Il locatore che si è riservata la facoltà di recedere dal contratto per abitare egli stesso nella casa locata deve dare licenza motivata nel termine stabilito dagli usi locali.
Con l'autorizzazione del giudice il debitore può continuare ad abitare nell'immobile pignorato, occupando i locali strettamente necessari a lui e alla sua famiglia.
In caso di separazione giudiziale, di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili dello stesso, nel contratto di locazione succede al conduttore l'altro coniuge, se il diritto di abitare nella casa familiare sia stato attribuito dal giudice a quest'ultimo.
Salvo quanto previsto dall'articolo 337-sexies del codice civile, in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni. Ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite, il medesimo ha diritto di continuare ad abitare nella casa di comune residenza per un periodo non inferiore a tre anni.
Il diritto di cui al comma 42 viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza o in caso di matrimonio, di unione civile o di nuova convivenza di fatto.
Qualora tale presupposto non ricorra il giudice non ha il potere di disporre dell'assegnazione della casa coniugale ed il provvedimento di autorizzazione ad abitare deve considerarsi un provvedimento aspecifico non opponibile a colui che, già titolare di un diritto reale sull'immobile, lo aveva concesso a titolo di comodato.
Abitare: un diritto, non una semplice aspettativa
L'espressione "diritto di abitare" intende esprimere non una speranza generica o una mera aspettativa, che spetta ai pubblici poteri stabilire se e quando soddisfare, ma, appunto, un diritto con tutto ciò che ne deriva in termini di urgenza e necessità di riconoscimento concreto ed effettivo, superando le difficoltà che si oppongono alla sua attuazione e che costituiscono altrettanti ostacoli alla realizzazione della persona. In altri termini, il diritto all'abitazione dev'essere ricompreso tra i diritti primari della persona, il cui soddisfacimento, al pari del lavoro, costituisce l'elemento fondamentale per un positivo inserimento nella società e per un'effettiva integrazione sociale.
Il figlio maggiorenne anche se lavora in un'altra città non perde il diritto ad abitare nella casa assegnata alla madre né il diritto al mantenimento
La Suprema Corte ritorna ad occuparsi di assegnazione della casa familiare nella crisi matrimoniale affrontando la problematica connessa alla cointestata conservazione del diritto ad abitare la casa da parte del figlio maggiorenne che lavora saltuariamente fuori città.
Il potere giudiziale di assegnazione della casa familiare, secondo l'orientamento dominante della Corte di Cassazione, affermatosi ancora prima della novella del 2006, è strettamente ancorato alle esigenze della prole e, pertanto, non crea un titolo di legittimazione ad abitare in capo ad uno dei coniugi, ma mira piuttosto a garantire il diritto della prole a mantenere il proprio habitat domestico, anche dopo la separazione dei genitori. L'istituto pone numerosi problemi applicativi in specifiche ipotesi (alloggio offerto in comodato, alloggio di servizio, alloggi abusivi o occupati sine titolo). Un ultimo significativo aspetto pratico, legato all'assegnazione della casa coniugale, attiene poi al significato da attribuire al termine "coabitazione", soprattutto nel caso di figli impegnati in corsi di studi fuori sede.
Abbandonare quei luoghi, abitare le soglie