra.... Guardò bene: era un de' famosi tovaglioli.... Alzò la tenda: c' eran lì dietro, tutti! - Ah, brutta ladra! - esclamò la contessa fra stizzita e ridente. - E io che me l' ero presa con quella poverina!... Letizia! Letizia! - Comandi! - gridò Letizia arrivando lei pure.
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La stretta nave filava sulle onde allungate, propizie, abbassando e rialzando di poco la prua, terminante a chiocciola come la punta di una pantofola. I nove marinai, lanciandosi ogni tanto brevi richiami con voci acute, fischianti, regolavano le vele per raccogliere al massimo il vento compatto da Settentrione. Gentile, che durante le giornate burrascose era rimasto quasi continuamente sdraiato sulla cuccetta rigida, tormentato da malesseri d'anima e di corpo, alternando sonni agitati a veglie torpide, al calmarsi del mare sali sul ponte, e trovato un luogo appartato a prua, senza conversare con i marinai affaccendati, rimase per ore a guardare l'orizzonte: svarianti danze di gabbiani, affollate fughe di pesci appena sotto la superficie, ai lati della chiglia tagliente. A destra, netta e lontana, la sagoma di Sciro sembrò stare immobile a lungo: poi, quasi d'un tratto, apparve indietro, come una gigantesca balena all'improvviso fuggita nel mare. Riportando avanti lo sguardo, appena a destra della linea di prua, a tre o quattrocento metri dalla nave, Gentile notò qualcosa di bruno e irregolare, e si alzò incuriosito, coprendosi la fronte con la mano. Una zattera di lato beccheggiava sulle onde. Un palo alto poco piú di una persona, spoglio, stava al centro. Se mai aveva portato una vela, era del tutto scomparsa. La zattera sembrava vuota: ma presto, nei momenti in cui l'onda la inclinava a favore della nave, qualcosa di chiaro si poté scorgere: un misterioso groviglio. Gentile si voltò verso i marinai, per richiamare l'attenzione: ma il turco dalla pelle buia che stava alla barra già spingeva per piegare la rotta verso il relitto. Il capitano e gli altri si riunirono a prua, a mano dritta, mentre la vela, piú chiusa al vento, si afflosciava, facendo rallentare la nave. La zattera, quasi immobile sul mare, si avvicinava: alghe verdastre e nere le orlavano il bordo, smangiato dal sale: ma il corpo di tronchi era saldo. Spinta da vento e correnti, chissà da quanto vagava, inanimata, per le aperte acque dell'Egeo. Quando fu ancora piú vicina, da bordo videro cos'era quel bianco: due scheletri, uno grande e l'altro minuto, intricati, legati ai tronchi da robuste corde di pelle, che resistendo ad ogni strattone del mare non avevano ceduto, stringendosi anzi e tirandosi, saldando quel groviglio di ossa al legno muschioso. I due scheletri erano abbracciati, con le bocce bianche dei crani appoggiate uno alle spalle dell'altro, in figura di strana e spaventosa tenerezza. — Sono pescatori? — chiese Gentile a Mutak Amat, il capitano. — Uno doveva essere molto giovane... Un ragazzo. Forse padre e figlio... La zattera, quasi ormai a contatto con la nave, sfilava dondolando e ruotando lentamente lungo la fiancata. Nessuno, da bordo, allungò pali o lanciò funi per trattenerla. — Pescatori, forse, — disse il turco, salutando gli scheletri con un bacio veloce. — Ma di solito i pescatori annegano sulle loro barche... Potrebbero essere naufragati su un'isola e aver costruito la zattera per tentare il ritorno... Certo, quel legno è in mare da piú di due anni. Rallentando e sbandando vistosamente sulla scia della nave la zattera restò indietro, e diede l'impressione di dirigersi, senza fretta, verso la sfumata Sciro. — Ma lo scheletro piccolo ha ossa troppo sottili, - disse Mutak Amat dopo un silenzio. — Scommetterei la mia nave contro una conchiglia che quello è uno scheletro di donna... Gentile si senti chiudere la gola, come se una mano violenta gliela stringesse. — Sposi? — disse piano. — Sposi naufragati? Il capitano indugiò. — Forse, — disse, e lanciò un corto comando al timoniere, che spinse la barra per catturare il vento. Subito la vela si gonfiò, e la nave, leggermente scricchiolando, si inchinò alla spinta e accelerò. — O forse amanti... — disse Mutak Amat. — Certe tribù dell'Egitto, o della lontana terra dei Berberi, usano legare gli amanti illegittimi su una zattera, e affidarli alla crudele pietà del mare... Gentile rispose allo sguardo del turco senza una parola. Poi tornò a guardare a Nord. Ormai la zattera non si distingueva piú. Talvolta sembrava al pittore di vederne uno spigolo, breve forma scura sul profilo di un'onda. Ma altre macchie, simili a quella, apparivano in altre parti, e subito scomparivano nel misterioso orizzonte.
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Giacché se all'uomo comune basta a volte un lungo sguardo per farsi invadere l'anima da una donna, a un pittore come Filippo assai meno occorreva: e fu lei a respingere il getto d'estasi meravigliata di lui, abbassando faccia e capo come avevano le ritrose sorelle. Fu un breve scroscio, ma un attimo assai lungo. Fra Diamante sotto il cappuccio; Filippo a guardare, sopra due simili, una testa velata di nero, che conservava nella posizione china un tremolio di fuggitiva, l'ostinazione allertata di chi si nasconde. Poi l'acqua d'improvviso calò. Prima fra tutte la monaca piú alta allungò il piede e si avviò fra le pozzanghere, mentre le altre due, sorprese da quella solerzia che loro toccava, dopo un'incertezza la seguirono, sollevando con le mani solo di mezza spanna i lembi della tonaca. Filippo lasciò passare un momento, poi uscì allo scoperto e prese la strada dietro a quelle. — Fratello mio, — disse Diamante, arrivando con passo affannato a toccargli il braccio. — Buon Filippo, non era dall'altra parte che stavamo andando? — Prima sì, — disse il pittore. — Ma ora, dovunque sia, si va da questa parte.
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. — Solo quelli necessari, del resto, — disse Filippo, abbassando il capo con esemplare, remissiva discrezione. — Assegnerò il compito ad una monaca semplice e paziente, frate Filippo: non ti sarà di nessun disturbo. — Di questo son sicuro, e ti ringrazio. — Infine, caro pittore, cosa di pochissimo conto, a suor Marta non sarà concesso vedere, né prima né poi, il ritratto che farai, giacché la regola della modestia, nel nostro ordine, è assoluta. — Capisco perfettamente, madre Pia, — disse il pittore, sollevando lo sguardo con quasi allegra simpatia. — E sono preso da profonda ammirazione, da profondo rispetto per questa vostra disciplina, così forte da saper togliere a donne l'eterno desiderio, nato nell'Eden, di guardarsi... Ma dovrà pur accadere che, quando il volto della Madonna sarà fatto, suor Marta lo veda... — Naturalmente, frate Filippo, — disse la badessa, dolcemente. — Ma sarà appunto il volto di Maria. Se è tolta a suor Marta la vanità della propria bellezza, concessa le sia la gioia di farne dono alla Madre di Cristo! — Amen, amen! — disse Filippo, in convenevole tono.
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Quando suor Caterina tornò, svegliando al passaggio il finto sopito con uno stropiccio di gola, ed entrò abbassando la testa per non vedere nemmeno di sfuggita il ritratto, e posò l'ampollina d'olio sul tavolo di Filippo, Lucrezia sedeva al suo posto, quietamente. E allora rientrò il pittore dal chiostro, con un petalo di rosa fra le dita macchiate di vernice bruna. Guardò Lucrezia, vide uno sguardo di pianto felice. Guardò il dipinto, e notò sullo specchio, nella parte vuota del volto, l'impronta fresca e ancora vaporante di un bacio. Un bacio a sé, al ritratto incantato, a lui stesso? Non importava: era dato.
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— E piuttosto bravo, direi, — disse il pittore, abbassando la testa. Madurer rideva. Inquietamente si voltò verso l'amico. — Tu hai la faccia stanca, Sakumat, — disse poi, serio, — sei molto pallido, e anche un po' magro. — Sono davvero pallido e magro, Madurer? Bisogna che vada a guardarmi in uno specchio... Ma forse è meglio che non ci vada. Non mi vorrei spaventare. Lasciamo lo spavento nello specchio. — Si. La tua immagine è là che aspetta, per farti spavento: ma tu non ci vai! — esclamò il bambino. Poi aggiunse, calmo: — Forse ti stanchi perché non posso ancora aiutarti a dipingere. — Non lo credo, Madurer, — disse il pittore, — non è faticoso, lavorare con íl pennello. E la nave va cosí veloce, che fra poco basteranno tre colpi di colore... Madurer tornò con lo sguardo al mare sgombro, alla sua destra. Tacque qualche minuto, pensando e respirando lentamente. Poi chiuse gli occhi e, per qualche istante, si addormentò. Sakumat si passò le mani sulla faccia, in silenzio. La barba era ormai lunga, e numerosi fili bianchi vi segnavano le ondulate piste del tempo. Il bambino riapri gli occhi. — E se dall'altra parte del mondo, fra un orizzonte e l'altro, affondano il Tigrez? — disse accigliandosi, come se avesse fatto in quell'istante un sogno di sciagura. — Può capitare, Madurer, — disse Sakumat lentamente, scostando le mani dal volto, — il vecchio Krapulos è certo un gran capitano, la ciurma è sveglia e fidata, la nave è forte... Ma può capitare. Tu pensi che capiterà? — No. Ma ci proveranno! — disse Madurer quasi con ira. — Chi ci proverà? — Gli spagnoli. E poi anche i greci. — Tutti insieme? Ahi, povero Tigrez... — Non tutti insieme. Prima gli spagnoli, dalle parti della costa libica, e quasi un mese dopo, i greci. — Ma Krapulos, è greco anche lui! Come mai gli dànno la caccia? Sono altri pirati? — Non ricordi cosa diceva quel ragazzo nella storia di Zineb e i pirati, Sakumat? Diceva: «Tutti i pirati sono nemici di tutti». — No, diceva: «Per un pirata, tutto il mondo è pirata». — È piú o meno la stessa cosa, no? — Sí, infatti. E poi, cosa accadrà? — Dunque, gli spagnoli andranno a picco in un baleno, perché combattevano ubriachi di vino. — Sia lode ad Allah, e al suo profeta. E i greci? — Con i greci sarà piú dura. Il Tigrez sarà colpito da una bordata. — Vittime a bordo? — Purtik, il nostromo. Via la testa con una palla di cannone. — Beh, era un rinnegato. Prima o poi la doveva perdere, la testa. Lascia una vedova a Rodi, se non ricordo male... Ma si è già risposata da ventitré anni. Madurer rise debolmente. — Invece lo sai chi fa vincere il Tigrez? — disse. — Madurer. — E come fa? È solo un mozzo. — Sí, però ad un certo punto della battaglia con i greci, c'è da andare in fretta sul pennone per manovrare la vela quadra, e sotto il tiro dei greci nessun altro ce la fa. Ci provano in sette, e cascano giú come mosche, e si sfracellano un po' sul ponte, e un po' finiscono in mare. — Poveracci! Allora va su Madurer? — Sí, va su come un gatto. — Ma i greci non sparano anche a lui? O sono sbronzi di vino greco? — No, sparano e mirano dritto. Ma Madurer non è mica scemo. Sale coperto dall'albero, e cosí in fretta che nessuno riesce a prendere la mira. Eppoi c'è il mare agitato, e tutto si muove. — Bene. E cosí riesce a girare la vela quadra. — Allora il Tigrez fa la manovra giusta, e sperona la nave dei greci. Muoiono quasi tutti, perché lí ci sono i pescecani. Tre si salvano, e diventano pirati. — Ahi, povero Krapulos! Tre nuove bocche da sfamare! — Due bocche in piú, Sakumat. Purtik ha perso la testa, e quindi la sua bocca non c'è piú. — E quelli che tentavano di salire alla manovra? Quelli che si sono spiaccicati e caduti in mare? — Ah sí. Quelli... Sono morti in due. Uno coi pescecani, e uno proprio fracassato sul ponte. Due su sette sono morti. Cosí non c'è una sola bocca in piú da sfamare! — E chi erano? — Gente da poco, anzi da niente. Non si sa nemmeno come si chiamavano. Per ricordare i loro nomi, dovremmo dire quelli di tutti gli altri. Insomma, esistevano poco anche prima, capisci? — Come la farfalla verde sul muschio verde. Madurer rise. — Allora il Tigrez ci guadagna, con i due pirati nuovi! — disse Sakumat. — Certo! — disse Madurer. — Perché poi saranno fedelissimi a Krapulos. Sono di Salamina, suoi compaesani. Anzi, uno è suo cugino. — Com'è piccolo il mondo, — disse Sakumat alzando le spalle. — E allora, per il nostro mozzo, ci sarà un premio? — Diventerà nostromo. — Cosí, di colpo? Non è un pochino troppo giovane? E gli altri pirati non sono invidiosi? — No, nessuno è invidioso. E poi nessuno di loro vuole fare il nostromo. Non vogliono le responsabilità. Ma siccome un nostromo ci vuole... E poi, quando c'è la battaglia, possiamo fare che Madurer ha già sedici anni. A sedici anni si può fare il nostromo, vero? — Sul Tigrez sí, — disse Sakumat. — Ma ora sei stanco, Madurer, dovresti... Madurer lo interruppe, con un gesto della mano. — Tutte quelle battaglie rallenteranno un po' il viaggio, però! — Sí, un po'. Ma ci sarà buon vento. Tutto il vento che occorre. — Forse è meglio che la battaglia con gli spagnoli non c'è stata. Facciamo cosí. Quella battaglia non c'era. — Pensa se lo sapessero gli spagnoli, che festa farebbero! — disse Sakumat. — Ma adesso riposa, Madurer. Il bambino si abbassò tra i cuscini. — Quando il Tigrez tornerà e sarà vicino, si vedrà che Madurer è nostromo? — Si vedrà di sicuro. E forse, allora, sarà già diventato capitano. Un capitano si vede da lontano, no? Quel gioco fu l'ultimo che Madurer fece con lena.
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— Son sei anni che è morto, — disse Gentile, abbassando appena la faccia. — Benedetto sia il suo ricordo. Dopo un'occhiata veloce al fratello maggiore, Giovanni disse: — Ma io credo, signore, che nostro padre non potrebbe provare gioia piú grande di quando, ancora ragazzi, ci teneva nella bottega, e guidava senza toccarle le nostre mani e la mente, facendoci considerare le forme e le figure, e ci insegnava, perdonando i nostri errori, a impastare le terre per la pittura... — Anch'io lo credo, mastro Giovanni, — approvò il Doge, muovendo il capo avanti e indietro in un assenso solenne. — Ma è il momento ora di parlarvi della ragione per cui io e gli Anziani della Serenissima vi abbiamo convocato. Forse, avrete pensato, vi si vuole affidare un lavoro in uno dei nostri bei palazzi... Invece è cosa diversa, e benché nessuno vi possa imporre quel che la vostra volontà non accetti, la richiesta che stiamo per farvi è per la Repubblica di grande impegno e valore, e non vi parrà giustamente altro che lode e privilegio il fatto che sia rivolta a voi. I due fratelli pittori tornarono a guardarsi per un istante, e come erano abituati da sempre in un attimo si lessero sotto la compunta tranquillità, e la rispettosa curiosità dei volti, la scintilla di un sorriso, un complice ammiccamento sul procedere ampolloso del Doge. — Del resto, fratelli Bellini, — continuò il Reggitore con un movimento delle bianche mani, — alla fine di tutto uno solo di voi sarà impegnato... Ma ora vi dirò piú chiaramente. Gli Anziani, nei loro scranni ai lati del Doge, presero fiato nello stesso momento, come i cantori all'inizio di un inno: e per un attimo ai due fratelli pittori parve che il resto del discorso sarebbe stato davvero cantato da tutti quei vecchi in palandrana. Invece il Doge riprese da solo: — Il Sultano dei Turchi, Imperatore Maometto, che vive e regna a Costantinopoli, e con il quale la Serenissima ha da anni rapporti di pace ed alleanza, ci manda a chiedere un pittore, il piú valente che abbiamo, per un'opera nel suo palazzo. Sebbene non ufficialmente, ci fa sapere che quest'opera sarà un suo ritratto, e verrà esposto a venerazione sopra la porta interna del Palazzo Imperiale. Voi sapete piú di me, maestri, come gli usi e la religione dei musulmani non favoriscano la rappresentazione delle figure umane... Pare dunque che non ci siano nelle terre dell'Islam artisti capaci d'altro che meravigliosi ornamenti. La richiesta di un pittore capace ci è giunta in modo solenne e direi quasi pressante, tale da non permetterci dubbi né esitazioni. Né dubbi o esitazioni abbiamo avuto, del resto, nel pronunziare subito i vostri nomi: però ne abbiamo ancora, e non sono risolti, su a chi di voi chiedere e affidare l'opera... Il Doge tacque, volgendo ai lati lo sguardo lungo le due file di Anziani, come per raccogliere il loro consenso a quanto diceva. Poi tornò a vagare con gli occhi dalla faccia di Gentile a quella di Giovanni, che restarono in silenzio, ben convinti che il discorso non fosse finito. — Insomma, benedetti figli di Jacopo, — disse il Doge unendo le mani quasi a preghiera. — C'è stata una discussione molto appassionata, che vi risparmieremo: dovete solo sapere che i nostri venerabili Anziani, animandosi nel descrivere e commentare la bellezza delle vostre opere, e le qualità del vostro tocco, eran diventati come i ragazzini delle sponde che gridano durante le gare sul Canal Grande... Presi da discreto disagio, i due fratelli lo sciolsero in una risata, a cui si unirono gli Anziani, come a premiare la bonomia del Doge. — Alla fine, — disse il Signore facendo abbassare subito la voce di tutti, — alla fine ci siamo detti: scelgano loro. Piú di tutti noi, voi sarete rispettosi della vostra differenza, e generosi nella decisione. Scegliete dunque, maestri, chi di voi, se vorrà, potrà svolgere questo incarico prezioso, per il quale è annunciata, naturalmente, una generosa ricompensa. Non bisogna che lo facciate subito, s'intende. Il Doge tacque. Senza guardare il fratello, Giovanni prese la parola. — Illustre Signore, e voi nobili Anziani, non mi occorre consultare mio fratello Gentile io lo indico senza dubbio, e subito, come il piú adatto alla missione, la cui proposta onora anche me. Io non voglio, e certo nemmeno lui, discorrere qui, per questa ragione, sui diversi modi della nostra arte: cioè di come io penso e faccio le opere di pittura, o di come le pensa e fa lui... Se voi avete discusso, se vi siete accalorati, è stato vostro diritto e gioco: ma noi, quando insieme scoprimmo sotto lo sguardo amoroso e leale di Jacopo nostro padre, le diversità del nostro stile, subito le accettammo ed amammo come fossero parte dell'uno e dell'altro: in tale modo che mai ne vorremmo o sapremmo fare oggetto fra noi di discussione, e tanto meno di preferenza e contesa. Altre ragioni, in verità decisive, spingono invece a scegliere Gentile per questa missione: accade infatti che, come forse sapete, io stia in pieno lavoro alla Scuola Grande: e ad un punto tale che, interrotto o affidato ai soli aiuti, il danno sarebbe irreparabile, e la spesa rovinata. Un viaggio come quello che proponete, poi, richiede forza e buona salute: e io, benché qualche anno più giovane di mio fratello, sono di natura piú fragile e malsana. Vado soffrendo da mesi un perfido male ai piedi, che mi costringe a dipingere seduto, e non mi permette di sopportare altri viaggi che quello da casa mia a San Marco... Gentile ha tempra robusta, adatta ai viaggi, e per di piú ha da pochi giorni dato l'ultima pennellata al Salone del Maggior Consiglio, proprio oltre quella parete. Egli è dunque libero da impegni presenti, e nessun contratto lo lega per i prossimi mesi. Infine, rivelo che in un periodo della giovinezza in cui io ero affidato a una balia a Treviso, a causa della mia debole salute, Gentile ebbe una balia turca qui a Venezia, che gli raccontava storie dell'Oriente e gli insegnò la misteriosa lingua di Costantinopoli. E Gentile cosí bene l'apprese, che sempre era lui ad accompagnare nostro padre Jacopo alle fiere di piazza, dove i mercanti del Levante vendono terre colorate e i preziosi pennelli damasceni. Vedete dunque, Signore e Venerabili, come sembra che la stessa mano di Dio si sia mossa a indicare quale di noi due possa, se vorrà, prendere la via. E Giovanni, sbirciando questa volta Gentile con un sorriso truffaldino, abbassò la faccia come colui che umilmente s'apparta. Gentile sorrise. Il Doge, guardandolo, lo incoraggiò a parlare. — Signore illustre, e Anziani venerabili, — disse il pittore, — nonostante quello che mio fratello ha detto, pur accettando come sacra e benedetta la differenza delle nostre pitture, io sono nell'animo convinto che egli sia miglior pittore di me. Tuttavia, quello che lui dice sul corso dei nostri lavori, sul suo malanno, e sulla mia conoscenza della lingua turca, è la verità. Inoltre, io non nego che un viaggio nelle terre d'Oriente molto mi piacerebbe, giacché ricordo le storie che non solo la balia turca, ma nostro padre ci raccontava: storie di cavalieri e cavalli straordinari, di leoni e deserti, stupende magie e musiche, damigelle incantate. Io e Giovanni lo ascoltavamo in silenzio, seduti ai suoi piedi, con la schiena contro il muro del campiello ancora caldo di sole: e l'odore salato del canale diventava per noi il profumo dei porti d'Oriente. Alla fine, ricordi, Giovanni? nostro padre diceva: «E domani, pesciolini, ve ne conterò una nuova! » Giovanni Bellini, che durante il racconto di Gentile aveva mutato la sua espressione allegramente cospirativa in una di intensa e commossa memoria, alzò verso il Doge gli occhi rossi di pianto. — Miei cari, miei cari, — disse il Signore, sporgendosi in avanti sullo scranno, dopo una pausa rispettosa, — mi sembra che quello che occorreva sia ottenuto. Giovanni non può, e non vuole. Gentile vuole e può. A voi va bene, a noi va bene: anche all'illustre Maometto piacerà.
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- le chiese egli abbassando la voce in modo che, nel vocio generale, giunse soltanto alle sue orecchie. - Perché non dite che sono un fiero mascalzone e non sono un signore, e che debbo andarmene o mi farete cacciar via da uno di quei valorosi giovinotti in uniforme? La risposta aspra era già sulla punta della sua lingua; ma dominandosi eroicamente, Rossella replicò: - Macché, capitano Butler! Come correte! Come se tutti ignorassero che siete famoso, che siete coraggioso e che... che... - Sono deluso sul vostro conto. - Deluso? - Sí. In occasione del nostro primo fausto incontro avevo supposto di aver finalmente trovato una ragazza che fosse non soltanto bella, ma anche coraggiosa. Ora vedo che siete soltanto bella. - Vorreste dirmi che sono codarda? - Si agitava come una gallina. - Precisamente. Vi manca il coraggio di dire quello che sentite. Quando vi conobbi, pensai: questa è una ragazza come ce n'è una in un milione. Non è come quelle altre stupidine che credono a tutto ciò che le mamme e le bambinaie dicono, e agiscono in conseguenza, quali che siano i loro sentimenti. E nascondono sentimenti e desideri e piccoli dolori sotto una quantità di parole gentili. Pensai: Miss O'Hara è una ragazza di uno spirito raro. Sa che cosa vuole e non ha riguardo a dire quel che le passa per la mente... o a gettare dei portafiori. - Oh! - esclamò ella lasciandosi vincere dall'ira. - Allora vi dirò proprio quello che penso. Se aveste avuto un briciolo di superiorità non vi sareste avvicinato a parlare con me. Avreste compreso che desideravo non avervi mai piú sotto gli occhi! Ma non siete un gentiluomo! Siete un individuo villano e ripugnante. E siccome le vostre luride e piccole navi riescono a passare sotto il naso agli yankees, voi credete di avere il diritto di venire qui a beffarvi di uomini coraggiosi e di donne che sacrificano tutto per la Causa... - Basta, basta, - pregò egli con un sorriso. - Siete partita ottimamente, dicendo quel che pensavate; ma ora non cominciate a parlarmi della Causa. Sono stufo di sentirne parlare e scommetto che lo siete anche voi... - Ma come potete... - ricominciò Rossella perdendo il controllo; quindi si trattenne subito, irritatissima contro se stessa per essere caduta in quella trappola. - Ero sulla soglia della porta prima che voi mi vedeste e osservavo le altre giovani. Sembrava che il volto di tutte fosse fuso in uno stesso modello. Il vostro no. Voi avete un viso sul quale si legge facilmente. Eravate svagata e potrei garantire che non pensavate né alla Causa né all'ospedale. Sul vostro volto era scritto che desideravate ballare, divertirvi, e che non potevate. Ed eravate furibonda di questo. Ditemi la verità. Ho ragione? - Non ho altro da dirvi, capitano Butler - ella rispose il piú cerimoniosamente possibile, cercando di raccogliere attorno a sé i brandelli della propria dignità. - Pavoneggiatevi quanto vi pare perché siete il «grande sforzatore del blocco» ma astenetevi dall'insultare le donne. - Il «grande sforzatore del blocco»! È uno scherzo. Vi prego di darmi ancora un attimo del vostro tempo prezioso prima di sprofondarmi nelle tenebre. Non vorrei che una cosí graziosa patriota facesse un errato apprezzamento su quello che è il mio contributo alla Causa della Confederazione. - Non tengo affatto ad ascoltare le vostre vanterie. - Il blocco per me è un affare che mi fa guadagnare dei quattrini. Quando non mi renderà piú lo abbandonerò. Che ve ne pare? - Penso che siete un mascalzone mercenario... proprio come gli yankees. - Infatti - sogghignò il capitano. - E gli yankees mi aiutano a far quattrini. Figuratevi che il mese scorso ho ancorato la mia nave proprio nel porto di Nuova York per caricare della mercanzia. - Come? - esclamò Rossella eccitata e interessata suo malgrado. - E non vi hanno sparato addosso? - Povera innocente! Neppur per sogno. Vi sono nell'Unione molti bravi patrioti che non sono affatto alieni dal guadagnare del denaro vendendo merci alla Confederazione. Io ancoro la mia nave dinanzi a Nuova York, compro dalle ditte yankee (naturalmente per contanti) e me ne vado. E quando la cosa diventa un po' pericolosa, vado a Nassau, dove gli stessi bravi patrioti hanno portato per me munizioni e articoli di moda. È piú comodo che andare in Inghilterra. A volte non è tanto facile riuscire a penetrare a Charleston o a Wilmington.... Ma non potete immaginare come si arriva lontani con un po' di denaro... - Oh, sapevo che gli yankees erano abietti; ma ignoravo... - Perché sofisticare sugli yankees che guadagnano onestamente qualche quattrinello vendendo il loro Paese? Fra cento anni nessuno se ne ricorderà piú. E il risultato sarà lo stesso. Essi sanno che la Confederazione sarà battuta: perché non dovrebbero guadagnarci sopra? - Battuti... noi? - Senza dubbio. - Volete farmi il favore di lasciarmi... o dovrò chiamare la mia carrozza e andarmene a casa per liberarmi di voi? - Un'ardente piccola ribelle - fece egli con un altro sogghigno. Si inchinò e si allontanò lasciandola ansimante di indignazione e di collera impotente. In lei era un amaro dispetto che non riusciva ad analizzare; simile a quello di un bimbo che vede crollare una sua illusione. Come aveva osato, colui, oscurare la gloria di quelli che attraversavano il blocco e come osava dire che la Confederazione sarebbe battuta? Bisognava fucilarlo per questo; fucilarlo come un traditore. Si guardò attorno e vide i visi noti, cosí sicuri del successo, cosí coraggiosi, cosí devoti; un piccolo brivido freddo le passò attraverso il cuore. Battuti? Ah no; non costoro! Certamente no! Il solo pensarlo era impossibile e sleale. - Che cosa stavate mormorando? - chiese Melania volgendosi a lei appena i suoi clienti si furono allontanati. - Ho visto che Mrs. Merriwether non ti lasciava con gli occhi; e sai che ha la lingua lunga... - Ah, quell'uomo è insopportabile! Un vero villanzone! - rispose Rossella. - Quanto alla vecchia Merriwether, lascia pure che parli. Sono stufa di far la bambina per suo uso e consumo. - Ma via, Rossella! - esclamò Melania scandalizzata. - Ssst! - fece Rossella. - Il dottor Meade sta per fare un altro discorso. Il chiacchiericcio si interruppe nuovamente e la voce del dottore si alzò ancora una volta, prima di tutto per ringraziare le signore che avevano dato cosí volenterosamente i loro gioielli. - Ed ora, signore e signori, vi proporrò una sorpresa: un'innovazione che forse potrà urtare qualcuna di voi. Ma vi prego di considerare che tutto ciò si fa per l'ospedale e a beneficio dei nostri giovani feriti o ammalati. Tutti si tesero in avanti cercando di immaginare che cosa avrebbe potuto proporre il dottore, un uomo cosí serio. - Stanno per cominciare le danze; e il primo numero, senza dubbio sarà una danza scozzese, un reel seguito da un valzer. Le danze seguenti, polke, mazurke e scottish, saranno precedute da brevi reels Reel (pron. riil): è una danza scozzese abbastanza vivace, ballata da due o piú coppie; la sua musica è scritta generalmente in tempo ordinario (quattro quarti) ma qualche volta anche in tempo di giga di sei per otto, o due terzine di crome. (N. d. T.). Conosco la gentile rivalità per condurre bene i reels, e perciò... - Il dottore inarcò le sopraciglia e lanciò uno sguardo canzonatorio verso l'angolo dove sua moglie sedeva insieme alle signore anziane. - Se voi, signori, desiderate condurre un reel con la dama di vostra scelta, dovete concorrere in un'asta di cui io sarò il banditore. Le dame saranno aggiudicate ai migliori offerenti e il ricavato andrà all'ospedale. I ventagli si fermarono improvvisamente e la sala fu attraversata da un'ondata di mormorii eccitati. L'angolo delle signore era in pieno tumulto e la signora Meade, desiderosa di sostenere suo marito in un'azione che in cuor suo disapprovava, si trovava in assoluto svantaggio. Le signore Elsing, Merriwether e Whiting erano rosse d'indignazione. Ma improvvisamente la Guardia Nazionale lanciò un'evviva che fu seguito da tutti i presenti. Le ragazze batterono le mani e saltarono eccitate. - Non ti pare che sia... che sia... come una piccola asta di schiavi? - sussurrò Melania, guardando incerta il bellicoso dottore che fino ad ora le era sempre apparso perfetto. Rossella non disse nulla, ma i suoi occhi brillarono e il suo cuore fu contratto da una pena leggera. Se almeno non fosse stata una vedova! Se fosse ancora Rossella O'Hara, con un abito verde mela guarnito di velluto verde scuro, e delle tuberose nei capelli neri... sarebbe lei a condurre quella danza. Sí, senza dubbio. Vi sarebbero una dozzina di uomini a battersi per lei e a pagare al dottore delle belle cifre. Oh, dover sedere qui a far da tappezzeria contro la sua volontà e vedere Fanny o Maribella condurre la danza come la piú bella ragazza di Atlanta! Al di sopra del tumulto risuonò la voce del piccolo zuavo col suo accento creolo: - Se posso... venti dollari per Miss Maribella Merriwether. Maribella si nascose arrossendo dietro la spalla di Fanny e le due fanciulle celarono il volto ognuna nel collo dell'altra ridacchiando mentre altre voci cominciavano a gridare altri nomi ed altre cifre. Il dottor Meade aveva ricominciato a sorridere, ignorando completamente i bisbigli indignati che venivano dalle signore del Comitato ospedaliero. Da principio la signora Merriwether aveva dichiarato fermamente e ad alta voce che la sua Maribella non avrebbe mai partecipato ad una simile gara; ma poiché il nome di sua figlia veniva gridato sempre piú spesso e la cifra aveva già superato i settantacinque dollari, le proteste cominciarono a diminuire. Rossella teneva i gomiti appoggiati al banco e guardava quasi ferocemente la folla eccitata che rideva affollandosi attorno alla piattaforma con le mani piene di banconote della Confederazione. Ora tutte ballerebbero, tranne lei e le vecchie signore. Tutti si divertirebbero, meno lei. Vide Rhett Butler dietro il dottore, e prima che potesse mutare l'espressione del suo volto, egli la scorse e abbassò un angolo della bocca sollevando un sopracciglio. Ella sollevò il mento e si volse altrove. In quel momento udí il proprio nome... pronunciato da un'inconfondibile voce charlestoniana che superò il frastuono. - Mrs. Carlo Hamilton... centocinquanta dollari... in oro. Un improvviso zittio attraversò la folla all'udire la somma e il nome. Rossella fu cosí sbalordita che non riuscí neanche a muoversi. Rimase seduta col mento fra le mani e gli occhi spalancati di meraviglia. Tutti si volsero a guardarla. Ella vide il dottore curvarsi sulla piattaforma e mormorare qualche cosa a Butler. Probabilmente gli diceva che essa era in lutto e non poteva ballare. Ma Rhett crollò le spalle incurante. - Forse un'altra delle nostre bellezze? - suggerí il dottore. - No - rispose Rhett ostinato, guardando la folla. - Mrs. Hamilton. - Vi dico che è impossibile - insistette il dottore. - Mrs. Hamilton non vorrà... La voce di Rossella le uscí di bocca quasi senza sua volontà, irriconoscibile. - Sí, son pronta! Balzò in piedi col cuore che le martellava cosí violentemente che temette di non potersi reggere; l'eccitazione di esser nuovamente il centro dell'attenzione, di esser la piú desiderata e - soprattutto! - la prospettiva di ballare... - Non me ne importa! Non m'importa quello che diranno! - mormorò trascinata da una specie di follia. Drizzò la testa e uscí dal banco battendo i tacchi come nacchere e tenendo il suo ventaglio nero completamente spiegato. Per un attimo scorse il volto incredulo di Melania, l'espressione delle vecchie signore, le fanciulle petulanti, i soldati che approvavano con entusiasmo. Quindi si trovò in mezzo alla sala e vide Rhett Butler che avanzava verso di lei, fra due ali di folla, col suo beffardo e detestabile sorriso. Ma non gliene importava... Stava per ballare... Per condurre il reel. Gli rivolse un piccolo cenno e un sorriso abbagliante; egli si inchinò con una mano sul petto. Levi, benché inorridito, si rimise rapidamente e urlò: - Scegliete le vostre dame! E l'orchestra intonò il reel più bello di tutti: «Dixie».
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- chiese con calma; e abbassando lo sguardo su di lui in un misto di gioia e di furia impotente, Rossella vide nella tranquilla profondità dei suoi occhi, comprensione e pietà.
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- gli chiese Rossella abbassando le palpebre. Egli le lanciò un'occhiata inquisitiva come per rendersi conto di quanta civetteria fosse in quella domanda. Comprendendo il vero significato di quel contegno, rispose con indifferenza: - Sicuro. Ho investito in te un discreto capitale; e non mi piace perdere del denaro.
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Egli balbettò qualche cosa di incoerente abbassando gli occhi, battendo rapidamente le palpebre mentre cercava di rientrare in sé. - Sono un mascalzone - mormorò, lasciando ricadere stancamente il capo nel grembo di lei. - Ma non fino a questo punto. E se io ve lo dicessi, non mi credereste, non è vero? Siete troppo buona per credermi. Non ho mai conosciuto nessuno, prima di voi, che fosse veramente buono. Non mi credereste, non è vero? - No, non vi crederei - rispose Melania calmandolo e ricominciando ad accarezzargli i capelli. - State tranquillo, capitano Butler! Rossella sta meglio... Non piangete! Vedrete che guarirà.
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camera di stoffa forata, come l'usavano i nostri bisnonni, il quale si cavava l'orologio dal taschino del panciotto, e abbassando il capo canuto per antica bambagia, Io guardava e gli faceva batter l'ore, come si fa con gli orioli a ripetizione. In pari tempo, sur un teatrino meccanico si eseguiva una pantomima, dove a Pulcinella, ladro, secondo il solito, toccava un fracco di legnate, ch'egli si meritava; e più in là dei Beduini a cavallo, co' visi neri come il carbone e i bianchi mantelli al vento, galoppavano sotto gli alberi d'una strada di campagna, infilavano una porta ad arco e sparivano, per tornar a comparire di nuovo in fondo alla strada, sempre di corsa: una corsa che non s'arrestava mai. La calca cresceva ogni momento. - Oh, mamma, guarda come è carina quella bambola che sona il piano - esclamò una fanciulletta accanto al signor de' Rivani. Guardò anche lui dalla parte che la piccola mano additava; e la bambola gli parve carina davvero. Era quasi alta un metro, vestita d'un costume celeste, da ballo. Su' capelli, pettinati all'ultima moda, le si alzava un gruppettino di penne bianche; allo scollo, e su la sottana a strascico, portava delle trine tutte pieghe leggiere. La pupattola guardava verso la Galleria fisso fisso. In una manina, inguantata di bianco, teneva con gesto civettuolo un occhialino d'oro a lungo manico; appoggiava l'altra manina su la tastiera del pianoforte - un pianoforte da bambole - come chi cerca ricordarsi un accordo musicale. Il signor de' Rivani entrò nel magazzino e chiese che gli si facesse vedere la bambola celeste. Quella sì che sarebbe stata una bella cosa agli occhi della sua Marietta. Subito un commesso ritirò il giocattolo dalla mostra; e chi era di fuori vide una mamma farsi largo tra la folla per condur via una bimba piagnucolante, alla quale ella badava a ripetere: - Te ne compro un'altra, se sei buona, te ne compro un'altra! - No, voglio quella, io, quella che prende quel signore!... È la più bella di tutte!... Di fatti, la bambola scelta dal babbo della Marietta era proprio fra le più belle che si possano vedere. Il mercante ne chiese cinquecento lire. - È un po' cara! - disse, con un sorriso bonario, il signor de' Rivani. - Creda, anzi, che non è affatto cara - rispose subito il commesso - perché, osservi bene, è tutta di pelle di guanto carnicina; muove le gambe, le braccia, la vita, come si vuole; gira la testa, alza e abbassa gli occhi; ha i capelli veri, non di seta, sa? Chiama Mamma! tirando questo spago, vede? E dice anche T'amo!, tirando quest'altro. Poi non ha soltanto questo vestito; ha un ricco guardaroba; adesso glie lo mostro. Vede? Un abito da corse, di seta scozzese, col cappello grande guarnito di penne di struzzo; una veste da casa di crespo della China color limone e frange...; un abito da visita di velluto marrone ricamato d'oro, col cappello pure di velluto e penne di struzzo... - Va bene, va bene - l'interruppe il compratore - questo lo vedrà e lo ammirerà la mia bambina. Ma il commesso riprese: - Quanto al corredo di biancheria, è tutto di tela batista finissima, guarnito di pizzo vero!...vero, creda... - Lo credo, lo credo. - Sta in un baulino coperto di velluto, ch'è anch'esso un mobilino elegante... Vede, dunque, signore, che non è caro, tutto insieme... Il signor de' Rivani sorrise di nuovo, e pagò. Quando si trattava di far piacere alla sua Marietta, nulla gli pareva un sacrifizio. - Eccomi venduta! - pensò tra sè la bambola, mentre la involgevano delicatamente nella carta velina e la mettevano dentro una grande scatola di cartone piena di ovatta, come in un letto morbido e sicuro. E durante il viaggio da Milano a Roma, ch'ella fece sempre accanto al signor de' Rivani, stette come in un dormiveglia curioso, in cui alle memorie del passato s'univan le fantasticherie dell'avvenire. A dir vero, le memorie di codesta bambola non erano molte nè fino allora interessanti. Non avrebbe saputo precisare da quanti giorni o da quante settimane era nata: ma doveva essere al mondo da poco tempo, perchè tutto in lei era d'una modernità estrema. Si ricordava vagamente un grande laboratorio con tante donne che tagliavano, cucivano; cucivano, tagliavano... Il corpicino di lei, coperto, come aveva detto il mercante, d'una sottile pelle rosata, con le sue molle per giunture e un meccanismo nella pancia che le faceva dire due parole, a uso pappagallo, s'era completato con una testolina d'una leggiadria rara, abbellita da due larghi occhi azzurri di vetro. E quando ella ebbe su le spalle quella testolina dalla folta capigliatura bionda come il grano, sentì di aver acquistata un'anima; un'anima piccola, sì, molto soffocata tra la segatura che le riempiva il corpo, e impotente a manifestarsi in un movimento spontaneo, nella più leggiera vibrazione de' muscoletti di acciaio, ma, in fine, un'anima che aveva sensazioni piacevoli e dolorose, sentimenti d'affetto e d'avversione; qualche cosa tra l'anima de' fanciulli e quella delle povere bestie, che nè anch'esse possono parlare. A mano a mano che l'avevano vestita e fatta bella, la pupattola avea capito di poter fare un giorno o l'altro buona figura nel mondo; intorno a lei, nell'accomodarle addosso stoffe di seta e trine, c'era chi aveva detto: - È una principessina! - Allora, se lo confessava, le era venuta un po' d'ambizione; e l'ambizione era cresciuta quando ella fu posta quasi al centro della vetrina sfolgorante di luce, dove era rimasta esposta quattro o cinque sere davanti al pubblico estasiato della sua personcina. Guardava gli altri fantocci con superiorità. Non erano, certo, le contadine brianzuole quelle che potevano rivaleggiare con lei! Una marchesa del settecento appariva gentile nel suo gonnellino drappeggiato a fiorami e nastri rosei; una suora della carità era un modello d'esattezza, quanto al costume; ma la monaca, povera, s' intende, come tutte le monache, non aveva corredo; la marchesa aveva un lettino, non altro; Io scimiotto... Oh, lo scimiotto era un giocattolo per un maschio: come il cane barbone, come la carovana dei Beduini e tanti, tanti altri giocattoli. Dunque, lei era lì in mezzo una principessina; questo era vero; e non si curava di certe occhiate un po' canzonatorie che le dava il vecchietto dall'oriolo, scrollando il capo bianco davanti alla superba creaturina. Erano venute, in que' giorni, parecchie signore con delle bambine vogliolose a domandar di lei, ma nessuna se l'era portata via; a causa del suo prezzo, enorme per una pupattola. Chi, dunque, poteva essere il signore che l'aveva comprata? Pareva buono, e doveva esser più ricco di molti altri; sopra tutto si vedeva ch'egli adorava la sua figliuoletta, se per lei non badava a far certe spese. E la bambina, come l'avrebbe trattata? Purché non le avesse fatto troppo male! Le tornava in mente, a questo proposito, che nel nativo laborotorio, mentre la stavano vestendo, era stata riportata una bambola comprata due giorni avanti, alla quale la piccola padrona aveva aperto la pancia con le forbici, per vedere che cosa la facesse parlare quando le si tirava lo spago. Aveva tutto il ventre squarciato, la poverina, e versava segatura come gli uomini feriti versano sangue. Non si poteva accomodarla che male, disse una lavorante tra le più brave; e la pupattola era stata messa in un angolo, con le braccia aperte, come una morta... Brr! Uno strano brivido senza scossa apparente raggricciava la bella bambola! Dio mio, se anche a lei fosse toccata una sorte cosi infelice, quali sofferenze non viste, non intese, non indovinate da nessuno avrebbe dovuto sopportare. Chi mai, al mondo, sa quanto patiscono tante cose che ci sembrano insensibili? Cosi ragionava, tra' suoi sogni, la bambola, nell'oscurità della scatola, dove giaceva supina, immobile, in un rumore assordante, mentre il treno correva traversando tanto paese. Ogni volta che si fermavano a una stazione, ella credeva d'esser giunta a Roma; ascoltava, attenta, delle voci confuse... Ma no, no, non era Roma. E il treno ripigliava, rapido, il cammino; e il rumore, simile al brontolio cupo del tuono, ricominciava. Come Dio volle venne la volta in cui udì gridare: - Roma! Romaa!! - e di lì a un momento: - Avanti l'uscitaa! Ah, finalmente, erano giunti! La scatola della bambola venne afferrata da una mano ruvida. Era, certo, d'un facchino. - Fate piano! - esclamò la voce del signore che l'aveva comprata. D'improvviso, sonarono dolci parole interrotte da baci, da domande che s'incrociavano: - Babbo mio! - Ben arrivato! - Ben trovate, care! - Come stai? Hai fatto buon viaggio? - E voi, come state? - Come sono contenta, babbo! - Anch'io, tesoretto mio! - È la bambina alla quale son destinata! - pensava la pupattola. - Dimmi, babbo, m'hai portata una cosa bella, bella? - chiese la Marietta quasi a mezza voce. - No, me ne sono dimenticato - le rispose il padre, per celiare. - No, non è vero! Tu non ti scordi di me! - gridò la piccina con accento di sicurezza. Il babbo rideva, ripetendo: - Birichina, Io sai, eh? - È lì dentro a quello scatolone, babbo? - ripigliava la Marietta, messa in curiosità. - Non ti voglio dir nulla. Ora, a casa, vedrai. La carrozza di casa de' Rivani aspettava davanti alla stazione. I signori e la bambina vi salirono in fretta, e vi salì anche la pupattola dentro la scatola, occupando
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Egli si ritrasse in fondo alla camera, e con un gesto espressivo mi domandò s'io l'amava; fissandolo, sorridendo ed abbassando il capo, io gli risposi di sì. La sera dello stesso giorno, essendosi riunita la società d'amici in casa nostra, da taluni giovani, che discorrevano a me d'accanto, intesi pronunziare il nome a me caro. Tesi l'orecchio, ed ascoltai. Dicevan essi che si era diviso dalla famiglia per istarsene tutto solo colla sposa... La parola sposa mi colpì; ma per quanta attenzione usassi, non mi venne fatto raccogliere altro del loro discorso. Il mio affetto aumentò col vederlo più spesso, perchè, evitando la vigilanza della madre, correva più volte al giorno alla finestra, viemaggiormente eccitata dalla speranza che la sposa, di cui parlavasi, non fosse altra che io stessa. Una domenica mia madre uscì di buon mattino. Aprii la solita finestra, e sedutami accanto ad essa, vagheggiava mestamente Carlo, che agli occhi miei appariva più seducente del consueto; egli del pari, postosi vicino alla sua, mi faceva de' segni che mi sembravano dimostrazioni del più vivo affetto. Nell'atto di contemplarlo, piena della lusinga deliziosa che il cielo non l'avesse creato per altra donna che per me, quanti e quali progetti di futura felicità mi formava! Nel cuor della donzella innamorata havvi giorno più caldamente sospirato di quello delle nozze? Ciò che in religione ed in filosofia suona la voce Avvenire, è all'orecchio dell'appassionata zittella contenuto nella mistica voce Matrimonio. Viene la cameriera tutta ansante, e mi dice in fretta: "Signorina, che fate? Ritiratevi dalla finestra!" "Perchè?" le domandai sbigottita. "Voi amate alla follia quel giovanastro, ed egli fra giorni sposerà un'altra.- "T'inganni," le dissi, coperta da mortale pallore... "T'inganni! Chi può averti data a credere tale fanfaluca?- E, vôlta verso di lui, gli domandai, col gesto, se m'amava. Rispose con trasporto, e ripetutamente, di sì. "Lo vedi?- esclamai: "Vedi quanto t'inganni?" "No, non m'inganno. Siete ancora troppo fanciulla per comprendere dove arrivano la malvagità e la simulazione degli uomini. È tanto certo che in men d'un mese quell'ipocrita sposerà altra donna, quante è certo che oggi è giorno di domenica. Mia madre ha parlato con lui stesso. Gli ha detto: - Io credeva, signor Carlo, che la sposa esser dovesse la giovine Caracciolo! - ed egli ha risposto: - La Caracciolo è buona per ogni conto, ma ha poca dote." A questi detti proruppi in singhiozzi, nè potei frenar le lacrime; mi accostai alle umide ciglia il fazzoletto, e gli rivolsi uno sguardo interrogativo, pieno di costernazione e di tristezza. - Egli con altro segno mi domandò quello che mi conturbasse; ma la coscienza, che lo mordeva, gliene rivelò tosto il motivo. "Ritiratevi, signorina!" riprese a dire la cameriera: "Non vi degnate più di guardare in faccia quel perfido!" Senza rispondere, chiusi la malaugurata finestra e mi ritirai. Sentiva spezzarmisi il cuore: la cameriera mi prodigò de' soccorsi. Diedi alfine in un pianto dirotto, e versai, in preda alla disperazione, un torrente d'amare lagrime. - Crudele! io esclamava sospirando; non ti bastava dunque la barbarie di abbandonarmi, ma hai pure scelto per tua dimora una casa a me vicina, acciocchè io ti vegga ognora al fianco della donna che mi supplanta! - Scorsero non poche ore fra il pianto e le smanie. Alfina cercai di calmarmi, per non attirare l'attenzione della genitrice al suo ritorno. Ma ella, avvedutasi delle mie fattezze alterate, delle péste ed arrossite palpebre, volle conoscere il motivo che mi contristava a tal punto. "Un forte mal di capo," le dissi. E non mentiva. Il dolore sofferto era di tal natura da farmi ammalare. Infatti, dopo tre soli giorni, che passai nelle più acerbe pene, e nel corso de' quali evitai di vedere e di farmi vedere da Carlo, fui assalita da una febbre gastrico-biliosa che mi durò due settimane. Non impedì per altro la febbre ch'io mandassi di volta in volta la cameriera alla fatal finestra, per sapere quello che Carlo si facesse. Ne avea in risposta che tutto era chiuso. La pregai d'informarsi da qualche persona di sua conoscenza, se le trattative del matrimonio progredivano, perchè l'amore, non meno vivo di prima nell'animo mio, mi lasciava sperare che la notizia della mia infermità avrebbe ritenuto il barbaro dal consumare il tradimento. La risposta che ne ricevetti si fu, com'egli spendesse l’intera giornata in casa della fidanzata, ed una sola settimana mancasse alla celebrazione degli sponsali. Quest'ultimo colpo pose il colmo alla mia disperazione. Piansi l'intera notte, come sogliono piangere tutte le fanciulle che acquistano l'esperienza del mondo a forza di disinganni e di lagrime. Havvi donna che non abbia amato? Tale donna, avesse pure infusa nello spirito suo tutta quanta la scienza di Platone e d'Aristotile, non conoscerebbe il mondo che per metà! La mattina seguente il mio spirito era rasserenato. Sulla tomba della mia passione posi di propria mano la funerea lapide, e vi scolpii oblio! Imitino il mio esempio le giovanette, cui la sana educazione non fa vedere nell'amante altro che lo sposo futuro! L'immagine di Carlo non mi ritornò più nella mente, se non sotto le sembianze d'un personaggio drammatico, le cui vicende m'avessero commossa non ha guari in teatro. Giunsi alla convalescenza. Una sera, a notte avanzata, udii il rumore di molte carrozze, che fermavansi a non grande distanza dalla mia casa. "Antonia!" gridai: "Antonia!" - Accorse la fantesca. "Cos'è questo fracasso in istrada? È forse lo sposo?" "Si signora. È la sposa, che viene accompagnata in casa del signor Carlo da' suoi parenti....." Ebbi una scossa elettrica. "E le nozze quando saranno celebrate?" "Stasera stessa." Poggiai di nuovo la testa sull'origliere, e mi tacqui. - Era già rassegnata. Parecchi mesi dopo il fatto sopranarrato, la città trovavasi in movimento. Reggio attendeva Ferdinando II al suo ritorno da Palermo. Mio padre fu avvertito allo spuntar del giorno che il vapore era alle viste. Vestitosi in fretta, recossi al luogo del ricevimento. La sera, una sontuosa festa da ballo fu data nel palazzo Ramirez. M'acconcia con semplicità ed eleganza. Io e Giuseppina vestimmo un abito di velo cerise col sott'abito dello stesso colore: il seno, decentemente scoverto, era guernito d'una collana d'oro, e la chioma formava una pioggia di ricci, distribuiti sull'una e l'altra parte del volto all'uso inglese. Eravamo da circa mezz'ora nella sala del ballo, quando giunse il re. Mio padre, facente parte della comitiva, ci presentò a Sua Maestà. Prima di scegliersi una compagna per la danza, volle Ferdinando starsene spettatore per qualche tempo. "Quelle due ragazze en cerise sono le vostre figlie, maresciallo?" domandò a mio padre il marito della virtuosa Cristina. "Maestà sì." "Me ne rallegro con voi: ballano a maraviglia." Finito il valtzer, fu pregato di scegliersi una compagna. Lo vidi dirigersi alla mia volta, per invitarmi egli stesso, mentre al ministro Delcaretto indicava col gesto mia sorella Giuseppina, destinata a fargli il vis-à-vis. Se Ferdinando II avesse saputo condurre il suo governo e trattare il popolo a lui soggetto coll'amabilità cavalleresca che mostrò nelle figurazioni della quadriglia, chi sa per quanto tempo ancora avrebbe l'Italia aspettato il compimento de' suoi voti! Dopo il ballo se ne partì. La politica era allora per me, come per altri moltissimi, una parola vuota di senso: poche volte sentiva parlarne, perchè la classe degli ascoltatori incuteva paura a tutti..... Chi m'avrebbe detto quella sera che avrei detestato e Ferdinando, e Francesco suo figlio, e tutti coloro che portano il nome Borbonico! Null'altro di singolare ricordo sino al 1838, tranne due fatti accaduti in mia famiglia: siami lecito di rammentarli. Eravi nel palazzo, da noi abitato, un piccolo coretto, con una grata, che dava nella chiesa di sant'Agostino: lì ascoltavamo la messa e facevamo le serali preci. Un giorno, mentre Giuseppina vi passava, parte del pavimento sprofondò. La poverina cadde tramortita; e sull'istante si credette lieve cosa quanto era successo, ma l'infelice ne rimase zoppa, anzi per effetto di quella caduta scese al sepolcro pochi anni dopo. Un'altra mattina, mi recai nella stanza di mio padre per dargli il buongiorno; gli presi riverente la mano per baciarla: egli, sollevatomi il capo, mi domando sgomentato se mi sentiva male. "Non ho nulla," risposi. "Come nulla? Tu non stai bene!" "Dio mio, è curiosa davvero! Mi sento benissimo!" "Mirati nello specchio!" M'accostai al cristallo, e vidi il mio volto coperto di macchie d'un rosso accesissimo. Ei mi fece sedere accanto a sè, ed avvertì mia madre che facesse chiamare tosto il medico. Ma qual fu la nostra sorpresa nel vedere Giuseppina, che pur usciva della sua stanza, col volto più macchiato del mio! Si comprese allora essere stato l'effetto d'una pillola di bella donna, che ci avevano somministrata in drastica dose, perchè avevamo entrambe la tosse convulsa; e ci credettero avvelenate. Il medico non giungeva; frattanto il nostro stato diveniva da momento in momento più critico. Il rosso del volto spandevasi per tutto il corpo: una gagliarda palpitazione ci sopraggiunse, e la vista ne restò oscurata. Non arrivò il professore che dopo un'ora di angustia, e con succo di limone e molta neve arrestò i progressi del veleno. Era il mese d'ottobre. Dopo la tempesta sofferta per l'inganno di Carlo, il mio cuore godeva d'una calma perfetta. Io vedeva colla massima indifferenza quell'uomo accanto alla sua sposa, la quale, o per effetto del caso, o per meditata malignità, usava al marito le più spasimanti carezze, ogni qual volta i miei sguardi cadevano involontariamente su di loro. Mia madre aveva dato alla luce altre due femmine. La cura ch'io mi prendeva delle bambine mi serviva di distrazione gradevolissima. Una sera, mio padre ricevette la visita d'un nuovo impiegato civile, il quale menava seco un figlio che sembrava aver compito il quarto lustro appena. Io mi trovava nel salotto col resto della famiglia. Il giovine, che avea nome Domenico, fermò lo sguardo su di me, senza staccarlo per tutto il tempo che durò la visita. Benchè non potesse dirsi bello di persona, pure i suoi occhi, mirabilmente conformati, sfavillavano un fascino ammaliatore. Era egli conscio di questo potere, egli che mi appuntava con siffatta tenacità? Questo solamente so, che sotto l'azione di quel fascino un disagio, un malessere, un turbamento singolare s'impadronivano di me con energia crescente. Cercava cambiar posizione, discorrere, divagarmi, ma indarno: quello sguardo inesorabile mi perseguitava in ogni luogo, m'attirava ineluttabilmente a sè, mi magnetizzava. Il giorno appresso lo rividi al passeggio: lo rividi la sera al teatro. D'allora in poi non uscíi di casa senza incontrarlo; l'occhio mio lo discerneva nella folla con penetrazione maravigliosa, ed alla sua vista il seno mi balzava con violenza. Egli, da parte sua, sollecito di seguirmi ovunque andassi, non si lasciava sfuggire veruna opportunità per farmi consapevole del sentimento che io gli aveva ispirato. - Credi dunque che gli uomini tutti siano della tempra medesima di Carlo? - mi andava dicendo un'intima voce in tuono carezzevole; no: non sono tutti d'una pasta. Se vera è la massima, che rara è la lealtà in amore e pochi son coloro che la trovano, pure l'esistenza della virtù è comprovata dalla tua propria sincerità, e ti basta fare una seconda prova per rinvenirla. Uno sguardo, che sa rimescolare fin dal più profondo le viscere, può egli non essere messaggiero d’amore, di compassione, di umanità? - Non potei resistere alla corrente di sì persuasivi suggerimenti. Riscaldato dall'immaginazione, il mio cuore infiammossi di bel nuovo, mentre la ragione, soggiogata dal sentimento, si taceva, spoglia d'ogni riparo lasciando l'anima all'invasione del fascino.
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(Abbassando lo sguardo e civettando)
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(abbassando la voce,)
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(Poi abbassando la voce).
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(abbassando la voce),
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(abbassando la voce, e guardando comicamente d'attorno).
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(abbassando la voce e con cautela).
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(abbassando la voce)
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(abbassando la voce)
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(abbassando il tono della voce)
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(abbassando la voce e guardando fissamente davanti a sè).
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(abbassando la voce).
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E lo zi' Pecoro sparava senza saper dove, tra il fumo, abbassando la testa a ogni fischio di palla. Ed ecco, dai fianchi, cannonate, fucilate! E uno sbandarsi improvviso: gente che scappa quasi impazzita, urli, bestemmie, uomini che cadono come mosche, e il leprino, sanguinante, che grida: - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Essere scampati vivi da quell'inferno gli era parso un miracolo. - Zi' Croce, fratello mio, non mi abbandonate! Il leprino aveva una palla nella coscia; e lo zi' Croce ora lo reggeva col braccio, ora lo prendeva su le spalle; così si erano trovati alla riva del Fiume Grande, tra una gran calca di fuggiaschi, con un immane ingombro di carri, di carrozze, di animali, e uomini, donne, vecchi, fanciulli, d'ogni condizione, tutti col terrore del massacro in viso, tutti con gli occhi rivolti verso Catania che bruciava e fumava sinistramente nella notte serena, lontano, quasi l'Etna, squarciati i suoi fianchi, riversasse sulla città fiumi di lava.
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- rispose il barone abbassando gli occhi. Don Emanuele tirò il cassetto del tavolino e presa una manciata di monete di rame, carlini, pezzi di sei grani e di due grani, contava: - uno, due, tre.... Sei tarì vi bastano? - Per due settimane. Prendetene nota. - Campate di vento! - esclamò don Emanuele, crollando compassionevolmente la testa. E mentre il barone ritirava con mano tremula i quattrini, prendendo una dopo l'altra le pilette dei tarì e mettendole in tasca, egli faceva quattro rapidi sgorbi sur un quadernetto dove si allineavano filze di cifre significanti altri e altri tari somministrati al barone durante la lite, e tutte le spese anticipate per lui, da riprendere assieme con gli onorari a lite vinta e finita. Questo, insomma, voleva dire che il procuratore legale era sicurissimo del buon esito di essa; ma voleva anche dire che quel povero vecchio gli ispirava profonda pietà, ridotto quasi a mendicare dalla cattiveria della moglie e dei figli. Moglie o figli si erano ribellati contro il barone appunto per quella lite, che durava da dieci anni, e nessuno poteva prevedere quando sarebbe terminata. Il marchese di Camutello, cugino del barone e suo avversario, prima gli aveva messo l'inferno in famiglia per mezzo del confessore della baronessa, facendole dipingere a nerissimi colori l'avvenire della casa poi aveva proposto, con lo stesso mezzo, una transazione. - Un'infamia! - diceva il barone. - Piuttosto farsi tagliare le mani, che sottoscrivere quell'attentato ai sacrosanti diritti della baronia di Fontane Asciutte e Cantorìa. Finchè campo io!... Ma dopo sei mesi di terribile lotta, un giorno, per le silenziose stanze del palazzo Zingàli erano risuonati urli di voci maschili, strilli di voci di donne che si udivano fin dalla via e facevano fermare la gente.
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Come restava lì, impalato, dietro le spalle del Natali, questi cominciò a soffiare, e abbassando pennelli e tavolozza: - Se non ti levi di lì - esclamò - non potrò fare più nulla. - Sarebbe un peccato. E, scostatosi, l'Albani si guardò attorno, in cerca di una sedia. L'impresa non era agevole. Un'artistica confusione regnava nello studio, e i drappi dai colori smaglianti, i costumi antichi, i libri dalle ricche legature, gli album di fotografie, le scatole dei colori si ammonticchiavano sopra le quattro o cinque sedie spaiate e di vecchio modello che parevano perdute nella vastità dello stanzone. Solo un teschio mancante delle mascelle troneggiava sopra uno sgabello di legno scolpito, accanto alla mensola rococo. L' Albani si diresse da quella parte, prese il teschio per le occhiaie e si mise a sedere. Allora, il silenzio si fece profondo. Nascosto in fondo a un aranceto, invisibile dalla stradicciuola per la quale i carri non potevano passare, lo studio del Natali era un vero romitaggio. - Ci siamo! - esclamò finalmente il pittore, dopo una mezz'ora di lavoro silenzioso, e buttati da canto tavolozza e pennelli, levatosi in piedi e indietreggiando di qualche passo con una mano sugli occhi a guisa di visiera, si mise ad esaminare l'opera propria. Luigi Albani lasciò anche lui di misurare in tutti i sensi iI cranio che teneva ancora sulle ginocchia, lo posò sulla mensola, vi adattò sopra il suo cappello e si fece incontro all'amico. - Dunque, ti piace davvero? - chiese il pittore. - È un imbratto. Il Natali lo guardò un istante. Poi, scrollando le spalle: Ah, sì; hai ragione! Dimenticavo di parlare col maestro Albani. - Cioè, col critico più acuto dell'ex-regno delle Due Sicilie, - rispose l'altro, senza scomporsi. E avvicinatosi al quadro, accompagnando le proprie parole con gesti sobrii e compassati, riprese: - Prima di tutto, questa lava è di cioccolata; come réclame nelle scatole del Suchard sarebbe impagabile. Poi, il cielo è oleogratico e le nuvole sono di bambagia. Toccale, e vedrai che sfilaccicano. Ora, bisognerebbe parlare del soggetto.... - Eh! parliamone pure! - esclamò il pittore sorridendo. E accesa una sigaretta, sedette incrociando una gamba sull'altra e guardando curiosamente l'Albani. - II soggetto, a tuo vedere, dovrebbe essere pieno di filosofia; il fiore nel deserto, l'antitesi eterna della natura che sorride mentre tende le sue insidie, o che insidia mentre sfoggia i suoi sorrisi - a piacere. Sta bene. Solamente, per maggiore intelligenza, ti consiglierei di imitare quel pittore polacco che, esponendo un quadro rappresentante L'ultima composizione di Mozart, faceva eseguire, da suonatori nascosti dietro la tela, la Marcia funebre del maestro. Se vuoi, potrei declamare io stesso i versi del Leopardi. E, passando dall'altro lato del cavalletto, il maestro Albani cominciò:
Poi, abbassando lentamente le palpebre, con voce fievolissima, rispose: - Una volta.... fui molto amata.... - Ah! - Andrea! Perchè non mi guardi?... Che cosa ti ho detto?... Ti ho fatto male? Oh, non sei stato tu che l'hai voluto?... Andrea, io non ti conoscevo, allora!... Ne è passato del tempo!... Io sono vecchia; il torto è tuo, di esserti innamorato di una vecchia!... Ma ridi, parla, guardami una buona volta, in nome di Dio!... Egli restò a guardarla a lungo, muto, immobile. La baronessa non poteva sostenere la fissazione di quello sguardo. Due volte, tre volte, ella aveva fatto battere le palpebre sugli occhi stanchi, ma tutte le potenze dell'uomo parevano concentrate nella facoltà visiva. Poi, lentamente, egli avvicinò le labbra alla fronte di lei, vi depose un bacio lievissimo; e, chiudendole la bocca con la mano per impedire che ella nulla dicesse, uscì. Quella bocca era stata baciata! Quella fronte era stata baciata! Quelle mani erano state baciate! Quegli occhi avevano visto altri uomini in ginocchio dinanzi a quelle forme adorate! Dietro quella fronte, dei ricordi d'amore - di altri amori! - si svolgevano nell'istante preciso ch'egli metteva tutta l'anima nel parlarle dell'amore di lui! Quelle orecchie avevano sentite altre parole d'amore! Quelle labbra ne avevano pronunziate delle altre!... Ah! non era vero ch'ella fosse nata soltanto il giorno che era stata sua! Il passato esisteva, e fatale, irreparabile! Ah! ella aveva bene indovinato, prevedendo ch'egli sarebbe stato geloso del suo passato! Geloso egli lo era, e tanto più tormentosamente, quanto più inafferrabile era l'oggetto della sua gelosia. Disputarla ad un rivale presente, dare tutto il proprio sangue per conquistarla: che cosa sarebbe mai stato di fronte alla tortura del saperla stata già di altri, di non poterle cancellare dalla memoria il ricordo di altri? Egli non era più solo nel suo pensiero! Chi erano, quanti erano questi altri? Impossibile ancora saperlo; più presto egli si sarebbe fatta strappare la lingua, che chiederlo a qualcuno, che chiederlo a lei. Come infliggere alla donna idolatrata il tormento di rievocare una storia di pianto? Come sopportarne lui stesso il racconto? E perchè?... Noti od ignoti, i fantasmi inafferrabili di quegli uomini vagavano ancora intorno a lei; per le stanze, nel santuario suo, egli sentiva che la chiamavano: Costanza - come lui! che le parlavano di tu, come lui! Egli li vedeva, in attitudini familiari, avvicinarsi a lei! abbracciarla! baciarla!... Egli aveva paura di sedere dove quegli altri si erano seduti, di muoversi come gli altri si erano mossi, di parlare come avevano parlato. Con la sua sola presenza, egli contribuiva a ridestare più chiari, più netti, i ricordi di lei! E tra i ricordi del passato e le impressioni del presente un paragone doveva necessariamente determinarsi! L'amor suo infinito veniva dunque misurato, in ogni parola, in ogni gesto, in ogni bacio!... Dal posto dove se ne stava abbandonata, la baronessa lo attirava a sè; ma tutte le volte uno sforzo formidabile su sè stesso poteva soltanto deciderlo ad avvicinarsi a lei. Quando egli le si avvicinava, i fantasmi si frapponevano, glie la disputavano, lo afferravano con la loro gelida mano, facevano morire il suo bacio, scioglievano le sue braccia allacciate intorno alla vita di lei. E come più cresceva lo strazio dell'uomo dinanzi alla propria impotenza contro quella persecuzione, più lamentosa si faceva la voce della donna: - Andrea, tu non mi ami più!
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camera di stoffa forata, come l'usavano i nostri bisnonni, il quale si cavava l'orologio dal taschino del panciotto, e abbassando il capo canuto per antica bambagia, Io guardava e gli faceva batter l'ore, come si fa con gli orioli a ripetizione. In pari tempo, sur un teatrino meccanico si eseguiva una pantomima, dove a Pulcinella, ladro, secondo il solito, toccava un fracco di legnate, ch'egli si meritava; e più in là dei Beduini a cavallo, co' visi neri come il carbone e i bianchi mantelli al vento, galoppavano sotto gli alberi d'una strada di campagna, infilavano una porta ad arco e sparivano, per tornar a comparire di nuovo in fondo alla strada, sempre di corsa: una corsa che non s'arrestava mai. La calca cresceva ogni momento. - Oh, mamma, guarda come è carina quella bambola che sona il piano - esclamò una fanciulletta accanto al signor de' Rivani. Guardò anche lui dalla parte che la piccola mano additava; e la bambola gli parve carina davvero. Era quasi alta un metro, vestita d'un costume celeste, da ballo. Su' capelli, pettinati all'ultima moda, le si alzava un gruppettino di penne bianche; allo scollo, e su la sottana a strascico, portava delle trine tutte pieghe leggiere. La pupattola guardava verso la Galleria fisso fisso. In una manina, inguantata di bianco, teneva con gesto civettuolo un occhialino d'oro a lungo manico; appoggiava l'altra manina su la tastiera del pianoforte - un pianoforte da bambole - come chi cerca ricordarsi un accordo musicale. Il signor de' Rivani entrò nel magazzino e chiese che gli si facesse vedere la bambola celeste. Quella sì che sarebbe stata una bella cosa agli occhi della sua Marietta. Subito un commesso ritirò il giocattolo dalla mostra; e chi era di fuori vide una mamma farsi largo tra la folla per condur via una bimba piagnucolante, alla quale ella badava a ripetere: - Te ne compro un'altra, se sei buona, te ne compro un'altra! - No, voglio quella, io, quella che prende quel signore!... È la più bella di tutte!... Di fatti, la bambola scelta dal babbo della Marietta era proprio fra le più belle che si possano vedere. Il mercante ne chiese cinquecento lire. - È un po' cara! - disse, con un sorriso bonario, il signor de' Rivani. - Creda, anzi, che non è affatto cara - rispose subito il commesso - perché, osservi bene, è tutta di pelle di guanto carnicina; muove le gambe, le braccia, la vita, come si vuole; gira la testa, alza e abbassa gli occhi; ha i capelli veri, non di seta, sa? Chiama Mamma! tirando questo spago, vede? E dice anche T'amo!, tirando quest'altro. Poi non ha soltanto questo vestito; ha un ricco guardaroba; adesso glie lo mostro. Vede? Un abito da corse, di seta scozzese, col cappello grande guarnito di penne di struzzo; una veste da casa di crespo della China color limone e frange...; un abito da visita di velluto marrone ricamato d'oro, col cappello pure di velluto e penne di struzzo... - Va bene, va bene - l'interruppe il compratore - questo lo vedrà e lo ammirerà la mia bambina. Ma il commesso riprese: - Quanto al corredo di biancheria, è tutto di tela batista finissima, guarnito di pizzo vero!...vero, creda... - Lo credo, lo credo. - Sta in un baulino coperto di velluto, ch'è anch'esso un mobilino elegante... Vede, dunque, signore, che non è caro, tutto insieme... Il signor de' Rivani sorrise di nuovo, e pagò. Quando si trattava di far piacere alla sua Marietta, nulla gli pareva un sacrifizio. - Eccomi venduta! - pensò tra sè la bambola, mentre la involgevano delicatamente nella carta velina e la mettevano dentro una grande scatola di cartone piena di ovatta, come in un letto morbido e sicuro. E durante il viaggio da Milano a Roma, ch'ella fece sempre accanto al signor de' Rivani, stette come in un dormiveglia curioso, in cui alle memorie del passato s'univan le fantasticherie dell'avvenire. A dir vero, le memorie di codesta bambola non erano molte nè fino allora interessanti. Non avrebbe saputo precisare da quanti giorni o da quante settimane era nata: ma doveva essere al mondo da poco tempo, perchè tutto in lei era d'una modernità estrema. Si ricordava vagamente un grande laboratorio con tante donne che tagliavano, cucivano; cucivano, tagliavano... Il corpicino di lei, coperto, come aveva detto il mercante, d'una sottile pelle rosata, con le sue molle per giunture e un meccanismo nella pancia che le faceva dire due parole, a uso pappagallo, s'era completato con una testolina d'una leggiadria rara, abbellita da due larghi occhi azzurri di vetro. E quando ella ebbe su le spalle quella testolina dalla folta capigliatura bionda come il grano, sentì di aver acquistata un'anima; un'anima piccola, sì, molto soffocata tra la segatura che le riempiva il corpo, e impotente a manifestarsi in un movimento spontaneo, nella più leggiera vibrazione de' muscoletti di acciaio, ma, in fine, un'anima che aveva sensazioni piacevoli e dolorose, sentimenti d'affetto e d'avversione; qualche cosa tra l'anima de' fanciulli e quella delle povere bestie, che nè anch'esse possono parlare. A mano a mano che l'avevano vestita e fatta bella, la pupattola avea capito di poter fare un giorno o l'altro buona figura nel mondo; intorno a lei, nell'accomodarle addosso stoffe di seta e trine, c'era chi aveva detto: - È una principessina! - Allora, se lo confessava, le era venuta un po' d'ambizione; e l'ambizione era cresciuta quando ella fu posta quasi al centro della vetrina sfolgorante di luce, dove era rimasta esposta quattro o cinque sere davanti al pubblico estasiato della sua personcina. Guardava gli altri fantocci con superiorità. Non erano, certo, le contadine brianzuole quelle che potevano rivaleggiare con lei! Una marchesa del settecento appariva gentile nel suo gonnellino drappeggiato a fiorami e nastri rosei; una suora della carità era un modello d'esattezza, quanto al costume; ma la monaca, povera, s' intende, come tutte le monache, non aveva corredo; la marchesa aveva un lettino, non altro; Io scimiotto... Oh, lo scimiotto era un giocattolo per un maschio: come il cane barbone, come la carovana dei Beduini e tanti, tanti altri giocattoli. Dunque, lei era lì in mezzo una principessina; questo era vero; e non si curava di certe occhiate un po' canzonatorie che le dava il vecchietto dall'oriolo, scrollando il capo bianco davanti alla superba creaturina. Erano venute, in que' giorni, parecchie signore con delle bambine vogliolose a domandar di lei, ma nessuna se l'era portata via; a causa del suo prezzo, enorme per una pupattola. Chi, dunque, poteva essere il signore che l'aveva comprata? Pareva buono, e doveva esser più ricco di molti altri; sopra tutto si vedeva ch'egli adorava la sua figliuoletta, se per lei non badava a far certe spese. E la bambina, come l'avrebbe trattata? Purché non le avesse fatto troppo male! Le tornava in mente, a questo proposito, che nel nativo laborotorio, mentre la stavano vestendo, era stata riportata una bambola comprata due giorni avanti, alla quale la piccola padrona aveva aperto la pancia con le forbici, per vedere che cosa la facesse parlare quando le si tirava lo spago. Aveva tutto il ventre squarciato, la poverina, e versava segatura come gli uomini feriti versano sangue. Non si poteva accomodarla che male, disse una lavorante tra le più brave; e la pupattola era stata messa in un angolo, con le braccia aperte, come una morta... Brr! Uno strano brivido senza scossa apparente raggricciava la bella bambola! Dio mio, se anche a lei fosse toccata una sorte cosi infelice, quali sofferenze non viste, non intese, non indovinate da nessuno avrebbe dovuto sopportare. Chi mai, al mondo, sa quanto patiscono tante cose che ci sembrano insensibili? Cosi ragionava, tra' suoi sogni, la bambola, nell'oscurità della scatola, dove giaceva supina, immobile, in un rumore assordante, mentre il treno correva traversando tanto paese. Ogni volta che si fermavano a una stazione, ella credeva d'esser giunta a Roma; ascoltava, attenta, delle voci confuse... Ma no, no, non era Roma. E il treno ripigliava, rapido, il cammino; e il rumore, simile al brontolio cupo del tuono, ricominciava. Come Dio volle venne la volta in cui udì gridare: - Roma! Romaa!! - e di lì a un momento: - Avanti l'uscitaa! Ah, finalmente, erano giunti! La scatola della bambola venne afferrata da una mano ruvida. Era, certo, d'un facchino. - Fate piano! - esclamò la voce del signore che l'aveva comprata. D'improvviso, sonarono dolci parole interrotte da baci, da domande che s'incrociavano: - Babbo mio! - Ben arrivato! - Ben trovate, care! - Come stai? Hai fatto buon viaggio? - E voi, come state? - Come sono contenta, babbo! - Anch'io, tesoretto mio! - È la bambina alla quale son destinata! - pensava la pupattola. - Dimmi, babbo, m'hai portata una cosa bella, bella? - chiese la Marietta quasi a mezza voce. - No, me ne sono dimenticato - le rispose il padre, per celiare. - No, non è vero! Tu non ti scordi di me! - gridò la piccina con accento di sicurezza. Il babbo rideva, ripetendo: - Birichina, Io sai, eh? - È lì dentro a quello scatolone, babbo? - ripigliava la Marietta, messa in curiosità. - Non ti voglio dir nulla. Ora, a casa, vedrai. La carrozza di casa de' Rivani aspettava davanti alla stazione. I signori e la bambina vi salirono in fretta, e vi salì anche la pupattola dentro la scatola, occupando
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. - Eccellenza no - mi rispose, con un certo tremito nella voce e abbassando gli occhi. Dopo un breve silenzio riprese a dire, guardando il giovane che ormai era a molta distanza da noi: - Quello là è un bravo picciottu che lavora e guadagna bene. È poco tempo che è tornato da fare il soldato. Prima di partire dal paese, io non era ancor maritata, mi disse: - Sara, quando torno ci sposeremo. E se la buon'anima di mia madre non fosse morta, certamente l'avrei aspettato. Tornando, la prima cosa che pensò fu di cercar di me, e quando gli dissero che era maritata, jettò nu santiuni (disse una bestemmia). Dopo queste parole abbassò nuovamente gli occhi mentre il suo visetto rotondo era divenuto scarlatto. Poi soggiunse: - Meschino, mi conserva un po' di affezione; sa che son bisognosa, e ogni tanto viene a portarmi qualche cosuccia. Disse quest'ultima frase a reticenze e guardandomi come se avesse paura che io interpretassi malamente le sue parole, o cercasse d'indovinare l'effetto che mi avevano fatto. Il bambino principiò a piangere, a strillare in modo, che non ci lasciò più sentire quello che dicevamo. Seguitai la mia passeggiata, triste e commossa. Avevo letto più a fondo in quella povera anima, e vi avevo scoperta la vera causa dei suoi dolori. Pensavo a questo eterno romanzo del cuore, che si ritrova per tutto, in ogni classe sociale, dalla più alta alla infima, nella misera catapecchia e nello splendido palazzo, a questo amore che è sempre lo stesso, per diverse che siano le evenienze e l'ambiente in cui si svolge e respira, ma è lui, sempre lui che conduce gli avvenimenti più grandi come i più piccoli. In quell'istante mi sentii agghiacciare da un doloroso presentimento; mi voltai per rivedere ancora quell'infelice: si teneva il bimbo stretto stretto al seno e lo cullava per farlo acquietare. Senza spiegarmene la ragione, mi sentii gli occhi pieni di lagrime, ed il cuore gonfio di tristezza. Fu quella l'ultima volta che vidi la povera Sara.
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. - Senti - disse la signora Oldofredi prendendole le mani e abbassando la voce in ragione inversa dall'emozione crescente - facciamo un'altra supposizione. Mettiamo una donna, una giovane donna libera di sè, e mettiamo pure che ella incontri sulla sua via l'amore. - Dunque c'è. - Ma Dio! - gemette la signora Oldofredi con tutta l'anima negli occhi - c'è il desiderio, il sogno, l'illusione! C'è l'istante del delirio, c'è la febbre che fa dimenticare tutto, lo spasimo per cui il piacere rasenta il freddo della morte; ma poichè tutto ciò passa, poichè non resta nulla dei più sinceri trasporti, poichè gli amanti finiscono col diventare stranieri l'uno all'altro e incontrarsi senza che più nulla trasalisca del loro cuore nè dei loro sensi, bisogna rinnegare l'amore, bisogna dire l'amore non esiste! Credi a me... credi, credi. Colle mani strette nelle mani si guardarono in fondo all'anima, misurando le loro disperazioni; la madre violentata per non poter dire di più, la figlia temendo di indovinare troppo. - Allora - fece Marta, tergendosi la fronte quasi un sudore improvviso l'avesse bagnata - non c'è nulla. In quel momento si arrestò ascoltando. La stessa sensazione che l'aveva fatta trasalire il giorno prima nella casuccia dei due contadini, si rinnovava. Sentiva le sue viscere commoversi sotto un impulso di persona viva, colla strana rivelazione di un altro essere in se stessa. Sembrava una piccola mano che battesse contro il suo seno, una piccola mano che voleva dire: Aprimi, io sono l'amore e la verità. - Gli uomini - continuò la signora Oldofredi, presa nella foga vertiginosa delle proprie' parole - conoscono presto l'amore, lo valutano per quello che è e passano oltre, attratti dalla ambizione, dagli affari, della vita pubblica. Ma anche noi non possiamo vivere nella continua illusione dell'amore; per questo abbiamo la religione e la maternità. E ancora l'amore, ma l'amore che si trasforma; l'ideale risale al cielo, mentre la parte materiale di noi si anima e vive della nostra stessa carne... Marta non udiva, delle parole di sua madre, che il bisbiglio. Colle mani raccolte sul grembo, le palpebre socchiuse, il corpo abbandonato nei guanciali, aveva l'apparenza della più gran calma, ma un brivido la scuoteva internamente, un brivido e una puntura. Vedeva ancora quell'amplesso, quel bacio... come dubitarne, se tutto il suo essere ne era stato scosso, se all'improvvisa rivelazione aveva compreso, lei già donna, il mistero della virginità, quel mistero che è il segreto di Dio e che l'amore solo comunica agli uomini? Lievi lagrime brucianti sfuggivano dalle sue palpebre. - Marta! Marta! - Chiamava la mamma, curva su di lei, divinatrice amorosa della lotta che si combatteva nel di lei cuore. Marta, senza parlare, ripeteva fra sè: Sarà il raggio che sfolgora e muore, sarà l'illusione che passa, sarà il sogno, il delirio di un istante; pure esiste. Raggio che non scalda tutti i cuori, sogno che non rallegra tutte le notti... Ma intanto la piccola mano ripeteva con insistenza: Apri, io sono l'amore e la verità. E Marta rivedeva, in una specie di visione magnetica, la bella campagna estiva, gli alberi frondosi ramificanti sopra lo sfondo azzurro e un meschino insetto che tendeva i suoi fili d'argento. Spezzato un filo gettava l'altro, e un altro ancora e ancora, sempre avanti, la tela prendeva proporzioni gigantesche, i fili abbracciavano tutto il creato, salivano ad altezze vertiginose, toccavano il cielo. Era la vasta tela della vita umana, il lavoro ogni giorno rinnovato di chi soffre e combatte; il lavoro temerario che poggia nel vuoto guardando arditamente la luce; lo sforzo immane di milioni di esseri, intelligenze torturate, cuori spasimanti, schiavi in pena, tutti sorgenti dalle loro catene, tutti lanciando il loro filo d'argento al misterioso Ignoto. E i fili si spezzano, e la tela si strappa e la felicità dondola sempre sospesa all'impalpabile bava di un aracnide. Che importa? Tutto muore, tutto nasce, tutto cambia, tutto si rinnova, le tombe scoperchiate servono di culla, i cuori insanguinati e piangenti danno nuovo sangue e nuove lagrime alla vita. Avanti, coraggio! FINE.
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— Per lo zucchero, — rispose Bice con un fil di voce, abbassando gli occhi. — Come, per lo zucchero? Nessuno dei due bambini rispondeva. La signora Elvira replicò la domanda e soggiunse: — Chi ve l'ha comprato? Non mi sona mai accorta che ne mancasse dal barattolo, — ella spiegò agli invitati.• — Non lo abbiamo nè comprato, nè sottratto, — balbettò Neo. — O dunque? Vi è piovuto dal cielo? — soggiunse la signora Elvira, che cominciava a sospettare qualche sconveniente monelleria del figliuolo. Bice, facile al pianto, aveva i lucciconi agli occhi; Neo restava lì muto, imbarazzato. Intervenne Maddalena che sapeva la cosa. Per un anno intero, Neo aveva bevuto senza zucchero affatto, e Bice con poco zucchero, il caffè e latte della colazione; e il croccante rappresentava trecento sessantacinque giorni di questo non piccolo sacrificio di gola per quella piacevole sorpresa alla mamma. La signora Elvira era commossa e gl' invitati pure. Bice e Neo si erano nascosti con le mani la faccia, quasi avessero fatto qualcosa di male. In quel momento la mamma perdonò facilmente al figlio tutte le cattiverie dell'annata. Peccato che poi egli ricominciasse peggio di prima!
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Per guarire di quest'incomodo non c'è rimedio migliore; - soggiunse il magninco Gian Luca, abbassando un po' il tono. - Cosi è accaduto una volta anche a me. Li ho avuti ancor io, i vostri grilli pel capo. E il mio signor padre me ne guarì, dandomi moglie. Lassù, mi disse quel degno gentiluomo, lassù nel castello der vostri maggiori, lontano dalla vista degli importuni, farete il nido, magari la buca pei i vostri grilli. Così voi, signorino; lassù, nel castello della famiglia. Sian grilli, o merli, abbiatene mezza dozzina come è toccato a me, poveraccio; e vi passeranno, ve lo prometto, vi passeranno, come son passati a me, che ci son diventato vecchio, col senno di più, e la giovinezza di meno. - Oh, io non farò senno mai più! - gridò fra i ,singhiozzi il povero Geronimo, che ancora non aveva capito. - Eh, v'intendo, v'intendo! - rispose il magnifico Gian Luca. - L'ho veduta pur io, quella vostra Arduina. - L'avete veduta, padre mio? L'avete veduta, e non vi siete commosso a pietà? - Per lei? No davvero, non c'era ragione. - Ma per me... ma per me... - Voi non meritereste altro che d'essere mandato a viaggiare, da solo. - Da solo? E non mi ci mandate, da solo? - esclamò Geronimo, che incominciava a capire. - Dunque... dunque, poichè l'avete veduta... - Poichè l'ho veduta, gran sciocco che siete, ho acconsentito di parlare a quel vecchio matto di Bendinello, mio buon collega ed amico. Andate, e preparatevi ad una felicità che non avreste meritata. Mi sa mill'anni di vedervi metter giudizio. - Geronimo Balbi baciò la mano al padre, con una devozione che mai la maggiore. Il povero giovinotto era fuori di sè dalla gioia. E più doveva essere, quando, venuto qui nella sua camera e affaciatosi alla finestra, vide Arduina al suo davanzale. Per quella volta, non si contentò egli di mandarle un bacio colle dita d'una mano; glie ne mandò con tutt'e due, a diecine. La bella Arduina non poteva fare altrettanto, da quella savia e costumata ragazza che era. Si pose in quella vece una mano sulI cuore, e sorrise.
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Fu grande lo stupore del signor Ascanio, ravvisando al lume delle due lampade un piccolo, anzi un minuscolo uomo, che alzando ed abbassando un minuscolo martello, tempestava di colpettini secchi il coperchio di una minuscola cassa. Il piccolo personaggio, più piccolo del più piccolo tra i nani, era vestito alla leggera, d'una tunichetta succinta, che gli scendeva appena al ginocchio. Dai lembi di questa spuntavano due gambettine eleganti, ben nutrite nella loro sottigliezza, come le zampe d'una cavalletta, rimpolpata da due settimane di pastura all'erba tenera; due gambettine che andavano a finire in due borzacchini di cuoio rosso, dalle punte affilate e volte all'insù come due piccoli uncini. Una mantellina corta, a foggia di clamide, gli si rigirava intorno al petto, ricadendo con un capo dalla spalla sinistra; ed anche quella era rossa, come era rosso il cappello, di bassa testiera e di larga falda, simile a quello dei Romani antichi e dei cardinali in viaggio. Rimase male, il signor Ascanio Denèa, vedendo quella strana apparizione; e stette parecchi minuti secondi, che gli parvero secoli, come impietrito, a guardare. Che in quella casa ci fossero le paure, Io aveva pensato più d'una volta, sentendo tutti quegli scricchiolii, colpettini secchi, fischi sottili, frulli misteriosi ed altri inesplicabili rumori notturni, di cui si accusano ordinariamente a giorno chiaro i tarli, i sorci, i ragni canterini, gli orologi della morte, l'umidità, l'arsura, i riscontri d'aria, le folate di vento tra le fessure degli usci. Ma se lo aveva pensato, aveva anche riso delle sue supposizioni. E ora? Ora, bisognava arrendersi alla evidenza; c'erano le paure. Ma non per lui, vivaddio! Già, le paure non son più paure, e non devono farne alcuna, quando si è veduto in faccia e misurato il pericolo. Un nano, poh! anzi incito di un nano. - Che novità è questa? - brontolò il signor Ascanio, tanto per cominciare. - E tu, per tutti i settemila, chi sei? -
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Il primo turbamento che l'aveva sorpresa al sentire annunziare la solita visita di lui, — il silenzio che era caduto all' improvviso fra loro due, o la parola che egli le aveva susurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo, — il batticuore delizioso che le aveva imporporato le gote ed il seno quando egli l'aveva aspettata nel vestibolo dell'Apollo per vederla passare, bionda, nella mantellina di raso bianco. — Poi lo lunghe fantasticherie color di rosa, a quel medesimo posto, le gioie trepido e intenso, le attese febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la sua lezione di musica o di disegno. Ora, allo squillare del campanello si rizzò con un tremito nervoso. Tornò a sedere, calma, con le mani in croce sulle ginocchia. Il marchese si fermò esitante sull'uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evi- tando di guardarlo. Siccome Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, rispose dolo un breve silenzio: — La sua vita è nelle vostre mani. — Per l'amor di Dio, Anna!... Voi v'ingannate! ... — esclamò egli — Blice s'inganna!... Non può essere! non può essere!... La contessa scosse il capo tristamente, — No, non m'inganno! Me l'ha confessato ella stessa... Il dottore dice che la sua guarigione dipende... da ciò!... — Da che cosa?... Per tutta risposta ella gli fissò in volto gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu: — Oh!... no!... Ella giunse le mani. — No, Anna; pensateci bene... Non può essere! Voi v'ingannate! — ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente. Le lagrime le soffocarono la voce in gola. Poi stese le mani a Danei, senza dir nulla, come nei bei tempi trascorsi. Soltanto quegli occhi che lo fissavano con un'espressione di preghiera e d'angoscia straziante erano diventati tutt'altri in ventiquatt'ore. Roberto chinò il capo al pari di lei. Entrambi erano due cuori onesti e leali, nel significato mondano della parola, nel senso di poter sempre affrontare a fronte aperta qualsiasi conseguenza di ogni loro azione. Perché la fatalità facesse abbassare quello teste alte e fiere, bisognava che le avesse messo per la prima volta di fronte a un fatto che rovesciava bruscamente tutta la loro logica o no mostrava la falsità. La rivelazione della contessa aveva sbalordito Danei; ora ripensandoci ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione che li rendeva più difficili, si trovava imbarazzato. Parlò di loro due, del passato, dell'avvenire che gli faceva paura, cercando le frasi e le parole per scivolare fra tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di quei sentimenti così delicati e complessi. — Pensateci bene, Anna! a! Questo matrimonio è impossibile! Ella non sapeva che dire. Balbettava solo: — Mia figlia! mia figlia! — Ebbene... Volete che parta?... che mi allontani per sempre?... Sapete qual sacrifizio io farei!... Ebbene, lo volete? — Ella ne morrebbe. Roberto esitò, prima d'affrontare l'ultimo argomento. Poi mormorò, abbassando la voce: —Allora..... allora non resta che confessarle ogni cosa.... La madre s'irrigidì in una contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E rispose con voce sorda, chinando il capo: — Lo sa!... Lo sospetta!... — E nondimeno?.... — ripreso Danei dopo un breve silenzio. — Ne sarebbe morta.... Lo ho fatto credere che s'ingannava. — E lo ha creduto? — Oh! — esclamò la contessa con un triste sorriso.— L'amore è credulo... Lo ha creduto! — E voi? — chiese Roberto con un tremito che non potè dissimulare nella voce. — Io ho già tutto sacrificato a mia figlia. Poi gli stese la mano, e soggiunse: — Sentite com'è calma? — Siete corta che sarà sempre così calma? Ella rispose: — Sempre! E sentì freddo sulla nuca, alla radice dei capelli. Si alzò vacillante, e si strinse il capo di lui sul petto. — Ascoltate, Roberto, ora è vostra madre che vi abbraccia! Anna é morta. Pensate a mia figlia! Amatela per me o per lei. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità, la farà rifiorire. Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa... siate tranquillo!... Roberto era pallido.*
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