Quasi tutti gli uomini però contano nelle vicende delle loro lotte un alternar continuo di vittorie e di sconfitte; e la loro dignità, quantunque non li abbandoni mai, porta i segni di mille cicatrici. Altre volte essa è storpiata e deforme, e rassomiglia ad uno di quei vecchi invalidi che ha lasciato qualche brano del corpo sui campi di battaglia. I piaceri che derivano dalla sodisfazione di questo sentimento sono calmi e duraturi, e spandono un'atmosfera armonica su tutta la vita. Essi hanno una luce pacata e soave, e non brillano vivamente che in mezzo alle sventure. Pare allora che queste gioie siano un vero fondo di riserva, un ultimo premio che la virtù concede all'uomo.
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I rapidi giri, i languidi abbandoni, le gentili grazie e le eleganti moine degli alterni moti si associano all'anelar del seno, al confondersi del tiepido fiato, alle occhiate furtive, ai sospiri interrotti, alle strette di mano e al convulso premer dei fianchi. È allora che l'uomo, beato di sentirsi fremere sotto le mani una creatura vivente, che nei suoi elastici moti lo segue nei balzi tempestosi segnati dal suono, si esalta e trova di godere di uno dei più bei momenti della vita. È allora che la donna, in tutto l'orgasmo della squisita sua sensibilità, sentendosi trascinata e sollevata nei vorticosi giri, freme col seno palpitante, col volto infuocato e cogli occhi smarriti. Lo splendore della luce e delle ricche vesti, i profumi e infinite altre ricercatezze del lusso, adornano meravigliosamente i piaceri del ballo, senza cambiarne l'essenza. Questi sono nell'età giovanile, e specialmente per le donne, fra i più violenti, quantunque spesso sorgenti di alti guai e di lacrime. Il ballo gustato in tutta la sua essenza è un piacere veramente convulsivo, è un vero subdelirio dei sensi. Negli esercizi ginnastici il piacere è tanto maggiore quanto più validi sono i muscoli, e quindi quanto più forte è il bisogno di esercitarli. Gli individui che hanno muscoli gracili e sottili non provano alcun piacere nel fare sforzi che riescono faticosi. Il subito cessare di una resistenza sotto il nostro sforzo, l'alternarsi dello sforzo col riposo e il rapidissimo succedersi di forti sensazioni, sono i principali elementi che costituiscono i piaceri dei vari esercizii ginnastici. L'esercizio dell'equitazione è accompagnato da moltissimi piaceri, che variano entro confini molto vasti. Lo star fermo sulla staffa col corpo bene adagiato sulla sella ci dà il piacere elementare del trovarci alti da terra, adagiati sul dorso di un animale, che col tepor del suo corpo e co' suoi fremiti muscolari ci dà indizio di una vita robusta e vivace. Appena un cenno della mano ha dato il passo al destriero, il nostro corpo vien mosso e prova il piacere di un moto regolare, che non costa fatica. L'occhio spazia in più ampio orizzonte, o si sofferma ad osservare i vari moti delle mobili orecchie, e le scosse eleganti della testa del cavallo. La mano che trasmette il comando sta pronta ai cenni dell'umano volere mentre l'altra accarezza la fine pelle o scherza fra la criniera. Ma il troppo facile moto del passo stanca presto il cavaliere, il quale, rallentando le redini, passa al trotto e incomincia a sentirsi scosso nelle ime viscere dagli alterni moti del cavallo. La piacevole pressione dei piedi sulle staffe, sulle quali più volte il corpo intieramente si poggia, e il moto concitato, di tutta la persona, rendono piacevolissimo il trotto, specialmente quando si cavalca all'inglese, nel qual caso le gambe, piegandosi e tendendosi alternativamente, deludono le brusche scosse. II massimo piacere però si prova nel galoppo o nella carriera. Allora siam portati a volo e quasi senza rimbalzo, come se sorvolassimo larghe onde nell'aria, che offre una bastevole resistenza per produrre intorno al nostro corpo un vento che ci rinfresca e ci esalta. L'esser portati in carrozza è una sensazione che può essere piacevole quando il moto sia abbastanza uniforme e il corpo si trovi in condizioni favorevoli per godere questa maniera di moto indiretto. Il piacere riesce maggiore quando noi siamo tirati nella direzione in cui siam soliti muoverci; il moto contrario per alcuni individui è molesto e induce nausea e mal di capo. I nostri antichi, nei loro carri senza molle e sulle loro strade ineguali o sassose, non avranno certamente provati i piaceri che gode un cittadino moderno, il quale mollemente seduto sui cuscini elastici d'un'auto scorre rapidamente sul liscio lastricato della città. Per molti individui questo piacere è quasi indifferente, mentre per altri è voluttuoso e assai salutare. Le ore del giorno, la diversità delle stagioni e molte altre circostanze, modificano questo piacere. I mezzi di trasporto attualmente hanno assunto una varietà e molteplicità di forme, che la carrozza ha ormai quasi perduta ogni sua importanza. La bicicletta, le motociclette coi carrozzini, le automobili, le ferrovie, con la maggiore velocità e tutte le comodità relative, sono atte a produrre sensazioni piacevoli, delle quali è facile trovare la ragione. I mezzi coi quali d'ordinario si viaggia sulle acque possono dare vari piaceri del tatto, ma per lo più molto attenuati. Il viaggiare in un piroscafo o in una barca sopra una superficie d'acqua tranquilla produce sensazioni tattili appena sensibili; mentre, se il vento fa ondulare il naviglio, gli alterni moti possono produrre sensazioni piacevoli, simili a quelle che si hanno nell'altalena. Per molti anche l'appoggiare il piede sopra un piano mobile e che ad ogni tratto vacilla, è voluttuoso. L'essere trasportato nelle regioni dell'atmosfera nella navicella d'un areoplano, produce sensazioni tattili che, specialmente per la loro varietà, possono riuscire molto piacevoli. Le incerte ondulazioni, il rapido volo e le varie impressioni del mobilissimo campo nel quale si trova immerso l'apparecchio non possono non procurare piaceri intensi e di varia natura. Molti giuochi devono la principale loro attrattiva ai piaceri del tatto. L'altalena, il giuoco della palla o del pallone, il calcio, il tennis, le bocce, il podismo, il ciclismo, l'alpinismo, il bigliardo, la giostra e molti altri appartengono ad essi, e i piaceri che procurano constano dei vari elementi che ho fin qui analizzati, e che si combinano fra loro in diverso modo. Quasi sempre la compagnia e l'emulazione formano la parte principalissima di queste gioie.
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Ma può anche darsi che la sua fidanzata, quando sarà moglie, pensi che non è poi un gran male pagare alla giovinezza il suo debito di diletti; che vi pensi con la smania di chi accarezza gioie ignote, e vi si abbandoni con l'irrequietezza e la smania di chi dice: Finalmente!... »
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Ballando, la signorina si tenga diritta senza affettazione, nè si abbandoni troppo mollemente fra le braccia del cavaliers. Non si lasci sopraffare dalla tiinidezza e non si dia nè pure delle arie di sicurezza che non si addicono a una fanciuìla. Parli con garbo, senza inqualificabilità peritanze e senza ardire, con i giovani coi quali balla o deve ballare. E sopra tutto abbia il contegno modesto e dignitoso, di persona che vuol essere prima di tutto rispettata e non permette nessuna famigliarità, nessuna frase arrischiata o anche solo famigliare. In un ballo stanno male le signorine troppo sicure di sè, che parlano a dritto e a rovescio, girano per le sale a braccio de' giovinotti, e con essi vanno nelle sale dei rinfreschi e magari si mettono a sedere in disparte a conversare; e stanno pure male, le santarelline, che arrossiscono ad ogni parola che loro si rivolga, e rispondono per monosillabi, e tengono gli occhi chini, e stanno a braccio del ballerino con aria spaurita come se le minacciasse un pericolo. - « Mia figlia è un'angioletta che si trova spersa fuori delle pareti della casa; figurarsi poi ad un ballo!» - dicono certe mamme per scusare la goffaggine delle figliuole. Ho conosciuto delle signorine che ridevano allegramente ad ogni complimento loro lanciato dai giovinotti; e con quella giovialità, volevano dire che non credevano un'ette delle belle paroline che loro si scoccavano. Ne ho conosciute altre che alle frasi melate rispondevano con arguzia, criticando, rimbeccando pensieri e parole. E queste volevano far pompa dell'acutezza del loro spirito. Altre ancora, ascoltavano arrossendo, impacciate, imbarazzate. A mio avviso non facevano bene nè le prime, nè le, seconde, nè le ultime. La signorina deve sapere impedire la famigliarità, l'ardire e la melensaggine dei complimenti, con il modo corretto di comportarsi, con il tutto insieme che tiene a rispettosa distanza e merita lode e ammirazione sincera; lode e ammirazione che non isvaporano in parole, ma si manifestano nello sguardo e negli atti.
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La donna nubile, più che di eccitamento alla fantasia, ha bisogno di dare un pascolo al sentimento, si che non si abbandoni a se stessa, non ecceda, e nell'eccesso degeneri a debolezze. Agli eccessi del sentimento, ella deve imparare a dare il correttivo della chiara e ferma ragione. La vita della donna nubile, è certamente meno facile di quella della maritata, che ha il conforto degli affetti. È quindi necessario, che per affrontare la solitudine dell'anima, ella rinvigorisca la sua educazione e si rafforzi nella sicura rettitudine, nella piena coscienza di se, nell'armonia fra il pensiero e l'azione. Io credo che l'ordinata e severa istruzione storica e letteraria, possa dare fermezza e gagliardia alla fibra intellettuale e morale. Più una persona sa, e più basta a se stessa; e quando sa davvero e profondamente, non è mai saccente nè pedante. La saccenteria viene dalla presunzione non dal sapere; e il pedante è pretenzioso, non assennato.
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Durante lo spettacolo la sola manifestazione permessa è l'applauso; ma anche l'applauso di una signora deve essere corretto, senza abbandoni di entusiasmo, senza movimenti esagerati. Se la rappresentazione ha esito sfortunato si eviteranno i commenti troppo acerbi, lasciando le altre manifestazioni rumorose al loggione, il cui pubblico non chiede mai di meglio che di far del baccano.
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Per tutti, la stretta di mano deve essere breve, asciutta, rispettosa degli anelli altrui, di intensità giusta, senza stritolamenti né languidi abbandoni. Di regola, ci si stringe solo la mano nuda, ma per strada, d'inverno, è meglio non togliersi il guanto piuttosto che lasciare l'altro con la mano a mezz'aria. Alle signore, poi, è concesso di non fare neppure il gesto di toglierselo - per praticità: i guanti femminili sono spesso difficili da sfilare! L'uomo che stringe la mano guantata di una signora può togliersi il guanto o no, come vuole, ma deve farlo senz'altro se lei ha la mano nuda. Nelle riunioni sociali, gli uomini si alzano in piedi per salutare una signora; i giovani (ambosessi) per le persone anziane. Saluteremo almeno con un cenno del capo anche gli sconosciuti che si trovano in negozi, uffici, sale d'attesa, ascensori, scompartimenti ferroviari in cui stiamo entrando, o che incontriamo insieme a nostri conoscenti cui rivolgiamo il saluto. Quanto al baciamano, un tocco di galanteria molto all'antica che, sinceramente, non è da tutti, si fa solo nei luoghi chiusi, solo nelle occasioni mondane o romanticissime (mai sul lavoro!), e solo quando si è vestiti in modo formale (non in palestra, o nel bar della spiaggia, per intenderci). E solo se si è capaci di inchinarsi con leggerezza e disinvoltura, guardando negli occhi la signora, e alzarne lievemente la mano senza appoggiarvi le labbra; la mano poi non va abbandonata a mezz'aria, ma accompagnata dolcemente nello sciogliere il saluto. Molto contemporaneo, invece, è l'uso di salutarsi con un bacio. Copiato dal mondo dello spettacolo, fintamente caloroso e affettuoso, in realtà è un gesto distratto e automatico, tanto che di solito è un air kissing, cioè un «baciare l'aria» accanto alle guance. Personalmente, preferisco baciare solo le persone cui voglio bene, o che voglio autorizzare a sperare in una vera intimità. Ma che fare quando ci baciano? Accettiamo i baci senza attribuirvi importanza, senza crederci, senza scandalizzarci, e senza pulirci immediatamente gli aloni di rossetto stampati sulle guance. Quanto ai «baciatori di bambini», ricordo che una volta sui bavaglini si scriveva «Non baciatemi»: comportiamoci come se la scritta ci fosse tuttora.
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Povera amica d'infanzia della madre mia, tu hai bevuto fino alla feccia il calice del dolore; povertà, disinganni, abbandoni, freddezza da parte dei tuoi medesimi congiunti i quali, fino ad un 34 certo tempo non videro in te se non la causa dei loro guai, guai ai quali tu fosti ben lungi dall'aver dato causa; ma tu conservasti però sempre in fondo al tuo cuore, in tutta la tua condotta, la cristiana virtù, una virtù profonda che tutto prendeva da Dio, e ti faceva scordare le offese, le aspre e crudeli ferite, e riabbracciavi amorosa chi t'aveva derubata ed ingannata nell'animo, nella pace, nelle sostanze. Io t'ho vista coperta di povere vesti provvedere tu stessa ai bisogni tuoi e della famiglia, abbassarti ai servigi più vili con nobile coraggio e fermezza; ma ognuno, allorchè ti vedeva passare, leggeva nella tua persona la nobiltà della tua nascita, la nobiltà del tuo cuore, ed era preso da altissima e tenera commiserazione per te, vittima innocente! Oh! tu sei stata il capro espiatorio della tua casa; la tua morte ha richiamato sovr'essa la benedizione, la pace; ed i sintomi di un possibile ritorno allo stato primiero già si fanno sentire. Perdona, damigella, se il ricordo di D. Clara... mi ha obbligata a parlarti di lei, a renderle pubblico tributo della mia devozione. Sì, dev'essere assai dura la prova di un rovescio di fortuna, ed io ben di cuore prego il Signore a volertene liberare sempre, e liberare altresì tutte le persone che ami... Ma, se il buon Dio nella sua misericordia volesse toccare me e te con una simile sciagura, forza ci sarebbe piegare la fronte ed accettarla rassegnate... Ma per poter piegare la fronte, bisogna prepararsi, disporsi in anticipazione a quella che sarà una vera guerra al nostro cuore, alle nostre consuetudini; se poi ci verrà risparmiata quest'aspra lotta, acquisteremo merito grandissimo appo Dio colla volontaria nostra sommissione ai suoi voleri: ma se si spiegasse la guerra e noi fossimo prese alla sprovvista senza punto averci pensato, dimmi, cosa avverrebbe di noi? Tu sei nel fiore degli anni; la tua fantasia ridente, eppure inquieta, ti conduce in un campo inesplorato, ti mostra e ti promette una vita seminata di gioje, di compiacenze, di piaceri: ma, ahimè! la fillossera isterilisce le viti che fecondano i tuoi poderi; le banche si portano via le somme che costituiscono la tua sostanza; un incendio, un fiume che straripa, un flagello qualunque ti mettono sul lastrico o quasi... La damigella dapprima circondata da numerose fantesche, se le vede ad una ad una sfuggire d'attorno, non ha più chi le renda servigio e si vede obbligata a lavorare per vivere. Lavorare per vivere? E come farà ella mai, ella che non è usa alla fatica, non conosce verun mestiere, e ha abitudini non solo civili, ma aristocratiche? Lavorare per vivere? Essa avrebbe dovuto ascoltare ed obbedire quel detto popolare: impara l'arte e mettila da parte; ma se non l'ha seguito, chi può dire la sua pena, il suo avvilimento, il suo imbarazzo? Io so di parecchie damigelle nate nobili e cresciute nell' opulenza, le quali, avendo subíto un rovescio di fortuna, hanno cavato profitto del proprio ingegno, della coltura dello spirito, delle arti apprese per puro diletto, e si sono dedicate all'educazione ed all'istruzione delle giovinette. Con questo mezzo esse hanno provveduto convenientemente al loro corpo ed al loro cuore: al corpo hanno procurato un pane sufficiente e soddisfacente, ed al cuore l'indicibile soddisfazione di ajutare ed indirizzare l'umana famiglia nella sua parte più cara e delicata, le fanciulle, le care fanciulle. Altre invece, profittando della propria perizia in taluna delle arti belle, si sono dedicate ad insegnarle altrui; altre infine si sono date al commercio, si sono date ai lavori d'ago, ed altre ancora, non potendo vantaggiarsi di alcun merito particolare, si sono persino adattate a fare la governante, la cameriera... E chi può dire lo strazio di quelle povere anime che, nate civilmente, sono condannate a servire, ed a servire talvolta padroni senza educazione, senza cuore, senza riguardi? Orbene, giovinetta cara, se fin d'ora ti trovi in condizione da pensare a provvederti un guadagno, ringraziane il buon Dio, il quale non riserva ai tuoi tardi anni questa che in allora sarebbe pena e grandissima pena; provvedi a educare cristianamente il tuo cuore alla virtù, al sagrificio, indi procurati la dote preziosa di una risorsa morale pel cui mezzo guadagnarti la vita. Questo non ti deve far vergognare, poichè Cristo ha detto:merita l'operajo la sua mercede. Molte giovanette di buona ed agiata famiglia studiano e si sottopongono agli esami da maestra, per poterne poi esercitare il delicato ministero quando loro ne venga desiderio o bisogno. La maestra o l'istitutrice è tenuta troppo spesso in poco conto da noi per due ragioni contrarie fra loro, ma convergenti a mantenere nel pubblico una certa antipatia contro di questo ceto: una è che molte esercitano il loro magistero come se fosse un mestiere, e trattano l'educazione come il fabbro il ferro, e peggio ancora, facendo così entrare nei creduloni la fallace convinzione che la loro anzichè professione nobilissima è un... mestiere; altre invece sono comprese dell' altezza del loro cómpito, ma non sono affatto compensate, e mentre si paga profusamente la crestaja che ci prepara un elegante cappellino, si questiona uno scarso pane a chi maneggia il cuore e l'intelligenza della nostra gioventù! Io per me temo che ove mi trovassi nel bisogno, non saprei sobbarcarmi al peso ed alla responsabilità di diventare maestra, ancorchè ne avessi la capacità. Pure vi sono delle anime generose le quali non curando il proprio sagrificio, ci dedicano i loro talenti, i loro anni migliori, il loro presente, il loro avvenire, la loro salute, senza ricevere in ricambio che una parola studiata di un avaro elogio, elogio che muore nella strozza di chi lo pronuncia, e non va un punto solo più in là della povera vittima cui è diretto. Quelle anime generose eccitano, è vero, talvolta nelle loro alunne un affetto vivo ed intenso, una gratitudine sentita; ma queste, anzichè goccie d'una pioggia primaverile, sono fatti rari come i bolidi che a lunghissimi intervalli cadono dal cielo. Chi però si sente in cuore un eroismo tale da superare queste ed altre molte prove, che molte ne toccano specialmente a chi si reca istitutrice in una famiglia (e sentendosi di condizione pari o più alta di quella, si trova bene spesso trattata come una donna pagata, si vede tenuta in certa diffidenza, in certo dispregio); chi, dico, si sente un tanto eroismo, fa opera buona ed apostolica a dedicarsi a coltivare la gioventù, e Iddio coronerà i suoi sforzi e le darà largo premio. Chi non la sente, abbia sempre fisso nella mente che un dì o l'altro può cadere in bisogno, e si prepari quindi un differente ed onesto mezzo col quale al caso procurarsi la sussistenza, ed essere forse di ajuto alla famiglia che probabilmente attenderà tutto da lei. Non da tutti però il Signore esige un simile sagrificio, non a tutti impone una simile prova; ma tutti ci devono essere preparati, e tu giovinetta specialmente, devi prepararti a quello ed a questa, onde non venir colta alla sprovvista, ed accrescere con ciò la miseria della tua condizione. Che se il Signore, com'io lo prego, trova di fare il tuo meglio, mantenendoti nello stato in cui sei nata e cresciuta, migliorandolo anzi e tenendolo in fiore, io lo ringrazio per te e con te. Ma ricordati di serbare in cuore un pensiero di affetto, di commiserazione per quanti hanno avuto una sorte diversa, ed allorchè t'imbatti in una di codeste sventurate creature, procura di avvicinarti ad essa, di farle sentire che la stimi, che l'apprezzi, che conosci la sua storia, che t'interessa il suo stato pietoso, ed i tuoi discorsi anzichè diretti a farle sentire il bene perduto, siano diretti a rialzarne l'animo, a farle vedere che la sua opera è utile alla società, e le accorda diritto alla sua ed alla tua riconoscenza. Una damigella nubile e ricca era l'idolo di numerosa folla, e si diceva beato colui cui essa rivolgeva una parola, un sorriso, un saluto. Fiori ed adorazioni erano sparsi sul suo cammino; ma essa ingenua e virtuosa neppur se n'accorgeva, o non ne faceva conto. La morte le ha rapito entrambi i genitori; un empio amministratore ha strappato alla giovane una procura, poscia ha tutto venduto, è fuggito, ha portato via con sè tutti i suoi averi; la giustizia l'ha inseguito ma non raggiunto, e quando l'ha raggiunto egli aveva già tutto sciupato, nei vizj e nei giuochi d'azzardo, il patrimonio dell'orfana donzella. La povera giovane pensa ai numerosi amici che le protestavano poc'anzi di dare volentieri la vita per essa, a loro si rivolge; ed essi con parole gentili ma con un tono secco da non ammeter replica, le rispondono che sono ben dolenti di non poter far nulla per lei, che hanno già molti impegni, che... e la povera giovane senza parenti, senza averi, senza amici, è costretta assai volte di tornare alla cara sua antica maestra che, non meno povera di lei, le offre di divider seco il poco pane ed il molto lavoro... Ma tu, giovinetta, non sarai io spero, nel novero di quei falsi e sedicenti amici; prenderai parte alle sciagure altrui, ti adoprerai ad alleviarle, ed ove ti avvenga d'incontrarti con degli sventurati, non sarai loro avara della tua amicizia, e del tuo soccorso. Molte volte ho sentito alcune dame decadute lagnarsi non tanto della privazione degli agi d'altri tempi, quanto della metamorfosi operatasi nelle loro amiche, prima sì tenere e cortigiane, ora sì aspre ed altere. Se io mi lasciassi trascinare dalla bramosia che sento di ragionar teco, continuerei chi sa fino a quando, e diventerei, se già nol sono, prolissa e nojosa; per discrezione adunque mi adatto a farti in breve una specie di riepilogo del nostro ragionare di oggi e di jeri, poi ti lascio con Dio. I beni della terra sono beni non assoluti, ma relativi, e non sempre diretti al nostro vero bene: quando Iddio ce li toglie segno è che ciò è necessario e ci giova. Guardiamoci dall'attaccare il cuore a questi beni che da un dì all'altro ci ponno esser rapiti; e meditando appunto sulla loro variabilità e caducità, pensiamo per tempo a provvederci di coraggio sufficiente a scongiurare, vincere e superar la sventura, ed a munirci di cognizioni e di abilità bastevoli a procurarci un'onesta sussistenza. Non abbiamo poi mai baldanza della nostra condizione, poichè molti si sono coricati ricchi e doviziosi, ed allorchè si sono levati si sono trovati al fianco chi li ha scacciati dal proprio tetto, e ad un tratto sono rimasti senza averi e senza appoggi. Ricordiamoci sempre di non umiliare nè con parole, nè con mancanze di riguardo chi è da meno di noi, perchè un dì ci può diventar superiore, e trattiamo con singolare rispetto e venerazione quelli che sono caduti dall' alto e si trovano al basso, fors'anche al servizio di coloro che prima guardavano superbamente. E di noi non potrebbe avvenire altrettanto? Un'altra cosa debbo raccomandarti di cui non t'ho ancora parlato, e servirà molto bene a scongiurare il pericolo che la ruota giri per te in modo da portarsi via gli averi tuoi, mentre ti sosterrà e ti renderà meno gravoso il cambiamento di condizione ove non ti fosse possibile evitarlo. Ma sarà meglio non affastellare una cosa coll'altra, e quindi distinguerla e farne argomento di un'altra conferenza. Oggi, perdonami, ti ho parlato un linguaggio molto, forse soverchiamente severo; ma dimmi, si dirà poco tenera la madre del proprio fanciullo, perchè ha cura fin dai suoi primi anni di prepararlo alle lotte ed alle fatiche che gli sovrastano, facendogli presentire l'obbligo dello studio, dell'obbedienza, del sagrificio, ed additandogli i suoi doveri? Oh! non ti ho profetizzato nè tanto meno augurato un rovescio di fortuna; Iddio mi legge nel cuore e sa quanto sieno ridenti i voti ch'io formo per te, e la stessa premura con cui ti avviso di prevenire il pericolo, valga a persuaderti che mio vivo desiderio è di scongiurarlo. Conservati buona, obbediente e pia, ed il Signore ti risparmierà quella prova, od almeno te ne toglierà l'asprezza.
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Premessa questa raccomandazione - e dopo aver ricordato che la tenuta sarà quella richiesta dall'invito stesso, o dall'ambiente, dall'ora, dalla circostanza - ecco alcune buone norme da tenersi presenti: Chi non sa o non vuol ballare è meglio non intervenga; le signorine non portano i guanti; mentre gli uomini non li levano mai, durante il ballo: i guanti debbono essere candidi; nei balli pubblici non si invita a ballare una signorina a cui non si sia stati presentati: essa può, garbatamente rifiutarsi; si eviterà di dimenticare un invito fatto o ricevuto sebbene il grazioso libriccino, in cui si soleva prenderne nota, sia abolito; se non si sa ballar bene, è meglio risparmiare una brutta figura a una signora o a una signorina; per invitare a ballare, basta fare un inchino: se la signorina è con persone di famiglia, si chiede a queste il permesso; se è con altri a una tavola, si fa un inchino a tutti; se la signora è col marito, si chiede l'autorizzazione a lui; si eviteranno le coppie fisse; è prudente non fare anche due soli balli consecutivi con la stessa persona; grottesche le coppie fisse di coniugi; e un po' anche quelle di fidanzati; durante il ballo, non è scorretto parlare; ma si deve farlo con assoluta serietà; si devono evitare gli eccessi di allegria, gli atteggiamenti e gli abbandoni molli, le preziosità di movenze: badare piú che è possibile alla disciplina e alla compostezza del corpo, anche perché si è sotto gli sguardi indagatori di tutti; non si batte il tempo della musica, né la si rifà sottovoce; non è corretto invitar a ballare mentre si fuma; è scorrettissimo fumare mentre si balla; non si stringe troppo la compagna di ballo; è un po' prezioso, ma delicato, che i ballerini tengano la mano con la palma in fuori; comunque, la si tiene con le dita chiuse, non aperte a ventaglio; le signorine non s'incipriano durante il ballo, né si ravviano i capelli; la signorina appoggia la propria mano sul braccio non sulla spalla del compagno di ballo; una signora, una signorina possono andare sole al rinfresco; sole o accompagnate, non vi si indugeranno troppo; né abuseranno di liquori o di spumante; e accetteranno, se il rinfresco è a pagamento, che ve le accompagni soltanto un parente o un amico intimo; un ballerino accompagnerà al rinfresco una signora sconosciuta, soltanto nel caso che questa ne lo preghi; le signorine evitino di appartarsi con i ballerini sulle terrazze o nei vani delle finestre; una signora o signorina non permetterà la piú piccola indelicatezza; rifiuterà cortesemente un secondo ballo quando non è piaciuto il contegno del ballerino nel primo; non usa piú accompagnare la signorina al posto dove la si è andata ad invitare; è bello però farlo, inchinandosi anche ai familiari, ma non accompagnandovela al braccio; una signorina può presentare alle sue amiche quelli che hanno già ballato con lei. Come, poi, non è opportuno censurare il modo di danzare del ballerino, cosí non è opportuno perdersi in ammirazione di fronte alla sua arte « danzerina ». Le cosí dette « mattinate danzanti » durano dalle quattro alle otto. Le signorine ballano senza cappello: le madri lo tengono. È bene, nei balli di sera, non essere le ultime a lasciare la sala. Non posso dispensarmi, chiudendo questo argomento, dal raccomandare un po' di prudenza nei discorsi di alcune madri che accompagnano le figlie al ballo: « Che t'ha detto? ». « Gli hai fatto buona impressione ». « Questo sí che sarebbe un bel partito per te! ». « Cerca d'incoraggiarlo a dichiararsi! ». Comprendo la loro ansia e le loro preoccupazioni, specialmente se sono avanti negli anni e le note della serenata tardano a farsi udire; ma se sapessero quale turbamento questi discorsi possono determinare nell'animo delle figliuole!
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Il figlio d'un padre ozioso e fannullone, d'una madre che abbandoni la casa a sè stessa per far visite o prender parte a ricevimenti, difficilmente diventerà un lavoratore; preferirà anch' egli di darsi buon tempo, che è cosa tanto più facile. S'abituerà invece a considerare il lavoro come un obbligo, se vedrà il padre occupato seriamente nei suoi affari o nella sua professione, la madre interamente dedita alle cure della famiglia. Il lavoro d'un giovinetto è, nelle famiglie borghesi, lo studio. Ed è un dovere imprescindibile dei genitori di sorvegliare gli studi dei loro ragazzi, continuamente e assiduamente. In molte famiglie, quando si è mandato a scuola i figliuoli, quando si son provveduti di carta, di libri, d'inchiostro e di penne, si crede di aver fatto tutto: tocca al maestro a insegnare, e ai ragazzi a imparare. Teoria comoda, che dà ai genitori l'illusione di viver tranquilli e senza sopraccapi. Ma è proprio un'illusione, che molto spesso riserba delle brusche sorprese: una lettera del preside della scuola, un rapporto dei maestri vi fanno a un tratto sapere che il vostro figliuolo non studia, che è indisciplinato, che manca ogni tanto alle lezioni. Sorpresa generale: lacrime della madre, ira violenta del padre, rimproveri, gastighi.... e poi si ricomincia da capo. Sorprese di questo genere, in una famiglia dabbene, non devono mai verificarsi. Se i figliuoli non studiano, i primi ad accorgersene devono essere i genitori; e se ne accorgeranno facilmente, se avranno l'abitudine di sorvegliarli di continuo, di interrogarli, d'informarsi di quel che fanno giornalmente, di fare ogni tanto una visita ai maestri e ai professori. Se li vedranno distratti, svogliati, più proclivi ai divertimenti che allo studio; se li vedranno tornar tardi da scuola, o imbrancarsi coi compagni, o ricercare amicizie non adatte alla loro condizione, avranno elementi sufficienti per far la loro diagnosi, e dovranno senz'altro correre ai rimedi; ai rimproveri, alle correzioni, ai gastighi, se la persuasione e le buone parole non bastano. Purtroppo, l'educazione dei figliuoli è fra le cose difficilissime di questo mondo, e chi volesse darne le norme dovrebbe scrivere un libro apposta; senza contare che le norme sole non bastano. L'animo del ragazzo è mutevole, incostante, e varia da individuo a individuo; e chi si occupa sul serio d'educazione sa che, caso per caso, individuo per individuo, bisogna saper scegliere il modo di correggere, di rimproverare, di punire. Ci sono dei giovinetti d'animo sensibile, coi quali tutto s'ottiene con la dolcezza e la persuasione; anche nei casi più gravi, basta un'occhiata, una parola severa, per rimetterli subito sulla buona strada; per altri invece le parole non bastano, ci vogliono i gastighi, ci vogliono qualche volta, purtroppo, anche delle correzioni più gravi. I genitori devono saper leggere nell'animo dei loro figliuoli come in un libro aperto, e valersi via via dei mezzi di correzione che si adattano di più al loro carattere. Il rispetto alle persone d'età non è soltanto un atto di buona educazione, una norma di civiltà; è, soprattutto, un dovere, fecondo d'ottimi resultati. Rispettare un vecchio vuol dire riconoscere in lui una persona di grado superiore, per coltura, per senno, per pratica della vita. E poichè molti degli errori giovanili dipendono più che altro da inesperienza, non è a dire quanto sia utile nel giovinetto la convinzione che i vecchi ne sanno più di lui: in tale persuasione, egli non sdegnerà di ricorrere ai loro consigli, quando l'occasione si presenti, e lo farà spontaneamente e con fiducia. Toccherà poi ai vecchi a non abusare di questa fiducia, a non mostrarsi noiosi e esigenti, a non far passare ai giovani la voglia di ricorrere ai loro consigli: ciò che sarebbe un gran danno. Due altre cose devono i genitori sorvegliare con gran cura nei loro figliuoli: la scelta delle letture e degli amici. Giunto a una certa età, il giovinetto prova, in generale, un gran desiderio di leggere; e poichè gli manca l'esperienza della vita, tutto quello che legge crede che rispecchi la verità di quel mondo che ancora gli è in gran parte ignoto. L'adulto legge in una maniera del tutto diversa; e qualunque sia il libro che ha sott'occhio, istituisce sempre, anche involontariamente, un confronto fra quel che in esso è detto e quello che è in realtà; e finisce col far la sua critica, dichiarando il libro o vero, o falso, o esagerato, o troppo crudo, o troppo sentimentale. Il ragazzo no: egli si fida ciecamente di quel che legge, e crede e spera di trovarlo poi nella vita. Non di rado si legge di giovinetti di dodici o quattordici anni, i quali, montatasi la testa coi romanzi d'avventure, hanno improvvisamente abbandonato le loro famiglie e si sono messi a correre il mondo per imitare i protagonisti dei loro libri prediletti; e ci fu un tempo in cui la lettura delle Ultime lettere di Iacopo Ortis, romanzo d'amore che finisce con un suicidio, fu causa della rovina di molte giovani vite. Sorvegliate adunque le letture dei vostri figliuoli, scegliete i libri che si adattano alla loro indole, e se non potrete sempre impedire che leggano certi libri un po' fantastici, che sono la loro passione, sappiate almeno porger loro un contravveleno, invitandoli a leggere anche libri d'altro genere e soprattutto aiutandoli, con la parola e con l'esempio, a separare la fantasia dalla realtà, a riconoscere tutta l'esagerazione di ciò che leggono. Se si deve essere severi e oculati nella scelta dei libri, severità e oculatezza anche maggiori saranno necessarie nella scelta degli amici. Non permettete mai che il vostro figliuolo si accompagni con ragazzi della sua età o maggiori di lui, se non li conoscete in modo da esser sicuri della loro moralità. Non è esagerazione dire che i cattivi compagni sono quel che di peggio possa capitare a un ragazzo, tanto essi influiscono sul suo carattere, sulla sua indole, sulle sue idee. E badate che, in generale, non è per malizia che i giovinetti stringono amicizie equivoche: quasi sempre essi credono ingenuamente d'aver trovato la perla degli amici; e solo più tardi, e insensibilmente, prendono il fare, i modi, le abitudini del cattivo compagno. Siate dunque, in questo, severissimi e sorvegliate anche voi stessi, perchè non accada che, in un eccesso di fiducia, non abbiate ad accogliere in casa vostra chi non è degno della vostra confidenza.
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Si abbia la massima cautela trattando argomenti delicati; non ci si abbandoni alla collera, all'impulso cattivo del momento, se dobbiamo scrivere una lettera di rimprovero; si usi tutto il riguardo nel dare consigli, specie se non richiesti. Non si scriva a dritto e a traverso, facendo quegli sgradevoli graticci che stancar gli occhi. Le convenienze vietano di usare la macchina da scrivere per la corrispondenza che non sia d'ufficio. Per praticità, e sull'esempio dell'estero, fra giovani si tende ora ad abolire questa regola, quando ci sia una certa confidenza. Comunque, non si usi mai la macchina per scrivere una lettera privata ad una signora od a un superiore; se si fosse costretti a farlo per ragioni speciali (ad es. lunghezza eccezionale della missiva o particolare mancanza di chiarezza della nostra grafia) non si dimentichi di chiederne perdono nella lettera stessa. Si dev'essere pronti nel rispondere, specie se ci vien chiesto qualche favore, o se dobbiamo dare qualche informazione o notizia che prema. E pronti anche nel ringraziare dopo l'arrivo di qualche dono, per non lasciar la persona gentile nel penoso dubbio, se sia giunto o no. Chi poi avesse ricevuto una lettera da impostare, lo faccia subito, per non correre il pericolo di dimenticarsene... all'infinito. Chiedendo ad altri questo favore, si consegni la lettera col francobollo già apposto. Sarebbe scortese dargli in mano il danaro e peggio ancora riservarsi di darglielo dopo e dimenticarsene!... Una lettera da presentarsi a mano porta sempre scritte le parole: per favore. Se questa lettera è di presentazione va consegnata aperta, e non deve parlar d'altro. Se è lettera di carattere privato c'è chi dice che si può benissimo consegnarla chiusa. Sarà sempre più cortese però, affidandola a persona che non sia inferiore a noi, consegnargliela aperta, ed essa ha l'obbligo, ricevendola, di chiuderla in nostra presenza, con una cortese protesta. Una signora non scrive mai a lungo ad un uomo, e specialmente se l'età non è matura in uno almeno dei due. E c'è pure chi si diletta cogli ignoti conosciuti nella quarta pagina d'un giornale. Gente che ha tempo da buttar via, poco giudizio, e che si espone anche al caso di aver dei gravissimi dispiaceri... Le lettere anonime sono, chi non lo sa? una delle più riprovevoli e vili azioni. Chi ne ricevesse una, badi di non turbarsene eccessivamente; il più saggio partito è di buttarla nel fuoco e non pensarci più. Analoghe alle lettere sono le cartoline, di cui ora si fa molto uso: nella modalità hanno press'a poco le stesse regole. Si badi però che sarebbe sconvenienza scrivere una cartolina a persona molto a noi superiore, anche se fosse per una comunicazione di due righe. E anche scrivendo a parenti e amici, non si usi mai della cartolina, quando si abbia qualche cosa di delicato o di personale, per non correre il rischio che la notizia sia saputa dal portinaio o dalla domestica prima che dalla persona a cui doveva giungere, e che dia luogo a indiscreti commenti!
Non confidenze intime, dunque, non abbandoni d' anima, non espansioni calorose verso una donna che il giorno prima nemmeno salutavate e che, forse, in capo a un mese non rivedrete più. Cortesia con tutti, aiuto vicendevole, anche,giacchè si può dare il caso che una donna abbia bisogno di un' altra donna in qualche triste ora della vita, e nessuna di noi dovrà sottrarsi per il motivo che non è un'amica ma un' estranea colei che attende il nostro soccorso; ma in via normale, intrinsichezza no, almeno finchè non siamo ben sicure che l' oggetto della nostra preferenza è del tutto degno. L'abbigliamento, ai bagni, sia semplice, lindo, fresco, ma nulla più. Molto bianco per le mamme, le giovinette, per i bambini: lunghi veli per riparare il volto dalla brezza troppo rude: cappellini sobri, calzature pratiche. Pochi e meglio non gioielli affatto, perchè si dimenticano nei camerini del bagno o si smarriscono fra la sabbia: fascette elastiche e leggere, in modo da lasciare al torace tutta la libertà di respirare e di muoversi. Accuratezza, decenza ed anche una certa eleganza nel costume incriminato, che alle signore magre consiglierei bianco, di lana ruvida e consistente, con grande collare: alle signore un po'... forti, come dicono le sarte, nero, a lunga blusa.
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Ed ecco la disperazione: i vili abbandoni, la morte, il mercato di sè... Ricordate la fine e triste commedia intessuta di psicologia e di verità del Giacosa : Come le foglie ! Rare volte la leggerezza, la debolezza, l'insipienza che conducono una famiglia in rovina, poi la piombano ancora più in basso, trovarono così esatto e sottile riproduttore. Il padre lavora ; è vissuto nobilmente, tra il lavoro e il sacrificio, ma a che gli giova ? La moglie leggera e civetta, sperpera e si diverte : il figlio è un ozioso, disutile, senza volontà e senza carattere : la figliuola Nennele, sebbene abbia un fondo di rettitudine e di sentimento, è trascinata dalla corrente. Vanno in Svizzera per economia, ma l'una continua a farsi corteggiare e domani accetterà denaro dai suoi galanti cavalieri, ma il giovane si dà al gioco e si vende a una vecchia avventuriera; ma Nennele, per rimaner pura, Nennele che ha lasciato cadere le sue mani inerti, vinta dalla prima difficoltà che le presentava il lavoro, corre alla morte... Il quadro è vero e triste, infinitamente triste. Serva almeno d' ammonimento!
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Esse conoscono ogni possibile effetto dell' abbigliamento, nelle sue linee, nelle sue combinazioni, nei suoi colori : sanno la malia della voce, la grazia birichina dei sottintesi, il fascino dei malinconici abbandoni, l'arte d'una posa, d' un movimento, d'un sorriso. Ma come è innocua e attraente sulla scena, altrettanto la civetteria è dannosa nella vita. È un po' come lo spirito : riesce facile l'abusarne e allontana gli affetti veri e profondi. A proposito della civetteria francese, ecco quello che consiglia un bello spirito alla donna per ottenere un amore fedele: « Pigliare un pizzico di gelosia dalla Spagnuola, una sfumatura di civetteria dalla Francese, una corona di baci dall' Italiana, una nuvola di freddezza dalla Inglese, fondere tutto insieme ed ecco la ricetta per conservare l'amore ».
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Oh morti nella vita: crudeli abbandoni, malattie insanabili, reclusioni eterne, chi potrà pronunciare verso le misere anime che ne sono vittime innocenti la parola che piega alla rassegnazione, che affranca, che rinnova l' esistenza La sposa di un demente il quale non lascierà più il triste asilo della follia; la moglie di un condannato a vita; la donna che il marito ha abbandonato per vivere con un' altra, debbono considerarsi vedove, ma senza quella libertà di sentimento e di atti che dà alla vedova l'indipendenza e il diritto di profittarne. La loro posizione è quindi sommamente difficile, estremamente dolorosa. Sono come esseri condannati a vivere incatenati ad un cadavere... Si può immaginare più spaventoso supplizio ? Eppure l'anima di queste donne si trova in tali tragiche condizioni. Se amano ancora il loro compagno diviso da esse dall' infermità, dal delitto, dal tradimento, che esistenza può essere la loro, rôsa dalla disperazione contro l'irrimediabile; dalla passione, dalla gelosia: col dardo avvelenato di un pensiero, fisso nell'anima, col rimpianto del passato, l' orrore dell' avvenire ? E se le lusinghe di un secondo amore le ha attratte, un amore insinuato sotto le forme della pietà, della consolazione, della rinascita, immaginate voi le lotte, gli spasimi di questo amore, che per una natura nobile e retta appare come una profanazione, come un tradimento, come un peccato? Giacchè la società si mostra indulgente per le mogli ideali che sanno astutamente conciliare le apparenze dell'armonia coniugale con la sostanza dell'adulterio nella sua forma più bassa ; ma è pronta a scagliare i suoi anatemi e i suoi biasimi severi sulla donna che il cattivo destino ha condannato alla solitudine e che affranta dalla stanchezza, terrorizzata dalle vertigini del vuoto, si afferra al primo sostegno che trova per non precipitare, per non morire. Triste, triste sorte: la più degna del conforto, dell'affetto, del soccorso dei buoni. Se non possiamo o non ci sentiamo capaci di fare altro, piangiamo con queste meschine : anche il pianto ha una virtù benefica — lo disse pure il Foscolo: « Le lagrime d' una persona compassionevole sono per gli infelici più dolci della rugiada sull' erba ormai appassita ››.
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Lo stesso faccia se il suo destino la porta a vivere lontana: curi la corrispondenza con le meritevoli, abbandoni grado grado le altre. E non sia trattenuta in questa salutare opera di selezione da nessun scrupolo, da nessun riguardo. Pensi che indugiando renderebbe a se stessa il compito assai più arduo e forse potrebbe poi pentirsi crudelmente della sua debolezza, della sua indecisione, della sua bonarietà. Osservi inoltre quello che lo sposo trova gradevole, grazioso, nelle sue amiche, e procuri di rapire per sè il segreto di quel fascino, 'di quell' attraenza. Molte volte, certi uomini impressionabili restano colpiti da un nonnulla che però conferisce alla nuova venuta una supremazia sull'altra, sulla donna che ha il cuore e la vita sua, e che a lui dona l'anima e la giovinezza. Un po' più di grazia nel muoversi, un po' più di arguzia nel parlare, un umore più gaio, un grado maggiore d'eleganza o di raffinatezza... Ma colei che ama starà all'erta e a nessun costo si lascierà soverchiare. Non è una meschina gara di vanità e di seduzione a cui l' incito : è un piccolo ma non trascurabile mezzo per rimanere regina del suo regno. E quando l'amore, la felicità, forse l'onore d'una famiglia, sono in gioco, nessun aiuto per conservarli intatti può parere troppo puerile o inutile affatto. Thakeray, il grande scrittore inglese, ha osservato che gli uomini in amore servono le donne in ginocchio, ma una volta rialzati partono e più non ritornano. Badate dunque che restino in ginocchio il più a lungo possibile....
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Tutto ad un tratto lo riscosse uno strepito, come lo scricchiolar d'una seggiola sotto il peso di persona che sopra vi s' abbandoni; in quella, gli parve d'udire un affannoso sospiro, e poi queste parole: - Mio Dio!... dammi forza e costanza!... Allora, vinto da non so che terrore, stava per balzar dal letto, quando s' accòrse che la lucerna era spenta, e che tutto era silenzio. Alla mattina, Arnoldo pensava di chiedere al prete, in nome dell'amicizia, la spiegazione di quel mistero, la causa della preoccupazione grave e dolorosa in cui l'aveva trovato. Nondimeno, quando se lo vide venire incontro, con aspetto serio ma tranquillo, per fargli nuove scuse di quella sua meschina ospitalità, e s'accorse ch'esso troncava ogn'inchiesta, la quale a lui riguardasse, pensò che doveva essere un segreto geloso e profondo, uno di que' segreti che si trema di confidare anche al cuor dell'amico, e tacque. Con involontario turbamento Arnoldo ricevette la lettera che il vicecurato aveva scritta in risposta a quella di Maria. Quando, preso commiato e salito in sella, il giovine ripetè un saluto, il prete gli s'avvicinò, e strettagli forte la destra: « Arnoldo, » disse « voi siete un uomo onesto, e il cuor vostro è buono e generoso. Voi siete abbastanza felice, ma io non ho più nessuno quaggiù!... Il futuro c' incalza e trascina, Dio solamente lo conosce: se dunque a Lui piacesse che non ci avessimo a incontrar più su la terra, e se mai l'avvenire vi menasse di nuovo in quest'Italia, non dimenticate mia madre e mia sorella. Confortate, l'una, proteggete l'alba.... Fortunato voi, se avrete questa consolazione di poter dire: - C'è alcuno. che mi ama e mi bene- dice: - Addio! Arnoldo si sentì commosso fino alle lagrime, ma fattosi forza: « Addio! » rispose « virtuoso amico. State di buon animo; spero che ci rivedremo ben presto. Addio! » E, dato di sprone al cavallo, s'allontanò. Due giorni appresso, la famiglia de' Leslie era partita dalla villa, e Maria aveva abbandonato la natale sua terra. La man della fanciulla aveva tremato nell' aprir la lettera di suo fratello; erano poche linee che dicevano: - « Chi deve avere maggiore pena che tu parta di qui, mia cara Maria, è la nostra buona mamma. S' ella dunque vuol farlo questo sacrifizio, e tu segni la tua volontà. La famiglia, nel cui seno ti ritrovi è raro esempio di nobiltà vera e onesta. Ma non ti scordar mai, sorella, chi tu sia! Conserva il tuo cuore; pensa che un cuore come il tuo è una gemma, la quale, perduta una volta, non si ritrova mai più. lo spero, peraltro, che la tua lontananza non sarà lunga: quando ritornerai,fa di trovare ancora nella tua povera casa, sotto il cielo che il Signore t'ha dato, quegli stessi pensieri e quella stessa vita che ora vi lasci. E se mai temi che non sia per essere così, oh! non abbandonare, te ne scongiuro, la tua povertà e il silenzio dell'oscurità nella quale sei nata. Addio, mia sorella! Che il Signore t'accompagni! « CARLO » Caterina pianse nel leggere questa lettera così semplice, ma non ebbe cuore di stornar la figliuola dalla proposta partenza. Maria mise insieme le sue poche robe; e la mattina, nell'andare dall'una all'altra stanza, le pareva che quell'abbandono le pesasse sul cuore, e quel breve viaggio le fosse imposto come una penitenza. La buona madre anch'essa, venuto il momento di staccarsi dalla sua Maria, sentì un segreto dispiacere, quasi un pentimento d'avere accondisceso all'impensata a quella partenza; e le tornarono in mente le parole che ripeteva un tempo il suo pover uomo, quando la signora contessa volle tenere con sè la fanciulletta: - Verrà un.-giorno che ve ne pentirete, e non vi sarà più rimedio! - Ma non disse nulla, e le cacciò via quelle parole, come un tristo pensiero. Nel tragittare il lago, per raggiungere le carrozze del lord, le quali stavano aspettando su l' opposta riva, Maria non potè nascondere l' angoscia che la stringeva, benché non piangesse. Dilungandosi dalla sponda, guardava la madre sua e la vecchia Maria, che dalla soglia della casa le mandavano ancora baci d'amore; guardava la sua finestretta e la pergola del cortile. E certamente, se non era la presenza del vecchio signore, che quantunque buono e carezzevole con lei, pure la teneva nell' imbarazzo della suggezione, avrebbe lasciato libero sfogo alle lagrime. Elisa, guardandola con mestizia, la compativa; Vittorina l'abbracciava, ripetendole le più liete cose che siensi dette mai, per consolare chi abbandona la prima volta i luoghi a cui una vita serena di molt' anni donò tanta e così vera bellezza. Nel tempo di quel tragitto, un giovane barcaiuolo accompagnava il lento batter del remo nell' acqua cori una semplice canzone del suo paese, su andar della seguente: IL COMMIATO. CANZONE DEL BARCAIUOLO.
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Ma se abbandoni il potere, l'aria ti tornerà naturale». «Dovrò cessare di essere Narco, conte di Castel del Rio?» «Il nome, amico mio, nessuno lo può togliere all'uomo, eccetto Dio. Ma il potere e il comando, quello si può levare: e a sé meglio che ad altri si può fare». «Ma chi reggerà il paese, nelle grandi e nelle piccole cose?» «Lo regga una persona che vale, che distingua il bene dal male: ma non tu sarai, o terrai il fiato che hai». «Sarà Blabante il nuovo signore!» disse Narco. «Molte prove di ingegno e generosità egli mi ha date. Lui meglio di altri governerà la terra!» Blabante si inchinò: «Se tu lo vuoi, signore: ma ti chiedo da ora di non farmi neppure cavaliere. Fammi invece mastro legnaio e mastro campanaro, perché come legnaio piallerò e taglierò con esatta misura, e come campanaro suonerò la musica del giusto e del lieto, della festa e del buon riposo». «Così sia, mastro Blabante! Davanti a mago Antolfo, sotto l'occhio di Dio, qui metto il mio potere nelle tue mani di amico!» In quell'istante preciso, il fiato di Narco perse ogni puzzo, ogni fetore: e al contrasto l'aria del luogo, e di tutta la Turingia, sembrò invasa dalla torma dei buoni profumi. Il giorno dopo Narco e Blabante, che portava la sciarpa alla vita come segno del nuovo potere, ripresero la strada delle montagne meridionali, delle foreste, verso l'Italia lontana. E ripercorsero i luoghi, rividero le contrade, le case, le persone: tutto più lieto e leggero, più ridente, più amico. Giunti ad un fiume nella contea di Coira, si fermarono a riposare le bestie e contemplare nel gran sole le montagne imperlate di neve. Ed ecco dall'altra parte, come due volte era accaduto, si vede quella donna stupenda dai lunghi capelli e il volto chiaro. Narco balzò da cavallo e guardandola a faccia ora scoperta, gridò: «Beato me che ti incontro ancora! Mia signora, cos'era il sole, senza di te? E te lo grido: scomparsa è la disgrazia che mi opprimeva! Sono salvo dal fiato che ti ha due volte dissolta! Attraversiamo dunque il fiume e diventiamo amanti, perché l'amore lo chiede!» La donna rispose: «O tu, che ho amato pur non vedendo di te che un elmo sigillato, di che fiato vai parlando? Perché credi che io scomparissi? Era, ed è, e sempre ahinoi sarà, per colpa di una maledizione di strega! La masca Nedarella, invidiosa di quella che tutti chiamano la mia rara bellezza,
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La Olimpia lo avrà fatto per avventura, per cagioni e ragioni non al tutto biasimevoli; ma bisogna pure che io noti qui, come i suoi pregi sarebbero stati più onorati e più belli, se non gli avesse oscurati con l'apostasia, la quale in fin de' conti è odiata da tutti, perchè i seguaci della religione che abbandoni ti voglion male o ti dispregiano per la tua tristizia; i seguaci della religione nuova ti disprezzano anch'essi per la viltà dell' abbandono; nè si fidano di te, reputandoti sempre pronto a ripudiare la nuova, come ripudiasti la vecchia.
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. — Abbiate pazienza — le disse: — il tenente m'è stato a tormentar tutta la notte, perchè non gli abbandoni la moglie, ora che sta meglio. È matto: dice che gliel'ho salvata io. Io non ho fatto nulla, figuratevi! ma, poveretta, è novellina, e sa ch'io me ne intendo. M'avreste dunque a fare un piacere, Adele. Andatemi a San Francesco de' Poverelli a riprender Santino. Tanto, lui sta bene, grazie a Dio, e non ha bisogno di me. Anzi, me lo rivedo a casa tutt'a un tratto...- - Volentieri — fece semplicemente l'Adele: — basta che loro sien contenti. — Loro — erano i suoi padroni; e gente di cuore, non soltanto permisero alla serva d'assentarsi, ma aggiunsero al vestiario di frustagno, che l'Adele portava allo spedale in una pezzuola, un berretto alla marinara, nuovo fiammante, con l'àncora d' oro sui nastri che pendevano dietro. Svelta, la fiorentina camminò fino a piazza San Carlo, dove prese l' omnibus per via dell'Archibugio; e di lì si recò allo spedale. Quella mezz'ora, o poco meno, ch'ella dovette far d'anticamera, le parve assai lunga; e alla madre quel tempo parve infinito. Sempre più nervosamente ella girava per casa Trevisani. Che ora poteva essere? O perchè non tornava l'Adele? Che cosa ci voleva a pigliarsi quella creatura e a portarsela via? Se avevano scritto che Santino era ormai in piena salute, che allo spedale non poteva rimanerci più... O dunque? Ma quando, dopo parecchie ore, che le parvero un secolo, ella vide tornare l'Adele sola, sottosopra, tutta scombussolata e con gli occhi pieni di bile, Lucia non capì più nulla. - O che c' è? Che vuol dire?.. — interrogò interdetta. - Non me l'hanno dato — rispose l'altra lasciandosi cader le braccia, come dopo aver fatta una grande fatica. Lucia non capiva; chiese: - Perchè? - - Non era lui! - - Come? - - Non era lui, no, no, non era lui - asserì l'Adele entrando e buttandosi sur una sedia. Poi raccontò per filo e per segno il fatto. Aveva dovuto pazientare un secolo: non fa niente; il portiere, un buzzone schifoso che si dava Dio sa che importanza, le aveva significato che lì era inutile aver fretta, angustiarsi, spazientirsi; facevano come gli pareva; ci voleva pazienza: c'era un buscherio di gente; chi andava, chi veniva... non si capiva un' acca... Lucia accennava di sì, di sì, sempre più frequentemente, per mostrare che capiva, capiva... Ma poi, poi che cosa era accaduto? Questo le stava a cuore. Poi, poi era accaduto che all'Adele avevan presentato un bambino di circa cinque anni, che lei non aveva riconosciuto. Quello lì, Santino? Ma nè pure per sogno! Era venuto un inserviente, e dopo, una monaca, e dopo anche la superiora, poi il medico di guardia: tutta una processione. Avevan detto: - Che mai dite che non è lui? — E l'Adele: - Nossignori che 'unn' è lui! - - Il vaiolo, lo sapete, muta la fisonomia. - - E' muterà quanto gli pare, ma questo 'unn'è Santino! Già Santino, gli ha sett'anni: e questo? - - La malattia l'avrà fatto dimagrare. - In vece, questo bimbo qui gli è grasso e robusto, e il nostro gli era mingherlino, piuttosto civile. - - È stato ben nutrito — osservò il dottore. - Poi, Santino gli aveva gli occhi celesti, e questo qui gli ha neri! — - Ve lo volete portar via, sì o no? — chiese il direttore, ch'era sopraggiunto in mezzo a questa discussione. - Io no, ecco! — dichiarò l'Adele o come ho a fare a portar via uno che 'unn' è Santino? - - Fate venir la madre, in questo caso — finirono col dire tutti. Di modo che l'Adele se n'era tornata sola, senza sapere che cosa la si facesse, accorata, con un diavolo per pelo. La madre ascoltò tutto il racconto per filo e per segno, senza batter palpebra; un ghiaccio, come di svenimento, le era corso per le vene. Madonna santa! Che voleva dire ciò?.. E due sole parole le uscirono di bocca: - Vado io. — Ma la mattina di poi, a punto mentre ella si preparava a recarsi allo spedale, s'affacciò alla portineria una femmina che teneva per mano un ragazzino; e chiese di Lucia Naldi, quella che aveva un malato a San Francesco de' Poverelli. Il bimbo indossava il vestito color marrone cucito a macchina, di sera, quando le fatiche diurne erano finite; portava le calzette a costola, il berretto con l'àncora. Ma il vestitino gli era largo e lungo: ci stava come in un sacco, goffo, impacciato, malinconico. - Vi riporto il vostro figliuolo, per ordine del direttore — disse la femmina. — Ormai sta benone e allo spedale non possiamo più tenerlo. — Lucia s'era fermata di botto, come se in un attimo le avessero inchiodato le piante al suolo. Fissò il ragazzo con le pupille dilatate, con le labbra strette, con tutta la faccia che si protendeva in atto di eccezionale stupore. Contessa Lara. 8 - Ma non è il mio, questo! — gridò ella. - Chi, questo? — chiese l'infermiera con tono d'incredulità. - Questo, questo qui! - - Eh diamine! Siete matta! Nome, cognome, età, sta scritto tutto su la tabella. Come volete che non sia il vostro? Guardatelo bene. - - Non è il mio, vi dico! — badava ad affermare la portinaia — Santo Dio, volete che una madre non riconosca il suo figliuolo? - - Si sa, ha avuta una malattia che cambia tutti. Gli è come se uno si mettesse una maschera, credete a me. - - Non può cambiare il sangue, la malattia! Questo bambino nè anche mi conosce. Vieni qua, dimmi come ti chiami — fece la Lucia, attirando verso di sè il fanciullo, intento a fissar la stanza dove si trovava con occhi attoniti, lustri fra la came lustra, tuttora chiazzati di rosso, e occupato, quando non fissava la stanza, a osservare l'abito marrone da lui indossato, del quale particolarmente sembravano interessarlo i bottoni e le tasche. - Come ti chiami? — ripetè la Lucia. Il bambino alzò lo sguardo un po' selvaggio; poi lo tornò subito a chinare, e rimase muto. Allora la Lucia lo respinse dolcemente: - Non è il mio!- Non è il mio! — esclamò sicura — Riportatevelo pur via, chè oggi stesso vengo a pigliar Santino. - E siccome, a punto la Marietta e Checco entravano in casa di corsa, come una folata di vento, la madre li interrogò, spingendoli davanti al piccolo sconosciuto: - È Santino nostro, questo? Ditelo voi! — I ragazzi smisero di ridere; squadrarono il nuovo arrivato con atto di diffidenza, poi se ne allontanarono un po' ammusoniti, facendo segno di no, col capo. - Vedete? Vedete bene che non è il mio! tornò a protestare la Lucia. L'infermiera insistè un altro poco, tanto per fare: raccontò qualche aneddoto straordinario su 'l vaiolo, che rende irriconoscibili anche alle persone di famiglia; ma, vedendo che la portinaia, anzi che persuadersi, sempre più si irritava, si strinse nelle spalle, come chi, in fin de' conti, si sente affatto estraneo ad una faccenda nella quale è immischiato senza sua volontà; e, ripreso per mano il fanciullo da lei condotto, se ne andò con un indifferente: — Arrivederci. — Lucia aveva la febbre a dosso. Saper guarito il suo Santino, saper di poterlo riabbracciare, e in tanto non averlo in casa! Lasciò andar tutto, servizio, bucato: salì soltanto a scusarsi con la Trevisani: e partì. All'ospedale, le dissero che il direttore non c'era. Bisognava aspettarlo. Aspettò. Quanto le parve lungo e angoscioso quel tempo, Dio solo lo sa: Lui che tien conto degl'istanti dei nostri dolori. Era sola, in una vasta camera dalle pareti nude, dipinte a stampino e scolorate. Di mobili, non altro che una vecchia scrivania di noce, ormai senza lustro, con sopra mucchi d'incartamenti giallognoli e un calamaio di porcellana bianca dal piattello attaccato, tutto sbocconcellature e macchie d'inchiostro. Davanti alla scrivania, dalla parte del muro, una poltrona, egualmente di noce, a guanciale di cuoio nero, fiancheggiata d'una fila di sedie impagliate. A sinistra, uno scaffale ingombro di registri luridi, per gli anni e per la polvere. Non osando passeggiare, per il timore di fare strepito e parer troppo ardita, la Lucia stava lì immobile. Non si metteva neanche a sedere per l'agitazione, per l'impazienza che aveva a dosso; quasi che lo star lì in piedi avesse sollecitato l'arrivo del direttore. Ogni rumore più lieve, venuto di fuori, la faceva riscuotere, le rimescolava il sangue, le dava come un colpo nel petto e una stretta alla gola. Teneva fissi gli occhi su la porta: una porta mezzo sgretolata, da cui sperava, a ogni istante, di veder comparire il suo bambino. Ma il tempo passava: nulla, nulla! Dopo un gran pezzo, che a lei parve incalcolabile, l'uscio s'aperse a un signore di una cinquantina d'anni, alto, con in testa un cappello a cilindro, e tutt'insieme un aspetto burbero e confuso. Lucia lo guardava tra ossequiosa e incerta. Egli sedette nella poltrona di cuoio nero, davanti alla scrivania, e rimescolò un gran numero degli scartafacci accatastati iì sopra. Un plico, un incartamento, chi sa che cosa fosse? lo tenne particolarmente attento; sfogliava avanti e indietro le pagine, come se non trovasse quel che cercava. Finalmente alzò la faccia, ombreggiata dal cappello, e, piantando i gomiti su la tavola, mentre badava a stropicciarsi le mani all' altezza del viso, cominciò: - Mi rincresce di dovervi dare una cattiva notizia. — - Lucia lo fissava. D'un tratto, ebbe l'impressione d'una corrente fredda che avvolgesse tutta, e inghiottì a forza la saliva, che non le voleva passar dalla gola. - Proprio mi rincresce — continuò l'uomo — ma che volete? c'è stato un errore... Si son messe le corsíe sossopra, per ripulirle, e questo ha cagionato l'equivoco. Han posta la tabella d'un ammalato a capo al letto d'un altro... e... — Ella lo fissava sempre, smarrita, senza comprendere ancora, ma col presentimento di qualcosa d'orribile, di nuovo, d'ignoto, d'inaspettato. Battendo le palpebre, faceva con le labbra il movimento di chi parla, quasi avesse ripetuto a sè, in silenzio, ogni parola di lui, per meglio intenderla, per crederla. Egli riprese ancora: - E, dunque... in questa confusione, è capitata al bambino che vi avevo rimandato la tabella del bambino vostro, morto il sei di marzo, cioè pochi giorni dopo che ce lo avete portato. - Morto? — chiese lei, calma, con lo stordimento incosciente d'un bue che riceve il primo colpo mortale. - Eh sì, cara mia! Ci vuol pazienza; è stato uno sbaglio, che m'ha proprio fatto dispiacere. Adesso ci vorranno almeno quarantott'ore per rimetter le cose a posto, e farvi avere un certificato di morte in regola. — La donna pareva fulminata. Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.
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Egli fa la mia vita ricca di gioia e di sorpresa, sa soddisfare ai mille miei capricci, ed io lo ricompenso con languidi abbandoni! E il mio passato non gli dà più pena, perchè sa ch'egli solo è la mia ebbrezza!
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Sì... spesso penso quanto non sia meglio che io ti lasci... t' abbandoni... e andarmene, perduta e sconsolata, giù, giù, per la mia china!...
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E con tale limpidezza e sicurtà d'intelligenza tu abbandoni marito e figli?
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Ti abbandoni agli eventi... come me!
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. - Mi abbandoni anche tu?... - No... Completò con un gesto affettuoso le parole che le uscivano a stento. Quella scena terminava di abbatterla; era scossa fin nel midollo delle ossa. - Mi comprendi, nevvero? Dimmi che non mi credi poi tanta perversa... e che sono sempre la tua Sofia, la tua pazzerella, eh?... Abbracciami, tanto che me ne possa tornare consolata... Dammi un bacio. Le si avvinghiò com'edera, cercando le sue labbra. Maria, pur prestandosi all'amplesso, deviò leggermente il capo, così chè il bacio sonoro dell'amica, le sfiorò appena la guancia.
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Il cuore di Marta si gonfiava, pieno di tenerezza, con un bisogno di espandersi, di abbracciare, col segreto desiderio di quelle ferite per cui l'animo trabocca e dilaga in passione, deliri, abbandoni, singhiozzi, tutta la forza rinchiusa, l'intima essenza del sentimento femminile. Assetata d'amore ella disse a se stessa, stringendosi nel mantello per sentire la carezza del proprio calore. «Egli mi ama, ne sono sicura. Perchè mi avrebbe presa? Mi ama sopra tutte le donne; è mio, tutto mio!» E, sollevata, sorrise a suo marito. Alberto, che per parte sua non pensava a nulla, fu molto soddisfatto nel vedere che la sua sposina aveva un buon temperamento; questo lo persuase sempre più di aver avuto la mano felice nella scelta. La cavalla intanto, sentendo prossima la stalla, prese un trotterello giulivo. Già si vedevano da lungi i tetti del paese dominati dal campanile, e, man mano che la carrozza progrediva, qualche cascinale sparso, qualche cane che abbaiava, una fanciulla che conduceva le oche. - Sono le oche di Gavazzini - disse Gerolamo, indirizzando la sua osservazione alla signora. - Chi è Gavazzini? - È il più ricco proprietario del paese - rispose Alberto. - Tuo amico? - Non dei più intimi, ma qui si è tutti amici. Del resto egli fa vita ritirata, e sua moglie non si vede mai. Oh! un romanzo! Lei era una istitutrice, fuggirono insieme, andarono in cima di un monte a passare la luna di miele, scrissero i loro amori sulle corteccia degli alberi. Figurati, una volta si punsero apposta un dito per bere il sangue l'uno dell'altro.... quando ti dico romanzi! Marta si interessava, avrebbe voluto chiedere di più, ma la faccia di Gerolamo, che sembrava quella di un filosofo stoico in mezzo alle follie del mondo, le dava un po' di soggezione. Incominciarono le prime case allineate, coi portoni aperti, da cui si intravedevano cortili verdeggianti, gruppi di vasi, lunghi anditi freschi, riparati da tendoni a righe; una gonnella svolazzava tra due usci, un visetto curioso spuntava da una finestra, i gatti scodinzolavano sulle sedie di paglia, sbadigliando, socchiudendo gli occhi. Più innanzi, nel centro del paese, si aprivano le poche botteghe; il fornaio, il pizzicagnolo, il mercante, il tabaccaio, il calzolaio, il barbiere. - Ecco la farmacia - disse Alberto. Marta guardò. Non c'era nessuno sulla soglia; una cortina verde, strofinata e attorcigliata come una fune, lasciava scorgere nell'interno un pezzo di scansia coi barattoli di terraglia bianca e azzurra. - Ha moglie il farmacista? - È vedovo; ma la riprenderà. Che cosa deve fare? - Sicuro - disse Marta, ripetendo macchinalmente tra sè: che cosa deve fare! - Guarda la casa di Merelli; sul canto di piazza, dipinta in giallo; l'hai vista? - No, non l'ho vista. - C'era la serva davanti alla porta. - No, non l'ho vista. Ha moglie Merelli? - Sì, ha moglie. - E la casa di.... di quel signore.... quello che ha bevuto il sangue.... - Gavazzini? Ah! non è qui; è fuori di paese, isolata; più isolata ancora della nostra. - La nostra è l'ultima, nevvero? È forse questa? La cavalla rallentò, Gerolamo fece una voltata dà cocchiere esperto, e, passando da un cancello spalancato, fermò di botto nel bel mezzo di un cortile vellutato d'erba minuta, con alte muraglie imbrunite dal tempo, su cui si sbizzarriva a rabeschi una lussureggiante glicina, carica di fiori. L'aspetto generale del fabbricato e del cortile era quello di una vecchia casa borghese, comoda, dove un seguito di generazioni agiate e tranquille si erano succedute senza scosse, senza cambiamenti. Appollonia corse fuori, tutta traballante nella sua rotondità di pan buffetto, con la facciona lucida raggiante di semplicità, la bocca aperta, le mani sporche di farina. Marta, nel guardarla, non potè a meno di sorridere, e balzando lesta dalla carrozza gridò: - Buon giorno, Appollonia. Furono le prime parole che la nuova padrona pronunciò entrando ne' suoi domini. Gerolamo ammiccò segretamente Appollonia, con uno stringimento di palpebre che voleva dire: Va bene, va bene! E la grossa serva, sgangherando la bocca fino alle orecchie, mostrò di aver inteso il senso di questa affermazione. Marta non doveva dimenticare più quel momento del suo arrivo, in un ridente giorno di aprile; i grappoli lilla che fiorivano sui muri, l'erba del cortile, una pace, una serenità diffusa nell'aria, un benessere sicuro che sembrava uscire dalle muraglie della vecchia casa; perfino il volto bonario di Appollonia e il nitrito della cavalla che scuoteva il muso fine sotto le carezze di Gerolamo. Alberto, senza aspettare ch'ella si levasse il cappello, passò il braccio sotto il braccio di sua moglie e la condusse subito a visitare la casa. Niente di ricercato nè di pomposo. Una grande comodità in tutto, nella disposizione delle camere, nei mobili, negli ampi seggioloni, nei divani sparsi con abbondanza; una certa ricchezza tradizionale ma tranquilla; buoni quadri, stipi intarsiati, biancheria accuratissima, delle vecchie maioliche di famiglie. - Queste sedie le ha ricamate mia madre - disse Alberto. Erano otto sedie di legno chiaro con profili dorati, coperte da ricami a mezzo punto, bellissimi, tutti l'uno differente dall'altro. Marta le ammirò religiosamente, commossa. - Questo è il mio ritratto di quando ero bambino. Marta vi si precipitò sopra, coprendolo di baci e di esclamazioni, portandolo sotto alla finestra per esaminarlo meglio. - Come è bellino! Care queste spalluccie nude! E che occhietti! E le manine, Dio, che manine... ma avevi le mani così piccole allora? - Caspita, i bambini!... Risero entrambi, stringendosi il braccio, felici. Salirono così lo scalone che conduceva al piano superiore. - Ma è tutto bello qui, sai? - Sì, non c'è male. È comodo. Entrarono nella camera da letto. Tre finestroni la illuminavano, facendo penetrare i raggi del sole attraverso un ricco cortinaggio di stoffa a fiori sopra un fondo cilestrino. Della medesima stoffa era il parato del letto, altissimo, ampio, per metà ricoperto di un piumino di seta celeste, sull'orlo del quale ricadeva, accuratamente stirata, la trina del lenzuolo. Sulla pettiniera un'altra trina, nel festone della quale serpeggiava un nastro celeste, faceva da sopporto a un servizio di cristallo, lucentissimo. Sugli specchi, sulle cornici non si scorgeva un atomo di polvere. - È stata l'Appollonia a preparare queste belle cose? - Lei, certamente. Vi avrà impiegato tutto il tempo che ci volle a noi per percorrere l'Italia; ma infine, ognuno fa quello che può. Marta, levandosi il cappello e la spolverina, sedette sul divano che era ai piedi del letto, sentendosi finalmente in casa propria. - Oh come si sta bene qui! Tese le mani a suo marito, invitandolo a sedersi anche lui sul divano. Ora non dubitava più di essere la signora Oriani. La sua felicità doveva incominciare da quel momento; prima era stata una corsa vertiginosa, contraria all'amore. L'amore ha bisogno di un nido. Marta sollevò gli occhi, girandoli torno torno come per prendere possesso d'ogni cosa; e quando ebbe ben riguardata la camera, il letto, le cortine a fiori, fissò Alberto con un'estasi tale di riconoscenza, di tenerezza timida e ardente, che egli, un po' sorpreso, la baciò, non sapendo che dire. Ella trasalì tutta, colla speranza di una rivelazione. - O mio Alberto, mi amerai sempre, sempre? - Che domanda! - Dillo! - Ne dubiti dunque! - Dillo... - ripetè Marta, stringendosi, avviticchiandosi a lui tutta tremante, con la bocca socchiusa. Un'ondata di sangue colorì la fronte di Alberto, che rispose per la durata di un attimo alla stretta di sua moglie. Poi si sciolse, dolcemente, ravviandosi i capelli. - Andiamo - disse - non facciamo ragazzate.
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