Quando però Bacco che allora s'intratteneva nella sua Isola, vide Arianna, fu tanto ammaliato dalla sua bellezza, che ordinò in sogno a Teseo dormente di imbarcarsi immediatamente, abbandonando Arianna. Che fece Teseo? - Uscì di soppiatto dalla sua tenda e s'imbarcò, e quando Arianna più tardi si svegliò, si trovò abbandonata nell'isola solitaria. Come fu compensata Arianna per il dolore che le fu inflitto? - Bacco le comparve in tutta la sua divina bellezza, la fece sua moglie e dea. Cosa accadde nel frattempo con Egeo? - Egli andava giornalmente sulla vetta d'un'altra rupe in riva al mare e scrutava con nostalgia l'arrivo della nave del figlio. Infine un giorno vide da lontano la sospirata nave. Ma il timoniere aveva dimenticato d'issare invece della vela nera, la bianca e vedendo la vela nera, credette che il figlio fosse morto. Disperato si precipitò nelle onde, ed allora quel mare si chiamò il mare Egeo. Chi era Paride? - Uno dei cinquanta figli del re Priamo di Troia e di sua moglie Ecuba, a cui l'oracolo prima della nascita di questo figlio aveva predetto che invece d'un figlio essa partorirebbe una fiaccola, che avrebbe incendiato tutta Troja. Cosa fece Ecuba col piccolo Paride in seguito a questa profezia? - Essa espose il neonato sul molte Ida, dove fu allattato da una orsa ed allevato da un pastore che ne fece il custode delle greggi reali. Che narra la leggenda delle nozze di Tetide e di Peleo? - Poichè Tetide era di stirpe divina, alle sue nozze parteciparono tutti gli dei e le dee; che la colmarono di doni nuziali; soltanto Eride, la dea della discordia, non fu invitata. Come si vendicò Eride dell'offesa patita? - Aprì la porta e gettò in mezzo alla brigata un pomo d'oro con la leggenda « alla più bella » e sparì. Questo fu il vero pomo della discordia, perchè ciascuna delle dee esigeva per sè il pomo. Come fu risolta la lite insorta tra le dee? - Dopo molte discussioni e dissidi le altre dee si ritirarono; soltanto Minerva, Venere, Giunone continuarono a disputarsi il primato di bellezza, e poichè lo stesso Giove non voleva decidere in persona, comandò a Mercurio di condurre le tre dee sul monte Ida da Paride, il quale era noto come il miglior intenditore della bellezza femminile. Come tentò ciascuna delle dee di corrompere il giudice? - Giunone gli promise di farlo il più potente e più ricco della terra, Minerva di farlo il più saggio fra tutti gli uomini, e Venere gli promise la più bella delle donne. Paride prese il pomo e lo offerse a Venere. Chi era Achille? - Il figlio di Peleo e di Tetide, alle nozze dei quali sorse la lite d ella bellezza tra le dee. Prima della sua nascita gli fu predetta un vita lunga, ma senza gloria, se fosse rimasto a casa; invece una vita breve, ma imperituramente gloriosa, se fosse andato in guerra. La madre angosciosa, per renderlo invulnerabile, lo immerse, subito dopo la nascita, nell'acqua del fiume Stige, che aveva la proprietà di assicurare il corpo contro qualsiasi lezione. Durante l'immersione però essa tenne il piccolo corpo per il tallone, sicchè quel punto rimase nonostante l'immersione, vulnerabile (il tallone di Achille). Come accadde che Priamo riconobbe in Paride il suo figlio esposto? - In occasione dei giochi che si celebravano in Troja, il re pose come premio del vincitore il più bel toro delle sue greggi, che era anche il toro prediletto da Paride. Perchè si presentò anche lui al torneo, ed avendo in lizza riportato vittoria persino sull'altro figlio di Priamo, il prode Ettore, tutti gli domandarono chi egli fosse: fu poi la profetessa Cassandra, figlia anche essa di Priamo, che svelò il segreto della sua nascita. Che incarico diede Priamo al suo ritrovato figliuolo Paride? - Lo mandò in Grecia a cercare una sorella del re, che fu molto tempo prima rapita dal Telamone e condotta in Grecia. Dove approdò Paride? - In Sparta, dove non incontrò re Menelao, che allora stava viaggiando, ma incontrò invece la sua bella moglie Elena, di cui tosto s'innamorò. Elena fu presa d'amore per il bellissimo straniero e si lasciò persuadere di seguirlo a Troja. Che conseguenze ebbe questo fatto? - Il re Menelao di Sparta - per vendicarsi dell'ingiuria - stimolò tutti i principi della Grecia a far guerra a Troja, e così il giudizio di Paride nella gara di bellezza delle dee fu la causa prima della decennale guerra trojana.
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In una città d'Italia è già accaduto che le signore, con vero coraggio di solidarietà, s'alzassero come spinte da una molla, e, abbandonando in massa lo spettacolo, ne dimostrassero la piena disapprovazione. Se le giovinette sapessero tutte prendere una così eroica risoluzione, il teatro, piuttosto che rinunziare alla grazia e alla freschezza della loro gioventù e all' entusiasmo delle loro anime, sacrificherebbe la rivelazione di tante brutture, per rappresentare un mondo migliore, che risvegliasse desiderio di respirare sempre, anche nella vita, quell'aria di serenità e di benessere comunicato dalla scena agli spettatori. Ma se qualcheduno - il più offeso - non dà l'esempio d'una sola lezione, gli autori continueranno ad ammannire salse piccanti, credendo il pubblico incapace di gustare cibi delicati e appena gustosi. Le più offese siete voi, o giovinette! Dovete ribellarvi voi per le prime alla non arte de' flaccidi scrittori d'oggidì, da cui la donna è rappresentata come una stupida che si lascia ingannare, o come una civettuola che inganna a sua volta. Ammesso però che possiate restare tranquille sin alla fine del dramma, state davvero tranquille; voglio dire, ascoltate tacendo, senza ridere sguaiatamente, senza gestire, senza voltarvi di qua e di là, e senza stare a bella posta con gli occhi fissi in tutt'altra parte che sulla scena, e non perchè qualche cosa attiri la vostra attenzione, ma perchè volete dimostrare che lo spettacolo non vi diverte, non vi piace, o, meglio, non è degno di voi. Questa è posa bell'e buona; come è posa quel vostro torcere la bocca, quell'alzare le sopracciglia in una mossa sdegnosa, tutto il vostro atteggiamento indifferente. Negl'intermezzi poi, fra gli atti, non vi lasciate andare a critiche avventate: vi si potrebbe chiuder la bocca con una mortificazione ben meritata. Se non siete state nemmeno attente alla recita! Che ne potete aver capito? Anche se la vostra elevatezza mentale fosse capace di giudicare, astenetevi dalla critica: solo in famiglia, fra intimi, potrete dire la vostra impressione con garbo, senz'atteggiarvi a superdonne. Se assistete all'opera, evitate, per carità, quel dondolamento del corpo, quel ticchettío del piede, quel mugolío d'accompagnamento che urta chi è vicino, ed è vera e propria mancanza di rispetto e di gusto artistico. Guardate infatti quell'omone in panciolle, che ostenta una grossa catena d'oro sul corpetto sgargiante; come se la gode in quel tentennamento della gamba, che mette in mostra il luccichio della scarpa di vernice! Certo il suo orecchio proverà lo stesso raschío nell'udire la più volgare canzonetta che il coro del"Tannhauser"o il duetto del "Tristano e Isotta". Un'altra prova di gusto, figliole mie, voi darete nel vostro abbigliamento, sia che sediate modestamente ne' posti numerati di platea, sia che sfoggiate la vostra gioventù nella piena luce del palco di prima fila. Non scintillii d'oro o di brillanti chimici, non nastri molticolori ne' capelli bruni o biondi, non scollature, non guanti di pelle lunghi fino alle spalle; ma una camicetta chiara semplicissima, con un'apertura che lasci libero il collo, ma non si prolunghi troppo, un fiore sul petto, un altro, se volete, in testa, adatto al colore delle trecce, e niente di più. La vostra freschezza giovine e sorridente sarà il più grazioso ornamento.
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Ma rimarresti priva d'appoggio se rifiutando una cosa, non ne abbracciassi subito un'altra che te ne compensasse, se cioè abbandonando le illusioni mondane non ti attaccassi di proposito al Signore; tu avrai, ne son certa, fatto al buon Dio le tue proteste di voler servire Lui solo, e di adoperare tutti i mezzi per servirlo più fedelmente che per te si possa, rinunciando per sempre a tutto quanto non conduce a Lui, fine unico, meta sicura della nostra esistenza. Oh! se nel tuo cuore Iddio ha posto queste buone risoluzioni, e tu hai amore a coltivarle, vorrai certamente accogliere i miei consigli, e seguire la via che io ti indicherò per le varie occorrenze, pei diversi stati dell' animo tuo e della tua condizione sociale. Io vorrei poter spargere il tuo cammino di sole rose; ma non posso ingannarti; le rose ci sono sì ma alla meta; talvolta ne troverai anche qualcuna sulla tua strada, e sarà per incoraggiarti a proseguire il tuo viaggio; ma la strada è difficile, angusta, spinosa, nol so, nè il posso, nè il voglio dissimulare. Ma te l'ho detto e tel ripeto: il giogo del Signore è soave e il suo peso è leggiero, ed armata da un vero orrore al peccato, animata da un vivo desiderio del bene, la strada difficile, angusta, spinosa alla carne, diventerà per te agevole, cara e perfino amabile. Non credi alla veracità delle mie parole? Prova, e vedrai. Ti sei mai provata nella state a camminare per le viuzze scoscese del monti? Dimmi; talvolta la fatica della salita, il caldo, i sassi pungenti, le siepi che buttavano i loro rami intralciati sul tuo sentiero, tentavano di farti troncare a mezzo la tua ascensione, e taluna delle tue compagne ha ceduto alla tentazione, e s'è arrestata prima di raggiungere l'altezza. Ma tu pensavi:se mi fermo qui non godo le delizie del piano nè quelle del monte: avanti, avanti, lassù godrò finalmente e riposerò. Ed animata da questo pensiero hai proseguito l'erta faticosa; hai sudato ancora, hai lacerato perfino la veste; ma quando le tue forze pajono esaurite ed il tuo respiro si è fatto ansante, l'occhio tuo è colpito, entusiasmato da una stupenda veduta. Dio Vi ringrazio! tu hai esclamato, ed il tuo piede dimentico delle passate fatiche corre e folleggia su quell'amena prateria, d'onde domini i monti ed i colli che stanno a' tuoi piedi, i laghi, i fiumi, le selve, i burroni, e ti senti signora di tutto, e la tua anima spazia nell'infinito, e da ciò che vede entra nel campo di ciò che non vede se non coll'occhio della fede, e si bea in un godimento così intenso da farle disprezzare le fatiche superate per giungervi. Nè basta; il tuo corpo sente bisogno di refrigerio, tu corri in una capanna dove stanno i pastori a custodire il gregge, trovi del latte, lo bevi con incomparabile piacere da una ciotola di legno; ma quel latte ha una dolcezza non mai provata, ha un sapore, un condimento superiore ad ogni altro. Poi non sai saziarti di vedere, di visitare quei pascoli, e t'interni sotto una selva ombrosa a cogliere ciclamini, e ti sporgi su quel masso dal quale si dominano le sottostanti praterie che sono a loro volta la cima dei monti più bassi, e ti siedi all'ombra dei cipressi e dei pini, ed aspiri l'aria imbalsamata e piena d'aromi salutari, e pensi... Oh! quanti pensieri, allegri, malinconici, ma tutti belli, tutti soavi, poichè l'aspetto imponente, maestoso della natura sa inspirare sentimenti nobili e delicati; io credo che se si potesse sempre proporre la contemplazione delle bellezze naturali a colui che sta per commettere un delitto, e si potesse fermare l'attenzione sua su di esse, io credo ch'egli riporrebbe nel fodero il suo pugnale, e muterebbe i suoi propositi. Io mi sono forse soverchiamente lasciata trascinare da rimembranze soavissime, a rischio di abusare della tua pazienza; ma dimmi, se tu veramente avessi fatto quella salita, se tu veramente avessi assaporato quelle dolcissime emozioni che più volte hanno inondato l'animo mio, non avresti compassionato coloro che spaventati dall'angustia e dalla difficoltà dell'erto sentiero che rimaneva loro a percorrere, o sono rimasti a casa, ovvero a mezza via? Avresti tu rimpianto la loro facile quiete sentendoti rinnovato non solo il corpo a quell'aura vitale, ma più assai la mente ed il cuore? Oh! se non credi che la via che conduce a Dio offra alla sua meta dolcezze incomparabili, prova, prova, e troverai che Iddio nella sua misericordia ne ha sparso il cammino arenoso di oasi confortanti nelle quali troverai tanto grandi conforti, incoraggiamenti e delizie, che animosa non solo correrai, ma volerai sulla strada. Volgendoti poscia a coloro i quali non sanno vincere le difficoltà, farai di tutto per scuoterli, mentre ti muoverà il cuore un senso d'indefinibile compassione pei poveretti che non vogliono superare i primi sforzi dei quali ben presto si troverebbero largamente compensati. Sì, mia cara, i mezzi che io ti proporrò ti parranno difficili e gravosi, poichè il corpo nostro, intollerante di qualunque peso, rifugge da quanto ne ha l'apparenza, e si sobbarca invece facilmente a quanto gli s'impone senza avvedersene. Ma se tu vuoi il tuo vero bene, se odii il peccato, non c'è altra via di scampo che questa; andare a Dio e distaccare il cuore dalla terra, da tutto quanto è terreno, toccandone solo quel tanto che ci prescrive il dover nostro. Che se tu pretendessi servir Dio ed in pari tempo servire il mondo, faresti come colui che cammina sopra un letto di arena: si sforza di correre e più alza il piede, e più il piede si sprofonda nella sabbia, ed anzichè andare avanti torna indietro; finchè trafelato ed ansante si decide a raggiungere il punto più vicino di terra soda, od afferra una tavola od un ramo che la provvidentissima Provvidenza gli presenta, e gettatolo sopra l'arena cammina sovr'esso sospirando il termine che finalmente raggiunge. Sì, il mondo, la società è un banco di arena che si mostra all'occhio inesperto piano e lucente; ma quel banco esaurisce le forze, fiacca la volontà e invade di scoraggiamento chi non sa abbrancarsi alla tavola di salvamento, che a Dio riconduce. Alcuni mesi or sono allorchè mi trovavo in villeggiatura, in una gita di diporto mi recai presso all'Adda, e questa avendo deviato dal suo cammino, lasciava scoperto una parte del suo letto divenuto così uno smisurato banco di arena. Fu là che io tentai di correre, e vedendo come il mio piede s'immergeva laddentro e faticava poi immensamente ad uscirne, pensai: così è della società se vi si immerge; addio salvezza; se si ha cura di poggiarvi leggiero il piede e in certo modo la si sorvola senza attaccarvisi, allora soltanto si raggiunge presto e felicemente la meta. Quando toccai quella specie di spalto protetto dall'ombra di spessi ed alti salici che costeggia l'arena, mi volsi addietro, e meditai!... Medita tu pure; rinnova col tuo orrore al peccato le tue sincere proteste di volere veramente servir Dio, e accetta benevola la mano che come tenera maggiore sorella io ti porgo per ajutarti a superare le tentazioni non solo, ma le difficoltà che ti si frapporranno perfino nell'adempimento dei tuoi doveri. Non dissimulo un senso di timore e di vergogna nel pormi a tua guida; ma Iddio lo vuole, ed io giovandomi dell'esperienza delle mie stesse cadute ti avvertirò del pericolo, di additerò il rimedio, e mi sforzerò di parlarti con tanto amore, da persuaderti che ti amo assai, ma che in te stimo ed amo assai più del corpo infermo e caduco, lo spirito elevato ed immortale. Sì, io ti amo davvero, perchè so che da te giovinetta dipendono le sorti di quella famiglia che forse ti verrà affidata da Dio; dipendono le sorti di tutte o di molte famiglie che dalla tua avranno origine ed attinenza; dipendono infine le sorti della società la quale non è altro che un insieme di molte famiglie. Oh! se tutte divenissero come diverrà sicuramente la tua, ove tu segua l'impulso della grazia, la sociètà cesserebbe di essere un banco di arena che ritarda il piede, lo fiacca, gli rende difficile la via che conduce a Dio, quella via che conduce ad una felicità che non avrà fine giammai, e che io auguro di cuore a te, a tutti coloro che porteranno il tuo nome, a tutti che avranno qualche rapporto con te.
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In certi Paesi come il Cile, la cortesia esige che ci si dimostri sazi abbandonando nel piatto metà della pietanza. In Italia questa manifestazione darebbe delle inquietudini all'ospite, il quale, vedendo ripetersi due o tre volte di seguito il gesto, avrebbe motivo di domandarsi: «possibile che stasera io non ne abbia indovinata una?» Ma il cileno bene educato, invitato in una casa romana o fiorentina, si informa in precedenza degli usi e costumi italiani, come farai tu quando entrerai in una casa di Santiago o di Valparaiso. In Cina, ai tempi dell'Impero e dei piedi femminili sferici, l'ospite di un generale o di un mandarino si vedeva presentare, alla fine del pasto, un piatto di riso bollito; egli doveva guardarlo, ma respingerlo. L'anfitrione porgendo quel piatto di riso intendeva esprimere all'invitato che tutto ciò che gli aveva fatto servire prima non era altro che una serie di « amuse-gueules », di effimeri trattenimenti, e l'invitato, rifiutando il piatto di riso, gli rispondeva simbolicamente che i preliminari lo avevano saziato e soddisfatto. In Scandinavia, dopo le frutta, il vicino di destra della padrona di casa si leva per pronunciare con poche frasi l'elogio del pranzo, della casa, degli ospiti e in particolar modo della signora. E' quindi raccomandabile a colui che prevede di essere l'invitato più importante, di prepararsi un piccolo speech. Non è necessario che citi la musica di Grieg, i drammi di Ibsen, né il genio politico di Gustavo Adolfo, né il fascino di Greta Garbo e di Ingrid Bergman. Basta rimescolare, come in tutti i discorsi di circostanza, le solite insulsaggini che avrà udito altre volte in analoghi speeches. In Polonia gli uomini baciano la mano della padrona di casa in segno di gratitudine. Alcuni lustri or sono le donne, in Europa Occidentale, passavano nel salotto e gli uomini si ritiravano nel fumoir. Oggi nei paesi anglo-sassoni e nell'America Latina gli uomini si indugiano nella sala da pranzo per qualche minuto prima di raggiungere le signore, questo elemento decorativo e musicale da non trascurarsi nemmeno per brevi istanti nella sinfonia intellettuale, sentimentale, estetica di una soirée. Allo stesso modo che la moda, secondo la definizione di Lin Yutang, non è che una variazione dell'eterna lotta fra il desiderio confessato di vestirsi e l'inconfessato desiderio di spogliarsi, così l'arte di comportarsi nella società è un gioco di equilibrio fra le stupidaggini consacrate e le delicate ribellioni individuali. E' la replica alla sentenza «si è sempre fatto così», e la risposta alla domanda «ma perchè si dovrebbe continuare?» E' la conciliazione fra il buon gusto, frutto di un'educazione estetica, e la tradizione. A costo di dare una pugnalata nel cuore a qualche tenero nipote, gli ho consigliato di lasciare a casa la zia, la buona, la cara, l'impareggiabile zia che fu la sua seconda mamma, ma che quando fra un piatto e l'altro il cameriere le vuol cambiare le posate, dice «oh, non si disturbi!», o il consanguineo di non so quale grado, che finito il caffé e fumata la sigaretta, butta il mozzicone a spappolarsi in fondo alla tazza, nelle ultime gocce di caffé. Le belle maniere sono il punto di arrivo di tutta un'educazione, il risultato di una serie di osservazioni e il prodotto di una disciplina. Chi vi contravviene per ignoranza o per mancanza di raffinatezza innata non se ne può rendere conto, ma imprime un urto carico di conseguenze agli individui di più sottile sensibilità. Quel signore che entra per la prima volta in casa tua, e per prima cosa accende una sigaretta; quel signore che si presenta alla tua porta senz'averti telefonato prima; colui che ti mette nella lettera il francobollo o, se vivi all'estero, quel fastidioso «coupon-reponse international», presentano, con questi stupidi gesti, la Wasserman, la temperatura e la pressione arteriosa della loro mediocre personalità. Non si meraviglino perciò delle possibili reazioni. Il poeta Ernesto Ragazzoni, che si era foggiato uno stile mentale su Edgar Poe, Oscar Wilde e Baudelaire, una sera, cedendo alle insistenze di un amico, aveva accettato un pranzo offerto in un gran restaurant da un arricchito di recente data, che dopo un violento piatto di pasta asciutta si sbottonò l'ultimo bottone del gilet e invitò il poeta, dandogli una confidenziale manata sulla spalla, a fare altrettanto, e proclamando: Nella vita bisogna fare i propri comodi. Il poeta si levò, posò il tovagliolo, e disse all'amico: - Io me ne vado. Perchè non mi avevi detto che si trattava di un bifolco simile? E fece bene. Il denaro compera tutto e corrompe tutte le coscienze, ma non conferisce il diritto di contravvenire alle regole dello stile, soprattutto a quelle che non furono scritte. Qualche strappo se lo può permettere colui che, avendo fatto della propria vita un'opera d'arte, contravviene a qualche norma, in piena coscienza di contravvenire. Un aristocratico veneziano che contava nel suo albero genealogico dei magistrati e degli ammiragli, dei cardinali e dei dogi, invitò a pranzo all'Hotel Danieli una minorenne, una sgualdrinella dell'ultimo raccolto, piuttosto di bassa origine, ma graziosa, vivace e decorativa. - Bambina mia - le disse l'aristocratico, fermandole la manina che stava strofinando il fondo del piatto con un pezzo di pane per raccoglierne il sugo - questo non si fa. La signorina trangugiò la lezione e abbandonò a malincuore quel sugo aromatico e dorato che, per usare le parole di Duvernois, sembrava sceso dal pennello di Rembrandt. Otto giorni dopo i due si ritrovarono a pranzo, e l'aristocratico intinse il pane nel sugo di un «poulet en cocotte». - Mi avevate detto - osservò la ragazza - che non sta bene intingere il pane nel sugo.... L'aristocratico rispose: - Io posso farlo, perchè da ottocento anni so che non si fa. Tu, no, perchè lo sai solamente da otto giorni.
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Quindi a me pare che fossero riprensibili gli Egizi, i quali ne' momenti di duolo, la testa e il volto si coprivano di fango; i Romani che nelle stesse occasioni, abbandonando i bagni, facevano pompa di sordidezza; e i Milanesi che negli scorsi secoli si lordavano gli abiti ne' giorni del carnevale, slanciandosi a vicenda delle uova, in vece de' non sucidi é vero ma molestissimi confetti, come si usa oggidì: strana usanza che dopo molte proibizioni fu permessa alle sole dame, essendosi forse lusingato il legislatore che la gentilezza di queste la farebbe presto cadere in obblio. Vedi la grida del governatore di Milano del 14 febbraio 1692. Alla costruzione ed all'uso degli abiti, oltre la pulitezza, dee presedere il pudore. Possono dunque innocentemente le donne abbandonare agli altrui sguardi
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I Romani fecero il più lusinghiero complimento a Vespasiano, allorché, abbandonando un fasto troppo sfarzoso, imitarono la frugalità dell'imperatore. Una moltitudine immensa di popolo tumultuoso si dissipò ad una semplice parola d'Adriano a Roma, ecc. Siccome il magistrato non lascia d'essere uomo, quindi non di rado soggetto all'orgoglio in ragione del potere, perciò si dee riguadare come azione inurbana l'opporsi alle sue idee allorchè non recano d'inno al pubblico, e nel tempo stesso imprudente, se l'opposizione porta danno all'oppositore; quindi si può lodare il filosofo Favorino, e condannare l'architetto Apollodoro il primo, accusato perchè avea lasciato senza censura alcune idee d'Adriano in una contesa di grammatica, rispose scherzando: Può forse prendere abbaglio colui che ha trenta legioni a'suoi comandi? Il secondo, indispettito nel sentire l'imperatore a parlare di belle arti senza cognizione di causa, lo mandò a pingere le zucche. Più un magistrato è un imbecille, più si debbe avere riguardo all'irritabilità del suo amor proprio; giacché lo sforzo ad attribuire agli altri i nostri sbagli cresce in ragione della nostra imbecillità. Quindi fa d'uopo che in questi casi annunziate la cosa nudamente ed in modo che sembriate causa dell'errore, senza che vi si possa a buon diritto attribuire. Allorché il famoso generale Laudon fu battuto dal re di Prussia per avere cambiato posizione, giusta gli ordini del feld-maresciallo Daun, egli scrisse a questo come segue: Ho l'onore d'annunziare a V. E. che sono stato battuto nella posizione ch'ella mi ha ordinato di prendere. Sono con rispetto, ecc. Uno spartano non avrebbe renduto conto più nobilmente della sua disfatta, nè con maggior precisione. Mentre questa confessione allontanava dall'amor proprio di Daun l'idea d'essere autore della rotta, non diceva doversene incolpare Laudon, costretto ad obbedire, non padrone di ordinare. Il rispetto e la civiltà verso il magistrato non tolgono ai cittadini il diritto di predicargli quelle massime che possono spiacergli, e la violazione delle quali frutta pubblico danno; perciò quando Luigi XIV pretendeva di convertire i Protestanti del suo regno non colla persuasione, ma colla forza, Bossuet e Fénélon gli dissero che nissuna potenza umana ha diritto » sulla libertà del cuore; che la violenza, invece di » persuadere, fa degli ipocriti; che dare tali proseliti » alla religione, non è proteggerla, ma avvilirla ». Può essere qui ricordata una pratica che certamente non é troppo pulita per sè stessa, ma che mirava ad ottimo scopo, e che nella barbarie de tempi in cui fu usata , forse può meritare compatimento. Nel secolo XII per ricordare al nuovo pontefice che l'elevazione della carica non doveva fargli dimenticare d'essere uomo, egli veniva posto a sedere sopra una sedia di pietra bucata e vuota al di sotto, detta stercoraria, situata avanti il portico di S. Giovanni in Laterano; in quella posizione il pontefice gettava del denaro al popolo. La verità che si predicava al papa era certamente sacrosanta, ma il modo era tutt'altro che gentile.
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Abbandonando questo campo ai moralisti, e non volendo ripetere quanto dirà nel libro secondo, mi ristringo ai due seguenti oggetti.
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Quante volte si vedono al ristorante giovanotti e signore fermarsi ai tavoli degli amici abbandonando il proprio: non si fa, si saluta con un cenno della mano discretamente e senza sbracciarsi né urlare da un punto all'altro della sala. Gomiti. Mai sul tavolo e, se è possibile, teneteli stretti al dorso, anche se è difficile allargarsi nei minuscoli tavolini delle tavole urbane. Gossip. Meglio evitarlo a cena, a meno che non siate tra amiche o amici di vecchia data: la gaffe è sempre in agguato. Granchio. Vera crudeltà servirlo agli ospiti con il carapace e non già aperto con la polpa a portata di mano, che si preleva con l'apposita forchetta a tre denti. Grissini. È sempre più diffusa l'abitudine di offrirli ai propri ospiti; in questo caso, vanno tolti dalla confezione e sistemati in un cestino con il pane o da soli sulla tavola. Al ristorante è proibito avventarsi sulle confezioni di grissini senza tener conto degli altri commensali. In tutti i casi non si mangiano a bocconi, ma si spezzano e si portano alla bocca. Imboccare/si. Non si dovrebbero imboccare bambini o anziani in pubblico o al ristorante, ma ricordiamo che dipende sempre dal tipo di locale. Di norma, è meglio non portare alle cene formali i bambini sotto i dodici anni. Non si imbocca mai la fidanzata o l'amico a una cena o un pranzo dove si rispetta l'etiquette. Meglio evitare questa pratica, invece consigliatissima dallo Sgalateo. Se vedete un amico sposato imboccare un'altra donna al ristorante, state alla larga. Insalata. Si serve dopo aver passato due volte il piatto di portata principale per eventuali bis. Si adagia in un piatto o in una ciotola a sinistra del piatto. Come tutte le verdure si mangia con la sola forchetta, però è consentito usare il coltello per tagliare le foglie. Meglio comunque servire l'insalata in modo che possa essere portata alla bocca senza essere tagliata. Invito. Si risponde sempre a qualsiasi tipo di invito e si ricambia entro due mesi. Negli inviti indicate chiaramente il luogo, l'ora e il tipo di abbigliamento richiesto. Si conferma entro tre giorni al massimo e si disdice facendosi perdonare con un piccolo dono floreale. Per gli uomini andrà bene anche una pianta. Invitati. Anche per gli invitati le regole sono molte, limitiamoci riassumere dicendo che si acquista il titolo di invitati ideali quando: non si mettono a disagio gli altri ospiti, quando si contribuisce al divertimento e al piacere di tutti e quando si dimostra gratitudine ai padroni di casa per l'invito. Anche se si viene invitati al ristorante valgono le stesse regole, in più si cerca di non ordinare i cibi più costosi, ma neppure solo i più economici. Se il menu è già stato fissato e vi sono piatti che proprio non potete mangiare per ragioni di salute, chiedete di sostituirli con qualche cosa di semplice, come riso, una bistecca o un pezzetto di formaggio. Un invitato perfetto al ristorante si comporta come se fosse in casa del proprio anfitrione e quindi evita critiche alla cucina o al locale e cerca anzi un motivo per esprimere il proprio gradimento della serata. Chi invita non paga il conto a tavola, ma si alza regolando ogni cosa in privato. Se avvenisse al tavolo, si cerca di ignorarlo, limitandosi a fine serata a ringraziare con qualche commento tipo: «Siamo stati davvero bene» oppure un «Grazie di tutto». Deve essere l'anfitrione e mai l'ospite a concludere la serata; darebbe l'impressione di non gradire la compagnia. Attenzione, quindi, padroni di casa: sta a voi chiudere le danze con garbo. Jeans. In molti paesi del mondo andare a cena o in una casa privata indossando i jeans è sgradito, anche se certe marche costano centinaia di euro. Kiwi. Si taglia a metà e si consuma con un cucchiaino. Legumi. Si tratti di fagioli, piselli, fave o lenticchie i legumi si mangiano con la forchetta. Non si servono fagioli alle cene formali. Liquori. Si servono a tavola o ancora meglio in salotto dopo il caffè. Lisca. Se una vi si conficca in gola non stramazzate al suolo con le mani alla gola, ma alzatevi e andate in bagno dopo aver mangiato un boccone di pane. Ecco perché per evitare imbarazzo è opportuno servire pesce perfettamente pulito. Lumache. L'unica condizione per servirle con il guscio è fornire ai commensali le apposite pinze, in tutti gli altri casi si propongono sgusciate e in umido nelle diverse varianti. Nel primo caso, pinza nella mano sinistra e forchettina nella destra per estrarre la polpa. Make-up. Sì, è vero, non ci si rifà il trucco a tavola e confermo, ma davanti al rossetto non resisto. Mi piace vedere una bella donna tirar fuori dalla borsetta lo specchietto gioiello di famiglia e stendersi un rossetto rosso sulle labbra. C'è chi lo sa fare e chi no: mai durante un pranzo di lavoro. Mancia. In Italia la mancia non è obbligatoria come negli Stati Uniti o nel mondo anglosassone, ma gradita. Si lascia sempre a chi porta i bagagli e a chi vi parcheggia la macchina, al personale di servizio della casa che ci ospita e a tutti coloro che hanno svolto un servizio che non era nelle loro competenze. La cifra deve essere compresa almeno tra il 5 e il 10 per cento del conto totale. Al ristorante non si dà in mano al cameriere, ma è preferibile lasciarla sul piattino con il quale è stato consegnato il conto; se non è possibile si farà scivolare nella mano del destinatario senza farsi notare. Mandarino. Si sbuccia con il coltello tenendolo fermo con la mano sinistra e poi si mangia uno spicchio per volta. I maschi, di norma, non mangiano frutta perché sono maledettamente pigri, ma provate a sbucciargli un mandarino o una fetta di mela, vedrete che apprezzeranno molto il gesto materno! Ricordate però la Teoria del Precedente. Lo Sgalateo consiglia la «sbucciatura della frutta» come merce di scambio: tu fai una cosa per me e io in cambio ne faccio una per te. Mandorle. Vale la stessa regola dell'altra frutta secca. Una raccomandazione: chiudete la sinistra sulla mano destra a protezione, prima di premere le due parti dello schiaccianoci. Si sono visti pezzi di gusci schizzare nei décolleté e colpire il lampadario. Dai latin lover sono considerate cibo afrodisiaco. Mani. Si tengono sulla tavola in Italia e in grembo, nelle pause, se seguite la scuola britannica. Nel mondo occidentale non si mangia nulla con le mani tranne il pane, i pasticcini, l'uva, il cioccolato e il sushi. Sciocco ricordarlo? Prima di andare a tavola bisogna lavare mani e unghie. Lo Sgalateo prevede e consiglia di usare mani e dita quando e come si vuole. Marmellata. Solo quella di agrumi si può chiamare così, è chic sapere la differenza; tutte le altre sono confetture. Non servitevi dal barattolo, è cafone. Mettetene una piccola quantità sul piatto e poi spalmatela sul pane con un cucchiaino o con un coltello da frutta. Mele e pere. Si tagliano in quattro parti sul piatto con il coltello e la forchetta. Le parti si infilzano con la forchetta e con il coltello si eliminano prima la buccia e poi il torsolo, poi si tagliano in pezzi più piccoli e si portano alla bocca con la forchetta. Melone. Dovrebbe essere servito a fette e già sbucciato, se piccolo e maturo può essere servito tagliato a metà, in questo caso si consuma con un cucchiaino. Menu. È cortese, quando si invita a casa, scrivere su un cartoncino la data, i piatti e i vini serviti, sarà utile agli invitati per regolare il proprio senso di sazietà. Quando siete al ristorante chiedete la carta e non il menu. Non soffermatevi su ogni portata un'ora prima di decidere cosa ordinare: è irritante, per il cameriere e per gli altri ospiti. Minestra. Senza rumoracci e senza soffiarci sopra, si sorbisce con il cucchiaio. Non si serve se non per la cena e mai due volte, così recita il cerimoniale. Nel servirla è facile sporcare la tovaglia, quindi è opportuno o tenere a portata di mano un piattino dove appoggiare il mestolo nel tragitto zuppiera-fondina, oppure, ancora meglio, fare le porzioni in cucina e portare a tavola ciascun piatto con grande attenzione. Evitate di offrire una minestra a una cena organizzata per fare conquiste: a meno che non sia una sofisticatissima vellutata di crostacei, ogni altra preparazione in brodo rischia l'effetto «minestrina da ospedale», il che non è affatto sexy. Mollica. Chi non mangia la mollica o la crosta, la ripone in un angolo del proprio piatto; guai a lasciarla sulla tovaglia. Vietato fare pupazzetti con la mollica o, peggio, proiettili da tirare al commensale più odioso. Lo Sgalateo vi lascia liberi di creare con la mollica piccoli cuori da regalare al vostro partner durante la cena. Musica. In casa, una musica di sottofondo è piacevole mentre si aspettano gli ospiti, ma durante la cena dovrete abbassare il volume. Nella scelta, sbizzarritevi: oggi ci sono cd di accompagnamento per ogni esigenza, chiedete in un negozio specializzato. Personalmente adoro, dal tramonto in poi, il vecchio Frank. Per un cocktail in piedi o un garden party, la musica è sempre fondamentale. Una domanda: vi siete mai chiesti dove vanno a prendere quei terribili cd nelle hall di certi alberghi paludati? Naso. Ovviamente ogni operazione di pulizia è vivamente sconsigliata. Nel linguaggio del corpo ogni volta che si toccano le zone periferiche intorno al naso il nostro commensale potrebbe mentire. Attenzione, potrebbe. È il retaggio di un comportamento infantile che porta a mentire coprendosi la bocca con le mani; visto che l'amministratore delegato di una multinazionale non può coprire con entrambe le mani la bocca spalancando gli occhi, ecco che l'inconscio si accomoda sfregando il naso o con movimenti simili. Noccioli. I noccioli della frutta o le parti di scarto, inavvertitamente messe in bocca, non si lasciano cadere direttamente nel piatto. Se sono stati portati alla bocca con una posata si fanno scivolare su di essa e poi sul piatto, ma forse è più facile deporli nella mano chiusa a pugno e riportarli sul piatto. Noia. Sarebbe bello divertirsi follemente a ogni occasione conviviale: ma non è così. Se vi annoiate a morte perché il vostro vicino di destra parla solo di insetti in via di estinzione e l'altro è un distinto ottantenne ma con problemi di udito, tenete duro. Non si guarda l'orologio, né le vie di fuga come la porta d'uscita, né si parla con un tizio nell'altro tavolo escludendo i commensali vicini a voi. Odore. Gli odori di cucina se si invita a casa vanno eliminati azionando le ventole o ancora meglio aprendo le finestre prima che arrivino gli ospiti. Al ristorante sarebbe obbligatorio non narcotizzare i clienti con odori molesti, d'altra parte una stanza completamente asettica non fa buona impressione. Signore, non profumatevi troppo. Olive. Si portano alla bocca con gli stuzzicadenti (unico utilizzo ammesso degli odiosi aggeggi), ma se vengono servite come aperitivo sono consentite anche le mani. Il nocciolo si pone nella mano e poi si lascia in un apposito piattino. In realtà spero sempre di trovare cibo più originale come aperitivo, sia in casa che nei bar, o almeno se volete offrirmi delle olive devono essere buonissime. Ossi. Si lasciano nel piatto e non si toccano con le mani. Evitate, nel tentativo di staccare un pezzo di carne rimasto attaccato all'osso, di farlo schizzare in testa a qualche malcapitato. Lo Sgalateo prevede il contatto con gli ossi da scarnificare e succhiare a piacere come per rivivere un rituale primitivo. Ostriche. Se le offrite voi dovete essere sicuri della qualità superiore, fatele aprire e non gettate via, per carità, la loro acqua di vegetazione. Esistono delle speciali forchettine a tre denti per molluschi che potete usare per estrarre la polpa, in caso contrario potete usare la mano destra evitando il più possibile ogni risucchio. I puristi le degustano assolutamente nature. Nello Sgalateo, ca va sans dire, se ne fa grande uso, sarà per l'alto valore simbolico del mollusco considerato afrodisiaco. Padroni di casa. Dovrebbero essere sorridenti e freschi, anche se in realtà sono stravolti dalla stanchezza. Mai iniziare a mangiare prima della padrona di casa, ma attendere un suo cenno per cominciare. Pane. Una delle poche cose che si possono toccare con le mani, ma non si spezza con i denti. Si fa a pezzi con le mani e poi si porta alla bocca a piccoli bocconi. Evitate di tagliarlo a tavola a meno che non si tratti di un rarissimo pane toscano che desiderate far vedere in tutto il suo splendore, in tutti gli altri casi si taglia in cucina e si porta a tavola in un cestino oppure in un vassoio d'argento. Il piattino del pane, gradito nelle cene formali, si mette in alto a sinistra di ogni commensale. Pasticcini. Si prendono dal vassoio con le mani, insieme alla carta pieghettata che li avvolge. Vietato indugiare nella scelta e soprattutto toccarli tutti prima di sceglierne uno. Pâté. Si mangia con la forchetta e, se accompagnato dai crostini, non viene spalmato ma mangiato separatamente. Pausa. Quando si smette di mangiare per fare una pausa, si mettono le posate con le punte del coltello e della forchetta che si incrociano, con i rebbi della forchetta all'ingiù e la lama del coltello verso il centro del piatto. Come già detto, in questo modo il cameriere o chi per esso dovrebbe, dico «dovrebbe», capire che non deve portar via il piatto. Per piacere e grazie. Ricordiamoci di pronunciarli sempre, ogni volta che chiediamo di passarci qualcosa, quando veniamo serviti a casa o al ristorante, quando chiediamo qualcosa al cameriere. Pesce. Prima il pesce e poi la carne, questa è la regola. Qualsiasi portata di pesce si serve con le posate apposite, se non avete le posate adatte usate solo la forchetta. Pesche. Mangiare frutta intera (purtroppo) con le posate non si fa quasi più, perché difficilmente i ristoranti metropolitani la propongono. È considerata ancora una portata in certe pensioni familiari sull'Adriatico o sulle coste ioniche. Se a una cena formale decidete di mangiare una pesca che vi viene servita intera consideratela una faccenda seria. Si puntano (non infilzano!) i rebbi della forchetta sul frutto e si incide la polpa col coltello per tagliare uno spicchio alla volta, quindi si ferma con la forchetta lo spicchio e lo si sbuccia con il coltello. Si tiene lo spicchio sbucciato sulla punta della forchetta, si taglia un boccone (massimo 2 centimetri) e lo si porta alla bocca senza cambiar di mano alla forchetta, che quindi rimane nella sinistra. Piatti. Quando il cameriere si avvicina per portarci i piatti, e soprattutto per toglierli, non va aiutato. Allo stesso modo, non si impilano i piatti sporchi: perché volete intralciare il lavoro del personale di servizio? Rilassatevi, se pagate il conto avete il diritto di farvi servire. Si può aiutare il personale perché distante, solo se ce lo chiede, anche se non dovrebbe mai farlo. Picnic. Che bello vedere un po' di galateo anche sull'erba, basta poco: piatti di cartone, fazzolettini e tante torte salate. Unica eccezione, mai i bicchieri di carta, mettete dentro un bel cesto di vimini tante flûte di vetro, di certo qualche partecipante al picnic sarà felice di aiutarvi. Il bon ton si rilassa sotto il cielo e diventa più elastico, ma ritorna rigidissimo al momento del dopo picnic. Vietato lasciare mozziconi, plastica e rifiuti abbandonati sull'erba, e vi assicuro che questo è ben peggio che dire «Buon appetito». Piedi. In teoria dovrebbero stare sotto la sedia del proprietario, e questo vuol dire non allungarli incivilmente sotto il tavolo intralciando le estremità altrui e tanto meno lateralmente provocando involontari effetti «piedino». Lo Sgalateo permette di sbirciare sotto il tavolo per, studiare la posizione dei piedi: incrociati, ci sono ancora un po' di riserve. Con le punte all'interno? È rimasto un pizzico di infanzia. Accavallate? C'è ancora qualche resistenza nel vostro commensale. Piedino. Sono due le regole fondamentali da rispettare per il seduttore (uso il maschile, ma vi sono signore grandi esperte nel campo) che usa il piedino come arma di seduzione. 1. Si fa solo se si è certi di non ricevere un rifiuto. 2. Si fa solo se si è certi di non essere scoperti dal resto dei commensali. Pinzimonio. Uno dei pochissimi casi nei quali è permesso usare le dita per mangiare. Le verdure vengono servite già tagliate e ogni commensale ha una scodellina dove intingere carote e sedani. Piselli. È esilarante vedere, come è capitato a me, schizzare i piselli dal piatto come proiettili. Se accade significa che il cuoco era pessimo: dovrebbero essere morbidi. Di norma, basterebbe raccoglierli con la forchetta. Pollo. Anche se un commensale vi ricorda il detto popolare secondo cui pure la regina Margherita mangiava il pollo con le dita, lasciate perdere e continuate a usare forchetta e coltello. Il pollo è difficile da tagliare in tavola anche con il trinciapollo, fatelo in cucina dopo averlo mostrato, se volete, ai commensali. Polpette. Per qualche inspiegabile motivo servire polpette a una cena formale è considerato scorretto, probabilmente perché si può sospettare che siano preparate con gli avanzi. Quindi evitatele, anche se sono un piatto straordinario, in primis quelle di bollito. Sono vivamente consigliate dallo Sgalateo, che incoraggia il consumo di polpettine, cibo da mangiare con le mani e soprattutto da imboccare. Pompelmo. Si serve tagliato a metà e si consuma prelevando la polpa con un cucchiaino. Posacenere. Non si mette in tavola, mai, se non a fine pasto e dopo aver chiesto il permesso di fumare agli altri commensali. Al ristorante non si può più fare, ma non lamentatevi. È così bello ritrovarsi fuori sul marciapiede: si fanno molte conoscenze interessanti. Vietato però abbandonare il proprio ospite o accompagnatrice per interminabili pause. Posate. Oggi si tende a snellire il più possibile il numero delle posate. L'ideale è il tris: una forchetta, un coltello e un cucchiaio, se serve; man mano che si susseguono le portate si cambiano le posate. Posti. L'uomo siede alla destra della donna, le riserva il posto lungo la parete o che comunque le permetta di vedere la sala. Ogni uomo siede a fianco di una signora che non sia sua moglie (o compagna). Nel caso di due coppie, ogni signora siederà alla destra dell'uomo che non è suo marito. Se invece l'uomo e la donna siedono da soli, ai due lati consecutivi di un tavolo quadrato, lui siederà alla sua destra per poter utilizzare il braccio destro e quindi versarle da bere con più agio. I signori siedono un attimo dopo le signore. Lo so, non lo fa quasi più nessuno tranne che in certi adorabili ambienti. Durante il pasto se una signora si allontana dal tavolo, per qualunque motivo, gli uomini si alzano contemporaneamente a lei, si risiedono appena si allontana e si rialzano appena riappare. A una cena in casa privata, ricordate, l'ospite d'onore uomo si siede alla destra della padrona di casa, mentre l'ospite d'onore donna si siede alla destra del padrone di casa. Prenotazioni. Se avete prenotato in un ristorante e poi per qualsiasi motivo cambiate idea, soprattutto se il locale possiede coperti limitati, telefonate sempre per disdire. All'estero nei ristoranti stellati si lascia il numero di carta di credito perché in caso di mancato avviso viene addebitata una mora. Presentazioni. Prima di imparare qualsiasi altra regola, la buona educazione ci impone di presentarci ogni volta che ci troviamo a dividere una tavola. In teoria dovrebbero pensarci i padroni di casa, ma se chi ospita è assente lo faremo noi dicendo il nostro nome con un sorriso accompagnato da un buongiorno o da un buonasera. Prezzemolo. Che dilemma, dire o non dire della fogliolina di prezzemolo tra i denti del nostro commensale. Sì, meglio dirlo. Basta sussurrarlo discretamente in un orecchio. Ribes e frutti di bosco. Si servono in coppette con il cucchiaio da frutta. Reclami. Nel caso di un cibo malcucinato, di un vino che sa di tappo o di una posata o un piatto non pulitissimi, ci si limita, senza recriminazioni, a chiedere che vengano sostituiti spiegando il problema con gentilezza. Con educazione e garbo è giusto sottolineare gli errori da parte della cucina o del servizio, nei locali pubblici. È peraltro di cattivo gusto mostrarsi incontentabili, critici, polemici, commentare la scelta dei piatti al cameriere o parlare dei propri disturbi intestinali agli altri ospiti. Ricci di mare. Solo se volete male ai vostri ospiti li servirete a una cena formale. Meglio lasciare questo ingrediente sensuale per uno spaghetto a due, magari cucinato insieme e consumato su una terrazza al tramonto. Riso e risotto. Si mangia con la forchetta, non si soffia sul risotto e non si allarga nel piatto come si vede fare. Ritardo. Mai arrivare in ritardo a un appuntamento galante, anche se alla signora è permesso un indugio di dieci minuti. Se arriviamo in ritardo in una casa privata o al ristorante è d'obbligo telefonare per avvisare. Sale e pepe. Non si chiede al ristorante di classe se non strettamente necessario, è come sottolineare che il piatto non era perfetto. In casa, durante i pasti quotidiani si mette in tavola, ma è meglio non farne uso. Salame. In una cena formale non si serve. Con gli amici e in famiglia ben venga qualche fetta di salame. Si può prendere con le mani e mangiarlo accompagnato dal pane; si eviti il classico panino, a meno che non ci si trovi a un bel picnic. Salmone. Si consuma con le posate da pesce, se accompagnato da crostini non va messo sul pane ma consumato a parte. Salse. Le salse non si raccolgono se non con il salsacoltello, una posata a forma di cucchiaio, ma con un lato tagliente creata apposta per tagliare e tirar su ciò che rimane nel fondo del piatto. Scampi. Serviteli già sgusciati quando è possibile. Consigliati per le cene private a due. Scarpetta. Mi dispiace, ma il galateo non ammette scarpette di sorta e soprattutto non tollera surrogati, e cioè tutte quelle pratiche che i commensali ingegnosi si inventano per raccogliere un buon sugo dal fondo del piatto. Non esistono deroghe. Via libera alla scarpetta, invece, nelle riunioni familiari e per lo Sgalateo. Segnaposti. È un bel gesto predisporre i segnaposti quando si hanno tanti ospiti e soprattutto se vogliamo mantenere la regia a tavola. Potete sbizzarrirvi con oggetti di ogni genere, che servano da supporto al cartoncino sul quale sarà scritto il nome. Soffiare. È molto maleducato soffiare sul cucchiaio o sul piatto per raffreddare il cibo. Sottopiatti. Sono utili e doverosi nelle cene formali, belli quelli in argento, ma sono ammessi tutti i materiali. Spaghetti. Si mangiano arrotolandoli alla forchetta, che non va puntata sul piatto, ma tenuta leggermente inclinata, quasi orizzontale. Si raccolgono pochi fili di pasta per volta, in modo da portare alle labbra un boccone piccolo. Evitate accuratamente risucchi di ogni tipo e rimasugli di sugo sul mento. Orribile l'utilizzo del cucchiaio o, peggio ancora, del coltello per tagliarli! Spumante. Quello secco non si serve mai a fine pasto insieme ai dolci. Se volete mostrarvi esperto di vino, dite «metodo classico», oggi lo spumante si chiama così. «Bollicine» pare sia superato, ma rende l'idea. Quando si stappa tenete la mano destra sopra l'imboccatura della bottiglia per evitare che il tappo colpisca qualcuno nella stanza e soprattutto cercate di essere silenziosi. Starnuto. L'ideale sarebbe reprimerlo, soffocarlo, ucciderlo, specialmente durante cerimonie e pranzi formali. Quando vi accorgete che lo starnuto sta arrivando, conviene alzarsi e procurarsi un fazzoletto pulito. Se proprio dovete restare seduti, voltate il viso all'esterno del tavolo e starnutite dentro il fazzoletto, badando di fare meno rumore possibile. In Giappone è considerato ripugnante starnutire a tavola. Stuzzicadenti. Come tutte le operazioni riguardanti il proprio corpo, stuzzicarsi i denti a tavola non è ammesso. In realtà i ristoratori dovrebbero mettere il contenitore degli stuzzicadenti in bagno. Se il fastidio è insopportabile, alzatevi dal tavolo. Sushi. Se non sapete usare le bacchette, non pasticciate inutilmente. Usate le mani, che è consentito, oppure chiedete una forchetta. Ogni pezzo di sushi va intinto nella soia dalla parte del pesce, mai dal riso. Le bacchette si appoggiano all'apposito utensile che assomiglia a un poggiaposate, e quando avete finito si mettono allineate sulla ciotola che contiene la salsa di soia. Al sushi bar, se sedete al bancone, non date soldi al maestro sushi presi dall'entusiasmo: non può toccarli. Tavola. Sulla tavola non si appoggia nessun oggetto, niente chiavi, occhiali, portafogli o telefoni. Tè. Si beve sorseggiando dalla tazza senza sollevare il mignolo, per carità. Non vi si inzuppano dolci o tartine, ma si alternano piccoli bocconi e sorsi di bevanda. La padrona di casa che invita per il tè predispone zucchero, latte e fettine di limone, qualche biscotto ed esorta gli ospiti a servirsi da soli dopo aver versato il tè nelle tazze. Toilette. Non c'è bisogno di annunciarlo rumorosamente, se si vuole andare in bagno ci si alza con un semplice «Scusate». Alle signore consiglio di non abbandonare per ore il proprio cavaliere ad aspettare al tavolo. Torta. Si mangia con l'apposita forchetta a tre punte. Tovaglia. La tovaglia, di qualsiasi colore sia, dovrà essere stirata alla perfezione e questo va fatto una volta che viene stesa sulla tavola, sopra un «mollettone», così si chiama il telo morbido di protezione alla superficie del tavolo. Scegliete tessuti naturali in colori contrastanti con i piatti la cui base, sarò tradizionalista, deve essere rigorosamente bianca. Tovagliolo. Solitamente piegato e posato sopra il piatto o il sottopiatto va a destra, ma si può semplicemente piegare a triangolo e adagiare sul piatto. Evitate piegature fantasiose e laboriose. All'inizio del pasto va steso sulle ginocchia, sempre dopo la padrona di casa o, al ristorante, dopo la persona che ha invitato. Non va mai legato al collo. Si usa prima di bere, sempre, e dopo aver appoggiato il bicchiere. Alla fine del pasto si lascia alla sinistra del piatto. In alcuni ristoranti di alto livello, prima del servizio del dolce, il tovagliolo viene cambiato con uno più piccolo. È un atto di grande cortesia. Signore, cercate di non lasciare vistose impronte di rossetto, signori non usatelo per detergervi il sudore dalla fronte. Ubriachezza. Può succedere che un ospite esageri con l'alcol: che fare? Un bravo anfitrione cerca di arginare come può la serata, ma di certo non lo abbandona fuori dalla porta a fine cena. Si preoccupa di accompagnarlo a casa e di assicurarsi che stia bene. Uomo. Uomini, ricordate! Basterà un gesto come aprirle la portiera o alzarsi nel momento in cui lei lascia il tavolo per farsi ricordare a lungo. Insomma, vi verrà perdonato anche qualche sbaglio, se saprete usare qualche galanteria al momento giusto. L'uomo entra per primo in un locale, comunica con i camerieri, versa da bere, si dimostra più interessato alla compagnia che al cibo, conversa e dovrebbe pagare il conto. Uova. Non si usa mai il coltello, in qualsiasi modo siano cucinate. Lo si può usare solo per tagliare il prosciutto o la pancetta che le accompagna. Uva. Va tenuta con la mano sinistra, mentre con la destra si staccano gli acini che andranno alla bocca. Verdure. Non si tagliano mai con il coltello. Vino. Non si versa mai sino al collo del bicchiere. Si stappa sempre davanti agli ospiti, e così pretendete al ristorante. Si fa scegliere alla signora e se questa si rifiuta si prende l'iniziativa chiedendo almeno «bianco o rosso». Chi invita, sia a casa sia al ristorante, propone i vini e chiede se gli invitati sono d'accordo. Il vino non si mescola con l'acqua e non deve essere raffreddato con il ghiaccio. Si lascia in un secchiello di qualsiasi materiale, possibilmente su un tavolino a parte. Zotico. È l'epiteto che si merita chi a tavola pecca di prepotenza e maleducazione. Per neutralizzare lo zotico recidivo è necessaria più fermezza che ironia, la seconda non la coglierebbe. Un seccato richiamo ha più probabilità di venire accolto. Zuppa, zuppiera. Non si soffia sulla minestra o la zuppa. In Inghilterra, il cucchiaio non viene introdotto in bocca di punta, ma appoggiato lateralmente alle labbra. In Italia il cucchiaio viene introdotto in bocca di punta. Ma ciò non vuol dire, beninteso, che lo si debba inghiottire fino al manico. È tollerato che, arrivati agli ultimi cucchiai di minestra, si sollevi appena il piatto inclinandolo verso il centro della tavola. Zuzzurellone. Avete presente quei soggetti che pur essendo adulti si comportano come ragazzini e si divertono a fare i giocherelloni? È il buontempone, il burlone che a tavola gioca con il cibo, estenua i commensali con storielle imbarazzanti, indovinelli, racconti di vita privata e via discorrendo. Basterà ignorarlo senza ridere delle sue battute pesanti per neutralizzarlo.
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Si adonteranno i loro spiriti immateriali delle ferite che tu possa arrecare alle sociali convenienze, agli umani affetti, essi che diedero per sempre al mondo il loro addio, essi che abbandonarono, abbandonando la terra, tutto le soavi emozioni che abbelliscono la vita? — Si, cari miei, anche i morti esigono da noi dei riguardi. Per esempio, non fa d'uopo d'avere un cervello romantico, esser dotato di fibre di poeta per essere convinti che si copre di vituperio un individuo, una nazione che non rispetta i proprii morti. Ma v'ha di più: non è d'uopo che un popolo sia giunto a un grado molto elevato di civiltà, perché esso senta profondamente l'orrore per chiunque o con isfregi o con insulti ne deridesse la memoria o ne violasse le solitarie dimore. A una povera tribù selvaggia (non avrei coraggio di chiamarla barbara) dell'Asia alcuni viaggiatori europei facevano invito di seguirli in altre terre, promettendole agi e piaceri migliori che non le fosse date di godere nel loro desolato paese privo d'ogni comodo e ricchezza. «Vi seguiremmo, si! risposero unanimemente uomini e donne, quando non avessimo qui i nostri morti; possiamo noi dire alle ossa dei nostri padri, delle nostre spose, dei figli nostri: sorgete, venite con noi alle nuove terre, ai nuovi fratelli, ai nuovi gaudii che colà ci aspettano?». Chiedeva Serse a Temistocle esiliato da Atene che cosa egli amasse tanto in quella sua patria, di cui gli tornava così amara la lontananza; ed egli:
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Nella partenza bisogna esser puntuali, ed anticipare piuttostochè ritardare e tener così tutt'una brigata a piétiner sur place; però si concede dieci minuti di grazia ai ritardatari, secondo l'uso francese, in cui negli inviti stessi si pone o ore dieci senz'altro (che vuol dire dieci e dieci) o dieci très-précises e sarebbe molto sgarbato se si fuggisse, abbandonando chi indugia per motivo involontario o per differenze d'orologio. Il meglio, essendo vicini, è di farsi avvisare. Durante la passeggiata si cercherà di star uniti adottando un passo ragionevole, nè da uomo-cavallo nè da testuggine. È scortese precedere gli altri, sicchè a qualche bivio possano sbagliar strada: ma non sta bene neppur lo strascicarsi lamentandosi della via scelta, del sole, della polvere e che so io. I giovani non devono lasciar in asso le mamme... ed occorrendo assistenza, bisogna che si ricordino che la civiltà impone di pensar prima ai deboli, cioè alle signore mature ed ai bimbi. È noioso, lo so, ma la creanza è basata sul sacrificio dei proprii gusti ed istinti. Ho veduto più volte, in campagna, le signorine aiutate dai giovinotti balzar in un attimo al di là di qualche ruscelletto azzurro, sulle cui sponde le mamme derelitte, simili alle chioccie che hanno covato anitrine, chiedevano invano l'appoggio di qualche cavaliere. Ogni gita deve avere un piano. Bisogna sapere e dire a tutti dove si vuol andare, calcolare approssimativamente il tempo necessario, e ciò perchè nessuno si stanchi, e quelli che sono rimasti a casa non abbiano a sentir inquietudini. Portando seco la colazione vi sono tre sistemi: talora è uno solo che fa da anfitrione, invitando gli altri; di solito invece ognuno reca il proprio contingente, e ciò dietro un accordo con l'organizzatore della gita, perchè non si trovino troppi commestibili uguali, e non manchi invece qualche cibo indispensabile, e questo è il pic-nic inglese; finalmente (e questo è il sistema più comodo) ognuno reca la propria colazione e se la mangia con qualche scambio fra invitati. In generale quelle colazioni, quando semplici, constano di salumi, carni fredde, formaggio, frutta e caffè. Per semplificare i trasporti ognuno si munisca di una sacchetta ad armacollo con entro un coltello di quelli a doppio o triplo uso, una barchetta di cuoio, un tovagliolino; quella barchetta permette di bere nel proprio bicchiere, cosa sempre gradita. Le signore non ammettano famigliarità; non facciano comunanza di piatto e bicchiere con qualche giovane. Son cose che danno luogo a molto critiche. Quando si vuole che le colazioni abbiano un carattere un po' elegante, si reca l'occorrente per apparecchiare la tavola sull'erba, si prendono i servitori e la lista dei piatti sarà più ricca; saranno ben accetti tonno e sardine in olio, galantine, pasticci di fegato, polli in maionnesa, torte e panattoni, frutta scelta, vini di lusso. Non bisogna mai scordare qualche vino un po' forte che serve a vincere la stanchezza, nonchè il caffè nero, il quale è ottimo per dissipare quella specie di stordimento prodotto dall'aria e dal sole che i francesi chiamano: La griserie du grand air et des feuillets vertes. Alle signore raccomando di non bere troppo vino e di limitarsi ad una sola qualità, perchè è facile che il vino vada alla testa quando lo si beve all'aria aperta e molto accaldati. In quanto al contegno da tenersi in quelle gite deve essere conveniente come se si fosse in un salotto; saranno escluse cioè dalla gente per bene le celie triviali, le famigliarità fuor di luogo, le espressioni men che oneste e non si dirà per scusare, anzi, quasi per legittimare ogni eccesso, la solita frase: Oh in campagna! tutto è lecito... invocando così la teoria delle Saturnali o delle Kermesse. Non ho agio di studiare qui i vari tipi riprovevoli; i faceti che fanno arrossire le signore, gli sbrigliati che vociano e cantano e fanno cento pazzie, i noiosi che brontolano, le svenevoli che ora scivolano o chiedono soccorso, ora gemono per la lunghezza della via, le civettuole che vogliono sequestrare tutti i cavalieri, godendo della stizza delle altre; non posso che dichiararli fuor della legge, rispetto al codice della cortesia. Pel ritorno non è amabile insistere, perchè s'affretti, o si anticipi, ma si deve stare al parere della maggioranza. Se una brigata si divide, perchè certuni si spingono più lontano, questi debbono fissare l'ora del ritorno per la colazione, e se tardano troppo, gli altri hanno diritto di mangiare senza aspettarli. Se si esce in barca od a cavallo (sui somarelli) è disdicevole ed inurbano, ove qualche signora mostri paura, deriderla, e per celia fare dondolare il battello, oppure frustare l'asino. La paura è un'impressione nervosa; riesce difficile bandirla, penoso il sopportarla; può avere delle tristi conseguenze. Invece di deriderla, convien rispettarla come un'infermità... quando si tratta degli estranei. Ben inteso che chiunque farà bene a volerla estirpare sia nei proprii figli che nei proprii amici: ma, lo ripeto - in società ci si va per diletto, e ci vuole vicendevole indulgenza e cortesia; le lezioni sono sempre fuor di posto. Alla sera vi sono molti trattenimenti possibili in villa; pel giuoco e la musica le lettrici si riferiscano al capitolo delle veglie. Pel ballo è lecito di accettare cavalieri anche senza presentazione, ma è preferibile non farlo, e nessun uomo garbato si prevarrà della libertà campagnuola per esimersi da questo atto di doverosa cortesia, tanto più che basta si rivolga a qualche signore che conosca appena per ottenere quel piccolo servizio. È scortese in un uomo ballare senza guanti, per più motivi, ma specialmente perchè con le mani sudate si sciupano affatto i vestiti alle ballerine. I giuochi innocenti (che converrebbe chiamar perfidi) sono generalmente il pomo della discordia fra villeggianti. Basta nominarli perchè ognuno si rannuvoli, e gli obesi pensino con raccapriccio a gatta cieca, i sedentari al giuoco della posta, i sonnolenti al giuoco degli spropositi o agli indovinelli, i suscettibili alla berlina, ed è una gara, perchè su dieci persone ognuno vorrebbe si scegliesse..... il giuoco che piace a lui e dispiace forse agli altri dieci. - Dunque, che si fa? (dicono i giovani). - Gatta cieca! (risponde l'organizzatore). - Chè! (coro di matrone ed uomini seri). - La posta? - Chè! Chè (coro inferocito). - Il bastimento carico di... - Uh! roba rancida (coro di ragazze). - Gli spropositi? - Uh! Uh! (coro inferocito). Infine si arriva a scegliere...... e vengono i pegni, i brontolii. Consiglio chi giuoca di ricordarsi che in società il divertimento di tutti deve costituire anche il divertimento individuale, perchè, chi cerchi soltanto questo, si troverà spesso in opposizione con la maggioranza, e non godrà punto. Si accettino tutti i giuochi e non si mostri stizza quando si è acchiappati o quando non si riesce a indovinare una sciarada od un enimma: non si creda nemmeno di trovare, in certe frasi accozzate a casaccio, delle allusioni maligne e non si protesti. D'altra parte, quando si fa la penitenza della berlina, si eviti di dire delle verità; nulla offende di più i suscettibili, che quello di vedere indovinato qualche loro difettuccio. Val meglio dire una frase nulla, una delle solite frasi trite, che peccare di malignità e dar dispiacere o suscitar rancori. Se dovessi dir tutto il mio pensiero, soggiungerei che quantunque sia accettata da molti, trovo la berlina un giuoco poco innocente e poco cortese. Se si fanno sciarade in azione, travestimenti od altro, si deve evitare le gare per la scelta del costume e della parte; sopratutto ricordare che nessun giuoco va pigliato sul serio, e preso a pretesto di recriminazioni o malumori.
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Arrivano, balzano dalla cittadina, di cui il cavallo trafelato pare che stia per cadere morto, mettono in mano al cocchiere cinque lire,dieci (non hanno mai spiccioli), non aspettano che renda loro l'avanzo, si scagliano all'uffizio dei biglietti, tempestano, litigano, arraffano il tickett, abbandonando persino il bagaglio, eppoi, panfete, con uno, due, tre colli in mano si scaraventano in un vagone... il treno si muove, i guardiani gridano, essi trionfano! Gli irrequieti invece trovano da ridire all'orologio della stazione; quell'orologio è matto, il servizio pessimo; sbuffano perchè una volta entrati loro, il convoglio non parte, tirano in scena le ferrovie..... di molti paesi, dove non sono mai stati. Basta! Ecco i viaggiatori a posto; tutti cercano di accomodarsi alla meglio - la gente educata sta dov'è, e si rassegna. La gente che non ammette galateo in ferrovia si agita, fa piramidi del proprio bagaglio, cacciando sotto quello degli altri viaggiatori, o vuole a tutta forza serbare un collo che oltrepassa il peso stabilito, seppure non vi fa la grata sorpresa, dopo un momentino, di esibir una gabbia, un canestro con un gattino, un cane, che porta con sè di contrabbando. Altri lanciano occhiate fulminee contro quelli che occupano i posti migliori. Di questi irrequieti ve n'ha di dieci specie diverse. Vi son quelli che dove è vietato di fumare accendono lo sigaro, contando sulla bonarietà dei vicini, oppure si mettono al finestrino e se li richiamate all'ordine, rispondono con asprezza: il fumo non penetra! Altri, ad ogni stazione, si buttano allo sportello, saltano giù, disturbando tutti, risalgono, unicamente per l'incapacità di condursi da persone civili. Certi sputano, sbadigliano, si distendono con mal garbo, mettono i piedi sul sedile di contro. Vi son poi quelli che hanno il ticchio di assumere una speciale toeletta e par che si credano nel loro gabinetto; levano gli stivali, il soprabito, la cravatta, il cappello, a segno da ispirare seri timori alle signore formaliste; calzano poi delle pianelle, indossano una giacchetta, si chiudono il cranio in un berrettino.... dopo di che si mettono a russare, o, se è notte, vi accendono sotto il naso un lampadino e fanno le viste di leggere. Un'altra varietà di viaggiatori è quella che mangia sempre; tiran fuori dalla sacchetta del salame, del formaggio, delle pere, delle melarancie e sbucciano, tagliuzzano tutta codesta roba, riempiendo il vagone di scorze, di bricciole, e di poco aromatici profumi, spingendo a volte la cortesia fino a voler costringere i vicini a dividere con loro quelle provviste, che escono da fraterno contatto con le pianelle ed i pettini. Vi sono gli aristocratici che guardano tutti d'alto in basso, perchè, la spolverina da viaggio togliendo spesso di distinguere la vera condizione dei compagni di viaggio, temono di avere a che fare con gente che sia meno di loro. Ma peggio di codesti che si limitano a sorridere ironicamente, a non stendere la mano per offrirvi di passar il vostro biglietto ai conduttori, sono i ciarlieri. Appena sono seduti questi iniziano fra di loro (se sono in due soli) un dialogo o monologo sul gusto di quello che nelle commedie vien detto d'esposizione: cioè si raccontano, con un po' di fioritura ad usum compagno di viaggio, chi sono, chi non sono, d'onde vengono, dove vanno, e se non fate motto v'interpellano direttamente, vi interrogano, vi fanno una specie d'istruttoria, insomma, vi costringono a rompere il ghiaccio, togliendovi la libertà di pensare, guardare, riposare o dormire. Taccio di quelli che temono l'aria, il sole e si impuntano a chiudere tutti i vetri, di quelli invece che si ostinano a tenere aperto; di quelli che fanno gl'impertinenti con le signore che non hanno compagni maschili, e le riducono a mutare vagone od a ricorrere al conduttore: è tutta gente da metter nella categoria degli ineducati. Ma dunque che cosa si deve fare? chiederanno le lettrici. Dio buono! Essere persone per bene. Non so dare legge positiva su quelle benedette finestrine come su quella tal ventola abat-jour che ripara la lampada: fonte di perenne lotta tra i viaggiatori. Figuratevi che un giorno trovandomi col direttore dei telegrafi italiani e con un ingegnere della Società delle ferrovie, richiesi entrambi di fornirmi qualche ragguaglio, ma su certi quesiti trovai anche loro inetti a rispondermi. È ammesso che la finestrina di destra appartiene ai viaggiatori che sono da quel lato e quella di sinistra agli altri; è più lecito volerla chiudere che tenerla aperta, come pure tenere la ventola abbassata che alzata: ma con tutto ciò la questione è così complessa che quei signori mi citavano appunto il caso di due viaggiatori che l'avevano risolta....... con un duello. Però, se il diritto è dubbio, il galateo parla chiaro. Nei casi in cui una data cosa disturbi due persone, si deve esaminare quale sia più gravemente disturbata e meno in grado di sopportare il disturbo; così, se ad un giovanotto spiace non fumare, ed invece ad una signora attempata o malaticcia l'odore del tabacco nuoce, il galateo esige che non si fumi; se il finestrino, chiuso, priva alcuni d'aria, ma, aperto, fa correre ad altri il pericolo d'un'infreddatura,quel finestrino va chiuso...e così via. La persona per bene entra od esce con riguardo, saluta, appicca discorso se le pare di far cosa grata, e se trova compagni che le garbino, non manca mai alla cortesia, inquantochè cede subito ai desiderii di chi le è vicino rapporto alla disposizione del riparto; non attacca brighe con nessuno, non brontola, non tratta con arroganza gli impiegati e neppure i fattorini, insomma si ricorda che un vagone non è una camera privata, ma una specie di caffè o di albergo ambulante che impone molti riguardi. La persona per bene poi, in quel che riguarda il vestire, evita in pari tempo una ricercatezza disadatta ed una trascuranza pressochè indecente. Una signora ammodo, quindi, in viaggio, non si ridurrà allo stato d'un fodero d'ombrello, d'uno spauracchio come certe Miss; non metterà in viaggio scarpe sdruscite, guanti sudici, roba di dieci colori diversi, verde, azzurro, giallo, rosso, sì da, parer un pappagallo: ma, d'altra parte, quella signora eviterà il lusso incomodo o ridicolo, non viaggierà in veste bianca, cappellino a piume, merletti e gioielli, poichè invece di sembrar una dama, se vestisse così parrebbe una persona digiuna d'ogni norma di buon gusto e di tatto. Le dame, viaggiando, assumono anch'esse un vestire molto semplice, cappellino con velo bruno od azzurro, pelliccia o waterproof di panno, alpaga o tela, secondo la stagione, collo e polsini bianchi o sciarpetta al collo; vestito semplice, senza gale e guarnizioni. Chi fa una gita od una visita in campagna può vestirsi con cerca ricercatezza, ma coprendo la toeletta con uno spolverino per non arrivare sgualcita od impolverata. Portar gioielli in ferrovia è un grave sbaglio e quasi quasi un pericolo. Chi reca con sè oggetti di gran valore o forti somme, le faccia cucire in una tasca interna del soprabito o della gonnella... e non ne parli mai. Le cautele visibili diventano quasi un richiamo per chi abbia cattive intenzioni. Non imitino quelli che mettono il denaro che portano seco loro in una sacchettina, appesa ad armacollo e se la tengono stretta fra le mani, guardandosi intorno e susurrando agli ignoti vicini: Eh? quando s'hanno dei valori bisogna star attenti! Non bastano gli occhi d'Argo!... Costoro corrono il pericolo di attirarsi dei contrattempi. Gli occhi d'Argo... è cosa nota... a volte si chiudono ed allora paf! una cinghia è presto tagliata. In quanto alle armi, è bene usar prudenza per non farne un pericolo invece che una difesa, e non ferirsi da sè, oppure offendere i vicini. Del resto, per chi non ha in tasca un mezzo milione e viaggia in ferrovia, sono pressochè inutili. Le conversazioni in viaggio devono aver per regola il massimo riserbo. È ridicolo farsi passare per un pezzo grosso, millantandosi; è inurbano e pericoloso mettere in campo questioni nazionali o politiche, censurar alla leggera il paese in cui si viaggia, vantar troppo il proprio, insomma esporsi ad aver delle brighe o degli alterchi. Convien anche aver qualche nozione sui luoghi che si visitano per non dire degli spropositi madornali e per sapersi regolare riguardo alla via da seguire, alle fermate, agli alberghi, ecc. L'anno scorso incontrai una giovane coppia tedesca a cui chiesi se contava visitare la Brianza.Era d'autunno. - Oh! disse lo sposo, vorrei farlo, ma temo... - Il caldo? - Eh! no... i briganti! I briganti, nel verde giardino di Lombardia, a due passi da Milano! I briganti,cioè i tradizionali uomini bruni, in giacchetta corta, con cintura scintillante d'armi, cappellone a cono, trombone in mano... Diedi in una irresistibile risata, con grande meraviglia del bravo tedesco. A proposito di giovani coppie, raccomando a queste, di... non essere troppo affettuose in ferrovia: è una cosa in pari tempo importuna e ridicola lo scambiare carezze e tenere parole che mettono nell'impaccio i babbi e le mamme formaliste che hanno seco loro dei ragazzi e che in altre persone provoca delle celie di cattivo gusto. L'amore è una cosa tanto bella e santa che è mancanza di tatto e di delicatezza l'esporla ai motteggi. Le norme date per salire in vagone reggono anche per scendere; se ci sono vecchi, donne o bimbi si aiutano, si tien loro le sacche o gli scialli: si procura d'evitare questioni e di rassegnarsi con filosofica urbanità nei casi di forza maggiore; per la scelta dell'albergo si consulta, non il primo conduttore d'omnibus venuto, ma la guida, seppure non si sono assunte prima, da altri, le informazioni necessarie. È sempre savia cosa procurarsi delle lettere di raccomandazione per gente del paese; può essere una gran risorsa. Se occorrono medici o dentisti, sartori o che so io, non conviene affidarsi ai proprietari dell'albergo; pel medico o dentista ricorrere a quelli dell'ospedale, poichè il fatto che occupano un posto di fiducia è già per se stesso una garanzia. Per bottegai affidarsi ai conoscenti se se ne hanno, oppure alla fama. In generale le persone capaci sono note. Il lusso è superfluo pei forestieri, anche nelle più eleganti capitali: però le toelette eccentriche, le affettazioni di semplicità nihilista, i pastrani e cappelli da uomo, gli occhiali sul naso ed altre bizzarrie non sono da adottarsi. Per visitare musei o girar la città si inetta qualche vestito di lana scuro, un bel cappellino grigio o color nocciuola; per recarsi a teatro si scelga un vestito di seta nera o di satin di cotone, un po' elegante con un bel cappellino nero o bianco e si potrà essere presentabili, portando seco poco bagaglio. Nei musei bisogna guardarsi dal toccare gli oggetti esposti: è conveniente dare una mancia al cicerone. Sarebbe gretto respingerlo per l'economia di una o di due lire. Se annoia, lo si tenga solo per guida, dicendo che non s'ha d'uopo di spiegazioni. In generale bisogna informarsi delle tariffe e star a quelle: non lesinare e in molti casi sacrificare qualche spicciolo per causar alterchi che finiscono sempre a danno del forestiero. Quando poi si è con donne è assolutamente inurbano correr rischio di spaventarle o di doverle lasciar a lungo in mezzo ad una turba di curiosi o di malevoli, per finir una discussione con un fattorino od un fiaccheraio. Se si viaggia con altri, patti chiari e mettersi sempre d'accordo sulla spesa. Tornerò su quest'argomento parlando dei luoghi di bagni, dove porrò anche le norme sul contegno da tenersi aIl'albergo. È sconveniente, visitando gallerie o chiese, deridere ad alta voce Ie cose che si vedono od i riti della religione del paese; più che sconveniente, in certi casi può riuscire pericoloso: anche i costumi vanno rispettati, l'uomo veramente per bene leva il cappello in una chiesa cattolica... e lo mette in una sinagoga, accetta con la stessa urbanità il denso caffè dei turchi, la spumosa birra dei tedeschi, l'idromele dei norvegiani ed il latte di coco degli abissini; mostra la stessa deferenza a qualunque ospite, sia un signore europeo, uno scheik, od un moro. Il motteggio è sempre incivile, ed anzi lo è tanto più, quando chi se lo permette è o sembra superiore alla persona derisa. I forestieri, se alloggiano da conoscenti e ne ricevono molti favori devono, appena partiti, ringraziare con lettera e più tardi inviare un ricordo. Essi invece non hanno, in genere, obbligo d'invito. Sono gli ospiti che pagano e si va a visitar musei, se si fanno gite e se si prendono palchi a teatro.
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E in ogni caso, nel più lieve come nel più grave, pro- curi di non smarrire la calma, di agire anzichè lagnarsi o disperarsi, di rendersi utile, come è suo dovere, abbandonando ogni esagerata manifestazione di angoscia che può solo danneggiare. Molte madri salvarono le loro creature con la prontezza di un rimedio, con l' energico dominio della loro sensibilità. Inutile aggiungere, credo, che la madre non dovrà lasciarsi sostituire da alcuna nelle cure che il suo bambino richiede nei giorni di malessere o di malattia. Se anche ha la nutrice, le sue mani sole dovranno toccarlo, ella sola dovrà vegliare accanto alla culla.
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Costui, molto probabilmente, nel sentire avvicinarsi i due, si era nascosto abbandonando la tacchina spennata dove si trovava. "Che cosa vi avevo detto?" stava dicendo Raul. "Che ci doveva essere per forza qualche tacchina da queste parti... Però, non capisco come mai sia già morta e spennata..." "Forse," opinò il capitano, allegramente, "avvilita di essere diventata completamente calva si è suicidata..." Raul lo guardò con sorpresa: "Come?" esclamò. "Non avete più paura come poco fa? Non pensate più che possa essere stato qualche spirito?" "La carne fa quasi sempre dimenticare lo spirito" sentenziò il capitano Squacqueras. "Date qua, che la metto a bollire..." Tolse la tacchina dalle mani di Raul e stava per immergerla nella pentola, quando, nel guardarci dentro, sbarrò gli occhi farfugliando: "Oh, sant'Ambrogio! Aiuto!" "Che c'è?" domandò Raul avvicinandosi... Il capitano indicò a Raul l'iguana la cui testa mostruosa sporgeva dalla pentola e sembrava lo stesse fissando con i suoi occhi bianchi che erano schizzati fuori dalle orbite. "Un drago!" strillò il capitano con tutto il fiato che aveva in corpo."Un mostro che mi guarda!" "Ma no!" esclamò Raul. "È soltanto un innocuo iguana... È inoffensivo da vivo, figuriamoci così, mezzo cotto!" "E che cosa sta facendo là dentro? Il bagnetto?" "Sarà caduto nella pentola dal soffitto del tempio che è tutto rotto... Ce ne potrebbe cadere qualcuno in testa... Facciamo una bella cosa, capitano: andiamo di là, dove c'è il tetto sano..." Il capitano Squacqueras indicò le angurie e gli ananas. "Un drago!" strillò il capitano... "Qui ci sono anche delle frutta che prima non c'erano..." "Forse erano cresciute sul tetto e l'iguana, cadendo, se le è trascinate dietro... Comunque, siano le benvenute anche loro... Prendete su tutto e andiamo di là..." I due raccolsero le frutta e impugnarono la marmitta, il capitano per un manico, Raul per l'altro, ed uscirono dalla porta che conduceva nei sotterranei. Provenienti dall'esterno entrarono gli altri quattro. "Macché!" stava dicendo Giovanna. "Fuori non c'è nessuno..." "Si vede che quel viandante, spintovi dal caso o da vaghezza di solitarie meditazioni, è andato a finire in bocca a qualche giaguaro, signora contessa..." suggerì Battista. "La pepé!" disse Nicolino. "Cosa stai dicendo?" gli domandò Battista, guardandolo malamente. "La mammà!" farfugliò ancora Nicolino. "Il papà..." "Ma che diavolo dici?" gli dette sulla voce Battista. "La pe... pentola!" riuscì finalmente a spiccicare Nicolino."La ma... marmitta... Il pa... paiolo! Non c'è più... È sparito!" "E allora" concluse Giovanna "non c'è niente da fare, vuol dire che nel tempio c'è gente..." "Potrebbero essere il Corsaro Blu e il Doppio Barbanera Illustrato" esclamò Jolanda con la voce piena di speranza. "Sono scomparsi così misteriosamente dal villaggio indiano, quella sera!" "La pepé!" disse Nicolino. "Macché!" esclamò Giovanna. "Debbono essere morti, divorati dalle fiere..." "Spero di no, nonna!" disse Jolanda. "Se sono mo... morti è peggio" balbettò Nicolino "perché potrebbero essere i loro fantasmi..." "La cosa migliore da fare" decise Giovanna "è di cercarli dappertutto... Facciamo una cosa: dividiamoci... Io e Jolanda andiamo di qua," e così dicendo indicava una specie di cunicolo che scendeva a mezzo di una scala di pietra verso il basso, "Battista va ancora a vedere fuori..." "E io?" domandò Nicolino. "Voi restate qua" ordinò Giovanna. "E ci resto di sicuro se mi lasciate qui solo... Ci resto secco..." "Non fate lo sciocco, nostromo... Dovete restare qui per bloccare l'uscita del tempio..." E Giovanna, senza più curarsi del nostromo Nicolino, cominciò a scendere la scala, mentre Battista usciva all'esterno del tempio. Nicolino cadde a sedere su una pietra asciugandosi il sudore. "Oh, mamma mia!" gemeva piano piano. "Oh, mamma mia bella... Povero me!" Era così intento a compiangersi da non avvedersi che alle sue spalle una grossa pietra stava girando su dei cardini invisibili scoprendo un passaggio segreto nel cui vano apparve una figura gigantesca alta per lo meno due metri e mezzo, ricoperta da un lungo mantello intessuto di piume e con la testa di serpente. Accanto all'orripilante figura era la sacerdotessa che sussurrò: "È solo..." "Vado" disse l'orripilante figura che parlava con la voce del gran sacerdote avanzando verso Nicolino. Con un lungo stelo che aveva in mano prese a vellicare l'orecchio di Nicolino che, credendo si trattasse di un insetto, lo scostò con un gesto della mano borbottando: "È pure pieno di zanzare, qui... Però, almeno le zanzare sono vive... Volano, ronzano, ti succhiano il sangue..." Ci ripensò... "Ti succhiano il san..." ripeté "e se si trattasse di un vampiro?" Nicolino, terrorizzato, si voltò piano piano e si trovò davanti, improvvisamente, quella specie di spettro. Aprì la bocca per gridare ma nessun suono usciva dalla sua strozza. "A... a... a..." riuscì soltanto a dire dopo un enorme sforzo. "Maledetti sacrileghi!" tuonò invece la strana figura con voce sepolcrale. «Abbandonate subito questo tempio che avete profanato e lasciate dormire in pace le anime dei nostri morti!" Così detto si voltò e se ne andò maestosamente per dove era venuto. Nicolino avrebbe voluto gridare, ma se riuscì finalmente a dire "Aiuto" lo disse così sottovoce che non si sentiva affatto. "A... a... aiuto!" sussurrò. Finalmente, non riuscendo proprio a gridare, afferrò il suo fischietto da nostromo che gli pendeva dal collo e portatolo alle labbra ne trasse due o tre sibili tremolanti. Il maggiordomo Battista arrivò di corsa. "Ma che succede?" gli domandò. "Cosa credi di essere a bordo della Tonante?" "Un fa... fa... fa..." mugolò Nicolino. "Un fagiano?" "No, un fa... fa... fa..." "Un falco?" Nicolino fece disperati cenni di diniego. "Un fa... fa... fantasma!" esplose finalmente. «Ma fammi il piacere!" scattò Battista. "Avrai avuto un'allucinazione..." "Non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tre... tre... tre..." Poiché non riusciva a vincere l'impuntatura, Nicolino muoveva vivacemente la mano in su e in giù come se stesse giocando alla morra. Il maggiordomo, lì per lì, distratto, lo assecondò: "Quattro!" gridò alzando ed abbassando la mano a sua volta ed aprendo ora uno, ora due, ora tre dita. "Due, due, tutta!" Si riprese e si guardò intorno. "Che cosa mi fai fare, imbecille!" scattò. "Se mi avesse visto la signora contessa! Perché vuoi giocare alla morra?" "Non volevo giocare alla morra" si giustificò Nicolino. "Volevo dire che non ho avuto un'allucinazione, ho avuto una paura tremenda!" "Appunto, un'allucinazione causata dalla paura! Comunque, se hai tanta paura di stare solo, vieni con me ad esplorare l'esterno del tempio..." "Ecco, è meglio... Tutto quello che vuoi, basta che non mi lasci qui solo..." "Andiamo... E smettila di battere i denti!" "Non sono io che batto i denti, sono loro che non vogliono stare fermi... Andiamo..." I due uscirono. Quasi immediatamente entrarono Raul e il capitano Squacqueras. "E ora che abbiamo mangiato," disse Raul "direi che ci potremmo mettere a dormire..." "Ottima idea, giovanotto... Chi dorme non piglia pesci e a me il pesce non piace... Dove ci mettiamo?" Raul si avvicinò all'ara dei sacrifici che indicò al capitano. "Io direi di metterci qui" consigliò. Il capitano si avvicinò all'ara e ne saggiò la pietra con la punta delle dita come se si trattasse di un letto. "Qui? Molto bene... Per quanto il materasso sia piuttosto duretto, eh?" "Sono stanco morto" disse Raul sbadigliando. "Credo proprio che dormirò come un sasso..." "Appunto... Niente di più adatto, allora, di un letto di pietra..." Il capitano così dicendo si distese sull'ara e Raul fece altrettanto, accomodandosi accanto a lui. "Buonanotte" disse. "Speriamo bene" disse il capitano. "E voi cercate di non sognare Jolanda, la figlia del Corsaro Nero... Buonanotte..." Pochi istanti dopo dormivano saporitamente tutti e due. Ma, nonostante la raccomandazione fattagli dal capitano Squacqueras, molto probabilmente Raul dovette vedere in sogno la dolce figura di Jolanda, perché, ad un certo punto, cominciò ad agitarsi sul suo letto di pietra, chiamando nel sonno: "Jolanda! Jolanda!" Jolanda stava risalendo dai sotterranei, mentre dalla porta del tempio rientravano Nicolino e Battista. "Mi è sembrato di aver sentito chiamare il mio nome" disse "da una voce d'uomo..." "Mi sia consentito il dire che la cosa è impossibile, contessina" le fece rispettosamente osservare il maggiordomo. "Io e Nicolino eravamo fuori e non vi abbiamo chiamato... In quanto alla voce della signora contessa, nonostante i suoi toni baritonali, non si può dire che sia una voce d'uomo..." "Eppure," disse Jolanda, pensosamente "mi sembrava la voce di quel giovane... Sì, del Corsaro Blu..." "E allora," piagnucolò Nicolino "avevo ragione io... Quello è morto e adesso il suo fantasma vaga per la foresta in cerca di pace..." "Dio non voglia!" esclamò Jolanda, turbata. "Piuttosto, dov'è la nonna? I sotterranei di questo tempio costituiscono una specie di labirinto e l'ho perduta... Sentite, prendete un ramo acceso da quel fuoco e andiamo a vedere..." "Sì, signorina, è meglio" approvò il nostromo Nicolino. "Non so com'è ma con la signora mi sento più sicuro... Lei non ha paura di niente, beata lei!" Nicolino si avvicinò al fuoco e ne tolse un ramo che sollevò in aria servendosene come di una torcia. I bagliori della fiamma illuminarono Raul che disteso sull'ara con le braccia incrociate sul petto sembrava un morto. Non ci volle di più per paralizzare completamente Nicolino. "Il fantasma del Corsaro Blu!" farfugliò. Vide il capitano Squacqueras disteso accanto a Raul. "C'è anche il Doppio Barbanera Illustrato!" gridò. Risvegliati dagli urli di Nicolino, il capitano Squacqueras e Raul balzarono a terra, pensando all'attacco di qualche nemico. Raul rimase di stucco nel trovarsi davanti Nicolino. «Ma voi... Che cosa fate qua?" "Pietà, signor fantasma!" gridò Nicolino cadendo in ginocchio e tendendo le mani supplici verso il giovanotto... "Macché fantasma d'Egitto!" esclamò Raul. "Io sono vivo!" Jolanda non riuscì a trattenere la propria gioia. "Vivo!" esclamò. Raul si voltò dalla parte di Jolanda e nel vederla lanciò un grido di contentezza. "Jolanda!" esclamò. "Anche voi siete qua!" Poiché il giovanotto le si era avvicinato quasi per abbracciarla, Jolanda si trasse indietro e abbassando pudica gli occhi: "Sì, e c'è anche la nonna..." "Ci ritroviamo tutti!" esclamò il capitano Squacqueras, facendo buon viso a cattivo giuoco. "Come luogo di ritrovo, però, lo abbiamo scelto piuttosto maluccio!" Il maggiordomo Battista si rivolse a Nicolino. "Lo vedi, pezzo di cretino, che non c'era nessun fantasma?" Nicolino fissò con gli occhi sbarrati la scala da cui era salita Jolanda e rispose balbettando: "Lo dici tu!" "Che c'è ancora?" domandò Battista. "Il serpente piumato!" "Ma fammi il piacere!" Battista si voltò dalla parte verso la quale stava guardando Nicolino e annichilì vedendo la spaventosa figura che tanto aveva impressionato il nostromo avanzare verso di lui. Perdendo la sua naturale compostezza, gridò: "Mi sia consentito il dire: Aiuto!" Il sedicente Corsaro Blu sguainò la spada mentre il capitano Squacqueras correva ad acquattarsi dietro l'ara. "Capitano!" lo rimproverò Raul."Perché vi nascondete?" "Nascondermi io? Niente affatto! Mi accoscio per poter saltare meglio addosso a quella creatura infernale!" Da dietro la spaventevole figura sbucò Giovanna. Teneva in mano la spada sguainata che aveva tenuto puntata fino a quel momento dietro la schiena del mostro. "Niente paura," disse. "To', ci siete anche voi!" esclamò vedendo Raul e Squacqueras. Quindi, agli altri due: "L'ho acchiappato. E non è affatto un fantasma o un dio incas, o un gigante..." Si rivolse alla fantasmagorica figura che quatta quatta tentava di riguadagnare la porta. "Fermo là, non ti muovere, se non vuoi fare conoscenza con la punta della mia spada..." "Non è un gigante?" domandò Raul. "E come fa ad essere così alto?" Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato, mostrando che si trattava di un erculeo incas sulle cui spalle si era posto a cavalcioni il gran sacerdote il quale, visto che oramai il suo trucco era scoperto, si tolse la maschera di serpente. L'uno sull'altro i due formavano la fantastica figura che per poco non aveva provocato un infarto al povero Nicolino. "Semplicissimo, guardate" spiegò Giovanna. "Volevano spaventarci per allontanarci dal favoloso tesoro degli incas che è nascosto in questo tempio..." 7. Giovanna Giovanna con un colpo secco strappò il mantello che ricopriva il finto serpente piumato... "Il tesoro degli incas?" esclamò Raul. "E dov'è?" "Eccolo" disse Giovanna. Si rivolse verso il sotterraneo da cui era sbucata chiamando: "Ehi, venite avanti voialtri, se non volete che del vostro gran sacerdote faccia un fodero per la mia spada!" Gli incas e le incas che abbiamo visto presenziare al sacrificio del tacchino, sbucarono dai sotterranei portando delle barelle cariche di vasi d'oro, braccialetti e collane di smeraldi, armille, corone d'oro, tiare, armi tempestate di pietre preziose, statuette e persino padelle tutte d'oro massiccio. Mentre i sei si affollavano intorno al tesoro, il maggiordomo Battista che era andato a guardar fuori del tempio, attratto da un rumore, si trasse di lato appoggiandosi con le spalle al muro: "Un drappello di soldati spagnoli!" annunciò con voce ufficiale. "Spagnoli!" esclamò Giovanna. "E noi siamo quasi inermi! Ma niente paura! Li conceremo per le feste ugualmente... E voi" seguitò, rivolto a Raul e al capitano Squacqueras "ci darete una mano, signori..." Raul esitò un istante, poi sospirando dichiarò: "Io non posso stare con voi, signora..." "Perché?" domandò Jolanda, sorpresa. "Perché fino ad ora vi abbiamo mentito... Io non sono il Corsaro Blu... Sono Raul di Trencabar, figlio del governatore di Maracaibo..." "Il figlio di Trencabar!" esclamò Jolanda, annichilita. "Sì, Jolanda, perdonatemi!" esclamò Raul. "Vado a raggiungere i vostri nemici, che altri non sono che i miei soldati... Andiamo, capitano Squacqueras..." "Non è il Doppio Barbanera Illustrato?" domandò Nicolino. "No, ma mi raccomando," scongiurò l'ex almanacco "non ci sparate alle spalle! Non è corretto! Non sta bene!" Uscì in fretta dietro Raul mentre Giovanna gli gridava dietro: "Non spariamo alle spalle, noi... Non siamo spagnoli!" "Non avrei mai creduto!" sospirò Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, con lo sguardo fisso nel vuoto. "Non ci pensare, Jolanda, e aiutami... Li sistemeremo noi questi spagnoli... Fate tutti come me!" Si avvicinò al tesoro degli incas, afferrò dei gioielli a casaccio e corse verso la porta. Fuori del tempio il sergente Manuel che comandava il drappello di soldati spagnoli sollevò una mano. "Alt!" comandò. Quindi, rivolto ai suoi uomini: "Attenzione," disse"qualcuno sta venendo verso di noi procedendo fra le rovine..." Quindi, a voce altissima: "Chi va là?" domandò. "Spagna!" rispose Raul. "E Milano!" aggiunse il capitano Squacqueras. "Ah, siete voi!" esclamò il sottufficiale. "Siete salvi, grazie alla Beata Vergine del Pilar... E ditemi! Non c'è nessuno nel tempio?" Raul esitò un momento. "No" dichiarò poi. "Non ci sembra, almeno..." "Sarà meglio assicurarsene... Avanti, soldati..." Sulla soglia del tempio apparvero Giovanna con i suoi compagni, le mani cariche di gioielli. "Pronti?" comandò Giovanna. "Fuoco!" Tutti lasciarono i gioielli contro gli spagnoli. I gioielli caddero intorno agli spagnoli che si fermarono interdetti. Il sergente Manuel ricevette in un occhio un enorme smeraldo che gli cadde in mano. "Caramba!" esclamò. "Uno smeraldo..." "Qui piove oro!" gridarono i soldati gettandosi a pesce sui gioielli provenienti dal tesoro degli incas e facendo a spintoni fra loro. "A me!" "A me!" "Lascia stare!" "Questo l'ho visto prima io!" "E togliti di mezzo, tu!" "Lascia quel vaso o ti ammazzo!" "Fermatevi!" gridò Raul gettandosi sulla mischia. "Capitano, aiutatemi a fermare questi energumeni!" "Magnifico!" esclamava intanto Giovanna, soddisfatta. "I soldati combattono fra loro per arraffare quanti più gioielli possono! Il sergente afferra una tiara di smeraldi, la passa a un soldato che la passa ad un altro, questo la lancia sulla testa del sottufficiale, goal! Lo ha preso in pieno! I soldati spagnoli si azzuffano, magnifici per continuità e resistenza! Il figlio di Trencabar tenta invano di opporsi alla loro furia, ma è travolto. I soldati si pestano fra loro. Siamo appena al primo minuto e già non c'è più un uomo valido in campo. Presto, approfittiamone per barricarci nel tempio!"
La potente e cieca forza della vita, quella che non mi ha permesso di diventare sordo mentre pronunciavano le parole, che ora non mi lascia impazzire per il tormento, sta abbandonando la sua carne leggera. Amico mio, io non ho mai conosciuto un dolore cosí grande: nemmeno quando mori Aviget, la sposa del mio cuore. Eppure ne vorrei uno maggiore, perché troppo piccolo mi sembra quello che è in me. Ganuan abbassò il volto e pianse, e Sakumat pianse con lui. Poi il pittore chiese: — Quanto potrà vivere ancora, signore? — Dicono non oltre un anno. — Desideri che io me ne vada? — Non ho desideri: ma questo è l'ultimo che potrei avere. Resta, se puoi. Sakumat tornò a cavalcare. Il suo giro si fece piú ampio, seguendo la strada che in rapida diagonale attraversava i campi magri e giungeva poco sotto il crinale settentrionale della vallata. Da qui, percorrendo in altezza il fianco settentrionale, usciva ed entrava in boschetti di basse querce tenaci e spinose, esponendosi a tratti di scarpata che il vecchio cavallo affrontava molto prudentemente. Compiendo una larghissima curva a ridosso dei monti, la pista piegava poi a sud, lungo il versante occidentale, incrociando sentieri appena accennati, scie scabre di greggi e di carovane. Da qualsiasi punto di quel percorso, tranne che nei brevi tratti alberati, si poteva scorgere il palazzo bianco del burban, giú in basso, stagliato come una pietra di primo rango nel pietrame del fondovalle. La discesa, lungo il lato sud, era meno diretta della salita, per un terreno dalla vegetazione aspra, interrotta da chiazze di fiori colorati e dai cespugli quasi azzurri di cupatja. Il giro si completava su una pista ben battuta che attraverso i pascoli piú ricchi della valle, dove brucavano quieti montoni abbandonati, riportava alle prime case del villaggio. Sakumat fece tre volte l'intero percorso, come se ad ogni ritorno dimenticasse di averlo compiuto, senza badare al passo sempre piú rotto del cavallo. Poi guidò la bestia alle stalle e rientrò nel palazzo, dove un alto silenzio regnava. Madurer era ancora addormentato. Ganuan sedeva a occhi chiusi presso il letto del bambino. Sakumat percorse le pareti dipinte, osservando le montagne e la pianura, la città assediata e il mare, il vascello pirata e il prato rigoglioso, in cui il segno sparso dello stralisco gli sembrò piú marcato ed evidente del solito. Per tre volte, lentamente, come aveva fatto attorno alla valle, percorse i paesaggi e notò cose che non sapeva, forme e gesti e colori che non ricordava di avere creato. Il burban, ai primi cenni di risveglio di Madurer, si allontanò come un'ombra. — Buongiorno, Sakumat, — disse il bambino. — Buongiorno anche a te, Madurer. — Ho fatto una gran dormita, vero? — Sí, un buon riposo. Ora stai bene? — Sì, bene. Un po' debole, come le altre volte. — Resterai a letto qualche giorno. Ti leggerò delle storie. — Benissimo! E poi continueremo a lavorare. Chiederò al burban mio padre di far terminare in fretta le nuove stanze. Non dovrebbe mancare molto. — Non molto. Ma abbiamo da lavorare ancora sulle nostre figure, Madurer. Ho delle idee, ma devo pensarci meglio. Come capitava a te prima di decidere il prato, ricordi? — Si. — Intanto, finché non ti alzerai, leggeremo delle fiabe, e guarderemo le figure dei libri. — E faremo qualche disegno sulla pergamena? — Se non ti stancherà troppo. Ti insegnerò a dipingere gli uccelli. Ma nei giorni seguenti le forze di Madurer non furono sufficienti a disegnare. Sakumat gli lesse molte storie, parlando con lui delle vicende e dei personaggi. Notava intanto come la forza stentasse, molto piú della volta precedente, a ritrovare le strade nell'organismo del piccolo. Ma il pensiero di Madurer, tra un riposo e l'altro, era rapido e desto. Soltanto, a tratti, lo prendeva una specie di distrazione, un momento di assenza, nel quale gli uscivano parole svagate, forse senza significato: come se il suo stesso pensiero, imprendibile, le facesse risuonare senza i legami del linguaggio. Anche i sonni diurni diventarono piú lunghi e insistenti. — Costruire nuove stanze è una buona idea, — disse Sakumat. — Ma io ne ho una migliore. — È quella a cui hai pensato in questi giorni? — Sí. E mentre ci pensavo diventava piú bella. — Allora dimmela, Sakumat. — Ecco: se noi continuiamo ad allargare le pareti, non potremo piú dominare il paesaggio. Voglio dire che diventerà troppo grande per giocarci davvero. Resterà per molto tempo uguale, e sarà meno vivo. Madurer taceva, attentissimo. — Insomma, credo che queste pareti ci. bastino, - disse Sakumat. — Ma sono complete! — osservò Madurer. — Il Tigrez è grande nel mare, e piú grande non potrebbe diventare. Il prato è completamente fiorito. C'è anche lo stralisco che brilla di notte. Che altro possiamo dipingere? Sakumat giocava parlando con le mani del bambino, come spesso faceva. — Ricordi come abbiamo dipinto le cose, Madurer? — disse, stringendogli un po' piú forte le dita, — come era piccola la nave, all'inizio? E com'era acerbo il prato? — Si, li abbiamo fatti poco a poco. Piano piano. — E ricordi una cosa ancora piú antica? Che il mondo non fa salti, e non si ferma? Madurer rimase in silenzio, soppesando fra le sue dita piccole quelle piú grandi del pittore. — Vuoi dire che i nostri paesaggi possono continuare? — disse. — Possono continuare, sí. E cambiare. Se noi vogliamo. — Cambiare come? Diventare più belli? — Sono già belli, Madurer. Ma possiamo andare avanti nella storia, aggiungere il resto della vita. Il bambino sembrò affaticato. Stava rientrando nel torpore. — Sí, facciamo cosí, — disse, — poi mi spiegherai, come... Anche per Sakumat era stata una conversazione faticosa. Ascoltò il respiro fragile del bambino assestarsi in cadenza piú regolare. Poi chiuse gli occhi. Come dalle ferite di un ramo, dalle palpebre chiuse uscivano lacrime chiare.
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Benchè adesso da pochi si oda usata la voce flotta, ma si dice o naviglio o amata per esercito, essa è un gallicismo bell' è buono, entrato da molto tempo in Italia, è vero; ma il cui uso parimenti si va abbandonando fra noi. La voce armata presso i Trecentisti significò solo numero di navi armate per far guerra." "Ma io l' ho letta in Dino Compagni. "La Cronica di Dino Compagni è oramai, appresso la gente di sano giudizio, reputata apocrifa, e questa voce armata è appunto uno dei segni di apocrifità; e i difensori della autenticità per iscusarne il loro Dino, dànno a questa voce un significato diverso che non può avere..." Qui la direttrice fece notare che l'ora era passata e proponendo che tal disputa si rimettesse a un'altra volta, la conversazione fu finita.
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Sposatasi poco appresso con Giuseppe Veratti medico, nè per le cure di famiglia abbandonando gli studi, cresceva sempre in sapienza ed in fama; tanto che il Senato di Bologna le diè la cattedra di filosofia, e fece coniare una medaglia in suo onore col ritratto di lei da una parte, e dall' altra una Minerva (dea della sapienza) col motto: Soli cui fas vidisse Minervam. Niuna donna per avventura fu padrona come essa di tante lingue e di tante scienze, perchè ebbe famigliari la lingua latina, la greca, l'ebraica, e le più nobili fra le moderne, e fu eccellente nella logica, nella metafisica, nella geometria, nell' algebra e nella fisica. Scrisse anche delle poesie, ed un poema epico sulle guerre combattute in Italia dal 1740 al 1748, il quale è rimasto inedito; ed è bene, perchè forse non reggerebbe al martello, e piuttosto che giovare, nuocerebbe alla sua fama. Morì nel 1778, compianta da tutti, e celebrata in morte da varj nobili ingegni; come una raccolta di poesie era stata fatta in suo onore, e stampata in due volumi, quando le fu data la laurea dottorale, e accettata nella Facoltà di Filosofia." " Lo studio, disse il maestro come prima si tacque la Clelia, si vede che le ha profittato, perchè nel suo discorso, non solo ci sono i pregi medesimi che erano nell' altro, ma c' è migliore ordine, e più franchezza di periodare: il perchè le faccio le medesime lodi, ed anche maggiori, confortandola di non abbandonare lo studio. Sulla fine per altro, se non m' ha ingannato l' orecchio, mi è parso di sentirle pronunziar nuocerebbe per nocerebbe. Ho frainteso, o sta veramente così? "Sta così, perchè, venendo dall'infinito nuocere mi pare che si dovesse dir nuocerebbe. "Se le pare, le par male. Qui milita la regola del dittongo mobile, della quale pur mi ricordo aver loro detto qualcosa in iscuola; ma, a quel che sembra, con poco frutto; e però, se piace a loro e alla signora direttrice, io ne tratterò adesso un po' distesamente, perchè una bella vergogna il vedere, non dico da loro, ma quasi universalmente trascurata questa regola, che è quella forse la quale patisce meno eccezioni." La direttrice e le alunne, non solo acconsentirono ma mostrarono vivo desiderio, che il maestro spiegasse loro la regola ed il maestro disse così: "Regola, costante adunque, e che ha meno eccezioni di qual altra si voglia, è questa che in una voce, la quale abbia il dittongo uo o ie, se, ne' derivati da essa, l' accento trasportasi in altra sillaba, il dittongo si scempia; per esempio cuore ha l' accento sulla prima che è dittongo; facendone coraggio, l' accento si trasporta sulla seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir cuoraggio. Siedo ha la posa sulla prima ed è dittongo; in sedeva l' accento va nella seconda, e il dittongo sparisce, nè si può dir siedeva. Nel modo medesimo si dice abbuono, abbuonano, abbuona; e non abbuonare, abbuonava, abbuonerò, ma abbonare, abbonava, abbonerò, ecc.: si dice cielo e non cieleste, ma celeste; si dice accieco, acciecano, ecc., e non acciecare, acciecavano, ecc,, ma accecare, accecavano e così di mille altri simili casi. Nè il dittongo si scempia solo per trasporto d' accento, ma anche perchè seguono u i. esso due consonanti uguali; per esempio, CUOCERE non solo scempia l'accento in coceva, cocerà, ecc., ma anche in cossi e cotto. Il trasporto di accento poi ha virtù di far cambiare una vocale nello diverso voci di uno stesso verbo; per esempio, in UDIRE quelle che han l'accento sulla prima cominciano per o, come odo, odono: quelle dove l' accento passa alla seconda, cominciano per u, come udire, udirò, udrà e nel verbo USCIRE cominciano per e quelle che hanno l' accento sulla prima come esco, escono, esci; o per u quelle dove l'accento passa oltre, come uscire, uscirò, usciva. Non ci ha grammatico antico o moderno (dico di quegli noti da quattro al centesimo) che questa regola non insegni, e non assegni buona ragione; Bombe, il Castelvetro, Il salviati, il Salvini, il Buommattei, il Rogacci, il Bartoli, Celso Cittadini, Loreto Mattei, il Manni, il Parenti, il Gherardini; tutti insomma i migliori antichi e moderni, tra' quali i più largamente e dottamente che ne parlino sono il Cittadini, il Mattei, il Salvini ed il Bartoli fra gli antichi; e fra' moderni il Parenti in più luoghi delle sue Strenne filologiche, e il Gherardini nella Appendice alle Grammatiche teoricamente, e praticamente ne' suoi lavori lessicografi. E quel che prova la incontrastabilità della regola è questo, che e guelfi e ghibellini della filologia italiana si accordano nell'insegnarla e nel difenderla: segno proprio che non c' è via da dirle contro. Eppure tuttor c'è chi non la capisce! ed ancora di quelli che vanno per la maggior parte scappucciano in questa materia! Ecco perchè qui ho battuto un po' più che altrove. "Anche la Crusca, che ne' primi sette fascicoli della quinta impressione avea trascurato tal regola, fattane accorta, non pure la osserva scrupolosamente nella ricominciata edizione; ma ne assegna ottime ragioni nella prefazione. - Ma che Crusca? che grammatica? che Bembi, che Bartoli, che Parenti, che Gherardini o altri medaglioni il popolo non usa tali dittonghi, e per conseguenza non si debbono, nè parlando nè scrivendo, adoperare. - Ma è vero proprio che il popolo non gli usa? - No che non è vero una persona civile, qui in Firenze, gli usa, anche parlando, quasi sempre, pronunziandoli molto raccolti, è vero, ma facendo pur sentire tanto o quanto della u, se il dittongo èuo, e della i se il dittongo è ie; nè certo una persona, civile dir� sole per suole, poi per puoi, voi per vuoi, celo per cielo, sedo per siedo, ecc., ecc., e molto meno lo scriverò. Se poi si esce di Firenze e si va ne' luoghi dove l' italiano è senza dubbio meglio pronunziato, come a Siena, a Pistoja, e sulla montagna pistojese, questi dittonghi si odono spiccatissimi sulle bocche di tutti. E poi quando fosse altrimenti, il popolo è autorità assoluta in opera di pronunzia? No, risponde Cicerone, Aulo Gellio, Dante, il Bembo, il Salviati, e tutti i primi maestri: no, perchè allora bisognerebbe dire e scrivere sua e tua per tuoi e suoi; issole per il sole; e molte altre simili: no, perchè è una mattia l' accettare, a chius' occhi questa autorità sconfinata del popolo, la quale ci porterebbe a dover dire e scrivere molti errori che al popolo son comuni, come radino, dicono, e simili per vadano e dicano: andiedi per andai: vai e fai e stai, per va, fa, sta, imperativi; si fece, si disse, ecc., per facemmo e dicemmo: lui e lei, per egli ed ella in ogni caso: cosa per che cosa; ed altre simili gioie, che pur brillano negli scritti di questi ciechi seguaci dell' uso e no, finalmente, perchè non è vero niente che l' uso di questi e simili errori sia generale tra 'l popolo, essendoci pure una gran parte, anzi la maggior parte delle persone civili, che mai non li dicono. "Non altro ho da dire circa a questa regola. Mi sono fatto intendere? Sì, signore, rispose la Zaira a nome di tutte; e spero che niuna, di noi caderò più in tal errore. Intanto, essendo passata l' ora, la direttrice si alzò, e tutte facevano altrettanto, quando la Eglina: "Scusino, ma ci siamo scordate d' una cosa. "Che cosa? domandò la direttrice. "La Clelia ha detto delle parole latine; ma noi non sappiamo quel che voglion dire. "O povera signora Eglina, continuò il maestro, ha ragione, ed eccomi qui a spiegargliele. La signora Clelia ci ha raccontato che sulla medaglia coniata per la Bassi ci era il motto: Soli cui fas vidisse Minerva, le quali vengono a dire che quella medaglia fu coniata per onorare colei a cui solo fu conceduto di vedere Minerva, volendo significare che la Bassi fu la più sapiente fra le donne, tanto sapiente che vide a faccia a faccia Minerva, la quale è simboleggiata per la sapienza stessa.
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Tutti gli si affollarono intorno, abbandonando sulle tavole e a terra i bicchieri e i ventagli di palma. Malgrado la distanza, ella udí il clamore delle voci che interrogavano, chiamavano, e intuí la febbrile tensione degli uomini. Finalmente al disopra del vocio confuso si levò la voce di Stuart Tarleton in un grido esultante: - Yee-eey-y! - come se fosse a caccia. Ed ella udí per la prima volta, senza saperlo, il grido dei Ribelli. Mentre continuava a guardare, i quattro Tarleton, seguiti dai ragazzi Fontaine, uscirono dal gruppo e corsero verso le scuderie gridando: - Jeemes! Ehi, Jeemes! Sella i cavalli! «Si dev'essere incendiata la casa di qualcuno» pensò Rossella. Ma fuoco o non fuoco, lei non doveva fare altro che rientrare nella stanza da letto prima di essere scoperta. Il suo cuore batteva meno violentemente adesso; ella salí in punta di piedi i gradini, al disopra del vestibolo silenzioso. Una calda sonnolenza pesava sulla casa, come se anch'essa dormisse come le ragazze, fino al sopraggiunger della notte in tutta la sua bellezza con la musica e le candele. Pian piano aperse la porta dello spogliatoio e scivolò dentro. Aveva ancora la mano sulla gruccia quando dalla fessura della porta di fronte che metteva nella camera da letto le giunse la voce di Gioia Wilkes, sommessa come un sussurro. - Mi pare che Rossella si sia comportata come una sfacciata, oggi. La fanciulla sentí che il suo cuore ricominciava la folle danza; inconsciamente vi premette sopra la mano come per costringerlo a fermarsi. «Gli spioni ascoltano spesso cose molto istruttive» le risuonò nella memoria. Doveva uscire nuovamente? O farsi vedere e mettere in imbarazzo Gioia come meritava? Ma la voce che udí subito dopo la fece fermare. Neanche una coppia di muli avrebbe potuto trascinarla via quando riconobbe la voce di Melania. - Oh, Gioia, non esser cattiva. È soltanto vivace e spiritosa. A me è sembrata simpaticissima. «Oh» pensò Rossella ficcandosi le unghie nel corpetto. «Sentirsi difendere da quella piccola ipocrita!» Era peggio della lieve maldicenza di Gioia. Rossella non aveva mai avuto fiducia in nessuna donna e non aveva mai attribuito a nessuna - eccetto sua madre - motivi che non fossero egoistici. Melania era sicura di Ashley, perciò poteva concedersi il lusso di manifestare uno spirito cosí cristiano. Rossella pensò che in questo modo Melania faceva pompa della sua conquista e in pari tempo si procurava la nomea di essere buona e dolce. Era un trucco che anche lei aveva usato molte volte parlando di altre ragazze con gli uomini; ed era sempre riuscita in quel modo a convincerli della sua bontà e del suo altruismo. - Senti, cara - riprese Gioia aspramente, alzando un po' la voce - bisogna dire che sei cieca. - Ssst, Gioia - bisbigliò Sally Munroe - ti sentiranno in tutta la casa! Gioia abbassò la voce ma continuò. - Non hai visto che cercava di accaparrarseli tutti? Perfino Mr. Kennedy che è il corteggiatore di sua sorella. Non ho mai visto una cosa simile! E certo ha cercato di attirare anche Carlo. - Gioia ridacchiò con una certa sufficienza. - Sapete bene che io e Carlo... - Davvero? - bisbigliarono alcune voci eccitate. - Sí, ma non ditelo a nessuno, ragazze... Non ancora! Vi furono ancora delle risatine e le molle del letto cigolarono come se qualcuno avesse spinto Gioia. Melania mormorò qualche parola sulla sua felicità di avere Gioia per sorella. - Ah, io non sarei davvero felice di avere Rossella per sorella, perché è sfacciata come non ve ne sono altre - giunse la voce afflitta di Etta Tarleton. - Ma è quasi fidanzata con Stuart. Brent dice che non glie ne importa un fico; ma in verità anche lui ne è pazzo. - Se domandate a me - mormorò Gioia con misteriosa importanza - c'è solo una persona di cui a lei importi. Ed è Ashley. I bisbigli si fusero violentemente interrogando, interrompendo, e Rossella si sentí ghiacciare dal timore e dalla umiliazione. Gioia era una stupida, una cretina, una sempliciona per quanto concerneva gli uomini, ma aveva per quanto concerneva le altre donne, un istinto femminile che Rossella non aveva mai considerato. La mortificazione e l'orgoglio offeso di cui aveva sofferto nella biblioteca con Ashley e con Rhett Butler erano punture di spillo a paragone di questo. Si poteva aver fiducia che gli uomini - anche un individuo come Mr. Butler - avrebbero taciuto; ma con le chiacchiere di Gioia Wilkes che spettegolava a destra e a sinistra, prima delle sei tutta la Contea sarebbe al corrente. E Geraldo la sera prima aveva detto che non voleva che il paese ridesse di sua figlia. Come riderebbero tutti adesso! Un sudore vischioso le bagnò le costole partendo dalle ascelle. La voce di Melania, misurata e tranquilla, si levò sulle altre con lieve rimprovero. - Sai benissimo che non è cosí, Gioia, e non è gentile da parte tua... - È cosí, Melly, e se tu non fossi sempre intenta a cercare la bontà in quelli che non ne hanno, te ne accorgeresti. E io sono contenta. Le sta bene. Rossella O'Hara non ha mai fatto altro che mettere scompiglio e cercare di portar via gli spasimanti alle altre ragazze. Sai benissimo che ha portato via Stuart a Lydia, mentre non sapeva che farsene. E oggi ha cercato di attrarre Mr. Kennedy, Ashley, Carlo... «Debbo andare, a casa!» pensò Rossella. «Debbo andare a casa!» Se avesse potuto per opera di magía essere trasportata a Tara, al sicuro! Poter essere con Elena, vederla, nascondere il viso nel suo grembo, piangere e raccontarle tutto! Se avesse udito ancora una parola si sarebbe precipitata nella stanza e avrebbe afferrato a manate i pallidi capelli di Gioia e avrebbe sputato in faccia a Melania Hamilton per mostrarle ciò che pensava della sua carità. Ma si era già comportata in modo abbastanza volgare oggi, proprio come una qualsiasi miserabile stracciona bianca; e questo era il suo tormento. Si strinse le mani contro le gonnelle perché non frusciassero e indietreggiò furtivamente come un animale. «A casa» pensava nell'attraversare velocemente il vestibolo davanti alle porte chiuse e alle stanze silenziose; «debbo andare a casa.» Era già nel porticato, quando fu colpita da un nuovo pensiero: non poteva andare a casa, non poteva fuggire! Doveva assistere, sopportare tutta la malizia delle ragazze e la propria umiliazione e il crepacuore. Fuggire, significava dar loro maggiore esca. Picchiò il pugno chiuso contro la grande colonna bianca lí accanto, come se avesse desiderato essere Sansone e far crollare le Dodici Querce distruggendo tutti quelli che vi erano dentro. Li farebbe pentire, farebbe veder loro... Non sapeva ancora come, ma lo avrebbe fatto. Li offenderebbe peggio di come essi avevano offeso lei. Per il momento Ashley come Ashley era dimenticato. Non era il bel giovane sonnolento di cui ella era innamorata, ma era una parte dei Wilkes, delle Dodici Querce, della Contea; ed essa li odiava tutti perché ridevano. La vanità è piú forte dell'amore, a sedici anni, e nel suo cuore ardente non vi era posto per altro, ora, che per l'odio. «Non andrò a casa» pensò, «rimarrò qui e li farò pentire. E non lo dirò mai alla mamma. No, non lo dirò a nessuno.» Fece una sforzo per rientrare in casa, risalire le scale e andare in un'altra camera da letto. Nel voltarsi vide Carlo che rientrava dall'altra estremità del lungo vestibolo. Vedendola si affrettò verso di lei. Aveva i capelli in disordine e il viso color geranio per l'eccitazione. - Sapete che cosa è successo? - gridò anche prima di averla raggiunta. - Avete sentito? È arrivato or ora Paolo Wilson da Jonesboro con le notizie! Fece una pausa, senza fiato, essendole arrivato accanto. Ella non fece motto e lo fissò. - Lincoln chiede uomini, soldati, - volontari voglio dire - settantacinquemila! Di nuovo Mr. Lincoln! Ma possibile che gli uomini non pensassero mai a ciò che realmente accadeva? Ecco che questo idiota si aspettava che lei si eccitasse per i capricci di Mr. Lincoln, mentre aveva il cuore spezzato e la reputazione quasi rovinata. Carlo la fissò; il volto di lei era bianco come la cera e i suoi occhi verdi brillavano a guisa di smeraldi. Egli non aveva mai visto un fuoco simile nel volto di una fanciulla, un tale splendore negli occhi di nessuno. - Son troppo goffo - disse. - Avrei dovuto dirvelo piú dolcemente. Ho dimenticato che le donne sono cosí delicate. Mi dispiace di avervi turbata cosí. Non vi sentite venir meno? Posso andarvi a prendere un bicchier d'acqua? - No - rispose Rossella e cercò di sorridere convulsamente. - Vogliamo andare a sedere sul banco? - chiese il giovane prendendola per il braccio. Ella annuí ed egli la aiutò cortesemente a scendere i gradini e la condusse attraverso l'erba fino al banco di ferro sotto alla quercia piú maestosa, nel piazzale davanti alla casa. «Come sono fragili e tenere le donne» pensò; «basta nominare la guerra per vederle svenire.» Questa idea lo fece sentire molto uomo, e quindi egli raddoppiò di gentilezza. La fanciulla sembrava cosí strana, e nel suo volto bianco era una selvaggia bellezza che gli fece balzare il cuore. Possibile che ella fosse sgomenta al pensiero che egli potesse andare in guerra? No, era una presunzione eccessiva. Ma perché lo guardava cosí bizzarramente? E perché le sue mani tremavano, mentre tirava fuori il fazzolettino di trina? E le sue folte ciglia battevano come quelle delle fanciulle nei romanzi che aveva letto, per timidità ed amore. Carlo si schiarí la voce tre volte per parlare, senza riuscirvi. Abbassò gli occhi perché quelli verdi di lei erano cosí penetranti che sembrava quasi che vedessero al di là di lui. «Ha una quantità di quattrini» pensava rapidamente Rossella, mentre nel suo cervello si formava un nuovo piano. «E non ha genitori che possano darmi noia; e per di piú vive ad Atlanta. Se lo sposassi subito, farei vedere a Ashley che di lui non m'importava un fico... che volevo soltanto civettare. E per Gioia sarebbe la morte. Non troverà mai, mai un altro corteggiatore e tutti rideranno di lei. E Melania ne sarebbe addolorata, perché vuol molto bene a Carlo. E sarebbero addolorati anche Stu e Brent...» Non sapeva precisamente perché voleva dar loro un dispiacere, se non perché avevano delle sorelle dispettose. «E tutti sarebbero indispettiti quando io ritornassi qui in visita in una bella carrozza, con una quantità di bei vestiti e una casa mia. E non potrebbero mai, mai ridere di me.» - Certo, vuol dire combattere - disse Carlo dopo parecchi tentativi imbarazzati. - Ma non vi agitate, Miss Rossella; in un mese sarà tutto finito e sentiremo i loro lamenti. Sicuro, i loro lamenti! Non vorrei per nulla al mondo mancare di sentirli. Ho paura che stasera non ci sarà il ballo perché lo Squadrone deve riunirsi a Jonesboro. I ragazzi Tarleton sono andati a diffondere la notizia. So che alle signore dispiacerà. Ella fece - Oh! - non sapendo dire altro; ma questo bastò. Le stava ritornando il sangue freddo e la sua mente ricominciava a veder chiaro. Su tutte le sue emozioni si formava uno strato di ghiaccio ed ella pensò che non sentirebbe mai piú nulla di ardente. Perché non prendere quel bel ragazzo timido? Valeva come gli altri e a lei non importava nulla di nessuno. No, non avrebbe piú voluto bene a nessuno, anche se avesse vissuto fino a novant'anni. - Non posso decidere ora se andrò con Mr. Wade Hampton nella Legione della Carolina del Sud o con la Guardia di città di Atlanta. Ella disse ancora - Oh! - e i loro occhi s'incontrarono; e le ciglia che si agitarono furono la sua rovina. - Mi aspetterete, Miss Rossella? Sarà... Sarà divino sapere che voi mi aspettate finché li avremo battuti! - Attese senza respirare le parole di lei, osservando le labbra rosse che s'increspavano agli angoli e notando per la prima volta l'ombra di quegli angoli e pensando come sarebbe bello baciarli. La mano di lei, col palmo umido di traspirazione, scivolò nella sua. - Non vorrei aspettare - mormorò, e i suoi occhi si velarono. Seduto, stringendole la mano, egli la fissò a bocca aperta. Con gli occhi bassi, Rossella lo guardava attraverso le ciglia, con l'impressione che egli somigliasse a un rospo enorme. Egli fece per parlare piú volte, boccheggiò, tornò ad arrossire. - Possibile che mi amiate? Ella non rispose ma abbassò gli occhi e Carlo fu nuovamente trasportato in un'atmosfera di estasi e d'imbarazzo. Forse un uomo non dovrebbe rivolgere una simile domanda a una ragazza. E forse per lei sarebbe sconveniente rispondergli. Non avendo mai avuto il coraggio di mettersi prima d'ora in una simile situazione, Carlo non sapeva come comportarsi. Aveva voglia di urlare, di cantare e di baciarla; di far delle capriole sul prato e poi di correre a dire a tutti quanti, bianchi e negri, che essa lo amava. Ma si limitò a stringerle la mano fino a farle penetrare gli anelli nella carne. - Volete sposarmi presto, Miss Rossella? - Uhm! - rispose ella giocherellando con una piega della veste. - Dobbiamo fare un doppio matrimonio con Mel...? - No, - rispose ella rapidamente, e i suoi occhi ebbero uno splendore minaccioso. Carlo comprese di aver nuovamente commesso un errore. Era naturale che una fanciulla desiderasse una festa di nozze propria, non una gloria condivisa. Come era buona a passar sopra ai suoi rossori! Se almeno fosse buio ed egli fosse incoraggiato dalle tenebre, e riuscisse a baciarle la mano dicendole tutto ciò che anelava di dirle! - Quando posso parlare con vostro padre? - Piú presto è, meglio è - rispose ella, sperando che egli rallentasse la dolorosa pressione sui suoi anelli, senza costringerla a dirglielo. Egli balzò in piedi e per un attimo Rossella temette che facesse una capriola prima che la dignità lo trattenesse. La guardò, raggiante, con tutto il suo semplice onesto cuore negli occhi. Nessuno l'aveva mai guardata cosí, e nessuno piú la guarderebbe in quel modo; ma ella pensò soltanto che le sembrava un vitello. - Vado a cercarlo - disse col viso illuminato da un sorriso. - Non posso aspettare. Volete scusarmi... cara? - Pronunciò questa parola con sforzo, ma essendovi riuscito la ripeté con piacere. - Sí, vi aspetterò qui. È fresco e si sta bene. Egli attraversò il prato e scomparve dietro alla casa, lasciandola sola sotto la quercia le cui foglie stormivano. Dalle scuderie uscivano uomini a cavallo; i servi negri cavalcavano frettolosamente dietro ai loro padroni. I ragazzi Munroe passarono velocemente agitando i loro cappelli; i Fontaine e i Calvert percorsero la strada gridando. I quattro Tarleton attraversarono il prato e le passarono davanti, e Brent gridò: - La mamma ci darà i cavalli! Y-eey-iii! - Scomparvero lasciandola nuovamente sola. La casa bianca drizzava davanti a lei le sue grandi colonne, e sembrava che si ritraesse da lei con dignità. Oramai, non sarebbe stata mai piú la sua casa. Ashley non le farebbe mai oltrepassare quella soglia come sua sposa. Oh, Ashley! Che cosa ho fatto? Nella profondità del suo intimo, sotto l'orgoglio felice e il freddo senso pratico, qualche cosa si agitò dandole dolore. Era nata in lei un'emozione da adulta, piú forte della sua vanità e del suo egoismo volontario. Ella amava Ashley, sapeva di amarlo, e non gli aveva mai voluto tanto bene come nel momento in cui vide Carlo scomparire alla svolta del viale inghiaiato.
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Egli volse il capo e le diede un'occhiata che la fece indietreggiare abbandonando il suo braccio. Non vi era sarcasmo, ora, nei suoi occhi; ma piuttosto un'espressione di collera e anche di stupore. Torse le labbra volgendo nuovamente il capo. Per un pezzo proseguirono in un silenzio interrotto soltanto dai lievi vagiti del bimbo e da qualche gemito di Prissy. Finalmente Rhett voltò il cavallo ad angolo retto e dopo un poco si trovarono su una strada larga e soffice. Le forme incerte delle case diventavano sempre piú rare e ai due lati si stendevano folte boscaglie. - Siamo fuori città, adesso - disse Rhett brevemente tirando le redini; - e sulla strada principale per McDonough. - Presto. Non vi fermate! - Lasciate respirare un momento questa bestia. - Poi volgendosi a lei, le chiese lentamente: - Siete ancora decisa, Rossella, a commettere questa follia? - Quale? - Volete ancora tentare di arrivare a Tara? È un suicidio. Fra voi e Tara vi è la cavalleria di Lee e l'esercito yankee. Dio mio! Avrebbe ora rifiutato di condurla a casa, dopo ciò che ella aveva sopportato in quella tremenda giornata? - Oh, sí, sí! Vi prego, Rhett, sbrighiamoci. Il cavallo non è stanco. - Un momento. Non potete andare a Jonesboro seguendo la linea ferroviaria. Si è combattuto qui tutto il giorno. Conoscete altre strade, carrozzabili o sentieri, che non attraversino Jonesboro? - Oh, sí! - esclamò Rossella sollevata. - Conosco una strada carrozzabile che lascia Jonesboro di fianco e fa il giro di diverse miglia. Papà ed io la percorrevamo a cavallo. Sbuca vicino alla proprietà di Maclntosh ed è soltanto a un miglio da Tara. - Bene! Allora può darsi che riusciate. Il generale Steve Lee è stato da quella parte durante il pomeriggio di oggi per coprire la ritirata. Forse gli yankees non vi sono ancora. Quindi potete arrivate se gli uomini di Lee non vi prendono il cavallo. - lo... posso arrivare? - Sí, voi. - La sua voce era aspra. - Ma Rhett... voi... non ci accompagnate? - No. Vi lascio qui. Ella si guardò attorno con uno sguardo folle; guardò il cielo livido, gli alberi neri che sembravano le pareti di una prigione, le figure spaventate nel carro, e finalmente lui. Era impazzita? O non aveva udito bene? - Ci lasciate? E dove... dove andate? - Cara figliola, vado con l'esercito. Ella sospirò, sollevata e irritata. Perché scherzava in questo momento? Rhett nell'esercito! Dopo tutto quello che aveva sempre detto... - Che gusto spaventarmi cosí! Andiamo! - Non sto scherzando, mia cara. E sono dolente che voi non accettiate con spirito migliore il mio sacrificio. Dov'è il vostro patriottismo, il vostro amore per la Nostra Causa Gloriosa? Ora sarebbe il momento di dirmi che debbo tornare vittorioso o morto. Ma fate presto, perché a me occorre un po' di tempo per farvi un bel discorsetto prima di partire per la guerra. Era la solita voce beffarda. Egli la scherniva e in certo modo, scherniva anche se stesso. Non era possibile che parlasse sul serio. E non era credibile che pensasse di lasciarla su quella strada buia con una donna che poteva essere moribonda, un neonato, una piccola imbecille negra e un bimbo atterrito; non poteva lasciarle il compito di portarli attraverso miglia e miglia di campi di battaglia, in preda a mille pericoli. - Scherzate, Rhett! Gli afferrò il braccio e lagrime di terrore le sgorgarono dagli occhi. Egli sollevò la sua mano e glie la baciò leggermente. - Egoista sino alla fine, non è vero, mia cara? Pensate soltanto alla vostra preziosa salvezza e non alla valorosa Confederazione. Immaginate invece, come saranno rincorate le nostre truppe da questa mia comparsa all' ultima ora! - Nella sua voce era una maliziosa tenerezza. - Oh, Rhett, come potete farmi questo? Perché mi volete abbandonare? - Perché? - egli rise gaiamente. - Forse a causa di quella stupida sentimentalità che è appiattata in fondo a tutti noi meridionali. Forse... Forse perché mi vergogno. Chi Io sa? - Vergognarvi? Dovreste morire di vergogna a lasciarci qui, sole, senza aiuto... - Cara Rossella! Voi non siete senza aiuto. Quando si è egoisti e risoluti come voi, non si è mai abbandonati. Dio deve aiutare piuttosto gli yankees, se per caso capitate fra loro! - Scese bruscamente dal carro, e poiché ella lo guardava sbalordita, girò dalla sua parte e le ordinò: - Scendete. Ella lo fissò. Rhett la prese alla vita senza complimenti e la depose a terra accanto a lui. Tenendola leggermente alla cintura, la trasse a parecchi passi di distanza. Ella sentiva la polvere e i sassi penetrare nelle sue scarpine. Le tenebre calde l'avvolgevano come un sogno. - Non vi chiedo di comprendere o di perdonare. Io stesso non mi comprendo, e non mi perdonerò mai questa idiozia. In fondo, mi secca di trovare in me ancora tanto donchisciottismo. Ma i nostri bei Paesi del Sud hanno bisogno di ogni uomo. Non lo ha detto anche il nostro bravo governatore Brown? Ma non importa. Vado alla guerra. Rise improvvisamente, un riso squillante che destò gli echi nel bosco nero. - «Non ho potuto amarti, cara, piú di quanto amassi l'onore.» Un bel discorso, no? Certo migliore di quel che sarei capace di fare io in questo momento. Perché vi amo, Rossella, malgrado quel che vi ho detto quella sera sotto il porticato, un mese fa. La sua voce era carezzevole e le sue mani calde e robuste, le lisciavano le braccia nude. - Vi amo, Rossella, perché ci somigliamo tanto; rinnegati, tutti e due, e profondamente egoisti. A nessuno di noi due importa che il mondo vada in rovina, purché noi ci salviamo. Ella udiva le parole, ma non ne capiva il senso. Cercava di rendersi conto della tremenda verità: egli la lasciava sola, ad affrontare gli yankees. Il suo cervello le diceva: «Mi lascia, mi lascia.» Ma non provava emozione. Allora le braccia di lui le circondarono la vita e le spalle, ed ella sentí i suoi muscoli saldi, e i bottoni della sua giacca che le premevano contro il petto. Un senso di calore, di stupore, e di sgomento la invase offuscando in lei ogni cognizione di tempo e di luogo. Si sentiva come una bambola di stracci debole e rilassata; e le piaceva sentirsi sorretta da quelle braccia vigorose. - Non volete cambiare idea a proposito di ciò che vi dissi quella sera? Non vi è nulla di meglio del pericolo e della morte per dare una spinta. Siate patriottica, Rossella. Pensate che manderete un soldato alla morte con un bel ricordo. Ora la baciava. E i suoi baffetti le sfioravano la bocca; la baciava con le labbra ardenti, lentamente, come se avesse avuto a sua disposizione tutta la notte. Carlo non l'aveva mai baciata cosí. E nemmeno i baci dei Tarleton e di Calvert le avevano dato quella sensazione di caldo e di freddo e l'avevano fatta tremare cosí. Le riversò il corpo all'indietro e le sue labbra le accarezzavano la gola, fin dove il cammeo le chiudeva la scollatura. - Tesoro - mormorò egli - tesoro... Ella scorgeva vagamente il carro nell'oscurità. A un tratto udí la vocetta acuta di Wade. - Mamma! Wade ha paúla! Alla sua mente confusa tornò improvvisamente la realtà ed ella ricordò ciò che aveva dimenticato per un attimo: che aveva paura e che Rhett, quel maledetto mascalzone, stava per lasciarla. E per colmo aveva la sfacciataggine d'insultarla con le sue infami proposte. Ira e odio s'impadronirono di lei; con uno sforzo ella si strappò alle sue braccia. - Mascalzone! - esclamò; e cercò di ricordarsi i peggiori insulti, quelli che aveva udito adoperare da Geraldo contro Lincoln, contro McIntosh e contro i muli testardi: ma le parole non vennero. - Abbietto, vigliacco, odioso! - E non riuscendo a trovare altre parole abbastanza sferzanti, alzò un braccio e lo colpí sulla bocca con tutta la forza che le rimaneva. Egli indietreggiò portandosi la mano al viso. - Ah! - fece soltanto; e per un attimo rimasero a fissarsi nell'oscurità. Rossella udiva il suo respiro pesante; ed ella pure ansimava come se avesse corso. - Avevano ragione; tutti avevano ragione! Non siete un gentiluomo! - Cara ragazza, come siete inopportuna! - Andatevene! Andatevene subito! Non voglio vedervi mai piú! Spero che una palla di cannone vi colpisca, che vi faccia a pezzi. Che... - Il resto non importa. Accetto la vostra idea. Ma quando sarò morto sull'altare della patria, spero che la vostra coscienza vi rimprovererà. Lo udí ridere, mentre, voltava le spalle, si avviava verso il carro. Lo vide fermarsi e lo udí parlare con la voce rispettosa che usava sempre quando parlava a Melania. - Mrs. Wilkes? La voce spaventata di Prissy rispose: - Madre di Dio, capitano Butler! Miss Melly essere svenuta rovesciata indietro. - Non è morta? Respira? - Sí, signore. Respirare. - Allora, è meglio cosí. Se fosse cosciente, forse non potrebbe sopravvivere a tutto questo. Abbi cura di lei, Prissy. Questo è per te - e le diede una banconota.... Cerca di non essere piú stupida di quello che sei. - Sí, signore. Grazie, signore. - Addio, Rossella. Si era voltato a guardarla, ma ella non parlò. L'odio l'aveva ammutolita. Udí il suo passo sui ciottoli della strada e per un attimo vide le sue larghe spalle disegnarsi nel buio. E dopo un momento, era scomparso. Udí allontanarsi il rumore dei passi, fino a cessare completamente. Allora tornò lentamente verso il carretto, con le ginocchia che le tremavano. Perché se n'era andato cosí, nel buio, a mescolarsi alla guerra, a una Causa che sapeva perduta, a un mondo impazzito? Perché era andato, Rhett che amava il piacere, le donne, i liquori, il buon vino e i letti comodi, i bei vestiti e le belle scarpe, che detestava gli Stati del Sud e derideva gl'imbecilli che combattevano per essi? Ora le sue scarpe verniciate lo portavano su una strada dolorosa, su cui la fame camminava con passo instancabile, e che le ferite, la debolezza, l'angoscia percorrevano come un branco di iene urlanti. E all'estremità di quella strada era la morte. Non doveva andare, lui che era ricco e tranquillo. Ed era andato, invece, lasciandola sola in una notte nera come la fuliggine, con l'esercito yankee fra lei e la sua casa. Ora si ricordò tutti gli insulti che avrebbe voluto lanciargli, ma era troppo tardi. Appoggiò il capo sul collo curvo del cavallo e pianse.
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Preferí quest'ultima, pure non abbandonando i suoi studi e i suoi gusti letterari. Quando tornava per le vacanze era un ampio respiro di nuova vita che animava la casa. Portava libri e regali, ed era vestito con modesta ma accurata eleganza. Ed era bello, col viso fine che sembrava quello di una razza diversa dalla sua, i grandi occhi chiari, trasparenti di intelligenza e di bontà. Non parlava molto, ma parlava bene, e aveva già una cultura larga e profonda, aiutata da una memoria straordinaria. E quello che più stupiva in lui era la serietà, quasi l'austerità dei costumi: non fumava, non beveva, non guardava le donne: studiava sempre, anche durante le vacanze. Qualche volta veniva a cercarlo un suo compagno di studi; Antonino, si chiamava, un bellissimo giovane bruno dall'aria un po' beffarda, vestito inappuntabilmente alla moda di allora, cappellino di paglia con nastro di tulle e veletta all'estate, mantello azzurro d'inverno, drappeggiato con eleganza dannunziana (almeno cosí Antonino dava ad intendere, chiamando fraternamente col solo nome di Gabriele il giovanissimo poeta che aveva degnato di una visita il paese di Cosima). Anche lui, Antonino, apparteneva ad una famiglia mista, fra borghese e paesana; la madre e le sorelle vestivano in costume, mentre lui e i fratelli, tutti studenti, avevano quasi un'aria aristocratica. Il padre, veramente, era esattore d'imposte, un uomo rude, taciturno, poco pratico della lingua italiana (come i maggiori signori del resto), di mirabile animo e nobiltà. Ben caratteristica era la loro abitazione, l'ultima del paese, costituita da fabbricati bassi che davano su un cortile chiuso, e dove, oltre la loro famiglia, vivevano altri parenti, con numerosi ragazzi: una specie di clan, ma di gente incivilita, anzi, intelligentissima. I ragazzi studiavano tutti, ed erano caustici, osservatori, beffardi. Una bella vigna che guardava sulla valle e verso i monti a nord, in dolce pendío, era attigua alla casa: piú tardi il padre di Antonino costruí in un angolo di questa vigna una casina alta, dove lo studente, nelle poche settimane che rimaneva in paese, viveva come in una torre d'avorio, studiando, o fingendo di studiare. Fu il primo, il lungo amore di Cosima. Quando egli veniva a cercare Santus, ella si nascondeva, presa dal terrore che egli potesse rivolgerle un semplice sguardo. Ma non c'era pericolo: egli passava accanto a lei e alle altre ragazze anche maggiori e piú belle ed esperte di lei, senza neppure vederle; e se veniva a cercare Santus era perché con lui poteva parlare delle cose e delle persone conosciute nella città dei loro studi; e perché Santus, poi, lo attirava con la sua singolare intelligenza e la sua originalità. Adesso, poi, il futuro medico, si dedica insolitamente ad altre cose all'infuori dei suoi studi. Costruisce, per esempio, un pallone volante, come li chiamavano allora, e riesce a meraviglia, nessuno conosce il segreto del suo apparecchio; ma certo è che il pallone, di carta-seta, per il cui finanziamento Santus è riuscito a farsi dare qualche sussidio dalla madre, un bel giorno sale dal cortile della casa, leggero e colorato come una grande bolla di sapone; vola sopra il paese, richiamando l'attenzione e l'ammirazione di tutti, sparisce, non ritorna. Qualche giorno dopo si seppe che era sceso, senza incendiarsi, in un angolo della montagna. Alcuni piccoli pastori di capre lo avevano veduto librarsi sopra le roccie, illuminato dal tramonto, credendolo una cosa sovrannaturale, e, nel vederlo scendere si erano inginocchiati presi da terrore superstizioso, gridando: «E lo spirito Santo, è lo Spirito Santo». Lusingato da questo successo, lo studente ne tentò un altro. Costruí una ruota pirotecnica, che doveva innalzarsi come il pallone e accendersi con fuochi artificiali di sorprendente effetto. Alcuni razzi di prova riuscirono bene: guizzarono in alto, una sera di agosto, si aprirono in meravigliosi getti di fiori incandescenti: ma quando si trattò di issare e far funzionare la ruota, questa s'incendiò, con grande spavento della famiglia, e il giovane inventore ne ebbe una mano e un braccio gravemente ustionati. L'insuccesso e il male lo avvilirono: dovette mettersi a letto, e per placargli le sofferenze e farlo dormire, il dottore gli ordinò una miscela alla quale era mescolato del cognac. Egli si addormentò; ma come se gli avessero propinato una bevanda magica, si svegliò stordito, e quando le sofferenze della sua scottatura lo tormentavano, si preparava la bevanda e ricadeva in sopore. Il suo umore cambiò: divenne irascibile e pigro, trascurò i suoi libri, si assentò per intere giornate da casa senza dire dove andava. Solo la compagnia di Antonino pareva piacergli: si chiudevano per lunghe ore nella camera alta della casa, e se Cosima, con la forza della curiosità e della passione, riusciva a mettersi in ascolto nel pianerottolo li sentiva leggere ad alta voce e commentare e discutere di cose letterarie. Antonino recitava i versi ultimi del suo diletto poeta: una mattina la sua voce risonò piú alta del solito, e nell'umile sereno silenzio della piccola casa patriarcale, si diffuse come una musica che raccontava di città lontane, luminose di fontane, di statue, di giardini, popolate solo di amanti, di donne bellissime, di gente felice.
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Ella si lasciava cullare dalla musica di quelle parole, rovesciando la testa, socchiudendo gli occhi, abbandonando lungo i fianchi le braccia, che l'amante ricopriva di lunghissimi baci. - Come sei buono! e come sono felice! Però il giorno che era venuto a portarle l'alliance su cui erano incisi i loro nomi e una data: Costanza ed Andrea, 14 marzo 1887, egli le aveva preso la mano, cercando di toglierle l'anello nuziale. - Che cosa fai! - aveva esclamato lei, tentando di svincolarsi da quella stretta. - Lasciami, mi fai male.... - Ecco, ti lascio.... Ma togli quell'anello, Costanza; spezza il simbolo d'una catena già rotta. Tu sei mia, mia soltanto, comprendi? ed io non potrò più baciare la tua mano, se le mie labbra rischiano d'incontrare la freddezza metallica di quell'anello! - Ma non è possibile, povero amore!... V'è un giuramento dinanzi a Dio; e il giuramento è una cosa sacra.... dillo tu stesso, se è una cosa sacra.... Accortamente, ella gli aveva preso l'alliance e l'aveva passata al mignolo della destra. - Vedi, Andrea? l'anello tuo io lo porterò qui, Sempre, sempre! E l'altro.... Ad un tratto egli l'aveva afferrata per le braccia, stringendo con tutta la sua forza, e mormorando per la concitazione: - Togli quell'anello.... o restituisci il mio! Restituiscilo, hai inteso? o ti rompo le braccia! Restituiscilo, ch'io lo spezzi, ch'io lo calpesti, ch'io lo butti nel mare.... - Ah, tu m'uccidi! Ella era tutta sbiancata in viso, e le labbra fatte violacee erano scosse da un lungo tremore. Subitamente, egli l'aveva lasciata e s'era messo in ginocchio portando le mani alla testa e scompigliando i suoi capelli grigiastri. - Perdono, Costanza; perdonami, sono un pazzo, lo vedi! Ma sei tu che m'hai fatto ammattire! A quarant'anni passati, e da un pezzo! Se io ti dicevo.... quella cosa, è perchè - vedi! - io ti voglio bene.... in un altro modo!... Costanza, mi hai tu perdonato?... - Sì, sì! Guarda, io bacio il tuo anello, guarda: così! così! Bacialo anche tu, così! E ti giuro che l'altro.... Allora egli le aveva chiusa la bocca con la mano, sorridendo tristamente fra le lacrime, e dicendole pianissimo, da farsi appena sentire: - Silenzio!... Non dir nulla!... Non mi ricordar nulla!... Quello che è stato è stato!... Lasciami morire così, ai tuoi piedi!... Ed ogni volta che veniva a trovarla, appena entrato nel santuario, egli si metteva in ginocchio, congiungendo le mani in attitudine di preghiera, divorando cogli occhi la dolce figura di donna spiccante sul fondo bianco del panneggiamento che guarniva un angolo della stanza. Poi si trascinava fino a lei e si buttava per terra ai suoi piedi. Ella tentava di opporsi, ma nulla resisteva alla volontà di quell'uomo diventato capriccioso come un fanciullo e che per niente passava dall'eccesso della tenerezza umile agli impeti irresistibili d'un cieco furore. - Lasciami fare, Costanza, letizia mia! Calpestami sotto i tuoi piedi! Morire per te è la sola cosa degna di essere ambita! Poi, con una curiosità sempre nuova si guardava attorno, girava per la stanza, passando una mano sul raso dei divani, delle poltrone, degli sgabelli, odorando tutti i fiori, rimuovendo tutte le fotografie, tutti i gingilli; esaminando come se li vedesse per la prima volta i quadri, le ceramiche, le terrecotte, gli specchi, i ventagli artisticamente disposti intorno sul fondo rosso ciriegia della tappezzeria. Tutto quello che le apparteneva, le cose più minute, le cose più comuni acquistavano ai suoi occhi un valore straordinario; il thè che ella preparava e gli offriva nella preziosa ciotoletta della China aveva per lui un aroma speciale, introvabile altrove; il profumo di chypre vagamente errante nell'aria lo riempiva di turbamento; il fazzoletto di merletto che ella lasciava qualche volta cadere era per lui una cosa sacra, intangibile, che non si decideva a raccogliere se non con le labbra, gettandosi carponi per terra....
Sofia si raggomitolb sul divanuccio, abbandonando la testina sul guanciale. Si trovava nella stessa situazione di un fanciullo al quale venga proibito di aprire un vaso di miele, ma che a furia di girarvi intorno, riesce a scoprire nel vaso un forellino, dal quale succhia il dolce pensando di non far male. La cameriera venne a toglierla dall'estasi, domandandole gli ordini per la forestiera. - Ah sì! - fece Sofia. E si alzò, ratta, dimenticando subito Bandini per ricadere nella tenerezza che le suscitava l'amica, compiacendosi in quel passaggio violento dall'una all'altra emozione. - Dov'è? - È nel salotto. - Va bene. Quando viene mio marito avvertilo subito che c'è di là una mia carissima amica.
L'uomo guardò la zia, ergendo d'un tratto la piccola testa serpentina: la zia abbassò la sua, abbandonando le mani sui fianchi. Pareva l'avessero colpita, ferita, e dovesse stramazzare. Eppure mi sembrò che fingesse un poco, o almeno esagerasse. Speranze e gioie confuse mi attraversavano il cuore. Ecco che anch'io ero diventato uomo; qualcuno mi accusava di una colpa, ed io ero pronto a confessare, a riparare, a ricevere il castigo. La zia a poco a poco si riebbe: l'uomo non cessava di guardarla, in apparenza mansueto e un po' afflitto: ma io lo vedevo sorridere fra le sue rughe, e mi accorgevo che egli non badava più che tanto a me: la zia era la vera responsabile, davanti a lui: quella che doveva rispondere per me e pagare per me. Questo m'irritava. Stringevo i pugni, sotto il tavolino: secondo quello che accade, ti accorgerai chi sono io, - dicevo con gli occhi al piccolo uomo. La zia mi chiese il taccuino, con un gesto teatrale. Esitai a trarlo: e quando glielo diedi non ritirai la mano per essere più pronto a riprenderlo. Le parole che lessi tornarono a turbarmi fino al profondo delle viscere; mi sembrò che fossero scritte in rosso. "La ragazza è incinta.,, Io scrissi lentamente, con caratteri chiari e fermi: "Sono pronto a sposarla,,. E feci leggere il foglietto alla zia; poi mi rimisi in tasca il taccuino deciso a non trarlo più. Secondo me la parola definitiva era detta.
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