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In un pomposo racconto egli citerà i singoli animali ed i partecipanti sbellicheranno dalle risa a sentir belare improvvisamente una signorina od abbaiare qualche signore. Il gioco si presta anche per raccogliere pegni, poichè chi dimentica di far la voce dell'animale quando questi viene nominato o chi la fa quando non se ne parla è condannato a mettere pegno.
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Questi "amici dell'uomo„ si credono in dovere di mettersi immediatamente a rincorrere i polli, ad abbaiare dietro ai gatti, e magari d'abbaiare alle persone, e correre per tutte le stanze, a tutti i piani, lasciando ovunque le impronte delle loro zampine polverose o fangose, senza aver preso la precauzione, come ogni persona bene educata, di pulirsi le estremità allo stoino e al togli fango... Oppure entrano in salotto, installandosi trionfalmente sulle poltrone e sui canapè, con grave trepidazione della padrona di casa impensierita per i suoi mobili talvolta ricoperti di stoffe delicate, la quale non può far a meno di mandar in cuor suo bestie e proprietario a quel paese ove si deportano col pensiero tutti gli importuni ed i maleducati. A volte, invece, è la stessa padrona di casa che espone all'ammirazione dei visitatori il cagnolino prediletto vantandone i pregi, descrivendone le prodezze, narrandone con lusso di particolari i malanni. E bisogna far buon viso alla bestiola, e sopportarla con pazienza se vi latra contro e se addenta i vostri abiti e i vostri stivaletti, annusandoli prima in attitudine sospetta. Tutto ciò è ingrato e malamente accettabile anche dalle persone più accese d'indulgenza e più educate; sarà, dunque bene lasciare "gli amici dell'uomo„ o in anticamera, quando si riceve, o in casa quando si va a far visita. È anche questa una forma di cortesia verso le nostre conoscenze delle quali si ambisce la considerazione e l'amicizia...
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Non lasciamolo mai solo in camera: potrebbe abbaiare e ululare, e magari sarebbe portato a «difendere il territorio» dall'intrusione della cameriera che deve fare le pulizie. A quest'ultima eviteremo anche, signorilmente, lo spettacolo della nostra biancheria sporca in giro per la stanza.
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Insegnategli a non abbaiare sconsideratamente, a non far festa saltando addosso alla gente, a non rompere le calze della vicina, a non addentare le caviglie ai postini, a non fare pazzi caroselli per le scale, e così via. Per insegnargli tutto questo non occorre picchiarlo (picchiare un cane è sempre stupido e ingiusto): basta sgridarlo con voce severa e dito alzato ogni volta, ma proprio ogni volta che fa una cosa sbagliata (sbagliata per voi, ovviamente, non per lui). La sgridata diventerà più efficace se lo minaccerete agitando un giornale: tutti i cani, in questo più saggi di noi, hanno paura della carta stampata.
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Abbaiare è il suo mestiere, e poi non vedi che lo tengo? Se ti metti seduto e non ti muovi e non lo guardi e parli d'altro, lui si acquieta e non ti fa niente.» E per tutto il tempo del soggiorno ci si immagina l'ospite immobile sulla sedia, le mani aggrappate ai braccioli, il collo rigido, gli occhi fissi sulla parete di fronte, a far finta di non vedere il mostro ringhiante lì presso, e a chiedersi se e quando potrà mai uscir salvo di lì. E i gatti? Be' i gatti non vociferano, non ringhiano, non leccano la faccia agli ospiti; in genere se ne stanno acquattati in un angolo, oppure saltano in cima a un mobile e di là guardano l'intruso con distacco e palese ironia. Ma qualche volta, non si sa se per cortesia o per dispetto, càpita che il gatto di casa vada a strusciarsi contro le gambe dell'ospite o addirittura gli salti in grembo con un sordo ronzio, che è musica per le orecchie dei padroni, ma non per quelle, dell'ospite non zoofilo: il quale, nel migliore dei casi, pensa che il suo abito blu si riempirà di maledetti peli (e infatti così sarà). Su, portate il gatto in un'altra stanza. Un po' di buon senso, amici zoofili. L'ospite, dicono, è sacro. Se il vostro cane o il vostro gatto lo sono di più (non che non vi capisca) non ospitate persone non zoofile.
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Molti, e specialmente il popolano, quando tornano a sera in città , hanno il brutto vezzo di fare schiamazzi, cantando con stridula voce canzonaccie da trivio, o col dirsi reciprocamente villanie, o coll'inseguirsi con bastoni, o tirarsi addosso dei sassi, o provocando cani ad abbaiare e via al solo scopo di fare paura, e con tale contegno vengono meno alle regole più comuni della civiltà, che insegnano queste due cose: 1° Procurare che le nostre parole e i nostri detti riescano graditi ad ogni persona; 2°Evitare ogni atto ed ogni parola che possa cagionare molestia o dolore a chicchessia.
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Almeno finché non siete soli; ✓ anche se ammessi dal regolamento condominiale, fate in modo che i vostri cuccioli non passino le giornate ad abbaiare; ✓ non indignatevi se i cani non sono ammessi in negozi e ristoranti ma rispettate i divieti; ✓ ciò che il cane rompe, il padrone paga; ✓ se invitati, non chiedete di portare con voi gli animali; ✓ se andate in vacanza, non chiedete a parenti e amici di passare a rifocillare le bestie. O le portate con voi - esistono numerose pubblicazioni che indicano campeggi e alberghi compiacenti - o pagate qualcuno che assolva a tale compito; ✓ gli animali non si regalano se non si è assolutamente certi di fare cosa gradita; ✓ nei parchi pubblici dove giocano bambini i cani devono sempre essere tenuti al guinzaglio, anche se di ottimo carattere. Meglio comunque portarli solo dove ci sono le aree riservate a loro; ultimamente si è poi diffusa la sconcertante abitudine di allargare ad animali feroci la propria preferenza, costringendo in malinconiche teche pitoni, ragni, iguane. Se proprio vi piace apparire stravaganti, dipingete la vostra stanza da letto di nero, indossate il maglione al contrario o usate un sacchetto della spesa al posto della borsa. Ma non mettete di mezzo altri esseri viventi. Una piccola nota su un comportamento disumano Esiste il divorzio dagli esseri umani, ma un animale è per sempre. Gli animali non si abbandonano. Mai! tre gattini con al collo un cartello che recita "for ever!"
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Costui vede dunque che mentre egli si sfata, il nemico sorride, e lo lascia abbaiare come i cani alla luna; e che quindi egli non ottiene lo scopo che si avea proposto, cioè la superiorità sul suo avversario. La Mothe aveva detto male d'Omero; il poeta Gacon pretese di vendicarlo; la Mothe non rispose: Voi non volete dunque rispondere al mio Omero vendicato? gli disse il poeta. Voi temete la mia replica? Ebbene, non l'eviterete; io pubblicherò un libro che avrà per titolo: Risposta al silenzio di la Mothe. III. Lo spirito di contraddizione. Alcuni par che non godano d'altro che d'essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche, e fanno professione di contraddire dispettosamente ad ognuno senza riguardo.
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» - Signor avvocato onoratissimo, rispose il paesano, se voi non guadagnaste ad abbaiare ed a mentire più di quel che io a giurare, voi portereste ben presto un abito di pelle come lo porto io. 4.° In forza di questo riscaldamento o in mezzo a questa lotta di vanità, ciascuno s'ostina del primitivo parere, benchè il discorso il dimostri persuaso del contrario. « Quando un uomo s'é ostinato a dire: La » non ha ad essere altrimenti, io intendo che la » cosa vada così, o così; va, picchialo, spingilo, » dagli d'urto, tu cozzi con una torre, hai a » fare con un greppo, e non ti riesce altro, se » non che tu medesimo t'indurì, e a poco a poco » senza avvedertene , come chi è tocco dalla pestilenza, » che dall'uno s'appicca all'altro, tanto » sei tu ostinato e duro nella tua opinione, quanto » egli nella sua, e non c'è più verso, che nè » l'uno né l'altro si creda d'avere il torto». Gli amici dell'abate Regnier gli davano il titolo di abate pertinax, perché,
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Se si conduce con sè un cane, bisogna far in modo che non disturbi alcuno; non incitarlo ad abbaiare e saltare addosso nemmeno per celia. Nei luoghi di pubblico passeggio, chi fosse seduto, deve, vedendo dei conoscenti e volendo trattenersi con essi, alzarsi e rimaner in piedi finchè dura la conversazione: se le persone incontrate sono note a tutti quelli della brigata seduta, si può invitarle a prender posto vicino agli altri; ma se non lo sono, è sconveniente esortarle a fermarsi senza sapere se aggrada a tutti, ed esse non devono accettare; se si crede di far cosa grata agli uni ed agli altri bisogna cominciar dal far una presentazione. Se una persona, che non desiderate aver accanto, vi si avvicina, alzatevi e rimanete in piedi finchè il vostro colloquio è finito: quella persona capirà da ciò quel che deve fare; sarebbe disdicevole seder in luogo pubblico vicino a chi non nostra gradire la nostra compagnia. Una signora inviterà liberamente le amiche a sederle accanto: ma non vi esorterà alla leggera nessun uomo, perchè tal fatto costituirebbe, da parte sua, un favore piuttosto spiccato, un desiderio di intrinsichezza. L'uomo essendo affatto libero dei suoi atti, se intende di sedere, ne chiederà licenza o si fermerà in piedi accanto alla signora; l'invito sarebbe dunque inutile se è già suo progetto rimanere, importuno se ha altri impegni. E dico importuno inquantochè l'uomo deve, anche se non gli sorride, accettare l'invito d'una signora. Del resto, in questi particolari, come in tutti gli altri, l'esperienza, il tatto, potranno essere d'aiuto e servire a distinguere il presuntuoso che potesse in una cortesia leggere un interesse speciale, dal giovine timido che, pur desiderandolo, non osasse accostarsi. Una signorina non si recherà mai a luoghi di passeggio troppo frequentati con la cameriera e nemmeno con l'istitutrice: se non ha i genitori, profitterà della scorta di qualche signora sua parente od amica, o di qualche zio o tutore. Quando v'ha mancanza di seggiole in qualche caffè o giardino, un uomo solo si alzerà per dar posto alle signore; ma se quell'uomo accompagna altre donne non cederà il suo posto, il che sarebbe un mettere in imbarazzo le signore che scorta a profitto di persone sconosciute. Un uomo non deve mai offrir seggiole o occuparsi di donne che abbiano già un accompagnatore: sarebbe importuno invece che cortese. Sedendo, bisogna evitare di dar le spalle a quelli che passano, per cui nei sedili posti lungo i viali si starà sempre voltati verso il viale stesso. Leggere o lavorare nei giardini pubblici non è molto conveniente: sembra un'affettazione. Chi accompagna dei ragazzi però, e quindi rimane in giardino per lunghe ore, può farlo, ma deve scegliere un sedile un po' appartato. A passeggio le signorine devono star accanto alla madre, e, se son due, camminare insieme davanti di essa: ma una signorina non deve mai passeggiar a fianco d'un giovine. Anche tra persone di famiglia bisogna, in istrada o nell' uscire, osservar certe norme. Per esempio, i bimbi passano sempre prima della madre e stanno davanti, dovendo ella sorvegliarli: ma codesta norma pei maschi cessa verso l'epoca della prima comunione, mentre per le femmine continua sino ai ventun anni e più. In carrozza, i ragazzi siedono dalla parte dei cavalli, così le signorine se c'è il babbo: ma quando si maritano il babbo cede loro il posto, a meno che non sia molto attempato o malaticcio. Il marito, recandosi a passeggio od a teatro, darà il braccio alla madre, alla suocera o ad altra signora attempata se ve n'è, e non alla moglie: ma lo darà alla moglie se vi sono soltanto delle parenti ancora nubili e se non c'è altro cavaliere. Una signorina non deve uscir col proprio fratello se non è ammogliato: potrà uscire con uno zio, con un cognato, mai con un cugino. I figli, fuori di casa come in casa,debbono sempre mostrare la maggior deferenza ai genitori, e farebbero pessima figura trascurandoli a vantaggio dei forestieri. Se mai s'avesse qualche notizia da comunicare o molte cose da dire è meglio far un tratto di via insieme. Una signora non si fermerà con un giovanotto se non le è parente o molto intimo, ed anche allora per poco; una signorina non si fermerà nemmeno con un parente e non si lascierà scortare da lui se è con la cameriera o l'istitutrice: nemmeno lo sposo può aver codesto diritto. In istrada, pei ragazzi, la creanza esige che siano raccolti, ubbidienti; pei signori che non sieno... come dirò? troppo garbati, cioè che non si voltino a piantar gli occhi in faccia a tutte le donnine, che non facciano osservazioni ad alta voce, che non si diano a seguir una signora, passandole e ripassandole davanti ed impuntandosi a starle vicino e ciò nè di giorno nè di sera: perchè a volta una signora per bene può esser costretta ad uscir sola a tarda sera e l'uomo creanzato non le deve dar molestia - zuffolare, canticchiare, far il mulinello col bastone, formar una lunga fila che tien tutto il marciapiede, spinger la gente e per troppa fretta proseguir la propria via sui calli del prossimo, non ceder la dritta, sono altrettanti crimini contro la creanza. Noterò che la signora interpellata in istrada da uno di quei galanti, non deve mai rispondere, nemmeno per respingerlo. In carrozza una signora non deve troppo atteggiarsi sì da tradir vanità: è anche scortese fermarsi con lo sportello già aperto, a dar ordini al servitore od al cocchiere così che la gente non possa passare. Non dirò neppure che il chiamarsi da un marciapiede all'altro, l'impegnar un diverbio in istrada, il segnar la gente a dito son cose viete, perchè lo sanno quasi i bimbi in fascia. Fissar le persone e poi parlarsi all'orecchio e ridere in modo da far capire che si sta canzonando qualcuno, rientra nella stessa categoria, ma lo accenno perchè l'ho veduto a fare a molte signorine che, non sapendo o non curando le leggi di cortesia, credono in tal modo di mostrar dell'arguzia - nel qual caso chi sarebbe più arguto che i monelli o le fruttivendole del mercato che schiamazzano come i passerotti quando vedono della gente civilmente vestita?
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Poi continuò a correre e ad abbaiare furiosamente. II biondo Nemeciech lo seguì di corsa. Ettore si fermò sotto una catasta abbaiando con furore. La catasta era una di quelle sulle quali era costruita una fortezza. Sulla cima del cubo c'era un bastione di legna in pezzi e sopra un'asticciuola sventolava uno stendardino rosso e verde. II cane saltellò intorno alla fortezza e continuava ad abbaiare. — Cosa c'è? — chiese il biondino al cane, perchè bisogna sapere che il biondino era molto amico del cane nero, forse perchè, all'infuori di lui, Ettore era l'unico soldato semplice dell'esercito. Nemeciech guardò su verso la fortezza. Non vide nulla, ma sentì che qualcosa si muoveva tra il legname. Si mise allora ad arrampicarsi aiutandosi con le sporgenze delle travi. Si trovava a metà percorso quando sentì distintamente che qualcuno frugava tra la legna spaccata. Il suo cuore si mise a battere forte. Avrebbe forse voluto tornare indietro ma quando, guardando giù, vide Ettore si fece coraggio. — Nemeciech, non aver paura, disse a sè stesso. E continuò ad arrampicarsi con cautela. Ad ogni gradino prendeva coraggio e ripeteva: — Nemeciech, non aver paura! Nemeciech, non aver paura! E giunse in cima alla catasta. Lì si disse un ultimo: «Non aver paura, Nemeciech!», ma quando volle scavalcare il muro basso del bastione, la sua gamba che già si era alzata rimase sospesa per lo spavento. — Gesù! E precipitosamente si lasciò cadere lungo le sporgenze fino a terra. II suo cuore batteva a galoppo. Guardò in su, verso la fortezza: accanto alla bandiera, col piede destro posato sul bastione della fortezza, stava ritto Franco Ats, il terribile Franco Ats, il nemico di tutti loro, il capo dei ragazzi dell'Orto Botanico. II vento agitava la sua larga camicia rossa. Sorrideva beffardo. E si rivolse al ragazzino per dirgli con tranquillità: - Nemeciech, non aver paura! Ma Nemeciech aveva invece tanta paura che gia s'era messo a correre. E il cane nero gli correva dietro; e s'infilarono insieme tra cubi di legname, dirigendosi verso il campo; ma sulle ali del vento li raggiunse il grido beffardo di Franco Ats: - Nemeciech, non aver paura! Quando, dal campo, Nemeciech si volse, in cima alla fortezza non v'era più la camicia rossa di Franco Ats. Ma anche la bandiera era scomparsa dal bastione, la bandiera rosso e verde che era stata cucita dalla sorella di Ciele. Il nemico era scomparso tra le cataste di legna. Uscito forse dalla parte di via Maria, verso la segheria, o fors'anche appiattato in qualche angolo con i suoi amici, i fratelli Pastor. E all'idea che anche i Pastor potessero essere presenti, un brivido freddo percorse la schiena di Nemeciech. Egli sapeva cosa significasse incontrare i Pastor. Ma Franco Ats l'aveva visto da vicino, ora per la prima volta. S'era spaventato molto, ma a dir la verità il giovane gli piaceva. Era un bel ragazzo bruno, largo di spalle e la camicia rossa gli stava a meraviglia. C'era qualcosa di garibaldino in quella camicia rossa. I ragazzi dell'Orto Botanico indossavano tutti la camicia rossa per imitare Franco Ats. Sullo steccato del campo si bussò con quattro colpi regolari. Nemeciech trasse un sospiro di liberazione: i quattro colpi erano il segnuale convenuto dei ragazzi della via Pal. Corse alla porticina sprangata e l'aprì. Entrarono Boka, Ciele e Ghereb. Nemeciech moriva dalla voglia di raccontar loro la tremenda notizia, ma non dimenticò di essere un soldato semplice e di fare il suo dovere verso i tenenti e i capitani. S'irrigidì sull'attenti e salutò militarmente. — Salve! — dissero i nuovi venuti. — Che c'è di nuovo? Nemeciech sospirò affannosamente ed avrebbe voluto raccontar tutto d'un fiato. — Terribile! — disse. — Cosa? — Orrendo! — Parla! — Non vorrete credermi! — Che cos'è accaduto? — C'è stato qui Franco Ats! Ora toccò agli altri d'essere ansiosi e atterriti. — Non è vero! — esclamò Ghereb. Nemeciech pose la mano sul petto e disse: — Vero quant'è vero Iddio! — Non giurare! — intimò Boka, e, per dare maggiore efficacia alle sue parole: — Attenti!!! — ordinò. Nemeciech battè i tacchi uno contro l'altro. — Racconta minutamente quello che hai veduto! — Stavo passeggiando tra le viuzze quando il cane si mise ad abbaiare. Lo seguo. E nella cittadella centrale sento dei rumori. Mi arrampico e in cima v'era Franco Ats in camicia rossa. — In cima? Sulla cittadella? — In cima, sì! — disse il biondino e stava di nuovo per giurare. Aveva già la mano sul petto, ma la ritrasse davanti allo sguardo severo di Boka. Aggiunse: — Ha anche portato via la bandiera! Ciele sussulto: — La bandiera? — Sì. Corsero tutti verso il luogo della sciagura. Nemeciech modestamente veniva ultimo, in parte perchè era soldato semplice, in parte perchè non era ben sicuro che in qualche angolo non fosse nascosto Franco Ats. Si fermarono davanti alla fortezza: nemmeno l'asta c'era più. Tutti erano molto agitati: il solo Boka conservava il suo sangue freddo. — Dì a tua sorella — ordinò rivolto a Ciele — che per domani prepari un'altra bandiera. — Sta bene; — rispose Ciele — ma non ha più stoffa verde. Rossa ne ha ancora, ma verde è finita. Boka rispose imperturbabile: — Stoffa bianca, ne ha? — Ne ha. — Faccia allora una bandiera rossa e bianca. D'ora in poi i nostri colori saranno rosso e bianco. Si rassegnarono a questa modifica. Ghereb chiamò Nemeciech: — Fante! — Presente! — Per domani siano corretti i nostri statuti. I nostri colori non sono più rosso e verde, ma sono bianco e rosso. — Sta bene, signor tenente! E Ghereb accordò benignamente al biondino irrigidito: — Ri..poso!!! — E il biondino allora riposò. I ragazzi s'arrampicarono sulla fortezza e constatarono che l'asta della bandiera era stata spaccata da Franco Ats: non rimaneva più che il pezzettino che l'inchiodava. Dal campo giunsero richiami: — Ahò, oò! Ahò, oò! Questa era la parola d'ordine: anche gli altri erano dunque arrivati e stavano cercando di loro. Da molte parti s'intese il richiamo: — Ahò, oò! Ahò, oò! Ciele fece un cenno a Nemeciech: — Fante! — Presente! — Rispondete agli altri! — Sì, signor tenente! E facendosi portavoce con le mani davanti alla bocca per ingrossare la sua vocina di bimbo, gridò: — Ahò, oò! Dopo di che scesero strisciando e s'avviarono verso lo spiazzo. Nel mezzo del prato c'erano gli altri aggruppati: Cionacos, Vais, Colnai ed alcuni altri. Quando s'accorsero di Boka tutti si misero sull'attenti perchè Boka era il capitano. — Salute a tutti — disse Boka. Colnai si fece avanti. — Porto a conoscenza del signor capitano — disse — che quando siamo entrati, la porticina non era chiusa. Secondo il regolamento la porticina deve essere sprangata dall'interno. Boka si volse severo verso il suo seguito. E tutti gli occhi fissarono Nemeciech. E Nemeciech aveva già la mano ancora sul petto e voleva proprio giurare che non era stato lui a lasciarla aperta, quando il capitano domandò: — Chi è entrato per ultimo? Si fece un gran silenzio. Nessuno era entrato per ultimo. E allora il viso di Nemeciech si rasserenò. Una voce disse: — Per ultimo è entrato il signor capitano. — Io? — chiese Boka. — Signorsì! Boka riflettè un poco. — Hai ragione — disse serio — Ho dimenticato di chiudere la porticina. Signor tenente, scrivete il mio nome sul libro delle punizioni! Si era volto a Ghereb e Ghereb tolse di tasca un taccuino nero sul quale scrisse: «Giovanni Boka» e per sapere di cosa si trattava aggiunse: «porticina». Questo piacque ai ragazzi. Boka era un giovane giusto. Questa autocondanna era un esempio di virilità quale non si trova nemmeno nella lezione di latino, benchè la lezione di latino sia sempre piena di caratteri romani. Ma Boka era anche un uomo e neanche Boka era esente dalle debolezze umane. Aveva fatto segnare il suo nome, è vero, ma poi s'era rivolto a Colnai che aveva denunziato la porticina aperta e disse: — E tu non ciarlare troppo! Signor tenente, iscrivete Colnai sul libro delle punizioni per essere stato delatore! Il signor tenente tornò a cavar di tasca il terribile taccuino e scrisse il nome di Colnai. Nemeciech che era in fondo balò in segreto di gioia per non essere questa volta iscritto sul libro delle punizioni, perchè bisogna sapere che in quel libro non c'era altro nome che quello di Nemeciech. Tutti sempre e per qualunque motivo iscrivevano il suo nome. E il tribunale militare che teneva udienza ogni sabato condannava sempre lui. Non poteva essere che così, essendo egli l'unico soldato semplice dell'esercito. A questo punto s'iniziò la grande discussione. In pochi minuti tutti furono al corrente della grande novità, che Franco Ats, capitano delle camicie rosse, aveva avuto l'audacia di spingersi fin nel cuore del campo nemico, di arrampicarsi sulla cittadella centrale e di portar via la bandiera. L'indignazione era generale. Tutti stavano intorno a Nemeciech che ripeteva sempre nuovi particolari. — E ti ha detto qualche cosa? — Certamente! — affermò Nemeciech. — Che cosa? — Mi ha gridato... — Che cosa? — Mi ha gridato: «Non hai paura, Ne- meciech?» E qui il biondino inghiottì saliva, perchè sentiva che non era precisamente la verità. Anzi era proprio il contrario della verità. Sarebbe stato come se egli si fosse dimostrato molto coraggioso tanto che Franco Ats, meravigliato, gli avrebbe domandato: «Come mai non hai paura, Nemeciech»? — E tu non avevi paura? — Io no! Mi sono fermato ai piedi della fortezza; e lui si lasciò cadere dall'altro lato e sparì. Se la svignò. Ghereb l'interruppe gridando: — Questo non è vero! Franco Ats non se la svigna davanti a nessuno, mai! Boka fissò Ghereb: — Ma guarda come lo difendi! — Ho parlato — disse con maggior pacatezza Ghereb — ho parlato perchè non mi sembra verosimile che Franco Ats si sia spaventato di Nemeciech. A queste parole risero tutti perchè in verità non era verosimile. Nemeciech rimaneva sconcertato in mezzo al gruppo e scrollava le spalle. Allora Boka prese il comando delle operazioni: — Ragazzi, qui bisogna fare qualche cosa. Era, stato fissato che oggi avrernmo eletto un presidente. Eleggiamo il presidente e che sia un presidente con pieni poteri: bisognerà seguire ciecamente i suoi ordini. Può darsi che dall'incidente di oggi scoppi una guerra ed allora occorre qualcuno che prepari le cose come in una vera guerra. Soldato, fatevi avanti! Attenti!!! Preparate tanti pezzettini di carta quanti siamo noi; ciascuno scriverà sul pezzettino che gli sarà dato il nome di colui ch'egli desidera sia presidente. Le schede verranno buttate in un berretto e chi avrà riportato maggior numero di voti sarà il presidente! — Evviva! — gridarono tutti ad una voce e Cionacos emise un fischio di allegria, un fischio che pareva quello di una locomotiva. Dai vari taccuini furono strappate delle pagine e Vais mise a disposizione la sua matita; ma poi nacque una discussione per sapere quale berretto avrebbe avuto l'onore di servire da urna. Colnai e Barabas che trovavano sempre di che litigare stavano già in procinto di prendersi a pugni. Colnai sosteneva che il berretto di Barabas non poteva servire perchè troppo unto. D'altra parte Chende affermava che il berretto di Colnai era ancora più unto. Vollero far subito la prova del grado di untume: con un temperino si misero a grattare la striscia di pelle nell'interno del berretto, ma arrivarono in ritardo. Ciele aveva già offerto alla comunità il suo elegante berrettino nero, ed in materia di berretti, inutile discutere, nessuno poteva superare Ciele. Ma Nemeciech, con grande sorpresa di tutti, invece di distribuire i foglietti, approfittò dell'attenzione che per un istante s'era rivolta a lui, e stringendo i foglietti nella manina sporca, si fece avanti. Dritto sull'attenti, coi tacchi accostati, disse con voce tremante: — Perdoni, signor capitano! Veramente non è giusto che io sia il solo soldato semplice... Da quando s'è fondata la società tutti sono divenuti ufficiali e io soltanto sono rimasto senza grado e tutti mi comandano e io devo fare tutto e io... Qui il biondino si commosse molto e sul suo visino sottile colarono grosse lagrime. Con una piccola smorfia di disgusto Ciele osservò: — Bisogna esciuderlo! Piange! Una voce dal fondo esclamò: — Singhiozza! Tutti si misero a ridere. E questo esasperò definitivamente Nemeciech. II cuore del poverino era troppo addolorato e le lagrime ora si misero a scorrere liberamente. Singhiozzava e in mezzo al suo gran pianto diceva: — Anche nel... libro delle punizioni... anche lì non ci sono scritto che io... Sempre iI mio nome... Io sono... il cane... Boka disse calmo: — Se non smetti subito di strillare sarai espulso. Noi non possiamo giocare con i mocciosi... La parola «moccioso» fece il suo effetto. Nemeciech, il povero piccolo Nemeciech si spaventò molto e pian piano smise di piangere. II capitano gli mise la mano sulla spalla: — Se vi comportate bene e vi distinguete, nel maggio potrete diventare anche voi ufficiale. Per ora rimarrete soldato semplice. Tutti approvarono, perchè se anche Nemeciech fosse divenuto ufficiale, allora tutt'il giuoco avrebbe perduto di sapore. Non ci sarebbe stato più nessuno a cui comandare. La voce acuta di Ghereb intimò: Fante, temperate questa matita! Gli venue consegnata la matita di Veis che, nella tasca, per la vicinanza delle biglie aveva rotta la punta. Il soldato semplice prese in consegna la matita, rimanendo sull'attenti; poi con gli occhi ancora lagrimosi, col viso umido, obbediente, incominciò a temperare ansando un poco, come si fa dopo un gran pianto, e tutto il suo dolore, tutta la sua amarezza si concentravano nel temperare la matita Faber numero 2. — E'... temperata, signor tenente! La restituì e trasse un profondo sospiro. E con questa sospiro rinunciò per il momento alla promozione. I foglietti furono distribuiti. Ognuno si ritirò in disparte, perchè l'affare era di somma importanza. Poi il soldato semplice raccolse i foglietti che mise tutti nel berretto di Ciele. Ma quando il berretto di Ciele fu portato in giro per la raccolta delle schede, Barabas diede un colpo di gomito a Colnai mormorando: — E' unto anche quello! Colnai guardò nel berretto; e tutt'e due sentirono che non avevano più da vergognarsi. Se anche il berretta di Ciele era unto, allora voleva dire veramente che il mondo era sottosopra. Raccolti i foglietti, Boka cominciò lo spoglio e passava le schede lette a Ghereb che gli stava vicino. Lesse: Giovanni Boka, Giovanni Boka, Giovanni Boka. Poi una volta lesse: Desiderio Ghereb. I ragazzi si scambiarono un'occhiata: sapevano che questa era la scheda di Boka il quale aveva votato per Ghereb per cortesia. Seguivano altri Giovanni Boka, poi da capo un Desiderio Ghereb, ed infine un ultimo Desiderio Ghereb. In totale Boka aveva ottenuto undici voti e Ghereb tre. Ghereb sorrise sconcertato; gli accadeva per la prima volta di esser posto apertamente di fronte a Boka. E i tre voti gli facevano piacere. A Boka invece due di quei tre voti contrari gli facevano dispiacere e riflettè per un attimo chi potessero mai essere i due che non lo volevano presidente, ma poi disse: — Dunque voi: mi avete eletto a vostro presidente. Grida di evviva e nuovo fischio di Cionacos. Gli occhi di Nemeciech erano ancora umidi ma anch'egli gridava «evviva» con entusiasmo perchè voleva un gran bene a Boka. Il presidente accennò a voler parlare. Si fece silenzio. — Amici, — disse — vi ringrazio. Cominciamo subito a lavorare. Credo che tutti siamo d'accordo nel ritenere che le camicie rosse vogliono usurparci il campo e le cataste di legna. E' di ieri la prepotenza dei Pastor che si presero le biglie dei ragazzi. E' di oggi l'intrusione di Franco Ats che portò via la nostra bandiera. Prima o poi le camicie rosse saranno qui per cacciarci. Ma noi difenderemo questa terra. Cionacos l'interruppe urlando: — Evviva il nostro campo! Si guardarono attorno; fissarono lo spiazzo libero e le cataste di legna illuminate dal dolce sole di un pomeriggio di primavera. Si vedeva nel loro sguardo l'amore che portavano alla loro terra e come avrebbero lottato, se fosse stato necessario, per essa. Era una specie di amor di patria. Gridavano: «Evviva il campo» come avrebbero gridato: «Evviva la patria!» E i loro occhi brillavano e il cuore di tutti traboccava di entusiasmo! Boka continuò: — Prima che essi vengano qui, andremo noi da loro, all'Orto Botanico! In un altro momento un progetto così audace avrebbe sconcertato i ragazzi. Ma in quell'ora di entusiasmo, tutti esclamarono ad una voce: — Ci andremo! E poiché tutti gridavano: «Ci andremo!», anche Nemeciech gridò: «Ci andremo!». In ogni modo egli sarebbe venuto per ultimo portando i cappotti dei signori ufficiali. In mezzo alle voci dei ragazzi c'era una voce rauca e profonda, che anch'essa aveva gridato: «Ci andremo!» Si volsero tutti. Era lo slovacco. Era lì, con la pipa tra i denti, e rideva. Ettore gli era vicino. I ragazzi risero. Lo slovacco anche: gettò il suo cappello per aria ed urlò: — Andiamo! Con questo le faccende ufficiali erano terminate. Si passava al gioco quotidiano: il tennis. Uno disse con dignità: — Fante, andate nel magazzeno e portateci le palle e le racchette . E Nemeciech corse al magazzino. Il magazzino era sotto una catasta di legname. Scivolò sotto e ricomparve con le palle e le racchette. Accanto alla catasta c'era lo slovacco ed accanto allo slovacco Chende e Colnai. 4 Chende aveva in mano il cappello dello slovacco: Colnai vi fece la prova dell'untume. Il cappello dello slovacco era senza dubbio il più unto di tutti. Boka si accostò a Ghereb: — Hai avuto tre voti anche tu! — gli disse. — Sì — rispose fiero Ghereb e lo fissò orgogliosamente negli occhi.
Se nel dir la cosa più semplice, come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di scale, e dopo aver picchiato all'uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: - chi è? - mentre scorreva il paletto - se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d'un periodo che dovrebbe correr liscio come l'olio. Fissati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo. Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene che in questi casi tu t'eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev' essere puramente negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perché, bada bene, noi burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri. Ancora un'avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali. Vedi che l'uomo acceso da una passione, appunto perché ha le facoltà eccitate, parla quasi sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione o un ragionamento anche breve,che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così, nell'atto di parlare, tu devi cacciar l'indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti mettere alla corsa; va' adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel parlare, al viso di chi t'ascolta, che è un critico muto utilissimo, perché d'ogni parola stonata, d'ogni oscurità, d'ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un'espressione di stupore, o canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che, facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poiché la facoltà critica è in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s'esercita sugli altri che quando lavora sul suo. In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c' è la buona consuetudine di parlare italiano. Se non c'è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela entrare. Ma.... Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.
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Quando i nostri amici entrarono nello stazzo, un grosso cane bianco cominciò ad abbaiare: veramente sembrava che ruggisse tanto era potente la sua voce: i ragazzi, a dir la verità, rallentarono il passo. Ma allorchè si accorsero che il mastino era legato si fecero più coraggiosi. Venne incontro un giovane e bel pastore, che conosceva il signor Goffredo per avergli fornito molte volte formaggio fresco e profumato. - Martino, c'è tuo padre? - Salute, signori: mio padre arriverà fra poco con la seconda greggia. Vengano, vengano avanti. Nella sua semplicità il pastore appariva molto gentile: di una gentilezza schietta che vale molto più di quella raffinata che si usa in certi salotti. Non era davvero un salotto lo stanzone del casolare, dove Martino ricevette con un grande sentimento di ospitalità la nostra comitiva: invece che profumi vi era un odore forte di uomini, invece che mobili d'oro, v'erano quattro lettucci bassi di tavole, una madia e panche. - Vi posso offrire un po' di latte fresco? - disse Martino e portò buone ciotole di latte appena munto che i ragazzi bevvero ingordamente. Perchè questo latte si chiama fresco, mentre invece è ancora caldo? - domandò Cherubino. La domanda era veramente imbarazzante, giacchè il latte era davvero tiepido e odoroso. Come odorose furono le grandi fette di pane casareccio che il pastore offrì lieto come se offrisse un'ostia. Intanto il gregge era stato inoltrato nell'ovile e i mandriani, nell'attessa dell'altro gregge, guidato dal padre di Martino, del quale già si udiva di lontano lo scampanìo del montone di guida, si erano fatti allo stanzone e guardavano. Erano forti uomini, non molto alti, dagli occhi neri sotto certi cappellucci, che avevano conosciuto mille soli e mille pioggie e con le gambe difese da pelli di capra. I ragazzi, dopo aver mangiato e bevuto - ci dispiace notarlo, ma per i nostri eroi mangiare e bere erano occupazioni di prim'ordine - girarono chi qua chi là per il casolare e l'ovile. Tutto era semplice, quasi rudimentale, dagli attrezzi agli utensili: il che significava che i pastori supplivano con la loro pazienza, la loro tenacia, ad ogni macchina moderna. Il signor Goffredo disse a Martino: - Eppure ci sono tanti attrezzi meccanici che vi risparmierebbero fatica e tempo. - Lo so - rispose Martino - ma costano molti soldi. E poi questi della mia famiglia - aggiunse sorridendo con furberia - sono molto antichi e non capiscono le novità, perchè dicono che sono figlie del demonio. - Male, malissimo: quelle novità sono invece figlie del buon ingegno dell'uomo. E poi sapete bene che con la Carta del Lavoro voi potete avere molte facilitazioni per quegli arnesi: naturalmente dovete dar segno, per avere tali aiuti dallo Stato, di essere buoni italiani, il che vuol dire oltre che patrioti e uomini buoni. - Lo so. Noi siamo uomini buoni.
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Con uno scampanìo, un abbaiare, un susseguirsi di fischi arrivò il secondo gregge, guidato da Paolo Francesco, padre di Martino. Il gregge, contenuto compatto dai cani e da quattro mandriani, sembrava un tratto di mare burrascoso che si avanzasse. Cominciò la mungitura e i ragazzi guardarono contenti di assistere a quello spettacolo così primitivo, ma nello stesso tempo eterno. Anche Cherubino, che si era arrampicato sull'unico salice che s'ondulava nella grande pianura, scese, si scorticò le mani, ma volle vedere. Infatti era bello vedere. Era una visione antica, con lo sfondo rosato del tramonto. Le pecore, nell'atto in cui venivano munte, avevano gli occhi dolci: i caproni si cozzavano fra loro con certe cornate potenti e rimbombanti, alle quali (questa è una malignità di Anselmuccio) nemmeno la durissima testa di Cherubino avrebbe potuto resistere.
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Aveva sentito abbaiare un cane, al di là del muro di cinta, e gli era parsa proprio la voce del suo Argo. Andò fino ai cancelli e sbirciò fuori, nella speranza di vederselo apparire davanti. Quanto gli avrebbe fatto bene, adesso, starsene un po' con lui, godere del suo smisurato affetto canino! Non ci sono che i cani - a volte - che sanno amarti così come sei, anche se non sei proprio niente di speciale. Solo perché sei tu.
Gli era parso di sentire il suo Argo abbaiare disperatamente lungo i muri di recinzione della villa, e ognuno di quei latrati lamentosi gli doleva dentro con uno spasimo da pugnalata. Doveva essere solo uno scherzo dell'immaginazione - si ripeteva - perché il suo cane adesso se ne stava al riparo dai colpi di sventura, nella casa del giornalaio, magari davanti ad una buona scodella di zuppa calda. Ma questo pensiero, che gli occhi della mente vedevano come un film, non bastava a placare il suo animo sconvolto e abbattuto dal rapido succedersi di troppe emozioni. Andò dritto al letto che gli era stato assegnato, ripiegandosi su di sé come una lumaca nel suo guscio. - A nome di tutti noi... - continuò il maresciallo Fizzotti, ciondolandogli dietro - vorrei darti il benvenuto a Villa Felice. - "Villa Infelice" - scappò detto al professore, in un moto di fastidio. Poi scrollò le spalle e cominciò a disfare metodicamente la valigia. - Ah, ah... "Villa Infelice"! Questa è buona, buona davvero - fece il maresciallo rivolgendosi agli altri due che erano in camera. - Ha dello spirito, il nostro professore! - Macché, macché! - s'irritò l'omone grasso e grosso, che stava proprio nel letto a fianco, appoggiato a una montagna di cuscini. - Questo signore ha detto la verità, ecco tutto. È inutile che cerchi di farci ridere, Carlo. Qui non c'è proprio niente da ridere. - L'Ernesto ha ragione - borbottò dal fondo un vecchio calvo, tentennando debolmente il capo. - Ci sono delle cose con le quali è meglio non scherzare. Lo diceva sempre il mio collega, quando in ospedale ci proponevano di fare le gare di velocità con le autoambulanze. - Tacque un momento impensierito, rimirando le monete che aveva sparpagliate sul letto. Poi biascicò, con voce desolata: - Ecco, ho di nuovo perso il conto. - E il cervello... - ridacchiò il maresciallo tra sé. Poi, a voce più alta: - E bravo, Attilio. Conta, conta, che ti passa. Il vecchio sembrò non aver udito la provocazione, o forse tutto faceva parte di un gioco tra i due. Difatti riprese a gingillarsi con le sue monete. Le rimise tutte dentro un sacchetto di cuoio e cominciò ad estrarle, contandole a una a una, assorto e concentrato nel suo lavoro. Un silenzio profondo calò nella camera. Anche fuori, il cane non guaiva più. Si udiva solo il gemito lieve degli scaffali dove il professore andava sistemando in bell'ordine decine e decine di volumi. - Ehi, ma quanti libri! - Il maresciallo Fizzotti voleva fare conversazione a tutti i costi. - Certo che devi proprio essere un pozzo di scienza, tu. Io invece son sempre stato una zucca dura - si batté la testa col pugno chiuso, ridacchiando. - A proposito, la sai l'ultima sui carabinieri? - E piantala! Non vedi che gli dài fastidio? È il suo primo giorno qui dentro, lascialo in pace. Anzi, lasciaci in pace tutti, una buona volta! - gridò rosso in viso l'omone di prima. - Scusa, Ernesto - sussultò il maresciallo, afflosciandosi. - Non parlo più. Il professor Zambelli girò la testa verso l'omone, forse per ringraziarlo, forse per dirgli di lasciar correre, ma questi aveva chiuso gli occhi e sembrava riposarsi, appoggiato alla pila di cuscini. Allora afferrò la valigia ormai vuota, la mise sotto il letto, prese un libro e si dispose a leggere. Proprio in quel momento la porta si aprì ed entrò un vecchio sporco e malvestito, che sapeva di funghi e di muschio come una creatura dei boschi. - 'Sera Melchiorre! - salutò dal fondo l'Attilio, che aveva finito il conto delle monete. L'uomo rispose alzando una mano grande, piena di pieghe e di segni come la mappa di un tesoro, ma non fece parola. Se ne andò dritto dritto al letto, vi saltò dentro, si tirò il cappello sugli occhi e non si mosse più. Pareva che si fosse addormentato sul colpo. Il professore l'aveva seguito con lo sguardo, tra il sorpreso e l'irritato, per la scia di cattivo odore che l'uomo aveva lasciato dietro di sé e che ancora aleggiava nell'aria. «Ma dove sono finito» si disperò. «Che cosa ci faccio io, qui?» Di colpo, la vita gli apparve vuota di significato. Vitali, invece, le cose a cui aveva rinunciato per sempre: la sua casa, il suo cane. In altri tempi, quando il vigore degli anni e gli affetti della famiglia lo riempivano di certezze, avrebbe sorriso all'idea di potersi legare tanto a un animale. Quelle erano smanie da gente insulsa, ecco cosa avrebbe pensato allora. Ma adesso aveva soltanto voglia di piangere. «Senectus semper molesta...»ricordò amaramente il professore. «I latini avevano ragione: non v'è nulla di buono, nel diventar vecchi.» Chiuse il libro che aveva in mano, chiuse gli occhi e cercò di chiudere anche il cervello per non pensarci più.
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Continuava ad abbaiare, poveretto. Sembrava disperato. - È il mio Argo! - esclamò il professore, senza sapere se gioire o preoccuparsi. Domande senza risposta si affollavano trepide nella sua mente. Perché Argo non era rimasto con il giornalaio cui l'aveva affidato? Era fuggito per venire a cercarlo? Qualcuno l'aveva trattato male? O era stato addirittura cacciato via, abbandonato per strada? - Ah, è tuo - fece Melchiorre, dopo un lungo silenzio. - Argo... è il nome di un cane fedele. - Tornerà? - disse il professore. Ma non era propriamente una domanda. Era un pensiero detto ad alta voce. - Tornerà. Gli animali mi conoscono bene, professore, e io conosco bene loro. Il tuo cane aveva lo sguardo di quelli che tornano. Il professore guardò davanti a sé, oltre il muro di cinta del parco, e fece un sospiro profondo. - Pensi che sono un po' matto? Pensalo pure, non m'importa. A Villa Felice è un vantaggio: i matti hanno molta più libertà.
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. — E smettila di abbaiare! — continuò Massimo. — È il mio stomaco che abbaia, io non ne ho colpa, — rispose il povero Piuma. Per consolarsi, tutti e due ripensarono al pranzo che avevano fatto due giorni prima. Avevano mangiato spaghetti e prosciutto, e insalata! Poi si fermarono vicino al mulino a vento, che stava alla fine del ponte. Passarono quattro oche grasse, un frate col suo sacco e tutti annusavano l'aria che odorava di pane fresco, di brodo e di prezzemolo. A questo punto Massimo disperato fece: — Aaaaah! — e Piuma: Uuuuuh! — e di nuovo stettero zitti, finché Piuma tirò a Massimo la manica della giacca. — Ehi, vuoi star fermo? — borbottò Massimo. — Non vedi che sto pensando? Il buon Piuma aspettò che l'amico finisse di pensare, con la faccia piena di speranza. E infatti, dopo tre minuti, Massimo gli strappò il berretto con entusiasmo e strillò: — Pensato! Pensato! Saremo ricchi, oggi! Saremo milionari. Ehi, Pic! Un ornino che passava di là si avvicinò. Era vestito da « gangster », col ciuffo e un tatuaggio sul naso. Era tanto piccolo, che arrivava appena al gomito di Piuma, ma il suo aspetto era spaventoso: — Che cosa desideri? — domandò. — Ti va di guadagnare otto soldi? — E perché no? — Allora mi dovrai fare da compare. — Bene. — Si tratta di questo. Io e il mio amico daremo uno spettacolo di pugilato, qui sulla piazza. Si radunerà una gran folla, e tutti saranno sicuri che vinco io, che sono un peso massimo. E invece vincerà Piuma. Tu devi strillare: — Forza, Piuma! — e devi cercare di scommettere cento lire con qualche ricco signore presente. Poi tu mi darai le cento lire, e io ti darò gli otto soldi. — Eh, che razza di spilorcio senza coscienza! Otto soldi a me? Non ti vergogni? — Dodici soldi! Nemmeno un centesimo di piú! E tu, Piuma, perché piangi? — Io non so fare il pugilato! — balbettò Piuma. — Eh, stupido! Non capisci che io mi lascerò buttar giú con un soffio? Non farai nessuna fatica! E sai che cosa significa questo per te? — No. — Significa la gloria! — La gloria? — Certo. Sarai campione, ragazzo mio, — e Massimo batté la spalla di Piuma, che faceva un sorriso felice. Poi chiamò Anchise, che passava sul ponte, per nominarlo arbitro: — Avrai sei soldi di paga, — gli disse. E incominciò a gridare. — Avanti, avanti, signori ! Grande partita di pugilato fra un peso massimo e un peso piuma! Non si paga niente! Non si paga niente! In pochi secondi, un'intera popolazione si era raccolta intorno a loro: bambini, oche, eccellenze e milionari. Fra gli altri, si fermò un signore che lasciava capire di essere un milionario, giacché portava l'abito a coda e il cilindro; e Pic gli corse vicino. Quel signore, insieme a tutti gli altri, guardava con aria di compassione il povero Piuma, come per dire: « Ecco uno che fra poco sarà una frittata ». Uno, due, tre! La partita cominciò. Il povero Piuma ballava senza capir niente, e finalmente, con aria modesta, si decise a buttar via qualche pugno. Ma tutti ridevano e gridavano: — Arrenditi, ornino. — Bene, grasso! — Bravo il grasso! — e facevano il tifo per Massimo. Il signore distinto e milionario diceva con tono di conoscitore: — Boh! Boh! Boh! Allora Pic cominciò a brontolare: — Sarà, ma quel piumino li dev'essere un furbo che si conserva il colpo per dopo. Secondo me vince lui. — Eh! Eh! — rise il milionario. — Si vede bene, ragazzo mio, che tu di pugilato non ne capisci niente! — Ah, sí? E io le dico che quell'omino vince! — Son disposto a scommettere cinquanta lire. — Anche cento. — Vada per cento. Proprio in quel minuto, si vide Piuma sferrare un sinistro, e Massimo traballò e cadde a terra. Anchise contò solennemente fino a dieci, ma l'infelice Massimo rimase fermo come un morto. Piuma era vincitore! Allora tutti gridarono: — Bene Piuma! Evviva Piuma! — Si vedevano tutto intorno sventolare i fazzoletti; Piuma fu sollevato in trionfo, e le ali del mulino cominciarono a girare in fretta. Piuma si accorse perfino che sulla fronte gli stava crescendo una stella. Era la gloria, amici! La Gloria! Intanto il milionario, a malincuore, prese cento lire dalla sua borsa d'oro e le porse a Pic. L'infelice Massimo non dava ancora segno di vita; Piuma provò a dargli un piccolo calcio, ma il suo buon amico non si mosse. Allora Piuma cominciò a pensare : « Che sia morto per davvero? Che sia morto d'appetito? » E si provò a fischiare sottovoce l'Inno dei sette vincitori, che era il loro fischio di famiglia. Niente. Il buon Piuma tremò dalla paura, e, chinandosi sul suo ottimo e unico amico, chiamò singhiozzando: — Massimo! Massimo! — Ehi, stupido! — rispose Massimo a bassa voce. — Non capisci che faccio per sembrare « K. O. » sul serio? — e aperse mezzo occhio. Proprio con quel mezzo occhio aperto vide una cosa terribile. Ascoltate! Vide il perfido Pic, il « gangster », che se ne scappava, e stava già dietro il mulino, con un foglio da cento in mano. Allora il disgraziato si alzò d'improvviso e, dando calci e pugni a tutti quanti, corse dietro a Pic, e Piuma gli correva dietro, e tutti gli altri, quantunque
— E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei. La Regina non si stimò gastigata abbastanza, e insistette: — Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te. — Maestà, in un giaciglio! — Per una volta, potrò provare. - Si acconciò alla meglio, e finse di dormire. — In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo. — Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.
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Lasciateli abbaiare, Rossella. Credo che nulla fermerà la vostra carovana. - Ma che cosa importa a loro se io guadagno un po' di denaro? - Non si può aver tutto a questo mondo. Potete guadagnare e vedervi trattata freddamente, oppure esser povera e avere una quantità di amici. Voi avete fatto la vostra scelta. - Non voglio esser povera! - esclamò vivamente Rossella. - Ma... la mia scelta è giusta, non è vero? - Se è il denaro che desiderate... - Sí; piú di qualunque cosa al mondo. - E allora avete fatto la scelta giusta. Ma a questa, come a molte cose che si desiderano, è associata una specie di castigo: ed è la solitudine. Ella tacque per un momento. Era vero. Durante gli anni di guerra aveva avuto la possibilità di andare da Elena, quando aveva la malinconia. E dopo la morte di Elena, vi era stata Melania, benché con questa ella non avesse nulla di comune, se non il duro lavoro di Tara. Ora non le restava piú nessuno, perché zia Pitty non aveva alcuna concezione della vita all'infuori del suo piccolo circolo di pettegolezzi. - Credo... - cominciò esitando - credo... di essere sempre stata molto sola, per quanto riguarda amicizie femminili... Non è il mio lavoro che mi rende antipatica alle signore di Atlanta. È per me che non hanno simpatia. Nessuna donna mi ha mai voluto bene, eccetto mia madre. Neanche le mie sorelle. Non so perché, ma anche prima della guerra, prima che io sposassi Carlo, le signore disapprovavano qualunque cosa io facessi... - Dimenticate la signora Wilkes - e gli occhi di Rhett brillarono maliziosamente - la quale vi ha sempre approvata anche se aveste commesso un assassinio. Rossella pensò, torva: «Infatti, ha approvato anche questo» ma rise con disprezzo. - Oh, Melly! - esclamò; poi soggiunse con tristezza: - Certamente non mi fa onore il fatto che Melly mi approvi, perché ha il cervello di una gallina. Se avesse piú senso comune...- Si interruppe un po' confusa. - Se avesse piú senso comune - terminò Rhett - capirebbe alcune cose che non potrebbe approvare. Ma torniamo al nostro argomento. Ricordatevi bene quanto vi dico. Finché sarete diversa dalle altre sarete isolata, e non solo dalle persone della vostra generazione, ma anche da quelle della precedente e della seguente. Nessuno vi comprenderà e tutti saranno scandalizzati dal vostro modo di agire. Ma probabilmente i vostri nonni sarebbero fieri di voi e direbbero: «È del buon ceppo»; e i vostri nipotini sospireranno con invidia dicendo: «Che bel tipo doveva essere la nonna!» e cercheranno di assomigliarvi. Rossella rise divertita. - A volte colpite proprio nel segno! Guardate mia nonna Robillard. Era fredda come un ghiacciolo e severa per tutto quanto riguardava l'educazione; ma si sposò tre volte. Per lei vi furono non so quanti duelli; adoperava il belletto e portava vestiti scandalosamente scollati e non usava... hm... non portava molta biancheria sotto ai vestiti. - E voi l'avete ammirata moltissimo, benché abbiate cercato di essere come vostra madre! Io ho avuto un nonno, dalla parte dei Butler, che era un pirata. - Davvero? Di quelli tanto crudeli? - Suppongo che fosse crudele quando questo era il modo di far quattrini. Ad ogni modo, ne guadagnò abbastanza da lasciare a mio padre un buon patrimonio. Ma in famiglia si parlava sempre di lui come del "capitano di mare". Fu ucciso in una rissa molto prima che io nascessi. Inutile dire che la sua morte fu un gran sollievo per i suoi figli, perché il brav'uomo era quasi sempre ubbriaco; e quando aveva bevuto qualche bicchiere di piú era capace di dimenticare che era un capitano a riposo e rievocava certi ricordi che facevano drizzare i capelli ai figliuoli. Io l'ho sempre ammirato e ho cercato di imitarlo piú di quanto non abbia cercato di imitare mio padre, il quale e un amabile gentiluomo, pieno di buone abitudini e di massime religiose. Cosí vanno le cose. Sono sicuro che i vostri figli non vi approveranno, Rossella, come non vi approvano le signore Merriwether ed Elsing e le loro famiglie. I vostri figli saranno probabilmente creature dolci e remissive. E per giunta voi siete probabilmente decisa, come tutte le mamme, a fare in modo che essi non conoscano le privazioni e gli stenti che voi avete dovuto sopportare. E avete torto. Le privazioni temprano le persone o le spezzano. Dovrete quindi attendere l'approvazione dei vostri nipotini. - Chi sa come saranno i nostri nipoti! - Dicendo i "nostri" vorreste intendere che voi ed io avremo dei nipoti in comune? Andiamo, via, signora Kennedy! Rossella, accorgendosi del suo errore di linguaggio, arrossí. Non furono soltanto le sue parole scherzose a darle un senso di vergogna, ma l'improvviso ricordo del suo corpo deformato. Nessuno di loro aveva mai alluso al suo stato interessante, ed ella portava sempre, quando era con lui, la cintura dell'abito quasi sotto alle ascelle, illudendosi, come tutte le donne, che in tal modo non si vedesse la deformazione della sua figura; ma in quel momento si sentí improvvisamente irritata della sua condizione e vergognosa che egli la conoscesse. - Scendete subito da questo carrozzino, rettile osceno che siete! - e la sua voce tremava. - Neanche per sogno - rispose egli calmo. - Sarà buio prima che giungiate a casa; e da queste parti vi è una nuova colonia di negri che abita in un accampamento; mi hanno detto che sono dei negri molto abbietti, e non vedo perché dovreste dar motivo all'impulsivo Ku Klux di mettersi le camicie da notte e uscire stasera. - Scendete! - E una nausea improvvisa l'assalse. Egli fermò subito il cavallo, le passò due fazzoletti puliti e le sorresse la testa con una certa abilità facendola affacciare sulla fiancata del calessino. Il sole pomeridiano coi suoi raggi obliqui attraverso il fogliame novello, le diede per qualche istante l'impressione di uno stomachevole vortice d'oro e di verde. Dopo l'accesso, ella si nascose il volto fra le mani e pianse di mortificazione. Non solo aveva rigettato dinanzi a un uomo - la cosa piú orribile che potesse accadere a una donna! - ma l'incidente affermava in modo inequivocabile il fatto umiliante della sua gravidanza. E questo le era accaduto proprio con lui, proprio con Rhett che non rispettava le donne! Ah, non potrebbe mai piú guardarlo in viso! - Non siate sciocca - le disse egli con calma. - Se piangete di vergogna siete una sciocca. Avanti, non fate la bambina. Certo non potevate supporre che, a meno di essere cieco, io ignorassi che eravate incinta. - Oh! - esclamò con voce soffocata e le sue dita si strinsero convulsamente sul viso di porpora. La parola la faceva inorridire. Franco, ogni volta che doveva parlare della sua gravidanza, le diceva con imbarazzo "le tue condizioni". Geraldo, quando si trattava di queste cose, soleva sempre accennare delicatamente che la tal signora "aspettava un bimbo"; e le signore generalmente dicevano che una donna era "in istato interessante". - Siete una bambina se immaginate che io non me ne sia accorto, malgrado questa vostra veste cosí pesante. Sicuro che sapevo. Altrimenti, perché credete che sarei stato... Si interruppe improvvisamente; e un silenzio fu tra loro. Egli raccolse le redini e percosse il cavallo. Continuò poi a parlare tranquillamente; e mentre ella ascoltava con piacere la sua cantilena, l'eccesso di colore svaní a poco a poco dalle sue guance ardenti. - Non credevo che la prendeste in questo modo, Rossella. Vi immaginavo piú ragionevole, e sono deluso. Possibile che nel vostro seno alberghi ancora la verecondia? Forse non è da gentiluomo aver parlato chiaramente. Ma non sono affatto un gentiluomo, e le donne incinte non mi imbarazzano per nulla. Le tratto come creature normali, senza sentirmi punto obbligato a guardare il cielo o la terra pur di non posare gli occhi sulla loro cintura; e fissarla poi furtivamente con certe occhiate che mi sembrano il colmo dell'indecenza. È una condizione normalissima. Gli europei, piú ragionevoli, fanno dei complimenti alle madri che sono in attesa. Senza arrivare a questo punto, lo trovo però piú giusto della nostra finta ignoranza. E le donne dovrebbero esserne orgogliose invece di nascondersi come se commettessero un delitto. - Orgogliose! - e la voce di Rossella era strozzata. - Che orrore! - Non siete fiera di avere un bambino? - Dio mio, no! Non mi piacciono i bambini! - Volete dire... il bambino di Franco? - No... di chiunque! Per un attimo si sentí nuovamente a disagio, accorgendosi di quest'altro errore di espressione; ma Rhett continuò con voce calma, come se non lo avesse notato: - In questo siamo diversi. Io amo i bambini. - Li amate? - E fu cosí stupita di questa dichiarazione che dimenticò il proprio imbarazzo. - Che bugiardo! - Amo i bambini e i ragazzi finché non cominciano a crescere e ad acquistare il modo di pensare degli adulti e la loro abilità di mentire e di essere furfanti e mascalzoni. Del resto questa non è una novità per voi. Sapete che voglio molto bene a Wade Hamilton, benché non sia il ragazzo che dovrebbe essere. Era vero, ricordò Rossella. Gli piaceva giocare con Wade e spesso gli portava dei regali. - E giacché siamo venuti a parlare di questo terribile argomento, e voi ammettete che fra non molto avrete un bambino, vi dirò qualche cosa che desidero dirvi da un pezzo: anzi, due cose. Prima di tutto, che è pericoloso per voi andare sola in carrozza. Lo sapete, perché vi è stato detto abbastanza spesso. Se personalmente può non importarvi di essere rapita o violentata, dovete considerare le conseguenze. A causa della vostra ostinazione potete trovarvi in una situazione per la quale i vostri coraggiosi concittadini potranno essere costretti a vendicarvi facendo la pelle ad alcuni negri; e questo scatenerà gli yankees contro di loro e probabilmente ne condurrà qualcuno al capestro. Vi è mai venuto in mente che forse una delle ragioni per cui le signore non vi amano è che la vostra condotta può condurre alla forca i loro mariti e figli? Inoltre, se il Ku Klux fa la pelle ad altri negri, gli yankees diventeranno talmente spietati che la condotta di Sherman sembrerà angelica a confronto. So quello che dico, perché sono in grande intimità con gli yankees. Mi trattano come uno di loro, - mi vergogno di dirlo - parlano senza riguardo. Vogliono distruggere il Ku Klux anche se dovessero incendiare di nuovo tutta la città e impiccare tutti i maschi al di sopra dei dieci anni. Sarebbe un danno anche per voi, Rossella. Perdereste del denaro. E non si può dire a che punto può fermarsi l'incendio di una prateria, una volta iniziato. Confisca di proprietà, aumenti di tasse, multe a persone sospette... Li ho uditi proporre di tutto. Il Ku Klux... - Ne conoscete nessuno del Ku Klux? Sapete se Tommy Wellburn o Ugo... Egli si strinse nelle spalle con impazienza. - Come volete che li conosca? Io sono un rinnegato e un affarista. Ma so di alcuni che sono sospettati; basta un falso movimento da parte loro per poterli considerare come impiccati. Mentre so che non avreste alcun rimpianto se mandaste al capestro i vostri amici, sono certo che vi dispiacerebbe perdere i vostri stabilimenti. Vedo dall'espressione caparbia del vostro viso che non mi credete e che le mie parole cadono nel vuoto. Perciò vi dico soltanto: tenete a portata di mano la pistola; e quando io sono in città farò il possibile per potervi sempre accompagnare. - Rhett, ma è proprio per proteggermi che... - Sí, mia cara. È il mio sentimento cavalleresco che m'induce a proteggervi. - La fiammella beffarda ricominciò a danzare nei suoi occhi neri. Ogni barlume di serietà scomparve dal suo volto. - E perché? Per il profondo amore che ho per voi, signora Kennedy. Sí; silenziosamente ho avuto fame e sete di voi, e vi ho adorata da lontano; ma siccome sono un uomo onesto come il signor Ashley Wilkes, ve l'ho celato. Voi siete, ahimè, moglie di Franco, e l'onore mi vieta di rivelarvi il mio sentimento. Ma come anche l'onore del signor Wilkes qualche volta si screpola, cosí anche il mio oggi si è incrinato ed io rivelo la mia segreta passione che... - Per carità, smettetela! - interruppe Rossella, annoiata come sempre quand'egli le faceva dei discorsi di questo genere, e desiderosa di mutare argomento, ma evitando quello di Ashley. - Che cos'era l'altra cosa che volevate dirmi? - Come? Cambiate discorso mentre io vi sto offrendo un cuore amante ma esulcerato? Beh, l'altra cosa è questa. - La luce beffarda si spense di nuovo e il suo volto si oscurò. - Voglio che facciate qualche cosa per questo cavallo. È caparbio e ha una bocca dura come il ferro. Credo che guidarlo vi stanchi parecchio, no? Sono sicuro che se prende la mano, vi sarà impossibile fermarlo. E se vi trascina in un fosso, questo può significare la morte per il vostro bambino e per voi. Dovreste mettergli un morso molto piú pesante e permettermi di cambiarlo con un cavallo piú docile e con la bocca piú sensibile. Ella guardò il suo viso distratto e si sentí disarmata di fronte alla bontà e alla premura di lui. Provò un impeto di gratitudine e si chiese perché egli non era sempre cosí gentile. - Infatti, è un cavallo difficile da guidare - acconsentí debolmente. - A volte le braccia mi dolgono per tutta la notte. Fate quel che vi sembra meglio, Rhett. - Questo è molto gentile e femminile, signora Kennedy. Non è il vostro solito modo di parlare. Bisogna proprio sapervi trattare per rendervi flessibile come un virgulto. Ella s'impennò immediatamente. - Scendete subito, altrimenti vi picchio con la frusta. Non so perché cerco di essere gentile con voi. Siete malvagio. Privo di morale. Non siete altro che... Insomma andatevene. Egli discese, sciolse il suo cavallo legato dietro al calessino, e rimase fermo in mezzo alla strada nella semi oscurità del crepuscolo, con un sorriso irritante; a sua volta ella non fu capace di nascondere il proprio sorriso mentre si allontanava. Sí, era volgare, malizioso, malfido e non si poteva mai prevedere in che momento la spada smussata con la quale giocherellava si sarebbe tramutata in lama tagliente. Ma era divertente ed eccitante come... sicuro, come un bicchiere d'acquavite! In quegli ultimi mesi Rossella aveva imparato l'uso dell'acquavite. Quando tornava a casa nel tardo pomeriggio, bagnata di pioggia, intirizzita e indolenzita dalle lunghe ore passate nel carrozzino, la sola cosa che le dava forza era il pensiero della bottiglia chiusa nel primo cassetto del suo canterano, nascosta agli sguardi scrutatori di Mammy. Il dottor Meade non aveva pensato ad avvertirla che una donna nelle sue condizioni non doveva bere, perché non gli era mai venuto in mente che una signora per bene bevesse altro che qualche bicchierino di moscato. Eccetto, naturalmente, un bicchiere di champagne in occasione di un matrimonio, o di vino caldo quando era costretta a letto dal raffreddore. Senza dubbio vi erano delle disgraziate che bevevano, nello stesso modo come ve n'erano altre che erano pazze o divorziate; e questa era una sventura per le loro famiglie. Ma ad onta della sua disapprovazione per la condotta di Rossella, il dottore non aveva mai sospettato che ella bevesse. La giovane donna aveva scoperto che un bicchierino di acquavite prima di cena le faceva molto bene; poi faceva un gargarismo con l'acqua di Colonia o masticava qualche chicco di caffè per mascherare l'odore. E quando non riusciva a dormire e si rigirava nel letto tormentata dalla paura della povertà, dalla minaccia degli yankees, dalla nostalgia per Tara e dal desiderio di Ashley, sarebbe impazzita se non avesse avuto l'acquavite che spandeva nelle sue vene un calore benefico. Allora le sue preoccupazioni si attenuavano; dopo tre bicchierini ella poteva sempre dire a se stessa: «Penserò a queste cose domani, quando potrò sopportarle meglio». Ma alcune notti neppure l'acquavite calmava la pena del suo cuore, la pena che era piú forte perfino della paura di perdere gli stabilimenti: la nostalgia per Tara. Ella amava Atlanta, ma... Oh, la dolce pace e la tranquillità di Tara, i campi rossicci e i pini bruni che li circondavano! Tornare a Tara per quanto la vita potesse esser dura! Ed essere accanto ad Ashley, vederlo, udirlo parlare, essere sorretta dalla conoscenza del suo amore! «Andrò a casa in giugno. Qui non posso piú far nulla dopo quell'epoca. Vi andrò per un paio di mesi.» Pensava a questo con sollievo. E vi andò in giugno, ma non come desiderava; vi andò perché nei primi giorni del mese giunse un breve messaggio di Will che annunciava la morte di Geraldo.
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Finalmente si decide a riaprire la porta, e l'amico riparte: un minuto, e di dietro la muriccia bianca di neve parte un colpo di fucile: la bestia cade; nel silenzio grande si sentono i cani abbaiare e qualche finestrino si apre: la sposa ha un presentimento; aspetta che tutto sia di nuovo quieto; esce; al chiarore della neve si avanza fino alla muriccia e trova il muflone ucciso, con gli occhioni spalancati che brillano ancora di dolore. Ella lo coprí di neve, con le sue mani; poi tutta la notte pianse. Non si accennò all'avventura; e quando le nevi si sciolsero e fu ritrovato la spoglia del muflone lo si credette morto di fame e di assideramento. Non se ne parlò più; neppure col marito, quando egli fu di ritorno; ma una cosa terribile accadde. In settembre nacque alla giovane sposa un bambino: era bello, coi capelli color rame e gli occhi grandi e dolci come quelli del muflone: ma era sordomuto. La storia piacque a Cosima. Col capo appoggiato al grembo della serva, credeva di sognare: vedeva il paese di Proto, con le case coperte di assi annerite dal tempo, e i monti scintillanti di neve e di luna; ma sopra tutto le destava una impressione profonda, quasi fisica, il mistero della favola, quel silenzio finale, grave di cose davvero grandiose e terribili, il mito di una giustizia sovrannaturale, l'eterna storia dell'errore, del castigo, del dolore umano.
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Cominciava dall'accarezzarli, quasi per addormentarne la naturale diffidenza; poi, con aghi, forbici, cerini, cordicelle ed altri strumenti di tortura ingegnosamente trovati, godeva farli strillare, abbaiare, miagolare, urlare, infuriare, dibattere; e mentre le povere bestie si contorcevano dal dolore e facevano accorrere con le grida la mamma, il babbo, o qualch'altro di casa, egli rideva, batteva le mani, saltava, contento della bella prodezza fatta, e non ascoltava nè ammonimenti, nè gastighi; giacchè la mamma e il babbo, indignati, spesso lo gastigavano forte, e non solamente per correggerlo, ma per evitare che un giorno o l'altro non gli accadesse qualche malanno. — E se ti mordono? Sc ti cavano gli occhi con le granfie o col becco le bestioline infuriate? Era come dire al muro. Per ciò mamma e babbo, da qualche tempo in qua, non tenevano più in casa animali di sorta, sperando che con gli anni il tristo istinto si spegnesse nel bambino, e la buona natura e la ragione prendessero il sopravvento. Oramai Ernesto non era più un bambino, e da due anni non aveva mai avuto occasione di mostrare se la sua cattiveria fosse tuttavia viva e persistente. Un giorno la sua mamma ricevette in regalo un canarino con una bella gabbia dorata su un treppiede di legno bronzato. Lo collocò nel salottino dov'ella soleva leggere, lavorare e ricevere confidenzialmente le amiche più intime ; gabbia e uccellino erano così sotto la sua sorveglianza d' ogni istante; per precauzione però l'uscio del salottino veniva anche chiuso a chiave, ogni volta che la signora andava fuori ed Ernesto doveva rimanere in casa pei còmpiti di scuola. Ernesto pareva pieno di ammirazione e di affetto verso il canarino che cantava meravigliosamente; voleva, col permesso della mamma, governarlo lui ; gli porgeva lo zucchero, l' erba, il biscottino; gli faceva moine con la mano; e la buona signora godeva osservando che l' istinto malefico si era mutato nel fanciullo in tenerezza per gli animali. Soltanto gli raccomandava : —Bada di non farlo scappare. Poco dopo, al canarino fu aggiunto un canino danese, grosso quanto un pugno; e finalmente un bel gatto d'Angora dal pelo lungo e vellutato che fece presto amicizia col canino. Ernesto pareva di essersi costituito il protettore delle tre bestiole, tante cure e tante carezze prodigava a tutti e tre; babbo e mamma ne godevano più che mai. Ma il ragazzo era cattivo e malizioso, e quel suo mutamento fina ipocrisia. Egli attendeva l'occasione apportuna per farne una delle solite; ci pensava su, ordiva piani, architettava mezzi, e attendeva zitto e sornione; ma fu pel suo male, e n'ebbe un ricordo per tutta la vita. Una volta dunque, egli venne lasciato in casa, sotto la sorveglianza della cameriera. Costei, fidandosi troppo, lo abbandonò solo in salotto. Che fece egli allora? Chiuso l'uscio del salotto col paletto interno, legò ben bene gatto e canino per la coda, e raccomandò il capo della cordicina, con cui li aveva legati, al piè del tavolino. Poi accese una candela, e preso un bastoncino di ceralacca dallo scrittoio del babbo, prima d'ogni cosa appiccicò con esso sui mattoni del pavimento il canarino pei piedini, perchè non scappasse. Figuratevi come strillasse il povero uccellino sentendo bruciarsi i piedini, e come sbattesse le ali ! A quella vista, gatto e canino non stettero più fermi; avrebbero voluto precipitarsi addosso all'uccellino, ma legati stretti per la coda, non gli si potevano accostare. Il gatto, spazientitosi il primo, cominciò a prendersela contro il canino che gli pareva lo tenesse afferrato per la coda, e lo sgraffiò, lo morse; il canino rispostò con altri morsi e sgraffi. Ernesto, munitosi d' un suo frustino, li flagellava intanto di colpi, tenendo con l'altra mano il capo della cordicella slegato dal piè del tavolino, e li trascinava presso il canarino che continuava a sbattere le ali e a strillare; non tanto accosto però da poterlo offendere, ma a bastanza perchè canino e gatto così s' irritassero di più. La cameriera, accorsa al rumore, picchiava all'uscio, atterrita, pensando alla sua responsabilità : e non riceveva neppure risposta. A un tratto, i guaiti del cane, gli strilli del canarino, i miagolii del gatto furono coperti dagli urli di Ernesto che gridava : Mamma ! Mamma ! L'uscio cedette al violento spintone d'un uomo chiamato in soccorso dalla cameriera, e a tempo da risparmiare peggiori guai al ragazzaccio insanguinato, morso e sgraffiato, e con mezzo naso già portato via dai denti del gatto. Cane, gatto e bambino erano un viluppo per terra; e senza il coraggio e la destrezza di quell'uomo, la imprudente cameriera non sarebbe riuscita a distrigarli. Ernesto è rimasto un po' deformato; quel pezzetto di naso mancante lo rende ridicolo. Quando i compagni di scuola lo canzonano: — E il naso ? e il naso? — s'arrabbia, piange, pesta i piedi, vuol picchiarli, li accusa al babbo. Ma il babbo, severo, gli risponde sempre : — È colpa tua!
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Una gli buttava giù i soldatini schierati sul tavolino; un'altra gli faceva abbaiare il canino di cartapesta, che Lulù non voleva toccato da nessuno; un'altra gli strappava di mano il pulcinella, nascondendolo sotto l'ascella, e mostrando aperte le mani per sviare le ricerche di lui che non indovinava chi delle quattro avesse fatto il colpo ; un' altra infine gli dava dei colpetti su la testa e su le guance quand'egli era voltato di là e non poteva accorgersi a chi appartenesse la mano lestamente ritirata. Per alcuni istanti, Lulù aveva tenuto testa a tutte, difendendosi alla meglio; poi aveva ricorso dalla mamma, che si era messa a ridere e non gli aveva dato retta; allora gli era balenata un' idea, che gli parve stupenda. Zitto, zitto, era corso in camera del babbo, s'era messo in testa il berretto da viaggio, s'era buttato sul braccio il plaid, aveva preso la valigia sempre pronta per ogni occasione, ed era comparso con aria che voleva essere terribile, impacciato dal peso, strascicando più che reggendo in mano la valigia. — Me ne vado ! Non tornerò più ! Si aspettava la stessa scena dell' altra volta, quando il babbo aveva finto di partire; si aspettava che mamma e sorelle si fossero precipitate attorno a lui per trattenerlo, per pregarlo di non abbandonarle... E invece le sorelle, chi si era rimessa a leggere, chi a lavorare di ricamo, chi stava a guardarlo indifferente, e la mamma sorrideva, quasi lui non dicesse davvero, o non le importasse niente che egli andasse via. Rimase un po' sconcertato; ma riprese animo e ripetè il terribile : — Me ne vado ! Non tornerò più! Nessuno si mosse. Pure egli fece tre o quattro passi; e siccome plaid e valigia lo impacciavano, chiamò : — Beppe ! Beppe ! Il servitore accorse. Ed egli, imperturbato, ordinò : — Portami giù la valigia; parto ! Il servitore, a un cenno impercettibile della signora, finse di ubbidirlo. Sul pianerottolo Lulù si voltò addietro. Gli pareva impossibile che nessuno lo seguisse per pregarlo di restare; e scese le scale, voltandosi quasi a ogni passo, meravigliato, stupito che lo lasciassero andar via. Gli era parso anzi che gli ridessero dietro. — La carrozza è pronta ? — domandò al servitore. — No, signorino. — Allora... partirò un'altra volta. E rientrò, con aspetto annuvolato e le mani dietro la schiena. Alla risata che lo accolse, Lulù si fermò: — Quando sarò grande, quando il babbo sarò io, — minacciò levando la mano, — vi farò vedere se me n'andrò davvero! E buttò sdegnosamente il berretto per terra.
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Quando rifacevo la camera, lo sentivo abbaiare come un cane.... e sputava sangue... - Il pretore!.. il pretore!.. - A un tratto le guardie si schierarono da una parte e dall'altra, padre Miniscalco si tirò indietro sull'uscio della sua camera; l'ispettore si cavò il cappello, indietreggiando. - Signor pretore, le bacio le mani! Il pretore guardò il cadavere, impassibilmente, scialbo nel viso dalle guancie un po' infossate, dalle occhiaie profonde. Intanto che l'ispettore lo andava informando della faccenda, egli si cavava i guanti di lana, si soffregava le mani gonfie pei geloni, girava intorno uno sguardo distratto. - Questa qui è la dichiarazione... queste sono lettere e carte... - Mi lasci vedere. Intanto gli faccia frugare addosso. Sedette dinanzi al tavolo, lentamente, come all'ufficio, e cominciò a esaminare una dopo l'altra le carte. Nella camera non si sarebbe sentito volare una mosca. Sotto l'albergo, malgrado il tempo sempre più buio, la folla ingrossava e ne saliva un mormorio come di acque scorrenti. - Ecco quello che si è trovato. Il pretore prese ad esaminare quel ritratto, formato promenade, su cui il sangue aveva tirato come un velo rossastro. L'ispettore, colla mazzettina a spall'arme, il cappello un po' rovesciato indietro, si avanzò anch'egli a vedere. - Ma questa è Teresella Scardaniglio, nelle Campane di Corneville! E mostrava la figura di contadina, con la veste corta che lasciava vedere le gambe fino al ginocchio, le braccia nude e le prime curve del seno. - Quella che piglia sempre posto a destra, in capofila? - chiese il Pinelli. - Sicuro, Teresella! - Dove avete trovato questo ritratto? - domandò il pretore. - Fra il gilè e la camicia - rispose la guardia - Si sentiva una cosa dura. - Nient'altro? - Nossignore. Ora il cadavere restava con le braccia in croce, la testa rimossa dalla prima posizione e un po' inchinata verso la spalla sinistra, l'abito aperto mostrante la camicia insanguinata. - Delegato - chiamò il pretore - venga qui, cominciamo due parole di verbale. Avete pensato pel trasporto? - È disposta ogni cosa. L'ispettore, senza far rumore, uscì sul corridoio e chiese a don Ciccio, fermo lì in mezzo: - A che numero sta la Scardaniglio? - Numero 5, al piano di sotto. - Da questa parte? - Eccellenza sì. L'ispettore scese e andò a picchiare discretamente all'uscio. - Avanti, chi è? Teresella stava vicino alla finestra, con una forbicina in mano, ritagliandosi le unghie, mentre guardava la folla. La faccia bianca di cipria pareva una maschera sul fazzoletto di seta rossa che le avvolgeva il capo. - Neh, cavaliere, che è stato? - chiese colla sua voce rauca, accorrendo. L'ispettore la guardò un momento; poi, rifacendo anch'egli quel verso: - È stato che uno s'è acciso per causa tua! - Voi che dite, Giesù! Voi scherzate.... - Non mi credi? Gli abbiamo trovato il tuo ritratto sul cuore. - Il mio ritratto? ... Guarda, guarda com'è serio!.. E gli dette uno spintone. - Ferma con le mani. Parlo sul serio, il tuo ritratto, nelle Campane, e c'è anche una copia del libretto, col tuo nome scritto sopra. - Voi davvero?.. Giesù, Giesù!.. E com'è stato?.. - Si è scannato, con un rasoio. - È morto? - chiese con grandi occhi spalancati. L'ispettore trinciò una piccola croce, col dito. - Il ritratto glie lo avevi dato tu? - Io? Siete pazzo! Chi lo conosceva!. - Allora, come? - Io che so! L'avrà comprato dal fotografo. - E.... non l'hai mai visto? - Dalli! V'ho detto che non lo conosco - Un giovanotto, coi baffetti castagni... occhi neri... alto... - Aspetta, aspetta... Con la lente?.. Mo' ricordo; qualche volta l'incontravo, dopo la recita, abbasso al portone. - E... non t'ha avvicinato mai? - Quante volte v'ho da dì... - L'incontrasti anche iersera? - Mi pare... - Poi aggiunse, curiosamente: - Chi ve l'ha detto?... L' ispettore la guardò, ammiccando: - Con chi eri? Teresella gli dette un altro spintone. - Ih com'è curioso!... S'intese una carrozza arrestarsi sotto l'Albergo; l'ispettore andò a guardare dalla finestra. - Lasciami andar via; portano la cassa. - Giesù, Giesù! Poi, mentre quegli stava per uscire sul corridoio, Teresella gli corse dietro. - Cavaliè... sentite... avessi mai da passà qualche seccatura?... L'ispettore le accarezzò il mento, paternamente. - Non aver paura. E salì nella stanza del morto. Dietro, il becchino portava la cassa: tre tavole inchiodate e una mobile. - Pretore, ci siamo? - Avanti. - Picciotti, a noi. Preso dalle spalle e dai piedi, il cadavere fu deposto nella cassa. L'abito aperto faceva ingombro; lo affagottarono alla meglio. Il tempo diventava sempre più scuro; alla luce triste, giallastra, filtrante tra i nuvoloni color creta, la faccia del morto pareva di cera. A un tratto s'intese, fuori il corridoio, un confuso rimescolio, voci sorde, indistinte; poi dei passi affrettati che si avvicinavano, striIli di bambino e un gridar rauco: - Assassino!... lasciatemi, sangue di Dio!... Assassino, assassino!... - Saverio!... per carità, Saverio!... Il padrone, terribile nella faccia accesa, gli occhi iniettati di sangue, i capelli rossicci sconvolti, si precipitò nella camera, come una furia. - Assassino!... dov'è l'assassino?... - E corse addosso alla cassa. Le guardie furono a tempo ad afferrarlo. Contorcendosi, tentando di svincolarsi, con la bava alla bocca, egli gridava parole mozze. - Il cuore debbo mangiargli... a cotesto infame!.. Mi ha rovinato!.. I'Albergo è rovinato!... - E nella rabbia dell'impotenza, gonfiò le gote e lanciò uno sputo che andò a stamparsi sulla fronte del morto. - Carogna, tieni! L'ispettore, facendo fischiare più forte l'aria fra i denti, gli si fece incontro, gli posò una mano sulla spalla, e disse, guardandolo fermo: - Principale, che facciamo? Restarono un momento così, gli occhi negli occhi. Il pretore guardava, impassibile, stropicciandosi le dita. Poi il padrone, fremente, con le labbra strette e le mascelle contratte, si lasciò portar via, barcollando. - Su, facciamo presto. Il becchino s'inginocchiò, inchiodò la cassa, leggermente; le guardie la presero da capo e piedi e gliela misero sulle spalle. Pel corridoio angusto, giù per la scaletta dalla volta bassa, il carico andava sbattendo di qua e di là. - Adagio!... attento alla porta!... più basso! - avvertivano don Ciccio e donna Vincenza. Sul marciapiede, la folla indietreggiò. La guardia aperse lo sportello del carrozzone, e come la cassa vi sdrucciolò, lo richiuse, sbattendolo. - Al deposito - disse al becchino, consegnandogli l'ufficio del pretore. Come il carrozzone fu partito, donna Vincenza, nel risalire, vide qualcosa di bianco per terra. - La lettera del passeggiere! - «Municipio di Messina» - lesse il pretore, interrompendo la redazione del verbale - «Oggetto: concorso fra gl'insegnanti elementari. Le si partecipa, in risposta alla sua del 20 corrente mese che, ai termini dell'avviso 8 ottobre, quando la patente di grado superiore è conseguita prima del 1878, occorre espressamente, per essere ammessi al concorso, il certificato speciale di abilitazione allo insegnamento della ginnastica. Tale essendo il suo caso, la commissione non può passare all'esame dei titoli già presentati se la Signoria Vostra non le farà pervenire il certificato di cui sopra.» FINE.
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Poi le pecore si arrestavano immobili, strette fra di loro, col muso a terra, e il cane finiva d' abbaiare in un uggiolato lungo e lamentevole, seduto sulla coda. In quella passò una civetta, e si mise a stridere sul casolare. - Lontano sia! - mormorò Carmenio facendosi la croce - che son figlio di Maria! A star solo nel casolare colla mamma la quale non parlava più, gli veniva voglia di piangere. - Mamma, che volete? Mamma, avete freddo? - Ella non rispondeva, colla faccia scura. Accese il fuoco, fra i, due sassi del focolare, e si mise a vedere come ardevano le frasche, che facevano una fiammata, e poi soffiavano come se ci dicessero su delle parole. Quando erano nelle mandre di Resecone, quello di Francofonte, a veglia, aveva narrato certe storie di streghe che montano a cavallo delle scope, e fanno degli scongiuri sulla fiamma del focolare. Carmenio si rammentava tuttora la gente della fattoria, raccolta ad ascoltare con tanto d' occhi, dinanzi al lumicino appeso al pilastro del gran palmento buio, che a nessuno gli bastava l'animo di andarsene a dormire nel suo cantuccio, quella sera. Giusto ci aveva l' abitino della Madonna sotto la camicia, e la fettuccia di santa Agrippina legata al polso, che s' era fatta nera dal tempo. Nella stessa tasca ci aveva il suo zufolo di canna, che gli rammentava le sere d' estate - juh! juh! - quando si lasciano entrare le pecore nelle stoppie gialle come l' oro, dappertutto, e i grilli scoppiettano nell'ora di mezzogiorno, e le lodole calano trillando a rannicchiarsi dietro le zolle col tramonto, e si sveglia l' odore della nepitella e del ramerino. - Juh! juh! Bambino Gesù! - A Natale, quando era rimasto al paese, suonavano così per la novena, davanti all' altarino illuminato e colle frasche d' arancio, e in ogni casa, davanti all' uscio, i ragazzi giocavano alla fossetta, col bel sole di dicembre sulla schiena. Poi erano andati alla messa di mezzanotte, in folla coi vicini, urtandosi e ridendo per le strade buie. Ah! perchè adesso ci aveva quella spina in cuore? e la mamma che non voleva rispondergli? Ancora per mezzanotte ci voleva un gran pezzo. Fra i sassi delle pareti senza intonaco pareva che ci fossero tanti occhi ad ogni buco, che guardavano dentro, nel focolare, gelati e neri. Sul suo stramazzo, in un angolo, era buttato un giubbone, lungo disteso, che pareva le maniche si gonfiassero; e il diavolo del San Michele Arcangelo, nella immagine appiccicata a capo del lettuccio, digrignava i denti bianchi, colle mani nei capelli, fra i zig-zag rossi dell' inferno. - Se sapevo! - pensava Carmenio - era meglio dire a curatolo Decu di non lasciarmi solo. Di fuori, nelle tenebre, di tanto in tanto si udivano i campanacci delle pecore che trasalivano. Dallo spiraglio si vedeva il quadro dell' uscio nero come la bocca di un forno, null' altro. E la costa dirimpetto, e la valle profonda, e la pianura della Lamia, tutto si sprofondava in quel nero senza fine, che pareva si vedesse soltanto il rumore del torrente, laggiù, a montare verso il casolare, gonfio e minaccioso. Se sapeva, anche questa! prima che annottasse correva al paese a chiamare il fratello; e certo a quell'ora sarebbe qui con lui, ed anche Lucia e la cognata. Allora la mamma cominciò a parlare, ma non si capiva quello che dicesse, e brancolava pel letto colle mani scarne. - Mamma! mamma! cosa volete? - domandava Carmenio - ditelo a me che son qui per questo, Ma la mamma non rispondeva. Dimenava il capo anzi, come volesse dir no! no! non voleva. Il ragazzo le mise la candela sotto il naso e scoppiò a piangere dalla paura. - O mamma! mamma mia! - piagnucolava Carmenio - O che sono solo e non posso darvi aiuto! Aprì l'uscio per chiamare quelli della mandra dei fichidindia. Ma nessuno l'udiva. Dappertutto era un chiarore denso; sulla costa, nel vallone, laggiù al piano, come un silenzio fatto di bambagia. Ad un tratto arrivò soffocato il suono di una campana che veniva da lontano, 'nton! 'nton! 'nton! e pareva quagliasse nella neve. - Oh, Madonna santissima! - singhiozzava Carmenio - Che sarà mai quella campana? O della mandra dei fichidindia, aiuto! O santi cristiani, aiuto! Aiuto, santi cristiani! - si mise a gridare. Infine lassù, in cima al monte dei fichidindia, si udì una voce lontana, come la campana di Francofonte. - Ooooh... cos'èeee? cos' èeee?... - Aiuto, santi cristiani! aiuto, qui da curatolo Decuuu!... - Ooooh...rincorrile le pecoreee!... rincorrileeee!... - No! no! non son le pecore.... non sono!
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Un cane s'era messo ad abbaiare in lontananza. E ai tre amici pareva di sognare quando si udì il fischio del tramvai, che andavano a raggiungere mezz'ora prima, tomo se fosse passato un secolo. Il Pigna disse che bisognava scavare una buca profonda, per nascondere quel ch'era accaduto, e costrinsero Ambrogio per forza a strascinare la morta nel prato, com'erano stati tutti e tre a fare il marrone. Quel cadavere pareva di piombo. Poi nella fossa non c'entrava. Carlino gli recise il capo, col coltelluccio che per caso aveva il Pigna. Poi quand'ebbero calcata la terra pigiandola coi piedi, si sentirono più tranquilli e si avviarono per la stradicciuola. Ambrogio sospettoso teneva d'occhio il Pigna che aveva il coltello in tasca. Morivano dalla sete, ma fecero un lungo giro per evitare un'osteria di campagna che spuntava nell'alba; un gallo che cantava nella mattinata fresca li fece trasalire. Andavano guardinghi e senza dire una parola, ma non volevano lasciarsi, quasi fossero legati insieme. I carabinieri li arrestarono alla spicciolata dopo alcuni giorni; Ambrogio in una casa di mal affare, dove stava da mattina a sera; Carlo vicino a Bergamo, che gli avevano messo gli occhi addosso al vagabondare che faceva, e il Pigna alla fabbrica, là in mezzo al via vai dei lavoranti e al brontolare della macchina; ma al vedere i carabinieri si fece pallido e gli s'imbrogliò subito la lingua. Alle Assise, nel gabbione, volevano mangiarsi con gli occhi l'un l'altro, chè si davano del Giuda. Ma quando ripensavano poi al cellulare com'era stato il guaio, gli pareva d'impazzire, una cosa dopo l'altra, e come si può arrivare ad. avere il sangue nelle mani cominciando dallo scherzare.