Valli dopo valli, monti dietro monti, e sempre quello stesso spettacolo d'un bel paese che gli uomini abbiano abbandonato per effetto d'una maledizione misteriosa. E avrebbe la sua bellezza e il suo incanto anche quello spettacolo se parlasse agli occhi soltanto; ma esso dice all'animo nostro una cosa troppo triste perché la nostra immagine vi si possa compiacere con quel vago senso di riposo e d'abbandono che suol provare nelle grandi soliditudini. E quella cosa è espressa in una parola antica e pur troppo sempre viva, che riassume mille mali nell'enunciato d'un problema formidabile: il latifondo, la gran piaga incancrenita della isola. Il latifondo, che vuol dire la campagna senza case coloniche e senz'alberi, e i contadini costretti a vivere nei grandi centri, dove son sottoposti a gravami da cui dovrebbero essere esenti, e donde debbono fare ogni giorno un lungo cammino per recarsi al lavoro; il latifondo che favorisce il furto campestre, l'abigeato, il malandrinaggio, il brigantaggio, e crea una catena di parassiti sfruttatori fra il grande proprietario assente e il lavoratore abbandonato a sé stesso; il latifondo, funesta espressione economica, che, come disse un illustre statista siciliano, filtrandosi, spiritualizzandosi per lungo abito di servaggio nelle menti, nel costume, nella vita intima, separò le classi, le fortune, gli animi, e mettendo in opposizione gl'interessi dei signori con quelli del popolo, e mantenendo questo nell'ignoranza, riduce la maggioranza lavoratrice in condizioni di minoranza legale di fronte ai suoi oppressori, prevalenti nelle Provincie, nei municipi, in tutte le rappresentanze pubbliche, e quindi padroni d'ogni cosa, tiranneggianti a loro beneplacito e perpetuatori della miseria. Voilà l'ennemi! come disse Gambetta. E i quarantasei anni trascorsi dopo l'unificazione d'Italia non l'hanno punto smosso dalle sue fondamenta secolari. La vendita dei beni ecclesiastici, che pareva gli dovesse dare un crollo, non fece per contro che favorirlo, poiché di quei beni s'impinguarono la borghesia e l'aristocrazia, creando un nuovo feudalismo terriero in aggiunta all'antico, abolito soltanto di nome nel 1812. Il tentativo di riforma fatto dal Crispi si spezzò contro un'opposizione minacciosa dei grandi interessati, veri sovrani dell'isola. Nessun'altro uomo di Stato ebbe poi il coraggio di ritentare la prova. Prima cura d'ogni Governo è di reggersi in piedi, e per reggersi hanno tutti bisogno d'essere sorretti dai potenti. E le cose non muteranno fin che non siano diventati potenti i deboli, fin che il numero non sia anche la forza. Ma quando sarà mai, se la forza non è possibile senza la concordia, e la concordia è tanto difficile nell'ignoranza, e riesce tanto facile ai padroni seminar la divisione fra i servi? Ma ecco uno spettacolo che rompe come per magìa il torso dei pensieri malinconici. Lontano, nel cielo sereno, un'enorme piramide azzurra s'inalza, solitaria, stendendo così largamente i suoi fianchi da parere che ricopra una provincia intera; una montagna che dà l'immagine d'un mondo; un prodigio di bellezza e di maestà, che vi fa aprire la bocca come per lanciare un grido d'ammirazione. Una nuvola bianca la corona; un manto candido veste la sua sommità e si rompe più sotto in una quantità di strisce simmetriche scintillanti che somigliano alle frangie di un immenso velo di trina ingemmato; in giro alle sue falde si stendono vaste macchie bianche, che paiono strati di neve, e grandi macchie oscure, che sembrano ombre dense proiettate da nuvole invisibili. E via via che il treno le si avvicina, la montagna par che si dilati e imbellisca: le macchie bianche sono città e villaggi, le macchie oscure sono boschi, aranceti e vigneti; da ogni parte sorgono ville, fioriscono giardini, s'aprono strade, corrono acque, sorride la fecondità, splende la vita. Che maravigliosa sorpresa e che gioia dopo quel lungo viaggio a traverso ai latifondi disabitati e alla triste regione zolfifera! - Ecco l'Etna! - mi dice un Catanese, mio compagno di viaggio -; ecco la nostra gran madre benefica e sovrana tremenda!
Stupido, stitico, insonne, abbandonato di forze, egli sembrava destinato a morire di tabe. Ma una mattina, dopo aver finalmente dormito, sente desiderio di una presa di tabacco; si risveglia, si mette al tavolino: impugna la penna e scrive le Voci e maniere di dire additate ai futuri vocabolaristi. Ma se da questa malattia l'intelletto parve sortirne avvalorato, il fisico serbò amaro ricordo. " Dopo sette anni ebbe una ricaduta col medesimo sopore profondo, perdeva l'orina, e le fecce, bisognava nutrirlo artificialmente, non deglutiva più, gli colavano le bave, e dopo un anno e mezzo che dava di sè questo spettacolo straziante, tutto d'un tratto gli si riaperse la mente e comincio a scrivere un'altra opera, la Lessigrafia e il supplemento ai vocabolari. Dopo sette anni ebbe ancora un terzo accesso, ma questa volta il dottor Gherardini aveva 77 anni, e gli mancarono le forze per una terza risurrezione.
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Ma l'uditorio capisce subito che avete abbandonato il terreno volgare dei manuali per lanciarvi nelle sfere superiori della scienza; e ve ne accorgete dal fatto che tutti gli occhi vi guardano più intenti e che la scolaresca è divenuta più immobile. Chi vi ascolta partecipa alla vostra emozione, perchè egli sente che attinge alla fonte donde scaturisce una nuova dottrina. Egli comprende che la trepidazione vostra non nasce dalla incertezza del pensiero, che anzi vi anima e vi trascina la foga delle idee, e che cercate solo la forma più esatta per rivestire i vostri concetti, per abbellire colla parola un pensiero lungamente accarezzato. Sono queste le ore che vi ringiovaniscono, in cui sentite il fuoco sacro della scuola; in cui avete la certezza che nessun trattato, nessun libro può supplirvi ed eguagliarvi nell'efficacia dell'educare. I concetti, le idee nuove espresse da voi in quel momento, dalla voce che sentite risuonare nell'aula, dischiuderanno nuovi orizzonti nelle menti dei giovani che vi ascoltano, e dureranno in alcuni di essi come un ricordo affettuoso per tutta la vita, e vi rallegra la speranza, che forse da una di quelle fronti giovanili irradierà la gloria, alla quale voi avete aspirato invano.
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Anche quando uno di essi si allontana, la sua immagine morale rimane al posto abbandonato; e l'amico la contempla con lo spirito, l'accarezza come si accarezza una cosa viva, la bacia con trasporto e ne sente il tiepido calore che emana solo dalle cose vive e da quelle che sono amate. Questo è l'affetto che lega due persone nel santo nodo dell'amicizia. Come l'età, così la soverchia distanza morale o intellettuale può frapporre un ostacolo insormontabile a ravvicinare due in modo da farne due amici. Qui però la difficoltà è minore. Ora lo sguardo affascinante del genio può a poco a poco avvicinare a sè un uomo che si trovava lontano e perduto nella folla; mentre altre volte la tiepida e profumata emanazione, che spira da un cuore sublimemente delicato, ravvicina a sè il cinico che cammina per vie battute e solo. Questa è anzi una delle forme più perfette e ammirabili dell'amicizia.
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La figura di quel povero innamorato che s'allontanava per il passaggio coperto, rimase legata nella mia memoria a un aspetto nuovo del mare e del cielo, che s'erano schiariti dopo l'acquazzone: il cielo tutto a grandi squarci d'un screno purissimo, come lavato e rinfrescato, e corso da nuvole inquiete; il mare verde per vasti spazi, fra i quali si stendevano larghe strisce d'un azzurro cupo; in modo che pareva di vedere una prateria immensa, dove s'intersecassero canali smisurati, colmi fino agli orli; e si aveva l'illusione strana d'essere entrati in un continente metà terra e metà acqua, abbandonato dagli abitanti sotto la imminenza d'una inondazione, e veniva fatto di cercar cogli occhi all'orizzonte le punte dei campanili e delle torri, come nelle grandi pianure dell'Olanda. E poi, essendosi increspate alquanto le acque, che diedero a quel verde l'aspetto d'una vegetazione più forte, l'illusione mutò, e mi venne alla mente quell'ampio spazio d'oceano, coperto d'un fitto tappeto d'alghe, di fuchi natanti e di traghi del tropico, che impigliò per venti giorni le navi e spaventò i marinai di Colombo. Alcuni uccelli bianchi rigavano il cielo, lontano; il sole faceva scintillare qua e là come delle isolette coperte di smeraldi; e nell'aria spirava un tepore di primavera, in cui pareva di sentire delle fragranze terrestri, che parlavano all'anima, come un'eco di voci lontanissime, portate dai venti della pampa.
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L'immagine vivente del loro stato d'animo erano quei due vecchi contadini del castello di prua, marito e moglie, che anche allora stavano seduti accanto sopra due bitte, con le braccia incrociate sulle ginocchia e il capo abbandonato sulle braccia, mostrando i colli magri e rugosi, che raccontavano cinquant'anni di fatiche senza compenso. Mentre stavo guardandoli, una donna incinta cadde in deliquio, sopra i coperchi vetrati della boccaporta del dormitorio, arrovesciando la faccia bianca tra le braccia delle vicine. E subito corsero cento voci: - È morta una donna, - è morta una donna. - Io me n'andai.
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E tutti quei sacchi si sarebbero sparpagliati fra pochi giorni dalle foci del Plata ai confini del Brasile e della Bolivia e fino alle rive del Pacifico e nell'interno del Paraguay e su per i fianchi delle Ande, a suscitare allegrezze, rimorsi, dolori, timori; i quali poi, alla volta loro, pigiati in altri sacchi, avrebbero fatto in direzione opposta il medesimo viaggio, ammucchiati in un altro camerino come quello, dove avrebbero visto passare altre processioni di povere genti, che se ne ritornavano al mondo vecchio, forse meno poveri, ma non più felici di quando l'avevano abbandonato con la speranza d'una sorte migliore.
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Non si può dire l'angoscia e l'avvilimento di quella povera gente, che dopo aver abbandonato l'Europa, si credevano respinti dall'America, come inutili carcasse umane, neanche più buone a ingrassare la terra, e già immaginavano un viaggio di ritorno disperato alla patria, dove non avevano più affetti, nè casa, nè pane. Il Commissario cercava di persuaderli, che non s'era nell'Argentina, ma nell'Uruguay, che i loro parenti si sarebbero presentati a Buenos-Aires, dall'altra parte di quel fiume che vedevano, che si rassicurassero, che s'angustiavano senza perchè. Ma quelli non intendevano ragione, erano come istupiditi dall'affanno, e parevano anche più miseri e più infelici in mezzo all'allegrezza chiassosa dei giovani che ogni momento li urtavano, passando, e gridavan loro nell'orecchio: - Allegri, vecchi! - Viva la repubblica! - Viva l'America! - Viva la Plata! Stentai a liberare per un momento da loro il Commissario, per salutarlo, e da lui ebbi ancora notizia del giovane scrivano, il quale, disperato di doversi separare dalla genovese, che sbarcava a Montevideo, era stato preso da un accesso di convulsioni e metteva sottosopra il dormitorio. Poi andai a salutare gli altri ufficiali, che avrei riveduto di là a due mesi a Buenos Aires, dopo altre due traversate dell'oceano. Volli anche salutare il mio povero gobbo, che trovai sulla porta della cucina, con una padella alla mano. - Oh! finalmente! - esclamò, tirando un respiro di soddisfazione, - ci avremo ora dozze giorni senza donne! - Eppure - gli dissi - voi finirete con pigliar moglie. - Mi - rispose, toccandosi il petto col dito - piggià moggê? - Poi in italiano, con una curiosa intonazione declamatoria: - Questo non sarà giammai! - E mi soggiunse nell'orecchio, contento: - Dozze giorni! - ma vedendo avvicinarsi il comandante, disse in fretta: - Scignoria, bon viaggio! - e strettami la mano, mi voltò il popone, e scomparve.
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Ed ora naturalmente è l'egregio avvocato, che è rimasto abbandonato, a dover cercare di attirare a sè un'altra damigella ». E così via. Se dovesse capitare al cavaliere che cerca col suo sguardo di attrarre a sè una dama, che invece di questa gli si slanci un'altra che egli non intendeva, egli può rapidamente voltare la sedia osservando che il suo sguardo non era rivolto a lei. Certo questo rifiuto... poco cavalleresco... non dovrebbe esser fatto che fra persone che ben si può essere convinti che non abbiano a dolersene o ad offendersene e piuttosto il cavaliere farà bene di far buon gioco a cattiva fortuna ed accettare la damigella che gli è piovuta dal cielo piuttosto di scatenare un temporale. Il gioco può essere anche invertito e mettere seduti in circolo i cavalieri, mentre resta alla dama che ha davanti a sè la sedia vuota di invitare con gli sguardi più soavi il cavaliere che consoli la sua solitudine. E qui è ben più facile che la dama abbia a... voltare la sedia... rifiutando il cavaliere non chiesto con i suoi sguardi, poichè i cavalieri in generale sono meno permalosi e non si offendono facilmente per un rifiuto mormorato da due labbra dolci. Chè anche di fronte ad un rifiuto il cavaliere deve comportarsi come tale e far buon viso ad avversa fortuna.
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Vi è un altro modo di togliere la chiave dallo spago senza mai lasciar abbandonato lo spago e lo dimostrano le 4 figure che riproduciamo.
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In séguito, non solo non risi più, ma neppure mi stupii vedendo un vecchio, un deforme, un abbandonato rannicchiarsi nella compagnia d'una bestia come in un asilo sicuro, dimostrare alla semplice creatura, con mille cure che a prima vista parrebbero ridicole, la riconoscenza per la sua fedeltà, per la sua lealtà, per la sua piena fiducia, per queste virtù che solo può apprezzare, sia pure in una bestia, chi ha conosciuto l'ingiustizia, l'inganno, l'abbandono di esseri umani. Non dovete dunque, figliole mie, schernire la vecchia che ripone il suo ultimo conforto in un gatto, lo sciancato che ha l'amico più fedele in un cane:come non schernireste chi, avendo mozzata una gamba, adopera le grucce, o, essendo muto, si serve de'gesti per farsi capire. Riprovate, invece, in cuor vostro, chi tratta le bestie meglio che i cristiani, e a questi rifiuta villanamente ciò che a quelle dà in abbondanza. Ricordate?
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Se l'orfanello abbandonato, la vedova derelitta e il vecchio curvo sotto il peso degli anni e delle infermità, ci stendono le braccia scarnate dalla miseria, non chiudiamo le orecchie ai gemiti della povertà dicendo come molti usano: Chè non vanno al ricovero? Ricordiamoci piuttosto che vivendo in Società non possiamo esimerci dall'obbligo della carità, che nessuno è così povero che non vi possa soddisfare. La carità, dirò con GIULIANO, è la prima delle virtù che rendono gli uomini somiglianti agli dei: « Il genio della « carità ha sempre ispirato il cuore degli italiani anche nei foschi tempi in cui « parvero da ogni altro genio abbandonati. » La vita e l'anima dell'Italia, disse MOREAU CRISTOPHE, stanno nei suoi istituti di beneficenza. Se un uomo è da altri accusato, non siamo troppo pronti a giudicarlo, senza sentirne la difesa; se è veramente colpevole, usiamogli la carità di ammonirlo e procuriamo d'indirizzarlo nella via della virtù. Se è dubbioso o ignorante, siamogli cortesi dei nostri consigli; se è brutto o difettoso di corpo, apprezziamo i pregi del suo spirito, e compatiamo i difetti della natura. Pur troppo tutti i giorni vediamo, deridere e disprezzare un tale, perchè gobbo, altri perchè di deforme o misera apparenza; ecco un contegno degno di biasimo e che nota in chi lo fa povertà di spirito e la più completa ignoranza del come si debba stare in società, perfetta mancanza di galateo. Così pure veniamo meno a noi stessi ogni volta che cerchiamo per noi soli i comodi della vita, quando gelosi del nostro bene serriamo nel nostro cuore la gioia, e invidiosi del bene altrui, ci affatichiamo di turbare la pace del nostro prossimo.
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Poi, come tutte le cose di moda, l'uso si venne rarefacendo, fin che fu quasi completamente abbandonato . Qualche anno fa, tutto il campo grammaticale-letterario fu messo a rumore per l'abolizione del lei. - Chi voglia essere informato delle ragioni che militano per l'uso o contro l'uso del tu, del voi e del lei, legga il grazioso dialogo del Baretti fra i tre pronomi personali. Si disse, dunque, che era strano ed illogico rivolgere il discorso a persona presente col pronome di persona assente, oltre che era - l'uso del lei - un inutile esotismo. Ma si contrappose che era un esotismo anche l'uso del voi; ed era altrettanto strano ed illogico rivolgere il discorso a una sola persona col pronome che ne indica di piú. Il tentativo fascista di sostituire il lei col voi ebbe qualche successo nelle relazioni ufficiali, perché ripetutamente e minacciosamente imposto: caduto il fascismo, son tramontate, con tutte le altre, anche le innovazioni nel campo grammaticale. Senza dubbio, molto meglio sarebbe che si adoperasse la sola seconda persona singolare. Forse, da principio, stenterebbe ad assuefarsi l'orecchio - e la lingua - alla grande novità; ma stenterebbe per poco; perché, del resto, siamo già abituati, attraverso i classici, a sentire il « tu » sulle labbra del popolano di Roma, sia ch'egli si rivolgesse all'amico, sia che si rivolgesse a un senatore, a un pontefice o all'imperatore. Nelle relazioni sociali, si può passare dal lei al tu, quando si desidera stabilire rapporti piú cordiali, piú confidenziali e quasi amichevoli: il che è prudente fare soltanto quando la conoscenza è divenuta, direi quasi, piú ampia e piú profonda. E siccome può anche darsi che sia uno solo dei due a voler questo, è bene andar motto cauti; non foss'altro per evitare l'affronto di sentirsi ancora opporre al tu confidenziale il lei, piuttosto compassato e freddo. Non sbaglia chi attende che l'iniziativa sia presa da chi è, o si crede, piú in alto o piú autorevole: per quanto, anche in questo caso, sia meglio che l'inferiore, pur grato del tono confidenziale, continui ad usare il lei. Se una persona con cui si era in rapporti confidenziali sale di qualche gradino e diviene superiore, è opportuno, per quanto sembri strano, passare con lei dalla seconda singolare alla terza: ciò sia come riconoscimento della autorità, sia perché a me pare buona regola di vita non cercar di superare in alcun modo le distanze gerarchiche. Mal fatto sarebbe se una tale iniziativa fosse presa dal superiore; il quale, invece, deve insistere perché continuino le relazioni amichevoli. Mi par qui necessario ricordare ancora l'uso del signore. Non è uno scimmiottare i Francesi metterlo sempre dopo i monosillabi di affermazione e di negazione. Che volete vi dica: quando sento pronunziare un sí o un no secco, provo subito l'impressione di trovarmi di fronte a una persona poco fine: mi par che il sí, signore; sí, signora; sí, signorina conciliino simpatia, e che il no, signore; no, signora; no, signorina, attenuino quel non so che di aspro che quasi sempre contiene la particella negativa.
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Quest'uso è preferibile all'altro, più antico e ormai quasi abbandonato, del pranzo di nozze. Una lunga seduta a tavola male si addice a persone, quali gli sposi e i loro genitori, che hanno passato una mattinata piena di emozioni dolci ma gravi, e che hanno in cuore il pensiero doloroso del prossimo distacco. Una colazione richiede tempo e fatica minori, e si svolge con più comodità. Essa si fa generalmente nella casa della sposa; ma oggi si usa anche farla in un locale pubblico, in un albergo o in un ristorante; e bisogna convenire che un tale uso, per quanto poco simpatico, offre vantaggi non trascurabili, togliendo ai parenti della sposa, affaticati e preoccupati da tante altre cose, una causa di nuove e non lievi fatiche e preoccupazioni.
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Lascia alle signorinette analfabete che hanno abbandonato la scuola Berlitz dopo la prima lezione, le espressioni «one, two, three». 4°: La carta chiamala carta, e non «cartolina» o «Carolina», e non abbandonarti alle ilari forme di goffaggine dei giocatori di bassa lega nel quarto d'ora di fortuna. Contro la volgarità: 1°: Conserva la tua impassibilità quando perdi e non arrabbiarti contro chi vince. 2°: Quando sei in vincita, non avere un tono canzonatorio verso chi perde. 3°: Durante la serie sfavorevole, non sbattere rabbiosamente le carte. Le carte sono irresponsabili, e il più delle volte le ha pagate il padrone di casa. 4°: Alla resa dei conti non intascare trionfalmente il denaro vinto come se gli altri avessero cercato di derubarti e tu avessi sventato la congiura; se hai perso, non buttare al vincente il denaro come gli antichi principi buttavano la borsa di zecchini al sicario. 5°: In tutte le circostanze del gioco rimani imperturbabile, tanto se ti propongono di continuare, quanto se ti propongono di sospendere. Non agitarti per andartene quando sei in vincita, non mercanteggiare i minuti nella suprema speranza di rifarti. 6°: Non fare gesti cabalistici contro la iettatura. Non attribuire, con vaghe allusioni, la tua « guigne » all'influenza malefica di questo o di quel partner. 7°: Se un bluff ti è riuscito, non mostrare orgogliosamente le tue carte: questo atto significa: «vedete come sono furbo? Io non avevo niente e voi, pusillanimi, ci siete cascati». 8°: Se il bluff non ti è riuscito, non arrabbiarti con gli altri, perchè questo li farebbe ridere, né con te stesso, perchè ciò aumenta pericolosamente la tua esasperazione. 9°: Evita le frasi-termometro, denunciatrici della tua volgarità mentale. «Fortunato al gioco sfortunato in amore» è un proverbio stupido come la maggioranza dei proverbi che hanno avuto successo (infatti lo si trova in tutte le lingue del mondo). Non dilatarlo fino alle triviali illazioni: «Chissà come mi è fedele mia moglie» quando perdi, e «Chissà con chi mi tradisce» quando guadagni. Il gioco sia pacifico e taciturno. Le parole si riducano allo strettamente necessario. In quella tremenda e interminabile partita a poker che è la vita si debbono applicare le stesse norme che ho dettato ai giocatori. E soprattutto l'ultima, quella che riguarda l'impiego minimo di parole, la soppressione delle frasi superflue. Un importuno, dopo aver seccato Einstein per tutta una sera, pregò lo scienziato di tracciargli, in termini matematici, la formula della felicità. Einstein prese un lapis, scrisse: «a = x + y + z» e spiegò: - a è la felicità; x è il lavoro; y è la ricchezza. - E z? - domandò lo scocciatore. - E' il silenzio - rispose Einstein.
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Spigliato e vivace è invece il movimento delle due mani aperte dal basso verso l'alto delle donne francesi per dire che hanno «balancé» l'innamorato che cominciava a essere attaccaticcio o che hanno abbandonato per sempre un proposito, un programma o una carriera. In fondo non si tratta che della posizione delle mani, ma fra il gesto teutonico e quello francese c'è la differenza che corre fra il brutale «Diktat» del quartiere generale prussiano e il sorriso di una mannequin di Christian Dior. Sedersi. Se la donna è bassa di statura, eviti le sedie alte. Quelle gambette che oscillano comicamente dall'alto di uno sgabello di bar le conferiscono un'aria di marionetta. Cerchi le sedie basse, butti sul tappeto un cuscino, o si collochi sopra un'ottomana, ma non faccia ciondolare le gambe. Gli uomini non avvolgano i piedi come gli acrobati sospesi al trapezio intorno ai piedi della sedia. Accavallare le gambe è facoltativo per le donne; incrociarle obbligatorio. Il sedersi sulle tavole o il cavalcare «all'amazzone» i braccioli delle poltrone pretende ostentare una certa disinvoltura, ma l'ostentazione di disinvoltura è una confessione di timidezza. Utilissima, per l'educazione del gesto, è una scuola di danza. Abituando l'orecchio alla disciplina del ritmo, i movimenti si misurano e si controllano: e il dover interpretare con gli atteggiamenti del corpo il significato della coreografia, conferisce al gesto un'assidua coordinazione con la parola. Nessuna donna cammina con tanta grazia come le danzatrici classiche; nessuna donna si siede dignitosamente e castamente come le attrici. Osservatele. Esse non piombano violentemente sulla sedia; non cercano col corpo il sedile; non si muovono come i cani che si scavano una nicchia nella paglia. Le attrici incrociano le gambe, ne flettono una, scendono lentamente verso il sedile; senza lasciarsi cadere. Obbediscono alla forza di volontà, non alla forza di gravità. Né il proprio corpo né gli oggetti debbono essere buttati. Gli oggetti si posano. Anche un mozzicone di sigaretta, an- che il nocciolo di un'oliva. Ricordate il verso di Baudelaire nel sonetto «La Beauté»: io odio il movimento che sposta le linee : «Je hais le mouvement qui déplace les lignes:...» e non dimenticate che nella Francia degli ultimi grandi Re, alla corte di Versailles, quando si ordinava a qualcuno di chiudere una porta, gli si diceva : «conduisez cette porte», conducetela, accompagnatela. Si deve «accompagnare» la porta, e non sbatterla, anche quando la chiudiamo in faccia a qualcuno o quando la chiudiamo per sempre dietro di noi.
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Al cinquantaseiesimo il pubblico è stanco; metà del pubblico ti ha già mentalmente abbandonato da un quarto d'ora. 9°: Esigi che accanto a te non ci siano lampade; dànno fastidio. Che la sala sia illuminata in pieno e che sulla tribuna o sul palcoscenico si diffonda una luce discreta. Tu devi vedere il tuo pubblico, per metterti in sintonia con lui, per dare a te stesso la sensazione che tu sia il suo interprete, che tu non gli tenga una lezione, ma gli faccia delle amichevoli confidenze. 10°: Non credere agli applausi che, partiti da un piccolo gruppo o da un parente isolato, si sono estesi faticosamente alla sala. Sono applausi autentici quelli che esplodono collettivamente e non ti permettono di finire la frase. Tutto il resto è usanza mondana, accettazione sociale, «tanto non costa nulla». 11°: Quelli che poi ti diranno che è stata «un'ora di fine godimento spirituale» sono tutti bugiardi. 12°: Le conferenze sono un castigo di Dio. Il solo momento emozionante è quando l'oratore dice: «Ma non voglio abusare della vostra pazienza e mi affretto a concludere».
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In certe ferrovie della Germania d'anteguerra c'era un carrozzone di prima classe destinato ai viaggiatori che non volevano essere molestati da colui che chiede un fiammifero o lo offre, da colui che tenta di iniziare una conversazione, da colui che allunga la mano sul giornale abbandonato dal viaggiatore di fronte. Carrozzone riservato, in poche parole, a coloro che chiedono al prossimo semplicemente la pace e il silenzio. Nel più grande elegante, e moderno albergo del mondo, il «Provincial» di Mar del Plata, accanto alla sala da pranzo immensa, che può ospitare un migliaio di commensali, c'è un salone un po' più piccolo, dove prendono posto le famiglie in lutto, la gente dai nervi esauriti, gli ecclesiastici, coloro che apprezzano i vicini silenziosi, i camerieri taciturni e il maître d'hôtel che viene solamente quando è chiamato, non dà consigli, non impone la sua volontà. Mi pare questo un sensibile progresso nella psicologia applicata. Non so se avrà imitatori. Anzi, temo di no. Nonostante la lotta che si conduce contro i rumori, contro il parassitismo acustico delle grandi città, mi pare che il non saper collocarsi dal punto di vista del prossimo renda difficile questa nobile campagna, e credo che gli effetti li vedranno i nostri tardi pronipoti. In treno è facile incontrare uno di quegli sciagurati buontemponi provvisti di quei maledetti apparecchi radio ad accumulatore, che, essendo portatili, se li portano dappertutto, e per tutto il viaggio appestano di suoni e di fischi, di pubblicità e di canzoni della loro onda preferita i quarantotto viaggiatori seduti che hanno voglia di leggere o di dormire, e i ventiquattro viaggiatori in piedi che già innervositi dallo stare in piedi, si sentono i nervi sfilacciati per l'esasperazione da quelle notizie che non li interessano o da quella musica classica alla quale preferirebbero una «milonga», o da quel «bolero» al quale preferirebbero una messa di requiem. Ma il proprietario dell'apparecchio portatile è convinto di fare un piacere ai 24 signori in piedi e ai 48 seduti. E' un delfino che lavora all'ingrosso.
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Però quest'uso, nato pochi anni sono, è già quasi abbandonato. Ed infatti, perchè voler fare da sè, e mettere da parte i genitori, che hanno sempre annunciato loro i matrimoni dei loro figlioli? Sembra che gli sposi si vogliano emancipare con quelle carte da visita personali. Si emancipano già col matrimonio; perchè togliere a genitori quell'ultimo atto di tutela, che non impone nessun vincolo, ed è un segno di rispetto? Io lascerei le carte da visita alle vedove ed alle zitellone orfane. Ma finchè una sposa ha i genitori, qualunque sia la sua età, sono loro che la maritano, è da loro che lei riceve la mano dello sposo che ama..., o che non ama; e tocca a loro annunciarlo alla società.
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Dovrà alzarsi, ed accennando in atto di offerta il sedile abbandonato, andar subito a sedere presso sua madre. È affatto provinciale l'usanza di certe signorine, di offrire alle figlie delle visitatrici di passare in un'altra stanza, o di andare con loro al balcone. Questo fa supporre discorsi secreti, che offendono le mamme, e fanno torto alle signorine. L'uscire sul balcone poi, perchè sono signorine, mentre le signore rimangono in sala, vuol dire: -"Dacchè non abbiamo ancora trovato un cormpratore, andiamo a metterci in mostra; chi sa?" Se la signora di casa è una di quelle adorabili padrone attempate, che amano la gioventù, e la trattano con quell'aria di dolce protezione che invita l'affetto, una signorina farà bene a porgere il volto in atto di domandare un bacio nel congedarsi. Altrimenti cercherà, nello stringerle la mano, di accentuar molto l'inchino, in modo di escludere quel che c'è di confidenziale in quell'atto. Se una signorina non ha madre, e fa o riceve visite colla istitutrice, deve lasciare a lei il posto alla destra del camino o del divano, con quella deferenza che è sempre dovuta da una giovinetta ai superiori. Però sarà lei che osserverà che la visita fu breve quando una signora si alza per congedarsi, e che insisterà presso le persone intime, perchè si trattengano più a lungo. In tali circostanze, se c'è qualche invito affatto privato e confidenziale (non potrebbero essere differenti, perchè in una famiglia senza signore non si fanno inviti), toccherà alla signorina il farlo. Potrà benissimo pregare un'amica di rimanere a pranzo, o a passare la sera; o di andare in campagna con lei. Ma non mancherà mai di dire che farà molto piacere anche al babbo ed all'istitutrice; e pregherà questa di unire le sue insistenze alle proprie, affinchè la povera signora, condannata dalle circostanze a vivere in una casa che non è la sua, non se ne senta troppo estranea, e messa da parte. Gli stessi riguardi dovrà usare ad una zia, o ad una parente qualsiasi che vivesse con lei.
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La mezza bottiglia diventa con la sua compagna una bottiglia intiera, poi arrivano le sorelle a tener compagnia, e in capo a qualche ora, eccovi briachi fradici, incapace di trascinarvi a casa, giacché l'ubriaco ha questo di buono che si rende peggiore di un bruto, il quale anche abbandonato a se stesso trova la via del covile e della stalla, e l'ebbro non è più capace di trovare la strada che mena al suo abituro. E quel che ho detto del vino, applicatelo, operai, al giuoco e alle altre passioni, le quali sono simili a quegli ingranaggi che osservate nelle officine in cui andate a lavorare. Guai a chi si lascia cogliere per una falda dell'abito, per una punta delle dita. La macchina lo abbranca, lo trascina, lo schiaccia e lo rigetta a brani dalle sue viscere micidiali. La passione, quando riuscita a penetrare in un cantuccio dell'anima, tutta la invade, la avviluppa e la soffoca nelle sue spire, né più la respinge finché non l'abbia priva di ogni palpito generoso, di ogni nobil sentire, finché non l'abbia, come quella macchina di cui v'ho parlato, ridotta a brandelli. Un francese ha detto argutamente: Rien n'est bête comme un homme en ribote. Ma oltre al mostrarsi imbecille, un operaio dedito alle orgie si mostra anche crudele, poiché fa strazio d'ogni soave affetto di famiglia di patria. Esso dà una smentita a quel proverbio che dice «che il pensiero della casa, della moglie, dei figli trattiene l'uomo dal commettere il peccato».
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No, non lasciate la casa allorché un de'vostri muore; non lasciate ad altri il compito di comporne le reliquie; il coraggio che voi spiegherete in tale circostanza, coraggio che il vostro affetto dovrebbe essere sufficiente ad ispirarvi, vi risparmierà in parte lo strazio che vi attende al rientrare dopo alcuni giorni in quella stanza deserta; né sentirete al cuore quello schianto che voi dovreste provare dando uno sguardo a quel vuoto letto; né vi stringerà il rimorso di aver vigliaccamente abbandonato colui al quale era debito vostro sacrosanto, prima che lasciasse per sempre la vostra casa, porgere l'estremo saluto.
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Oh morti nella vita: crudeli abbandoni, malattie insanabili, reclusioni eterne, chi potrà pronunciare verso le misere anime che ne sono vittime innocenti la parola che piega alla rassegnazione, che affranca, che rinnova l' esistenza La sposa di un demente il quale non lascierà più il triste asilo della follia; la moglie di un condannato a vita; la donna che il marito ha abbandonato per vivere con un' altra, debbono considerarsi vedove, ma senza quella libertà di sentimento e di atti che dà alla vedova l'indipendenza e il diritto di profittarne. La loro posizione è quindi sommamente difficile, estremamente dolorosa. Sono come esseri condannati a vivere incatenati ad un cadavere... Si può immaginare più spaventoso supplizio ? Eppure l'anima di queste donne si trova in tali tragiche condizioni. Se amano ancora il loro compagno diviso da esse dall' infermità, dal delitto, dal tradimento, che esistenza può essere la loro, rôsa dalla disperazione contro l'irrimediabile; dalla passione, dalla gelosia: col dardo avvelenato di un pensiero, fisso nell'anima, col rimpianto del passato, l' orrore dell' avvenire ? E se le lusinghe di un secondo amore le ha attratte, un amore insinuato sotto le forme della pietà, della consolazione, della rinascita, immaginate voi le lotte, gli spasimi di questo amore, che per una natura nobile e retta appare come una profanazione, come un tradimento, come un peccato? Giacchè la società si mostra indulgente per le mogli ideali che sanno astutamente conciliare le apparenze dell'armonia coniugale con la sostanza dell'adulterio nella sua forma più bassa ; ma è pronta a scagliare i suoi anatemi e i suoi biasimi severi sulla donna che il cattivo destino ha condannato alla solitudine e che affranta dalla stanchezza, terrorizzata dalle vertigini del vuoto, si afferra al primo sostegno che trova per non precipitare, per non morire. Triste, triste sorte: la più degna del conforto, dell'affetto, del soccorso dei buoni. Se non possiamo o non ci sentiamo capaci di fare altro, piangiamo con queste meschine : anche il pianto ha una virtù benefica — lo disse pure il Foscolo: « Le lagrime d' una persona compassionevole sono per gli infelici più dolci della rugiada sull' erba ormai appassita ››.
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Chiuso e abbandonato sulle ginocchia o sul parapetto del palco dice: « Il mio cuore è morto, non vi amo più.... »
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Gli alti fusti e gli edifici recenti male mi sopportano e non hanno bisogno di me per sostegno, io preferisco te che sei debole, te che tutti hanno abbandonato — te, che sei coraggiosa e ancora t'ergi dopo tante offese e tante vicende. E quand'anche di te non rimanesse pietra su pietra, io continuerei a effondere sul luogo ove esistesti le mie rame fresche, che gelo o sole non ingiallisce e a tener viva agli obliosi la memoria di te. » Questo si dicono l' edera e le rovine ; e parole presso a poco uguali sono forse scambiate fra qualche creatura caduta nella più profonda abbiezione, dal fondo d' un carcere, d' un luogo di vergogna, d' un rifugio, con l' ultima onestà con cui è ancora in contatto, l' ultima voce che le dice parole di speranza e di pietà : — forse una pura figurina di vergine cinta del mistero delle bende ; forse una virilità onorata e austera che segue la sua missione di luce e di bene.
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Comunque, se qui c'è un idolo, nelle vicinanze ci deve essere qualche tempio abbandonato... Infatti, mi sembra di vederne la sagoma nel buio... Sì, sì, è proprio un tempio incas... Cosa ne dite, capitano? Potremmo rifugiarci lì, per questa notte..." "Dico," rispose il capitano Squacqueras "che sarebbe bene andare subito specialmente se, come dite voi, il tempio è abbandonato... Non sarà facile trovarne un altro da queste parti e poi, come dice il proverbio? Chi ha tempio, non aspetti tempio..."
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V'è una certa tristezza nella consueta tranquillità cittadina, una certa monotonia nella quotidiana vicenda delle sue costumanze, una noia negli spassi, un' inerzia nella vita, che talvolta ti par di trovarti solo e abbandonato in mezzo alla frequenza della gente, e ti stanchi di vedere il malcontento in seno della ricchezza: da una parte l'orgoglio e il disprezzo dall'altra; dappertutto, l'abitudine e l' indifferenza per quanto ti s' agita o muta d' intorno. Al principio dell'inverno poi quando il cielo non ha sole e la terra non ha altro che nebbie e fumo, è una scena a cui l'anima immalinconisce e si fa grave e noiosa. Le vie spesseggiano di popolo, ma son taciturne; è un andare e venire, un mischiarsi, un incontrarsi da ogni parte; ma ciascuno cammina per le faccende sue; o se non ha faccende, s' accontenta di badare a quello che altri fa o dice. La scena poi è sempre la stessa: è il fanciullo che ora a ritroso, or saltelloni s' avvia alla scuola, col fascetto de' libri su d' una spalla e il pigro servo o la finite brianzuola che gli tien dietro; è l'onesto impiegato che col lento usato passo s'incammina all'ufficio per la strada da vent'anni battuta, chiuso nel pastrano di panno turchino e col fido ombrello sotto l'ascella; il solito gruppo de' lettori d'affissi alle cantonate, il fattorino che torna zufolando alla bottega, la femminetta devota, o la vecchia dama, seguita dal servitore in livrea e con l'astuccio degli occhiali e due grossi libri fra mano, le quali spesseggiando i passi vanno alla messa della parrocchia; è l'ozioso che girando a zonzo arresta tutti gli amici e i conoscenti in cui s' imbatte, o dà gli occhi entro ogni bottega, o numera le finestre d'ogni nuova fabbrica; è il giovine signore che dall'alto cocchio inglese balza su le soglie del palazzo di qualche eletta contessa, lasciando al valletto di dieci anni le briglie de' focosi puledri. Pure, nella città è un bel vivere per tutti: Ben so che spesso bisogna vedere e tacere, mordersi la lingua o far orecchie di mercante; so che bisogna sorridere a tanti amici di cappello, accarezzare coloro che ti stanno di sopra, e quelli stessi che t' invidiano; guardare, confuso nella folla, il traino cortigiano dell' ignoranza tremare talvolta perfino d'una segreta stretta di. mano dell'uomo sincero; so che bisogna fremere e arrossire, se non per te, per altrui; e chinar la testa alle opinioni che, al pari di tanti piccoli tirannelli, cozzano e voglion regnare insieme.... Ma finchè nella patria troverai un amico che ti dica una buona parola, finchè avrai nella tua casa alcuno che t' ami, alcuno da amare, oh! terrai sempre caro il nome della tua città, come quello di tua madre. La famiglia de' Leslie, venuta a Milano, aveva preso dimora in una bella e comoda casa, situata in una delle più popolose vie della città. La casa apparteneva a una vedova dama, la quale, alla morte del marito, s' era ritirata al secondo piano, per nascondervi il suo lutto e i suoi quarant' anni, e per cedere il quartiere del piano « nobile » a qualche ricco pigionale. Le damigelle, non avendo altro che gioja ne' pensieri, s'addomesticarono in pochi dì con la vita cittadina e co' nuovi spassi, dimenticarono il lago e i suoi pacifici ozii. Ma così Don era di Maria. Essa non aveva creduto, da prima, che così presto si sarebbe trovata sola sola: già s'accorgeva che le mancava qualche cosa, e non sapeva che pensare a sua madre, e pensare a suo fratello. Pure ne' primi giorni, la novità di tutto quello che la circondava, le cure divise con le compagne per mettere in assetto la nuova casa, e allogare ogni cosa nella piccola stanza che ciascuna di loro s' era scelto, fu una sollecitudine, un pensiero. Ma poi, quel trovarsi chiusa sempre tra le pareti d'una sala, quantunque tappezzata da lucenti arazzi e sfavil- lante d'oro e di cristalline lumiere, quel correre alle finestre, e non veder che tetti e case, a traverso l'aria greve e fosca, cercando invano con l'occhio la linea serpeggiante delle montagne, e i noti paesetti su l'opposta riva, e l'incerta lontananza dell'acqua: tutto ciò la faceva ben sovente muta, incresciosa a sè stessa, e le aveva rapito quell'aria di freschezza e di sorriso, onde fu prima così bella e serena.
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Il vero è ch' io son fuggito come un colpevole; che ho abbandonato famiglia, amici, e patria: non avrei potuto vivere, come straniero, vicino alla mia casa, a' miei; e mutai nome e cielo. Poi, qui speravo di trovare quel riposo che sempre fugge dinanzi a me, e qui mi richiamavano una promessa, un affetto.... Ah! si, che almeno io la ritrovi quella virtuosa fanciulla! Essa non mi respingerà più; ora, non sono il giovine ricco e potente, sono il figliuolo diseredato, il povero esigliato che domanda conforto, che ha bisogno di vivere presso alcuno che l'ami ancora. » Oh! » esclamò Eugenio, « vi dico, in coscienza, che di certe cose non ne so uno straccio! Ma se, per la verità, non v'avessi intes' io a raccontare voi stesso la vostra storia, la crederei proprio, come mi dicessero che il Gran Turco s'è fatto eremita. Un giovine come voi, un signore, un uomo d'ingegno, far questa fine.... Scusate, sapete; ma, a me, sono miracoli che poco m'entrano in testa: sebbene, a dirvela, tutto ciò m'abbia imbrogliato un po' l' idee; m'avete tirato giù certe ragioni, certi scrupoli, a cui non ho mai pensato in vita mia. » Arnoldo taceva, e teneva fissi sopra il compagno gli occhi, con un'aria tra mesta e grave. « E vorrei veder adesso, » soggiungeva Eugenio, « che quella fortunata fanciulla volesse far la schizzinosa. È impossibile! e scommetto che il suo nascondersi è furberia bell' e buona, per tirarvi meglio in trappola. » « Non è vero! voi non la conoscete; » rispose sdegnoso Arnoldo. « Sarà, lo dite voi, sarà; però non vorrei che.... » E, con un tal maligno sorriso, Eugenio scoteva il capo. « Ah! voi ridete, ridete come gli altri che mi tengono per uno stolto.... Ma voi non potete vedere quello che passa qui dentro, non sapete quel che si può perdere e sperare! » A tali parole dette con fuoco, l'altro tacque, si strinse nelle spalle, e conchiuse mentalmente: - Non c'è da dire: bisogna persuadersi che pizzichi del matto. - Ma poco di poi, quando Arnoldo gli confidò che al domani partiva per andare in cerca di Maria, al paesello del lago, o nel dintorno, e conchiuse pregandolo in nome dell'amicizia di tentar tutto, durante la sua assenza, per averne egli pure contezza, Eugenio aveva promesso di far l'impossibile: e si lasciarono, buoni amici come prima.
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Con le faccie lunghe, curiose, guardandosi di sottecchi a ogni momento, uno in atto d'interrogare come la sarebbe ita, e l'altro di rispondere che non lo sapeva, se ne stavano il signor curato e il deputato politico, dietro il seggiolone, presso d' un tavolino; sul quale vedevasi lo scacchiere abbandonato, con le pedine sparsevi sopra: e da certe occhiate che i due vi lasciavano cadere di quando in quando, s' indovinava il rammarico della partita intralasciata. In mezzo ad essi allungava il collo, come il solitario cappone dalla stia, l' agente comunale, quotidiano testimonio e giudice delle sette disfide de' due campioni a dama. Colui che dall' altra parte gesticolando con gran foga parlava sottovoce al dottore, era quel vecchio galantuomo del signor Gaspero; e nel ragionare, spiegazzava la gazzetta che ancor teneva fra le mani, l' ultima capitata al paese quel giorno stesso. E qui, torna bene che conosciate la prudenza del curato; il quale, dopo il brusco esempio di quel disgraziato don Carlo, aveva smesso non poco del
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Si perse a guardare una luna dorata che a destra, sulle colline della sponda opposta, si spingeva lentamente nel cielo appena abbandonato dagli echi rossastri del sole. Sentì un rumore nella stanza dietro di sé. Pensò che i servi fossero tornati ad accendere le lampade. Anche nella città sotto di lui e nei piccoli villaggi lontani al di là dello stretto, luci di fiamma si accendevano, come frammenti di sole che solo ora, nell'ombra crescente, si facessero notare. Senti alle spalle due leggeri colpi di mano: un frammento d'applauso. Si voltò, incuriosito: e vide a tre passi Maometto, in una liscia veste dorata; al posto del turbante aveva una piccola calotta di seta nera. Due passi dietro all'Imperatore, un po' di lato, stava un personaggio sconosciuto, alto e magro, completamente vestito di scuro, con braghe a fascia aderenti, spada e pugnale appese ad una cinghia di pelle nera che gli attraversava il petto. Gentile, col fiato sospeso, non disse parola. L'Imperatore sorrise, e senza muovere le mani unite davanti al ventre, piegò appena la testa di lato. Poi disse con voce profonda: — Ospite, non spaventarti per la mia visita inattesa: nulla ti minaccia. Considera questo, dopo la parata di oggi, il mio vero e fraterno benvenuto. Gentile goffamente apri le braccia, in un vago gesto di ringraziamento e accoglienza. — Mi cogli impreparato, Signore, — disse. — Qui ogni cosa è tua, né io conosco questa casa abbastanza da saperti offrire qualcosa, come ad un ospite conviene... — Godiamoci dunque senza altre preoccupazioni la stupenda luna, che non appartiene a nessuno, eppure si mostra a tutti con la meravigliosa intimità di una sposa, — disse Maometto, avvicinandosi al pittore, e voltandosi accanto a lui verso il quieto e vasto luccichío dei Dardanelli. L'uomo vestito di nero, ombra silenziosa, rimase alle loro spalle, immoto. — Il mio accompagnatore non è muto, — disse l'Imperatore, — ma è come se lo fosse. Non è sordo, ma è come se lo fosse. È piú fedele a me di quanto sia la mia stessa mano: e della mia mano è anche piú saggio e preciso. Non inquietarti per la sua presenza: egli è solo in certo modo presente. Gentile tornò a guardare la luna. Anche Maometto, accanto a lui, la guardò per un lungo momento: come se lassú ci fosse, svelabile allo sguardo, il modo giusto per dire le parole.
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Carlo Alberto era, così, abbandonato dagli altri principi, mentre aveva l'esercito decimato e stanco per i combattimenti e per le malattie. Al maresciallo Radetzky invece giungevano continuamente dall'Austria nuovi rinforzi. A Custoza, dal 22 al 26 luglio, infuriò la battaglia. Soldati, ufficiali, i principi, il Re rinnovarono prodigi di valore. Ma di fronte al numero fu dura necessità cedere. Carlo Alberto dovette ricondurre in Piemonte il suo esercito, glorioso sempre, anche nell'avversa fortuna, e piegarsi ad un armistizio.
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Naturalmente senza di me, che, dopo aver distribuito imparzialmente qualche energico ceffone a destra e a manca, avevo già abbandonato quell'antro così accogliente. Però caddi dalla padella nella brace, perché i tafferugli non erano soltanto nella taverna: anche per le strade di Barcellona si era scatenato l'inferno. A stento riuscii ad aprirmi un varco fino a una nave da carico germanica, e là venni a La Freccia d'argento sapere che tutta la Spagna era in fermento. Era scoppiata la sanguinosa guerra civile! Nel locale si è rifatto il silenzio. Qualche ragazzo, malgrado la chiusa emozionante del racconto del Segantino, si è addormentato: il duro corpo a corpo con gli avversari li ha svuotati delle ultime forze. Gli altri ripensano alle parole del Segantino: la guerra civile, la guerra! Per loro non era già una parola vuota di senso; sapevano quel che significava la guerra: bombardamenti notturni, fame, fuga, morte! Che debbano esistere sempre le guerre? Che ci siano sempre attacchi a tradimento come quello di stanotte, e odio e lotta sleale? Su queste domande, a cui non san trovare risposta, i ragazzi si addormentano di un sonno agitato.
Il locale abbandonato dorme, e dorme tutto ciò che vi sta dentro: le casse da sapone coperte dai teli, le latte di benzina, gli arnesi, il trattore e i possenti autocarri. Ma riposa davvero il garage con tutto il suo armamentario?... Guarda, guarda! Là nell'autocarro, dietro il vetro della cabina di guida, adagio adagio fa capolino un viso: è Ed-mastica-gomma! I cardini dello sportello cigolano lievi, ed Ede esce fuori, evitando anche il più piccolo rumore. - Coraggio, Ede! - si rincuora sottovoce lo spilungone. - È questa l'ultima occasione propizia per eliminare gli altri! Stavolta la maledetta Freccia d'argento non ti sfuggirà! Egli sta in ascolto con tale tensione, che le sue orecchie a ventola fremono e tremano: ma non si sente alcun rumore. Ancora una volta la faccia di Ede si contrae in un ghigno perverso... Quatto quatto egli striscia verso la Freccia d'argento.
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O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.
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La Pinuccia lo ascoltava rapita, il lavoro a maglia abbandonato sulle ginocchia. Poi accadde un fatto strano. Attratti da quella voce, stupiti dalla novità, arrivarono anche gli altri: l'Enrichetta, la Jolanda, la Clotilde, la Celestina, il Carlo, l'Attilio, il Melchiorre e perfino quell'orso dell'Ernesto. E tutti rimasero lì ad ascoltare la tremenda sfida tra Ulisse e Polifemo, tra l'intelligenza dell'uomo e la forza del ciclope, finché non venne la Maria Pia a rompere l'incanto. - Su, avanti... È ora di rientrare, signori miei. Comincia a far frescolino, non sentite? E poi questa è l'ora del vostro programma preferito. C'è la Ruota della Fortuna che sta per cominciare! Su, su, andiamo, o ve lo perderete. Prese per il braccio il primo che le venne a tiro e lo condusse via. Gli altri, con il pensiero ancora là, nella spaventosa caverna di Polifemo, si avviarono lemme lemme verso l'ingresso. - Sai qual è il nostro guaio, Virgilio? - disse la Pinuccia rimanendo indietro con il professore. - Che nessuno ci dà mai niente da fare. Se solo trovassimo un buon motivo per attaccarci alla vita, per darle ancora un senso, non ce ne staremmo zitti e muti a sopportare tutto. Non credi? - Si, hai ragione. Io, per esempio, avevo un cane. E per lui, grazie a lui, valeva ancora la pena di vivere. Adesso non lo so più. - Ah, sì - commentò la Pinuccia. Neanch'io lo so più. E mi capita anche di avere pensieri terribili. A volte, svegliandomi al mattino, mi guardo nello specchio e lo specchio mi dice: «Pinuccia, nessuno ha più bisogno di te, nessuno ti vuole più. Cosa aspetti a crepare?». E io rispondo: «Che ci posso fare, se sono viva? Non lo faccio mica apposta, a vivere». E allora penso che tutto questo mi succede perché devo avere fatto molti sbagli. Dove ho sbagliato, professore, che i miei figli non mi amano più? - I figli volano via come gli uccelli. Non abbiamo diritti sui figli - provò a dire Virgilio Zambelli, prendendola a braccetto. - E poi, loro devono pensare al futuro... - Anche noi dovremmo pensarci, ogni tanto - fece la Pinuccia, scontenta. - Siamo vivi, no? Perché ci siamo lasciati il futuro dietro le spalle? Perché? Neanche il professore lo sapeva. Ma sentiva che la Pinuccia, con la sua logica elementare e impietosa, aveva toccato il cuore del problema.
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Anche la direttrice per tanto la incoraggiò molto, e le disse brava, soggiungendo: "Mi ha dato una vera consolazione, tra le altre cose, il sentire che ella ha abbandonato il brutto vizio di dire pappà e mammà invece dei dolci nomi di babbo e mamma. "Seppi, rispose la Beppina, le giuste censure che mi furono fatte qui, or fa sei mesi, quando Gaetana Agnesi Parte II - XI. tali parole scrissi in quella sciagurata letterina; e d' allora in qua non mi sono più uscite di bocca. "Ciò mostra che ella è docile, buona, e facilissima a rimettersi nella retta via: della qual cosa fa prova anche la vita da lei ora letta, la quale, da poche parole non troppo eleganti in fuori, è scritta con assai garbo. "Ella è così buona che lo dice per incoraggiarmi, e la ringrazio: vorrei per altro che, o lei o il signor maestro, mi additassero quelle parole, per potermene guardare altre volte." "Questo è ufficio del signor maestro." "Ed io, soggiunse il maestro, farò il mio ufficio; e prima di tutto farò notare alla signorina che di una gentil donzella, il dire che sgobbava per studiava assiduamente, è un mancare al decoro. Sgobbare lo dicono gli scolari di Pisa parlando de' loro condiscepoli, che il pigro ingegno compensano collo studio continuo, fuggendo ogni lieto ritrovo; e que' loro condiscepoli gli chiamano sgobboni. Ella vede dunque, oltre all'esser tal voce trivialissima, che mal si addice alla Amoretti, fanciulla gentile e di pronto ingegno. Ella ha detto che Maria Pellegrina, sostenendo quella tesi, fanatizzò gli uditori. Queste voci Fanatizzare per Empiere di meraviglia, Rapire altrui coll' eccellenza dell' arte; e Fare fanatismo per essere ammirato ed applaudito, sono, è vero, comuni, massimamente nel linguaggio teatrale ma non resta per questo che non siero stranissimi modi, e da fuggirsi a tutto potere, chi considera il vero significato della voce Fanatico, dalla quale nascono. Parlando della cerimonia della laurea, ella ci ha detto che fu fatta nel modo il più brillante; e ci ha detto per conseguenza una piccia di improprietà: la prima è quella di aver messo l'articolo il dinanzi al più brillante, che è costrutto alla francese, nè la lingua italiana lo comporta, dovendosi dire nel modo più: la seconda è la voce brillante per ricco e splendido, che è pur essa tutta francese. Anche la solennità rimarcabilissima per segnalatissima o notevolissima, è un brutto barbarismo; come pure è barbarismo il dire che la Amoretti quando morì era tuttora benportante; non mancando nella lingua nostra voci acconcissime a significar tale idea, come gagliardo, robusto ed altre secondo la occasione: e nè anche quell' aggiustatezza sorprendente nel sostenere le tesi non è farina schietta italiana, potendosi, e dovendosi dire aggiustatezza o mirabile, o stupenda, o altrimenti secondo l' occasione. Io non ho altro da dire: solo aggiungo che questi sono nèi, i quali non deturpano troppo il bello scritto della signora Beppina. La Beppina ringraziò caramente il maestro e avendo la direttrice dato il segno, le signorine si alzarono per andarsene, quando la Eglina: "Signor maestro, disse, la Beppina ci ha recitate certe parole latine che erano scritte sulla ciarpa regalata alla Amoretti il giorno della sua laurea, le quali parole ci ha detto di non avere inteso neppur ella. Scusi, ve', siamo donne, e per conseguenza curiose: si potrebbe sapere che cosa voglion dire quelle parole?" "Perchè no? Le parole latino erano queste: Ob juris scientiam Acadernia Ticinensis dat libenter merito, che, spiegate, alla lettera, suonano: "Per la scienza del Diritto la Università di Pavia offre di buon grado al merito. La Eglina, a nome anche delle altre alunne ringraziò il maestro; e qui finì per quella mattina la conversazione.
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Già si sapeva che nella notte del 5 ottobre i Turchi, spiegando i trinchetti, avevano abbandonato Lepanto e, attraverso il golfo di Corinto, si apprestavano a incontrare i nemici. L'armata cristiana aveva raccolto le forze maggiori al centro, intorno alle capitane dei tre generali: don Giovanni d'Austria, con la reale nel mezzo; Marc'Antonio Colonna e la capitana di Savoia, a destra; a sinistra il Veniero, con a lato la capitana di Genova. Ultime venivano quelle di Malta e della Lomellina. Sessantuna galee che inalberavano bandiera azzurra circondavano le navi ammiraglie. Alla destra di questo schieramento si raggruppavano cinquantatrè galee, con insegna verde attaccata alla punta dell'antenna, ed erano comandate da Giovanni Andrea Doria; a sinistra, altre cinquantatrè galee, che spiegavano bandiera gialla al calcese, erano agli ordini di Agostino Barbarigo. Precedevano le galeazze veneziane, munite ognuna di quattrocento archibugieri, sessanta cannoni, fuochi artificiali, e governate da Francesco Duodo, Andrea Pesaro, Pietro Pisani, Antonio e Agostino Bragadino, Giacomo Guoro. Alla retroguardia, pronte al soccorso, il marchese di Santa Cruz comandava trenta galee che inalberavano bandiera bianca al calcese. Su quelle navi che si apprestavano alla lotta sotto l'insegna di Cristo erano presenti i più bei nomi d'Italia e di Spagna. Principi illustri avevano abbandonato la reggia, con il cuore infiammato di fede; membri di nobilissime famiglie avevano lasciato senza un rimpianto gli agi dei loro castelli per militare nell'armata cristiana. Alessandro Farnese, principe di Parma, ubbidiva a Ettore Spinola, sulle galee di Genova; Francesco Maria della Rovere, figlio di Guidobaldo duca di Urbino, si era imbarcato sulla capitana di Savoia, agli ordini dell'ammiraglio Legni. Don Giovanni d'Austria, dopo aver disposto lo schieramento in maniera che tra galea e galea rimanesse tanto poco spazio che un'altra nave non potesse passare, diede ordine di alzare sulla reale lo stendardo della Lega, innanzi al quale si ammainarono tutti gli altri stendardi. Indi scese in un'agile fregata e si diede a percorrere l'intera linea della battaglia, incitando i suoi uomini a combattere gagliardamente. Passata in rassegna la flotta, l'ammiraglio supremo, prima di tornare alla sua nave, si fermò presso la capitana del Veniero per salutare il prode e bollente alleato. Ritto sulla poppa, a capo scoperto ma armato di tutto punto, il condottiero veneto rispose cordialmente al saluto. Un'ombra di titubanza si leggeva in quell'istante sul viso di don Giovanni d'Austria. Tremava forse al pensiero della grande responsabilità che prendeva sopra di sè? O qualche dubbio all'ultimo momento era sorto nella sua mente? D'improvviso la sua voce risonò alta, dominando il canto solenne del mare. - Che si combatta? - chiese al Veniero. È necessario, nè si può evitare, - gli rispose il vecchio guerriero. L'ombra scomparve dal viso dell'ammiraglio supremo. Un ultimo saluto, e l'agile fregata raggiunse la nave reale. Il dado era tratto. L'armata turca, intanto, ammainati i trinchetti, a voga arrancata e in formazione di mezzaluna, si spingeva innanzi contro i cristiani per aggirarli. Ma le galeazze veneziane dell'avanguardia, con le loro terribili artiglierie, tempestarono e sgominarono le galee turchesche, sventandone il piano e obbligandole a disserrare le file. Qualche attimo di sosta. Nel silenzio sopraggiunto, il vento, che fino allora aveva soffiato in favore dei Turchi, cessò di agitare le vele, il mare divenne tranquillo come un lago e il cielo sorrise, radiosamente azzurro. In mezzo a tanta serena dolcezza le due potenti armate si affrontarono. Il silenzio dell'atmosfera .... il vecchio.... passava, guidando e incitando. venne infranto dallo strepito delle armi, dagli urli degli assalitori, dal gemito dei morenti. Pareva che un'ebbrezza di morte si fosse impadronita di quelle ciurme assiepate; la terribile furia del fuoco e del ferro distruggeva ogni cosa. Prora contro prora, la galea di don Giovanni d'Austria e la capitana di Alì, generale supremo dell'armata turca, si batterono accanitamente.... Vuoti paurosi si aprivano nelle file degli archibugieri sardi e in quelle dei fanti turchi. La vittoria era incerta, allorchè Sebastiano Veniero, non ancora assalito dai nemici, spinse la sua galea in avanti per accorrere in difesa della reale. Fiero sopra tutti i suoi uomini, i candidi capelli al vento, corruscante l'armatura, il vecchio guerriero, con una balestra in mano, passava, guidando e incitando. I suoi sguardi erano terribili, la sua voce, imperiosa. Ma, quando si curvava sul ferito o sul moribondo, era l'immagine vivente di un padre che calma e conforta. La lotta asprissima sembrava centuplicargli le forze. Una freccia gli attraversò un piede. Per un attimo vacillò, e le braccia del nipote, che gli stava sempre al fianco, furono pronte a sostenerlo. - Non è nulla, Lorenzo, - mormorò, soffocando lo spasimo. - Presto, presto, all'arrembaggio! - soggiunse immediatamente, scorgendo una galea nemica che correva in aiuto di Alì. Ma prima che quella potesse raggiungere la mèta, un'altra nave, vogando disperatamente, le tagliò l'assalì passo e assalì con furia. - È la Santa Cattarina, - mormorò il vecchio condottiero, sorridendo, compiaciuto. - Buon sangue non mente! - La lotta prosegui sanguinosissima. Alla fine i veneziani e i pontifici, facendo impeto sul centro nemico, riuscirono a rompere il grosso della flotta turca e a uccidere Alì pascià. Quando le superstiti galee della mezzaluna seppero la fine del loro capo, con mossa improvvisa si gettarono sulla linea destra alleata, affondarono le navi dei cavalieri di Malta, e attraverso il varco così aperto si diedero alla fuga. La gigantesca battaglia promossa da Pio V, come una nuova crociata, era finita. Dopo quattr'ore di accaniti combattimenti si era conclusa con la vittoria delle armi alleate. Questo trionfo era stato pagato a duro prezzo giacchè, se pari era stata l'ira da una parte e dall'altra, pari ne era stato anche il valore. Si poteva ben dire che Lepanto rappresentava la sfolgorante luce che rompeva le tenebre onde era avvolta l'Europa cristiana. Sulle onde insanguinate rottami di ogni genere andavano alla deriva. Il cielo aveva perduto la sua azzurra trasparenza e una cavalcata di grige nuvole si affacciava a ponente. A poppa della reale un frate pregava per gli eroi che il Mediterraneo aveva trascinati nelle sue profondità misteriose. Quanti erano? Molti. Ogni regione d'Italia poteva vantare l'onore di aver dato la vita di qualche suo figlio; ma l'Europa era stata salvata dalla barbarie maomettana.
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In quei tragici istanti il padre non aveva abbandonato la sua creatura. La stretta del suo valido braccio si era fatta più forte e aveva sostenuto Alvise, lo aveva riportato a galla; poi i suoi muscoli cominciarono a stancarsi. Al vivido tremolare di un lampo egli scòrse il rottame di un'alberatura. Verso quel legno, che poteva essere l'unica salvezza di Alvise, il padre nuotò con il braccio che aveva libero. Ma la lotta per impossessarsene fu lunga, estenuante. Quando egli credeva di averlo raggiunto e stava per afferrarlo, un'onda glielo ricacciava lontano. Allora ricominciava, sempre trascinandosi dietro il dolce peso del figlio. L'amore paterno gli centuplicava le forze. Per riprendere coraggio, egli guardava di tanto in tanto gli occhi di Alvise, quei cari occhi che rispondevano fiduciosi al suo sguardo. Fili d'alghe si erano impigliati tra i riccioli bruni del giovane, e il padre delicatamente glieli tolse. Tanti e tanti anni sembravano annullati. Zuambattista. Benedetti stringeva tra le braccia il suo piccino, ritratto vivente della sposa scomparsa. E andavano insieme, così. Finalmente un'onda spinse verso di lui l'alberatura spezzata. Con uno sforzo disperato l'afferrò e la tenne stretta al proprio cuore palpitante. Ma a un tratto • sentì che la sua resistenza era agli estremi. Stringendo i denti, nello spasimo di tutte le membra irrigidite, il capitano riuscì a far aggrappare Alvise al rottame della Santa Cattarina; poi si tolse la cintola dalla casacca, e con quella legò strettamente il giovane all'albero spezzato. - Addio, Alvise, e Dio ti accompagni! - mormorò Zuambattista Benedetti, mentre tracciava un gran segno di croce con la mano stanca. Il vento rubò e disperse le parole paterne. Alvise non le udì. Ma la benedizione rimase sul capo del figlio e l'accompagnò in quella tragica avventura, come un viatico, come una speranza, come una preghiera accolta dall'Altissimo.
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- Così il piccino crebbe, ed appena potè zampettare dovette lavorare dalla mattina alla sera a coltivar la terra, ed ebbe appena da sfamarsi: sempre e poi sempre marito e moglie gli ripetevano: - Ti teniamo per carità; meritavi che ti si fosse abbandonato in un bosco. - Una sera il Principino, poteva avere un dieci anni, chiedeva al figlio del mugnaio un'arancia. - Dammela, fratuzzu, dammela! - Ma tu non sei fratello mio! - rispose l'altro. - Se tu fossi mio fratello te la darei, a te non te la do. Tu sei figlio di un'altra madre. Va' e cercala tua madre in Palermo. La conosci tu? L'hai mai veduta? Che bella madre! Come si cura del figliuolo! - Queste stesse parole il Principino se l'era sentite dire tante volte, ma non ci s'era potuto assuefare e gli facevano sempre una gran pena. Zitto zitto se ne andò a piangere nello stanzino buio e fra le lacrime diceva: - È mai possibile che il mio babbo e la mia mamma non si rammentino di me? Che mi abbiano abbandonato in questo modo per farmi patire tanto? Ma non ha cuore di madre la mia? - Aveva appena terminato di proferire questa domanda, che lo stanzino fu illuminato da un debole chiarore e in mezzo a quel chiarore comparve una donna pallida pallida, scarna scarna e avvolta in un gran lenzuolo bianco. - Che possono fare i morti per i vivi? - disse la donna con un fil di voce. - Io morii quando tu nascesti, figlio mio, e su te non ho potuto vegliare. Tuo padre, il principe di Cattolica, ti affidò a un abate nel quale riponeva piena fiducia. Quel perfido, invece, s'è impossessato del tuo. Va' a Palermò, istruisciti e quando sarai in età, chiedi che giustizia sia fatta. Io pregherò per te! - Mentre il Principino sbalordito dall'apparizione e tutto tremante stava per rivolgerle una domanda, i contorni della figura si dileguarono, il chiarore svanì, ed egli si trovò di nuovo al buio, sulla paglia, ma meno afflitto, meno desolato di prima perchè sapeva che sua madre vegliava su di lui. Glielo aveva detto dove doveva andare, ed egli subito le obbedì. Del resto glielo aveva detto anche il figlio della mugnaia che se ne andasse perché in quella casa era un intruso. Non appena fece giorno il Principino s'alzò dal suo giaciglio di paglia, uscì, e invece d'andare nel campo a lavorare, prese la via che conduceva a Palermo. Era digiuno, non aveva scarpe in piedi, eppure camminava senza sentir la fame nè i sassi della via: camminava pieno di speranza e di letizia. Giunse così a Porta Nuova, sotto il palazzo del Viceré, ma era sfinito e si lasciò cadere in terra. Venne una ronda di guardie e il capo gli dette un calcio, dicendogli: - Alzati, mendicante; qui non sono tollerati gli accattoni! - Si alzò e andò oltre, giù per il Cassaro, fino a Piazza Vigliena. Ma qui era l'ora della passeggiata e le dame passavano nei magnifici cocchi a quattro e sei cavalli, i cavalieri cavalcavano su focosi destrieri con ricche gualdrappe, ed altre guardie scacciarono il Principino, dicendogli: - Va' oltre, pezzente! - E andò oltre, finchè non giunse all'angolo di Via dei Chiavettieri, dove allora non c'erano altro che botteghe di fabbro, e appunto in una di quelle botteghe entrò il Principino, che aveva fame, a disse al padrone: - Mi prenda come garzone; ho voglia di lavorare e sono forte. Domani e nei giorni seguenti mi guadagnerò il pezzo di pane che ora le chiedo per non morir di fame. - Questa domanda d'imprestito e non d'elemosina, il tono con cui era fatta e l'aspetto dignitoso del fanciullo, coperto di pochi stracci, commossero il capo mastro, che subito lo fece ristorare, se lo prese in casa e lo mise a tirare il mantice. Il ragazzo lavorò sempre con zelo; non c'era caso che s'imbrancasse con i monelli di strada; se lo mandava a riportare il lavoro o a comprar qualcosa, tornava subito, non parlava, non chiedeva nulla e si contentava del cibo che era abbondante e buono in confronto di quello che gli dava con tanto mal garbo il mugnaio; e se la moglie del fabbro gli dava qualche oggetto di vestiario, ringraziava con effusione e aggiungeva: - Mia madre, che è in Paradiso, pregherà per lei e per la sua famiglia! - Così di giorno in giorno il garzone si faceva voler più bene e ormai era come uno di casa. Appunto per la confidenza che aveva con lui, il fabbro una volta gli domandò: - Ma insomma, si può saper di chi sei figlio e come si chiamano i tuoi genitori? - Non li ho mai conosciuti. Fui messo a balia da una mugnaia, un abate mi portò al mulino quando avevo pochi mesi, pagò per un po' di tempo il baliatico e poi non si fece più vivo, e allora il mugnaio e la moglie presero a maltrattarmi e a rinfacciarmi il pane che mi davano. Non rammento che maltrattamenti, rimproveri e fatiche, - aggiunse il ragazzo con un sospiro. - Ma non hai proprio nessun indizio de' tuoi genitori? - Il poverino non voleva narrare l'apparizione della madre perchè quel segreto era la sua sola gioia e la
Se i Confederati avrebbero abbandonato il posto senza combattere? I Confederati... com'erano pochi! E Sherman aveva tanti uomini e tutti ben nutriti! Sherman! Quel nome la sgomentava come quello di Satana. Ma non vi era tempo di pensarci adesso, perché Melania chiamava per avere un po' d'acqua, un asciugamani asciutto sulla testa e perché le scacciasse le mosche dal viso. Al crepuscolo, mentre Prissy, sgambettando come un piccolo fantasma nero, accendeva la lampada, Melania si sentí piú debole. Cominciò a chiamare Ashley, con una insistenza che sembrava delirio, finché Rossella provò il desiderio di soffocare quella voce monotona con un guanciale. Forse il dottore avrebbe finito col venire. Con un barlume di speranza, alzò la testa e ordinò a Prissy di correre alla casa del dottor Meade a vedere se lui, o la signora, fossero tornati. - E se non c'è, chiedi alla signora Meade o alla cuoca che cosa bisogna fare. Pregale di venire! Prissy uscí di corsa e Rossella la vide allontanarsi con una velocità di cui non l'avrebbe creduta capace. Dopo un certo tempo tornò, sola. - Dottore non essere venuto a casa tutto il giorno. Forse essere andato via con soldati. Miss Rossella, Mist' Phil essere finito. - Morto? - Sí, badrona. Talbot, il cocchiere avere detto che essere stato... - Non importa. - Non avere visto miss Meade. Cuoca aver detto che miss Meade voler lavarlo e seppellirlo prima che arrivare yankees. Cuoca dice che se doglie essere troppo forti, tu mettere un coltello sotto il letto e questo tagliare doglie in due. Rossella provò il desiderio di batterla ancora; ma Melania aveva spalancato gli occhi terrorizzata e stava bisbigliando... - Dio mio... stanno venendo gli yankees? - No - rispose Rossella risoluta. - Prissy è una bugiarda. - Sí, badrona - annuí Prissy con calore. - Stanno arrivando - sussurrò Melania senza lasciarsi ingannare; e nascose il viso tra i guanciali. La sua voce giunse alle orecchie di Rossella come un soffio. - Il mio povero piccino... Il mio povero piccino... - E, dopo un lungo intervallo: - Tu non devi restare qui, Rossella. Devi prendere Wade e andar via. Era ciò che Rossella pensava; ma udirlo da Melania la irritò, e le diede un senso di vergogna, come se la sua vigliaccheria fosse scritta a chiare lettere sul suo viso. - Non dire sciocchezze. Non ho paura. E sai che non ti lascerò. - Potresti anche andare... Tanto, io sto per morire... - E riprese a mugolare.
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So che non pochi, nè inoperosi sono, colla sottana e senza, i partigiani del monachismo; e che potrebbero essi obiettare, che, se veri fossero i miei giudizi intorno agli effetti della reclusione monastica, tutte le monache, ora che ne hanno la libertà, avrebbero già abbandonato i chiostri; il che non avviene, massime nelle nostre provincie meridionali. Risponderò che i confessori di quelle infelici fanno loro prima, anzi sola ed esclusiva cura del deprimerne e immiserirne gli spiriti, insinuandovi massime d'egoismo e di misantropia, che non sono certamente quelle della religione di Cristo, facendo lor vedere fuori del parlatorio la perdizione e l'abisso; mostrando sul limitare del chiostro le maledizioni del Cielo e i fulmini di Roma, pronti a scoppiare sul capo di chi osasse oltrepassare. D'altronde la mia è narrazione di fatti recentissimi: io cito date, luoghi, persone: ognuno potrà riscontrar la verità agevolmente. Mi si potrà piuttosto apporre d'aver taciuto qualche particolare che mi riguarda, d'aver lasciato nell'ombra alcune vicende non indegne forse di esser tratte a miglior luce: ma io risponderò che il danno è tutto mio, avendo più d'una volta con ciò tolto alle mie Memorie il vantaggio del colorito e quel drammatico rilievo che le avrebbe fatte più attrattive. Ma a quel silenzio e a quelle omissioni fui indotta dal rispetto dovuto agli estinti, alle famiglie, ed anche a me stessa. ENRICHETTA CARACCIOLO. Castellamare (Napoli) 1864.
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La baronessa e le figlie, quando il barone più non comparve in casa, erano rimaste atterrite del loro audace tentativo e avevano abbandonato la domanda d'interdizione. Ercole riprendeva le sue caccie; Marco non lasciava in pace la baronessa perchè gli desse i mezzi di costruire in casa loro il gran mulino di sua invenzione; Feliciano avea sostituito il padre nell'amministrazione, duro e inesorabile coi fittaioli della dote della madre, fissato anche lui nell'idea di liberare tutte le proprietà di famiglia dalle onerose ipoteche che assorbivano il fruttato. Si rivelava della pura razza dei Zingàli, ostinato; testardo,imperioso fin con la madre, che non osava di resistergli. - Egli sa meglio di noi quel che fa! - diceva la baronessa a Rosaria, che spesso borbottava contro il fratello. Una schietta Zingàli anche lei, muta, impenetrabiie, con quegli occhi che mettevano sgomento quando restavano fissati nel vuoto, quasi attratti da paurose visioni che gli altri non potevano vedere. Da che il barone aveva abbandonato la casa, ella aveva voluto occupare la stanza di lui. - Non hai dunque paura di dormir sola colà? - le disse la madre. - No. Durante la giornata, la madre la voleva in camera, anche pel rosario e per le altre preghiere in comune, quando il canonico Rametta veniva a confessare, al solito, la signora baronessa, e a discorrer di cose sante e di pettegolezzi. Il canonico avea creduto che l'assenza del barone avrebbe vivificato un po' l'aspetto triste e opprimente di quella casa e il santo prete vedeva ora quasi con rimorso che la tristezza si era piuttosto aumentata. Quell'uomo che stava rinchiuso nella sua stanza, sepolto tra le vecchie scritture, di nient'altro occupato all'infuori di esse, avea lasciato un gran vuoto nel vasto palazzo, di cui il povero canonico non si sapeva rendere ragione. - Nessuna notizia? - domandava timidamente alla baronessa. - Nessuna! - Nessuna! - ripeteva Mariangela, alzando al cielo le pupille stanche e trasognate. - Il Signore gli aprirà gli occhi, gli rammollirà il cuore! Preghiamo per lui! - replicava il canonico. Rosaria aggrottava le sopracciglia, si mordeva le labbra carnose, e non si capiva se per isdegno o per rimpianto dell'assente. Spesso, durante la conversazione, si alzava tutt'a un tratto da sedere e andava a rinchiudersi nella sua nuova stanza. Una mattina Mariangela l'avea sorpresa bocconi a traverso il letto, soffocata da singhiozzi. Le mani brancicavano convulsamente le coperte, e nell'agitarsi scomposto della testa le nere e lunghe treccie le si erano disciolte ed arruffate. - Oh, Dio!... Che hai? Rosaria!... Al grido della sorella, ella si era rizzata rapidamente, buttando indietro con le mani i capelli che le ricadevano su la faccia e su le spalle; e spalancando gli occhi, avea portato l'indice alla bocca, imponendo silenzio. - Non dir nulla alla mamma!... Non è niente!... Manda a chiamare il canonico Rametta.... Ho bisogno di lui.... Voglio confessarmi.... Non dir nulla alla mamma! Bada; non dirle nulla! Mariangela, sbalordita, spaventata, aveva atteso il canonico in cima alla scala, e lo aveva fatto entrare in punta di piedi, perchè la baronessa non si accorgesse della venuta di lui. - Lasciaci; va di là, - Rosaria aveva ordinato alla sorella. - Cattive notizie? - domandò allora il canonico. Rosaria, chiuso l'uscio e messo il paletto interno, si fermò in faccia al sacerdote, che la guardava, aspettando ansioso la risposta. - Sono dannata! - ella esclamò portando le mani attorno alla bocca, a fin di reprimere il suono della voce e renderlo nello stesso tempo più vibrante. - Dannata? Figliuola mia! Dannata? Ella lo spinse su la seggiola a bracciuoli presso il tavolino e gli cadde davanti in ginocchio. - Dannata?... Non è possibile!... Che hai fatto da dover disperare del perdono di Dio? Oh, figliuola mia!... China con la testa rovesciata in giù, coprendosi la faccia con le mani, Rosaria ripeteva straziante: - Dannata!... Dannata! Il confessore le accarezzava i capelli, tentava di confortarla. - Parla, figliuola mia! Ora sei davanti al cospetto di Dio.... Dimentica la miserablle persona del suo indegnissimo servo.... Parla! Mai il canonico Rametta, da che era stato autorizzato ad amministrare il Sacramento della penitenza, mai si era trovato davanti a una scena simile; e tremante, smarrito, non sapeva in che maniera indurre quella figliuola a calmarsi. Terribili, incredibili cose aveva poi udito. - Tu, figliuola mia?... Tu hai invocato il diavolo?... Perchè? Come? E Rosaria, a testa china, con la faccia tra le mani che a stento lasciavano passar libera la parola, aveva rivelato il segreto che da due anni le gravava sul cuore, e che aveva formato la sua felicità e la sua disperazione nello stesso tempo; quel terribile segreto che più volte le era parso avessero indovinato o volessero indagare la madre, la sorella, i fratelli, e che ella aveva per ciò più rabbiosamente calcato in fondo al petto!... Ma ora.... ora non ne poteva più! E così dentro quella buia sepoltura della loro casa era penetrato un raggio di sole. Ella aveva amato, forse riamata!... Perchè, perchè il Signore l'aveva fatta nascere una Zingàli? Per questo, colui non aveva mai osato farlo sapere direttamente.... E forse anche per lo stato della loro famiglia! - Come lo hai dunque saputo, figliuola mia? - Un accenno, due parole dettemi da una povera donna.... - Quali, figliuola mia? E udendo l'ingenuo racconto, l'esperto confessore capiva a poco a poco quale pertinace lavorìo della giovanile immaginazione aveva potuto intessere la fallace lusinga di quell'amore nel silenzio, nella penombra, nella solitudine di quei malinconici stanzoni, dove i suoni della vita che ferveva fuori giungevano ammortiti, affievoliti o non arrivavano affatto. E per ciò ella si era ribellata al destino; per ciò avea protestato contro la tirannia di Gesù Cristo che la condannava a essere una Zingàli, cioè un'ombra, un fantasma, un nome e nient'altro. - Sì, sì padre!... Ho maledetto Gesù!... Ho maledetto la Madonna! - E hai mentito nella confessione? E ti sei cibata sacrilegamente delle carni immacolate del Redentore? - Sì, sì padre!... Un giorno, rovistando uno scaffale di vecchi libri, dietro i volumi in foglio legati in pergamena, aveva trovato un libro involtato in un foglio di carta e sigillato. Ingiallito, squadernato, senza frontispizio, con strane figure quasi a ogni pagina, quel volumetto aveva tentato la sua curiosità. Sigillato con cinque larghi sigilli, nascosto colà, dietro agli altri libri, era dunque qualcosa di vietato? E se lo era portato in camera, e lo aveva nascosto tra le materassa del suo lettino, sotto il capezzale.... E la notte, fingendo di dir le preghiere, si era messa a leggere.... - Diceva: Modo di far apparire nella propria camera la persona amata. Si doveva recitare per tre notti consecutive una lunga preghiera latina.... Adonai, omnipotens sempiterne Deus.... La so tutta a memoria! - Il demonio, figliuola mia!... Il demonio!... - Che m'importava? Abbandonata da Dio, mi rivolgeva al diavolo, che almeno mi prometteva quella felicità.... Ah sono stata ingannata anche da lui!... Mi sentivo morire dal terrore, e leggevo, leggevo quella preghiera di cui capivo soltanto poche parole, con la fronte bagnata di sudore diaccio, col cuore che quasi non mi batteva più, con la voce che mi moriva in gola, ginocchioni presso la finestra aperta di quella stanzaccia dove mi recavo a notte avanzata, brancolando nel buio, portando i fiammiferi e la candela benedetta della Candelora, perchè, occorreva una candela benedetta.... E poi ho continuato per mesi e mesi, qui, in questa camera, invocando, persistente, colui che non appariva, che non è apparso mai! Mai!... - Domine, ignosce illae! - balbettava il canonico, alzando pietosamente gli occhi. E soggiungeva: - Dio misericordioso.... Tu, povera figliuola, non sapevi quel che facevi. - Lo sapevo, padre; lo facevo a posta!... - Ma era un'aberrazione, un suggerimento del demonio.... Ora che ti accusi del peccato, ora che, pentita, domandi perdono.... - Sono dannata!... Sono dannata! - tornava a singhiozzare Rosaria desolatamente. - Ah, figliuola! Questo, questo peccato ancora più grande: disperare della misericordia di Dio!... Sei già perdonata! In nome di Colui che me n'ha dato potestà, ego te absolvo!... E ora che intendi di fare, figliuola mia? - Voglio andar via, lontano, Suora di Carità!... Partire sùbito.... sùbito!
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Lui che era stato abbandonato dalla moglie, dalle figlie, dai figli come un rognoso, come un appestato! - Ah, certamente già si apprestano a rappresentare la commedia! Ora che non sono più un matto da interdire, ora che non sono più un rognoso, ora che non sono più un appestato, ora verranno a chiedere perdono, si umilieranno, commetteranno tutte le viltà. - C'è Cento-Salme in vista. Ci sono diecimila onze per colui del mulino.... e dieci per l'avvocatino don Felicianino.... l'ipocrita, il gesuita!... Via! Via!... Non sono più marito, non sono più padre!... Sono soltanto don Pietro-Paolo Zingàli, barone di Fontane Asciutte e Cantorìa.... no, anzi, barone di Cento-Salme; otterrò un decreto pel nuovo titolo.... Era già sera; il mulo trascinava stancamente il carretto per lo stradone polveroso. Il carrettiere cantava. Il barone rizzò la testa; vide, lontano, spiccar neri sul cielo rossiccio, i campanili, le cupole, del paesetto da cui mancava da tre anni e un'inattesa forte commozione lo invase. Durante il viaggio aveva scambiato poche parole col carrettiere; ma in quel punto sentì il bisogno di parlare con lui, d'interrogarlo. - Che dicono di me? - Dicono che voscenza ha vinto la causa. Ora don Marco non penserà più al mulino.... - Forse.... - È stata una pazzia. I signori debbono fare i signori, ed io che sono un carrettiere, il carrettiere; dico bene, voscenza? - Ferma; scendo qui. Non far sapere a nessuno che mi hai portato. - Come vuole voscenza. E si arrampicò lentamente pel viottolo che saliva a destra su per la collina. I cani abbaiarono poco dopo, un contadino s'affacciò dal ciglione: - Zitto! - gli disse. - Sono stanco; la salita è ripida.
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Relegato in quel paesetto siciliano abbandonato, come egli diceva, dagli uomini e da Dio, Pietro Vètere aveva trovato modo di continuare la sua vita di pigro, pur essendo uffiziale postale e telegrafico. Non già che la corrispondenza e i telegrammi da spedire e da ricevere fossero tanti da tenerlo occupato da mattina a sera. Consegnata al postino la valigia con le lettere, alle sette del mattino, perchè quegli arrivasse laggiù, all'osteria del Colombaccio, prima che passasse la corriera postale - l'osteria, con alloggio e stallatico, era posto di ricambio per cavalli - Pietro Vètere doveva attendere fino alle nove per aprire il doppio ufficio, consistente in uno stanzone diviso in tre scompartimenti da due rustici tavolati: uno davanti, con gli sportelli, pel servizio pubblico; l'altro, interno, per circondare di un po' di mistero le operazioni di distribuzione, di contabilità e il funzionamento della macchina telegrafica. Da un anno e mezzo, egli si scomodava raramente, la mattina, a scendere in ufficio dalle stanze superiori concessegli dal Municipio per abitazione. Aveva istruito la giovane moglie di tutti i più minuziosi segreti dell'amministrazione postale, l'aveva resa in pochissimo tempo valentissima trasmettitrice e ricevitrice di dispacci, e, con le compiacenti raccomandazioni del Sindaco e del Deputato provinciale, aveva ottenuto che ella fosse nominata aiutante; così aveva messo in salvo, per ogni caso, al cospetto dei superiori, la sua responsabilità. Alla nomina anzi aveva pensato un po' tardi, sei o sette mesi dopo che sua moglie già eseguiva, illegalmente, tutte le operazioni dei due uffici e fin firmava per lui, imitandone con amorosa abilità, la calligrafia. Per questo, ora, egli restava a letto, attendendo che la moglie, sbrigato il postino, gli recasse la consueta tazza di latte e caffè assieme con la pipa e uno o due giornali arrivati la sera avanti, ch'egli leggeva da cima a fondo prima di consegnarli agli abbonati. Per questo, appena finito di desinare, egli aveva agio di andarsene nella Farmacia Russo, là di faccia, a farvi col farmacista bellicosissime partite di briscola, che radunavano attorno a loro parecchi frequentatori sfaccendati, partigiani accaniti dell'uno o dell'altro, e non meno accaniti scommettitori in favore dell'uno o dell'altro. Al ritorno del postino con la corrispondenza, Pietro Vètere fingeva di accorrere in ufficio per fare il suo dovere; ma, in verità, non si occupava d'altro che di caricare accuratamente la sua pipetta di terra cotta, di star a guardare fumando, seduto in un angolo, le operazioni di ufficio eseguite dalla moglie, e di dare un'occhiata ai giornali illustrati del "Casino dei Civili„ e della "Società Operaia, che mandavano a prenderli sùbito appena arrivati. Di tratto in tratto sua moglie gli mostrava, presa con le punte di due dita, una lettera, e sorrideva maliziosamente. - Ancora? - Ancora. Anzi, da un mese in qua le risposte piovono. - Risposte?... Ma se la baronessa non scrive mai!... - Come sei sciocco! Scrive, ma fa impostare altrove. - Dici bene; può darsi. - Certe volte mi viene la tentazione.... - Oh, Dea! Dea! (La signora Vètere si chiama Dorotea, ma questo nome, in paese, veniva accorciato a quel modo). - Eppure tu mi hai detto.... Pietro Vètere, rimproverando con aria severissima la sua signora, aveva dimenticato di averle confidato, tempo fa, che uguale curiosità lo aveva vinto parecchie volte, e di averle spiegato in che modo una lettera non sigillata si poteva aprire e chiudere senza che di tale operazione rimanesse traccia. - E poi - egli tagliò corto - certe cose si fanno ma non si dicono! E gli parve di aver affermato una bella cosa. Per fortuna, la curiosità della signora Dea non andava tant'oltre: le bastava di sapere che l'intrighetto della baronessa Toroni continuava. Ormai riconosceva anche da lontano la calligrafia dell'amante, di cui tutti sapevano vita e miracoli. Soltanto il barone aveva l'aria di non saper niente; soltanto lui ancora credeva, o fingeva di credere, che la baronessa non era scappata via con quell'amante, ma era andata in campagna, da certi suoi lontani parenti. Alla sentenza del marito, la signora Dea fece una spallucciata per significare che, infine, non le importava nulla delle prodezze della baronessa, e continuò a disporre negli scompartimenti lettere e giornali. - Torno in farmacia. Se occorre.... - Va pure.
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Uno sguardo, solo, ma Cosima vide un misterioso balenio in fondo alle pupille che non erano quelle del duro e freddo Elia, ma di un uomo disperato, che aveva paura di morire solo, abbandonato, come un vecchio cane. Gli si avvicinò e disse: «Come vi sentite? Faremo venire il dottore, o vi porteremo a casa.» Egli accennò di no, di no: per quanto solo e malato, non voleva il dottore e non voleva muoversi dalla sua tana: ma l'occhio gli si era rischiarato, pieno di una dolcezza, quasi di un sorriso infantile. «Andate, andate pure» disse. «Vadano pure a casa, signorina, lei e la signora padrona: bisogna pigiare l'uva e metterla nel tino.» «Eh, non la pigiamo noi, coi nostri piedi» disse Cosima, tentando di scherzare. «C'è poi Andrea, che ci bada: non pensateci. E poi il tempo si cambia: minaccia di piovere. Non vogliamo lasciarti cosí, zio Elia.» Ella lo chiamava cosí, come si usava con tutti i vecchi servi; ma era la prima volta che egli si sentiva accomunato agli altri, come fosse nato nella stessa terra e tutto il suo passato sprofondasse quasi in una vita anteriore. Tuttavia non parlò, non dimostrò la sua gratitudine: anzi fece un po' indispettire la padroncina col rispondere sempre con un cenno negativo del capo a tutte le sue domande premurose. No, egli non voleva il dottore, non voleva muoversi, non voleva che nessuno si disturbasse per lui. Vecchio testardo. Pareva volesse morire solo, come solo era vissuto. Ma le padrone restarono, finché arrivò Andrea che portò del chinino: si discusse però se si doveva o no somministrarlo al malato: e del resto la discussione fu vana, perché egli dichiarò che non avrebbe preso nessuna medicina. Durante la notte si scatenò una forte bufera: la grandine mitragliava la piccola casa, e il pino urlava come un mostro. Dietro gli scurini mal connessi i vetri della finestra parvero spaccarsi e spargersi in frammenti d'oro e d'ametista, con un rombo spaventoso. Lampi e tuoni. Non c'è da nascondere che Cosima aveva paura e la madre tremava come una fronda sbattuta dal vento. Storie spaventose di banditi e malfattori, che in notti simili sbucano come demoni dalla tempesta e assalgono le dimore solitarie, tornavano in mente alle donne: e il fatto che il servo e Andrea erano rimasti sul posto, non le rassicurava. Il vento gridava e piangeva nella pianura come nel mare, e solo il pino pareva potesse combattere con l'uragano come un eroe inferocito contro un intero esercito. Nel suo giaciglio Elia, con la febbre alta, ricordava come il signor Antonio lo aveva accolto benevolmente quando lui si era presentato in cerca di lavoro, mentre nessun altro dei diffidenti proprietari del luogo aveva accettato la sua offerta; e il padrone gli aveva affidato la vigna nuova, l'orto, la terra intorno. Adesso il vecchio amava questa terra con una passione tenace; era diventata la sua nuova patria, la sua famiglia; e il solo pensiero che i padroni giovani avrebbero potuto mandarlo via, come una vecchia bestia che non può più lavorare, lo colmava di tristezza: non per la probabile ventura povertà, ma per l'amore alla terra che oramai faceva parte della sua carne e del suo sangue. Ed ecco, invece, la padrona e la signorina, e lo stesso Andrea, si mostravano benevoli, fino al punto di restare vicino a lui in quella notte tempestosa mentre avrebbero potuto già essere nella loro casa tranquilla. E non lo avrebbero cacciato, no: lo sentiva; lo aveva sentito nella voce di Cosima, e gli sembrava che questa voce fosse l'unica medicina che potesse guarirlo. E la certezza che un giorno forse avrebbe potuto dimostrarle la sua riconoscenza, già lo alleviava dal male. All'alba il tempo si calmò, d'un tratto, dopo un tuono formidabile che parve un ordine militare: la battaglia doveva cessare. Solo il pino continuò in un suo lieve brontolio, quasi pensieroso. Cosima lo sentiva nel sonno lieve del mattino: e le pareva che il pino mormorasse: "Perché tutto questo? Si combatte, si soffre, ci si tormenta per nulla: la forza del vento è vana; tutto è vano e vuoto; eppure bisogna combattere perché cosi vuole Dio". Poi tacque anche l'albero; ma quando Cosima aprí la finestruola vide uno spettacolo indimenticabile: centinaia di uccelli svolazzavano sui rami battuti dal sole, e parevano d'oro e d'argento: ogni loro battere d'ali faceva cadere goccie simili a scintille: e ad ogni ago delle foglie era infilata una perla dai colori dell'iride. Pareva un albero magico, fatto di uccelli, di rubini, smeraldi e diamanti.
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L'esercizio prolungato dei muscoli, il consumo fisiologico, sono certo causa di sensazioni penose; ma basta che lo sforzo si arresti, che l'organismo sia abbandonato all'inerzia, perchè un profondo benessere, un sollievo quasi voluttuoso guadagni tutte le fibre. Il lavoro dello spirito non conosce queste tregue ristoratrici; l'attività cerebrale, una volta destata, non si può più arrestare; le idee succedono alle idee, le imagini alle imagini, secondo una legge di associazione incosciente; e la volontà, non solo impotente a frenare questo movimento, ma spesso ancora a dirigerlo. Un malessere fisico ordinariamente ne deriva, come effetto dell'afflusso del sangue al cervello, ed in questo stato irritante la stessa riparazione del sonno tarda a venire. Carlo Landini, con la fronte scottante, la vista intorbidata dalle lunghe letture dei voluminosi processi accatastati sul grande tavolo da lavoro, aveva dato ordine che nessuno fosse introdotto per quel giorno nel suo studio. Se negli anni della sua prima giovinezza si era parlato di lui come di uno cui l'avvenire arrideva, il fatto si era lasciato indietro le più liete promesse. A poco meno di quarant'anni, in una professione dove la concorrenza è grandissima, egli aveva conseguita la più chiara delle reputazioni, si era fatto un posto eminente non solo fra i suoi compagni, ma perfino fra i maestri, ed era talmente affollato di affari, da vedersi spesso costretto a rifiutarne ed a chiudere l'uscio di casa sua ai troppo numerosi clienti. Quel giorno, l'ordine era stato appena impartito, il Landini aveva appena chiusa l'ultima memoria, che il campanello elettrico risuonò. - Chi è ancora? - chiedeva egli infastidito, al servo che, aperto l'uscio, se ne stava lì in mezzo, come cercando le parole. - Una persona che vuol parlare al signore... che insiste.... - Ho già detto che non sono in casa per nessuno. - Dice, scusi, che deve consegnare a lei personalmente una lettera urgente.... L'avvocato Landini passò egli stesso in sala, non cercando di nascondere la sua contrarietà. Si trovò dinanzi ad uno sconosciuto, che dall'abito, dall'attitudine umile più che rispettosa, pareva dover essere un domestico. - Che cosa volete? - È lei il signor avvocato Carlo Landini? - Io in persona. - Debbo consegnarle questo. Cavò di tasca una lettera e la porse al Landini. Appena questi ebbe gettato uno sguardo sulla busta, il fastidio che s'era fino a quel momento letto sulla sua fisonomia, dette luogo ad una specie di attenzione concentrata, di preoccupazione mista ad una inquieta curiosità. - Sta bene.... grazie.... - disse alla persona che aspettava, congedandola; e passò rapidamente nella sua stanza da studio. Prese sul tavolo un piccolo tagliacarte a foggia di scimitarra, e come la luce si andava ritirando, si fece presso la finestra. Stava per aprire la lettera, quando si arrestò un momento, considerando il carattere dell'indirizzo, sulla busta moyen-âge, suggellata di ceralacca azzurra in un angolo. - Dieci anni! - mormorò, facendo mentalmente il conto del tempo trascorso dacchè quella persona non gli aveva più scritto. - Dieci anni!.... - e una tristezza gl'invadeva lentamente l'anima, come una nebbia, mentre sollevava uno sguardo al cielo occidentale, sul cui fondo rosato si ergeva gloriosamente la cupola di Santa Maria del Fiore. Dieci anni, dacchè aveva ricevuta l'ultima lettera di lei; e quei dieci anni non erano valsi ad abolirne il ricordo, se appena scorto quel carattere fine, minuto, ma inchiostrato nei pieni e dalla asteggiatura eguale, lo aveva immediatamente riconosciuto, senza esitare un istante! Dieci anni - e il sangue gli aveva dato un tuffo, ora come allora, come quando ogni lettera di lei lo colmava di un turbamento delizioso!... Le memorie irrompevano nella mente del Landini, ed egli se ne restava lì, dinanzi alla finestra con gli sguardi errabondi, tenendo la lettera in mano, ma senza decidersi ancora ad aprirla... Era stato tutto un romanzo, un romanzo di passione, di tormenti, di felicità, un romanzo in fondo al quale non era stata però scritta la parola piena di soave rammarico e di composta rassegnazione: Fine. Bruscamente, quella donna a cui lo legavano i vincoli più teneri e più saldi, le gioie insieme gustate, i pericoli sfidati insieme, lo aveva messo quasi alla porta, gli aveva ingiunto di non tentar di rivederla, mai più! Che cosa era avvenuto? Perchè quella risoluzione incredibile, contro la quale ogni sua insistenza si era spuntata?... Non aveva potuto saperlo. A tutte le lettere che egli le aveva scritte, alle umili lettere di preghiera, alle appassionate lettere d'amore, alle fiere lettere di minaccia, ella non aveva voluto rispondere. Un momento, era stato per ismarrire la ragione dinanzi a tanta ostinatezza di repulse. Il secreto che essi erano riusciti a serbare a costo di mille rischi e di mille sacrifizii , egli era stato sul punto di andarlo a rivelare a chi più interessava di conoscerlo; le aveva fatto sapere che se ella non si fosse piegata a rivederlo, ad ascoltarlo, a dargli una ragione di quel suo repentino mutamento, sarebbe andato a dir tutto al marito di lei!... Pazza minaccia, che non era stata seguita da effetto, grazie al sopravvenire del freddo ragionamento, non già perchè ella si fosse piegata!... Ed era stato per un caso, molto tempo dopo, quando ella era scomparsa nella solitudine di una campagna ignorata, che egli aveva intraveduto il possibile motivo di quella rottura. Poco prima che questa scoppiasse, un suo amico, quasi un fratello, gli aveva chiesto uno di quei servigi che solo un fratello può rendere: gli aveva affidata una donna compromessa per causa propria. Durante tutto il tempo da costei passato a Firenze, egli si era perciò messo a sua disposizione; le aveva reso tutti quei piccoli servigi che erano in suo potere, le aveva fatto meno insopportabile la sua posizione disgraziata. Ed ecco che una voce si era sparsa a sua insaputa, ed ecco che tardi, troppo tardi, veniva al suo orecchio quella voce, secondo la quale quella signora sarebbe stata la sua propria amante!... Allora, egli si era tutto spiegato: l'invenzione assurda, malvagia, aveva dovuto arrivare fino all'altra, fino a lei; ella l'aveva creduta; e la cieca prepotenza dell'amor suo non gli aveva data una prova preventiva di quel che avrebbe dovuto essere la sua gelosia?... Tutta questa storia, nei suoi più minuti particolari, si svolgeva ora nella memoria del Landini. Girando quella lettera da una mano all'altra, egli pensava che in quel pezzo di carta doveva essere la conferma o la smentita di quella sua spiegazione. Però non si decideva ad aprirla. Un tumulto di sentimenti gli si era scatenato nell'anima, e con quell'acutezza di indagine psicologica che metteva nello studio dei suoi processi, analizzava ora raffinatamente sè stesso. Perchè il suo cuore batteva dunque così forte? Ah! egli è che di un amore come quello, da lui ricordato, non se ne provano due nella vita!... Egli aveva amato ancora, aveva cercato attraverso le rinnovate esperienze qualche scintilla di quella gran fiamma: ma non l'aveva trovata. Come il duca d'Illiria della Dodicesima Notte di Shakespeare, egli avrebbe voluto esclamare:
Tobia era lì; in maniche di camicia, abbandonato su una sedia con la spalliera inclinata verso il muro; e dormiva, stanco. Chiunque avrebbe potuto saccheggiargli il negozio: egli dormiva, stanco di aver venduto a caro prezzo la sua roba diletta. Ma appena io misi piede nel negozio si svegliò di soprassalto e mi venne incontro quasi spaventato. Dapprima parve non ricordarsi, poi si mise al banco come per vendere, e io davanti come per comprare: e mi interrogò coi piccoli occhi porcini, di solito sfuggenti allo sguardo che li cercava. Io avevo preparato una specie di breve memoriale dove raccontavo quello che avevo imparato nell'istituto, e come non volendo più vivere alle spalle della zia desideravo ardentemente di lavorare e di guadagnare. L'ebreo lesse attentamente, anzi con una certa curiosità; poi mi restituì il foglio. E così fece in seguito per tutti i foglietti sui quali io gli scrivevo qualche cosa. Al contrario del padre di Fiora, non amava far raccolta di documenti e scritture a meno che non fossero di un valore serio e indiscutibile! Ecco dunque la conversazione scritta fra me e lui: Tobia: tutto questo va bene; ma, caro, è difficile trovare un posto d'agronomo, nelle tue condizioni. Io: ma io posso accettare di lavorare anche come contadino. Tobia: non ti conviene, caro, dimmi, piuttosto, perchè non pensi a coltivare il tuo terreno? Io: ci penso, sì, ma non ho denari. Tobia: quanto ti occorrerebbe? lo: per adesso duemila lire. Tobia: il tuo terreno quanto vale? Io: cinque o sei mila lire, com'è adesso. Tobia: se qualcuno ti offre le duemila lire in prestito, saresti tu disposto a firmare una cambiale ed a lasciar accendere un'ipoteca sul tuo terreno? Io ero disposto a tutto, anche a lasciare accendere un'ipoteca dal diavolo sull'anima mia. II droghiere Tobia mi significò essere lui medesimo in persona che dava i denari: prima però doveva informarsi se davvero il mio terreno era coltivabile, e volle sapere da me come intendevo disporre di quelle prime due mila lire. lo avevo fatto tante volte i miei conti; mi bastava in principio una capanna, degli strumenti per dissodare la terra, e piante e sementi. L'acqua c'era: bastava incanalarla. Tobia leggeva i miei foglietti e mano mano me li restituiva, pensieroso. Pareva studiasse sul serio il modo di aiutarmi, senza però farsene merito: infine, siccome qualcuno entrava nella drogheria, mi accennò di andarmene. Quando mi ritrovai nel sole della strada, lo splendore del mare mi parve dentro l'anima mia. La vita si spalancava davanti a me luminosa. L'istinto non m'ingannava, circa Tobia: sentivo ch'egli mi dava i denari a usura, con la sicurezza di riaverli, ma più sicuro ero io, di restituirglieli.
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Dopo quel tentativo di avvicinamento, mi aveva di nuovo abbandonato a me stesso, senza trascurare nulla per il mio benessere materiale. Mi aveva comprato maglie e vestiti nuovi, e caricato il letto di coperte di lana; accendeva il fuoco per me nella tetra stanzetta da pranzo che s'illuminava tutta e diventava quasi allegra. Fuori imperversava il mal tempo: io andavo dalla porta di strada alla porta sul cortiletto, entravo in cucina, entravo nella stanzetta da pranzo, tornavo nell'ingresso: ma non uscivo: la noia e la tristezza mi divoravano. Ed ecco finalmente venne a trovarmi il vecchio marinaio: aveva un enorme ombrello verde che lasciò a sgocciolare sullo scalino esterno della porta. Io non mi sorpresi della sua venuta; l'aspettavo; non mi sorpresi, eppure il cuore mi batteva come quando avevo veduto il padre di Fiora in casa nostra. II vecchio veniva a domandare come stavo: credeva fossi malato. Lo si invitò a sedere accanto al camino, ma egli volle andare di là, in cucina. Non aveva freddo, lui: dalla sua bocca usciva un abbondante vapore; e si passò la mano sulla fronte perchè sudava. Con meraviglia vidi che aveva le scarpe; due scarponi che sembravano barche. Mentre discorreva con la zia, che lo ascoltava un po' diffidente, un gattino gli si arrampicò sulla gamba: egli lo prese e lo tenne dentro il suo pugno, se lo accostò al viso quasi volesse baciarlo, e per tutto il tempo che stette da noi non finì di accarezzarlo: intanto però doveva domandare alla zia qualche cosa di molto grave e serio perchè lei si faceva sempre più scura in viso; finalmente gli rispose accennando me con la testa: e io intesi benissimo il senso delle sue parole: "tocca a lui decidere,,. Subito il vecchio mi invitò ad andare con lui: ma non era solo questo che dovevo decidere: qualche altra cosa ben più grave e profonda dovevo decidere, o era già decisa per me dal destino. Esitavo quindi a muovermi: d'altronde il restare ancora lì dentro mi soffocava. Mi lasciai portare via, sotto l'ombrello che pareva un pino: ma quando si fu davanti alla drogheria afferrai il braccio del vecchio per tirarlo verso il mare; egli mi guardò; io arrossii e ripresi a seguirlo docilmente. Nel mio turbamento immaginavo di trovare ancora la donna sotto il pergolato, e mi sorpresi nel vederla accanto a un alto braciere di ottone, in una stanza le cui pareti erano tutte ricoperte di quadri e di fotografie in cornice. E anche qui, come nella casa colonica, dominava dalla parete il ritratto ad olio del padrone di casa: pareva anzi fatto dallo stesso pittore, perchè aveva le medesime tinte accese: solo che era di profilo, e aveva una curiosa rassomiglianza coi ritratti di Dante quali si vedono nelle illustrazioni dei libri di scuola. La stanza era piuttosto tetra, quasi come la nostra; dalla finestra penetrava l'acqua, che la serva asciugava con uno straccio: e anche la donna era immelanconita, con uno scialletto nero che le nascondeva il bel collo e la invecchiava. Ma d'un tratto ecco che mi ritrovo solo con lei, perchè la serva s'è ritirata chiudendo dietro di sè l'uscio di cucina e il vecchio è anch'esso sparito quasi furtivamente: ella solleva la testa dal lavoro e mi guarda: mi guarda arrossendo e poi reclina di nuovo il viso. Quello sguardo chiaro, vivo, quel rossore, mi penetrano l'anima, ne illuminano gli angoli più neri, come lampi in una notte oscura. Mi sento tutto bruciare, dentro: e la verità mi percuote finalmente il cuore.
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Che, inoltre, il cieco la giudicasse male, in quell'occasione, se ne convinse subito; perchè nel sentire che il bambino insisteva adesso nel suo pianto lamentoso, egli disse come fra sè: - Sembra davvero un agnello abbandonato: ma chi se ne cura? E buttatelo nell'orto, a pascer l'erba; sarà meglio per lui. Lei stava zitta, dura: eppure quel pianto cominciava a darle una strana impressione: le pareva che il bambino la chiamasse, che se lei si muoveva, se, come la sera prima, lo prendeva in grembo, si sarebbe calmato. Ma non voleva muoversi, no: anche perchè sentiva un odio sordo contro il brigadiere, che per lei era uno di quei feroci personaggi che tutti in blocco rappresentavano la Forza mostruosa che le aveva tolto il figlio di casa per buttarlo nei campi della morte. Zitta, dunque, e dura, anche per protestare contro la sorte: perchè doveva muoversi a raccogliere il figlio altrui? Lo buttassero nell'orto, a pascer l'erba: e se il cieco non smetteva di brontolare poteva esser buttato anche lui fra le immondezze. Il cieco non brontolava: s'era alzato, però, e stava fermo contro la parete, con le mani aperte penzoloni e il viso sollevato, coi capelli sulle guancie, come un Cristo schiodato dalla croce e messo lì appoggiato al muro: aspettava con inquietudine che si decidessero le sorti del bambino. Adesso si sentivano Davide e il brigadiere discutere, e quest'ultimo non sembrava molto convinto delle ragioni che il primo si dava. Infine il dottore dichiarò che la ferita del bambino era prodotta semplicemente da una caduta dall'alto, forse da un cavallo, forse da un carretto, come Davide sosteneva: la febbre proveniva da cause interne: ad ogni modo era umano e prudente tenerlo lì finchè non si fosse trovata una donna per bene a cui affidarlo. Davide non replicò: e così fu deciso che momentaneamente il bambino restasse in casa. Allora il cieco si calmò; anzi parve cercar di sparire, per non dar noia alla padrona: andò lungo la parete; uscì nel cortile e per tutta la mattina nessuno più lo vide nè si curò di lui.
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Un muratore, un falegname prendono i loro arnesi e vanno per il mondo a crearsi la fortuna; un povero tende la mano; un ammalato cerca il medico; un cane abbandonato sulla via trova qualcuno che lo porta con sè. L'amore solo non si crea dal nulla, non lo si dà per elemosina, non ha medicina, non ha ricovero — chi non ha amore è il vero mendico, è il vero ammalato... Oh gente che amate ecco la gran miseria! Si era fermata nel mezzo della camera, colle braccia penzoloni, l'occhio fisso e vitreo. Dalla camera attigua veniva il cinguettare delle bambine che si erano svegliate nel primo sonno : parlavano confusamente di bambole e di dolci. La voce della madre, umida e molle di sotto le coperte, mormorava: Zitte, dormite. Si sentivano i lettini scricchiolare sotto i piccoli corpi, e sotto il corpo placido della madre, che si voltava dall'altra parte, cedere docilmente il talamo. Severina si voltò verso il suo letto sconsolato; trasse di sotto al guanciale, una reticella di cotone bianco e se la strinse intorno ai capelli: È finita! In questo letto entrerà ora una vecchia. Ripetè vecchia, guardandosi attorno, meravigliata che nessuno protestasse. Che squilibrio però, che ingiustizia! Ella non si sentiva vecchia. Se sapessero i giovani come è difficile uccidere i desideri.... Balzac diceva trent'anni — evidentemente per non scoraggiare troppo quelle di venti. Tornò a guardare in giro per la camera, così fredda, così nuda, dove i mobili non avevano una voce, dove la tristezza delle cose rifletteva la continua tristezza della sua vita; il letto rigido, lo specchio trascurato, sul canterano un pettine inforcato nella spazzola; due ciabatte di pelle color cioccolata; un cencino di velo nero a cavalcioni di una sedia; nessun nastro, nessun flore; una regolarità monastica, quell'ambiente grigio delle celle dove non si è mai in due. Sciolse le sottane, fece saltare le molle del busto, restò in camicia. Ancora una volta girò lo sguardo sulle pareti, più in là delle pareti, fuori, nel mondo che dormiva, nel mondo che tripudiava, nel mondo che soffriva — vedeva una catena che allacciava tutti, lieti e dolenti — vedeva la pietà china sui giacigli, e invidiò gli ammalati, invidiò quelli che possono piangere, quelli che possono gridare — quelli che hanno una gamba cancrenosa e se la fanno portar via — tutti i dolori che si vedono, che si toccano, i soli a cui il mondo crede! Alzò le braccia, stirandole con una contorsione penosa di tutto il suo essere, lasciando cadere un'occhiata obbliqua; poi, rapidamente come per fuggire a un estremo supplizio, si chinò a strappare le calze, buttandole in un canto, spense il lume, brancicò il letto e vi si gettò, anima persa, nel grande oblio delle tenebre.
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