In quella grotta i diamanti, a mucchi per terra, abbagliavano. Vistosi solo, Sua Maestà si chinava e se ne riempiva le tasche. Ma nella stanza appresso, i diamanti, sempre a mucchi, eran più grossi e più belli. Il Re si vuotava le tasche, e tornava a riempirsele di questi. Così fino all'ultima stanza, dove, in un angolo, si vedevano ammonticchiate le arance d'oro del giardino reale. C'era lì una bisaccia, e il Re la colmò. Or che sapeva il motto, vi sarebbe ritornato più volte. Uscito fuor della Grotta, colla bisaccia in collo, trovò il contadino che lo attendeva. - Maestà, la Reginotta ora è mia. Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? - Domanda qualunque grazia e ti verrà concessa. Ma per la Reginotta nettati la bocca. - Maestà, e la vostra parola? - Le parole se le porta il vento. - Quando sarete al palazzo ve ne accorgerete. Arrivato al palazzo, il Re mette giù la bisaccia e fa di vuotarla. Ma invece di arance d'oro, trova arance marce. Si mette le mani nelle tasche, i diamanti son diventati tanti gusci di lumache! Ah! quel pezzo di contadinaccio gliel'avea fatta! Ma il cardellino la pagava. E tornò a martoriarlo. - Dove sono le mie arance d'oro? - Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò. - Non ti farò più nulla. - Son lì dove le avete viste; ma per riaverle bisogna conoscere un altro motto, e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso. Il Re lo mandò a chiamare: - Facciamo un altro patto. Dimmi il motto per riprendere le arance e la Reginotta sarà tua. - Parola di Re? - Parola di Re! - Maestà il motto è questo: "Ti sto addosso: Dammi l'osso." - Va bene. Il Re andava e ritornava più volte colla bisaccia colma, e riportava a palazzo tutte le arance d'oro. Allora si presentò il contadino: - Maestà, la Reginotta ora è mia. Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone? - Quello è il tesoro reale: prendi quello che ti piace. Quanto alla Reginotta, nettati la bocca. - Non se ne parli più. E andò via. Da che il cardellino era in gabbia, le arance d'oro restavano attaccate all'albero da un anno all'altro. Un giorno la Reginotta disse al Re: - Maestà, quel cardellino vorrei tenerlo nella mia camera. - Figliuola mia, prendilo pure; ma bada che non ti scappi. Il cardellino nella camera della Reginotta non cantava più. - Cardellino, perché non canti più? - Ho il mio padrone che piange. - E perché piange? - Perché non ha quel che vorrebbe. - Che cosa vorrebbe? - Vorrebbe la Reginotta. Dice: "Ho lavorato tanto, E le fatiche mie son sparse al vento." - Chi è il tuo padrone? Quello zotico? - Quello zotico, Reginotta, è più Re di Sua Maestà. - Se fosse vero, lo sposerei. Va' a dirglielo, e torna subito. - Lo giurate? - Lo giuro. E gli aperse la gabbia. Ma il cardellino non tornò. Una volta il Re domandò alla Reginotta: - O il cardellino non canta più? É un bel pezzo che non lo sento. - Maestà, è un po' malato. E il Re s'acchetò. Intanto la povera Reginotta viveva in ambascia: - Cardellino traditore, te e il tuo padrone! E come s'avvicinava la stagione delle arance, pel timore del babbo, il cuore le diventava piccino piccino. Intanto venne un ambasciatore del Re di Francia che la chiedeva per moglie. Il padre ne fu lieto oltremodo, e rispose subito di sì. Ma la Reginotta: - Maestà, non voglio: vo' rimanere ragazza. Quello montò sulle furie: - Come? Diceva di no, ora che avea impegnato la sua parola e non potea più ritirarla? - Maestà, le parole se le porta il vento. Il Re non lo potevan trattenere: schizzava fuoco dagli occhi. Ma quella, ostinata: - Non lo voglio! Non lo voglio! Vo' rimanere ragazza. Il peggio fu quando il Re di Francia mandò a dire che fra otto giorni arrivava. Come rimediare con quella figliolaccia caparbia? Dallo sdegno, le legò le mani e i piedi e la calò in un pozzo: - Di' di sì, o ti faccio affogare! E la Reginotta zitta. Il Re la calò fino a metà. - Di' di sì, o ti faccio affogare! E la Reginotta zitta. Il Re la calava più giù, dentro l'acqua; le restava fuori soltanto la testa: - Di' di sì, o ti faccio affogare! E la Reginotta zitta. - Dovea affogarla davvero? E la tirò su; ma la rinchiuse in una stanza, a pane ed acqua. La Reginotta piangeva: - Cardellino traditore, te e il tuo padrone! Per mantenere la parola ora patisco tanti guai! Il Re di Francia arrivò con un gran seguito, e prese alloggio nel palazzo reale. - E la Reginotta? Non vuol farsi vedere? - Maestà, è un po' indisposta. Il Re non sapeva che rispondere, imbarazzato. - Portatele questo regalo. Era uno scatolino tutto d'oro e di brillanti. Ma la Reginotta lo posò lì, senza neppur curarsi d'aprirlo. E piangeva. - Cardellino traditore, te e il tuo padrone! - Non siamo traditori, né io, né il mio padrone. Sentendosi rispondere dallo scatolino, la Reginotta lo aperse. - Ah, cardellino mio! Quante lagrime ho sparse. - La tua Sorte volea così. Ora il destino è compito. Sua Maestà, conosciuto chi era quel contadino, le diè in dote l'albero che produceva le arance d'oro, e il giorno appresso la Reginotta sposò il Re di Francia. E noi restiamo a grattarci la pancia.
Coperta bianchissima, lenzuola e guanciali che abbagliavano. Doveva dormire là? Ah, povera lei! Avrebbe insudiciato ogni cosa. - Tu qui; io dormirò di là, nella camera accanto. - Ah, no, signora! Voi non sapete! Mi hanno chiamato Carbonella, anche perché ho la disgrazia di macchiar di nero tutto quel che tocco! Dormirò sullo strame della prima stanza! ... Siete voi la Fortuna, buona signora? Non poté più trattenersi dal domandarglielo. - Dormi, e non curarti d'altro! E la lasciò sola, sbigottita. La mattina dopo, svegliandosi, Carbonella si trovò distesa su lo strame della stanza affumicata, col suo fagottino per guanciale. Aveva sognato? Non arrivava a persuadersene. E sentiva di nuovo, su la punta della lingua, la domanda: Siete voi la Fortuna? - Ma rammentava - oh, non aveva sognato! - di avergliela già fatta la sera avanti; e colei le aveva risposto: - Dormi e non curarti d'altro! - segno evidente che non era la Fortuna, o che non voleva darsi a conoscere. - Ed ora dove andrai? - Dove mi portano i piedi, alla ventura. Se potessi incontrare la Fortuna! L'hanno incontrata tanti, dicono: essa sola potrebbe aiutarmi. - Ah, figliuola mia! La Fortuna è capricciosa: oggi dà, domani toglie; dà senza discernimento, toglie allo stesso modo: è una pazza. Se la incontri, non guardarla neppure in viso; da' retta a me. - Ma come faccio, col difetto di insudiciar di nero quel che tocco? - Per questo c'è rimedio. Non avere schifo. Ficca le mani in questo mucchio di letame, e tiencele finché potrai sopportare il bruciore che sentirai. Carbonella esitò un momento, e poi ficcò le mani nel letame. Cominciò a provare un lieve calore che andò di mano in mano aumentando. - Ahi! Ahi! - Non è niente, Carbonella; sopporta ancora. Pazienza! Le pareva di aver le mani tra la brace; si contorceva, ma l'idea di guarire di quel difetto le dava forza e coraggio. - Ahi! Ahi! Le ritrasse. Sembravano carbonizzate: erano più nere di prima, ma non le frizzavano più. Toccò un panno ... e vi lasciò una macchia non nera, ma gialliccia scura, del colore del letame. Valeva la pena di essersi lasciate bruciare le mani a quel modo! O nero, o gialliccio, quelle sue mani disgraziate macchiavano sempre! - Perché mi avete ingannata? - Non ti ho ingannata, vedrai! Carbonella finse di crederle. Chi sa? Quella brutta vecchia poteva farle qualche peggior male! La ringraziò e andò via; avanti, avanti, per la campagna, alla ventura, poverina! Pensava che colei le aveva detto: - Se incontri la Fortuna, non guardarla neppure in viso! Altro che guardarla in viso, se l'avesse incontrata! Le si sarebbe afferrata alla gonna e non l'avrebbe lasciata, se non ne avesse ricevuto i più ricchi doni! E per ciò, imbattendosi in qualche donna, vecchia o giovane, la fermava: - Siete voi la ortuna? Tutte la guardavano stupite della domanda, e non rispondevano nemmeno: tiravano via, crollando il capo; la credevano una scema. Giunse in riva a un fiume. Su l'erba erano sciorinati al sole tanti panni di bucato, e non c'era nessuno che li guardasse. Carbonella pensò di lavarsi le mani con l'acqua corrente, e più le stropicciava e più l'acqua s'intorbidava col colore gialliccio scuro del letame; se non che, col sole, quel colore luccicava come l'oro. Visto che a guardia dei panni non c'era nessuno, ne prese uno, il primo che le capitò davanti, e si asciugò le mani. Pur troppo, vi restavano tante impronte giallicce, impronte delle mani in varii atteggiamenti, e così nette e così precise, che sembravano dipinte. Tornò a lavarsele, a stropicciarle forte: l'acqua s'intorbidava col colore gialliccio scuro del letame; se non che, anche questa volta, col sole, quel colore luccicava come l'oro. Era inutile. E prese un altro panno (sembrava una camiciona) e vi si asciugò le mani. Pur troppo, tante impronte di mani, ma così nette e precise che sembravano dipinte. Stava per sciorinarlo novamente su l'erba, quando accorsero da più parti i guardiani. - Ah, scellerata! Che cosa hai fatto? Hai macchiato la biancheria della famiglia reale! Tentò di scappare; ma coloro la raggiunsero, l'afferrarono, la legarono con le mani dietro la schiena, e la trascinarono, piangente, mezza viva e mezza morta, al cospetto del Re. - Perché hai tu fatto questo? - Maestà, perdonatemi. Io non sapevo ... Se avessi saputo, Maestà ... E il pianto le impediva di parlare. Il Re si convinse che una ragazzina di quell'età non poteva aver voluto recare sfregio al bucato reale, e ordinò che la mettessero in libertà. - Si rifaccia il bucato. La colpa è tutta vostra che non avete fatto buona guardia. A Carbonella non parve vero di essere rilasciata senza nessun gastigo, e prese di nuovo per la campagna, lusingandosi sempre che, un giorno o l'altro, avrebbe incontrato la Fortuna. Le lavandaie rifecero il bucato, ma le impronte delle mani non andarono via; e quando i panni furono asciutti, quelle impronte scure erano diventate luccicanti quasi fossero state d'oro. Il Re, la Regina, il Reuccio vollero vederle e rimasero sbalorditi; erano infatti impronte d'oro! Il Reuccio, più di tutti, le guardava estasiato. - Ah! queste mani! Le più piccole, le più belle manine del mondo! Era proprio così! Quel camicione sembrava ornato di finissimi ricami di lamine d'oro. Le impronte erano così nette, e così ben modellate, che vi si scorgevano fin le più minute accidentalità della pelle. - Ah! quelle mani! Le più piccole, le più belle mani del mondo! E da quel giorno in poi, il Reuccio fu colpito dalla fissazione di voler vedere colei che possedeva le più piccole, e le più belle manine del mondo. Invano il Re diceva: - É una ragazza nera, cenciosa, sudicia da far rivoltare lo stomaco. L'ho vista io; e quelle mani che qui sembrano una meraviglia hanno la pelle abbruciacchiata! ... - Ah! quelle mani! Le più piccole, le più belle manine del mondo! La fissazione del Reuccio aumentava di giorno in giorno, quasi gli avessero fatto una malia. Allora il Re, per amore del figlio, spedì parecchi corrieri alla ricerca di quella ragazza. Colui che primo la trovava e la conduceva al palazzo reale, avrebbe potuto chiedere qualunque grazia; gli sarebbe stata concessa. Trascorsero due settimane senza nessuna notizia di Carbonella. Chi l'aveva vista in un posto, chi in un altro: - Ieri è passata di qua; oggi è passata di là; ha preso questo sentiero; si è internata in quel bosco. - Ma corri, cerca, fruga, nessun vestigio di Carbonella. E la fissazione del Reuccio aumentava sempre più, quasi gli avessero fatto una malia. Finalmente, giunge un corriere e dice: - Maestà, la ragazza è trovata. É a servizio da certi padroni che, per rilasciarla, non solamente vogliono un ordine scritto di pugno del Re, ma che Sua Maestà prenda impegno di rimandargliela in casa tra due giorni, al più tardi. Il Re montò in furia: - Ah, si? Un ordine scritto di pugno di Sua Maestà? Andate e trascinateli qui, legati alle code dei vostri cavalli. La ragazza, all'opposto, la condurrete in lettiga. E così Carbonella ricomparve di nuovo in presenza del Re. Era più nera, più sciatta che mai, Carbonella addirittura; ma ,vispa e tranquilla, perché sapeva di non aver fatto, questa volta, niente di male. La tremarella l'avevano addosso i suoi padroni trascinati fino al palazzo regale, legati alle code dei cavalli. - Perché non volevate lasciar venire la ragazza? - Perdono, Maestà; avevamo un patto con lei: mangiare, bere e vestire, e doveva servirci per dieci anni. - Come mai questo patto? - Per carità di lei, Maestà. - Infatti è così ben nutrita, è così ben vestita, che sembra una stracciona morta di fame! E che servigi doveva fare? - Quasi niente, Maestà. Lavava i panni, ripuliva ... Erano impacciati; non dicevano la verità; quel che la ragazza toccava, bagnato, sembrava macchiato di giallo scuro; asciutto, luccicava come coperto d'oro; ed era oro davvero. Volevano arricchirsi, facendola sfacchinare da mattina a sera; la ragazza ignorava la virtù delle sue mani. - Per ora, andate in carcere. Al patto dei dieci anni ci penseremo poi! Il Re e la Regina, vedendo Carbone!la così mal ridotta, con quelle mani che sembravano bruciacchiate, furono molto contenti; la fissazione del Reuccio sarebbe sùbito sparita. - Come ti chiami? - Non lo so; mi dicono Carbonella: anche mia madre mi chiamava così. É morta; non ho più nessuno al mondo. - E perché vai di qua e di là? - Voglio incontrare la Fortuna. L'hanno incontrata parecchi, ho sentito dire. Chi sa che non la incontri anch'io! - E che vorresti dalla Fortuna? - Quel che le piacerebbe di darmi. Re e Regina si guardarono in viso, stupiti di tali risposte. La Regina disse al Re sottovoce: - Costei, Maestà, ha qualche cosa che non mi piace. - Dite bene, Regina: qualcosa che non piace neppure a me. - Che sia una Strega? - Può darsi. Lo scopriremo subito. Facciamo chiamare il Reuccio. - Alla vista di Carbonella, il Reuccio indietreggiò nauseato. - Ecco qui, Reuccio, quelle che voi credete le più piccole e le più belle mani del mondo! Per piccole, erano piccole, ma belle, no davvero! Egli le guardava, poco convinto che le impressioni lasciate sui panni provenissero proprio da esse. - Fammi vedere! Fammi vedere! Carbonella tese le mani, voltandole e rivoltandole, perché il Reuccio le osservasse bene. - Chi te l'ha bruciacchiate? - Nessuno. Dapprima macchiavo di nero tutto quel che toccavo; era una gran disgrazia. Una vecchia mi disse: Ficcale in quel mucchio di letame, e tiènvele finché potrai. Quel letame scottava, e perciò le mie mani sono così bruciacchiate. Ora invece macchio in giallo scuro tutto quel che tocco; è un'altra grave disgrazia! Il Reuccio le guardava con repugnanza, poco convinto che le impressioni lasciate nei panni provenissero proprio da esse. - Lasciatemi vedere! Lasciatemi vedere! Carbonella, ridendo, tendeva le mani, voltandole e rivoltandole, perché il Reuccio potesse osservarle meglio. - No, no, no! ... Non sono queste! Vi fate beffa di me! Il Reuccio, singhiozzando e piangendo, uscì dalla sala. - Scellerata! Scellerata! Che malia hai tu fatta al Reuccio? - Ti faremo bruciar viva, se non disfai la malia! Carbonella, alle parole della Regina e alla minaccia del Re, cominciò a tremare come una foglia, e non sapeva che cosa rispondere. - Ti do tempo tre giorni! E intanto vai in carcere anche tu. Il Reuccio smaniava più che mal: - Ah, quelle mani! Le più piccole e le più belle mani del mondo! - Che vorreste farvene, Reuccio? - Voglio sposare chi le possiede! - Vorreste sposare Carbonella? - Non è lei, Maestà. Vi fate beffa di me? - Non c'è dubbio - disse il Re. - Qui si tratta di malia. Carbonella, in fondo al carcere, non si lamentava, non piangeva. Di tratto in tratto solamente si metteva a chiamare:- Fortuna, Fortuna! Se tu passassi da queste parti! La Fortuna doveva esser troppo lontana, se non accorreva alla chiamata di lei. Il Re, tre, quattro volte al giorno, se la faceva condurre. - Carbonella, hai riflettuto? Vuoi disfare la malia? - Ma che malia, Maestà? La trista malia è la disgrazia che mi perseguita. - Hai tempo un altro giorno. Rifletti bene, Carbonella. E Carbonella, tornata nella buia stanzuccia della sua prigione, non si lamentava, non piangeva. Di tratto in tratto solamente riprendeva a chiamare: - Fortuna, Fortuna, se tu passassi da queste parti! La Fortuna doveva essere molto lontana, se neppure questa volta era accorsa alla chiamata di lei. Il giorno dopo fu condotta di nuovo alla presenza del Re. - Carbonella, hai riflettuto? Vuoi disfare la malia? - Ma che malia, Maestà! La trista malia ... Il Re non la fece finir di parlare: - Hai tempo poche ore, Carbonella; sarai bruciata viva domani. Il Reuccio non sentiva ragione, smaniava più che mai. - Ah, quelle mani! Le più piccole e le più belle del mondo! Voglio trovare chi le possiede! Chi le possiede, voglio sposarla! - Sono quelle di Carbonella, Reuccio! Vorreste sposare Carbonella, figlio mio? - No, no, no, Maestà! Vi fate beffa di me! La Corte pareva in lutto per questa fissazione del Reuccio. - Maestà, ho pensato questo - disse il Ministro. - Facciamo fare a Carbonella quella impronta sotto gli occhi del Reuccio. Così non potrà più credere che ci beffiamo di lui. E Carbonella è così nera, così sciatta ed ha le mani così bruciacchiate, che il Reuccio certamente avrà disdegno a sposarla. Quel suggerimento del Ministro parve molto savio a Sua Maestà. Come non era venuto in mente alla Regina né a lui? Prepararono un catino con acqua, vi immersero un panno di tela finissima, e Carbonella venne condotta davanti al Re, alla Regina, al Reuccio, e a tutte le persone di Corte. - Carbonella, hai riflettuto? Vuoi disfare la malia? - Ma che malia, Maestà! La trista malia è la disgrazia che mi perseguita! - Sarai bruciata viva oggi stesso. Intanto leva questo panno dal catino e strizzalo bene. L'acqua s'intorbidò, diventò di color giallo scuro; ed ecco che nel panno strizzato si vedevano parecchie impronte delle mani di Carbonella, dello stesso colore dell'acqua; qua intere, là delle sole dita, là delle palme con qualche falange di dito, secondo che potevano imprimersi strizzando. Tutti stavano a guardare, stupiti, e più di tutti il Reuccio. A Carbonella quelle impronte sembravano cosa ovvia e naturale. Sciorinarono quel panno al sole, e, di mano in mano che si asciugava, le impronte risultavano come fatte di maraviglioso ricamo in lamine d'oro finissimo, quasi una Fata si fosse divertita a far parecchie prove e, qua e là, lasciarle incompiute. Tutti guardavano il Reuccio che sembrava diventato di sasso. Sembrava di sasso anche Carbonella, che vedeva, per la prima volta, mutarsi in oro le macchie gialle lasciate su gli oggetti dalle sue mani. Per questo quei padroni nascondevano sùbito le cose appena macchiate di giallo! Tutt'a un tratto, grande scompiglio. Il Reuccio cominciò ad agitar le braccia, a stralunar gli occhi: - Largo! Largo! Scostatevi! E ributtava indietro Re, Regina, persone di Corte. - Largo! Largo! Scostatevi! E tu, Carbonella, non ti muovere di lì! Fermi tutti; attendete! Si era fatto un gran cerchio attorno a Carbonella, che rimaneva ritta nel mezzo, con gli occhi sbalorditi e con un doloroso sorriso su le labbra. Nessuno osava di muoversi, aspettando che il Reuccio, uscito precipitosarnente dalla sala, ritornasse. E fu un urlo di tutti vedendolo ricomparire con una face accesa in mano, correre addosso a Carbonella e appiccarle foco alla veste. Quasi fosse stata di vera Carbonella, la poverina diè una vampata da capo a piedi, senza un grido, senza un atto di scampo. Solamente nascose il viso con le braccia e rimase in piedi, avvolta dalle fiamme scoppiettanti. - Ah, Reucciol Che cosa avete fatto, Reuccio! - Era Carbonella, Maestà; bisognava bruciarla! Le fiamme diminuirono, lingueggiarono un po', poi si estinsero. E dopo un po', si vedeva fitta in mezzo alla saia una forma umana, coperta di cenere, che sembrava una statua. - Ah, Reuccio! Che cosa avete fatto! - Era Carbonella, ora è cenere! Tanto meglio, Maestà. Ma ecco: la statua viene presa da lieve tremito che si accresce, si accresce, e fa cascar giù la cenere da ogni parte: ed ecco apparire una bellissima figura di donna, bianca, rosea, con capigliatura d'oro, ma che conserva infatti nel viso i lineamenti di Carbonella. Abbassate lentamente le braccia, apre gli occhi, quasi si destasse da un profondissimo sonno, sorride e tende le mani al Reuccio. - Oh, le più piccole e le più belle mani del mondo! E il Reuccio, caduto in ginocchio davanti a lei, gliele baciava e ribaciava. Carbonella, diventata Reginotta, chiese la grazia pei suoi padroni che erano in carcere. Ma le sue mani non macchiavano più gli oggetti toccati. E qui la fiaba finisce.
L'entrata della grotta si aperse, e il Re poté inoltrarsi per l'andito che aveva le pareti luminose, senza candele né lampade, e abbagliavano gli occhi. La maga Nana era a tavola. - Ben venuto, Maestà! Sedete, Maestà! Mangiate e bevete, Maestà. Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. Il Re era stupìto che già la maga Nana sapesse il motivo della sua visita. A guardarla in viso la Maga sembrava una vecchietta, ma il corpo era di una bambina di sei anni. Il Re si confondeva a rispondere: Grazie! E guardava sbalordito la tavola apparecchiata. Piatti di oro, bicchieri di oro, bottiglie di oro, posate di oro. Quattro bellissime donzelle portavano in tavola le pietanze, mutavano i piatti e le posate. La Maga divorava tutto e si versava vino quasi a ogni boccone. - Mangiate, Maestà! Bevete, Maestà! Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. E la Maga riprendeva a divorare quasi fossero quelli i suoi primi bocconi. All'ultimo: - Mangiare e dormire; dormire e mangiare è il meglio che si possa fare. Domani parleremo di vostro figlio il Reuccio. - Parliamone ora, Maga bella! - Mangiare e dormire; dormire e mangiare è il meglio che si possa fare! Domani ... domani ... E non poté finire. Si era addormentata su la seggiola. Le quattro donzelle la sollevarono tra le braccia e la portarono a letto. Si sentì a poco a poco sopraffare dal sonno anche lui, e la mattina dopo si svegliò in una bella camera, su morbidissimo letto. - Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Oh, Maestà! Che grazioso anello avete al dito! - Ecco: è per voi ... Parliamo del Reuccio, Maga bella! - Grazie! ... Oh, Maestà! Che ricca collana portate sul petto! - Ecco: è per voi ... Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Grazie! Oh, Maestà! Che magnifica cintura avete ai fianchi! - Ecco: è per voi ... Ma parliamo del Reuccio ... E fu un miracolo che il Re, un po' seccato, non soggiungesse: Maga Nana! - Si morse la lingua. La Maga infilò al dito l'anello, mise sul petto la collana, si affibbiò attorno al fianchi la cintura, e cominciò a socchiudere gli occhi, a sbadigliare e stirare le braccia, mugolando sconnesse parole. Il Re attese un po' prima d'insistere: - Parliamo del Reuccio, Maga bella! Parliamo del Reuccio, Maga buona! - Maestà ... già ... ritorno! Stirò le braccia e le gambe, si mise di nuovo a sbadigliare e aperse gli occhi. - Fata Neve l'ha chiamato, Fata Neve l'ha incantato, Per finire questo giuoco Ci vorrebbe fata Fuoco. Il Re si mise le mani ai capelli, piangendo: - Ah, povero Reuccio! ... E come fare? - Fata Neve è molto lontana, in cima alle montagne, in questo momento. Daremo al Reuccio poche gocce di Sméntica - eccola qui - e per parecchi mesi non si ricorderà più di fata Neve. Intanto ricorreremo a fata Fuoco, quella che vive nel suo palazzo sottoterra. - Ah, povero Reuccio! E come fare? - Egli è già pronto per partire. Direte ... E la maga Nana gli spiegò minutamente come doveva comportarsi. - Dunque, Reuccio, siete deciso? - Decisissimo, Maestà. - E non v'importerebbe di non trovarmi vivo al ritorno? - Che dite mai, Maestà? - Beviamo, intanto, alla vostra e alla mia salute. - Volentieri, Maestà. E il Reuccio vuotò il bicchiere. Le gocce di Sméntica operarono subito. Il Reuccio, che aveva tanta fretta di mettersi in viaggio, si diè a gironzolare per le stanze canticchiando, con le mani dietro la schiena, guardando attorno quasi cercasse qualcosa che aveva smarrito. Guardava da una finestra il giardino reale tutto verde, tutto fiorito, e domandava: - Maestà, è arrivata ora la Primavera? ... E quando andrà via? - Fra tre mesi, Reuccio. - Maestà, poi verrà l'Estate, è vero? E quando andrà via? - Dopo altri tre mesi, Reuccio. Perché? - Troppi fiori in Primavera; troppo caldo in Estate. E tornava a guardare attorno, quasi cercasse qualcosa che aveva smarrito; non sapeva che cosa. Il Re da un lato era contento; dall'altro quella smemorataggine gli ispirava compassione. Il più vecchio dei Ministri disse al Re: - Maestà, se approfittassimo di questo intervallo di calma per dar moglie al Reuccio? La figlia del Re di Spagna è bellissima, dicono, e in età da marito. Mandiamolo in viaggio a quella Corte; servirà anche per distrarlo. E il giorno che il padre gliene fece la proposta, il Reuccio rispose con aria indifferente: - Andiamo a vedere questa bellezza rara! Partì, accompagnato dal vecchio Ministro, con un gran seguito e molti ricchi doni per la famiglia reale. Ma quando il Re di Spagna disse al Reuccio: - Ecco la mia Reginotta! - il Reuccio stette un po' a guardarla da capo a piedi e, rivolto al vecchio Ministro, esclamò: - È questa la gran bellezza? Mi sembra una lavandaia! Figuratevi quel che accadde! La Reginotta svenne; il Re voleva ruzzolar dalle scale l'impertinente Reuccio, e senza l'astuzia del vecchio Ministro che dichiarò il Reuccio improvvisamente ammattito, ne sarebbe nata una guerra. - Ah, Reuccio! Reuccio! Come vi è passata per la testa ... - Ho detto quel che mi avete suggerito voi ... - Io? Ah, Reuccio! - Voi o un altro non so; suggerito all'orecchio: "È questa la gran bellezza? Mi sembra una lavandaia!". Non è forse vero? - Io? Io? Reuccio! Il vecchio Ministro non sapeva darsene pace. Il Re capì benissimo chi aveva sussurrato all'orecchio del Reuccio quelle brutte parole: fata Neve certamente. Ah! il sortilegio durava ancora! Infatti, di tratto in tratto il Reuccio domandava: - È arrivato l'Autunno, è vero, Maestà? - Che ve n'importa, Reuccio? - Niente. Poi, dopo, sopraggiunge l'Inverno, è vero, Maestà? - Che ve ne importa, Reuccio? - Non so; mi pare che l'Inverno debba apportarmi una gran gioia. Il Re si turbò grandemente sentendolo parlare così. - L'inverno, Reuccio, è la più brutta stagione dell'anno. Non mise tempo in mezzo. Tornò dalla maga Nana. - Maga buona! Maga bella! Le gocce di Sméntica non giovano più! - Sedete, Maestà. Mangiate e bevete. Poi parleremo di vostro figlio il Reuccio. Ah, Maestà! Che bel braccialetto avete al polso! - Ecco: è per voi ... Maga buona! - Grazie! E quel fermaglio con due stelle diamantate? - Anch'esso è per voi ... Maga bella! Ma parliamo del Reuccio! - Grazie! Che bello smeraldo avete al dito! - È vostro, Maga buona! Maga bella! ... Ma parliamo ... - Vado e torno! Socchiuse gli occhi, sbadigliò, stirò le braccia, borbottando sconnesse parole, e si addormentò come l'altra volta. Stiè un pezzo così. Quando si svegliò sembrava molto stanca. - Sono andata lontano, per amor vostro, Maestà, dai miei grandi Maestri. Fata Neve sta per arrivare. Bisogna ricorrere a fata Fuoco, la sua forte nemica. Vi conduco io. Venite. La maga Nana andava lesta; pareva che non posasse i piedi al suolo. Il Re stentava a seguirla. Che non avrebbe fatto, povero padre, pur di salvare il Reuccio? - Vi avverto, Maestà: bisogna accennare a fata Neve senza punto nominarla. Ed ora, sprofondiamoci sotterra. Da principio, buio fitto. Non si sapeva dove mettere i piedi. Poi, una luce fioca, che aumentava fino a un chiarore di luna piena; e poi ... Le mura, le volte del lungo andito brulicavano come di fiamma e, in fondo, i gradini della scala che conduceva giù negli appartamenti, sembravano di fiamma viva, ed erano più solidi del marmo. Il Re, che, da principio, aveva avuto paura di rimanere carbonizzato, visto che quelle fiamme avevano maravigliosa ma innocua apparenza, s'inoltrò con animo lieto fino al vasto salone. Fata Fuoco sembrava la vibrante lingua di una splendida fiamma, con su una bellissima testa di donna attorno a cui si agitavano lunghi capelli d'oro come aureola irrequieta. - Fata Fuoco! Fata Fuoco! Voi sola potete salvare mio figlio il Reuccio! - Chi lo minaccia? - Un pericolo ignoto ... ma certo! - disse la maga Nana. - D'uomo ... o di nonna? - Chi sa chi sa? - rispose il Re. -Vedermi, sì, dice, toccarmi, no! La fiamma del corpo di fata Fuoco si contorse, si oscurò, l'aureola dei capelli cessò di vibrare, e davanti al Re apparve una vecchina vestita di un umile abito cinericcio, coi bianchi capelli raccolti attorno alle tempie, con lo sguardo sereno e la bocca sorridente. Usciti all'aria aperta, fata Fuoco disse al Re: - Maestà, afferratevi forte a un lembo della mia veste. Dobbiamo volare due giorni e due notti per giungere in tempo. Voi, Maga, non ne avete bisogno. Addio, Maga! Il Re si sentì portar via leggero come una piuma. Vola! Vola! Vola! Due giorni e due notti! - Ahimè! - sospirò la Fata. - Forse arriviamo troppo tardi! Volteggiarono per l'aria piccoli e varii fiocchi di neve. Il Re si guardò bene di nominare quell'altra Fata! Salendo le scale del palazzo reale, fata Fuoco si era trasfigurata in bellissima giovane, riccamente vestita, ornata di preziosi gioielli. - Reuccio! Reuccio! - disse il Re. - Ecco la bellezza in persona! Il Reuccio era affacciato alla finestra. Guardava, estasiato, i piccoli fiocchi di neve che volteggiavano per l'aria; e, lontana, lontana, tra le nuvole rosee, vedeva, quasi ombra bianca e trasparente, colei che gli era tornata nella mente e nel cuore, e che egli stava per credere perduta per sempre. - Reuccio! Reuccio! ... Ecco la bellezza in persona! Il Reuccio si voltò, la guardò da capo a piedi, e sprezzantemente rispose: Questa la bellezza in persona? Mi sembra una lavandaia! E tornò a festeggiare con gli occhi i fiocchi di neve che ora volteggiavano più fitti per l'aria, e l'ombra bianca e trasparente che si avvicinava, trasportata lievemente dal vento. Fata Fuoco era sparita. Il Re, mezzo svenuto dall'ambascia, piangeva in un angolo della stanza. - Eccola! Eccola! Il Reuccio capì in quel momento che la sua vita andava a confondersi, a perdersi nel divino fantasma bianco: - Vedermi, sì; toccarmi, no! Sembravano parole di minaccia, di condanna, ed eran state per lui dolce ammonimento di un bel sogno. Infatti, la mattina dopo, quando trovarono il cadavere del Reuccio sotto un soffice strato di neve - e pareva serenamente addormentato - il vecchio Ministro esclamò: - Sorride ancora al suo sogno! Fiaba di neve, fiaba di fuoco, Se non vi spiace, fatele luogo. Fiaba di fuoco, fiaba di neve, Chi ben comprende cara la tiene.
Il sole la faceva apparir bianca, con riflessi che ci abbagliavano. E noi c'inoltravamo per le strade deserte, saltavamo i fossi, risalivamo il letto secco di un torrente ove io trovai quel ciottolo di marmo verde, venato di bianco e di nero, sul quale poi incisi il tuo nome a lettere di oro. Seduti sull'argine, quasi fuor del mondo, di che si ragionava? Vattel'a pesca! Certamente di cose deliziosissime. Non ci accorgevamo della vampa del sole, né del vento che scompo neva i fiori del tuo cappellino di paglia e voleva stracciare il tuo velo scuro. Le ore passavano inavvertite. Ah, la campagna! Ah, il sole! Ti avevo strappato il tuo segreto; ero felice nella mia desolazione; ti avevo visto piangere! Che potevo pretendere di piú? Ma ogni speranza mi era chiusa. Oh, com'era dolce pensar tutto questo passato lontano, lontano - fiaba, leggenda, mi pareva - mentre il cavallo sfangava sulla strada di Cassano sballottando il legno su cui tu sedevi accanto a me, ora mia, proprio mia! Tu forse pensavi le stesse cose. Era difficile non pensarci. Che brutta giornata! Cominciò a piovere. La camera di quel meschino "Grande Albergo" dava sulla corte e non era punto bella; ma noi vi mettemmo subito la nostra allegria. Che risate calde! Eravamo tornati fanciulli. E la sala da pranzo? Che appetito con quell'umido che s'infiltrava anche lí dentro, con quella nebbia che s'incollava insistente ai vetri delle imposte! Dopo desinare, la sala si empí del fumo delle nostre sigarette, cioè delle mie; tu ne fumasti appena una. Guardavamo fuori, in piazza, le botteghe, i contadini che passavano sotto grandi ombrelli bagnati dall'acquerugiola che non voleva finire, le contadine con le spalle appoggiate alle soglie, le mani sul seno o ciondoloni, ciarlanti da un uscio all'altro, dalla via e dalle finestre, e che ridevano o facevano smorfie, secondo i discorsi. Ci contentavamo di quello spettacolo, invece dell'altro che c'eravamo immaginato venendo. L'importante era stare insieme una giornata, ignorati, lontani dagl'importuni. Pioveva? Tanto meglio; non ci stancavamo a correre pei campi, com'era nostra intenzione. Le imposte della sala erano tempestate di nomi, di date. Altre persone che si volevano bene erano state là prima di noi e vi aveano lasciato un ricordo. C'erano anche dei versi del Byron, che ora piú non rammento. - Chi può essere questa Jenny firmata sotto questi versi? - Una vecchia zittellona brutta, sdentata, dagli occhiali verdi - dicevo io. - Una miss Chiaro-di-luna - dicevi tu. Sciocchezze! Ma eravamo felici. Allora ci venne l'idea di scrivere anche i nostri nomi su quell'album di legno verniciato. E tu scrivesti: Fasma (nome di adozione) col tuo bel caratterino. Io, Oreste, con le mie orribili zampe di gallina; e mettemmo la data, data indimenticabile! Ora voglio dirtelo. Ti rammenti che io vi scrissi alcuni versi in lingua russa che tu volesti tradotti? Ho visto passare l'Amore Con un gran fascio di cure. - Dammene, Amore, - gli dissi - Dammene un po'. - Ma egli tirò diritto. Sí, sí, versi russi, cara mia! Invece erano motti foggiati lí per lí, di nessuna lingua, senza alcun senso, che io ti tradussi sfacciatamente a quel modo. Quando penso che qualche tourist li copierà per cercare di farseli tradurre anche lui! E tu ripetevi cantarellando: Ho visto passare l'Amore Con un gran fascio di cure Ora ho quasi rimorso di averti cosí canzonata. Eravamo ancora dietro i cristalli, quando passò quell'accompagnamento di morticino. La pioggia era cessata, e il cielo sorrideva qua e là di splendido azzurro. Il sole, affacciandosi dalle nuvole dorò il feretrino, luccicante di ornati di rame in rilievo, che il becchino portava su la testa sopra una tavola coperta da un bel tappeto rosso, che nascondeva la persona. Parve fatto apposta. Quel sorriso di sole venuto cosí a proposito c'intenerí. Io ti vidi gli occhi pieni di lagrime. Poi, per dieci minuti, andammo fuori, passando in punta di piedi fra la mota della piazza fino al ponte che accavalcia l'Adda. Com'era bello, come era magnifico l'Adda spumante, che veniva giú sonoro fra le larghe rive per la verde campagna! Allora sí ce la prendemmo col cattivo tempo; io specialmente, ingrato!, dicevi bene: - Ingrato! - E anche tutto questo mi sembra oggi un passato lontano lontano, una fiaba, una leggenda. Mentre scrivo, tu dormi tranquillamente nella camera accanto; mi par di sentire il tuo respiro ... Sono venuto una volta per assicurarmi se eri tu che muovevi la culla accosto al letto. No, era Lillí che armeggiava con le manine di rosa. Mi ha guardato, mi ha sorriso (mi ha riconosciuto?) e non si è messo a piangere. Sento che armeggia ancora. E la mammina cattiva dorme, come niente fosse! ...
I lampi abbagliavano, il fragore del tuono empiva la misera viuzza, impediva ai due di udirsi. Benedetto si accostò all'uscio. "Mi hanno detto" rispose la giovine senz'alzare il viso e sostando agli scoppi del tuono "che Lei forse dovrà partire da Jenne. Una Sua parola mi ha dato la Vita, la Sua partenza mi farà morire ancora. Mi ripeta quella parola, la dica per me, solo per me!" "Quale parola?" "Lei stava col signor arciprete, io ero nella stanza vicina colla fantesca e l'uscio aperto. Lei diceva che un uomo può negare Dio senza essere veramente ateo e senza meritare la morte eterna, quando nega quel Dio che gli è proposto in una forma ripugnante al suo intelletto ma poi ama la Verità, ama il bene, ama gli uomini, pratica questi amori." Benedetto tacque. Lo aveva detto, sì, ma parlando a un prete e non sapendo di venire udito da persone forse non atte a comprenderlo. Ella sospettò la cagione di quel silenzio. "Non si tratta di me" disse. "Io credo, sono cattolica. È per mio Padre che ha vissuto così ed è morto così e ... se sapesse! ... hanno persuaso anche mia madre ch'egli non ha potuto salvarsi!" Mentr'ella parlava, rade gocce, grosse, cominciarono a battere, fra i lampi e i tuoni, sulla via, macchiarono la polvere di grandi macchie, scrosciarono col vento, sferzando i muri; ma né Benedetto riparò dentro l'uscio né lei gliene fece invito, e questa fu da parte di lei la confessione sola del sentimento profondo che si copriva di misticismo e di pietà filiale. "Mi dica, mi dica" implorò, alzando finalmente il viso "che mio Padre è salvo, che lo ritroverò in Paradiso!" Benedetto rispose: "Preghi." "Dio! Solo questo?" "Si prega forse per il perdono di chi non può essere perdonato? Preghi." "Oh, grazie! Lei è sofferente?" Queste ultime parole furono sussurrate così piano che Benedetto non poté udirle. Fece un gesto di addio e si allontanò fra le ondate di pioggia che flagellavano e urtavano via per il fango la morta rosellina selvatica. Forse da una finestra, forse dalla porta dell'osteria, Noemi, che vi stava con la ragazza di Arcinazzo, lo vide passare. Si fece dare un ombrello dall'oste e lo seguì sfidando la violenza del vento e della pioggia. Lo seguì, soffrendo di vederlo a capo scoperto e senza ombrello, pensando che se non fosse stato un Santo, lo si sarebbe detto un pazzo. Uscita sulla piazza della Chiesa, vide socchiudersi un uscio a mano diritta, un prete lungo e magro guardare dall'interno. Credette che il prete avrebbe invitato Benedetto a entrare, ma invece il prete, quando Benedetto gli fu vicino, chiuse l'uscio rumorosamente, con grande sdegno di lei. Benedetto entrò in Sant' Andrea ed ella pure vi entrò. Quegli andò a inginocchiarsi davanti all'altar maggiore, ella si tenne presso la porta. Il sagrestano, che sonnecchiava seduto sui gradini di un altare, uditi i loro passi, si alzò, mosse verso Benedetto. Ma egli era del partito dei preti romani e, riconosciuto l'eretico, ritornò indietro, domandò alla signorina forestiera se potesse dirgli niente di quel giovine ammalato di Arcinazzo ch'era stato portato in Chiesa la mattina, quando il sagrestano ci aveva veduta anche lei. E soggiunse che ne domandava perché aveva l'ordine di aspettare l'arciprete che sarebbe venuto per portargli il Viatico. Noemi sapeva che l'uomo di Arcinazzo era moribondo ma non più di così. "Ho capito" disse il sagrestano, forte, con intenzione. "Non vorrà saperne di Cristo. Questi sono i belli miracoli! Sia Benedetto Iddio per i tuoni e i fulmini che altrimenti ci portavan qui la ragazza!" E ritornò a sedere, a sonnecchiare sul suo gradino. Noemi non sapeva levare gli occhi da Benedetto. Non era un proprio e vero fascino né il sentimento appassionato della giovine maestra. Lo vide vacillare, poggiar le mani ai gradini e poi voltarsi, stentatamente, a sedere, né si domandò se soffrisse. Guardava lui ma più assorta in sé che in lui, assorta in un mutamento progressivo del proprio interno che la veniva facendo diversa, non riconoscibile a se stessa, in un senso ancora confuso e cieco di una Verità immensa che le si venisse comunicando per vie misteriose, che le torcesse con sofferenza intime fibre del cuore. I ragionamenti religiosi di suo cognato potevano averle turbata la mente; il cuore non glielo avevano toccato mai. E ora perché? Come? Cos'aveva detto, infine, quell'uomo macilento? Oh ma lo sguardo, ma la voce, ma ... Che altro? Qualche altra cosa, impossibile a comprendere. Un presentimento, forse. Quale? Ma! Chi sa? Un presentimento di qualche futuro legame fra quell'uomo e lei. Lo aveva seguito, era entrata in Chiesa per non perdere l'occasione di parlargli e adesso ne aveva quasi paura. Parlargli di Jeanne, poi anche. Jeanne, lo aveva ella compreso? Come mai aveva potuto Jeanne, amandolo, resistere alla corrente di pensiero superiore ch'era in lui, che forse a quel tempo sarà stata latente ma che una Jeanne doveva pur sentire? Cos'aveva ella amato? L'uomo inferiore? Se gli parlasse, non gli parlerebbe solamente di Jeanne, gli parlerebbe di religione, pure. Gli domanderebbe quale fosse la sua, proprio. E poi, s'egli le rispondesse una cosa sciocca, una cosa volgare? Per questo aveva quasi paura di parlargli. Una folata di pioggia batté dalle invetriate rotte di una finestra sul pavimento. Noemi pensò che mai più non avrebbe dimenticato quell'ora, quella grande Chiesa vuota, quell'oscuro cielo, quel colpo di pioggia entrato come un colpo di pianto, il naufrago del mondo assorto sui gradini dell'altare maggiore, Dio sa in quali sublimi pensieri, e neppure il sagrestano suo nemico, postosi a dormire sui gradini di un altro altare con la famigliarità noncurante di un collega di Domeneddio. Passò molto tempo, forse un'ora, forse più. La Chiesa si venne rischiarando, parve che smettesse di piovere. Suonarono le quattro. Entrò in Chiesa don Clemente e dietro a lui entrarono Maria e Giovanni, contenti di trovar Noemi, della quale non sapevano che fosse avvenuto. Si mosse anche il sagrestano che conosceva il Padre. "Dunque? Il Viatico?" Il Viatico? L'uomo, pur troppo, era morto. Al Viatico si era pensato troppo tardi. Il Padre domandò di Benedetto e Noemi glielo indicò. Parlarono del colloquio che Noemi desiderava. Don Clemente arrossì, esitò, ma poi non seppe come rifiutarsi a chiederlo e raggiunse Benedetto. Mentre i due discorrevano insieme, Giovanni e Maria ragguagliarono Noemi di quel ch'era accaduto. Entrato l'arciprete, l'infermo non aveva parlato più. Non era stato possibile di confessarlo. Intanto era scoppiato il temporale con tale veemenza, tali torrenti strepitavano intorno alla capanna che l'arciprete non aveva potuto uscirne per andar a prendere l'olio Santo. Si credeva che l'ammalato durasse qualche ora; invece, alle tre, era morto. Don Clemente e l'arciprete erano usciti appena lo avevano permesso i torrenti. Giovanni e Maria erano rimasti colla madre, che pareva impazzita, fino all'arrivo della sorella maggiore del morto. Allora erano partiti, anche per venire in cerca di Noemi. Non l'avevano trovata all'osteria, si erano diretti alla Chiesa. Avevano incontrato sulla piazza il Padre che usciva da una casa civile. Non sapevano che ci fosse andato a fare. Maria parlò con entusiasmo di Benedetto, de' suoi conforti spirituali al moribondo. Era sdegnatissima, come suo marito, della guerra fattagli da gente che adesso aveva buon giuoco a voltargli contro tutto il paese. Biasimavano la debolezza dell'arciprete e non erano contenti neppure di don Clemente. Don Clemente non avrebbe dovuto prestarsi alla cacciata del suo discepolo! Perché gli aveva detto lui di andarsene, quando era venuto l'arciprete. Il suo primo torto era stato di portare il messaggio dell' Abate. Noemi non sapeva di questo messaggio. Udito che si voleva spogliare Benedetto della sua tonaca, scattò: Benedetto non doveva obbedire! Intanto Benedetto e il Padre mossero verso la porta. Benedetto si tenne in disparte; il Padre venne a dire ai Selva e a Noemi che, parecchia gente volendo parlare a Benedetto, egli aveva combinato un ritrovo comune presso un Signore del paese. Doveva ora precederli, con Benedetto, colà. Sarebbe venuto a riprenderli in Chiesa fra pochi minuti. Il Signore era quel tale che i Selva avevano incontrato sulla costa di Jenne dove stava in attesa della duchessa di Civitella. La duchessa era poi arrivata con altre due dame e con alcuni cavalieri fra i quali un giornalista, il giovinotto elegantissimo dalla caramella. Il Signore di Jenne non capiva più nella pelle, si sentiva per quel giorno in corpo uno spirito ducale di bontà e di magnificenza. Perciò don Clemente, consigliato dall'arciprete di rivolgersi a lui, ne aveva facilmente ottenuto la promessa, per Benedetto, di un vecchio abito nero da mattina, di una cravatta nera, di un cappello nero a cencio. Quando, nella camera dov'erano preparate le vesti laicali, il discepolo, svestita la tonaca, prese, tacendo sempre, a indossarle, il Maestro, che stava alla finestra, non poté trattenere un singhiozzo. Pochi momenti dopo Benedetto lo chiamò dolcemente. - Padre mio diss'egli. "Mi guardi." Vestito dei nuovi panni, troppo lunghi e larghi, egli sorrideva, mostrando pace. Il Padre gli afferrò una mano per baciargliela; ma Benedetto, ritratta con impeto la mano, allargò le braccia, si strinse al petto lui che parve allora il minore, il figliuolo, il penitente ministro di tristi prepotenze umane che sul palpito divino di quel petto si sciogliessero in polvere, cenere e niente. Stettero così abbracciati lungamente senza dir parola. "L'ho fatto per te" mormorò alfine don Clemente. "Ti ho portato io il messaggio ignominioso per vedere la grazia del Signore risplendere in questo tuo abito vile più che nella tonaca." Benedetto lo interruppe. "No no" diss'egli "non mi tenti, non mi tenti! Ringraziamo Iddio, invece, che appunto mi castiga per quel compiacimento presuntuoso che ho avuto a Santa Scolastica quando Lei mi ha offerto l'abito benedettino e io ho pensato che nella mia visione mi ero visto morire con quell'abito. Il mio cuore si alzò allora come dicendosi: "sono veramente prediletto da Dio!" E adesso ... "Oh ma ...!" esclamò il Padre e subito tacque, tutto una fiamma nel viso. Benedetto credette intendere che avesse pensato: "non è detto che tu non lo riprenda, l'abito che hai spogliato! non è detto che la visione non si avveri!" e che poi non avesse voluto dire il suo pensiero, sia per prudenza, sia per non alludere alla sua morte. Sorrise, lo abbracciò. Il Padre si affrettò a parlare d'altro, scusò l'arciprete ch'era dolente di quanto accadeva, che non avrebbe voluto allontanare Benedetto ma temeva i Superiori. Non era un don Abbondio, non temeva per sé, temeva per lo scandalo di un conflitto con l' Autorità. "Io gli perdono" disse Benedetto "e prego Dio che gli perdoni, ma questo difetto di coraggio morale è una piaga della Chiesa. Piuttosto che mettersi in conflitto con i Superiori ci si mette in conflitto con Dio. E si crede di sfuggire a questo sostituendo alla propria coscienza, dove Dio parla, la coscienza dei Superiori. E non s'intende che operando contro il bene o astenendosi da operare contro il male per obbedire ai Superiori si è di scandalo al mondo, si macchia davanti al mondo il carattere cristiano. Non s'intende che il debito verso Dio e il debito verso i Superiori si possono compiere insieme non operando mai contro il bene, non astenendosi mai da operare contro il male, ma senza giudicare i Superiori, ma obbedendo loro con perfetta obbedienza in tutto che non è contro il bene o a favore del male, deponendo ai loro piedi la propria Vita stessa, solo non la coscienza; la coscienza, mai! Allora questo inferiore spogliato di tutto fuorché della sua coscienza e della sua obbedienza giusta, questo inferiore è un puro grano del sale della terra e dove molti di questi grani si trovino uniti, ciò cui essi aderiscono resterà incorrotto e ciò cui non aderiscono cadrà imputridito!" A misura che parlava, Benedetto si veniva trasfigurando. Nel pronunciare le ultime parole sorse in piedi. Gli occhi avevano lampi, la fronte un chiarore augusto dello spirito di Verità. Posò le mani sulle spalle di don Clemente. "Maestro mio" diss'egli raddolcendosi nel viso "io lascio il tetto, il pane e l'abito che mi furono offerti, ma non lascerò di parlare di Cristo Verità fino a che avrò Vita. Me ne vado ma non per tacere. Si ricorda di avermi fatto leggere la lettera di S. Pier Damiano a quel laico che predicava? E quello là predicava in Chiesa! Io non predicherò in Chiesa ma se Cristo vuole che io parli nei tugurii, nei tugurii parlerò; se vuole che io parli nei palazzi, nei palazzi parlerò; se vuole che io parli nei cubicoli, parlerò nei cubicoli; se vuole che io parli sui tetti, parlerò sui tetti. Pensi all'uomo che operava nel nome di Cristo e ne fu proibito dai discepoli. Cristo ha detto: lasciatelo fare. È da obbedire ai discepoli o è da obbedire a Cristo?" "Per l'uomo del Vangelo sta bene, caro" rispose don Clemente "ma ora sulla volontà di Cristo ci si può anche ingannare, bada." Il cuore di don Clemente non parlava propriamente così; ma le parole imprudenti, indisciplinate del cuore non furon lasciate passare alle labbra. "Del resto, Padre mio" riprese Benedetto "lo creda, io non sono bandito per avere evangelizzato il popolo. Vi sono due cose ch'Ella deve sapere. La prima è questa: mi è stato proposto, qui a Jenne, da qualcuno che mi parlò quella volta e poi non vidi più, di abbracciare la carriera ecclesiastica per diventare missionario. Risposi che non mi sentivo chiamato. La seconda è questa. Nei primi giorni dopo la mia venuta a Jenne, discorrendo di religione con l'arciprete, gli parlai della vitalità eterna della dottrina cattolica, del potere che ha l'anima della dottrina cattolica di trasformare continuamente il proprio corpo, accrescendone senza limiti la forza e la bellezza. Lei sa, Padre mio, da chi mi sono venute queste idee per mezzo di Lei. L'arciprete deve avere riferito il mio discorso, che gli era piaciuto. Il giorno dopo mi domandò se a Subiaco avessi conosciuto Selva, se avessi letto i suoi libri. Mi disse ch'egli non li aveva letti ma sapeva ch'erano da fuggire. Padre mio, Ella comprende. È per causa del signor Selva e dell'amicizia di Lei col signor Selva che io parto da Jenne così. Non La ho mai tanto amata quanto adesso, non so dove andrò ma dovunque il Signore mi mandi, vicino o lontano, non mi abbandoni nell'anima Sua!" Così dicendo con un tumulto, nella voce, di dolore e di amore, Benedetto si gettò un'altra volta nelle braccia del Maestro che, straziato egli pure da una tempesta di sentimenti diversi, non sapeva se domandargli perdono o promettergli gloria, la vera; e solamente poté dirgli, ansando: "Anch'io, tu non sai! ho bisogno di non essere abbandonato dall'anima tua." Don Clemente raccolse in un fardello, maneggiandolo con mani guardinghe, riverenti, l'abito deposto dal discepolo. Raccolto che l'ebbe, disse a Benedetto che non poteva offrirgli l'ospitalità di Santa Scolastica, che aveva avuto in animo di pregare i signori Selva, ma che ora gli sorgeva il dubbio se a Benedetto fosse opportuno, nell'interesse del suo stesso apostolato, mettersi così pubblicamente sotto la protezione del signor Giovanni. Benedetto sorrise. "Oh, questo no!" diss'egli. "Temeremo noi le tenebre più che non ameremo la luce? Ma ho bisogno di pregare il Signore che mi faccia conoscere, se possibile, la Sua volontà. Forse vorrà questo, forse altro. E adesso vorrebbe farmi portare un po' di cibo e di vino? Poi mi mandi chi mi vuole parlare." Don Clemente si meravigliò, nel suo interno, che Benedetto gli domandasse del vino ma non ne fece mostra. Disse che gli avrebbe mandata pure quella signorina che stava con i Selva. Benedetto lo interrogò cogli occhi, ricordando che quando la signorina, poi riveduta in Chiesa, gli aveva chiesto un colloquio, don Clemente gli aveva stretto il braccio come per ammonirlo tacitamente di stare in guardia. Don Clemente, arrossendo molto, si spiegò. Aveva veduta la signorina a Santa Scolastica insieme a un'altra persona. Quel moto era stato involontario. L'altra persona era lontana. "Non ci rivedremo" diss'egli "perché appena ti avrò mandato il cibo e avrò avvertite queste persone, dovrò partire per Santa Scolastica." Benedetto, parlando di andare a Subiaco o altrove, aveva detto "forse questo, forse altro" con un accento così pregno di sottintesi, che don Clemente, nel congedarsi, gli sussurrò: "Pensi a Roma?" Invece di rispondere, Benedetto gli prese dolcemente di mano il fardello dov'era la povera tonaca concessa e ritolta, se l'accostò, non senza un tremito delle mani, alle labbra, ve le impresse, ve le tenne lungamente. Era il rimpianto dei giorni di pace, di lavoro, di preghiera, di parola evangelica? Era l'attesa di un'ora lucente nell'avvenire? Rese il fardello al Maestro. "Addio" diss'egli. Don Clemente uscì a precipizio. La stanza offerta dal padrone di casa per le udienze di Benedetto aveva un grande canapè, un tavolino quadrato coperto di un panno giallo a fiorami azzurri, delle sedie sgangherate, delle poltrone che mostravano la stoppa per gli squarci del vecchio cuoio stinto, due ritratti di avoli parrucconi dalle cornici annerite, due finestre, una quasi accecata da una muraglia greggia, l'altra aperta sui prati, sulla faccia di un bel monte pensoso, sul cielo. Benedetto, prima di ricevere visitatori, vi si affacciò per un addio ai prati, al monte, al povero paese. Preso da spossatezza, si appoggiò al davanzale. Era una spossatezza dolce dolce. Non si sentiva quasi più il peso del corpo e il cuore gli si ammolliva di beatitudine mistica. Poco a poco, perdendo i suoi pensieri oggetto e forma, il senso della quieta innocente Vita esterna, delle stille che gocciavano dai tetti, dell'aria odorata di montagna, lievemente, occultamente mossa ora in questa ora in quella parte, lo intenerì. Gli rinacquero nella memoria ore lontane della sua giovinezza prima, quando non aveva moglie né pensava al matrimonio, la fine di un temporale nell'alta Valsolda, sui dorsi del Pian Biscagno. Quanto diversa la sua sorte se i suoi genitori avessero vissuto trenta, vent'anni di più! Almeno uno di essi! Si vide nel pensiero la lapide del camposanto di Oria: a Franco in Dio la sua Luisa e gli occhi gli si gonfiarono di pianto. Venne allora una reazione violenta della volontà contro questi languori molli del sentimento, questa tentazione di debolezza. "No no no" mormorò egli, udibilmente. Una voce, alle sue spalle, rispose: "Non ci vuole ascoltare?" Benedetto si voltò, sorpreso. Tre giovani stavano davanti a lui. Egli non li aveva uditi entrare. Quello di essi che pareva il maggiore, un bel ragazzo, basso di statura, bruno, dagli occhi esperti di molte cose, gli chiese arditamente perché avesse spogliato l'abito clericale. Benedetto non rispose. "Non lo vuol dire?" fece colui. "Non importa, senta. Noi siamo studenti dell' Università di Roma, gente di poca fede, glielo dico schietto e subito. E ci godiamo la nostra giovinezza, più o meno; glielo dico subito anche questo." Uno dei compagni tirò l'oratore per la falda dell'abito. "Sta zitto!" disse il primo. "Sì, uno di noi crede poco ai Santi ma è un purissimo. Quello però non è qui davanti a Lei, come non vi sono altri che stanno giuocando all'osteria. Il Purissimo non ha voluto venire con noi. Dice che troverà modo di parlarle da solo a solo. Noi siamo quello che Le ho detto. Siamo venuti da Roma per fare una gita e per vedere un miracolo, s'era possibile; insomma per stare allegri." I compagni lo interruppero, protestando. "Ma sì!" ribatté lui. "Per stare allegri! Scusi, io sono più sincero. Infatti mancò poco che la nostra allegria ci costasse cara. Si scherzò e ci volevano accoppare, capisce; a Suo onore e gloria. Ma poi s'è udito il discorsino ch' Ella fece a quella turba fanatica. Per il demonio, si disse, questo è un linguaggio che ha del novo in una bocca pretina o semipretina, questo è un Santo che ci va meglio degli altri, scusi la confidenza. E ci si accordò subito di chiederle un colloquio. Perché poi, se siamo un poco scettici e gaudenti, siamo anche un poco intellettuali e certe Verità religiose c'interessano. Io, per esempio, sono forse per diventare un neo buddista." I suoi compagni risero ed egli si voltò ad essi adirato. "Sì, non sarò buddista nella pratica ma il Buddismo m'interessa più del Cristianesimo!" Qui successe un battibecco fra i tre per quest'uscita poco opportuna; e un secondo oratore, lungo, sottile, in occhiali, prese il posto del primo. Costui parlava nervoso, con frequenti scatti del capo e degli avambracci rigidi. Il suo discorso fu questo. I suoi compagni e lui avevano discusso più volte intorno alla vitalità del Cattolicismo. Tutti ammettevano che fosse esausta e che la morte seguirebbe presto se non intervenisse una riforma radicale. Alla possibilità di questa riforma chi credeva e chi non credeva. Desideravano conoscere l'opinione di un cattolico intelligente e moderno nello spirito come si era rivelato Benedetto. Avevano molte domande a fargli. Qui il terzo ambasciatore della compagnia studentesca giudicò venuto il suo momento e scaraventò addosso a Benedetto una tempesta disordinata di quesiti. Sarebb'egli stato disposto a farsi propugnatore di una riforma della Chiesa? Credeva nell'infallibilità del Papa e del Concilio? Approvava il culto di Maria e dei Santi nella sua forma presente? Era democratico cristiano? Quale concetto aveva di una riforma desiderabile? Avevano veduto a Jenne Giovanni Selva. Benedetto, conosceva i suoi libri? Approvava le sue idee? Gli piaceva che fosse proibito ai cardinali di uscire a piedi e ai preti di andare in bicicletta? Cosa pensava della Bibbia e dell'ispirazione? Prima di rispondere, Benedetto guardò a lungo, severo in viso, il suo giovine interlocutore. "Un medico" diss'egli finalmente "aveva fama di saper guarire tutte le malattie. Qualcuno che non credeva nella medicina andò da lui per curiosità, per interrogarlo sull'arte sua, sugli studî, sulle opinioni. Il medico lo lasciò parlare lungamente e poi gli prese il polso, così." Benedetto prese il polso del primo che gli aveva parlato e proseguì: "Glielo prese, glielo tenne un momento in silenzio, poi gli disse: - Amico, voi soffrite di cuore. Io ve l'ho letto in viso e ora sento battere il martello del falegname che vi lavora la bara." Il giovine dal polso prigioniero non poté a meno di batter le ciglia. "Non parlo per Lei" disse Benedetto. "Parla quel medico a quel tale che non crede nella medicina. E continua: - Venite voi a me per avere Vita e salute? Io vi darò l'una e l'altra. Non venite per questo? Io non ho tempo per voi. - Allora colui, che si era sempre creduto sano, allibbì e disse: - Maestro, eccomi nelle vostre mani, fate che io viva." I tre rimasero per un momento sbalorditi. Quando accennarono a riaversi e a replicare, Benedetto riprese: "Se tre ciechi mi domandano la mia lampada di Verità, cosa risponderò io? Risponderò: andate prima e preparate gli occhi vostri ad essa perché se io ve la dessi nelle mani ora, voi non ne avreste alcun lume, voi non potreste che guastarla." "Non vorrei" disse lo studente lungo, smilzo e occhialuto "che per vedere questa Sua lampada di Verità si dovessero chiudere le finestre alla luce del sole. Ma insomma capisco ch' Ella non voglia spiegarsi con noi, che ci prenda per dei reporters. Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."
"Vi fu un tempo (diceva egli ) di lontanissima barbarie, in cui a forza di voler rischiarare i problemi della colpa, a furia di voler portare troppa luce nei giudizii onde la verità ne uscisse limpida e chiara, si abbagliavano talmente gli occhi dei giudici, da portarli alle sentenze più assurde. "I giudici, che avrebbero dovuto essere soli competenti, avevano di contro un pugno di uomini trovati per strada, medici o ingegneri o commercianti, che non avevano mai studiato neppure l'alfabeto della scienza giuridica e che pure in ultimo dovevano sentenziare, assolvere o condannare. "E i poveri giurati, innocenti nella loro ignoranza, paurosi della loro immeritata responsabilità, si volgevano ai periti tecnici, agli uomini di scienza, che avrebbero dovuto illuminarli, e la luce sovrapposta alla luce produceva invece tenebre sempre più dense. "I periti della difesa dicevano: "Non vi è veleno nelle viscere della vittima. "E i periti dell'accusa dicevano invece: "Vi è veleno. "E i poveri giurati davanti a così sfacciate contraddizioni, abbagliati e confusi dal cozzo dell'eloquenza avvocatesca, dalle liriche invettive dei giudici, sballottati fra la scienza che negava da sè stessa la propria efficacia colle flagranti contraddizioni e perduti nel labirinto dei sofismi, dei paradossi, della dialettica, che cadevano sulle loro spalle come tanti proiettili in un dì di battaglia, finivano per abbandonarsi alla suggestione del sentimento; il più infido dei giudici nel campo della giustizia, e sentenziavano col cuore, invece che colla ragione. "E in ultima analisi, non era la scienza giuridica, non la scienza dei periti che dava il supremo giudizio, ma era l'egoismo o la compassione. "Il primo diceva ai giurati: "Quell'uomo ha rubato: lasciato libero, potrà rubare ancora e mettere le sue mani anche nelle tue tasche. "Dunque in prigione, alla galera. "Quella donna, bella e giovane ha peccato in amore. Quanto volentieri avrei diviso il peccato con lei! "Poveretta! Le sia data la libertà. "E quando invece la compassione compariva o scuoteva le fibre sensibili dei giurati, era assolto il colpevole, quando la compassione per lui era più forte che per la vittima. Era invece condannato, quando gli avvocati eran riusciti, a far sentire più forte la compassione per la vittima. "Come vedete, - diceva il professore, - era un problema di affinità elettiva, era una lotta del sentimento colla ragione e la povera giustizia andava sommersa troppo spesso in queste lotte molto disuguali. "Ecco che cosa era la giustizia dieci secoli or sono. Ma non vogliamo essere troppo superbi noi altri uomini del secolo XXXI, perchè anche noi non sappiamo sempre disgiungere e separare nettamente il cuore dal pensiero, nei nostri giudizii." La lezione, spesso interrotta da risate di approvazione, fu fragorosamente applaudita al suo fine e i nostri, viaggiatori lasciarono il Palazzo della Scuola, molto contenti della loro visita.
Un sabato notte, mentre si era scatenato un uragano, e i lampi abbagliavano, e i tuoni schioccavano secchi e senza interruzione, la moglie di Parri fu presa dalle doglie. Allora il pittore accese tutte le lucerne di casa e le candele a tutte le immagini sacre per ottenere che la moglie soffrisse meno; ma la povera donna si sentiva morire dal male. Però, come Dio volle, a mezzanotte in punto, quando la burrasca era al colmo, il figliuolo nacque. - È un mostro! - esclamò la vecchia che lo aveva raccolto. - Un mostro! - ripeté sbalordito Parri. - Un mostro! - disse la moglie. - Sì, un mostro: ha due teste invece d'una, - rispose la vecchia. E infatti, il neonato aveva due teste, perfettamente uguali, che si staccavano dallo stesso busto: una, voltata davanti, e l'altra, di dietro; ma due teste grosse, aiutatemi a dire grosse. Il povero pittore si mise le mani nei capelli e si rammentò le parole della zoppa. Aveva voluto il figliuolo con tanto cervello da empir due zucche, e l'aveva avuto! La madre piangeva e non s'attentava a toccare quel bambino con i due testoni; la vecchia brontolava perché nel corredino non trovava cuffie abbastanza grandi per quel mostro, e Parri era scappato in uno stanzino buio, perché non lo poteva vedere. In un momento di disperazione, il pittore esclamò: Belzebù, Belzebù, Mel donasti, ripiglialo tu! Non aveva appena pronunziate queste parole, che si udì un gran rumore, e una luce viva illuminò la stanza. In mezzo a quel chiarore comparve l'invocato da Parri, il Diavolo in persona, col viso arcigno, il piede di capro e la coda. - Che cosa vuoi, uomo incontentabile? - gli domandò il Diavolo. - Voglio che tu mi liberi da quel mostro, io non posso vederlo. - Ti pare un mostro perché non è fatto sullo stampo degli altri uomini, - rispose il Diavolo ghignando. - Sei artista, e tu pure ti permetti certe licenze col pennello. Anche tu hai dipinto draghi con più teste e aquile bicipiti, eppur non vi sono in natura. Se io, che son pure un grande e ingegnoso artista, mi son permesso questa licenza, non ho fatto un gran danno. Tanto cervello, quanto tu ne volevi per il figliuol tuo, in una testa sola non c'entrava, e gliene ho regalata una seconda; contentati. - No, re dell'Inferno, io non mi contento, tu devi ripigliartelo; io non voglio mostri. In casa nostra non c'è mai stato nessun deforme, e non voglio che il primo sia il figlio mio. - Uccidilo; ci vuol tanto poco; così, quando avrai commesso il delitto, verrai nel mio regno, dove ti farò dipingere tutte le pareti dell'Inferno, e staremo allegri. Parri si sentì gelare a quelle parole, e si fece presto presto il segno della croce. Il Diavolo allora scomparve, com'era venuto, con moltissimo fracasso. - Un prete! Un prete! Voglio che questo mostro sia battezzato subito! - gridava il pittore per la casa. Fu chiamato il parroco, ma appena alzò la coppa con l'acqua santa per aspergere il capo del bimbo, l'acqua si convertì in fuoco. E per quanto il parroco ritentasse di battezzarlo, di pronunziar preci, di far segni di croce, tutto fu inutile, e finalmente egli fuggì dicendo: - Qui sotto c'è una diavoleria! Tutti, tutti avevan paura del mostro; tutti, anche la madre sua, che si ricusava d'attaccarselo al seno. Arezzo è una piccola città, e il fatto della nascita del mostro di Parri di Spinello Spinelli si riseppe subito, e si riseppe anche che il prete non era riuscito a dargli l'acqua santa. Corsero allora alla casa del pittore i parenti della moglie, corsero i parenti di Parri e gli artisti, e tutti interrogavano il padre e la madre del mostro; ma essi eran più morti che vivi, e non potevano rispondere. I parenti allora chiamaron l'arcivescovo per vedere se a lui riusciva di battezzare il bambino; ma sì! l'acqua anche quella volta si convertì in fuoco, e il mostro non fu battezzato. - Portiamolo a Badia, - dissero i parenti. Ve lo portarono; ma quando stavano per salire i gradini dell'altar maggiore, tutta la chiesa incominciò a tremare come per il terremoto, e se non facevano presto a scappare, sarebbe rovinata di certo. In fretta e in furia i parenti riportarono il mostro a casa di Parri, e dopo di averlo dato alla vecchia serva, scapparono via per non rimettere più piede in quel palazzetto. Intanto fra marito e moglie c'era l'inferno. - Vedi che bell'erede che m'hai dato! - diceva Parri. - Vedi che cosa s'ottiene a pregare il Demonio! - rispondeva lei. - Io me ne torno a casa mia, e tu, tienti pure il tuo mostro. E mentre litigavano così, il bambino strillava dalla fame. La vecchia Marta, che aveva allattato il padrone, non poteva sentire quegli strilli, e andò in cerca di una capra. Il bambino si attaccò subito all'animale e con le due bocche le vuotò tutte e due le mammelle; poi dormì come un ghiro. Madonna Lena, la madre del mostro, mantenne la parola, e, un giorno, fatto il fagotto, se ne tornò a casa di Braccio suo padre, e non volle più vedere il marito. Parri non cercò neppure d'impedirle di andarsene. Anche lui aveva voglia di fuggir lontano, tanto, ormai, in chiesa a dipingere non poteva più entrarci, e la vista di quel mostro lo turbava a segno tale da scombussolargli il cervello. Ma prima di partire mandò Marta a Bibbiena da certi nipoti che ella aveva, dandole anche il figlio, e ingiungendole di non dire che era suo, ma di un forestiere dal quale era stata a servizio negli ultimi tempi. La vecchia, che era affezionata al suo padrone, si sottomise agli ordini di lui, e partì col mostro e con la capra. Figuriamoci le meraviglie che fece tutto il popolo di Bibbiena, quando, dai parenti di Marta, fu divulgata l'esistenza del mostro! Correvano da tutte le parti a vederlo, ma nessuno osava accostarglisi, perché il piccino appena vedeva gente sgranava tutti e quattro gli occhi in una certa maniera da mettere i brividi a chi lo guardava, e invece di crescere a occhiate, come fanno gli altri bimbi, cresceva addirittura a salti. Di modo che, quando ebbe un anno non volle più sapere né di latte, né di pappine, né di dande, e correva via per la campagna come una lepre. I ragazzini, a veder quelle due teste dondolare, scappavano, e il mostro mandava fuori certe vociacce per canzonarli, che li facevano tremar tutti. Marta s'era guardata bene dal raccontare che nessun prete, neppur l'arcivescovo, aveva potuto battezzare il bambino, e lo lasciava correre come voleva, sperando che un giorno non sarebbe tornato più, ed ella non si sarebbe più veduta davanti quel ragazzo con le due teste. Quello che egli facesse a giornate intere in campagna, non lo sapeva nessuno; ma quando tornava a casa la sera, meravigliava Marta e i parenti di lei con la sua sapienza. Senza maestro alcuno che gl'insegnasse, aveva imparato a leggere non solo in volgare, ma anche in latino, e spiegava ogni fenomeno della natura meglio dei dotti. E quel che più meravigliava tutti, si è che non potevano avere un pensiero senza che egli lo leggesse meglio che se lo avessero portato scritto in fronte. Sapeva dunque chi gli voleva bene e chi gli voleva male, e quando Marta, nel vederlo andar via la mattina, formulava in cuor suo il desiderio che non tornasse più, egli, con la testa che aveva volta di dietro, le faceva un cenno e diceva: - Non sperare inutilmente; stasera torno! E tornava difatti e portava sempre uccelli e lepri vivi, che nessuno sapeva come facesse ad acchiappare. C'era in Bibbiena un ricco signore della famiglia dei Dovizii, il quale aveva un cavallo bellissimo e bravo come non ce n'eran altri. Messer Donato voleva un gran bene a quel cavallo e ne era molto orgoglioso, perché lo aveva fatto uscire più volte vincitore dalle giostre. Bisogna sapere che i parenti di Marta, e per conseguenza il mostro, abitavano a poca distanza dalla casa di messer Donato, e il ragazzo con due teste s'era fermato più volte a vedere strigliare il cavallo, fissandolo con certi occhi cupidi da non dirsi. Una mattina che il cavallo era legato sulla porta della stalla, il mostro venne a passare, come al solito, e, vedendo che non v'era il mozzo, si accostò all'animale e disse: Belzebù, Belzebù, Vo' quel cavallo, dammelo tu! Sul momento il cavallo incominciò a calciare, a dare strattoni alla corda, e spiegava tanta forza che portò via la campanella di ferro che era murata nella casa. Il mostro allora si mise a correre, e il cavallo dietro, giù per la scesa del paese. Il mozzo di stalla, sentendo tutto quel fracasso, andò in istrada e si mise a inseguire l'animale; ma sì! questo pareva che avesse il lupo alle costole; non correva, ma volava; e tanto il cavallo quanto il mostro sparirono dopo poco nel fitto di un bosco. Una volta in possesso del cavallo, il ragazzo a due teste si divertì un pezzo a guardarlo da tutti i lati e a fargli eseguire dei lanci. Poi lo legò a un albero e si mise sotto a quello a dire: Belzebù, Belzebù, Son figlio tuo, nutriscimi tu! Aveva appena parlato, che gli uccelli che eran sull'albero e sugli altri vicini volavano giù come sbalorditi, e andavano a posarglisi in grembo. Il ragazzo schiacciava loro la testa, li pelava alla meglio, e poi, infilatili in un sottil ramo verde, li metteva a cuocere davanti a una fiammata. Quando ebbe mangiato bene bene con tutte e due le bocche, disse: - Lucifero, prepariamoci a partire; voglio andare ad Arezzo per consolare l'affettuosa madre mia, che ha avuto tanta cura di me. Il cavallo, nel sentirsi chiamare, rizzò le orecchie e nitrì. Il mostro salì agilmente in sella, nonostante le due teste che gli pesavano non poco sul busto, e, per conseguenza, sulle gambe, e via verso Arezzo. Ora dovete sapere che madonna Lena, dopo aver fuggito la casa del marito, era rimasta un pezzo presso Braccio, padre di lei; ma poi, venuto egli a morte, si era ritirata in casa di una zia vedova, e menava vita allegra frequentando festini e conversazioni. Al marito non pensava mai, e quando si rammentava di quel figlio mostruoso, si faceva il segno della croce e sperava di non rivederlo mai più. Il mostro galoppava, come il vento, sulla via d'Arezzo, e quando fu vicino alla porta, disse: Belzebù, Belzebù, Dove vo' andare, guidami tu! Il cavallo, senza bisogno di tiratine di briglia, condusse il cavaliere in una straduccia tortuosa, e lì si fermò di bòtto. - Ho capito! - disse il mostro, - l'affettuosa madre mia deve stare giù di qui. Egli non scese di sella e attese come un soldato in vedetta, sbirciando tutta la strada con quei quattro occhiacci che vedevano certo meglio di due. Ma intanto che stava lì ad aspettare, gli si radunò intorno una folla di curiosi, e tutti dicevano: - Guarda il figlio di Parri Spinelli e di madonna Lena di Braccio! Il vocìo era tanto forte, le risate dei monelli così squillanti, che attirarono alla finestra anche madonna Lena, la quale, appena ebbe udito pronunziare il suo nome e scòrse il mostro, diventò bianca come la neve e tremò tutta. - Non ce lo voglio dintorno a casa, non voglio vederlo! Il Diavolo me lo ha mandato, e il Diavolo se lo ripigli! Madonna Lena sbatacchiò la finestra, chiuse anche le altre e continuò a inveire contro la sua sorte, stracciandosi da dosso le ricche sue vesti. Intanto il mostro non si muoveva di dov'era, ma la folla intorno a lui si faceva sempre più compatta e più clamorosa, ed egli rimaneva imperterrito a guardarla. A un tratto si aprì la porta della casa di madonna Lena e comparve sulla soglia la zia di lei. La donna alzò le braccia e disse in modo da essere udita da tutti: - Mostro, ritorna all'inferno di dove sei venuto; madonna Lena preferisce la morte alla tua vista. - Torna in casa, vecchia, - gridò il mostro. - La mia tenera madre è già nelle braccia della morte e la sua anima vola dritta in grembo a Belzebù. La vecchia si mise le mani agli orecchi, sbatacchiò la porta e corse in casa. Intanto il tumulto nella via cresceva e la folla non rideva più del mostro, ma lo minacciava da vicino. In quel mentre una delle finestre della casa di madonna Lena si spalancò, e la zia, affacciandosi, si mise a urlare: - È morta davvero; costui è il Diavolo! ... Dàlli! dàlli! Il popolo allora si gettò sul mostro; ma egli, spingendo il cavallo sulla folla, rovesciava e calpestava quanti gl'impedivano il passo, e col volto che aveva dalla parte di dietro, faceva, fuggendo, certe boccacce e certi occhiacci di scherno a chi voleva inseguirlo, che mettevano orrore. Il cavallo correva così veloce, che nessuno poteva raggiungerlo, e in breve fu sulla via Fiorentina. Quando il mostro non si vide più inseguìto, fermò il cavallo e, sceso di sella, disse: Belzebù, Belzebù, Ov'è il padre mio? Dimmelo tu! Il cavallo fiutò l'aria e nitrì. Il mostro allora lo inforcò di nuovo e gli lasciò la briglia sul collo, sicuro che l'animale lo avrebbe condotto da Parri. Infatti camminò tutta la notte, e a giorno si fermò a poca distanza da Firenze, alla Badia di San Salvi. Il mostro rimase a cavallo, in vedetta. Di lì a poco egli vide uscire, da una casetta attigua alla Badia, un uomo giovane ancora, ma curvo, che s'incamminava per una viottola deserta, parlando a voce alta come suol fare chi è oppresso da grave cruccio. Il cavallo si pose dietro a quell'uomo e il mostro capì subito che l'infelice che parlava da solo era Parri. Al rumore che faceva il cavallo camminandogli alle calcagna, Parri si voltò fissando il mostro. Poi, invece di fuggire o di sbraitare come avea fatto la moglie, si fermò e, fissando il mostro, gli stese le braccia piangendo e disse: - Non avevo coraggio di venire a te; ma dal momento che sei qui, rimani, e che tu sia il benvenuto. La solitudine e il rimorso dell'abbandono in cui ti ho lasciato, sono troppo dolorosi. Chiunque ti abbia mandato a me, Iddio o il Diavolo, io lo ringrazio di questa consolazione. L'ambizione di avere un figlio che avesse più ingegno, più fama di ogni uomo, mi fece ascoltare i suggerimenti insidiosi del Demonio; ma tu sei carne della mia carne, e io ti voglio bene e ti benedico. Il mostro, mentre Parri sfogava così il suo dolore, era balzato di sella e s'era gettato nelle braccia dell'uomo buono, che era suo padre. In quel momento un pensiero subitaneo, una speranza, balenarono nel cuore e nella mente dell'artista. Egli si mise a camminare trascinandosi dietro il figlio, e, giunto sotto il portico della Badia, si fermò dinanzi a una soave Madonna, dipinta da lui sul muro, allorché era a Firenze giovinetto a studiar l'arte. Per quella immagine egli aveva una straordinaria venerazione. Fece inginocchiare il figlio, gli pose le mani sulle due teste e disse: - Madonna santa, voi sapete con quanta devozione io vi ho dipinta; abbiate pietà di me; io non ho più altra ambizione che quella di vedere il figlio mio con un aspetto come tutti gli altri. Maria Santa, redimetelo! Dagli occhi della soave immagine sgorgarono a un tratto due lacrime, e il mostro, intenerito, chinò la testa. Quelle due lacrime gli caddero su una delle due teste, e dal cielo scesero allora due schiere di angeli cantando "Osanna!" e circondarono il mostro. Allorché essi, cantando, risalirono al cielo, le lacrime della soave immagine s'erano terse, e sul volto di lei si vedeva un sorriso di beatitudine. - Figlio mio, figlio mio! - esclamò Parri mirando il giovane, il quale, rimasto in ginocchio, nell'atteggiamento di prima, mostrava una sola testa, come tutte le creature umane. Prima cura del pittore fu quella di far battezzare e cresimare il suo figliuolo, e, sentendosi ormai liberato da quell'infernale persecuzione, ritornò ad Arezzo ove riprese a dipingere le figure lasciate incomplete nel Duomo, e molte altre di cui ornò tante chiese della città. Il figlio, che ora cristianamente si chiamava Giovanni, fu pittore assai valente, e in una parete di San Domenico ad Arezzo dipinse il miracolo avuto in suo favore a San Salvi. - E ora la novella è terminata, e io do la buona notte, - disse la Regina.
Si vedevano enormi rupi rovesciate e spezzate, ammassi sterminati di macigni, crateri di antichi vulcani coi margini franati, avvallamenti strani, poi bacini coperti di ghiacciai, veri mari di luce che abbagliavano gli occhi con tale intensità, da non poterli guardare più d'un minuto. Al sud, la catena ingigantiva rapidamente. Era un caos di piramidi e di guglie, bianche di neve, che si slanciavano arditamente verso il cielo come se volessero traforarlo, solcate qua e là da spaccature che dovevano avere delle dimensioni straordinarie. Lo "Sparviero" aveva incominciato a risalire, potentemente aiutato dalle eliche orizzontali, le quali funzionavano vertiginosamente intanto che le due immense ali battevano colpi precipitati. La respirazione cominciava a diventare penosa per tutti, anche pel capitano, che pur doveva essere abituato alle grandi altezze. Provavano dei capogiri, delle nausee, dei ronzii agli orecchi e un'estrema debolezza. Era il male delle montagne, prodotto dalla estrema rarefazione dell'aria, ben noto agli alpinisti e soprattutto agli abitanti della catena delle Ande, che lo chiamano il puna. - Capitano - disse Rokoff - che cosa succede? Mi sembra di essere ubriaco e che il mio stomaco provi il mal di mare. - E a me pare di soffocare - disse Fedoro - sento il cuore e le tempie battere precipitosamente, mentre invece la testa mi sembra che venga stretta da un cerchio di ferro. - Siamo a settemilacinquecento metri, signori miei - rispose il capitano dopo aver osservato i barometri sospesi alla balaustrata. - A simili altezze l'aria è quasi irrespirabile, però le vostre nausee cesseranno subito appena avremo varcato quella catena di monti e torneremo ad abbassarci. - Soffrono anche gli animali portati a simile elevazione? - Più degli uomini, signor Rokoff, e infatti su questi altipiani non vedete né cammelli, né montoni e nemmeno jacks. Si gonfiano, perdono le forze, la loro respirazione diventa affannosa e bruciante e sovente cadono al suolo fulminati. - Ci innalzeremo ancora? - No, non sarebbe prudente; l'asfissia potrebbe manifestarsi, o per lo meno avvenire delle emorragie al naso e agli orecchi, che è meglio evitare. - Avete mai superato queste altezze? - chiese Fedoro. - Ho potuto raggiungere i diecimila metri, facendo uso di serbatoi d'ossigeno, eppure non ritenterei la prova. Volevo provare ad attraversare tutto lo strato d'aria che circonda il nostro globo. - Per giungere alla luna? - chiese Rokoff, ridendo. - No, per vedere il sole violetto. - Violetto! ... Che dite mai, signore? - E che, anche voi credete che il sole sia giallo come noi lo vediamo ora? - Io non l'ho mai veduto cambiare colore, capitano. - Nemmeno io, eppure non è giallo e se non esistesse intorno al nostro globo la massa d'aria, tutto il mondo diventerebbe, almeno di giorno, violetto. - Questa è grossa! - Può sembrarvi tale; eppure, dopo gli ultimi studi e le ultime e più diligenti osservazioni fatte dagli scienziati europei ed americani, non vi è più da dubitare, signor Rokoff, per quanto la cosa possa parervi inverosimile. Se si squarciasse la nostra atmosfera, che è un velo ingannevole che fa ostacolo alla vista vera, si vedrebbero delle cose spettacolose che prima non si supponevano esistere. Togliete l'aria e con vostro grande stupore vi apparirebbe il cielo, anche in pieno meriggio, non più azzurro come lo vedete ora, bensì nero come il fondo d'una botte di catrame e al sommo di quell'abisso tenebroso vedreste fiammeggiare un. grande astro del più bel violetto e che altro non è se non il nostro sole. - Il cielo nero? - Sì, signor Rokoff. - E perché ci appare invece azzurro? - In causa delle rifrazioni della nostra atmosfera, la quale è satura ormai di luce, di vapori, di miriadi di germi erranti e di polveri impalpabili. Langley, il segretario dell'Istituto Smithsoniano degli Stati Uniti, e Su, il famoso astronomo dell'osservatorio di Washington, l'hanno ormai luminosamente provato. - E come mai i raggi del sole ci appaiono gialli? - Perché oltre alle fiamme violette, ne ha pure di gialle e siccome queste sono le più lunghe e hanno una maggiore estensione ci giungono prima. Quando le violette arrivano, le prime hanno già saturata la nostra atmosfera. - Sicché anche gli altri astri, che a noi sembrano d'oro più o meno giallo o rossiccio, avranno invece tinte diverse. - Sì, signor Rokoff. La stella Scorpione, per esempio, è d'un rosso fiammeggiante, mentre la sua vicina, che le tiene compagnia, è un piccolo sole verde pallido! Sirio invece è d'un viola oscuro; la Beta della costellazione del Cigno è pure violetta, mentre la sua compagna è giallo-pallido. - Deve essere però enorme il nostro sole per sprigionare tanto calore. - Un milione e duecentocinquantamila volte più grosso della terra, signor Rokoff. - Che meschina figura farebbe il nostro globo. - E altrettanto meschina la farebbe il sole messo a fianco di Acturus, il re dei soli, che espande pel cielo cinquemila volte più luce e calore dell'astro che ci illumina - disse il capitano. - Eppure anche il nostro sole deve produrre del calore in quantità enorme - disse Fedoro. - Tanto che nel solo spazio d'un secondo potrebbe, se accumulato, portare al grado di ebollizione cinquecento milioni di chilometri cubi di ghiaccio. - Misericordia! - esclamò Rokoff. - Mi pare di sentirmi cucinare malgrado quest'aria gelata che mi fa scoppiare la pelle del viso. - Ma allora il nostro globo non deve ricevere che una piccola parte del calore che irradia il sole - disse Fedoro. - Una quantità infinitesimale - rispose il capitano. - Diversamente, la nostra terra da migliaia d'anni sarebbe stata abbruciata e ora non sarebbe più che un semplice carbone. - Capitano, non vi è pericolo che il sole possa aumentare la massa di calore che ci manda? - Se si deve credere agli scienziati, il calore del sole non ha ancora raggiunto il suo massimo sviluppo, anzi continuerebbe ad aumentare per sette od ottocentomila anni, poi dovrebbe succedere un periodo di ristagno e quindi di decadenza, perché l'astro finirà col consumarsi. - E che cosa avverrà, quando comincerà a raffreddarsi, per la nostra umanità? - chiese Rokoff. - Se non l'avrà abbruciata prima di giungere a quel periodo, tristi giorni dovranno passare gli abitanti del nostro globo. La terra, non più riscaldata, diverrà infeconda, anche in causa del continuo ritirarsi dei fuochi centrali; le sue estremità si copriranno di ghiaccio e i poli invaderanno a poco a poco l'America e l'Australia. I popoli saranno costretti a radunarsi sotto l'equatore, finché suonerà anche per quelle regioni l'ora fatale. - Capitano, ora mi fate rabbrividire pel freddo - disse Rokoff. - Mi pare di trovarmi rinchiuso in un monte di ghiaccio. Mi sento venire la pelle d'oca pensando a quei giorni. - Serbate i vostri brividi per altre occasioni - disse il capitano ridendo. - Fra dieci, o venti, o centomila secoli non vi saremo più, state sicuro. Lasciate quindi che tremino i nostri tardi pronipoti. Signori, passiamo la catena! Badate alle nausee!