Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbandonata

Numero di risultati: 122 in 3 pagine

  • Pagina 3 di 3

Il successo nella vita. Galateo moderno.

176841
Brelich dall'Asta, Mario 1 occorrenze
  • 1931
  • Palladis
  • Milano
  • Paraletteratura - Galatei
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- Uscì di soppiatto dalla sua tenda e s'imbarcò, e quando Arianna più tardi si svegliò, si trovò abbandonata nell'isola solitaria. Come fu compensata Arianna per il dolore che le fu inflitto? - Bacco le comparve in tutta la sua divina bellezza, la fece sua moglie e dea. Cosa accadde nel frattempo con Egeo? - Egli andava giornalmente sulla vetta d'un'altra rupe in riva al mare e scrutava con nostalgia l'arrivo della nave del figlio. Infine un giorno vide da lontano la sospirata nave. Ma il timoniere aveva dimenticato d'issare invece della vela nera, la bianca e vedendo la vela nera, credette che il figlio fosse morto. Disperato si precipitò nelle onde, ed allora quel mare si chiamò il mare Egeo. Chi era Paride? - Uno dei cinquanta figli del re Priamo di Troia e di sua moglie Ecuba, a cui l'oracolo prima della nascita di questo figlio aveva predetto che invece d'un figlio essa partorirebbe una fiaccola, che avrebbe incendiato tutta Troja. Cosa fece Ecuba col piccolo Paride in seguito a questa profezia? - Essa espose il neonato sul molte Ida, dove fu allattato da una orsa ed allevato da un pastore che ne fece il custode delle greggi reali. Che narra la leggenda delle nozze di Tetide e di Peleo? - Poichè Tetide era di stirpe divina, alle sue nozze parteciparono tutti gli dei e le dee; che la colmarono di doni nuziali; soltanto Eride, la dea della discordia, non fu invitata. Come si vendicò Eride dell'offesa patita? - Aprì la porta e gettò in mezzo alla brigata un pomo d'oro con la leggenda « alla più bella » e sparì. Questo fu il vero pomo della discordia, perchè ciascuna delle dee esigeva per sè il pomo. Come fu risolta la lite insorta tra le dee? - Dopo molte discussioni e dissidi le altre dee si ritirarono; soltanto Minerva, Venere, Giunone continuarono a disputarsi il primato di bellezza, e poichè lo stesso Giove non voleva decidere in persona, comandò a Mercurio di condurre le tre dee sul monte Ida da Paride, il quale era noto come il miglior intenditore della bellezza femminile. Come tentò ciascuna delle dee di corrompere il giudice? - Giunone gli promise di farlo il più potente e più ricco della terra, Minerva di farlo il più saggio fra tutti gli uomini, e Venere gli promise la più bella delle donne. Paride prese il pomo e lo offerse a Venere. Chi era Achille? - Il figlio di Peleo e di Tetide, alle nozze dei quali sorse la lite d ella bellezza tra le dee. Prima della sua nascita gli fu predetta un vita lunga, ma senza gloria, se fosse rimasto a casa; invece una vita breve, ma imperituramente gloriosa, se fosse andato in guerra. La madre angosciosa, per renderlo invulnerabile, lo immerse, subito dopo la nascita, nell'acqua del fiume Stige, che aveva la proprietà di assicurare il corpo contro qualsiasi lezione. Durante l'immersione però essa tenne il piccolo corpo per il tallone, sicchè quel punto rimase nonostante l'immersione, vulnerabile (il tallone di Achille). Come accadde che Priamo riconobbe in Paride il suo figlio esposto? - In occasione dei giochi che si celebravano in Troja, il re pose come premio del vincitore il più bel toro delle sue greggi, che era anche il toro prediletto da Paride. Perchè si presentò anche lui al torneo, ed avendo in lizza riportato vittoria persino sull'altro figlio di Priamo, il prode Ettore, tutti gli domandarono chi egli fosse: fu poi la profetessa Cassandra, figlia anche essa di Priamo, che svelò il segreto della sua nascita. Che incarico diede Priamo al suo ritrovato figliuolo Paride? - Lo mandò in Grecia a cercare una sorella del re, che fu molto tempo prima rapita dal Telamone e condotta in Grecia. Dove approdò Paride? - In Sparta, dove non incontrò re Menelao, che allora stava viaggiando, ma incontrò invece la sua bella moglie Elena, di cui tosto s'innamorò. Elena fu presa d'amore per il bellissimo straniero e si lasciò persuadere di seguirlo a Troja. Che conseguenze ebbe questo fatto? - Il re Menelao di Sparta - per vendicarsi dell'ingiuria - stimolò tutti i principi della Grecia a far guerra a Troja, e così il giudizio di Paride nella gara di bellezza delle dee fu la causa prima della decennale guerra trojana.

Pagina 390

Galateo della borghesia

201800
Emilia Nevers 1 occorrenze
  • 1883
  • Torino
  • presso l'Ufficio del Giornale delle donne
  • paraletteratura-galateo
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Se si mette la signora Sofia, cui non piace che giocar al tarocco, con la società dei giovani che voglion far gite e ballare, sarà abbandonata: non si può riunir il deputato T. radicale col consigliere G. ultra moderato, guai! La baronessa E. è carissima, ma vuol brillare troppo: a metterla con le signore un po' modeste, queste restano nell'ombra..... In una parola, per disporre le cose con vero successo, bisogna essere esperti nella scienza sociale, sapere tutte le fasi e conoscere tutti i tipi della commedia umana... Chi lo crederebbe? La mente di Macchiavelli e Talleyrand non è di troppo. C'è poi la scelta delle camere: convien dare la più allegra a chi esce poco, la più fresca a chi teme il caldo, la più appartata a chi teme il chiasso, e così via. Bisogna regolare gli arrivi, indicare le ore propizie, preparare i mezzi di trasporto, ritardare d'una mezz'oretta od anticipare l'ora del desinare per quelli che giungono... In casa poi ci vuole un' ampia provvista di carte, domino, scacchiere, giuochi d'ogni specie, e libri, e giornali... Il modo poi di trattare gli ospiti varia: per chi non è in confidenza od è timido ci vuole molta sollecitudine: chi ama il vivere tranquillo, non va spinto a passeggiate che possano stancarlo: chi ama la propria libertà, la lettura o lo studio, va esortato a riguardarsi come a casa propria. Infine la qualità più essenziale per la padrona di casa è il buon umore. Non intendo con ciò una perpetua ripetizione dell'éclat de rire, ma una serenità costante, l'arte di celare le proprie preoccupazioni, d'esser sempre ugualmente cortese con tutti, in modo che nessuno degli ospiti possa credersi trascurato od importuno. Alla propria servitù la padrona di casa incuterà rispetto per gli ospiti e pazienza colle persone di servizio che questi potessero recar seco; ella stessa non farà mai osservazioni a chi non è al suo stipendio. Prometterà poi una gratificazione per evitare che la cupidigia spingesse la sua servitù a trattar peggio quelli da cui attendono meno. Non incoraggierà mai pettegolezzi ascoltandoli con orecchio compiacente. La castellana ha dovere di mostrarsi affabile anche verso le persone del paesello vicino, da cui la sua villa dipende: le autorità, sindaco, consiglieri, curato, medico, ecc., ecc. Con le signore deve guardarsi dalla freddezza o dal motteggio. Forse le buone matrone che non parlano che dei lattanti e dei bachi da seta e della vendemmia, l'annoieranno un pochino, lei, abituata all'elettrica corrente d'idee dei grandi centri, ma porti con pazienza quel po' di noia e si persuaderà che anche in provincia c'è molto senno, molt' arguzia e molta coltura. La castellana ha poi un altro e ben utile còmpito: i poveri, ora suoi coloni, altre volte suoi vassalli. Come vorrei persuadere le nostre belle ed ottime dame ad imitare le inglesi che fanno scuola ai bimbi, e di sera, agli uomini, che tengono delle conferenze di morale, che premiano chi non trasmoda nel bere, che insomma agli svaghi della campagna associano anche la filantropia! La castellana non mandi limosine dai servi - le dia ella stessa e dia poco danaro, ma invece vino, brodo, biancheria, e sovratutto buone ed utili parole. Non isfugga dall'accostare quei miseri: si persuada che sotto i loro cenci battono spesso cuori generosi... che sono uomini e sentono, amano, soffrono come noi. Se avrà estirpato un pregiudizio, illuminato un cervello guasto dall'ignoranza, potrà dire, come Tito, di non aver perduto la propria giornata! Ecco i doveri della castellana. La villa, se molto ampia, imporrà quasi gli stessi obblighi. Se piccina, non comporterà tanti ospiti; ma il modo di ricevere quei pochi sarà uguale. Se d'affitto e divisa con altri, imporrà maggiori doveri; oltre agli ospiti vi saranno i vicini. Per mantenersi in buoni termini con questi, conviene guardarsi del pari dall'esagerata prevenenza e dalla eccessiva freddezza; nei primi giorni osservarsi reciprocamente per vedere se si potrà simpatizzare; poi avviare le relazioni con qualche saluto, qualche scambio di parole; passare poi alle passeggiate in comune, alle visite; ma non mai volersi mettere in intimità prima di conoscere, almeno un pochino, con chi s'ha da fare, in ispecie (parrà che dica un paradosso, ma lo spiegherò poi), in ispecie se è gente della vostra stessa città. E perchè? Pel buon motivo che se le persone con cui avete avuto il torto di far relazione alla leggera e che scoprite poco stimabili abitano Parigi o New-York non avrete ulteriori impicci: se invece sono del vostro paese potranno risentirsi se non continuate l'amicizia e procurarvi dei dispiaceri. Per vivere in pace tra vicini non si deve mostrarsi esigenti nè puntigliosi, non associarsi ai reclami ed agli alterchi della servitù. Se v'hanno differenze tra i bimbi, mettere la cosa in tacere, invitare i proprii alla tolleranza, rimproverarli se hanno torto: mai permettersi di correggere quelli degli estranei o far scenate ai genitori per lo sgarbo di un ragazzo. Chi ha carrozza o battello l'offrirà per turno ai vicini, se li conosce tutti: così, se riceve, deve invitare tutti o nessuno. Badisi però che se fra quattro famiglie se ne conosce una sola fin dapprima, è lecito non mettersi in relazione che con quella sola, senza punto contravvenire al galateo, come è lecito vivere soli affatto. D'altro lato va cansata l'eccessiva e subitanea famigliarità, l'entrare ad ogni momento in casa altrui, girando dalla cucina alla camera da letto, con la frase che irrita tanto i nervi di chi desidera un po' di libertà: - Oh! son di casa, io... Non importa. Posso entrare, eh?... - E magari la povera villeggiante si assetta in quella la parrucca! Tempo fa una mia amica, che mi aveva descritto con entusiasmo la bellezza del villino da lei preso a pigione, mi scriveva se nel luogo dov'ero io si troverebbe qualche quartierino per lei. Sorpresa della richiesta e temendola indisposta, mi recai a vederla. - Che è, Gina? sclamai giungendo. Vuoi andartene? C'è qualche epidemia in paese? - Eh! no, rispose Gina, una donnetta di mezza età, calma, metodica come una tedesca. - L'aria non ti si confà? - Anzi! - La casa non ti piace più? - È un gioiello, lo vedi. - Ma, allora, mi ci perdo. È un'invasione notturna di topi? - No. - Di scarabei? - Men che meno. - Oppure... non so che inventare!... oppure ci si sente. Vi sono delle fantasime? - Altro che fantasime! sciamò ella con tuono doloroso. Non fosse che questo... - Spiegati... Ella si pose vivamente un dito sul labbro. L'uscio si aprì: apparve una donnina scarna, gialla, con uno di quei nasi lunghissimi che paiono il distintivo dei curiosi. - Oh, cara vicina, sciamò la donnetta.....Hai delle visite? Scusa!...Ed io che son qua in veste da camera... Allora scappo (e prese una seggiola)... rimarrò un momentino solo, via! la signora è tua sorella? No? Una parente? No? Un'amica, allora, come me? Badi, non più di me! Sono gelosa, io! Ha fatto bene a venire. Era troppo sola, la povera Gina. Per me ci vengo spesso; ma non posso farle compagnia quanto vorrei... A proposito, hai dei funghi oggi, Gina! Me ne darai? lo non ne ho trovati. Cedimene la metà, per mio marito che ne va matto... Per tre quarti d'ora andò avanti così, come una sveglia. Quando essa uscì, Gina mi si voltò: - Hai veduto? Hai udito? Ti meravigli ora ch'io voglia fuggire?... Colei non mi lascia nè lavorare, nè dormire, ne leggere, nè far la mia corrispondenza: è una persecuzione... è una tortura... - E Gina aveva ragione. Ma prima di continuare nell'elenco delle norme per la villeggiatura, chiuderò il capitolo degli ospiti, accennando ai loro doveri. I più importanti sono: l'occuparsi molto di chi ci ospita e l'arrecargli il meno disturbo che sia possibile. L'ospite non farà mai osservazione sulle camere che occupa, sul letto, sul servizio, sulla qualità dei cibi; non mostrerà noia nè malumore, si terrà a disposizione dell' amico per passeggiare e suonare; se i padroni di casa sono attempati o di malferma salute, starà con loro: sarebbe assai scortese che li lasciasse soli, associandosi ad altre brigate. Se amano ritirarsi presto, non uscirà di sera e non si tratterrà fuori troppo tardi. Se è una signorina vedrà di rendersi utile, sia col disporre i fiori dei vasi, sia coll'assistere le padroncine di casa quando lavorano o fanno preparativi per ricever altri ospiti. Se canta o suona si farà udire, senza difficoltà, e ciò per compiacere chi l'ha invitata. Non chiederà mai all'amica con cui si trova delle cose disadatte, sì da metter questa in un dilemma fra le leggi della convenienza e quelle dell'ospitalità. L'ospite nel partire darà sempre una gratificazione alle persone di servizio: appena giunto a casa propria scriverà una lettera di ringraziamento a chi l'ha ospitato. Per l'occasione d'un onomastico o d'un anniversario (non prima, perchè non paia un pagamento) offrirà qualche bel dono, e, se una ragazza, qualche bel lavoro alla persona presso cui ha villeggiato. In campagna, oltre agli ospiti, si hanno i visitatori quelli, cioè, che vengono per una giornata o due. Allorchè vi giungono codesti visitatori, prima cura dev' esser l'offrir loro dei rinfreschi, vermouth, limonata, caffè, ecc. Poi si chiederà loro se hanno fatto colezione o desinato,e s'inviteranno a mangiare senza profondersi in parole per deplorare che non s'ha nulla di buono. Una villa non è un albergo e d'altronde l'aria fina e l'appetito danno ragione a Dante e fan parer savorosi, se non le ghiande, almeno il salame, il burro, il cacio. Però una dispensa in campagna va sempre fornita del necessario per accogliere gli amici ed improvvisar qualche desinare. Ci vogliono scatole di sardine, tonno, salumi, prosciutti, pic-nics, amaretti, vermouth, vini di diverse qualità, sciroppi e conserve; finalmente farina, latte, mandorle, uva secca, uova, tutto ciò che può servire per fare un budino, un'omelette, ecc. Ed è qui, signorine, che sta bene posseder l'arte di impastare con dieci dita affusolate (che conoscono le delicatezze di Chopin ed il segreto dei merletti antichi) un bel pasticcio, una torta dorata, che saranno cose utilissime per far figurare il modesto pranzo campagnolo. Chi vive in città ed ha davanti alla porta il salumaio ed il pasticciere, non si rende conto della necessità di tener la casa ben provvista e rischia così di fair pessima figura coi visitatori. Mi è toccato una volta patir la fame, ma alla lettera, nella casa di certi buoni villeggianti, i quali,non avendo provviste e non sapendo lì per lì valersi del poco che avevano per dare una refezione presentabile, preferirono far il nesci. Però non è cortese nè discreto piombar senz'avviso, per tutto il giorno, da una famiglia che è in campagna. O si previene, o si regola le cose in modo da ripartir prima del desinare. Rimaner fino a quell'ora sarebbe una sconvenienza, perchè porrebbe l'ospite nel dilemma di patir la fame o di dovervi invitare senz'esservi preparato. Lo ripeto, per la colazione è un altro affare. È di prammatica mostrar i proprii fondi, casa e giardino a chi viene a visitarvi: i padroni di casa però debbono sceglier l'ora opportuna, non costringere gente stanca ad errare in mezzo ai campi per lungo tempo ed a scendere e salir molte scale. I visitatori poi hanno un solo obbligo; ammirare e lodare. Lo facciano senza tema. L'amore della proprietà è radicato nel cuore umano ed accieca come tutti gli amori. Per le ville e pei figliuoli s'accetta qualunque elogio con gratitudine. Siccome può accadere che i visitatori desiderino o debbano pernottare, conviene aver sempre una o due camere da letto preparate. Saranno provvedute del necessario letto, canterano, tavola da notte, tavolino da scrivere, scansia, e non solo di ciò che si reputa necessario per sè, ma anche di quel che è necessario ad altri, cioè siccome certuni si copron molto o dormono con la testa molto alta, si metterà in camera una coltre un po' pesante ed uno o due cuscini di ricambio: zolfanelli, acqua con accanto dello zuccaro, alcuni giornali e libri, un lumino da notte. Se l'ospite fosse vecchio o malaticcio, un fornellino a spirito con l'occorrente per prepararsi una bibita calda non farebbe male. Spesso, per non dar disturbo alle persone di casa, certuni si adattano a soffrir di male di stomaco od altro, senza avvertire. Si manderà poi la cameriera od il servo a ritirare i vestiti e le scarpe dei visitatori, e si domanderà a che ora desiderano essere svegliati, se prendano il caffè od il caffè e latte in letto, se hanno bisogno di assistenza per vestirsi, ecc. Nessuno può credere quanta parte abbiano quelle minuzie nella vita e come sia grato ad un ospite il ritrovare un pochino delle comodità di casa sua presso coloro che lo accolgono. Conosco una buona ragazza che è zitellona oggi per aver trascurato quelle piccole formalità, quelle attenzioni che sono come il profumo della garbatezza. Era una signorina colta, buona, ma per disgrazia la sua mamma non conosceva punto il governo della casa nè vi badava: sonnecchiava, leggiucchiava e mangiucchiava tutto il giorno, mentre la figlia dipingeva o faceva di bei ricami. Si propone alla signorina un bravo giovine, ricco, bello, di cui s'innamora subito. Le cose si combinano senza difficoltà... non manca che la sanzione dei genitori del giovinotto: una vecchia coppia modello, Filemone e Bauci. Le signore che chiameremo Giulia e Maria, essendo in villa, lo sposo offre di venir a passare colà alcuni giorni coi suoi, perchè le due famiglie possano conoscersi bene. Si accetta con giubilo, si aspettano gli ospiti con ansia, la mamma sdraiata in un seggiolone a pianger tarde lagrime su Paolo e Virginia, la sposa a miniar due bianche tortore avvinte da un laccio di rose. Verso le dieci, ora a cui si è calcolato che gli ospiti giungeranno alla stazione, le signore si scuotono, scendono in giardino ad aspettarli. Ma sì!vengon le dieci, le dieci e mezzo, le undici; hanno bel appuntare gli sguardi, tender l'orecchio, nessun rumore di ruote, nessun polverìo sulla strada. Grand'inquietudine. Che non vengano? E perchè? La signorina impallidisce, la mamma sospira. Ma ecco spuntare in quella, a piedi - sotto il solleone - una brigatella lamentevole: un omettino secco, in maniche di camicia, con un fazzoletto in capo, un donnone tanto rosso da suggerire serii timori d'apoplessia, un giovinotto polveroso, imbronciato... - Dio buono! A piedi! grida la signorina. - A piedi! ripete la madre. Come? perchè? - Sicuro, a piedi, sclama l'ometto (che era il babbo dello sposo). A piedi! tre miglia sotto la sferza del sole, in agosto! Cosa da morire.Ma non c'erano carrozze. - Ah!certo! dice la madre della sposa. Bisogna comandarle, sa... - O dove le avevo a comandare? in piazza della Scala? replica il babbo, un bravo ambrosiano che chiama pane il pane. Bisognava comandarle qui! Era giusto: era vero... e le signore restarono impacciate. Si profusero in scuse e condussero gli ospiti... in camera? No: li conducevano dritto ad ammirare la villa: ma il babbo, senza complimenti, parlò di colazione. Ah! sì... la colazione! Ci avrà pensato la cuoca! La cuoca invero ci aveva pensato: così il servo: ma la tavola era apparecchiata senza ordine, senza cura, senza fiori: ma la colazione non aveva nulla di accurato. Le colazioni richiedono un antipasto preparato con cert'eleganza: sardine, acciughe o gamberi in conserva, burro, fichi o cocomeri, secondo la stagione: pesci se si è vicini a qualche lago: frutta, vini di diverse qualità, dolci, piattini leggeri, ma ben ammanniti. Invece c'era una profusione di vitello tiglioso (tutto vitello), di salumi rancidi, di cacio asciutto: il pane era raffermo: il vino,preso dall'oste del villaggio, era pessimo. I genitori si sogguardarono. Il desinare fu il fac-simile della colezione. La giornata scorse lenta ed uggiosa: le signore non sapendo che dire nè come trattenere gli ospiti. Alle otto il padre dello sposo parlò d'andar a letto. - Ah! i letti! sicuro! esclamarono le due signore. Convien prepararli. Maria ci avrà pensato? No: Maria non ci aveva pensato: ignorava che gli ospiti pernottassero. Immusonita, andò a metter sossopra le guardarobe semi-vuote, perchè gran parte della biancheria restava per mesi nel cesto della roba da accomodare. Ci volle un'oretta prima che i forestieri potessero salire in stanza. Finalmente la cameriera venne a dire che era pronto e, scortati gli ospiti fino alla loro camera, se la battè, senza domandar altro. I due vecchierelli, rimasti soli, si diedero a esaminare quella camera con sospetto giustificato. Non c'erano zolfanelli; l'acqua era tepida; non c'era che un cuscino per ogni letto, viceversa un coltrone buono Ciò che insegna la mamma. - 9. pel gennaio, nessun libro, nessuna traccia di lumino, e la madre dello sposo ci era avvezza. Le lenzuola..... Dio giusto!... erano umide, anzi bagnate... C'era da pigliar un malanno. I poveretti fecero gran lavori per sostituire plaids e scialli al coltrone, s'affidarono al destino e dopo una notte bianca, benedicono i primi raggi del precoce sole d'estate. Verso le sei cominciarono a tender l'orecchio, sperando che qualcuno si moverebbe, che capiterebbe il caffè.- Aspetta un'ora, aspetta due, eran le otto e mezza e non s'udiva ancora nessuno degli abitanti della villa a dar segno di vita. Si decisero ad aprire una finestra, poi la porta. I loro vestiti, le scarpe, erano sulla seggiola dove li avevano provvidamente preparati; ma ancor sudici, polverosi. Si rassegnarono ad infilarli tali e quali, e andarono alla scoperta. Tutto buio, silenzioso. Cucina senza fuoco, servitù e padroni addormentati: il padre picchiò all'uscio del figlio e svegliatolo: - Da' retta, disse con flemma. Ti rammenti una novella francese detta l' homme qui fait le ménage, in cui ad un povero diavolaccio che vuol far da sè il bucato, il burro e la minestra ne capitano d'ogni colore? Se ti senti la vocazione di faire le ménage, sposa codesta signorina: noi si torna all'ombra del duomo ed in casa tua per ospiti non ci si capiterà! E partirono con un pretesto, ed il matrimonio andò in fumo, e la signorina sospira ancora oggi davanti alle due tortorelle avvinte da un laccio di rose. Ho già detto che in villa i rapporti si stabiliscono più facilmente. Così è lecito ai vicini appiccare discorso se s'incontrano: così inquilini della stessa villa ponno entrare in relazioni senza l'intervento di terzo o lo scambio di biglietti di visita. È lecito del pari, per chi ha ospiti, condurli seco alla sera dalle persone dove sono soliti di radunarsi ed alle gite che si fanno insieme, e ciò senza preavviso e presentandoli al momento. Perfino chi si recasse a pranzo da amici ed avesse ospiti potrebbe condurli seco. Le signorine non escono sole in villa: ma ponno permettersi un breve tratto di strada da una casa all'altra, ed una visitina senza chaperon alle amiche. Per le gite invece ci vorrebbe sempre almeno un babbo od una signora maritata.

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Le buone maniere

202778
Caterina Pigorini-Beri 1 occorrenze
  • 1908
  • Torino
  • F. Casanova e C.ia, Editori Librai di S. M. il re d'Italia
  • paraletteratura-galateo
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Ci sono le Casse di previdenza per la vecchiaia, per l'infanzia abbandonata, per la maternità, pei caduti, pei rigenerati; le Società di temperanza, i baliatici, il patronato scolastico, quello dei liberati dal carcere; ci sono le Società cooperative; quelle di Mutuo Soccorso; i dormitori pubblici, la mutua sussistenza, i dispensari medici, gli ospedali, i conservatorii, gli asili infantili, e una miriade infine di istituzioni benefiche e morali, in cui le donne sono chiamate a prestare il loro concorso morale e materiale fin dove le loro forze lo permettono. Un bell'esempio di carità a' suoi tempi fu dato dalla Marchesa di Barolo a Torino, che dopo aver consolato gli ultimi giorni di Silvio Pellico, consacrò le sue ricchezze e la sua stessa persona al sollievo degli infelici e alla riabilitazione dei colpevoli, con istituzioni che sono in gran parte ancora moderne, per quanto ispirate da convinzioni di esclusività troppo assolute. Quello che colle sue immense ricchezze potè fare questa nipote del gran Colbert, che fu chiamata una santa moderna; quello che potè compiere col suo genio, colla sua virtù, colla sua dottrina, colla sua annegazione, col sagrificio della sua gloria e della sua fortuna, Maria Gaetana Agnesi, oggi possono compierlo lo sforzo e il contributo di tutti, mediante questi Comitati a cui nei piccoli e nei grandi centri le donne debbono dedicarsi, senza trascurare le occupazioni e le discipline domestiche. È il massimo degli errori quello di credere e di pensare che non si possa accudire all'uno e all'altro di questi doveri. Non è anzi che sapendo ottemperare al primo dei doveri che è quello della famiglia, che si può portare nel seno dei Comitati di provvedimento, di prevenzione e di beneficenza, lo spirito alacre e fecondo per un lavoro utile e proficuo a vantaggio di tutti. Ricordarsi sempre che la Beecher-Stowe, e sarà utile ripeterlo ad ogni momento, pensò e scrisse il suo libro per cui la croce potè brillare sul petto dei poveri negri redenti, facendo sola la cucina di casa. Il compito più oneroso, quanto a fatiche materiali per le adunanze, per le compilazioni dei verbali, per la verifica dei conti, delle bullette, e infine per quanto riguarda gli uffici di segretari e di amanuensi, è riservato alle giovinette, le quali senza petulanza, senz'albagia, con discrezione e modestia possono partecipare alle discussioni, anche se avessero carattere morale assai delicato, salvo sempre la verecondia e la fede, come diceva Epitteto; poichè ormai le giovinette hanno la mente aperta a sentire e a comprendere molte cose, che soltanto una trentina di anni fa si ignoravano completamente. Anche questo è un portato dei tempi. Ogni cosa sotto il sole ha il suo tempo, dice un saggio sublime; si può preferire più un tempo che un altro, ma bisogna rassegnarsi al proprio. Solo è a desiderarsi che le costumanze non ammolliscano i costumi e resti incolume il sentimento dell'austerità nazionale.

Pagina 201

Angiola Maria

207192
Carcano, Giulio 3 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
  • UNICT
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Senza piangere, senza parlare, stettero così in quel dolce e prolungato abbracciamento: pareva che la fanciulla non volesse distaccarsene più. « Maria, mia buona e cara figliuola, » disse alla fine la madre. « Perchè m' hai tu abbandonata? questi sei mesi sono stati sei anni per me! Oh Madonna santa! come ti sei cambiata, povera tosa! non ti riconosco più!... Ma com' è mai che ti trovo qui? non sei più nella casa di quel signore inglese?... E voi, signora Giuditta, e mio figlio.... è qui don Carlo? ma perchè non ho io saputo niente fin adesso?... M' hanno detto ch' è ammalato.... voglio vederlo! dov' è?... ditelo, non mi fate penare!...» Queste molte domande, che alla misera suggeriva tutte in un punto il materno affetto, posero in un bel guaio la vedova; la quale s' era bene accorta come la vecchia comare fosse al buio di tutto. Maria non aveva coraggio di proferire parola; guardava, guardava la madre, senza togliere mai gli occhi da quell'amato volto, in cui la solitu- dine e il dolore avevano in poco tempo solcate più profonde le rughe dell'età. Ma, atteggiata com'era, in muta e affannosa comteplazione, la sua sembianza suscitava nell'anima di sua madre una pietà mista a terrore. Alla fine la Giuditta, fatto un po' di faccia tosta e di cuor duro, pensò: - Qui è meglio parlare; un momento o l'altro, bisogna pur ch' ella sappia tutto.... « Cara la mia Caterina, » prese dunque a 'dire, « non vi crucciate così; fatevi un po' di coraggio. » « Oh misericordia! che altro male c' è?... » « Già lo sapete, a questo mondo i cattivi sono anche troppi, e son sempre gli stracci che vanno all' aria, come dice il proverbio.... Così tocca sempre ai buoni a portare la pena dei tristi.... » « Oh santa pazienzai parlate, non mi tenete qui su le spine.... » « Eh! ognuno ha la sua croce, e c'è chi deve portarla anche per gli altri... E già si sa, bisogna star preparati a tutto.... « A che? ma dite su una volta! parla tu, Maria; che in questo modo ben più mi spaventate, mi fate morire; mio figlio sta forse male? forse.... » « No, no, sta bene, ma.... » « Signore, datemi cuore! ma che?... » Per tutta risposta, Maria non fece che gettarsi un'altra volta nelle braccia di sua madre. E la vedova raccontò tutto quel che sapeva, tacendone però la supposta cagione, per la pietà di Maria. La povera donna non volle credere a nulla; il colpo fu troppo forte, e l' anima sua semplice e piena d'amore non lo sostenne; nè pensò nemmeno a chiedere il perchè di tanta disgrazia: non poteva dubitare che il figlio non fosse innocente; il nome di suo figlio era sempre stato per lei come quello d' un santo. Stanca degli anni e sola, metteva in lui tutto il suo cuore, tutto il suo tenero orgoglio di madre; aveva speranza e vita nell' unico amato, il quale, dopo la morte del suo pover' uomo, com' essa diceva, doveva essere il padre della sua Maria. La buona donna, nella solitudine della sua dimora, che un tempo rallegravano la presenza e l' affetto de' suoi cari, e poi rimasta vôta, deserta, come un sepolcro, si consolava pascendosi dell' idea, che l' uno o l' altra avrebbero sortito modesta e onorevole condizione su la terra, e che un giorno forse, ne' suoi più tardi anni, l'avrebbero circondata di cure d' amore, e a larga mano compensata de' sacrifizii fatti, della vita tediosa che trascinava. Non si rammaricava mai di non aver altra compagnia che la vecchia Marta, perchè, conoscendo il cuore de' figli suoi, le pareva quasi d' abitar con loro, di vivere con loro, quantunque lontani; l'unico desiderio che nutrisse, era di poterli di tanto in tanto rivedere; e ogni giorno si teneva più certa di presto abbracciarli, in questa certezza essendo tutta la sua gioja. Seduta sovente al tepido sole delle mattine d' inverno, sotto la nuda pergola della casa, con la conocchia fedele, pensava alla povertà, alla pace, raccontava la storia d'altri anni, raccontava quella dell' avvenire; felice abbastanza quando parlava della sua bella Maria, o del suo curato, alla Marta che le sedeva rimpetto, pettinando le matassine del lino. E allora, senz' avvedersene, le due comari s'arrestavano dal, lavoro; all'una spezzavasi il filo della conocchia o cadeva di mano il fuso, all'altra si perdeva il lino nelle punte del pettine. Ma entrambe, in que' momenti, sollevavano al cielo gli occhi e il cuore, con un pensiero più santo d'ogni preghiera, del pari benedetto. Ma ora che diversi pensieri, che mutamento La mamma Caterina, per tutto quel dì, e per molt'altri ancora, non volle ascoltar ragione, nè consolazione, nè speranza, non domandava che suo figlio, non voleva che vederlo. Anch'essa, come prima aveva fatto Maria, figurandosi alla mente angustie e spaventi, s'abbandonava a' più tristi presagi, non porgeva più orecchio a nulla, nemmeno al piangere della figliuola. Fu allora che l'amorosa fanciulla, la quale innanzi alla venuta della madre credeva di non poter sostenere l' affanno di que' giorni, si sentì tutta invigorire. Una virtù, ignota a lei fino allora, la costanza del patimento, le raddoppiò il debole coraggio; ma la sua fermezza, la calma delle parole e degli atti, avrebbero dimostrato più crudele il martirio dell'anima a chi avesse potuto vedere il suo segreto. Soffogava le lagrime; e ne' momenti di maggior dolore, la sua voce si faceva più sicura e più affettuosa: l' avresti veduta sorridere; era un riso malinconico il suo, ma celeste. In que' giorni, sempre da uno stesso travaglio misurati, che fanno parer eterna la vita, così Maria con l' amor suo procacciava d' ingannare alla madre le ore contate dall' afflizione; ragionandole di tante cose passate, della loro casa, della vigna su la costa, della vecchia Marta, degli altri amici del paese. E ringraziava il cielo con tutta l' anima, solo che vedesse le sue parole avere temperata per poco l' amarezza della sciagura presente. Così ella nascose nel fondo del cuore tutta la sua parte d' affanni; così comprese e tolse sopra di sè quel dolore inesprimibile, che solamente al cuor delle madri non è un mistero; quell' angoscia, la quale non trova parole, nè lagrime, perchè ha de' segreti che a umano orecchio non possono confidarsi e che il cuore altrui non ha mai conosciuto. Non, v' è piaga quaggiù che il tempo non sani; l' abitudine stessa del soffrire può talvolta diventar quasi cara e necessaria; l' amore, l' ambizione, la vendetta, il rimorso lasceranno pur una volta in pace l' anima di cui han fatto strazio; ma la ferita ché porta il cuor d'una madre per a mai e de' figli suoi, non v' ha balsamo che la medichi, non felicità nè tempo che vi spargano sopra la mesta consolazione dell' obblio. Così, abbandonate, e senza saper nulla mai di quel loro caro, Caterina e Maria trascinavano giorni e settimane, in casa della vedova; la quale, dal canto suo, non aveva potuto far di meno di tenerle con sè qualche tempo ancora, quand' esse, deliberate d' aspettare che fosse decisa la sorte del prete, ne la pregarono, a patto di pagarle trenta soldi al giòrno, per le spese. Ciò veramente andava poco a' versi alla Giuditta, causa la paura di cert' altre visite della specie di quella prima, da lei non ancora dimenticata; ma poi, per amor di bene, non seppe dir di no. Una mattina, erano uscite di buon' ora le due donne per andare insieme a vendere a qualche mercante di mode un velo nero trapunto, in que' dì solitari e mesti, dalla Maria: poichè era essa, che col lavoro delle sue mani sosteneva anche la madre. A caso capitate presso la piccola chiesa di san ***, la Caterina, la quale non lasciava passar giorno che non andasse a pregare il Signore per il suo povero figliuolo e per sè, si rivolse a quella parte, e fece per entrar nella chiesa. Ma d' improvviso la fanciulla, tutta compresa dal terrore d' una funesta ricordanza, le s' era stretta al braccio, trattenendola, e con voce bassa e supplichevole: « Oh no! madre mia, non andiamo in questa chiesa; non devo, non posso entrarvi più. » « Perchè, Maria, perchè?... Cos' hai? tu tremi, diventi smorta! ti senti male? » « No! mamma, è un segreto.... un segreto che nessuno doveva conoscere! se sapeste che in questa chiesa.... O mio Dio, toglietene per sempre dal mio cuore la memoria! » « Maria, che mistero è questo? parla, dimmi.... » « Qui no, no, cara madre.... torniamo a casa, ve ne prego, e vi dirò tutto. Oh povera me, povero mio fratello! » E tornarono a casa. In quel giorno Maria non trovò parola che potesse spargere un po' di serenità su l' addolorata fronte della madre. Attendeva taciturna a' suoi lavori,

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Nella vita solinga, abbandonata, ch' egli menava in quel villaggio, presso al padre, alla famiglia, e pur costretto a nascondersi, a divorare in segreto il suo cordoglio, aspettando con fiducia che qualche propizio incontrò lo riconducesse al seno de' suoi, la conoscenza del giovine e saggio vicecurato era stata una gioia, una fortuna per lui. Trovandosi solo, sentiva la necessità di cercar un amico che temperasse il suo sconforto, e lo compatisse. E questa così cara, amichevole servitù nessuno gliel' avrebbe potuta prestare meglio che don Carlo, il quale de' dolori di questa terra aveva abbastanza veduto per poterli prendere sul serio. Qui Arnoldo gli scoperse il perché ruppe col padre suo; e di quell domestica guerra, di che molti avrebbero riso, egli vide e conobbe tutta l' acerbità e il disgusto. E non solo ne patì lui per l' amico, ma gli consigliò di tornare in pace a ogni patto, dicendogli che la collera del padre non podeva esser vinta che dall'amore delle sue sorelle. Ma quando Arnoldo si rallegrava con sè stesso dell' amico acquistato, una memoria più cara gli si risvegliava nell' anima. Si ricordava di quel giorno in cui ascoltò la predica del vicecurato, là nella chiesa del paese. Pensava a quella bellissima e modesta creatura, che aveva veduto pregare, inginocchiata presso la madre; a quella sembianza malinconica e pur così serena nel dolore, a quel volto candido sotto il nero zendado. Egli aveva accompagnato con la sua preghiera quella che allora fece l'anima travagliata della fanciulla. Poi si ricordava che il giorno appresso, quando andò a visitare il prete nella povera casetta, rivide la fanciulla, e al rivederla si turbò : ella invece non aveva sol- levato gli occhi, come non si fosse accorta di lui; e la piccola scortesia di lei gli dispiaceva ancora. Questa memoria la serbava come un segreto; ma non ardiva interrogare il proprio cuore; quantunque il dubbio, in cui era, gli fosse assai penoso. Ma poi, col tornar ch' egli fece alla casetta del lago, e quando, più dimestico con le due donne, vide la semplice bonarietà della madre dell' amico suo, e scoperse l' anima delicata e sensitiva della sorella di lui, cominciò a provare una gioia tranquilla e solitaria, una consolazione che non aveva gustata da tanto tempo. Respinto dalla sua, parevagli quasi d' aver trovato un' altra famiglia; i suoi pensieri, prima agitati da un gran tumulto di cose, i dubbi cocenti che sempre lo travagliavano, le speranze incerte, le visioni che disturbavano i suoi sonni e la sua solitudine, svanivano; e il suo cuore ritornava sereno, si riposava, appena passasse il limitare di quell' umile casa - dove non era nessun rumore, fuorché il lento batter del fiotto al basso del muricciolo dell'angusto cortile ; dove non era nessun' ombra fuor quella della vecchia vite che, salendo bistorta accanto all'uscio della casa, vestiva il pergolato. Al primo avvicinarsi a Maria, egli non poco si maravigilò, ché gli parve di trovare in essa una rara modestia, una riservatezza semplice insieme e sicura, insomma una soavità di costume, che, di subito, annunziava non solo la bellezza nativa del cuore, ma anche lo studio, la squisitezza de' modi. Il portamento di lei era timido, ma aveva un non so qual vezzo: il sorriso rado e quieto, il parlare assai modesto, ma schietto; quel che più toccava il cuore, era il suono dolcissimo della sua voce. Ella portava sempre un vestitino semplicissimo, povero ma lindo, e fatto da lei stessa; i suoi bei capegli eran pettinati con gran cura; le sue mani bianche, come quelle d' una damigella. Ben vedevasi com' ella conoscesse d'esser nata in umile stato, ma pur non avesse dimenticata ancora la gentilezza delle consuetudini d'una volta, la più eletta educazione della sua prima età. Arnoldo vedeva Maria taciturna e pensierosa. Egli non le aveva parlato quasi mai, quantunque venisse sovente; il più delle volte ella e sua madre non discendevano nel salottino, quando il giovine vi si trovava in compagnia del vicecurato. Quindi Arnoldo ardeva dal desiderio di conoscere i pensieri di quell' anima pudica e ritrosa, che pareva chiudere in sè stessa un tesoro di dolcezza e d' amore. E cominciò a pensare che la giovinetta doveva sentir con dolore la povertà della sua condizione, perchè il suo cuore era stato un giorno accarezzato dalle grazie della vita; a pensare ch' ella aveva la virtù d'esser felice ancora nell'oscura sua tranquillità, e che forse sentiva più forti que' nobili affetti di che suo fratello gli ragionava sempre con tanto ardore. Arnoldo aveva egli potuto leggere nel cuor di Maria?... O era il suo un incauto sospetto, un fumo che appanava il limpido specchio di quell' anima pura? L' idea che Maria fosse degna di miglior sorte, la fiducia di sollevarla, di darle una vita novella, lo sedusse, lo vinse: il suo pensiero non corse più in là. S' abbandonò a nuove e gentili illusioni: un amore poetico, misterioso, un amore non rivelato, e tranquillo ancora nella sua purezza, gli suscitò nel cuore altri sogni da quelli che aveva fatto prima, e gli promettevano tuttavia qualche cosa di celeste in terra. Questo amore era il suo più prezioso segreto; uno sguardo, una parola non l' avevano tradito ancora. Dopo molto esitare e molto pentirsi, risolvette di tacere e aspettare, con la sola speranza che la simpatia di quell' anima candida nascesse spontanea per lui.... Nel principio dell'amore, il giovine non pensa che al suo cuore basterà per poco quella solitaria delizia; ch' egli ben presto cercherà, vorrà corrispondenza d' affetti; non pensa che tranquillo può essere il sorriso della virtù, non quello della passione, e che; sparita la prima aurora dell' amore, esso non gli dipingerà più la vita co' suoi bei colori; ma l'abitudine l'avrà circondata di muta nebbia, e allora verrà il tempo del disinganno, fors' anche del rimorso. E non era la prima volta che Arnoldo amasse. Ma erano stati amori d' ebbrezza e di delirio; amori di un giorno, d' un' ora: visioni fugaci e lusinghiere di donne bianche e rosee, di semidive trasparenti sotto i ben foggiati merletti, in un' onda di trine e di veli, ne' molli velluti, o nelle pellicce profumate; erano stati capricci di facili seduzioni, usurpate dolcezze, e misteriosi ritrovi; gioie sparse di fiele, e sfuggenti più rapide che non fosser venute, lasciandosi dietro un torpore, un tedio; se pur non era affanno e dispetto. Fino allora, dell'amore egli s'era fatto giuoco, come le donne s' eran fatto giuoco di lui: le grandi, le infelici passioni, colle quali si pretende di dare una tempra romanzesca alla nostra società, soleva chiamarle le passioni a buon mercato. Si può perdonargli, perchè quando amò per la prima volta, credeva che l'amore fosse tutt' altra cosa! Ma ora quel cruccio e quell' amarezza avevano dato luogo ad altri voti, ad altri pensieri. Egli non credeva ancora all'amore, ma, pur credeva all' incanto della bellezza; e già si sentiva migliore da, quel momento che una povera fanciulla, la quale non lo cercava, non lo guardava, era divenuta come la forma ideale delle sue fantasie. E non sapeva che quel divino soffio che spira la vita alla bellezza, è amore! Già eran passati alcuni giorni dacchè Arnoldo aveva racquistata la grazia del padre; nè più essendosi in quel tempo incontrato coll' amico, lasciò la villa e prese il sentiero lungo il lago che conduceva alla casetta. L'acqua era quietissima; la sera bella, ma senza luna; ed egli pensieroso più dell' usato. Bussò. Chi venne ad aprirgli fu Marta, la vedova d'un pescatore che Caterina alla morte del marito aveva fatto venire in casa per le bisogne domestiche, e per non rimaner tutta sola con la figliuola, quando don Carlo fosse partito. La Marta, che già conosceva il giovine, « Non c' è nessuno, signore! » disse, restando su la porta. « Don Carlo è dal nostro signor curato, Caterina e Maria sono in chiesa al rosario; e non tornano ancora. » « Dunque me n'andrò! » disse Arnoldo, col cuor malcontento. « Ma, se volesse fermarsi, possono tardar poco.... » « Non importa! Ma sì, aspetterò, bisogna ch' io parli a don Carlo. » - E seguendo la donna, attraversò le due stanze a terreno, e per la scala che riusciva in un canto del salotto, ascese nella camera dell'amico. Marta pose giù sur uno scrittoio il lume, e se n' andò. Poco stante egli s'accorse che le due donne erano tornate a casa; intese la voce di Maria cercar di Marta, quella voce a lui così cara. Poi rispondersi, bisbigliare fra loro, e non far zitto.... Certo Marta aveva detto alle donne ch' egli era là, e s'eran ritirate nell'ultima cameretta, dar altra parte della casa. Intanto Arnoldo aspettava. E lo guardo suo errava distratto su le carte e su' pochi libri, de' quali era sparso lo scrittoio del prete: un volume delle Opere di sant'Agostino, un Tommaso da Kempis, un Dante di vecchia edizione, il Breviario e la Bibbia; e qua e là, fra que' volumi, vide gettati a caso alcuni fogli e quaderni manoscritti. Ne prese uno, l'aperse, lo guardò. Eran pensieri scritti in questo o in quel giorno, nel tempo della solitudine, in ore di tristezza o di meditazione. Lesse in que' fogli amare parole, parole di sconforto e di sdegno, dettate, senza dubbio, da una potenie e gelosa cura, poi temperate da un voto di pace, da un ricordo di pietà o di rassegnazione, da un augurio di virtuosa coscienza. Una pagina, ch' egli trascorse con rapido sguardo, diceva: A' 30 d'aprile 18... « Il mio povero padre è morto! - E io non lo vidi nella sua ultima ora, non ebbi il conforto di bagnar del mio pianto la sua testa moribonda! - Oh che lagrime avrei sparse, e con che fervide parole pregato!... Ma no: anche questa misera speranza doveva esser vana. - un' altra prova che il Signore mi ha mandata!... » A' 2 di maggio. « .... Le lagrime di mia madre, il dolore tacito e rassegnato della mia dolce sorella, hanno umiliata l' anima mia. E a me tocca di consolarle, a me di sorridere, col cuore serrato dall' affanno! Datemi forza, o Signore, e benedite, benedite sempre a quelle pietose e cristiane creature! » E più sotto, a caratteri rapidi, intralciati, che mostra vane la foga dello scrivere: «....Perchè il cielo è così sereno, e la natura così feconda e lieta? - Una storia di secoli di sangue, inutile insegnamento a' miei fratelli - una contrada senza nome e senza avvenire - un' età grave a sè stessa - uomini vili e ciechi, che non sanno se vivano, e perchè....! Non è uno scherno della provvidenza?... O forse è la pena di un eterno peccato, la dimenticanza della prima virtù che Dio ci ha data, la virtù del volere?... No! no! via da me questi mortali e terribili pensieri! - Non ho madre e sorella, a cui preparare una sorte migliore, non ho tanti poveretti, a' quali un dovere più sacro della vita e della morte mi lega per sempre?... » Volse la pagina e continuò: « - Jeri ho incontrato quel giovine straniero. Non so perchè egli brami tanto di conoscermi e di leggermi in cuore. Pure, l'anima sua mi pare schietta e nobile, vorrei rivederlo; poichè mi sarebbe dolce lo spargere qualche consolazione in un cuore ben fatto, in una vita giovine e capace di bene. - Stasera quando raccontai a mia madre l' impensato incontro, Maria mi disse d' aver veduto più d' una volta quel solitario giovine, che da qualche tempo dimora in questi contorni; e avend' io soggiunto ch' era un gentiluomo inglese, si maravigliò come cercasse di farsi amico mio. - Buona sorella, le dissi, tu non sai di quali oscuri mezzi talvolta si valga il Signore per il nostro bene! Chi sa che quell' anima traviata e deserta non trovi nella calma delle mie parole, nella povera virtù d'un uomo ignoto, com' io sono, un occulto consiglio, un nuovo conforto a miglior meta, la prima parola forse d' una verità aspettata, nè ancor conosciuta!... Allora ben me n'avvidi, il puro intelletto dell' ingenua fanciulla comprese d'un lampo il mio segreto proposito. Oh la purezza del cuore e del costume sono la più vera luce del pensiero!... » - Buona e infelice Maria! Penso bene spesso a te, e ti compiango, perchè l' anima tua parmi destinata a patir molto quaggiù. Il tuo cuore sente troppo, e troppo. di buon' ora hai gustato i piaceri dell' anima, per viver contenta nella tua meschina sorte.... Ecco a che si riduce la benevolenza del ricco!... Con te, io non ho mai fatto parola di ciò.... Ma oggi bastò una lagrima che ti cadde dagli occhi ad agghiacciarmi il cuore. Essa mi parlava del giovine forestiero. Oh! con quale accento, con che sorriso celeste mi disse: Egli dev' esser buono, e pare infelice! E tu devi consolarlo, o fratello: oh se le tue parolgli toccassero il cuore!... Io non potrei sopportare il pensiero ch' esso abbia ad andar perduto in questo mondo e nell' altro!... » Arnoldo non lesse più innanzi. Gettò dispettoso il libro, un amaro sogghigno errava su le sue labbra. Ristette, lo sguardo fisso, le braccia serrate al petto, con un, brivido nel cuore e uno strano tumulto ne' pensieri. Dopo alcun tempo don Carlo, tornato a casa, salì nella stanza; e, veduto l' amico in atto di sì profonda occupazione, che non s'accòrse del venir suo, lentamente gli s'avvicinò. « Arnoldo, voi m' avete aspettato, non è vero? » « Siete voi? » rispose, riscuotendosi, il giovine. « Ero venuto a cercarvi. Non vi aveva riveduto da alcuni giorni, temevo non foste partito. » « Converrà bene che vi lasci presto; forse non resterò oltre domani.... » « Come? » « Da parecchie settimane son qui. Oramai, le poche brighe che domandavano la mia presenza sono finite. Jeri mi fu consegnata la tutela di mia sorella, e di quel poco ben di Dio che le tocca; quest' oggi ho riscossa porzione d' un vecchio credito, che mio padre teneva verso un tale di Lecco. Adesso, mi richiamano altrove doveri assai più sacri. » « V' assicuro che mi sa male che partiate. Ma, lo prometto, verrò a trovarvi, e vi scriverò. Il vostro nome non è di quelli che si dimenticano cosi presto; e la conoscenza nostra, spero, non morrà come tante che profanano la virtù e la fiducia dell' amicizia. » « Dio il voglia! E quanto a me, vi confesso che una certa tristezza mi prende nel lasciare questa mia povera casa, e mia madre, e Maria.... Esse qui resteranno con la compagnia di molti travagli; e io non potrò, solo e lontano da loro.... » « Oh! ne siate certo, finchè io starò qui, verrò di frequente a visitare la buona vostra madre; e verranno meco le mie sorelle, e farò conoscer loro Maria. Ed esse s' ameranno, perchè anche Elisa e Vittorina sono due affettuose fanciulle.... Oh voi noi sapete ancora! Ho seguito il vostro consiglio; e furon esse che calmarono lo sdegno di mio padre, che m'hanno ricondotto al suo seno.... Dacchè non ci siam veduti, la pace fu fatta: domandai perdono a mio padre d'una colpa non mia; ma lo feci di cuore.... Oh da tanto tempo non avevo intesa la sua voce! » « È dunque vero? Ora, dovete essere felice! Il vostro cuore gusterà una di quelle gioie che solo sono concesse alla virtù cristiana, d'umiliarsi. » Don Carlo ringraziò l' amicò per la sua cortese pro- messa; poi, prima di prender commiato, volle dirla anche a sua madre. Usciti di là e passati per un piccolo corridore, vennero nella stanza dov'erano le donne, le quali non aspettavano quella visita. Era la cameretta di Maria. La parete ignuda e bianca; da un lato un letticciuolo, a capo del quale pendeva un quadretto a olio, l' immagine della Madonna addolorata; e sotto, una candela benedetta e un crocifisso d'argento. Era il letticciuolo coperto d' una coltre di color cilestro, e le lenzuola ripiegate sovr' essa così candide che non parevano ancor tocche. Da un altro lato, una piccola finestra che guardava nel cortile verso il lago, mezzo nascosta da una tendetta bianca. Qualche seggioia di paglia, un rozzo tavolino, suvví una piccola spera, e un vecchio armadio in un canto compivano la suppellettile della cameretta. Arnoldo sentì una tacita gioia in cuore, quando il suo sguardo s'arrestò su quella scena modesta e casalinga. I raggi pallidi, che fuggivan di sotto il coperchio della lucerna, mandavano una quieta luce su l' angelica faccia della fanciulla, e su le piccole sue mani intese a lavorar di maglie; i bruni capegli le rilucevano lisci e spartiti su la fronte, ricadendole dietro le orecchie in folte e facili anella fino a toccarle il seno, china com' era; una veste semplice di percallo cenerino, e un nero fazzoletto appuntato nella cintura aggiungevano una grazia pudica al con- torno della sua leggiadra persona. La madre sedeva anch'ella presso la tavola, occupata a rimendare coll' ago alcuni vecchi lini; e la Marta più addietro, presso la parete e sur un trespolo, attenta all'arcolaio, dipanava. - Il lume della lucerna, disegnando con varia movenza d'ombre e di chiarore quel gruppo così raccolto dava all'umile scena un incanto di quiete e d'armonia: pareva uno di que' cari quadretti fiamminghi così semplici, così veri. « Sapete, madre mia? » disse don Carlo, entrando « bisogna ch'io parta domani: ho deciso. « Come? non ne sapevo nulla: è proprio vero? do- mani, mattina?... » domandò con turbato accento Maria, sollevando la faccia. Voleva dir di più, ma s'accòrse che con suo fratello anche un altro era là: chinò il capo, e ristette tra pentita e peritosa di quella domanda, che le era uscita dal cuore. « È necessario, » rispose il prete; « stetti qui con voi più ancora che non avrei dovuto. » E Caterina intanto scuoteva la testa, in atto di rassegnazione malcontenta, e mormorava piano: « Già son avvezza a mandar giù di più, amari bocconi.... dunque, pazienza! » « Sì! abbiate pazienza. Anche questa volta, mamma Caterina la confortava Arnoldo. « La speranza del rivedersi è intanto qualche cosa: io poi vi darò spesso notizie di vostro figlio, perchè gli ho promesso d'andare a visitarlo a****. » « Lei è proprio un buon signore! » rispose, in atto di render grazie, la madre. « Oh sì, » aggiunse Maria, con voce soave, ma così timida e fioca che Arnoldo l' intese appena. « Fatevi pur cuore, nè mettete di malanimo anche me. Già bisogna che sia così! » diceva don Carlo. « Ma credetelo, amico, » riprese Arnoldo, « m'ero assuefatto così bene a passare i dì con voi, in questa contrada! « Errando in vostra compagnia da qualsiasi banda, ogni paesetto, ogni villa aveva la sua storia, ogni montagna, ogni rupe il suo nome; e temo che mi costerà il divezzarmi.... » « Lei è un signore » soggiungeva Caterina, « e non vorrà pensare a noi.... » « Che cosa dite? anzi, se non me lo negate, voglio far conoscere le mie sorelle a voi e a vostra figlia, che siete così amorevoli e buone. » « Oh signore! noi avremo vergogna » rispose la madre. « No, non può essere, ve n' assicuro. » « Oh desideriamo tanto di conoscerle » soggiunse vivamente e arrossendo alcun poco Maria: « tra noi ci vorremo bene. » Quella sera, l' ultima ch' egli passava presso de' suoi, chi sa per quanto tempo, don Carlo rimase fino a ora tarda con le donne, le quali a malincuore pensavano al domani. Anche Arnoldo stette un buon pezzo in quella modesta compagnia, fra que' dolci colloquii familiari, in cui si ripetono tante lievi e care cose, e s'avvicendano parole di consiglio, di ricordo, d'aspettazione. L' animo suo sentiva una pura contentezza; e quando, salutato di novo l'amico, tornò per la riva del lago alla villa, ripensava alla buona famiglia, e gli pareva che il suo cuore rimanesse là, in quell' angusta cameretta.

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I ragazzi della via Pal

208271
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Passi risuonarono nel silenzio della stradina abbandonata. «Qualche operaio che rincasa», pensò Boka tra sè, e continuò a passeggiare sul marciapiede di fronte. Aveva la testa colma di pensieri strani; la vita e la morte e cose del genere in mezzo alle quali non riusciva a raccapezzarsi. I passi risuonarono più vicini; ma ora sembrava che il sopravvenuto avesse rallentato. Un'ombra nera camminava lungo le case e si fermò davanti alla porta di casa di Nemeciech. Entrò un istante sotto il portone poi tornò ad uscire. E si fermò. Poi si mise a camminare in su e in giù, e quando giunse sotto un fanale il vento gli schiuse un'ala del mantello. Boka guardò: sotto il mantello c'era una camicia rossa. Era Franco Ats. I due comandanti avversari si fissarono cupi. Per la prima volta, nella vita, erano di fronte a quattr'occhi. S'erano incontrati, così, davanti alla triste casupola, l'uno guidato dal proprio cuore, l'altro dal proprio rimorso. Non dissero niente. Si fissarono soltanto. Poi Franco Ats s'avviò e si mise a camminare su e giù davanti alla casa. Camminò a lungo, molto a lungo. Finchè il portinaio non venne dal fondo del cortile a chiudere la porta. Allora Franco Ats gli si avvicinò, si tolse il cappello e gli chiese piano qualcosa. Anche Boka intese la risposta del portinaio. Aveva risposto: — Male!... E sbattè la grande porta pesante. Questo rumore ruppe il silenzio della strada, poi si spense come il tuono tra le montagne. Franco Ats s'incamminò adagio. Andava verso destra. E anche Boka doveva ormai tornarsene. Spirava un vento gelido; e uno dei generali andò a destra, l'atro a sinistra. Ma neanche ora si dissero una parola. E la viuzza s'addormentò definitivamente nella notte pungente di primavera, nella quale oramai dominava il vento scotendo il vetri dei fanali, staffilando le cime delle fiamme gialle del gas e facendo stridere qualche bandieruola arrugginita. Soffiò per tutte le fessure e penetrò anche nella stanzetta dove alla tavola stava seduto un povero sarto davanti a una magra cena, anche presso il letto dove ansava un capitano con le gote ardenti e gli occhi lucidi. Scrollava la finestra, il vento, e fece vacillare la fiamma della lampadetta a petrolio. La mamma ricoperse il figliuolo. — Tira vento, piccolo mio. E il capitano rispose con un sorriso triste, appena percettibile, sussurrando: — Viene dal campo. Dal dolce campo...

Contessa Lara (Evelina Cattermole)

220196
Storie d'amore e di dolore 2 occorrenze
  • 1893
  • Casa editrice Galli
  • Milano
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Allora Lo Santo dovette aver la visione netta della verità, come in un lampo; e abbandonata la figliuola con una stratta che la fece traballare e cadere a terra, venne difilato a me e mi si piantò dinanzi con le braccia incrociate, fissandomi negli occhi, quasi avesse voluto mangiarmi. - Dunque, sei stato tu? — domandò ansando. - No! no! non è vero! non è vero! — strillava Tinuzza che s'era rialzata e veniva a mettersi tra suo padre e me, intanto che mi faceva de' segni perchè tacessi. - Sì, sono stato io — confessai — ma la sposo. - Ah, infame! Ah, schifoso! — sbraitava la madre con quella vociaccia da strega. - Ah, infame! Ah, schifoso! Ma il padre le impose silenzio: - Taci, ora. Infame e schifosa sei tu che non hai saputo insegnar l'onore a tua figlia. — E vòlto verso me disse gravemente: - La sposi, va bene; ma quando? - Anche subito: appena son pronti i fogli. - Bada, — soggiunse il vecchio, — o in chiesa o... dove sai. — Così dicendo accennava al suo fucile appeso al muro. Io feci un gesto che significava: Non dubitate! e tutti mi credettero. Sapevan che avevo una parola sola, come mio padre, come i miei fratelli, come tutti di famiglia. Tinuzza si stropicciava il braccio illividito e aveva ricominciato a ridere. - Ricòrdati però una cosa, — soggiunse Lo Santo parlando alla figlia; tu esci di qui, ma non c'entri più. Male femmine in casa mia non ci stanno! Di lì a meno d'un mese ci eravamo già sposati. Il male era ch'io non avevo ancora vent'anni: e mi restava a passar la coscrizione. - Se tiri un numero basso, vengo con te, — mi dichiarava Tinuzza, che non voleva saperne di malinconie. — Dai miei, lo sai, non posso più voltarmici; mio padre è una bestia; e co' tuoi genitori, che mi guardano male, non rimango certo. Tanto, che noia ti do? E rideva all'idea di seguirmi, di mutar paese, di veder gente e cose nuove, senza preoccuparsi affatto de' fastidi e della miseria che ci avrebbe creati quell'esistenza in città sconosciute, senza speranza di guadagno nè dell'uno nè dell' altro, e per di più con un bimbo su le spalle. — Quando ci si vuol bene non ci son guai, — concludeva, scrollando le spalle; perchè in que' tempi Tinuzza credeva d'amarmi con tutta l'anima, come io veramente amavo lei; e, più d'una volta quella sua fiducia nell'avvenire, che non l'impauriva purchè me la fossi tenuta a fianco, metteva coraggio anche a me. Qualche soldo, a forza di faticare col carro, me l'ero posto da parte; mio padre m'aveva promesso un'altra sommetta per quando fossi partito; sì che mi lasciavo andar anch'io a non disperarmi per quel mutamento. Chi sa mai? da cosa nasce cosa; si fanno fuori conoscenze nuove che posson essere vantaggiose; e sorridevo a quel destino presso a buttar me con la mia famigliuola, quasi tre bimbi, spersi nel mondo. Mi toccò proprio un numero basso, come m'aspettavo; sì che non c'era rimedio: marcia! Intanto che mia madre pigiava dentro un sacco quel po' di biancheria che a mano a mano, di nascosto a tutti, m'era andata preparando: calzette a maglia, camicie e camiciole, roba ordinaria, sì sa, badava a dire brusca brusca, con una voglia di piangere che l'affogava: — Io, vedi? se tu non avessi preso moglie, sarei morta di dolore quando tu mi fossi andato via soldato; ma ora com'ora, poco me ne importa; anzi, non me ne importa affatto; direi perfino che ci ho gusto di non averti davanti agli occhi. Voglio mangiare un boccone di più; voglio ingrassarmi; non muoio, sai; no, che non muoio! — Merulla sorrise al ricordo di quelle parole materne, come avrà sorriso a chi sa quanti rimbrottoli della brava donna quando era fanciullo; e soggiunse: - Diceva di non morire; e pure è morta, proprio di dolore, quando.... Basta... è morta anche lei. - E con l'avambraccio velato di lanuggine bruna, s'asciugò una grossa lacrima che stava per iscorrergli giù su 'l mento. Subito riprese: - Tinuzza m'ammiccava dietro le spalle di mia madre, come per dire: — La senti? Ma la senti? Difatti, quella povera vecchia, ch'era un angiolo con tutti, non poteva soffrir mia moglie. Andava ripetendo che m'aveva stregato quella buon'a nulla; che m'aveva fatto bollir nel caffè un ciuffo de' suoi capellacci gialli come le pannocchie del granturco per attaccarmi a lei in quel modo. Quando Tinuzza rideva col solito fare spensierato, mia madre si mordeva le labbra per non le vociare qualche imprecazione. — Dio voglia che quella donna non ti porti disgrazia! — esclamava a mezza voce, voltandosi a me. - Non mi rispetta, vedi; e non rispetterà neanche te. Fra loro due la guerra era implacabile, continua; a segno che, da questo lato, la partenza mi fu di sollievo. Su 'l medesimo piroscafo che mi trasportava da Palermo a Napoli insieme agli altri giovani del mio paese, destinati a un reggimento di bersaglieri, che pigliava le reclute là giù, s'era imbarcata anche mia moglie col piccino, ch'essa allattava. A Napoli, ci ammucchiarono, noi soldati, in un convoglio diretto a Roma: era quella la nostra destinazione. Tinuzza viaggiò in un'altra terza classe, ma sempre nel treno che mi portava. Oh, Dio! che spasimo quella prima notte e quel primo giorno di quartiere, senza saper dove era andata a sbattere la mia donna con la creatura, in mezzo a una città così grande, senza conoscervi un'anima! A poco a poco ci si acclimatò tutti e due in quella Roma che mette paura. Lei era andata a alloggiare in una cameretta a pianterreno su la svolta d'una via che s'allungava a destra dietro la caserma. Glie l'affittava una portinaia vedova, la quale, presso il padrone dello stabile figurava d'aver presa seco, per favore, una sua cugina. Lì capitavo sempre a trovar Tinuzza, all'ora dell'uscita. — Ma è proprio vostro marito questo ragazzo? — domandava la sora Rosa a Tinuzza mia con un certo sorriso e un dondolar del capo che dimostravano quanto poco ci credesse. - Sicuro ch'è mio marito; ci abbiamo anche un figlio: volete più bella prova? — rispondeva l'altra con quel riso che si poteva interpretare in qualunque modo. - Sora Rosa, le giuro che siamo sposati in chiesa e al Comune, quanto è vero che questo è un innocente — asserivo io prendendo in collo il mio bambino, che già aveva imparato a conoscermi e mi tendeva le braccia. Allora la vedova pronunziava un: — Sarà vero, sarà... — così pieno di dubbi e così canzonatorio che mi veniva voglia di darle una manata in faccia. Tinuzza, lei, quasi ci si divertiva, perchè il suo carattere non somigliava al mio. - Hai fatto presto da vero a farti l'amorosa! - mi dicevano i miei compagni, quando invece d'andar con essi a passeggio e poi finire in qualche osteria fino all'ora della ritirata, li lasciavo appena vedevo spuntar mia moglie che mi veniva incontro su 'l marciapiede dirimpetto. - Accidenti, che bella biondina! — esclamò una volta un sergente furiere di cavalleria col quale m'ero accompagnato per istrada. Era anche lui del mio paese; ma faceva già il militare da qualche anno. Ci eravamo rintoppati per caso, e non ci pareva vero di chiacchierar un po' dei parenti e degli amici lasciati là giù. - È Tinuzza, — risposi, — o che non la riconosci? - Chi, Tinuzza? - Tinuzza, Agata Lo Santo, quella ragazzetta che stava vicino a casa mia. - Corpo! — bestemmiò maravigliato. - Com'è cresciuta in un momento e come s'è fatta bella! - In un momento, no, — osservai io - ne son passati degli anni! Tinuzza s'era unita a noi, dietro un mio cenno, e rideva di Puddu Cassione, che la guardava mordendosi i baffi e mormorando: - Passa, passa il tempo! - Son vecchia, lo so — disse lei, forse per il gusto che provava a farsi ripetere che, crescendo, s'era fatta bella. Lui rise rumorosamente, col petto da colosso che gli sussultava. - Corpo! ci voleva un bel coraggio a chiamarsi vecchia a quindici o sedici anni: quanti ne poteva avere? - Ne ho diciotto, — fece gravemente Tinuzza, come se ne avesse confessati cinquanta. Ridemmo tutti. Cassione le domandò poco dopo: - Non per offendervi; ma come mai vi trovate?... Io l'interruppi: — A Roma, eh? Ci si trova perchè è mia moglie: ci siamo sposati or son sedici mesi. Allora, dopo le solite esclamazioni e i rallegramenti d'uso, Cassione sentenziò che tutti e due, tanto io quanto lei, avevamo fatta una corbelleria delle più grosse. S'intende non aver giudizio, ma a quel punto, corpo! E rideva, corrucciandosi di quell'inesperienza da ragazzacci che ci doveva trascinare a tanti guai. Passeggiammo per circa un paio d'ore tutti e tre in fila, un po' fuori d'una porta, un po' in città; e s'entrò in un'osteria, dove mangiammo un piatto di fettuccine al sugo. Avvicinatasi l'ora della ritirata, si accompagnò Tinuzza a casa. Io stavo in pena per il bambino, che quel giorno era stato affidato alla sora Rosa. Tinuzza invece, non ostante che lo allattasse, non sembrava ricordarsene; a segno che le feci un rimprovero, e ci lasciammo piuttosto freddi su la soglia della portineria. — Vedi quanto sei stupido! — mi disse mia moglie il giorno dipoi. — Ciccu sta più volentieri con la sora Rosa che con me. Iersera l'ho trovato che dormiva. Essa gli aveva dato da succhiar un torrone. Così la vita andò avanti per noi un certo tempo. Tinuzza guadagnava qualcosa presso due o tre famiglie dove la portinaia le aveva trovato da cucir da uomo; io, che non ispendevo un soldo quando non ero con lei, le mettevo in mano la mia misera paga della cinquina; e co' denari portati da casa si campava da gente onesta. Il mio maggior piacere era di fuggir l'oppressione, la monotonia del quartiere, e andarmene in campagna insieme alla mia sposa e a mio figlio, ch'ella portava in braccio. Là ci mettevamo in libertà, su qualche prato. Lei posava a terra il bambino, che scherzava co' più alti fili d'erbe smossi dal vento, con qualche insetto che passava, co' fiori, che più gli piacevano quanto più eran coloriti; teneva la boccuccia aperta, serio, e metteva un suono inarticolato di maraviglia e di desiderio tendendo la mano grassa, tutta pozzette, per afferrar quel che vedeva anche lontano. Sdraiato accanto a lui, io gli facevo il solletico su le gambe sotto i calzerotti a rigoline, e, mentr'egli si rovesciava su la sottana di sua madre, ridendo, da pazzarello, e mostrava quattro dentini bianchi come il latte appena spuntati, la mia mano saliva, saliva su fino alle coscette, e allora ci ravvoltolavamo insieme, come due cani. La sua passione erano i bottoni della mia giubba; li toccava; ci si specchiava il visetto roseo che appariva lì su l'ottone allargato e gonfio come una palla. - Una seconda volta Merulla sostò per asciugarsi Contessa Lara. 18 gli occhi. Bella Madre! che c'era da fare? Ormai era andata com'era andata. — Dopo una di queste gite all'aria aperta, sembra che il mio piccino prendesse dell'umidità. Tanto è vero, che il giorno dopo piagnucolò di continuo; nè latte nè minestra gli volevano passare dalla gola; la madre gli canterellava per acquetarlo — così mi raccontò — ma lui non potè prender sonno. E scottava, tutto rosso. La sora Rosa, donna d'esperienza, dichiarò che aveva un febbrone. Dire come rimanessi io a queste notizie, non avrei saputo nè anche allora; figuriamoci adesso, che son passati tanti anni... e tante cose! Mi prese un tremito come a un ragazzino che ruba la prima volta, e dopo aver baciato e ribaciato quel povero angiolo, che mi lasciava su le mani e su la bocca un'impressione come di metallo scaldato, tornai al quartiere, più stordito d'un ubbriaco. Anche il giorno dopo, in piazza d'armi, barcollavo; toccai appena qualche boccone del rancio e, quando fui libero, corsi a casa. Il bambino stava peggio. Mi parve che Tinuzza me l'annunziasse con tanta indifferenza, che mi misi a insultarla. — O che forse non è sangue tuo, che stai lì così come se morisse la gatta? Lei alzava le spalle, mostrando di compatir me come un esaltato e di non saper che fare alla creatura: gli dava la zinna, e lui non la voleva; gli dava la farinata, lo stesso; aveva anche chiamato il medico; o che cosa doveva far di più? Io stavo intontito a guardare il mio bimbo. Mi ero seduto su la sponda del letto e gli appressavo la bocca su le labbra enfiate da cui usciva un alito infocato. Lo chiamavo: Ciccu, Ciccu! Non apriva nè pure gli occhi! Il catarro gli serrava la gola per modo che, respirando penosamente pareva rantolasse. — Senti, io stasera non vado alla ritirata. M'infischio di tutto, io! Tinuzza si stizzì. Che diamine! O non c'era lei? Per un po' di mal di gola, una semplice frescata, far tutto quel diavoleto! E s'io insistetti dal canto mio, lei insistè più ancora. Diceva fra i denti: — Maledetto il momento che fu generato! — Ma non si spiegava chiaro per paura di me, sapendo che adoravo il bambino. Quando furono le sette, mi si piantò davanti; disse ruvidamente: - Senti che sona! Insomma, vai o non vai? Per me, se ti ficcano in prigione poco m'importa; ma deve importare a te, che non potrai più mettere il naso fuori. E di Ciccu, di', chi ti dà notizie, allora? Io, lo sai che in quartiere non ci vengo; già, neppure mi farebbero passare. In quel momento un urto convulso sollevò il pettuccio del piccolo malato; la tosse che doveva uscire a colpi non trovava in quell'esserino la forza per isfogarsi; lui si dibatteva, si lamentava, soffocato.... Io me lo presi in braccio, e sollevandolo cercavo di farlo star un po' meglio; ma inutilmente spalancava gli occhi, apriva la boccuccia: il catarro gli metteva in gola come un involto di bambagia. A momenti la faccia gli diventava livida. Come un pazzo, per lo spavento che mi morisse lì per lì fra le mani, lo posai di nuovo su 'l letto e corsi in cerca d'un medico. In due farmacie mi fu impossibile trovarlo. Nella terza, un grosso dottore stava seduto sur una poltrona e parlava di politica col ministro del negozio, quietamente. Quando mi videro arrivare così trafelato e che gli raccontai il fatto, il medico s'alzò, rivolse ancora quattro parole al farmacista a proposito del discorso da me interrotto, e mi seguì fino a casa. Visitato il piccino, disse che si trattava di crup; scrisse in fretta una ricetta e promise di tornar al mattino presto. — Vai o non vai? — mi chiese Tinuzza forse preoccupata della punizione che doveva aspettarmi. Diedi un altro bacio, un altro sguardo in cui lasciavo l'anima mia a quel povero corpicino scarlatto per la febbre, e a capo basso, di corsa, tornai al quartiere. Prima che ne varcassi la cancellata, sonava il silenzio. Andai in prigione, si capisce. La vita militare non conosce riguardi. Il regolamento... non esiste altro al mondo. Allora scrissi due righe a Tinuzza. Ero disperato, mi sarei dato la testa contro i muri: le dicevo che per cinque giorni avrei dovuto star chiuso senza veder nè lei nè il bambino; il bambino sopra tutto mi premeva; badasse a curarlo, a non fargli mancar nulla, a chiamare il medico quante volte al giorno c'era bisogno; magari ci fosse voluto tutto quel poco che avevamo in casa; vendesse pure anche la biancheria, non m'importava, per amor del bambino. II domani, questa lettera fu rimessa a mia moglie da un mio compagno informato della faccenda. II caso volle — dico il caso, vede, signora, non dico la fortuna — ch'essendo quella la mia prima punizione, mi venisse diminuita da cinque a tre giorni. Avevo un capitano ch'era un cuor d'oro, ecco come fu. Appena fuori di prigione, all'ora dell'uscita, mi precipitai a casa. Il cuore mi batteva; mi sembrava che i miei piedi si mangiassero la strada. Bella Madre! Come l'avrei trovato, il bambino? Penetrai come un fulmine in portineria, e mentre cercavo d'aprir uscio di camera di mia moglie, la sora Rosa, tutta turbata, me ne tratteneva. - Non entrate, per carità, che fate ? La sor'Agata non c'è, — diceva essa balbettando - aspettate, aspettate ! - Perchè non c'è Dov'è andata ? O non è malato il bambino ? La vedova mi guardava, smarrita. - Ma che cosa è accaduto, per la Madonna? — urlai io inferocito — voglio saperlo ! La sora Rosa mi s' era avvicinata, più pallida d'un cadavere; mi prendeva per le braccia ; mi faceva de' cenni senza significato, e tremava, tremava sempre più. Io la respinsi, buttandola da parte, e dati alla porta un paio di colpi di spalla con tutta la mia forza , apersi. Volevo veder il mio Ciccu ; non intendevo ragione. Ma il bambino non c'era; il letto era vuoto : soltanto un po' acciaccato sur una sponda. Vidi Tinuzza mezzo svestita, con una treccia de' suoi capelloni biondi disfatta su 'l petto; e vidi Puddu Cassione, che cercava nascondere la sua alta statura dietro certe gonnelle di lei attaccate a un chiodo su 'l muro. C'erano su la tavola due bicchieri di vino quasi vuoti. Mi bastò un'occhiata per capir tutto. - È morto, è vero, è morto?... — mugghiai peggio d'un bufalo. Lei si coprì la faccia con tutte e due le mani. Non rideva più. - È morto, e to fai la.... — Prima di finir la frase le avevo piantata la mia daga nella gola. Nella confusione che seguì, il furiere se l'era svignata. - Il barcaiolo tacque. Il crepuscolo s'oscurava diffondendo una tinta di mistero su la distesa enorme dell'acque. La signora sollevò la testa; quel dramma semplice e plebeo l'aveva scossa. - Perchè, — diss'ella — condannarvi a una così lunga reclusione quando c'erano tante attenuanti in vostro favore? - Ero soldato — spiegò lui; — e poi dicono che non li avevo sorpresi proprio su 'l fatto. Insomma ci sono, e pazienza — concluse filosoficamente. - E dovrete restarci ancora un pezzo? — chiese la signora. - Altri dieci mesi soltanto. - Poveretto! Non vi parrà vero d'uscire! — fece ella, tutta intenerita. L' ex bersagliere gettò indietro la testa e respirò fortemente, come se i polmoni gli si aprissero a un'aria balsamica, nuova. - Sfido io! — diss'egli. — Vado subito a far la pelle a Puddu Cassione.

Quanto più spesso le riusciva di scappare, si recava all'ospedale: due e anche tre volte alla settimana; ma quel giorno poteva contar di perdere quattro o cinque ore di lavoro: di più, la portineria restava abbandonata. Veniva il portalettere, veniva gente a chieder di questo o di quell'altro inquilino, e non c'era alcuno per rispondere. Lei si figurava il brontolío dei casigliani, il malumore del padrone, se fosse giunto a saper la faccenda, e correva verso San Francesco de' Poverelli, correva col viso in fiamma, con le gambe che tanto più le pesavano, come fatte di piombo, quanto più le premeva di far presto. E quando, trafelata, trovavasi finalmente allo spedale, davanti al pancione in livrea, che, non avendo nulla da fare, non aveva premura nè per sè, nè per gli altri, ella si struggeva lì una mezz'ora, avvolgendosi e svolgendosi macchinalmente una punta del fazzoletto intorno a due o tre dita della mano. Il tempo non le passava mai; scendevano e salivano inservienti, medici, impiegati, su e giù per l'ampia scala che mena alle corsíe; la donna sospirava, si raccomandava a Gesù, alla Vergine, a tutti i santi e martini benedetti... Stava su' carboni ardenti... Finalmente, qualcuno le si avvicinava a farle l'elemosina delle desiderate notizie; ed ella riprendeva la sua corsa verso casa, con le gambe che pareva non si volessero staccare dal suolo, col capo che le andava per aria, ma più serena d' animo, un po' rassicurata. Di fatti, le notizie di Santino eran sempre migliori. Una volta, dissero a sua madre che il medico lo aveva messo a un quarto di vitto, poi a metà. Un'altra volta seppe che gli era stato permesso d'alzarsi, e allora ebbe due terzi di vitto, non ostante che, a dar retta a lui, avrebbe mangiato anche il desinare del personale di servizio; tanto era l'appetito che gli tornava con le forze. Lucia sorrideva, con gli occhi inondati di lagrime, a sentir tante cose consolanti, e se le sarebbe fatte ripetere sa Dio quante volte. — Madonna cara! Che grazia mi avete fatta! — esclamava col cuore traboccante di gratitudine verso la Provvidenza. Un giorno, la superiora delle monache addette all'ospedale, le disse che il bambino, ormai perfettamente ristabilito, non avrebbe certo tardato a uscire. Quel giorno, prima di tornare a casa, la Lucia non seppe resistere al desiderio di fermarsi da un merciaio che conosceva, a pigliarsi quattro metri di frustagno marrone, per farne un vestitino nuovo a Santino. Fissò di pagarlo un tanto il mese. Ora che non aveva più da perder tempo in queste gite, poteva guadagnare qualche altra cosa; poi le si presentava un nuovo provento: era venuta ad abitare un quartierino del palazzo una giovane sposa incinta, moglie d'un tenente, la quale voleva la Lucia a mezzo servizio, non facendo ella quasi niente da sè in casa, un po' perchè non c'era avvezza, e un po' perchè soffriva di quella prima gravidanza. In questo modo le cose sarebbero andate meglio, si capisce: una spinta di qua, una di là, e la barca va avanti. Tutto questo, la Lucia ripeteva nell'intimo suo, mentre, con un sorriso felice, si stringeva al petto l'involto del frustagno. E come unse e riordinò con compiacimento la sua macchina per cucire il vestitino, non appena l'ebbe tagliato! Lavorava di sera: mentre quel tic-tac fitto fitto ch'ora le faceva l'effetto d'una musica allegra, s'accompagnava al ritmo eguale del respiro dei due bimbi dormenti uno da capo, l'altro da piedi del letto, certe lagrime grosse e calde rigavan la faccia della madre, perchè andava ripensando che in quei giorni di strazio, quando Santino era lontano, tanto malato, ella se la pigliava persino con la Marietta e con Checco, poverini! vedendoli così allegri, sani, chiassoni... Il vestitino era già pronto; la Lucia se l'era già rigirato fra le mani chi sa quante volte, immaginandosi la figura che avrebbe fatto indossato, quando finalmente giunse la famosa lettera diretta ai genitori o parenti di Santino Naldi, invitandoli a ritirare il fanciullo dallo spedale di San Francesco de' Poverelli. Era guarito. La vigilia del ritorno di lui, la madre non trovava il verso d'andare a letto: un'altra ferrata alla camicina con l'amido dal goletto lustro e interito; un'altra stiratina alle calze a costole d'un color marrone scuro, compagne al vestito. A un tratto, fu bussato all'uscio: potevano esser le dodici. — Chi è? — fece la Lucia, che non aspettava gente a quell'ora. - Son io, Trevisani: apri. — Era il tenente: l'inquilino nuovo. La portinaia gli aperse. Un bel giovane, alto e bruno, co' pantaloni alla militare e una giacchetta da borghese, si presentò su la soglia, occupando l'intero vano con la sua poderosa corporatura. Aveva il viso sconvolto, gli occhi cerchiati di rosso. - Mia moglie sta poco bene — disse - ha abortito. - - Oh Dio, come mai? — chiese la Lucia, incrociando le braccia in atto di rincrescimento. — Non so... proprio non so... senza motivo. Son solo... vieni su, fammi il favore... Tu, di queste faccende non te ne devi intendere... — Ella assentiva col capo. Pur troppo, pur troppo! Così non avesse mai saputo quel che costano i figliuoli! E, spenta la sua candela di sego, chiuse la portineria per seguir l'ufficiale. Se la brutta faccenda de' Trevisani fosse accaduta qualche giorno avanti, Lucia non avrebbe saputo come fare a aiutarli, a incoraggiarli, perchè aveva ella medesima troppe pene sue. Ma adesso, era tutt'altra cosa. L'idea d'abbracciare fra poche ore il suo Santino, il suo tesoro, le metteva a dosso un'energia singolare: vedeva ogni cosa sotto un aspetto di pace. — Coraggio, signora, coraggio! — ripetè più volte alla moglie del tenente, un'esile donnina di circa vent'anni, meravigliata e sfinita di quel che aveva patito, con la testa d'un biondo cenere affondata fra' guanciali. La sofferente non rispondeva; ma dalla mezz'ombra in cui trovavasi l'ampio letto matrimoniale, e che pareva dare a quel viso pallido qualcosa di fantastico, sbarrava, spauriti, gli occhi turchini, sforzandosi a sorridere, forse inconsciamente. — Ora rivedo Santino mio! Fra poco Santino mio è qui! — pensava la Lucia, affaccendata in torno a quella povera giovane; e mentre le porgeva una tazza di brodo, fatto lì per lì con dell'estratto di came d'un vasetto dal coperchio polveroso, trovato per caso in una credenza fra altra roba alimentare che il tenente avea riportata dal campo, la madre già vedeva il suo bimbo col vestitino nuovo. Che cosa le avrebbe detto, lui, per solito tanto amoroso? Che faccia avrebbe fatta? Povera, povera faccina, tutta rovinata dal vaiolo! Che importa? Per la mamma era sempre bello, bello come un sole! E mentre andava qua e là, dalla cucina alla camera, bisognava che la Lucia ripensasse al dispiacere di que' poveri signori Trevisani, perchè lei, la madre felice, non si mettesse a canterellare come a' suoi bei tempi, quando ancora non conosceva tribolazioni. Se Santino fosse rimasto in portineria, certo sarebbe morto come il padre. Povero, povero Peppe! Poveri tutti, i morti, anime sante del Purgatorio! E la Lucia si commoveva d'una commozione indefinita, piena di dolcezza. A giorno, appena vide aperta la finestra di cucina dei Lantoni, corse dall'Adele. — Abbiate pazienza — le disse: — il tenente m'è stato a tormentar tutta la notte, perchè non gli abbandoni la moglie, ora che sta meglio. È matto: dice che gliel'ho salvata io. Io non ho fatto nulla, figuratevi! ma, poveretta, è novellina, e sa ch'io me ne intendo. M'avreste dunque a fare un piacere, Adele. Andatemi a San Francesco de' Poverelli a riprender Santino. Tanto, lui sta bene, grazie a Dio, e non ha bisogno di me. Anzi, me lo rivedo a casa tutt'a un tratto...- - Volentieri — fece semplicemente l'Adele: — basta che loro sien contenti. — Loro — erano i suoi padroni; e gente di cuore, non soltanto permisero alla serva d'assentarsi, ma aggiunsero al vestiario di frustagno, che l'Adele portava allo spedale in una pezzuola, un berretto alla marinara, nuovo fiammante, con l'àncora d' oro sui nastri che pendevano dietro. Svelta, la fiorentina camminò fino a piazza San Carlo, dove prese l' omnibus per via dell'Archibugio; e di lì si recò allo spedale. Quella mezz'ora, o poco meno, ch'ella dovette far d'anticamera, le parve assai lunga; e alla madre quel tempo parve infinito. Sempre più nervosamente ella girava per casa Trevisani. Che ora poteva essere? O perchè non tornava l'Adele? Che cosa ci voleva a pigliarsi quella creatura e a portarsela via? Se avevano scritto che Santino era ormai in piena salute, che allo spedale non poteva rimanerci più... O dunque? Ma quando, dopo parecchie ore, che le parvero un secolo, ella vide tornare l'Adele sola, sottosopra, tutta scombussolata e con gli occhi pieni di bile, Lucia non capì più nulla. - O che c' è? Che vuol dire?.. — interrogò interdetta. - Non me l'hanno dato — rispose l'altra lasciandosi cader le braccia, come dopo aver fatta una grande fatica. Lucia non capiva; chiese: - Perchè? - - Non era lui! - - Come? - - Non era lui, no, no, non era lui - asserì l'Adele entrando e buttandosi sur una sedia. Poi raccontò per filo e per segno il fatto. Aveva dovuto pazientare un secolo: non fa niente; il portiere, un buzzone schifoso che si dava Dio sa che importanza, le aveva significato che lì era inutile aver fretta, angustiarsi, spazientirsi; facevano come gli pareva; ci voleva pazienza: c'era un buscherio di gente; chi andava, chi veniva... non si capiva un' acca... Lucia accennava di sì, di sì, sempre più frequentemente, per mostrare che capiva, capiva... Ma poi, poi che cosa era accaduto? Questo le stava a cuore. Poi, poi era accaduto che all'Adele avevan presentato un bambino di circa cinque anni, che lei non aveva riconosciuto. Quello lì, Santino? Ma nè pure per sogno! Era venuto un inserviente, e dopo, una monaca, e dopo anche la superiora, poi il medico di guardia: tutta una processione. Avevan detto: - Che mai dite che non è lui? — E l'Adele: - Nossignori che 'unn' è lui! - - Il vaiolo, lo sapete, muta la fisonomia. - - E' muterà quanto gli pare, ma questo 'unn'è Santino! Già Santino, gli ha sett'anni: e questo? - - La malattia l'avrà fatto dimagrare. - In vece, questo bimbo qui gli è grasso e robusto, e il nostro gli era mingherlino, piuttosto civile. - - È stato ben nutrito — osservò il dottore. - Poi, Santino gli aveva gli occhi celesti, e questo qui gli ha neri! — - Ve lo volete portar via, sì o no? — chiese il direttore, ch'era sopraggiunto in mezzo a questa discussione. - Io no, ecco! — dichiarò l'Adele o come ho a fare a portar via uno che 'unn' è Santino? - - Fate venir la madre, in questo caso — finirono col dire tutti. Di modo che l'Adele se n'era tornata sola, senza sapere che cosa la si facesse, accorata, con un diavolo per pelo. La madre ascoltò tutto il racconto per filo e per segno, senza batter palpebra; un ghiaccio, come di svenimento, le era corso per le vene. Madonna santa! Che voleva dire ciò?.. E due sole parole le uscirono di bocca: - Vado io. — Ma la mattina di poi, a punto mentre ella si preparava a recarsi allo spedale, s'affacciò alla portineria una femmina che teneva per mano un ragazzino; e chiese di Lucia Naldi, quella che aveva un malato a San Francesco de' Poverelli. Il bimbo indossava il vestito color marrone cucito a macchina, di sera, quando le fatiche diurne erano finite; portava le calzette a costola, il berretto con l'àncora. Ma il vestitino gli era largo e lungo: ci stava come in un sacco, goffo, impacciato, malinconico. - Vi riporto il vostro figliuolo, per ordine del direttore — disse la femmina. — Ormai sta benone e allo spedale non possiamo più tenerlo. — Lucia s'era fermata di botto, come se in un attimo le avessero inchiodato le piante al suolo. Fissò il ragazzo con le pupille dilatate, con le labbra strette, con tutta la faccia che si protendeva in atto di eccezionale stupore. Contessa Lara. 8 - Ma non è il mio, questo! — gridò ella. - Chi, questo? — chiese l'infermiera con tono d'incredulità. - Questo, questo qui! - - Eh diamine! Siete matta! Nome, cognome, età, sta scritto tutto su la tabella. Come volete che non sia il vostro? Guardatelo bene. - - Non è il mio, vi dico! — badava ad affermare la portinaia — Santo Dio, volete che una madre non riconosca il suo figliuolo? - - Si sa, ha avuta una malattia che cambia tutti. Gli è come se uno si mettesse una maschera, credete a me. - - Non può cambiare il sangue, la malattia! Questo bambino nè anche mi conosce. Vieni qua, dimmi come ti chiami — fece la Lucia, attirando verso di sè il fanciullo, intento a fissar la stanza dove si trovava con occhi attoniti, lustri fra la came lustra, tuttora chiazzati di rosso, e occupato, quando non fissava la stanza, a osservare l'abito marrone da lui indossato, del quale particolarmente sembravano interessarlo i bottoni e le tasche. - Come ti chiami? — ripetè la Lucia. Il bambino alzò lo sguardo un po' selvaggio; poi lo tornò subito a chinare, e rimase muto. Allora la Lucia lo respinse dolcemente: - Non è il mio!- Non è il mio! — esclamò sicura — Riportatevelo pur via, chè oggi stesso vengo a pigliar Santino. - E siccome, a punto la Marietta e Checco entravano in casa di corsa, come una folata di vento, la madre li interrogò, spingendoli davanti al piccolo sconosciuto: - È Santino nostro, questo? Ditelo voi! — I ragazzi smisero di ridere; squadrarono il nuovo arrivato con atto di diffidenza, poi se ne allontanarono un po' ammusoniti, facendo segno di no, col capo. - Vedete? Vedete bene che non è il mio! tornò a protestare la Lucia. L'infermiera insistè un altro poco, tanto per fare: raccontò qualche aneddoto straordinario su 'l vaiolo, che rende irriconoscibili anche alle persone di famiglia; ma, vedendo che la portinaia, anzi che persuadersi, sempre più si irritava, si strinse nelle spalle, come chi, in fin de' conti, si sente affatto estraneo ad una faccenda nella quale è immischiato senza sua volontà; e, ripreso per mano il fanciullo da lei condotto, se ne andò con un indifferente: — Arrivederci. — Lucia aveva la febbre a dosso. Saper guarito il suo Santino, saper di poterlo riabbracciare, e in tanto non averlo in casa! Lasciò andar tutto, servizio, bucato: salì soltanto a scusarsi con la Trevisani: e partì. All'ospedale, le dissero che il direttore non c'era. Bisognava aspettarlo. Aspettò. Quanto le parve lungo e angoscioso quel tempo, Dio solo lo sa: Lui che tien conto degl'istanti dei nostri dolori. Era sola, in una vasta camera dalle pareti nude, dipinte a stampino e scolorate. Di mobili, non altro che una vecchia scrivania di noce, ormai senza lustro, con sopra mucchi d'incartamenti giallognoli e un calamaio di porcellana bianca dal piattello attaccato, tutto sbocconcellature e macchie d'inchiostro. Davanti alla scrivania, dalla parte del muro, una poltrona, egualmente di noce, a guanciale di cuoio nero, fiancheggiata d'una fila di sedie impagliate. A sinistra, uno scaffale ingombro di registri luridi, per gli anni e per la polvere. Non osando passeggiare, per il timore di fare strepito e parer troppo ardita, la Lucia stava lì immobile. Non si metteva neanche a sedere per l'agitazione, per l'impazienza che aveva a dosso; quasi che lo star lì in piedi avesse sollecitato l'arrivo del direttore. Ogni rumore più lieve, venuto di fuori, la faceva riscuotere, le rimescolava il sangue, le dava come un colpo nel petto e una stretta alla gola. Teneva fissi gli occhi su la porta: una porta mezzo sgretolata, da cui sperava, a ogni istante, di veder comparire il suo bambino. Ma il tempo passava: nulla, nulla! Dopo un gran pezzo, che a lei parve incalcolabile, l'uscio s'aperse a un signore di una cinquantina d'anni, alto, con in testa un cappello a cilindro, e tutt'insieme un aspetto burbero e confuso. Lucia lo guardava tra ossequiosa e incerta. Egli sedette nella poltrona di cuoio nero, davanti alla scrivania, e rimescolò un gran numero degli scartafacci accatastati iì sopra. Un plico, un incartamento, chi sa che cosa fosse? lo tenne particolarmente attento; sfogliava avanti e indietro le pagine, come se non trovasse quel che cercava. Finalmente alzò la faccia, ombreggiata dal cappello, e, piantando i gomiti su la tavola, mentre badava a stropicciarsi le mani all' altezza del viso, cominciò: - Mi rincresce di dovervi dare una cattiva notizia. — - Lucia lo fissava. D'un tratto, ebbe l'impressione d'una corrente fredda che avvolgesse tutta, e inghiottì a forza la saliva, che non le voleva passar dalla gola. - Proprio mi rincresce — continuò l'uomo — ma che volete? c'è stato un errore... Si son messe le corsíe sossopra, per ripulirle, e questo ha cagionato l'equivoco. Han posta la tabella d'un ammalato a capo al letto d'un altro... e... — Ella lo fissava sempre, smarrita, senza comprendere ancora, ma col presentimento di qualcosa d'orribile, di nuovo, d'ignoto, d'inaspettato. Battendo le palpebre, faceva con le labbra il movimento di chi parla, quasi avesse ripetuto a sè, in silenzio, ogni parola di lui, per meglio intenderla, per crederla. Egli riprese ancora: - E, dunque... in questa confusione, è capitata al bambino che vi avevo rimandato la tabella del bambino vostro, morto il sei di marzo, cioè pochi giorni dopo che ce lo avete portato. - Morto? — chiese lei, calma, con lo stordimento incosciente d'un bue che riceve il primo colpo mortale. - Eh sì, cara mia! Ci vuol pazienza; è stato uno sbaglio, che m'ha proprio fatto dispiacere. Adesso ci vorranno almeno quarantott'ore per rimetter le cose a posto, e farvi avere un certificato di morte in regola. — La donna pareva fulminata. Rimasta ritta davanti alla scrivania, abbandonava le braccia, che le pendevano sotto lo scialle di lana nera, e sporgeva innanzi la testa bassa, con l'occhio vitreo, con la bocca mezzo aperta, cadente. — Del resto, — soggiunse il direttore — le cose sono state fatte ammodo; i genitori di quell'altro ragazzo hanno ordinato un mortorio decente al bambino vostro, credendolo il loro; questo deve consolarvi. E in ultima analisi, — concluse — con la morte c'è poco da fare: pur troppo, lo sapete come me. Quanto ai panni, ve li restituiranno, non c'è dubbio: m' impegno io. — Lucia udiva un rumore di parole vaghe, assordante come uno scrosciar d'acque invisibili. Non rispose mai. Soltanto, quando il direttore s'alzò, ella capì che doveva andarsene. Che cosa ci stava ormai a fare? Chi aspettava? E s'avviò verso l'uscio, col desiderio intenso di ritrovarsi in casa sua, nel suo covo, che le pareva lontano, lontano, come se, per arrivarci, avesse dovuto far un viaggio interminabile, eterno.

D'Ambra, Lucio

220681
Il Re, le Torri, gli Alfieri 1 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

Mitchell, Margaret

221522
Via col vento 6 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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- Non fare la moglie abbandonata, Rossella. La parte drammatica non è adatta per te. Mi par di capire che non desideri un divorzio e neanche una separazione. Va bene; vuol dire che ornerò abbastanza spesso per impedire i pettegolezzi. - Che me ne importa delle chiacchiere! - esclamò con impeto. - Voglio te. Portami con te. - No. - E nella sua voce era una nota decisiva. Per un attimo stette per scoppiare in lagrime come una bambina. Ebbe voglia di gettarsi a terra, di imprecare, di urlare, di battere i piedi. Ma un rimasuglio di orgoglio la trattenne. Pensò che se lo avesse fatto egli avrebbe riso. «Non devo urlare; non debbo piangere. Non debbo far nulla che possa suscitare il suo disprezzo. Deve rispettarmi anche... anche se non mi ama. Levò il capo e cercò di chiedere con calma. - Dove vuoi andare? - Forse in Inghilterra... o a Parigi. Forse a Charleston a cercare di far la pace coi miei. - Ma li detesti! Ti ho sentito ridere tante volte quando... Egli alzò le spalle. - Rido ancora, Rossella; ma ho finito di vagabondare. Ho quarantacinque anni; l'età in cui un uomo comincia a valutare quello che ha gettato via leggermente in gioventú; l'unione familiare, l'onore, la solidarietà, tutte cose che hanno radici profonde... Oh, non mi pento, non rimpiango nulla di ciò che ho fatto. Mi sono divertito; tanto che ora comincio ad averne abbastanza e a desiderare qualche cosa di diverso. Desidero la parvenza della rispettabilità - da parte degli altri, cara, non mia - la calma dignità che la vita può avere tra persone perbene, grazia gentile dei giorni passati. Allora, ne realizzavo il fascino dolce e lento... Nuovamente Rossella ebbe l'impressione di trovarsi nel frutteto di Tara; negli occhi di Rhett era la stessa espressione che aveva visto quel giorno in quelli di Ashley. Erano le stesse parole; come se fossero pronunciate da Ashley e non da Rhett. Frammenti di frasi le ritornarono, ed ella citò, pappagallescamente: - Un fascino... una perfezione, una simmetria, come nell'arte greca. Rhett chiese bruscamente: - Perché dici questo? È proprio il mio pensiero. - Lo ha detto Ashley una volta... a proposito degli antichi tempi. Egli si strinse nelle spalle e la fiamma scomparve dai suoi occhi. - Sempre Ashley - disse; e per un attimo rimase in silenzio. - Quando avrai quarantacinque anni, Rossella - riprese - forse comprenderai quello che ti dico adesso; e forse allora sarai stanca anche tu di falsa aristocrazia, di maniere pretenziose, di emozioni a buon mercato. Ma ne dubito. Credo che sarai sempre più attratta dall'orpello che dall'oro. Ad ogni modo, non posso aspettare fino allora per vedere. E non lo desidero neppure. Non mi interessa. Andrò in cerca di vecchie città e di vecchie campagne dove sia rimasto qualche cosa degli antichi tempi. Sono un sentimentale. Atlanta è troppo rude per me, troppo nuova. - Basta - disse ella improvvisamente. Aveva appena ascoltato ciò che egli veniva dicendo. Certo non lo aveva compreso. Ma sentiva che non poteva più sopportare con forza d'animo il suono della sua voce, se non vi era amore in essa. Egli fece una pausa e la guardò in modo strano. - Insomma, hai capito le mie intenzioni? - chiese alzandosi in piedi. Ella gettò le mani in avanti, col vecchio gesto supplichevole; e il suo cuore fu di nuovo sul suo viso. - No! - gridò. - So soltanto che non mi ami e che te ne vai! Amore mio, che farò se tu te ne vai? Per un momento egli esitò come chiedendosi se una dolce menzogna fosse migliore della verità. Poi si strinse nelle spalle. - Rossella, non ho mai avuto la pazienza di raccogliere i frammenti di un oggetto rotto per incollarli insieme e dire a me stesso che l'oggetto riappiccicato vale quanto l'oggetto nuovo. Quello che è rotto è rotto... e preferisco ricordarmelo quando era in buono stato piuttosto che aggiustarlo e vedere le tracce della rottura finché vivo. Forse se fossi piú giovine... - sospirò. - Ma sono troppo vecchio per credere in questi sentimentalismi e per ricominciare. Troppo vecchio per portare quel peso di continue menzogne che accompagna la vita fatta di cortesi disillusioni. Non potrei vivere con te e mentirti; e non potrei certo mentire a me stesso. Non posso mentire neanche adesso. Vorrei potermi interessare di ciò che fai e di dove vai, ma non posso. Respirò brevemente e soggiunse: - Non è il caso, mia cara. Rossella Io guardò mentre saliva le scale ed ebbe l'impressione che il dolore la soffocasse. Il rumore dei suoi passi sul pianerottolo si allontanò; e con esso si allontanò l'ultima cosa al mondo che la interessava. Ella sapeva che nessun appello alla ragione o all'emozione avrebbe potuto mutare quel gelido verdetto. Sapeva che tutto ciò che egli aveva detto era il suo pensiero, anche se in certi momenti aveva parlato leggermente. Lo sapeva perché sentiva in lui qualche cosa di forte, di inflessibile, di implacabile... tutte le qualità che ella aveva cercato in Ashley senza trovarle. Non aveva compreso nessuno degli uomini che aveva amato; e li aveva perduti entrambi. Ora si rendeva conto vagamente che se avesse compreso Ashley non lo avrebbe mai amato; e che se avesse compreso Rhett, non lo avrebbe mai perduto. E si chiese tristemente se aveva mai compreso nessuno al mondo. Vi era adesso nella sua mente un'inerzia che si sarebbe potuta dire misericordiosa; un'inerzia che per lunga esperienza ella sapeva che avrebbe dato luogo fra breve a una sofferenza acuta, come i tessuti che, separati violentemente dal ferro del chirurgo, hanno un breve istante di insensibilità prima che cominci il loro tormento. «Non voglio pensarvi adesso» si disse cupamente, ricorrendo all'antico incantesimo. «Se penso che debbo perderlo, diventerò pazza. Vi penserò domani.» Ma il suo cuore, scacciando l'incantesimo, cominciò a dolere. «Non posso lasciarlo andar via! Deve esservi un mezzo!» - Non voglio pensarvi adesso - ripeté ad alta voce, tentando di respingere la sua disperazione nel fondo della mente, cercando di trovare un riparo al fiotto crescente di patimento. - Voglio... Andrò a casa, a Tara, domani. - E il suo spirito si risollevò impercettibilmente. Era già tornata a Tara una volta, cacciata dallo spavento e dalla sconfitta; e dalle sue mura riparatrici era tornata forte e armata per la vittoria. Potrebbe - se Dio l'aiutasse! - rifare ciò che aveva fatto una volta. Non sapeva come. Ora non voleva pensarvi. Tutto ciò che desiderava adesso era un luogo di riposo dove poter soffrire, dove poter sanare le sue ferite; un rifugio dove potere studiare un piano di battaglia. Pensò a Tara; e fu come se una mano dolce e fresca si posasse furtivamente sul suo cuore. Le apparve la bianca casa che le dava il benvenuto tra le rosse foglie autunnali, sentí il tranquillo sussurro del crepuscolo che scendeva sopra di lei come una benedizione, udí la rugiada cadere sui verdi cespi ornati di un candore fioccoso, vide il colore rugginoso delle zolle e la tetra bellezza dei pini sulle colline ondulate. Si sentí vagamente riconfortata da questo quadro; e la sua sofferenza e il suo frenetico rimpianto furono un poco attenuati. Per un attimo rimase a ricordare tante piccole cose: il viale di cedri che conduceva alla piantagione, i cespugli di gelsomini del Capo, di un verde vivido sul muro bianco, il fluttuare delle tendine candide. E vi sarebbe Mammy. Improvvisamente desiderò disperatamente Mammy, come l'aveva desiderata quando era una bambina, desiderò l'ampio seno su cui posare il capo, la mano nera e nodosa sui suoi capelli. Mammy, l'ultimo legame con gli antichi tempi. Con lo spirito del suo popolo che non riconosce la sconfitta anche quando se la trova di fronte, rialzò il mento. Riconquisterebbe Rhett. Sapeva di poterlo fare. Non era mai esistito un uomo che ella non potesse avere, se lo voleva. «Penserò a tutto questo domani, a Tara. Sarò piú forte, allora. Domani penserò al modo di riconquistarlo. Dopo tutto, domani è un altro giorno.» FINE

Pagina 1024

Ma in massima parte la valle era abbandonata e desolata e i raccolti si disseccavano sui campi lasciati nella piú assoluta incuria. Da Calhoun, Johnston indietreggiò a Adairsville, poi a Cassville e a Cartersville. Oramai il nemico aveva percorso cinquantacinque miglia dopo Dalton. A Chiesa della Nuova Speranza i grigi si fermarono per una tappa decisiva. E gli azzurri si avanzarono, senza tregua, come un serpente mostruoso che si snodava, colpiva velenosamente, ritraeva le sue spire ferite, ma colpiva di nuovo. Vi furono undici giorni di battaglia continua, disperata, a Chiesa della Nuova Speranza; gli assalti yankee vennero sanguinosamente respinti. Finché Johnston, investito ancora una volta di fianco, dové di nuovo ritirar di qualche miglio le sue linee assottigliate. I morti e feriti a Chiesa della Nuova Speranza furono numerosissimi. I feriti affluirono ad Atlanta nei treni rigurgitanti e la città fu atterrita. Mai, neanche dopo la battaglia di Chickamauga, ve n'erano stati tanti. Gli ospedali erano gremiti; si collocavano i feriti sul pavimento di magazzini vuoti, sopra balle di cotone. Negli alberghi, nelle pensioni, nelle case private i sofferenti si accalcavano. Zia Pitty ebbe la sua parte, benché protestasse contro la scorrettezza di avere degli estranei in casa quando Melania era in condizioni speciali, e certe visioni raccapriccianti potevano provocare un parto prematuro. Ma Melania tirò un po' piú su la sua crinolina per nascondere la vita ingrossata e i feriti invasero la casa di mattoni. Bisognò cucinare in continuazione, servire, far vento agli ammalati, lavare e arrotolare bende, e infinite furono le notti insonni, turbate dal parlare sconnesso di uomini in delirio. Finalmente la città fu satura, sicché i nuovi feriti furono incanalati verso Macon e Augusta. La nuvoletta all'orizzonte si era allargata rapidamente, e il temporale era ormai sulla città, con un vento pauroso e gelido. Nessuno aveva perduto la fede nell'invincibilità delle truppe; ma tutti - almeno i borghesi - avevano perso la fede nel generale. La Chiesa della Nuova Speranza era soltanto a trentacinque miglia da Atlanta! Il generale si era ritirato di sessantacinque miglia in tre settimane! Perché non resisteva, invece di ritirarsi? Era un pazzo, e peggio che un pazzo. Membri della Guardia Nazionale e della Milizia sostenevano che essi avrebbero condotto la campagna molto meglio e stendevano sulle tavole carte topografiche per dimostrare la verità di quanto asserivano. Quando le linee si assottigliarono ancora, il generale chiese disperatamente al Governatore Brown i suoi uomini; ma le truppe dello Stato erano in salvo e non vi era ragione di mandarle al macello. Combattere e ritirarsi! Per settanta miglia e venticinque giorni, i confederati avevano combattuto quasi quotidianamente. La Chiesa della Nuova Speranza era ormai un ricordo in mezzo ad altri tremendi ricordi del genere: caldo, polvere, fame, debolezza, marciare sulla strada rossa, sfangare nella mota rossastra, ritirarsi, trincerarsi, combattere... ritirarsi, trincerarsi, combattere. La Chiesa della Nuova Speranza era un incubo di vita trascorsa, e cosí Big Shanty, ove essi si rivoltarono a combattere come dèmoni. Ma anche dopo che i campi furono tutti turchini di morti yankee, sempre dei nuovi ne arrivavano, sempre di piú; sempre vi era quella sinistra curva delle linee azzurre, laggiú a sud-est, verso le retroguardie dei confederati, verso la ferrovia... verso Atlanta! Da Big Shanty le linee indebolite si ritirarono sulla strada della Montagna Kennesaw, presso la cittadina di Marietta, e quivi esse si allargarono in una curva di dieci miglia. Sui pendii delle montagne scavarono le loro trincee e stabilirono le feritoie, mentre sulle alture collocarono le loro batterie. Imprecando e sudando, gli uomini trascinarono i pesanti cannoni su per i versanti troppo ripidi perché i muli potessero arrampicarvisi. Messaggeri e feriti che giungevano ad Atlanta rassicurarono il popolo spaventato. Le alture di Kennesaw erano inespugnabili. Atlanta respirò di sollievo... Ma le montagne di Kennesaw distavano solo ventidue miglia! Il giorno in cui i primi feriti giunsero da Kennesaw, la carrozza della signora Merriwether fu dinanzi alla casa della zia Pitty alle sette di mattina; un'ora inverosimile! Il negro Zio Levi era latore di un biglietto che ingiungeva a Rossella di vestirsi immediatamente e recarsi all'ospedale. Fanny Elsing e le ragazze Bonnell, chiamate anche loro, sbadigliavano sul sedile in fondo, e la Mammy degli Elsing sedeva malinconicamente a cassetta con in grembo un cestino di materiale di medicazione appena lavato. Rossella si alzò malvolentieri, perché aveva ballato fino all'alba alla festa della Guardia Nazionale, e i piedi le dolevano. Maledisse silenziosamente l'instancabile e premurosa signora Merriwether, i feriti e tutta la Confederazione degli Stati del Sud, mentre Prissy le abbottonava il piú vecchio e sciupato dei suoi abiti di cotone, che usava per il servizio ospedaliero. Inghiottí l'amaro beveraggio di orzo e patate dolci disseccate che passava per caffè e scese a raggiungere le ragazze. Era stufa di tutto quel lavoro. Proprio quel giorno, direbbe alla signora Merriwether che Elena le aveva scritto di andare a Tara per un po' di tempo. Ma non le serví a nulla, perché la degna matrona, con le maniche rimboccate e il corpo robusto coperto da un ampio grembiale, le lanciò un'occhiata dura dicendole: - Non dite sciocchezze, Rossella Hamilton. Scriverò io oggi a vostra madre dicendole che ho bisogno di voi; e sono sicura che comprenderà e vi permetterà di restare. Svelta, mettetevi il grembiale e andate dal dottor Meade che ha bisogno di un aiuto per fare le fasciature. «Dio mio, che guaio!» pensò Rossella. «Certo la mamma mi dirà di restare; e io morirò se continuerò a sentire questo terribile odore! Vorrei esser vecchia, per poter comandare alle giovani, invece di ricevere ordini... e mandare le vecchie streghe come la Merriwether a farsi benedire!» Sí, era stanca di quella vita. Se vi era stato qualche cosa di romantico nel far l'infermiera, questo era finito da un pezzo. E poi, i feriti nella ritirata non erano simpatici come i primi. Non si curavano punto di lei e le chiedevano soltanto: - Come va la battaglia? Dov'è il Vecchio Joe? - E poi: - È bravo, sapete, il Vecchio Joe! Lei non credeva affatto alla bravura del Vecchio Joe, che aveva lasciato penetrare gli yankees nella Georgia per una profondità di ottantotto miglia. E tutti quei disgraziati che morivano, rapidamente, silenziosamente, essendo troppo indeboliti per combattere l'avvelenamento del sangue, la cancrena, il tifo e la polmonite che li avevano colpiti prima che fossero giunti ad Atlanta e avessero trovato un medico! La giornata era calda e le mosche entravano dalle finestre a sciami: grosse mosche che tormentavano gli uomini piú che non facessero le sofferenze. L'odore e i gemiti andavano aumentando. Il sudore bagnava il suo abito appena inamidato, mentre ella seguiva il dottor Meade con un catino fra le mani. Che nausea a stare accanto al dottore, cercando di non vomitare quando il suo bisturi tagliava le carni putride! E che orrore, gli urli della sala operatoria dove si facevano le amputazioni! Il cloroformio era cosí scarso che lo si adoperava soltanto per le amputazioni piú gravi e l'oppio era una cosa preziosa che serviva ad alleviare le pene dei moribondi, non quelle dei viventi. Non vi era né chinino né iodio. Rossella invidiava Melania che aveva il pretesto della gravidanza: l'unico accettato in quei momenti. A mezzogiorno si tolse il grembiale e sgusciò fuori dall'ospedale, incapace di resistere piú a lungo. Sapeva che quando fossero giunti i feriti col treno pomeridiano, vi sarebbe da fare per lei fino a sera, e probabilmente senza neanche mangiare. Si affrettò verso la Via dell'Albero di Pesco, respirando a grandi sorsate l'aria pura, per quanto glielo permetteva il busto allacciato stretto. Si fermò all'angolo, incerta sul da fare, poiché si vergognava di tornare a casa da zia Pitty, ma ben decisa a non tornare all'ospedale. In quel momento passò Rhett Butler in carrozzino. - Sembrate la figlia di un cenciaiolo - osservò, guardando con occhio critico l'abito di cotone rammendato e bagnato di sudore e d'acqua che era schizzata dal catino. Rossella fu irritatissima. Perché quell'uomo osservava sempre l'abbigliamento delle donne, e perché era cosí indelicato da rilevare la sua attuale ineleganza. - Non voglio che mi diciate nulla. Fatemi salire e conducetemi in qualche luogo dove nessuno mi veda. Non voglio tornare all'ospedale neanche se m'impiccano! Vi assicuro che non ne posso piú... - Traditrice della nostra gloriosa Causa! - Lo zoppo dà del cionco allo sciancato! Aiutatemi. Non m'importa dove stavate andando. Ora dovete condurmi a fare una passeggiata. Egli balzò a terra e Rossella pensò che era molto piacevole vedere un uomo non mutilato o pallido per la febbre o giallo per la malaria, ma di aspetto sano e ben nutrito. Era anche vestito elegantemente, e non aveva affatto l'aria preoccupata o turbata come tutti gli altri uomini. Il suo volto bruno era piacente e la sua bocca, dalle labbra rosse e ben tagliate, francamente sensuali, sorridevano distrattamente mentre egli l'aiutava a salire in carrozza. I muscoli del suo corpo robusto si disegnavano sotto l'abito fatto da un buon sarto; e, come sempre, la sensazione della sua forza fisica, la colpí, appena gli fu seduta accanto. Da lui emanava una vitalità gagliarda ed elastica, come quella di una pantera che si stirasse al sole, una pantera pronta a balzare e a colpire. - Piccola imbrogliona - disse mentre frustava il cavallo - ballate tutta la notte coi soldati, dando loro rose e nastri e dicendo che sareste pronta a morire per la Causa, e appena si tratta di fasciare quattro feriti e di togliere pochi pidocchi, tagliate la corda! - Non potreste parlare di qualche altra cosa e far correre di piú il cavallo? Non ci mancherebbe altro, che il vecchio Merriwether uscisse in questo momento dal suo negozio e poi andasse a dire alla vecc... a sua nuora che mi ha visto! Egli toccò la giumenta con la frusta e quella trottò vivamente lungo la strada dei Cinque Punti e attraversò i binari che tagliavano in due la città. Il treno carico di feriti era già arrivato e i portaferiti lavoravano attivamente a trasportare gli uomini malconci nelle ambulanze e nei carri coperti. Rossella non provò alcun rimorso vedendoli, ma solo un grande sollievo per essere riuscita a sfuggire. - Sono stanca dell'ospedale - riprese rassettandosi le gonne e legandosi meglio il nastro del cappello. - E ogni giorno ne arrivano di piú. Tutta colpa del generale Johnston. Se avesse tenuto testa agli yankees a Dalton... - Ma gli ha tenuto testa, bambina ignorante. E se avesse insistito a rimanere là, Sherman lo avrebbe aggirato e lo avrebbe schiacciato fra le due ali del suo esercito. Ed egli avrebbe perduto la ferrovia. - Insomma - fece Rossella per cui la strategia militare era arabo. - È sempre colpa sua. Avrebbe dovuto fare qualche cosa e mi pare che farebbero bene a mandarlo via. Perché non continua a combattere, invece di ritirarsi? - Anche voi, come tutti gli altri, chiedete la sua testa perché egli non può fare l'impossibile. A Dalton era Gesú il Salvatore; e alle montagne Kennesaw è Giuda il traditore. Tutto questo in sei settimane. Se riesce a respingere di nuovo gli yankees per venti miglia sarà nuovamente Gesú. Cara bambina, Sherman ha il doppio di uomini, e perciò può perderne due per ognuno dei nostri valorosi ragazzi. Invece Johnston non può perdere un solo uomo; anzi ha bisogno di rinforzi. - È vero che sarà chiamata la Milizia? e anche la Guardia Nazionale? - Cosí si dice. Sicuro, i beniamini del governatore Brown probabilmente dovranno andare a sentire l'odore della polvere e la maggior parte di essi sarà molto sorpresa. Il Governatore aveva promesso che non sarebbero andati; quindi si credevano al sicuro. Ma chi avrebbe creduto che la guerra sarebbe arrivata fin qui, e che essi avrebbero dovuto realmente difendere il loro Stato? - Come siete crudele a ridere di tutto questo! Figuratevi i vecchi e i ragazzi della Guardia Nazionale! Dovrà andare anche il piccolo Phil Meade e il nonno Merriwether e anche lo zio Enrico. - Ma io non parlo dei ragazzi né dei veterani della guerra messicana; alludevo ai bravi giovanotti come Guglielmo Guinan che ama portare una bella uniforme e agitare la sciabola... - E voi! - Mia cara, io non porto uniforme e non agito la sciabola; e la fortuna della Confederazione non m'interessa. Non faccio parte della Guardia Nazionale né di nessun esercito. Ne ho avuto abbastanza delle cose militari a West Point... Beh! spero che il Vecchio Joe abbia fortuna. Il generale Lee non può aiutarlo perché ha da fare nella Virginia. Perciò le truppe della Georgia sono l'unico rinforzo che può avere. Ma se fanno tanto da respingerlo dalle montagne e farlo scendere nella pianura di Atlanta ricordatevi le mie parole: sarà un macello. - La pianura di Atlanta? Ma è impossibile che gli yankees vi arrivino. - Kennesaw è soltanto a ventidue miglia, e scommetto... - Guardate lí in istrada, Rhett! Tutta quella gente! Non sono soldati! Che diamine...? Sono negri! Sulla strada si avanzava una nube di polvere rossa da cui veniva uno scalpiccio di piedi nudi; un centinaio e piú di voci negre, rauche e profonde, cantavano un inno. Rhett trasse la carrozza al di là della curva della strada e Rossella guardò curiosamente il gruppo di negri con zappe e picconi sulle spalle, guidati da un ufficiale e accompagnati da un gruppo di uomini che portavano le insegne del corpo del genio. - Che diamine...? - ricominciò. A un tratto i suoi occhi si posarono su un negro che era nella prima fila: un gigante alto quasi un metro e novanta, di un nero d'ebano, che camminava con la grazia flessuosa di una belva; i suoi denti bianchi brillavano mentre cantava «Scendi, o Mosè». Certamente sulla terra non vi era un altro negro cosí alto e con una voce cosí forte, eccettuato il grosso Sam, il capolavorante di Tara. Ma che diamine faceva qui il grosso Sam, cosí lontano da casa, specialmente ora che mancava il sorvegliante ed egli era il braccio destro di Geraldo? Mentre Rossella si sollevava a metà sul sedile della carrozza per vedere meglio, il gigante la scorse e sul suo volto nero si disegnò una smorfia di contentezza. Si fermò, lasciò cadere la sua zappa, e si avviò verso di lei, chiamando i negri piú vicini: - Dio onnipotente; Essere Miss Rossella! Guarda, Elia! Profeta! Apostolo! Vedere Miss Rossella! Vi fu confusione nei ranghi. La folla si fermò incerta, ghignando, e il grosso Sam, seguito da altri tre grandi negri, attraversò di corsa la strada verso la carrozza, seguito dall'ufficiale che gridava. - Tornate in linea! Tornate indietro vi dico, o... Oh, ma è Mrs. Hamilton! Buon giorno, signora; ed anche a voi, signore. Ma che cosa fate? Provocate l'ammutinamento e l'insubordinazione? Dio sa se mi hanno dato poco da fare stamattina, costoro! - Oh, capitano Randall, non li sgridate! Sono i nostri schiavi. Questo è il grosso Sam, il nostro capolavorante. E gli altri sono Elia, Apostolo e Profeta di Tara. È naturale che vengano a salutarmi. Come state, ragazzi? Strinse le mani a tutti; la sua bianca manina scomparve in quelle enormi dei negri, i quali furono pieni di gioia e di orgoglio, mentre spiegavano ai loro compagni che quella era la loro bella signorina. - Ma che cosa fate, cosí lontano da Tara? Scommetto che siete scappati. Essi risero compiaciuti. Poi il grosso Sam rispose: - Scappati? No, non essere scappati. Loro essere venuti a prenderci perché noi essere i piú grandi e piú forti di Tara. Avere specialmente cercato me, perché cantare cosí bene. Sí, Mist' Frank Kennedy essere venuto a prenderci. - Ma perché, grosso Sam? - Come, Miss Rossella! Non avere sentito? Noi dovere scavare trincee per signori bianchi per nascondersi dentro quando venire yankees. Il capitano Randall e i due che erano in carrozza nascosero un sorriso per questa ingenua spiegazione dell'uso delle trincee. - Mr. Geraldo non volere lasciarmi andare perché dire che non poter fare senza me, ma Mrs. Elena avere detto: «Prendere lui, Mr. Kennedy; Confederazione avere bisogno di grosso Sam piú di noi». E avere dato a me un dollaro e detto di fare tutto quello che ufficiali bianchi ordinare. E noi essere qui. - Che vuol dire tutto questo, capitano Randall? - Oh, molto semplice. Dobbiamo aggiungere alle fortificazioni di Atlanta parecchie miglia di trincee, e il generale non può occupare a questo dei combattenti. Perciò abbiamo cercato nelle campagne i tipi piú robusti per fare tutto il lavoro. - Ma... Un freddo principio di spavento strinse il petto di Rossella. Miglia di trincee! Per che cosa potevano servire? L'anno prima era stato costruito un certo numero di ridotte con piazzole per artiglieria tutto intorno ad Atlanta, a un miglio dal centro della città. Questi grandi lavori sotterranei erano collegati con fossati che circondavano completamente la città. - Ma... perché dobbiamo essere fortificati piú di quanto siamo già? Certamente il generale non lascerà che... - Le nostre fortificazioni attuali sono soltanto a un miglio dalla città - replicò brevemente il capitano Randall. - E sono troppo vicine per essere comode... o sicure. Queste nuove giungeranno assai piú lontano. Un altro ripiegamento condurrebbe i nostri uomini in Atlanta. Rimpianse immediatamente di aver detto queste parole, perché vide gli occhi di lei dilatarsi dal terrore. Ma certamente non vi sarà un altro ripiegamento - si affrettò a soggiungere. - Le linee attorno a Kennesaw sono inespugnabili. Le batterie sono piantate al sommo delle montagne e dominano le strade; quindi gli yankees non possono in nessun modo attraversarle. Ma Rossella vide che egli abbassava gli occhi dinanzi allo sguardo penetrante di Rhett e fu sgomentata. Ricordò l'osservazione di Butler: «Se riescono a farlo ritirare nella pianura d'Atlanta, sarà un macello». - Ma credete, capitano... - Ma no! Non vi preoccupate. Il Vecchio Joe ritiene giusto prendere delle precauzioni che sono eccessive. Questo il motivo delle nuove trincee... Ma ora dobbiamo andare. Molto lieto di avervi veduta. Salutate la vostra padrona, ragazzi, e andiamo. - Addio, ragazzi. Se state poco bene, o altro, informatemi. Abito in Via dell'Albero di Pesco; quasi l'ultima casa della città. Un momento... - Frugò nella sua reticella. - Dio mio, non ho neanche un quattrino. Per favore, Rhett, datemi qualche spicciolo. Tieni, grosso Sam, compra un po' di tabacco per te e per i tuoi compagni. E siate buoni e ubbidienti col capitano Randall. Il gruppo si riformò, la polvere si levò nuovamente in una nuvola rossa quando essi ripresero a camminare. E la voce del grosso Sam si levò un'altra volta a cantare: «Scendi, Moseeeè! Quaggiú, sulla teeeerra d'Egiiiitto! E di' al vecchio Faraooone di lasciarci andar liiiiberi!» - Rhett, il capitano Randall mi ha mentito, come tutti gli uomini... che cercano di nasconderci la verità per timore dei nostri svenimenti. Se non vi è pericolo, Rhett, perché fanno queste nuove fortificazioni? E l'esercito è cosí povero d'uomini che occorre servirsi dei negri? Rhett diede la voce alla giumenta. - L'esercito è terribilmente impoverito. Altrimenti, perché verrebbe chiamata la Guardia Nazionale? Quanto alle fortificazioni, possono servire in caso d'assedio. Il generale si prepara a compiere qui la sua ultima ritirata. - Un assedio! Oh, voltate il cavallo. Voglio tornare a casa mia, a Tara, subito subito. - Perché tanta fretta? - Un assedio! Ma ci pensate: un assedio! Dio mio, ne ho sentito parlare... Il babbo ci si è trovato, o forse suo padre, e mi ha raccontato... - Quale assedio? - Quello di Drogheda, quando Cromwell strinse gli irlandesi e questi non avevano nulla da mangiare... Il babbo mi ha detto che morivano di fame per le strade e che finirono col mangiare gatti e topi e perfino scarafaggi... E mi ha detto che prima di arrendersi si mangiarono gli uni con gli altri... ma non so se questo sia vero. Un assedio! Madre di Dio! - Siete la donna piú barbaramente ignorante che io abbia conosciuta. L'assedio di Drogheda è stato nel Seicento e qualche cosa, e il signor O'Hara non può esservisi trovato. Del resto, Sherman non è Cromwell. - Ma è peggio! Dicono... - Quanto alle carni strambe mangiate dagli irlandesi... vi assicuro che per conto mio preferirei un topo ben cucinato a certa roba che mi propinano all'albergo. Credo che farò bene a tornare a Richmond. Lí c'è ancora da mangiar bene se si ha denaro per pagarlo. I suoi occhi irridevano lo sgomento dipinto sul volto di lei. Irritata di aver lasciato vedere la propria paura, ella gridò: - Non so davvero perché siate rimasto qui tanto tempo! Non pensate se non a mangiar bene e altre cose del genere! - Trovo che è il miglior modo di passare il tempo: mangiare e... hm, altre cose del genere. Quanto all'essere rimasto qui... ho letto tante descrizioni di assedi, ma non ne ho mai visto nessuno. Non mi dispiacerebbe assistervi. Non ho nulla da temere, non essendo un combattente; e quest'esperienza mi attira. Non bisogna mai trascurare le esperienze, Rossella: esse arricchiscono la mente. E poi rimango per salvarvi quando vi sarà l'assedio. Non ho mai salvato una donna in pericolo. Anche questa sarà un'esperienza interessante. Rossella sentiva che egli la prendeva in giro; ma che nelle sue parole era un fondo di serietà. Crollò la testa, infastidita. - Non ho nessun bisogno che mi salviate. So badare a me stessa, grazie. - Non lo dite, Rossella! Pensatelo, se volete, ma non ditelo mai a un uomo. Questo è il torto delle ragazze yankee, che sarebbero simpaticissime se non dicessero sempre che non hanno bisogno di nessuno. E allora gli uomini lasciano che se la sbroglino da sole. Fu seccatissima, perché nessun insulto poteva esser peggiore che l'essere paragonata a una ragazza yankee. - Come correte! - gli disse quindi gelida. - Mi raccontate delle frottole; sapete benissimo che gli yankees non arriveranno mai ad Atlanta. - Scommetto che saranno qui fra meno di un mese. Scommetto una scatola di dolci contro... - I suoi occhi neri corsero alle rosee labbra di lei. - Contro un bacio. Per un attimo il timore dell'invasione yankee le strinse il cuore, ma la parola «bacio» la distrasse subito. Questo era un terreno conosciuto, assai piú interessante delle operazioni militari. Represse a stento un sorriso di trionfo. Dal giorno in cui le aveva regalato il cappello verde, Rhett non aveva mai detto una parola che potesse essere interpretata come quella di un innamorato. E adesso, senza nessun incoraggiamento da parte sua, eccolo che parlava di baci. - Non mi piacciono questi discorsi - replicò con freddezza. - E del resto, preferirei baciare un maiale. - Non si tratta di gusto; e d'altronde ho sempre sentito che gli irlandesi hanno simpatia per i porci. Li tengono perfino sotto al letto. Ma voi, Rossella, avete un tremendo bisogno di baci. Tutti i vostri spasimanti vi hanno rispettata troppo, Dio sa perché!, o hanno avuto paura di comportarsi come bisognava con voi. Il risultato è che vi date delle arie insopportabili. Avete bisogno di esser baciata, e da uno che sa baciare. La conversazione non si svolgeva come Rossella desiderava; cosa che le accadeva sovente con lui. - E probabilmente credete di esser voi la persona adatta? - gli chiese con sarcasmo, dominandosi a stento. - Senza dubbio, se volessi prendermi la pena... Dicono che so baciare molto bene. - Oh... - cominciò indignata nel sentire cosí messo in non cale il suo fascino. Ma abbassò gli occhi confusa, vedendo nella profondità dei suoi occhi, malgrado il sorriso irridente, una fiammella che si spense subito. - Probabilmente, vi sarete chiesta perché non ho dato alcun seguito a quel casto bacetto che vi diedi, il giorno in cui vi portai il cappello... - Non ho mai... - Vuol dire che non siete sensibile, Rossella; e questo mi dispiace. Tutte le ragazze sensibili si stupiscono se un uomo non tenta di baciarle. Sanno che non dovrebbero desiderarlo e che dovrebbero sentirsi insultate se un uomo lo facesse... ma lo desiderano ugualmente. Fatevi coraggio, cara. Un giorno o l'altro vi bacerò e la cosa vi piacerà. Ma adesso no; perciò vi prego di non essere impaziente. Come sempre, il suo scherno la rendeva furente. Vi era sempre troppa verità in quello che egli diceva. Ma questo era troppo. Gli darebbe una buona lezione, il giorno in cui fosse tanto villano da tentare di prendersi qualche libertà! - Volete aver la bontà di voltare il cavallo, capitano Butler? Desidero tornare all'ospedale. - Davvero, bell'angelo assistente? Pidocchi e catini di sangue sono preferibili alla mia conversazione? Lungi da me impedire a due mani volenterose di lavorare per la Nostra Causa Gloriosa! - Voltò il cavallo e questo riprese il cammino verso i Cinque Punti. - Quanto al fatto di non aver mosso piú alcun passo - riprese come se ella non gli avesse fatto comprendere che la conversazione era terminata - vi dirò che aspettavo che foste un po' piú donna. Sono egoista, nei miei piaceri; e non ho mai amato baciare le bambine. Accennò a un sogghigno, vedendo con la coda dell'occhio il seno di lei che ansimava di collera silenziosa. - E poi - continuò dolcemente - aspettavo che il ricordo dello stimabile Ashley Wilkes impallidisse alquanto. All'udire il nome di Wilkes, una pena improvvisa le strinse il cuore, mentre le lagrime le pungevano gli occhi. Impallidire, il ricordo di Ashley? Neanche se fosse morto da mille anni. Pensò al giovine ferito, moribondo in una lontana prigione yankee, senza un cencio per coprirsi, senza una persona amata che gli tenesse la mano, e fu piena di odio verso l'uomo ben pasciuto che le sedeva accanto e che le parlava con un leggero sarcasmo nella voce strascicata. Era troppo adirata per parlare, sicché continuarono per un poco a procedere in silenzio. - Ora ho ricostruito tutto sul conto vostro e di Ashley - riprese Rhett dopo un certo tempo. - Ho cominciato quando avete fatto quella volgare scenata alle Dodici Querce; e da quel giorno ho appreso molte cose tenendo gli occhi aperti. Quali cose? Per esempio, che voi nutrite ancora per lui una romantica passione da scolaretta, che egli ricambia nei limiti che la sua natura di uomo onesto gli permette. E che Mrs. Wilkes non ne sa nulla; fra tutti e due, le avete fatto un bello scherzo. Ho capito tutto, meno una cosa che punge la mia curiosità. L'ineffabile Ashley ha mai compromesso la sua anima immortale baciandovi? Un silenzio e un gesto del capo che si volgeva altrove furono la risposta. - Bene; dunque vi ha baciata. Immagino che sia stato quando fu qui in licenza. E ora che probabilmente è morto, voi circondate di un culto quel ricordo. Ma sono certo che finirete col dimenticarlo e allora... Ella si volse come una furia. - Allora... andate al diavolo! - E i suoi occhi verdi brillavano di collera. - E fatemi scendere da questa carrozza prima che io mi getti a terra. E non voglio che mi rivolgiate la parola mai piú! Egli fermò la carrozza; ma prima che potesse scendere per aiutarla, ella era balzata a terra. L'abito le si impigliò nella ruota, e per un attimo la folla dei Cinque Punti ebbe una rapida visione di sottovesti e mutandine. Ma Rhett si chinò e la liberò con sveltezza. Ella sfuggí senza una parola, senza neanche voltarsi indietro; l'uomo rise piano e diede la voce al cavallo.

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Tara non era dunque abbandonata! C'era qualcuno in casa! Un grido di gioia le salí alla gola, ma rimase soffocato. La casa era buia e silenziosa, eppure la figura non si muoveva. Che cosa era successo? Ma ecco: l'ombra si era mossa; scendeva lentamente i gradini. - Babbo? - mormorò Rossella, rauca, quasi dubitando che fosse lui. - Sono io... Caterina Rossella. Sono tornata. Geraldo avanzò verso di lei, come un sonnambulo, trascinando la gamba rigida. Le giunse accanto, la fissò stranamente come se credesse che fosse un sogno. Poi le posò una mano sulla spalla. Rossella lo sentí tremare, come se fosse stato svegliato da un incubo e non avesse ancora il senso completo della realtà. - Figlia... - mormorò con sforzo - Figlia mia. Poi tacque. «È un vecchio!» pensò Rossella. Geraldo aveva le spalle curve. Nel volto, che ella scorgeva confusamente, non era piú nulla della vitalità che ricordava in suo padre, e i suoi occhi avevano quasi l'espressione sgomenta di quelli del piccolo Wade. Era un piccolo vecchio accasciato. Lo spavento di mille cose ignorate la afferrò; ed ella rimase a fissarlo, con un fiume di domande che le urgevano in gola e non riuscivano a formularsi. Dal carretto giunse di nuovo il vagito lieve e Geraldo si volse con sforzo. È Melania col suo bimbo - sussurrò Rossella rapidamente. - Sta molto male. L'ho portata a casa. Geraldo lasciò cadere la mano che le teneva sul braccio e cercò di raddrizzare le spalle mentre si dirigeva a passi lenti verso il carretto. Era lo spettro dell'antico padrone di casa che si recava a dare il benvenuto agli ospiti. - Cugina Melania! La voce di Melania mormorò indistintamente. - Cugina Melania, questa è casa vostra. Le Dodici Querce sono state bruciate. Dovete stare con noi. Il pensiero della prolungata sofferenza di Melania spinse Rossella all'azione, insieme alla necessità di mettere lei e il suo piccino in un letto morbido, e di fare per lei ciò che si poteva. - Bisogna portarla. Non può camminare. Si udí un fruscío di piedi e dal porticato emerse una figura scura. Pork scese i gradini di corsa. - Miss Rossella! Miss Rossella! - gridò. Rossella gli afferrò le braccia. Pork, parte di Tara, caro quanto le sue pietre e i freschi corridoi! Sentí le lagrime di lui scorrerle sulle mani, mentre egli l'accarezzava goffamente esclamando: - Tanto contento tu essere tornata! Tanto... Prissy era scoppiata in lagrime e balbettava parole incoerenti: - Pork! Pork! Caro! - E il piccolo Wade, incoraggiato dalla debolezza dei grandi, cominciò a piagnucolare: - Wade ha sete! Rossella prese la direzione. - Miss Melania è nel carretto col suo bambino. Devi prenderla in braccio, Pork, e portarla di sopra, nella stanza degli ospiti in fondo al corridoio. Prissy, porta dentro il piccolo e Wade, e dài a Wade un sorso d'acqua. C'è Mammy? Dille che ho bisogno di lei, Pork. Galvanizzato dall'autorità di quella voce, Pork si avvicinò al carretto. Un gemito uscí dalle labbra di Melania quando egli la sollevò dal materassino di piume su cui giaceva da tante ore. E poi fu nelle forti braccia di Pork, con la testa sulla sua spalla. Prissy, col bimbo in braccio e tenendo Wade per mano, lo seguí e scomparve nelle tenebre del vestibolo. Le dita infiammate di Rossella cercarono la mano di suo padre. - Come stanno, babbo? - Le ragazze si stanno rimettendo. Nel silenzio che seguí, un'idea troppo mostruosa per essere detta in parole prese forma. No, ella non poteva costringere le sue labbra ad aprirsi. Inghiottí a piú riprese, ma la sua gola era arida come pergamena. Era dunque quello il significato dello spaventoso enigmatico silenzio di Tara? Come per rispondere al suo spirito, Geraldo parlò. - La mamma... - disse; e si fermò. - La mamma? - È... è morta ieri. Col braccio di suo padre stretto al suo, Rossella attraversò il grande vestibolo nel quale, malgrado l'oscurità, sapeva muoversi senza esitazione. Evitò le sedie ad alta spalliera, la vecchia credenza con le zampe sporgenti, la rastrelliera vuota, e si sentí portata dall'istinto allo studietto dove Elena sedeva sempre riordinando la sua interminabile contabilità. Certo la troverebbe dinanzi alla scrivania; e la vedrebbe alzarsi in un fruscio di gonne che sapevano di verbena, per andare incontro alla figlia cosí stanca, ed esausta. Elena non poteva essere morta, benché il babbo avesse detto e ripetuto, come un pappagallo che sa una sola frase: - È morta ieri... è morta ieri... è morta ieri. Strano: non sentiva altro, ora, che una stanchezza che le inceppava le membra come catene di ferro e una fame che le faceva tremare le ginocchia. Alla mamma penserebbe piú tardi. Doveva allontanarla dalla sua mente in questo momento, altrimenti si metterebbe a balbettare stupidamente come Geraldo o a singhiozzare come Wade. Pork ridiscese frettolosamente le scale, ansioso di avvicinarsi a Rossella come un animale che ha freddo si avvicina al fuoco. - Luce? - chiese Rossella. - Perché tutta la casa è cosí buia, Pork? Porta delle candele. - Loro avere preso tutte le candele, miss Rossella, meno una che adoperare per lavori piú fini ed essere quasi finita. Mammy adoperare stracci in un piatto di grasso di porco per potere curare miss Carolene e miss Súsele. - Porta quello che è rimasto della candela - ordinò. - Portala nello studio della... nello studio. Pork trotterellò verso la stanza da pranzo e Rossella penetrò nella stanzetta e si lasciò cadere sul divano. Il braccio di suo padre era ancora sotto al suo, aggrappato disperatamente, supplichevole, come possono esserlo soltanto le mani dei giovanissimi e dei vecchi. «È invecchiato e stanco» pensò di nuovo; e vagamente si stupí che non gliene importasse nulla. La luce penetrò nella stanza quando Pork entrò portando una candela consumata a metà in un piattino. L'ambiente si ravvivò: il vecchio divano logoro su cui sedeva, la grande scrivania con la fragile sedia intagliata dietro ad essa, gli scaffali ancora pieni di carte scritte dalla mamma, il tappeto consunto... tutto, tutto era come prima; soltanto Elena non vi era, Elena con la lieve fragranza di verbena e la dolce espressione dei suoi occhi dagli angoli tirati in basso. Rossella provò una leggera stretta al cuore, come se i nervi, lesi da una profonda ferita, cercassero di riprender vita. Ma non poteva lasciarli rivivere adesso: c'era davanti a lei tutto il resto della sua vita per soffrire! Non adesso, Dio, non adesso! Guardò Geraldo e per la prima volta in vita sua lo vide non raso, col viso non piú florido irto di setole grige. Pork collocò la candela nel candeliere e le venne accanto. Se fosse stato un cane, le avrebbe posato il muso in grembo, aspettando una carezza. - Pork, quanti negri ci sono? - Miss Rossella, quei mascalzoni negri essere scappati e alcuni essere andati con yankees e... - Quanti ne sono rimasti? - Rimasti io e Mammy. E poi Dilcey. Mammy aver curato signorine tutto giorno e Dilcey tutta notte. Noi tre, miss Rossella. «Noi tre», mentre erano cento. Rossella alzò la testa con sforzo; il collo le doleva. Bisognava che la voce non le tremasse! Ma, con sua sorpresa, parlò freddamente e naturalmente, come se non vi fosse mai stata la guerra ed ella avesse potuto, con un cenno, chiamare una decina di schiavi. - Pork, muoio di fame. C'è qualche cosa da mangiare? - No, miss. Loro avere portato via tutto. - E nell'orto? - Loro avere fatto camminare dentro cavalli che aver pestato tutto. - Anche le patate dolci? Qualche cosa come un sorriso si disegnò sulle grosse labbra del negro. - Miss Rossella, io avere dimenticato patate dolci. Credo che essere ancora. Yankees non conoscere queste e credere che essere radici inutili... - A momenti si leverà la luna. Andrai a scavarne un certo numero e le farai cuocere. Non c'è grano saraceno? Piselli secchi? Polli? - No, badrona. Niente. I polli che non aver potuto mangiare avere portato via legati a loro selle. Non vi era dunque cosa che non avessero fatto, coloro? Non bastava avere incendiato e ucciso? Avevano anche lasciato donne e bambini a morir di fame nei luoghi che avevano devastati? - Miss Rossella, io avere alcune mele che Mammy aver seppellito dietro alla casa. Oggi esserci nutriti con quelle. - Portale prima di andare a scavare le patate. E... Pork, mi sento tanto debole. C'è vino in cantina, magari di amarasche? - Oh, miss Rossella, in cantina essere andati per prima cosa! Una nausea fatta di fame, di esaurimento, di sbalordimento la assalí improvvisamente, ed ella si drizzò aggrappandosi alla scrivania. - Non c'è vino - ripeté con voce opaca, rivedendo le file di bottiglie nella cantina. Un ricordo le balenò. - E quel whisky di grano che babbo mise in un bariletto di quercia e che sotterrò ai piedi dell'albero di noce moscata? Un altro barlume di sorriso illuminò il viso nero. - Oh, miss Rossella, io non dimenticare quel bariletto. Ma whisky non essere buono. Essere lí sotto da quasi un anno e non essere buono per signorine! Com'erano stupidi i negri! Non avevano mai l'idea di nulla, se uno non glielo diceva. E gli yankees volevano liberarli! - Sarà buono per questa signorina e per babbo. Svelto, Pork, vai a dissotterrarlo e portaci due bicchieri, un po' di zucchero e qualche foglia di menta. - Non essere zucchero a Tara da un pezzo. E cavalli aver mangiato tutta la menta; e loro aver rotto tutti bicchieri. «Se dice "loro" ancora una volta, non potrò fare a meno di urlare!» pensò Rossella. Poi, disse: - Va bene; corri a prendere il whisky. Lo berremo puro. E... aspetta. Mi pare di dover pensare a tante cose... Ah, sí. Ho portato a casa un cavallo e una mucca. Questa ha bisogno di essere munta. E bisogna togliere i finimenti al cavallo e dargli da bere. Di' a Mammy di occuparsi della mucca. Che la metta in qualche posto. Il bimbo di Melania morirà se non gli si dà un po' di latte. - Miss Melania... non avere...? - Pork si interruppe per delicatezza. - No, non ha latte. - Dio mio, se la mamma la sentisse parlare cosí! - Allora, miss Rossella, mia Dilcey occuparsi del pupo di miss Melania. Mia Dilcey avere avuto anche lei bambino e avere abbastanza latte per due. - Tu hai un altro bimbo, Pork? Bambini, bambini, bambini. Perché Dio metteva al mondo tanti bambini? Ma no, non era Dio che li metteva al mondo: era la gente stupida. - Sí, badrona: grosso bambino nero. E... - Vai a dire a Dilcey che lasci per un poco le ragazze. Che si occupi del bimbo di miss Melania e faccia anche per miss Melania quello che occorre. Di' a Mammy che provveda per la mucca e metti nella stalla quel povero cavallo. - Non esservi stalla. Loro avere demolito per fare legna da ardere. - Non dirmi piú nulla di ciò che «loro» hanno fatto. Ripeti a Dilcey quello che ti ho detto. E poi vai a prendere il whisky e qualche patata. - Non potere scavare al buio. - Non puoi accendere un pezzo di legno e con la fiamma...? - Non avere legna. Loro... - Fai quello che ti pare. Arrangiati. Ma fai quello che ti ho ordinato e sbrígati. Pork si affrettò fuori della stanza e Rossella rimase sola con Geraldo. Gli accarezzò dolcemente una gamba; e notò che i muscoli saldi si erano afflosciati. Bisognava fare qualche cosa per toglierlo da quell'apatia... ma non poteva chiedergli della mamma. Piú tardi... - Perché non hanno incendiato Tara? Geraldo la fissò un momento come se non avesse compreso; e Rossella ripeté la domanda. - Perché... - mormorò - hanno fatto qui il loro quartier generale. - Gli yankees... in questa casa? Ebbe la sensazione che fosse stata compiuta una profanazione. Quelle mura, sacre perché vi aveva vissuto Elena... e coloro vi erano penetrati! - È stato cosí. Avevamo visto il fumo delle Dodici Querce prima che giungessero qui. Ma Lydia e Gioia si erano rifugiate a Macon, con alcuni schiavi, perciò non ce ne preoccupammo. Noi non ci potevamo muovere. Le ragazze stavano molto male... e la mamma... Non potevamo muoverci. I nostri negri fuggirono... non so dove. Rubarono i carri e i muli. Mammy, Dilcey e Pork... non sono fuggiti. Le ragazze... e la mamma... impossibile trasportarle. - Sí, sí. - Non doveva parlare della mamma. Qualunque altra cosa; magari dirle che il generale Sherman in persona aveva usato quella stanza, lo studio della mamma, per il suo quartier generale. Qualunque altra cosa. - Gli yankees marciavano su Jonesboro, per tagliare la ferrovia. E attraversarono il fiume... migliaia e migliaia... coi cannoni e i cavalli... a migliaia... ed io andai a riceverli sotto il porticato. «Valoroso piccolo Geraldo!» pensò Rossella sentendosi venir meno. Geraldo che andava a ricevere il nemico sui gradini di Tara, come se avesse dietro un esercito, anziché dinanzi. - Mi dissero di andar via, perché volevano incendiare la casa. Risposi che l'avrebbero bruciata con me dentro. Non potevamo partire... le ragazze... la mamma... - E allora? - Possibile che tornasse sempre a parlare di Elena? - Dissi che vi erano ammalati in casa; il tifo; e che farli muovere sarebbe stato ucciderli. Bruciassero pure il tetto sulle nostre teste. Non potevo partire... lasciare Tara... La sua voce si spense; egli guardò le pareti e Rossella comprese. Troppi antenati irlandesi erano morti combattendo sino alla fine, piuttosto che lasciare le case dove avevano vissuto, lavorato, amato, generato dei figliuoli. - Dissi che vi erano tre donne moribonde: bruciassero pure la casa con loro dentro. Il giovine ufficiale era... era un gentiluomo. - Uno yankee gentiluomo? Andiamo, via, babbo! - Un gentiluomo. Se ne andò al galoppo e tornò dopo poco con un capitano medico che visitò le ragazze... e la mamma. - Hai lasciato entrare in camera loro un maledetto yankee? - Aveva dell'oppio. Noi non ne avevamo. Salvò le tue sorelle. Súsele aveva un'emorragia. Era un brav'uomo. E quando andò a riferire che erano... ammalate... rinunciarono a incendiare la casa. Entrarono, il generale e il suo Stato Maggiore, e occuparono le stanze, meno quella delle ammalate. E i soldati... Si interruppe di nuovo, come se fosse troppo stanco per continuare. Il mento gli ricadde pesantemente sul petto, formando delle pieghe di carne floscia. Poi fece uno sforzo per parlare ancora. - Si accamparono intorno alla casa, dovunque, nel cotone, nel grano. I campi erano turchini delle loro uniformi. Quella notte vi furono mille fuochi di bivacco. Strappavano le barriere e le bruciavano per cucinarvi sopra il loro cibo; e cosí le tettoie e le stalle. Uccisero le mucche, i maiali, i polli... perfino i miei tacchini. - I preziosi tacchini di Geraldo. - Presero tutto; i quadri, le porcellane... - L'argenteria? - Non so che cosa ne hanno fatto Pork e Mammy; messa nel pozzo... non mi ricordo. - La voce di Geraldo era stizzosa. - E poi iniziarono la battaglia da qui... da Tara... Uno strepito infernale, gente che galoppava e calpestava tutto. E piú tardi, le cannonate a Jonesboro; sembravano tuoni... Anche le ragazze le sentivano, benché stessero tanto male... - E... la mamma? Ha saputo che c'erano gli yankees in casa? - Non ha mai saputo nulla. «Dio sia ringraziato!» pensò Rossella. Almeno, questo era stato risparmiato alla mamma. Non aveva saputo, non aveva udito il nemico nelle stanze, non aveva sentito i cannoni a Jonesboro, non aveva sofferto perché la terra cara al suo cuore era sotto ai piedi degli yankees. - Li ho visti poco perché stavo al piano di sopra con le ragazze e con la mamma. Ho visto piú di tutti il giovine medico. Era tanto buono, tanto! Dopo aver lavorato tutto il giorno intorno ai feriti, veniva a sedersi di sopra, con loro. Ha anche lasciato qualche medicina. Nel partire mi disse che le ragazze sarebbero guarite, ma la mamma... Era cosí fragile... troppo fragile per resistere a questo. Disse che aveva abusato delle sue forze... Nel silenzio che seguí, Rossella vide sua madre come doveva essere stata in quegli ultimi tempi; il sostegno di Tara, sempre pronta ad assistere, a lavorare, senza dormire e senza mangiare, perché gli altri potessero mangiare e dormire. - E poi, se ne sono andati. Tacque a lungo, poi cercò la mano di lei. - Sono contento che tu sia tornata. Dal porticato posteriore giunse uno scalpiccio. Il povero Pork, abituato da quarant'anni a pulirsi le scarpe prima di entrare in casa, non dimenticava di farlo neanche in questi momenti. Entrò, portando con precauzione due piccole borracce di zucca e con lui entrò un forte sentore di grappa. - Averne sprecato parecchio, miss Rossella. Essere difficile fare entrare grosso getto in piccola zucca. - Va bene, Pork; grazie. - Gli prese di mano la zucca sgocciolante, torcendo il naso per il disgusto di quell'odore forte. - Bevi, babbo - disse ponendogli in mano lo strano recipiente e prendendo dalle mani di Pork la seconda zucca, piena d'acqua. Geraldo, ubbidiente come un bambino, bevve rumorosamente. Ella gli porse l'acqua, ma Geraldo crollò il capo. Riprese la borraccia e se la portò alle labbra; e nel far questo vide che gli occhi di lui la seguivano, con una vaga espressione di disapprovazione. - So che le signore non bevono liquori - disse brevemente. - Ma oggi non sono una signora; e stasera c'è da lavorare, babbo. Sollevò il recipiente, trasse un profondo respiro e bevve. Il liquore le bruciò la gola e lo stomaco, soffocandola e facendola lagrimare. Trasse un altro respiro e sollevò di nuovo la zucchetta. - Caterina Rossella - fece Geraldo; e nella sua voce era la prima nota di autorità che ella avesse udito dopo il suo ritorno, - ora basta. Non sei abituata all'alcool e ti renderebbe brilla. - Brilla? - E rise di un riso cattivo. - Spero che mi ubbriachi addirittura. Mi piacerebbe ubbriacarmi e dimenticare tutto questo. Bevve ancora, sentendosi scorrere entro le vene un calore che giunse fino alla punta delle dita. Che piacevole sensazione, quel calore benefico! Le parve che penetrasse fino al suo cuore ghiacciato e le desse nuova forza. Vedendo il viso perplesso di Geraldo lo accarezzò di nuovo sforzandosi al sorriso che egli amava. - Come vuoi che mi ubriachi, babbo? Non sono tua figlia? Non ho ereditato la testa piú salda della Contea di Clayton? Anche Geraldo abbozzò quasi un sorriso. Il whisky stava risollevando anche lui. Rossella gli porse nuovamente la borraccia. - Bevi ancora un poco; poi ti porterò di sopra e ti metterò a letto. Fu stupita. Quello era il modo in cui parlava a Wade; non poteva parlare nella stessa maniera a suo padre! Era poco rispettoso. Ma egli pendeva dalle sue labbra. - Sí, ti metterò a letto - proseguí leggermente - e ti darò ancora da bere... forse tutta la borraccia; cosí dormirai. Hai bisogno di dormire; e qui ora c'è Caterina Rossella e non devi preoccuparti di nulla. Bevi. Egli bevve di nuovo, ubbidiente; quindi, passando il suo braccio sotto a quello di lui, ella lo fece alzare in piedi. - Pork... Pork s'impadroní della borraccia con una mano e del braccio di Geraldo con l'altra. Rossella prese la candela e tutti e tre si avviarono lentamente per il vestibolo e poi per le scale fino alla stanza di Geraldo.

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Mi dispiace dirvi che la mia coscienza non mi ha punto rimproverato di avervi abbandonata. Ma quanto all'arruolarmi... Quando penso che ho raggiunto l'esercito in scarpette verniciate e abito di lino bianco, armato in tutto e per tutto con due pistole da duello... E tutti quei chilometri nella neve dopo che le mie scarpe si erano consumate, ed io non avevo soprabito e niente da mangiare!... Non so proprio perché non ho disertato. Vera pazzia. Ma è nel sangue. I meridionali non sono capaci di resistere quando una causa è perduta. Ma lasciamo andare le mie ragioni. L'importante è che mi abbiate perdonato. - Ma niente affatto. Siete una canaglia. - Disse quest'ultima parola come se avesse detto «tesoro». - Non raccontatemi storie. Mi avete perdonato. Una giovane signora non affronta le sentinelle yankee per venire a trovare un detenuto per puro spirito di carità; e non viene tutta vestita di velluto con penne e manicotto. Come siete carina, Rossella! Grazie a Dio non siete in lutto né vestita di stracci. Non ne posso piú di donne malvestite. Sembra che veniate da Rue de la Paix. Voltatevi, cara, e lasciatevi guardare. Aveva notato il vestito. Era naturale che Rhett notasse queste cose. Ella rise dolcemente eccitata e si girò sui tacchi con le braccia tese, facendo ondeggiare i suoi cerchi per mostrare la guarnizione di pizzo della sottoveste. Gli occhi neri di lui la abbracciarono in un solo sguardo dalla testa ai piedi; era ancora quel suo sguardo impudente che sembrava svestirla e che le faceva accelerare i battiti del cuore. - State molto bene e molto elegante. Mi date proprio il desiderio... Se non ci fossero quegli yankees là fuori... Ma potete star tranquilla, cara. Sedete. Non approfitterò di voi come ho fatto l'ultima volta che ci siamo visti. - Si strofinò la guancia con finta tristezza. - Sinceramente, Rossella, non vi pare che quella notte siete stata abbastanza egoista? Pensate: con tutto ciò che avevo fatto per voi, arrischiato la vita, rubato un cavallo. e che cavallo! Rapito alla difesa della Nostra Causa Gloriosa! E che cosa ho avuto per ricompensa? Poche parole dure e uno schiaffo sonoro. Ella sedette. La conversazione non si svolgeva secondo il suo desiderio. - Volete sempre avere qualche cosa in cambio di ciò che fate? - Si capisce! Dovreste sapere che sono un mostro di egoismo. Pretendo sempre il pagamento, per qualunque cosa. Questo le diede un leggero brivido. Ma si riprese subito e agitò nuovamente gli orecchini. - Ma no, non è vero che siete tanto cattivo, Rhett. Vi piace farlo credere. - Siete proprio cambiata sul serio! - E Rhett rise. - Ma chi è che ha fatto di voi una cosí buona cristiana? Ho avuto vostre notizie da miss Pittypat, la quale non mi ha detto che in voi si fosse sviluppata la dolce femminilità. Ma parlatemi di voi. Che avete fatto da quando non ci siamo piú visti? L'antica irritazione verso di lui e lo spirito antagonistico erano già risorti in lei, e l'impulso fu di rispondere con asprezza; ma lo dominò e sorrise mostrando le fossette delle guance. Egli aveva avvicinato la sedia alla sua, e Rossella gli posò dolcemente mia mano sul braccio. - Oh, me la sono cavata, e le cose a Tara vanno benino adesso. Certo, abbiamo passato dei brutti momenti dopo la venuta di Sherman; ma per fortuna la casa non fu bruciata, e i negri salvarono la maggior parte delle nostre provviste nascondendole nella palude. Abbiamo anche fatto un discreto raccolto: venti balle. Senza dubbio, è un'inezia in confronto di quello che potrebbe produrre Tara; ma abbiamo pochi contadini. Il babbo dice che l'anno venturo andrà meglio. Ma com'è malinconica adesso la campagna, se sapeste! Né balli né riunioni; e non si parla d'altro che della tristezza dei tempi! Vi assicuro che non ne posso piú! Finalmente, la settimana scorsa ho sentito che proprio ero stufa, e allora il babbo mi ha consigliato di fare un viaggetto per distrarmi un poco. Perciò sono venuta qui a farmi qualche abito e poi andrò a Charleston da mia zia. Sarà piacevole frequentare di nuovo qualche ballo! «Bene» pensò con soddisfazione «gliel'ho detto proprio come dovevo! Senza aver l'aria troppo ricca, ma neanche troppo povera!» - Siete molto bella vestita da ballo, mia cara; e quel ch'è peggio, è che lo sapete! Probabilmente la vera ragione per cui andate a far visita alle vostre parenti è perché avete esaurito tutti i corteggiatori della Contea e avete bisogno di andare a mietere altre conquiste in campi lontani! Rossella fu ben lieta al pensiero che Rhett avesse trascorso gli ultimi mesi all'estero. Altrimenti, non avrebbe fatto quella ridicola affermazione. Pensò con amarezza ai corteggiatori della Contea: i piccoli Fontaine vestiti di abiti logori, i poveri Munroe, i giovinotti di Jonesboro e di Fayetteville, tanto occupati ad arare, spaccare legna, curare vecchi animali infermi, che avevano completamente dimenticato l'esistenza di cose piacevoli come balli e corteggiamenti. Ma respinse questo pensiero e sorrise ammettendo la verità dell'asserzione. - Andiamo, via! - esclamò. - Siete una creatura senza cuore, Rossella; ma forse questo fa parte del vostro fascino. - Sorrise del suo vecchio sorriso un po' beffardo. - È un fascino veramente eccessivo, il vostro. L'ho sentito perfino io, benché sia cosí indurito... Spesso mi sono chiesto perché avevo cosí vivo il vostro ricordo, mentre ho conosciuto tante signore piú belle di voi, piú intelligenti e, probabilmente, piú buone e moralmente piú oneste di voi. Eppure, non vi ho mai dimenticata. Anche quando, dopo la sconfitta, sono stato in Inghilterra e in Francia, e ho conosciuto tante donne piacevoli, mi è accaduto spesso di pensare a voi e di chiedermi che cosa stavate facendo. Per un momento fu indignata nel sentirgli dire che altre donne erano piú belle, piú intelligenti e piú buone di lei, ma questo pensiero svaní dinanzi alla gioia di sapere che aveva sempre ricordato lei e il suo fascino. Questo le facilitava il compito. Ora bisognava parlare di lui, fargli comprendere che anche lei non aveva dimenticato e poi... Gli strinse dolcemente il braccio e sorrise ancora. - Oh Rhett, perché prendere in giro una ragazza di campagna come me! So benissimo che non vi siete piú ricordato che io fossi al mondo dopo quella notte... Con tutte quelle belle inglesine e francesine... Ma non sono venuta qui per sentirvi dire delle galanterie. Sono venuta... sono venuta... perché... - Perché...? - Perché... ero tanto preoccupata per voi! Tanto spaventata! Quando uscirete da questo orribile luogo? Rapidamente egli le coperse la mano con la sua e la trattenne contro il proprio braccio. - Siete molto carina. Non so dirvi quando potrò uscire. Probabilmente quando avranno tirato un poco piú la corda. - La corda? - Ma sí; immagino che uscirò da qui sospeso a una corda! - Non volete dire che vi impiccheranno...? - Lo faranno se riusciranno ad avere qualche prova di piú a mio carico. - Rhett! - e Rossella si portò la mano al cuore. - Ne avrete dolore? Se sarete abbastanza addolorata, mi ricorderò di voi nel mio testamento. Gli occhi neri ridevano incuranti. Le strinse la mano. «Il suo testamento!» pensò Rossella. E abbassò gli occhi per tema che la tradissero. Ma non abbastanza rapidamente: e gli occhi di lui improvvisamente si accesero di curiosità. - Secondo gli yankees, dovrei fare un bellissimo testamento. Si interessano molto dello stato delle mie finanze. Tutti i giorni mi rivolgono un'infinità di domande stupide. A quanto pare, corre voce che io abbia portato via il mitico oro della Confederazione... - E... non lo avete fatto? - Che domanda! Voi sapete meglio di me che la Confederazione aveva una macchina litografica invece di una zecca. - E da dove veniva tutto il vostro denaro? Speculazioni. Zia Pitty dice... - Che domande insidiose? Dio lo benedica! Certamente aveva il denaro... Rossella era cosí eccitata che ormai trovava difficile parlargli con dolcezza. - Rhett, sono tanto sconvolta all'idea che siate rinchiuso qui dentro... Non vi è nessuna possibilità di uscirne? - Il mio motto è "nihil desperandum". - E che significa? - Significa "forse", mia graziosa ignorantella. Rossella agitò le palpebre frangiate come ali di farfalla. - Siete troppo abile per lasciarvi impiccare! Certo troverete il modo di cavarvela. E quando sarete riuscito... - Ebbene? - chiese Rhett dolcemente, chinandosi ancor di più - Ebbene, io... - Riuscí a fingere un grazioso imbarazzo e ad arrossire. Il rossore non le riuscí troppo difficile, perché era ansimante e il cuore le batteva come un tamburo. - Rhett, sono cosí spiacente di... di quello che vi dissi quella sera... lí, sulla strada. Ero... tanto spaventata e sconvolta e voi... - Abbassò gli occhi e vide le mani brune di lui sulle sue.... E credetti... che non vi avrei mai piú perdonato! Ma quando zia Pitty ieri mi ha detto che voi... che potrebbero impiccarvi... io... io... - Gli lanciò un rapido sguardo d'implorazione in cui mise tutta l'angoscia di un cuore spezzato - Oh, Rhett, se vi impiccassero morirei! Non potrei resistere! Io... - E non potendo sostenere la luce ardente degli occhi di lui, abbassò nuovamente le palpebre. «Sento che sto per piangere» pensò eccitata, frenetica. «Debbo dar corso alle lagrime? Sembrerà piú naturale? Rhett le strinse le mani cosí forte da farle male, mentre mormorava: - Dio mio, Rossella, non volete dire che... Ella chiuse gli occhi cercando di spremerne qualche lagrima, ma volgendo lievemente in alto il viso perché egli potesse baciarla piú facilmente. Fra un secondo la sua bocca sarebbe sulla sua; quella bocca dura che improvvisamente ricordò con un'intensità che parve la svuotasse di tutto il sangue. Ma egli non la baciò. Delusa e stupita, riaperse gli occhi e arrischiò una breve occhiata. Il capo bruno era chino sulle sue mani; egli ne sollevò una e la baciò; poi, prendendo l'altra, se la posò per un momento sulla guancia. Aspettandosi qualche cosa di violento, questo gesto gentile e affettuoso la stupí. Avrebbe voluto vedere l'espressione del suo volto, ma non poté scorgerlo. Riabbassò in fretta gli occhi per timore che egli sollevasse i suoi e vedesse la sua espressione. Era sicura di non poter celare la gioia per il trionfo imminente. Certo fra un minuto le chiederebbe di sposarlo o perlomeno le direbbe che l'amava; e allora... Mentre attraverso le folte ciglia abbassate ella lo guardava, Rhett le rivoltò la mano per baciarne anche il palmo, e a un tratto respirò piú velocemente. Anche Rossella in quel momento vide il palmo della propria mano, come se non lo avesse mai visto, e si sentí mancare il cuore. Era la mano di un'estranea, non la mano bianca, morbida, tutta fossette di Rosella O'Hara. Era una mano indurita dal lavoro, arsa dal sole, screpolata e incallita. Le unghie erano spezzate e irregolari; nel pollice era una vescica in via di guarigione. La cicatrice della bruciatura prodotta il mese scorso dal grasso bollente era lucida e rossa. Rossella vide tutto ciò in un lampo, con orrore, e istintivamente strinse il pugno. Neanche adesso Rhett levò il capo. Neanche adesso ella vide il suo volto. Le riaperse il pugno senza pietà, le prese l'altra mano e rimase a fissarle senza parlare. - Guardatemi - disse finalmente alzando la testa; la sua voce era tranquilla. - E smettete quell'aria umiliata. Involontariamente ella lo guardò con un'espressione di sfida e di turbamento. Gli occhi di lui scintillavano e le sue sopracciglia brune erano inarcate. - Dunque le cose vanno benino a Tara, non è vero? E il raccolto del cotone rende tanto che voi potete andare in giro a visitare i parenti. Che cosa avete fatto con queste mani...? Vangato? Ella cercò di svincolarsi; ma Rhett la trattenne e le posò un dito sui calli. - Queste non sono le mani di una signora - e gliele posò nuovamente in grembo. - Tacete! - ella esclamò provando un attimo di sollievo nel sentirsi nuovamente capace di esprimere i propri sentimenti. - Che cosa v'importa di quello che faccio con le mani? «Che sciocca!» pensò frattanto con ira. «Dovevo farmi prestare i guanti di zia Pitty o rubarglieli. Ma non mi ero accorta che le mie mani fossero in questo stato. E ora ho perso il controllo di me stessa ed ho rovinato ogni cosa!» E questo proprio nel momento in cui stava per fare la sua dichiarazione! - Senza dubbio le vostre mani non mi riguardano - rispose Rhett freddamente e si appoggiò indolentemente alla spalliera della sua sedia con aria ingenua. La faccenda diventava difficile. Chi sa, forse parlandogli con dolcezza... - Siete poco gentile a respingere le mie povere mani, soltanto perché la settimana scorsa sono andata a cavallo senza guanti e me le sono sciupate... - Accidempoli, che cavallo! - La voce di lui era ugualmente calma e dolce. Avete lavorato come un negro, con quelle mani. Perché non dite la verità? Perché darmi ad intendere che le cose a Tara vanno bene? - Ma insomma, Rhett... - Qual'è il vero scopo della vostra visita? Avevo quasi creduto alle vostre moine e stavo per convincermi che eravate addolorata che io... - Ma sí, Rhett, sono addolorata! Davvero... - Niente affatto. Se anche mi appiccassero a non so che altezza, non ve ne importerebbe nulla. È scritto chiaramente sul vostro viso, cosí come il lavoro faticoso è scritto sulle vostre mani. Voi volete qualchecosa da me e perciò avete inscenato questa commedia. Perché non siete venuta a dirmelo francamente? Avreste avuto piú probabilità di raggiungere il vostro scopo, perché se vi è una virtú che stimo in una donna è la franchezza. Ma no: siete venuta qui a far dondolare i vostri orecchini e a fare delle smorfie come una prostituta che spera di accaparrarsi un cliente. Non aveva alzato la voce pronunciando queste ultime parole, ma per Rossella furono come una frustata; ed ella vide con disperazione il naufragio di tutte le sue speranze. Se egli avesse avuto uno scoppio d'ira come a molti altri uomini sarebbe accaduto, Rossella avrebbe ancora trovato modo di prenderlo. Ma la calma mortale della sua voce la sgomentò. Benché fosse un detenuto e nella stanza accanto vi fossero gli yankees, ella comprese improvvisamente che era pericoloso mettersi in contrasto con Rhett Butler. - Evidentemente la memoria mi ha fatto difetto. Dovevo ricordarmi che voi siete come me e non fate mai nulla senza uno scopo. Vediamo, dunque. Che diamine potevate avere in mente, signora Hamilton? Possibile che abbiate supposto che vi avrei chiesta in moglie? Ella divenne di porpora e non rispose. - Eppure non potete aver dimenticato che molte e molte volte ho affermato che non sono tipo da matrimonio! Poiché ella non rispondeva, egli riprese con subitanea violenza. - Non lo avevate dimenticato? Rispondetemi! - Non lo avevo dimenticato - rispose Rossella miserabilmente. - Siete una giocatrice, Rossella - rise Rhett. - Avete creduto che l'essere chiuso qui, lontano da ogni contatto femminile, mi avrebbe messo in tale stato che avrei abboccato all'amo come un povero pesciolino... «E se non fosse stato per le mie mani...!» pensò Rossella con ira. - Ora la verità è venuta fuori; mi manca soltanto conoscere i vostri motivi. Vedete un po' se siete capace di dirmi perché volevate accalappiarmi nella rete matrimoniale. Nella sua voce era una nota soave, quasi beffarda, ed ella riprese un po' di coraggio. Forse tutto non era ancora perduto. Certo non vi era piú da pensare al matrimonio; ma di questo, malgrado la sua disperazione, fu quasi contenta. Vi era qualche cosa, in quell'uomo immobile, che la sgomentava; sicché ora il pensiero di sposarlo le appariva spaventoso. Ma forse, con un po' di abilità e sapendo toccare il tasto dei ricordi, potrebbe ottenere il prestito. Diede al suo viso un'espressione infantile e supplichevole. - Oh, Rhett... potreste aiutarmi... se voleste esser buono! - Non c'è nulla che mi piaccia di piú che l'esser buono. - Rhett, per la nostra vecchia amicizia, vorrei che mi faceste un favore. - Oh, finalmente la signora dalle mani callose viene a dirmi il vero scopo della sua visita. Mi pareva bene che «visitare gli infermi e i carcerati» non fosse il vostro genere. Di che avete bisogno? Denaro? La rudezza di questa domanda distrusse ogni speranza di condurre la faccenda in maniera guardinga e sentimentale. - Non siate cosí cattivo, Rhett! - La sua voce era lusingatrice. - Ho bisogno di un prestito da voi... Trecento dollari. - Finalmente la verità! Si parla d'amore ma si pensa ai quattrini. Com'è femminile questo! E vi occorrono assolutamente? - Sí... Cioè, non assolutamente, ma mi farebbero comodo. - Trecento dollari. È una bella somma. Per che cosa vi serve? - Per pagare le imposte su Tara. - Dunque, vi occorre una sovvenzione. Giacché siete qui per affari, parlerò anch'io da uomo d'affari. Che garanzia mi date? - Come? - Garanzia. Sicurezza della restituzione. Non ho nessuna voglia di perdere una simile cifra. - La sua voce aveva una falsa dolcezza; ma Rossella non la rilevò. Sperava ancora che la faccenda potesse aggiustarsi. - I miei orecchini. - Non mi interessano. - Vi darò un'ipoteca su Tara. - Che volete che ne faccia di una proprietà fondiaria? - Potreste... potreste... è un'ottima piantagione. E non perderete nulla. Vi rimborserò col ricavato del prossimo raccolto. - Non ne sono molto sicuro. - Si appoggiò indietro, alla spalliera della sedia, e si mise le mani in tasca. - I prezzi del cotone stanno scendendo. I tempi sono difficili e il denaro è scarso. - Mi prendete in giro, Rhett! Coi milioni che avete... Gli occhi neri di lui brillavano maliziosamente mentre egli la fissava. - Dunque, tutto va bene e voi non avete un bisogno assoluto di questo denaro. Mi fa piacere di saperlo. Sono ben contento che per i vecchi amici la vita sia abbastanza facile. - Rhett, per l'amor di Dio... - riprese Rossella disperata, perdendo il coraggio e il controllo di sé. - Parlate piú sommessa. Spero che non vorrete che gli yankees vi sentano. Vi hanno mai detto che avete gli occhi di un gatto... di un gatto nell'oscurità? - Non mi tormentate, Rhett! Vi dirò tutto. Ho assoluto bisogno del denaro. Ho... ho mentito in tutto e per tutto. Le cose... vanno alla peggio. Il babbo è... non è piú in sé, da quando è morta la mamma; e non può aiutarmi in nessun modo; è ridotto come un bambino. Non abbiamo un solo contadino per coltivare il cotone e siamo in tanti a mangiare: tredici persone! Le tasse sono altissime. Voglio dirvi tutto, Rhett! Per un anno siamo stati sempre in procinto di morire di fame. Oh, non potete sapere! È terribile svegliarsi con la fame e andare a letto con la fame... E non avere un vestito che dia un po' di calore; i bambini sono sempre raffreddati e sofferenti... - Dove avete preso questo bel vestito? - È fatto con le tende della mamma - rispose, troppo disperata per tacere questa vergogna. - Ho resistito al freddo e alla fame, ma ora... i «carpetbaggers» hanno aumentato le tasse. E bisogna pagare! Non ho che una moneta d'oro da cinque dollari. E se non pago... mi prenderanno Tara! E io... noi non possiamo perdere la nostra terra, la nostra casa! - Perché non mi avete detto subito tutto questo invece di far languire il mio cuoricino suscettibile... sempre debole quando si tratta di belle signore? No, Rossella, non piangete. Avete usato tutti i trucchi possibili, meno questo; e non so se potrei resistere. Ho già il cuore abbastanza lacerato dalla delusione di avere scoperto che volevate il mio denaro e non la mia affascinante persona. Ella ricordò che Rhett spesso diceva delle verità scherzando e lo guardò per comprendere se egli era veramente addolorato. Si interessava davvero a lei? Era realmente stato in procinto di farle una proposta quando si era accorto delle sue mani callose? Ma gli occhi neri la guardavano con un'espressione che non era amorosa, e la bocca rideva beffarda. - Non mi piace la vostra garanzia. Non sono un piantatore. Che altro potete offrirmi? Finalmente era giunto il momento... Coraggio! Trasse un profondo respiro e lo guardò schiettamente, senza civetteria, mentre la sua mente cercava di non indietreggiare dinanzi a ciò che temeva di piú. - Ho... ho me stessa. - Davvero? La linea della mascella di lei si assottigliò e i suoi occhi divennero di smeraldo. - Vi ricordate quella sera, durante l'assedio, sotto al porticato di zia Pitty? Mi diceste... che mi desideravate. Egli si gettò nuovamente indietro, appoggiando la spalliera della seggiola alla parete; il suo volto bruno era impenetrabile. Una luce si agitò un attimo nei suoi occhi, ma egli tacque. - Diceste... che non avevate mai desiderato tanto nessuna donna. Se mi desiderate ancora, Rhett, potete avermi. Farò tutto ciò che vorrete; ma per carità, scrivetemi un ordine per il denaro! La mia parola vi deve bastare. Giuro che non mi trarrò indietro. Se volete, ve lo metterò in iscritto. Egli la guardò in modo strano, sempre impenetrabile; Rossella non avrebbe saputo dire se era divertito o disgustato. Se almeno avesse pronunciato una parola! Ella sentí le fiamme salirle al viso. - E bisogna che io abbia il denaro senza indugio, Rhett. Altrimenti ci metteranno in mezzo alla strada; quel maledetto sorvegliante che era alle dipendenze del babbo vuoi diventare proprietario di Tara... - Un momento. Che cosa vi fa credere che io vi desideri ancora? Che cosa vi fa supporre che potete valere trecento dollari? Generalmente le donne non raggiungono questo prezzo. Ella arrossí fino alla radice dei capelli; non poteva essere piú umiliata di cosí. - Perché fate questo? Perché non lasciate perdere la proprietà e non ve ne andate ad abitare con miss Pittypat? Metà della casa vi appartiene... - Dio benedetto! - esclamò Rossella. - Siete pazzo? Io non posso lasciar perdere Tara. È la mia casa. Non la lascerò finché avrò respiro! - Gli irlandesi - e riabbassò i piedi anteriori della sedia togliendosi le mani di tasca - sono la razza piú infernale che vi sia. Mettono un ardore inverosimile nelle cose piú sbagliate. Per esempio, la terra. Come se una zolla non fosse identica a un'altra zolla... Dunque, stabiliamo chiaramente questa faccenda. Siete venuta da me con una proposta commerciale. Io vi darò trecento dollari e voi diventerete la mia amante. - Sí. Ora che la parola ripugnante era stata detta, ella si sentí sollevata; la speranza si ridestò in lei. Rhett aveva detto «vi darò». Nei suoi occhi era una luce diabolica, come se la cosa lo divertisse sommamente. - Eppure, quando ho avuto la sfacciataggine di farvi la stessa proposta, mi avete messo alla porta. E mi avete gratificato di un certo numero di insulti, aggiungendo che non volevate arrischiare di mettere al mondo «un mucchio di bastardi». Questo lo dico soltanto perché sto cercando di capire le stranezze della vostra mentalità. E tutto questo mi convince una volta di piú che la virtú è semplicemente una questione di prezzo. - Oh, Rhett, continuate pure! Se avete voglia di insultarmi, dite tutto quello che volete, ma datemi il denaro! Ora si sentiva piú tranquilla. Conoscendo Rhett, era certa che egli l'avrebbe tormentata e insultata per vendicarsi del passato e anche del suo recente tentativo. Ebbene, sopporterebbe tutto. Per Tara, valeva la pena. Tutto si poteva sopportare. Rialzò il capo. - Me lo darete? Egli la fissò come se si stesse divertendo, e quando rispose la sua voce ebbe una soave brutalità: - No, non ve lo darò. Le sembrò quasi di non capire. - Non potrei darvelo, anche se volessi. Non ho un quattrino con me. E non ho un dollaro ad Atlanta. Ho un po' di denaro, sí, ma non qui. E non vi dirò quanto né dove. Ma se io cercassi di fare un assegno, gli yankees vi si avventerebbero sopra e non prenderemmo piú nulla, né voi né, io. Che ne dite? Il volto di lei divenne verdastro, e la sua bocca si contorse come quella di Geraldo in una rabbia omicida. Balzò in piedi con un grido incoerente che fece immediatamente cessare il mormorio di voci nella stanza accanto. Con un guizzo di pantera Rhett le fu vicino, mettendole una mano sulla bocca e afferrandola alla vita con l'altro braccio. Ella lottò violentemente, cercando di mordergli la mano, di dargli dei calci, di urlare la sua ira, la sua disperazione, il suo odio, la sua angoscia, il suo orgoglio ferito. Si dibatté e si torse su quel braccio di ferro, ma egli la teneva cosí stretta da farle male; anche la mano che le aveva posto sulla bocca le serrava crudelmente le mascelle. Era pallidissimo sotto il suo colore abbronzato e i suoi occhi erano ansiosi mentre la sollevava completamente da terra; sedette nuovamente, stringendosela al petto, raccogliendola sulle sue ginocchia tutta contorta. - Cara, per l'amor di Dio! Zitta! Non urlate! Altrimenti entreranno qui... Calmatevi! Volete che gli yankees vi vedano in questo stato? Non le importava nulla di essere vista da chiunque; non aveva altro che un feroce desiderio di ucciderlo. Ma si sentí prendere dal capogiro: stentava a respirare; Rhett la soffocava; il busto la stringeva come una morsa di ferro. Udí la sua voce diventare piú fievole e lontana e il volto di lui chino sul suo fu avvolto da una specie di nebbia sempre piú densa, finché non lo vide piú. Tornando in sé, fece qualche lieve movimento: le dolevano tutte le ossa e si sentiva debole e sbalordita. Semisdraiata sulla sedia, era senza cappello; Rhett le dava dei lievi colpetti sul polso, mentre i suoi occhi neri la scrutavano ansiosamente. Il giovine capitano cercava di farle inghiottire un bicchierino di acquavite; gliene aveva sparso metà sul collo. Gli altri ufficiali giravano intorno senza saper che fare, parlando sottovoce e agitando le mani. - Credo... di essere svenuta. - E la propria voce le parve cosí lontana che la spaventò. - Bevi questo - disse Rhett prendendo il bicchiere e accostandoglielo alle labbra. Ella ricordò l'accaduto e lo guardò; ma era troppo stanca per adirarsi. - Ti prego, per amor mio. Inghiottí un sorso e cominciò a tossire; ma egli la costrinse ad inghiottire ancora. Ingoiò e il liquido ardente le bruciò la gola. - Ora mi pare che stia meglio, signori - disse Rhett - ed io vi ringrazio molto. L'idea che io debba essere giustiziato l'ha sconvolta. Il gruppo in uniformi azzurre si agitò un poco confusamente; vi fu qualche sguardo imbarazzato, qualche colpetto di tosse, poi tutti uscirono. - Se posso ancora esservi utile... - disse il giovine capitano soffermandosi sulla soglia. - No, grazie. Uscí e richiuse l'uscio. - Bevete un altro sorso. - No. - Bevete. Bevve ancora; il calore si diffuse per il suo corpo e le diede un po' di forza. Fece per alzarsi in piedi, ma egli la trattenne. - Lasciatemi. Ora me ne vado. - Non ancora. Aspettate un momento. Potreste svenire di nuovo. - Preferisco svenire per istrada piuttosto che stare qui con voi. - Ma io non voglio che vi sentiate male per istrada. - Lasciatemi andare. Vi odio. Egli accennò un debole sorriso. - Questo vi somiglia. Si vede che state meglio. Rossella cercò per un momento di richiamare la sua collera; ma era troppo stanca e debole per potere odiare e provare qualsiasi sentimento violento. La sconfitta le pesava come il piombo. Aveva giocato e aveva perduto tutto. Questa era la fine della sua ultima speranza; la fine di Tara e di ogni cosa. Rimase a lungo con gli occhi chiusi, sentendo vicino a sé il respiro di lui; il calore dell'acquavite diffondendosi nel suo corpo le diede una fittizia energia. Quando finalmente riaperse gli occhi e lo vide, la collera la invase nuovamente. Vedendole aggrondare le sopracciglia, Rhett sorrise. - State meglio. Si vede dal vostro cipiglio. - Sí, sto bene. Ma voi, Butler, siete un odioso farabutto, il piú gran mascalzone che io abbia mai conosciuto! Sapevate benissimo quello che vi avrei detto e sapevate che non potevate darmi il denaro. Avreste dunque potuto evitarmi... - Evitarvi di dire quello che avete detto? Neanche per sogno. Ho cosí poche distrazioni qui! E non ho mai udito nulla di piú piacevole. - Improvvisamente rise del suo vecchio riso beffardo. Udendolo ella balzò in piedi afferrando il suo cappello. Egli la prese per le spalle. - Non ancora! Vi sentite abbastanza bene da poter parlare con un po' di senso comune? - Lasciatemi andare! - Vedo che state bene. E allora ditemi una cosa. Ero io la sola cartuccia che potevate sparare? - I suoi occhi erano attenti e pronti a spiare ogni mutamento del volto di lei. - Che volete dire? - Ero il solo uomo col quale potevate tentare...? - Che ve ne importa? - Piú di quello che immaginate. Ditemi dunque. Avete altri uomini a cui ricorrere? - No! - Incredibile. Non riesco a immaginarvi senza una riserva di cinque o sei innamorati. Certamente qualcuno potrebbe accettare la vostra proposta. Ne sono tanto sicuro che vorrei darvi un piccolo consiglio. - Non so che farmene dei vostri consigli. - Voglio darvelo lo stesso. È la sola cosa che posso darvi adesso. Quando volete ottenere qualche cosa da un uomo, non siate cosí schietta come siete stata con me. Siate piú insinuante, piú seducente. Il risultato sarà migliore. Una volta eseguivate questo gioco alla perfezione. Ma poco fa, quando mi avete offerto la vostra... hm.... garanzia per il mio denaro, siete stata troppo dura. Ho visto degli occhi come i vostri una volta, a venti passi di distanza, durante un duello alla pistola; e vi assicuro che non è una vista piacevole. Ciò non risveglia l'ardore nel petto di un uomo. Non è cosí che si trattano gli uomini, mia cara. Voi state dimenticando la vostra educazione e tutte le arti che vi sono state insegnate. - Non ho bisogno che mi diciate come devo comportarmi - replicò Rossella; e si mise il cappello con le mani tremanti di stanchezza. Fu stupita che egli avesse voglia di scherzare, sentendosi la corda intorno al collo, e sapendo lei in condizioni cosí pietose. Non si accorse neppure che egli aveva le mani sprofondate in tasca, coi pugni stretti, come se facesse uno sforzo contro la propria impotenza. - Allegra - le disse mentre ella si annodava i nastri del cappello. - Potrete venire ad assistere alla mia impiccagione; questo vi farà bene. Salderà tutti i vostri vecchi rancori contro di me... anche quest'ultimo. E io vi nominerò nel mio testamento. - Grazie; ma c'è il pericolo che vi impicchino quando sarà troppo tardi per pagare le tasse - rispose Rossella con una subitanea malizia che superò quella di lui.

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Era una povera creatura, dolce, femminile, abbandonata. E come era coraggiosa! Cercava di guadagnar denaro col suo ago! Ma andare a trattare con gli yankees... questo era troppo. - Non lo dirò a miss Pittypat, ma dovete promettermi che non lo farete mai piú. L'idea che la figlia di vostro padre.... Gli occhi verdi pieni di lagrime lo fissarono smarriti. - Ma, Mr. Kennedy, debbo fare qualche cosa. Devo pensare al mio povero bambino, visto che non c'è nessuno che possa aiutarci! - Siete una donnina coraggiosa; ma la vostra famiglia morirebbe di vergogna. - E allora che debbo fare? - Lo guardò ancora come se pendesse dalle sue labbra. - Adesso non lo so, ma ci penserò. - Oh, come siete buono, Franco... Non l'aveva mai chiamato per nome; e questo gli diede un'impressione di piacevole sorpresa. La povera ragazza era cosí sconvolta che probabilmente l'aveva fatto senza accorgersene. Certo, se egli potesse fare qualche cosa per la sorella di Súsele O'Hara, lo farebbe con gioia. Trasse un fazzoletto di seta rossa e glie lo porse. Rossella si asciugò gli occhi e cominciò a sorridere di un sorriso tremulo. - Sono un'ochetta - disse scusandosi. - Perdonatemi. - Non siete un'ochetta; siete una brava donnina che cercate di portare con disinvoltura un fardello troppo pesante. Temo che miss Pitty non possa esservi molto utile. Ho saputo che ha perduto quasi tutto e anche il signor Enrico Hamilton si trova in cattive acque. Vorrei soltanto avere una casa per offrirvi un ricovero. Ma ricordatevi, miss Rossella, che quando avrò sposato vostra sorella, vi sarà sempre un posto per voi sotto il nostro tetto, e anche per Wade Hamilton. Questo era il momento! Certamente gli angeli e i santi l'aiutavano; perciò le avevano dato l'opportunità. Ella fece in modo di sembrare molto stupita e imbarazzata e aperse la bocca come per parlare in fretta, ma la richiuse subito. - Non ditemi che non sapete che questa primavera diventerò vostro cognato - riprese Franco con gaiezza nervosa. Quindi, vedendo i suoi occhi pieni di lagrime, chiese spaventato: - Ma che c'è? Forse miss Súsele è ammalata? - Oh, no! No! - Ma c'è qualcosa che non va... parlate. - No, non posso! Non sapevo! Credevo che vi avesse scritto... Ma che infamia!... - Scritto che cosa? - tremava. - Fare questo a un brav'uomo come voi! - Ma che ha fatto? - Non ve lo ha scritto? Ah, certo si vergognava troppo! Ed è naturale che si vergognasse! Oh, avere una sorella cosí infame! Franco non riusciva neanche piú a parlare. Col viso color di cenere e le redini allentate fra le mani, la fissava. - Sposa Toni Fontaine il mese prossimo. Oh, come mi dispiace, Franco! Mi dispiace di essere proprio io a dirvelo! Ma era stanca di aspettare e aveva paura di rimanere zitella.

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Ha l'aria cosí abbandonata! Fu un nuovo clamore di voci eccitate; questa volta le due organizzazioni si trovarono d'accordo. - Sulla tomba di uno yankee! - Piuttosto dissotterrarlo e gettare al vento i suoi resti! - Oh, Melly, come hai potuto...! - Hanno ucciso tuo fratello! - C'è mancato poco che non ti ammazzassero! - E il tuo bambino! - Hanno cercato di incendiare Tara! Melania si appoggiò alla spalliera della sedia per sorreggersi dinanzi a quell'ondata di biasimo. - Lasciatemi finire, signore! - gridò supplichevole. - So che non ho il diritto di parlare in questa faccenda perché nessuno dei miei è stato ucciso, eccetto Carlo; e grazie a Dio so dov'è sepolto! Ma vi sono tante fra noi che non sanno dove sono sepolti i loro mariti, figli e fratelli, e... Si sentí soffocare; nella stanza fu un silenzio di tomba. Gli occhi fiammeggianti della signora Meade si incupirono. Ella aveva fatto un viaggio lungo e penoso fino a Gettysburg, dopo la battaglia, per riportare a casa la salma di Darcy; ma nessuno le aveva saputo dire ove fosse stato sepolto. In qualche fossa scavata frettolosamente in terra nemica. E la bocca della signora Allan tremò: suo marito e suo fratello si erano trovati a Ohio durante l'incursione di Morgan e l'ultima cosa che aveva saputo sul loro conto era che erano caduti sulle rive del fiume quando la cavalleria yankee aveva fatto irruzione. Non sapeva dov'erano stati sepolti. Il figlio della signora Allison era morto in un campo di prigionieri nel Nord; e lei, piú povera di tutte, non aveva avuto i mezzi per riportarne la salma a casa. Altre avevano letto sulle liste: «Disperso - probabilmente morto» e non avevano mai piú saputo altro degli uomini che avevano visto partire. La voce di Melania si levò nuovamente nel silenzio. - Le loro tombe sono in qualche luogo, in paese yankee, come le tombe dei loro soldati sono qui... e sarebbe tremendo pensare che qualche donna yankee propone (come ho udito dire da qualcuna) di dissotterrarli per gettare al vento i loro resti... Si udí nella sala un singhiozzo represso. - Ma com'è tranquillizzante il pensare che qualche buona donna yankee... (deve esservene qualcuna, checché si dica!) strappa le erbacce dalle tombe dei nostri caduti e porta loro un fiore! Se Carlo fosse morto nel Nord, sarebbe un conforto per me il pensiero che qualcuno... E non m'importa di quello che voi, signore pensate di me.... - la sua voce si spezzò... - ma darò le dimissioni da tutti e due i Circoli e... estirperò le erbacce da tutte le tombe yankee che troverò e vi pianterò dei fiori... Voglio vedere chi oserà impedirmelo! Con questa sfida finale, Melania scoppiò in lagrime e cercò di avviarsi vacillando verso la porta. Il nonno Merriwether raccontò che dopo questo discorso tutte le signore piangevano abbracciando Melania; la riunione finí con un accordo generale e Melania fu eletta segretaria di tutt'e due le associazioni. - E tutte quante hanno promesso di adoperarsi per le tombe yankee. Il male è che mia nuora voleva che andassi anch'io ad aiutare, visto che non ho nulla da fare. Io ritengo che miss Melly abbia avuto ragione e che le altre avessero torto; ma andare ad estirpare le erbacce alla mia età e con la mia lombaggine! Melania faceva parte del Comitato femminile dell'Orfanotrofio e aiutava a scegliere i libri per l'Associazione Libraria Maschile di recente formazione. Perfino i Tespiani che una volta al mese recitavano una commedia, reclamarono il suo aiuto. Melania era troppo timida per apparire alla ribalta; ma le toccò occuparsi dei costumi, fatti, si capisce, in grandissima economia. Fu lei che diede il voto decisivo nel Circolo di Lettura Shakespeariano perché le opere del poeta fossero alternate con quelle di Dickens e di Bulwer-Lytton piuttosto che coi poemi di Byron com'era stato suggerito da un giovine membro del Circolo che Melania, nel suo intimo, temeva fosse un tipo impertinente e sfacciato. Nelle sere della tarda estate la sua piccola casa debolmente illuminata era sempre piena di ospiti. Non vi erano mai sedie sufficienti e spesso le signore sedevano sui gradini del porticato anteriore, con gli uomini appoggiati alla balaustra o seduti sul prato. A volte Rossella, vedendo gli ospiti che sedevano sull'erba sorseggiando il tè - l'unico rinfresco che i Wilkes potevano permettersi di offrire - si chiedeva come mai Melania potesse esporre la sua povertà cosí, senza vergogna. Ella si guarderebbe bene dal ricevere - specialmente persone di riguardo come quelle che andavano da Melania - finché non potesse arredare nuovamente la casa di zia Pitty com'era prima della guerra e non potesse offrire agli invitati vini scelti e sciroppi, prosciutto e pasticci di cacciagione. Il generale John Gordon, l'eroe della Georgia, si recava spesso in casa Wilkes con la sua famiglia. Padre Ryan, il prete-poeta della Confederazione, non mancava mai di andare a salutare Melania quando si trovava di passaggio per Atlanta e in quelle serate deliziava gli altri invitati recitando loro qualcuno dei suoi poemi. Alew Stephens, l'ex-vice-presidente, era egli pure fra gli assidui; e quando si sapeva della sua presenza preso i Wilkes, la casa si riempiva di gente che rimaneva per ore ed ore sotto l'incanto della voce squillante di quel debole invalido. Di solito vi erano dozzine di bambini col capo ciondoloni per il sonno fra le braccia dei genitori; non vi era famiglia che non desiderasse che i suoi figliuoli potessero piú tardi raccontare di essere stati baciati dall'uomo che aveva tenuto le redini della Grande Causa. E tutti i personaggi eminenti che per una ragione o per l'altra giungevano in città, non mancavano di andare in casa Wilkes dove spesso passavano la notte. In queste occasioni Lydia era costretta a dormire su un materasso nella stanzetta di Beau e Dilcey correva da zia Pitty a farsi prestare le uova per la colazione della mattina seguente; ma Melania intratteneva gli ospiti graziosamente come se fosse stata la dama di un castello. No, Melania non si accorgeva che la gente si riuniva attorno a lei come attorno a una logora e amata bandiera. Quindi fu stupita e imbarazzata una sera quando il dottor Meade, dopo aver passato in casa sua una piacevole serata durante la quale aveva letto il «Macbeth» con delizia dell'uditorio, le aveva baciato la mano dicendole con la stessa voce usata in altri tempi nei discorsi in pro della Causa Gloriosa: - Cara miss Melly, è sempre un privilegio e un piacere venire in casa vostra, perché voi - e le donne come voi - siete il cuore di noi tutti; siete tutto ciò che ci è rimasto. Ci è stato tolto il fiore della nostra gioventú e il riso delle nostre donne. Ci hanno rovinato la salute, hanno distrutto le nostre abitudini, annichilito la nostra prosperità, ci hanno ricacciato indietro di cinquant'anni e hanno collocato un fardello troppo pesante sulle spalle dei nostri ragazzi che dovrebbero andare a scuola e dei nostri vecchi che dovrebbero godere il sole. Ma potremo ricostruire, perché abbiamo dei cuori come il vostro su cui posare le fondamenta. E fintanto che abbiamo questa ricchezza, si prendano pure tutto il resto, gli yankees!

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Caracciolo De' Principi di Fiorino, Enrichetta

222407
Misteri del chiostro napoletano 2 occorrenze
  • 1864
  • G. Barbèra
  • Firenze
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Abbandonata alla più cupa, disperazione non cessò di ripetere le mille volte ch'ella era irreparabilmente dannata. Orride, strane allucinazioni sopravvennero a funestarle gli estremi istanti. Di notte tempo mentre tutte dormivano, tranne due o tre che vegliavano al suo fianco, gridava: "Questo luogo è infestato da' demonii.... eccoli là.... li veggo.... uno per uno! Ohè, perchè tu in codesto angolo fai mille sberleffi? E tu in codest'altro, perchè scuoti le pareti, urtando colle corna la soffitta?" Altre volte diceva: "E voi, anime innocenti, non contaminate d'impurità, fuggite, involatevi presto dal mio contatto! Se ne usciste macchiate, ohimè, non basterebbero tre anni di penitenza a purgarvene!" Le monache perfettamente convinte che la delirante fosse ossessa da spirito maligno, pensarono di farla esorcizzare da un monaco crocifero; nè è a dire l'universale spavento all'idea che il monastero fosse invaso da' demonii. L'esorcismo fu praticato con imponente solennità, ma non ebbe alcun effetto. Le monache tutte affollate nel luogo della cerimonia, e facendosi continuamente segni di croce, si aspettavano a bocca aperta di veder sbucare dal corpo dell'invasata la figura di Satanasso; ma la curiosità loro fu delusa: non era ancor vicino il nono mese. Il sacerdote non potè entrare nella stanza per recitare qualche prece, se non nel solo momento in cui l'infelice esalava lo spirito. Restitui essa l'anima al Creatore intorno al vespro. La beltà che nell'assenza della ragione erasi spenta, riapparve commovente sull'esanime spoglia di quella infelice. Quale serenità rifluì allora sulle sue fattezze, insino a quel punto sconvolte dalla follía, tramutate dall'occulto cordoglio! Era sul tramonto. Un raggio di sole morente, dardeggiato traverso le imposte della finestra, venne per un momento a posarsi sul sembiante della morta, a baciarle tremolando la punta delle ciocche..... Anche quel messaggiero della divina misericordia un momento appresso era scomparso! Ella se n'era ita libera: io rimaneva. Sfogliai un mazzo di purpurei garofani, e ne versai un pugno sul corpo della defunta.

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"Sono stata abbandonata dagli amanti." "E la mamma?" "La mamma s'indispettì nel vedermi serbar la fede al secondo amante." "Ecco, figlia mia," sclamò allora, " ecco la differenza che passa fra lo sposo mondano e lo sposo Celeste! Quelli vi hanno abbandonata, benchè li amaste: questi vi ha seguíta, e fedelmente vi seguita, mentre di lui non vi cale, e tuttavia persistete a respingerlo. I primi hanno amareggiato il calice puro della vostra giovinezza: il secondo vuol colmarvi d'ineffabili e sempiterne voluttà. Egli vi apre la sua casa, v'introduce in questa sua famiglia, vi schiude le braccia con tenerezza, ed ansiosamente vi aspetta, per farvi dimenticare nei sublimi conforti dell'amor suo, i dissapori di che gli uomini vi abbeverarono." Continuò per lunga pezza su questa solfa mediocremente edificante. Alfine, io, presa alla mia volta la parola, "È o non è vero," dissi, "che l'uomo è stato creato per l'umanità? Se, come dite, la famiglia di Cristo, fosse questa ristretta comunità, perchè dunque il figlio di Dio sarebbesi fatto crocifiggere a salvamento dell'intero genere umano? Dice la santa Scrittura che, per compiacersi nella solitudine, fa d'uopo essere o Dio, o bruto: Quis solitudinem delectatur, aut Deus, aut fera est. Ora, reverendo mio, io non sono nè all'altezza della Divinità, nè nella condizione delle belve: amo il mondo, e mi compiaccio nella società dei miei simili. Nè credo, d'altronde, che voi stesso abbiate in orrore l'umano consorzio; poichè, se così fosse, non sareste pur voi monaco confesso almeno, se non anacoreta della Tebaide?" "A questi quesiti," disse il canonico, alzandosi e pigliando il cappello "darò risposta alla prossima nostra conferenza. Mi promettete di ritornare un'altra volta da me?" Dovetti acconsentire. Era d'altronde vaga di sperimentare la famigerata persuasiva di quell'alto ingegno. Di lì a due giorni mi richiamò a sè per annunziarmi avergli il Crocifisso ispirato nelle sue preci, ch'egli stesso, e non altri, dovea confessarmi. M'intimava pertanto d'indirizzare al mio vecchio confessore una lettera nelle quale, ringraziandolo della carità (nel glossario monastico far la carità significa confessare), gli avessi dichiarato di essermene provveduta d'un altro confessore. Mostrai qualche renitenza a tale intimazione; ma il canonico, dicendo la virtù più cara a Dio essere l'ubbidienza al Crocifisso, mi vietò l'uscita, prima d'avergli promesso l'invio della lettera propostami, non sì tosto salita sulla mia stanza. - La lettera fu scritta, benchè con mio dolore. Ora, se il cambiamento di confessore spiacque a me, cagione di non minor dispetto fu a suor Maddalena, la quale, se bramava di far spiccare la facondia portentosa del suo confessore, era peraltro ben lungi dall'immaginare che l'atto della mia conversione avrebbe richiesto più d'una conferenza. La incontrai, e nel guardarmi divenne livida in volto, inurbanamente mi voltò le spalle, e, borbottando non so che, andossene via. "È curiosa davvero Maddalena!" venne a dirmi un'altra monaca, che pur dicevasi amica di costei. "Non è essa stessa che ti ha condotta forzatamente dal suo confessore? Eppure adesso piange e si dispera per gelosia." "Gelosia!" esclamai io, sbruffando dalle risa.... "gelosia, di che?" "Il canonico dal canto suo mostra meno affetto per lei che per te, e tu del resto, congedato il primo confessore, divieni la penitente del canonico." Ne rimasi stupefatta. Non potendo più richiamare il vecchio prete, dopo la lettera speditagli, ne scrissi un'altra al canonico, ove gli diceva che, non avendo intenzione di procurarmi nemiche nel chiostro, avrei cercato d'un altro confessore. Un'ora dopo io udiva, sei tócchi alla campana della porteria: era la mia chiamata. - Trovai il canonico nel parlatorio. "Mi avete mandato una lettera di licenziamento?" Disse ridendo nel vedermi. "Sì," risposi; "non sarò per certo motivo di discordia nel chiostro durante il breve tempo che vi soggiornerò; e come non sono scortese con nessuno, così, non darò ad altri il diritto di usarmi degli sgarbi." "Per me, tanto," soggiunse egli, sempre ridendo, "non farò conto alcuno della vostra lettera, anzi per affrancarvi da ogni soggetto di molestía, annunzierò oggi stesso a Maddalena che non la voglio confessar più; per tal modo essa non avrà più motivo di esplorare se sento o non sento affetto per voi. Ho il cómpito sacrosanto di condurre all'ovile la pecorella smarrita da Dio consegnatami, e non mi è lecito abbandonarvi." "Non so," risposi con sostenutezza, "come la gelosia possa insinuarsi nel sacramento della confessione, nè a me tocca di esaminare la causa di sì inqualificabile associamento. Devo però dirvi, che se lascerete Maddalena, mi susciterete una persecuzione più forte. Fatemi questo favore: tenete lei, e lasciate me! Da questo punto vi dichiaro che al confessionale non mi ritroverete più." "Allora," disse, deponendo l'ilarità, ed assumendo un tuono contenuto, "allora impiegherò un altro spediente." Ciò detto, se ne partì, lasciandomi nel dubbio di quello che proponevasi di fare. Avendo frattanto deliberate di non cedere sopra questo argomento, pregai mia zia la badessa di trovarmi un altro confessore badando ch'egli fosse un vecchio, e che non avesse altra penitente nel monastero. Ella ne prese l'incarico, tanto più ch'era pur essa lei dispiacente di vedermi involontariamente caduta in quell'impiccio. Verso le tre intesi nel corridoio un gran fracasso. Mi affacciai dalla loggia, e vidi Maddalena nel mezzo d'un crocchio di monache e di converse, nell'atto di giungere e presentare alle sue compagne un foglio piegato in forma di lettera. Parlavano, o per meglio dire strillavano tutte insieme, con gesticolazioni esagerate, che ricordavano la scena delle streghe di Macbeth. Un affare di confessore per le monache è affar di Stato, è un casus belli. Compresi non poter esser altro che una lettera del canonico, e dal fondo del cuore maledissi il momento che m'avevano portata in quel santo pandemonio. Il fracasso andava crescendo; era in piedi tutta quanta la comunità: dalle confuse strida della rivolta non distinguevasi che una sola parola, mille volte ripetuta, la parola canonico. Intanto la vecchia badessa appoggiata ad un'educanda accorreva al tafferuglio, e cercava di calmar Maddalena, promettendo che sua nipote non si sarebbe più confessata dal canonico, e ch'essa stessa m'avrebbe trovato un altro confessore. "Me ne date la vostra parola?" gridò Maddalena da spiritata, mentre settanta bocche le stavano chiuse d'intorno in atto di silenziosa aspettativa. "Tenetemi per impegnata," soggiunse la badessa. "Brava! brava!" esclamarono in coro le monache. "Era insopportabile, era troppo doloroso vederlo chiuso nel confessionale con un'altra." E congratulandosi con Maddalena della rivendicata proprietà, le andavano dicendo: "Giustizia è fatta! stattene omai tranquilla!" Da quella scene singolare, che non sarà mai cancellata dalla mia memoria, incominciai a convincermi che la premura delle penitenti pei confessori e quella dei confessori per le penitenti aveva la sua ragione d'essere in un certo tale sentimento, non troppo conforme al precetto evangelico, ama il tuo prossimo come te stesso. Ma non doveva la scena terminate lì. Stava scritto che l'argomento della mia confessione trovasse la soluzione presso eminenti autorità della Chiesa apostolica romana. Il mattino seguente fui chiamata al parlatorio: indovinate chi cercava di me! Monsignor vicario; - che voleva da me? Voleva dirmi che il canonico era stato da lui: avevagli raccontato il fatto successo fra Maddalena e me; ed egli, nella sua qualità di capo della Chiesa napoletana, aveva deliberato dovere rimanere a me, e non a Maddalena, la contesa confessione. A completare la commedia, non ci mancava che l'autorità del papa. Non valsero nè le mie proteste nè il mio pianto. La zia mi sgridò, affermando, che al vicario bisognava ubbidire senza replica. Salii piangendo nella mia stanza, ove scrissi una lunga lettera a mia madre, raccontandole tutto, e rammentandole, che, prossimo essendo a spirare il secondo mese, io desiderava di lasciare il convento al più presto possibile. Troppo lungo sarebbe il racconto delle mie sofferenze, per causa di questa ridicola gelosia. Ebbe termine soltanto le persecuzione, allorchè Maddalena trovò un altro confessore, e dimenticò il primo. Avendo intitolato questo capitolo Scene e Costumi, riunirò in esso tutto ciò che relativamente alle monache ed ai preti ho io stessa veduto nei quattro monasteri da me abitati, o che mi giunse all'orecchio di altri chiostri napoletani; come pur farò laddove discorrerò de' tre voti d'umiltà, di castità e di povertà delle monache. Seguirò questo metodo d'esposizione, per non aver a ritornare più volte sullo stesso argomento, troncando il racconto. La frenetica passione delle monache pei preti e pei monaci supera ogni credere. Ciò che specialmente le rende affezionate al loro carcere si è l'illimitata libertà che godono di vedere e di scrivere alle persone amate. Questa libertà le localizza, le incorpora, le identifica al chiostro sì fortemente, che sono infelici allorchè per causa di grave malattia, o prima di prendere il velo, debbono passare qualche mese in seno alla loro famiglia, accanto del padre, della madre, dei fratelli, non essendo presumibile che questi parenti permettano ad una giovinetta di passare più ore al giorno in misteriosi colloqui con un prete od un monaco, e di mantenere seco lui continua corrispondenza. Havvi delle Eloise che più ore spendono nel confessionale in soave trattenimento col loro Abelardo in sottana. - Peccato che non capiscano un iota di latino! Altre, avendolo vecchio, hanno di soprassello un direttore spirituale con cui si trattengono lungo tempo da solo a sola nel parlatorio. Quando questo non basta, trovano il mezzo d'una malattia simulata, per averselo più ore da solo nella propria stanza. V'ha delle monache che, senza l'intervento del confessore, non ardiscono fare neppure la lista del bucato. Una di queste penitenti vedeva il suo tre volte al giorno; la mattina le portava le pietanze pel pranzo, più tardi, venendo egli a dir messa in chiesa, la penitente lo serviva di biscottini e di caffè, e il dopo pranzo poi ritrattenevasi con lui fino ad ora tarda, per fare (diceva essa) il conto di quanto aveva speso la mattina. Non contenti, del resto, di tante conferenze, si scriveano due volte negl'intervalli delle visite. Un'altra monaca aveva amato un prete fin dal tempo che questi serviva in chiesa da chierico. Pervenuto al sacerdozio, fu fatto sacrestano; ma da' suoi compagni denunziata la tresca che da diversi anni manteneva colla monaca, gli fu dai superiori proibito finanche di passare per la via dove il monastero era posto. La monaca ebbe la romanzesca virtù di restargli fedele per sedici anni, nel corso dei quali si scrissero ogni giorno, si scambiarono regali, e di tratto in tratto si videro di soppiatto al parlatorio. Cambiato finalmente il personale dei superiori, ottenne la monaca, benchè ormai giunta all'età matura, di averselo per confessore. Allora, riconoscente alla Santa sua protettrice della grazia ricevuta, le fece dono di numerose candele e di fiori, dispensò confetti a tutta la comunità, siccome in occasione di sposalizio, gradì le felicitazioni delle compagne, non ricusando anche qualche madrigaletto congratulatorio, e finalmente costruì a proprie spese un confessionale distinto, onde aversi le pratiche spirituali libere a tutte le ore della giornata. Un personaggio, altamente collocato, fece un mattino chiamare la badessa del monastero, e consegnolle una lettera, da lui stesso trovata per la via. Quel foglio, mandato da una delle spose di Cristo al suo prete, era stato smarrito dalla domestica. Le espressioni materiali che in esso leggevansi avevano scandalizzata la coscienza del gentiluomo. Una cortigiana avrebbe fatto uso di più modeste frasi. Un giovedì santo, a notte avanzata, trovandomi nel coro, vidi svolazzare, girando per aria, un foglio, che andò a cadere ai piedi del santo sepolcro: era il viglietto che un’educanda del luogo indirizzava al chierico. Una giovine novizia, non avendo di che fare le spese della professione, pensò di ricorrere alla carità d'un confessore vecchio, ma ricchissimo, coll'intenzione di fargli delle moine, sino a che le avesse fornito il denaro occorrente, ma colla riserva però di surrogargliene poscia un giovine, con cui già trovavasi in recondita intrinsechezza. Il vecchio era di cuor tenero, ma circospetto per propria esperienza; le presentò molti regaletti, ma fu restío a somministrarle il denaro richiesto, essendosi avveduto ch'essa confabulava nel parlatorio con un rivale più giovine di lui. La novizia, indispettita, congedò allora lo spilorcio vecchio, e si prese per confessore il prediletto; perlochè, montato in furia e consumato da gelosia il ripudiato, appostossi presso la porta della chiesa il primo giorno che andò il rivale a confessare la sua penitente: "Prosit," vedendolo, gli disse col fiele in bocca. "Vobis," rispose l'altro sogghignando. Di là a poco il vecchio morì di crepacuore, ed il giovine, perchè povero, fu supplantato da un altro confessore, di meno fresca età, ma fratello d'un ricco funzionario. Essendo inferma una monaca, il prete la confessò nella cella. Indi a non molto l'ammalata si trovò in uno stato interessante, ragion per cui il medico, dichiaratala idropica, la fece uscire del monastero. Una giovanetta educanda scendeva tutte le notti al luogo delle sepolture, ove da un finestrino, che comunicava colla sagrestia, entrava in colloquio con un pretino della chiesa. Consumata dall'amorosa impazienza, non era in quelle escursioni impedita nè dal cattivo tempo nè dal timore d'essere scoperta. Udì una volta un forte strepito vicino a sè: nel fitto buio che la circondava credette scorgere un vampiro nell'atto di aggraticciarsi ai suoi piedi. Erano i topi. Ne fu talmente percossa di spavento, che di là a pochi mesi morì di consunzione. I confessori di comunità sono scelti dai superiori per un triennio, ad uso di quelle monache e di quelle converse che non ne hanno uno particolare, per essere pervenute ad un'età disadatta agli intrighi amorosi. Ora, un confessore di comunità aveva prima della sua nomina una penitente giovane. Ogni volta che veniva per assistere una moribonda, e quindi pernottava nel monastero, la giovane monaca, scavalcando le logge che separavano la sua dalla stanza del prete, si recava presso il maestro e direttore dell'anima sua. Un'altra fu assalita dal tifo; durante il delirio, altro non fece che inviar baci al confessore, assiso accanto al letto. Egli, coperto di rossore, per la presenza di persone estranee, portava innanzi agli occhi della sua inferma un Crocifisso, lamentevolmente esclamando: "Poveretta, bacia il suo sposo!" Sotto vincolo di segretezza mi confidò un'educanda tanto bella di forme e candida di costumi, quanto nobilissima di prosapia, d'aver avuto nel confessionale, e per mano del suo confessore, una lettura (come diceva) interessantissima, perchè relativa allo stato monastico. Spiegai il desiderio di saperne il titolo, ed ella, per farmi vedere lo stesso libro, anticipò la precauzione di mettere all'uscio il chiavistello. Era la Monaca di Didérot, libro, come tutti sanno, pieno di disgustose laidezze, e però nelle mani di un'innocente giovinetta più che libro al mondo perniciosissimo. Dalla conversazione dell'educanda avendo raccapezzato di che in quello scritto trattavasi, le suggerii d'interromperne la lettura, e restituire immantinente lo sconcio prestito. Ma qual fu la mia sorpresa nell'udire dalla tenera zittella non esser essa nuova in letture di simile natura! Per favore del confessore medesimo aveva anteriormente divorato, e per ben quattro volte, un altro libro scandaloso, la Cronaca del monastero di Sant’Arcangelo a Bajano: libro allora proibito dalla polizia borbonica. Io stessa ricevetti da un monaco impertinente, lettera in cui mi significava, che non appena mi aveva, veduta, concepita aveva la dolcissima speranza di divenir mio confessore. Un attillato vagheggino, un muschiato bellimbusto non avrebbe impiegato frasi più melodrammatiche, per domandare se nutrire o soffocar doveva la detta speranza. Un prete (che del resto godeva presso tutti una riputazione d'integerrimo sacerdote), ogniqual volta mi vedeva passare dal parlatorio, soleva farmi: "Ps, cara, vien qua...! Ps, ps, vien qua!" La parola cara in bocca di un prete mi moveva non meno nausea, che raccapriccio. Un prete infine, il più fastidioso di tutti per l'ostinatissima sua assiduità, voleva esser amato da me ad ogni costo. Non ha immagini la poesia profana, non sofismi la rettorica, non scaltre interpretazioni la parola di Dio, ch'egli non abbia adoperate per convertirmi alle sue voglie. Dare un saggio succinto della sua dialettica: "Bella figliuola," mi disse un dì, "sai tu quello che veramente sia Iddio?" "È il Creatore dell’universo," risposi io seccamente. "No, no, no, no! non basta questo," riprese egli, ridendosi della mia ignoranza. "Dio è amore, ma amore astratto, che riceve la sua incarnazione nel mutuo affetto di due cuori che s'idolatrano. Tu, adunque, non puoi nè devi amare Iddio nell'esistenza astratta: devi altresì amarlo nella sua incarnazione, ossia nell'esclusivo amore di un uomo che ti adori, quod Deus est amor.... nec colitur, nisi amanda." "Dunque, nell'atto di adorare il proprio amante, la donna nubile adorerebbe la stessa Divinità!" diss'io. "Sicuramente!" ripetè dieci volte il prete, ripigliando coraggio della mia conclusione, e lieto pel felice effetto del suo catechismo. "In tal caso," ripresi io prestamente, "mi sceglierei per amante un uomo del mondo, piuttosto che un prete...." "Dio ti liberi! figlia mia: Dio ti liberi da quella peste!" soggiunse inorridito il mio interlocutore...... "Amare un uomo del mondo, un profano, un empio, un miscredente, un infedele! Ma, tu andresti inevitabilmente all'inferno! L'amore del sacerdote è amore sacro; quello del profano è vituperio; la fede del prete emana dalla stessa fede prestata alla santa Chiesa: quella, del profano è menzognera, quanto è falsa la vanità del secolo; il prete purifica giornalmente l'affetto suo nella comunione della santissima sostanza: l'uomo del mondo (seppur sente amore) spazza dì e notte coll'amor suo tutti i fangosi ruscelli del trivio." "Ma tanto il cuore, che la coscienza mia rifuggono dal prete," rispos'io. "Ebbene, se non volete amarmi, perchè sono vostro confessore, avrò il mezzo di togliervene gli scrupoli. Alle nostre amorose espansioni premetteremo sempre il nome di Gesù Cristo; così l'amore nostro sarà un'offerta gratissima al Signore, e monterà pregno di profumi al Cielo, siccome fumo d'incenso nel santuario. Ditemi, per esempio: - Vi amo in Gesù Cristo; - questa notte ho sognato di voi, in Gesù Cristo: avrete la coscienza tranquillissima, poichè, così facendo, santificherete qualunque trasporto." Talune circostanze, non indicate qui che alla sfuggita, m'obbligavano a ritrovarmi in frequente contatto con questo prete, di cui taccio il nome. Se non che, ad un monaco, rispettabile per l'età e per la morale, avendo io domandato che mai significasse quel premettere il nome di Gesiù Cristo alle amorose apostrofi, "È," mi disse, "una setta orrenda, e sfortunatamente troppo estesa, la quale, abusando del nome di Cristo, si fa lecite le maggiori nefandità."

Pagina 77

Il marito dell'amica

245084
Neera 1 occorrenze
  • 1885
  • Giuseppe Galli, Libraio-Editore
  • Milano
  • Verismo
  • UNICT
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A questo disgusto si univa una amarezza profonda pensando che Emanuele l'aveva abbandonata per una simile donna; e all'amarezza una compassione intensa e - forse - nelle intime latebre del cuore, l'inconscio tripudio dell'orgoglio vendicato. Ma ad ogni modo. Maria non volle ascoltare che il primo sentimento. La sua amica era in pericolo, la sua amica aveva bisogno di lei. Abbracciò risolutamente questa idea e vi si dedicò con ardore, felice, oltre a tutto di poter giovare ad Emanuele senza che egli lo sapesse. Ora vedeva uno scopo, una via tracciata. Scosse gli ultimi avanzi delle sue memorie, diede gli ultimi sospiri al suo amore perduto e concentrò tutti i suoi pensieri sull'amica. Forte di questa missione le parve anche di poter affrontare con maggior sicurezza lo sguardo di Emanuele. Decisamente tutto era finito tra loro due. Non retrocesse e non tremò, quando mezz'ora dopo, sollevando la portiera del salotto, udì la voce calma del professore che diceva: - Mia moglie è arrivata or ora dall'aver visitato il bambino. L'interlocutrice di Emanuele era la signora Bonamore. Fatta la presentazione, Maria sedette accanto alla signora, ed il padrone di casa terminò la frase scusando Sofia che si faceva aspettare. Egli aveva dei modi gentili, di una freddezza dolce che era eguale per tutti, una fisionomia poco mobile, che tradiva difficilmente le sensazioni. - È guarito questo caro fanciullino ? - domandò la signora Bonamore, esaminando Maria di sottecchi. - Perfettamente. - Allora avremo la festa? - Quale festa? - Sofia ci ha promesso quattro salti.... ed ora che è guarito il bambino.... - Giustissimo, le signore balleranno. Un sorriso sarcastico piegò le labbra di Emanuele. - Lei non sa... - la signora Bonamore abbassò gli occhi con imbarazzo, accarezzando il velluto del suo manicotto - se Sofia ha intenzione di invitare... la Guidobelli? - No, davvero, non lo so. - Se osassi... vorrei consigliare Sofia... Lei, professore, che opinione ha della Guidobelli? - Ho l'opinione che è una bella donna, molto elegante e che sta benissimo vestita di nero. - Non scherzi! - un po' impazientita, la Bonamore accarezzava il velluto a contropelo - Io dico rapporto al carattere... alla condotta... - Il carattere delle signore, in virtù di una legge salica in senso inverso, ha da secoli il diritto di essere sempre un carattere adorabile. - Insomma - la Bonamore rivolse direttamente la parola a Maria - parlerò a lei, poiché il professore non è affatto serio quest'oggi. Che le pare, cara signora, di una donna che cambia amanti tutti i mesi? Io non sono puritana... oh! comprendo gli abissi dell'amore... ma le convenienze, il mondo, una certa dignità... Che ne dice? - Sono straniera alla questione - rispose Maria - non conosco la signora Guidobelli, e, in tesi generale non saprei dire fino a quel punto una donna può conservarsi onesta agli occhi del mondo. L'onestà, mi pare, dovrebbe essere assoluta. Sofia entrava in quel punto; in buonissimo punto per rompere il ghiaccio che minacciava di isolare i tre personaggi. Emanuele prese subito commiato, salutando le signore con un gesto largo, e passando davanti a Maria che si trovava prossima all'uscio la risalutò, fermandosi un momento, quasi aspettasse da lei una parola. Maria abbassò il capo, freddamente, ed Emanuele uscì, lasciandola sotto l'impressione di una tranquillità forzata, come uno che abbia preso l'etere. Sofia e la Bonamore si ingolfarono subito in un cicaleccio leggiero e saltellante, sul quale venivano a galla alternativamente le loro amiche, i loro abiti e i loro cicisbei, mischiati allo scandalo del giorno e ad una puntina impercettibile di maldicenza. Venne di lì a poco la signora Guidobelli, così elegante nel suo abito di velluto nero a ricami di blonda applicata, che la Bonamore le fece, quasi senza accorgesene, una riverenza e un complimento. Poi capitò la contessa Barattani divota e caritatevole, vedova di due mariti, in procinto di prendere il terzo, e dominata dall'idea fissa di fondare un ospizio, a ottant'anni, in espiazione de' suoi peccati. Poi la graziosa Nina Menni, che era stata tanto infelice nel suo primo amore da farsi perdonare tutte le consolazioni prese dopo. Il salotto di Sofia si riempiva a poco a poco di fruscii di gonne frastagliate, di ondeggiamenti di trine, di guizzi serpentini, di carni profumate e di chiome dipinte. Era press'a poco la stessa società del concerto; con una musica di paroline melate che tenevano le veci dei notturni di Chopin; colle stesse occhiatine sapienti, coi sorrisi frenati nella cerchia lucente del cinabro. Si parlò della festa, Sofia volle schermirsi; disse che non era una festa, ma una semplice, semplicissima riunione di famiglia. - Quelle appunto che mi piacciono, - rispose la Bonamore. - Senza lusso - aggiunse la contessa. - Quell'odioso lusso - osservò la Guidobelli - ch'io non posso soffrire. Fa tanto piacere l'uscir di casa come ci si trova, alla buona... Tutte le signore approvarono, mulinando subito che toeletta avrebbero potuto sfoggiare alla festa di Sofia. Entrò Alfredo Bandini. Maria ebbe nel cuore un movimento di rivolta contro tanta impudenza, ma non diede a dividere nulla. Sofia le volse una occhiata inquieta: - Mi perdoni signora, se vengo a sorprenderla nel sacra sacrorum delle sue visite intime.... Sono impaziente di avere notizie del bambino. - Mio figlio sta benissimo, grazie. Nel rispondere così, la voce di Sofia era alquanto alterata; sembrava anche a lei che Bandini spingesse oltre il suo zelo. Si trovava presa in una rete le cui maglie si stringevano d'ora in ora. - Molto più - continuò Bandini - che un telegramma ricevuto in questo momento mi obbliga a partire stassera per Firenze. Ognuna di queste parole era sottolineata. Sofia comprese la necessità di nascondersi agli occhi del terribile areopago che le stava d'intorno ed esclamò con simulata indifferenza: - Ah sì? - poi volta a Nina Menni - Che bel cappellino! È ancora la Chaillon che ti serve? La Bonamore si alzò per uscire; la Guidobelli anche. Sofia le accompagnò fino all'uscio, e nel tornare al suo posto trovò Bandini insediato in una seggioletta bassa dietro la sua poltrona. - Come, lei sta lì?... - Se mi permette - rispose egli col sua brutto sorriso da satiro. Sofia si gettò nella poltrona con un abbandono di donna vinta; la poltrona cigolò, prima che il sorriso di Bandini fosse finito. La contessa e Nina Menni avevano impegnata una discussione sopra Sarah Bernarhdt, Nina assicurava che la Bernarhdt piace molto agli uomini; la contessa negava, in base alla propria esperienza, sostenendo che gli uomini amano le donne grasse. Intanto Bandini, audacemente, mormorava qualche parola nell'orecchio a Sofia. Maria fingendo di accomodare i fiori nelle giardiniere, non li perdeva di vista, finchè Bandini con una sveltezza di prestigiatore fece scivolare il suo piccolo portafogli dietro il guanciale sul quale Sofia appoggiava le spalle. - Le donne magre - strillò Nina Menni - hanno sempre fatto impazzire gli uomini. Che ne pensa il signor Bandini? - Noi uomini - disse Bandini , accompagnando la frase con una profonda occhiata da sfinge - amiamo la donna che ci ama. Un fremito sottile agitò le spalle di Sofia. - Ve ne andate di già? - chiese, vedendo le signore in piedi. Poco dopo uscì anche Bandini, trionfante, riempiendo il vano della porta colla sua aitante persona, dopo avere stretta la mano a Sofia in un modo speciale. Le due amiche si trovarono di fronte, sole. A Maria pesava assai il secreto che aveva scoperto e se non fosse stato il dubbio di peggiorare le cose con una risoluzione precipitata, avrebbe voluto prendere Sofia nelle braccia e scongiurarla di troncare ogni relazione con quel bellimbusto vanesio e insolente. - Hai veduto le mie amiche? - disse Sofia - amiche per modo di dire, perché non ve n'è una sola che io ami come amo te. - Lo spero bene. - Quelle signore non ti sono piaciute? - Sarò schietta. No. - E a me neppure. - Oh scusa... allora perchè le ricevi? - Mio Dio come si fa? Bisogna pur conoscere qualcuno. - Scegli meglio. - Scegliere! E chi scegliere? Dove? Se tutta la società è uguale! Si alzò e fece qualche passo, stringendo la mano, pendente lungo le pieghe della gonna. Maria sospettò che nascondesse così il portafogli di Bandini. Era agitata, nervosa; andò un momento nella sua camera e poi riapparve, sempre colla mano stretta fra le pieghe dell'abito; si avvicinò al tavolino, allo stipo, alla caminiera, toccando i vasi, i libri, con un fare che voleva parere svogliato e che tradiva invece una forte preoccupazione. Alla fine tornò a sedere, rassegnata. Il portafogli non era piú nella sua mano. - La signora Bonamore - riprese Maria, seguendo con una calma apparente il filo del discorso - non deve vedere di buon occhio la signora Guidobelli... - Lo credo. È la sua rivale. - Prima che tu venissi, ne parlava come di una relazione poco onorevole... - Già, perchè le ha rubato l'amante. - L'amante? - Sì, quello che aveva prima del cugino, che le è antipatico e le serve solamente negli interregni, come facente funzione. - Tutto ciò è molto brutto. - Ma! Sofia si strinse nelle spalle; prese, dal tavolino accanto una sigaretta, l'accese e incominciò a fumarla lentamente, cogli occhi distratti, rivolti al soffitto. - Infine tu sei amica della signora Guidobelli? - Come la sono di tutte, e di nessuna... - E la inviterai alla festa insieme alla signora Bonamore? - Perchè no? Sono donnine simpatiche, eleganti; dove vanno loro si traggono sempre dietro un codazzo di uomini. - Ma intimamente, tu le stimi? - Che domanda curiosa! Sei sempre la stessa. Come si fa a conoscere così bene le persone da sapere se si debbano stimare o no? - Ammesso che non è facile, vi sono tuttavia dei segni esterni che possono servire di guida; e poichè tu stessa narri le avventure galanti di queste signore... - Ma sono cose che si vedono tutti i giorni, che non hanno nessuna importanza. Si capisce proprio che hai vissuto in un deserto. Sofia diventava sempre più nervosa, acre; la voce le usciva dalla gola, con un sibilo acuto. Si seccava immensamente. Maria non si sgomentò; vedeva la crisi vicina e le moveva incontro coraggiosamente. Oramai si comprendevano. In quella battaglia coperta giuocavano la loro amicizia; o ne uscivano insieme abbracciate o diventavano nemiche per sempre. - Mia cara Sofia, quando una donna che ha un marito buono, onesto, leale, si lascia trascinare da frivole apparenze di passioni... - La signora Bonamore è vedova - interruppe Sofia seccamente. - Ed anchè la signora Guidobelli?... E Nina Menni ?... - Sì, sì, anche quelle, è vero. - Sofia era al massimo grado dell'eccitazione nervosa. - Ebbene, sono tutte così, che farci? È una marea che sale, sale sempre, ci avvolge, ci stringe, ci soffoca. Essa parte dai luoghi più turpi, attraversa la società equivoca, serpeggia nel mondo elegante, arriva fino alle donne oneste... ne siamo innondate addirittura. Difendersi è inutile. È come quando si cammina in mezzo al fango. Sulle prime si evita di fare la più piccola macchia, poi ci si adatta ad averne qualcuna, ma solamente sul tacco degli stivaletti; il fango cresce e ne abbiamo fino alla caviglia; un bel momento ci accorgiamo che esso è spruzzato anche sull'abito.... Ah! in fede mia, ciò stanca; e allora... Gettò la sigaretta, e si rovesciò sulla poltrona, accesa in volto, con le tempie che le battevano forte. Maria, tranquilla, ripetè: - Allor ? - Scusa sai? - si rizzò sulla vita, un po' dura - mi fai dei discorsi così strani... Se non ti dispiace parliamo d'altro. - Come vuoi. La calma severa di Maria suscitò nell'altra una specie di rimorso e di vergogna, per cui soggiunse con accento più dolce. - Della festa che darò e che mi preoccupa molto, del mio bambino, di... - Sì - interruppe Maria, afferrando questo soccorso inaspettato - parlami di tuo figlio. Non me lo hai ancora descritto. È biondo? nero? - Biondo, cogli occhi neri. I capelli di suo padre, gli occhi miei. La bocca non c'è che dire, anche quella è tutta di Emanuele. Hai osservato la bocca di mio marito? A questa improvvisa domanda il volto di Maria si contrasse dolorosamente; ma Sofia non ne fece caso, gettandosi a capo fitto nel nuovo argomento, felice di essere sfuggita all'argomento di prima. Continuò: - Ciò che mi incanta è la sua intelligenza. A undici mesi, figurati, balbettava mamma; e mi conosceva, e mi tendeva le sue manine, così... Uno dei passati giorni, quando stava molto male, vegliai molte ore alla sua culla. La nutrice, intanto, dormiva. Io sola lo avevo in custodia e guardando quel visino fatto pallido dalla febbre, quel corpicciuolo dimagrato, un pensiero atroce mi attraversò la mente. Mi figurai che fosse morto. Morto, mio Dio!... Sofia, volubile, si abbandonava adesso colle sue smanie solite ai trasporti dell'amor materno; e, sincera sempre, null'altro sentiva in quel momento che una ineffabile tenerezza. - Oh! se morisse davvero... Io non sono molto pia, no, credo poco... Non so precisamente quello che credo: ma allora mi rivolsi al Dio delle madri. Egli deve esistere, e gli chiesi a qualunque costo la vita del mio bambino. Piangeva. - Egli te l'ha concessa - disse Maria. - Sì. - E - le prese la mano con dolcezza somma, guardandola negli occhi, - non ti chiese a sua volta il patto? - No davvero - mormorò Sofia, sorridendo attraverso le lacrime. - Eppure, nell'istante che fra te e Dio si dibatteva la vita di tuo figlio, dimmi, non saresti stata disposta a concedere qualunque cosa? - Oh! senza dubbio. - Tu dunque sentivi che questa creaturina appena nata esercitava su di te un potere che supera tutti gli altri? Presso quella culla hai dimenticata la società, il mondo... se quella marea montante, se quel fango di cui parlavi poco fa, fosse salito a macchiare la coltre del tuo bambino, a coprirlo, a soffocarlo non ti saresti slanciata in suo aiuto? - Maria!... - Non avresti voluto, per lui, essere pura d'ogni colpa, monda perfin d'ogni sospetto? Erano, entrambe, immensamente commosse. Maria col volto presso il volto dell'amica, mormorava accentuando appena: - Non avresti voluto annientare ogni pensiero che non fosse nobile e santo? Distruggere qualunque traccia di debolezza? Fuggire le tentazioni, che ti rapiscono a lui?... Si guardavano negli occhi, dritto, fino in fondo, come due pantere in lotta. Sofia sentiva la propria debolezza e cedeva, vinta, spossata dalle emozioni. In quel mentre entrò la cameriera: - Il signor Bandini manda a prendere il portafogli che ha dimenticato qui. Sofia, senza muoversi, tese la mano; prese il portafogli, lo aperse e stracciò il primo foglietto - non abbastanza rapidamente che Maria non potesse leggervi un sì, scritto a grossi caratteri tremanti, con matita rossa; poi lo rese. Appena la cameriera fu uscita, le due amiche caddero nelle braccia l'una dell'altra; Sofia in preda a una convulsione di nervi, singhiozzando sulla spalla di Maria.

Pagina 89

In Toscana e in Sicilia

245754
Giselda Fojanesi Rapisardi 1 occorrenze
  • 1914
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
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Ma all'atto pratico, dinanzi a quell'esserino bello, roseo, incosciente, non aveva saputo resistere e i suoi principî rivoluzionarî erano sfumati col sentimento di tenerezza indicibile provato per la soave ed umile fanciulla che si era abbandonata a lui, inconsapevolmente forse, ma sempre generosamente, che aveva poi tanto sofferto senza un lamento, senza un rimprovero; e dinanzi a quella piccina, sangue del sangue loro, vita della loro vita. Il pensiero di sposare la giovane contadina gli era venuto subito dopo la nascita della figlioletta, ma non aveva voluto pigliare una risoluzione tanta grave, senza ben ponderarla, senza esser sicuro del fatto suo, per non fare tre disgraziati. Si era perciò allontanato dal villaggio in cui era andato per certi studî, e dove era poi rimasto per più di un anno, non volendo lasciare la Maria in quello stato.... Era tornato in città, aveva ripresa la sua vita consueta, aveva riveduto gli amici, parlato con alcuni dei più serî del caso suo, e aveva chiesto loro consiglio. Tutti lo avevano distolto dallo sposare una donna di così umile condizione dicendogli che aveva degli scrupoli esagerati, una sentimentalità morbosa, cercando di persuaderlo che sarebbero stati infelici tutti e due.... Egli aveva tentennato, era stato ancora irresoluto, in lotta con la sua coscenza, ma una mattina, erano ormai passati sei mesi dal suo ritorno in città e non aveva mai avute notizie in quel tempo della Maria e della bimba, si levò sicuro di sé: aveva vinto una difficile battaglia, la sua anima si volgeva lentamente verso nuovi ideali, e le sorrideva un altro avvenire; si propose quindi di compire il dover suo, di sposare la ragazza e di legittimare la piccina. E mentre si avvicinava all'amena borgata toscana, posta sur una collinetta, rannicchiato nella vecchia carrozza che da tanti anni faceva il servizio postale, trascinata da un ronzino che sembrava il cavallo dell'Apocalisse, egli affrettava, ormai lieto della presa risoluzione, il momento di riabbracciare quei due esseri dai quali non si sarebbe mai più separato, che avrebbero formata la sua nuova famiglia, e ai quali voleva dedicarsi tutto... Immaginava la gioia della sua Maria all'annunzio del loro prossimo matrimonio!... Quante lagrime di consolazione non avrebbe versate!... Povera creatura, aveva sofferto tanto per lui... Aveva sopportato con rassegnazione veramente angelica, le impertinenze, le ingiurie dei fratelli e del padre, quando s'erano accorti del suo stato, mentre prima avevano chiuso un occhio e lasciato correre... E anche ora, chissà come la tormentavano... Con lo sposarla, tutto sarebbe riparato: le lagrime si sarebbero convertite in sorrisi, i tormenti in letizia... Dopo le pratiche necessarie, sarebbe stato celebrato il matrimonio, poi egli avrebbe condotto la sposa e la bimba a Firenze, nelle due stanze che abitava lui, da scapolo; intanto avrebbero cercato un quartierino per istallarsi un po' più comodamente... Invece tutto era sfumato dinanzi alla inaspettata resistenza di Maria, irremovibile alle preghiere di lui, alle minacce brutali del padre e dei fratelli. Ormai ella aveva disposto altrimenti della sua vita: aveva commesso un gran peccato, e doveva scontarlo con sacrifici e penitenze, se voleva salvarsi l'anima. Sposando lui, che l'aveva spinta al male, si sarebbe dannata e lei non voleva dannarsi l'anima; ecco ciò che diceva e ripeteva continuamente, senza ragionare. Per allontanare ogni ricordo del suo fallo aveva perfino data la bimba a balia, con la scusa di non aver latte. - Son tutti imbrogli di Don Anacleto, abbadava a dire uno dei fratelli, e di quelle teste fasciate delle monache, laggiù, di S. Chiara. Me n'ero accorto che quel figuro gironzolava da un pezzo intorno casa, come un uccellaccio di malaugurio... - Non parlate a caso, Sandro, e non incolpate nessuno... - Sì sì, se te lo inciampo in queste vicinanze, vedrai che bella giubba di legno gli ammannisco... Scommetto che gliene passa la voglia di convertiti... Sono stato militare io e non ho paura della scomunica... - Oh l Gesù mio, Madonna Santissima, perdonategli - diceva la Maria singhiozzando. Allora, Roberto Catalani volle rimaner solo con lei: era sicuro di persuaderla, e pregò il padre e i fratelli di allontanarsi. E le parlò con dolcezza, ricordandole il gran bene che ella gli aveva voluto, ciò che aveva fatto per lui, dicendole che il suo dovere di donna veramente onesta era appunto quello di cancellare la colpa, se colpa vi era, ma che il solo mezzo vero e santo per raggiunger ciò era di divenire sua moglie, e di far sì che la piccola Ghita avesse, come tutti gli altri bambini felici, i proprî genitori... La supplicò, la scongiurò a mani giunte, con le lagrime agli occhi: Ma dunque, non aveva cuore? Si era ingannato nel credere che gli fosse affezionata, che fosse buona, che volesse bene almeno a quella creaturina che era sangue suo... Lo facesse per lei, per lei... Che cosa era accaduto? Perchè la trovava tanto cambiata? Quando era partito, l'aveva lasciata affettuosa, innamorata, piangente... Come aveva potuto divenire tutt'altra in così poco tempo? - Volontà del Signore, volontà del Signore - ripeteva lei, senza versare una lagrima, senza commoversi a quei ricordi, fredda e dura come una statua. - Dunque è vero, Sandro ha ragione, è stato don Anacleto, sono state le monache, che t'han voltata contro di me. - È il Signore che m'ha toccata con la sua divina grazia, e mi ha fatto ravvedere... - Ma sciagurata, non capisci che condanni la tua figliuolina innocente ad essere una bastarda? Questo sì che è un peccato orribile... - Pregherò tanto, farò tante penitenze, che il Signore mi perdonerà... perchè io faccio tutto a fin di bene. E per quanto dicesse, Roberto Catalani non fu capace di sentire altre parole dalla bocca di lei... Esasperato, avrebbe preso quella creatura ignorante e ingenua, che degli esseri maligni ed astuti avevano pervertita fino a sconvolgerne il senso morale, e l'avrebbe stritolata con le sue mani, tanta era l'ira, I'angoscia, il disgusto che sentiva bollire dentro di sè. - Ma che intendi di fare? - le gridò alla fine - tuo padre e i tuoi fratelli non ti vogliono più in casa e han ragione: che farai? dove te ne andrai? - Iddio è misericordioso, non abbandona le sue creature, e non abbandonerà nè anche me, quantunque sia una peccatrice indegna. Dava queste risposte calma, senza guardarlo in faccia, con accento umile e fermo al tempo istesso, già trasformata, inaridita, staccata dalla vita e dal mondo. Anche nella persona il cambiamento principiava ad essere evidente: il bel colorito roseo, sano, di prima, era scomparso e un pallore unito, senza sfumature, dal tono dell'avorio antico, si stendeva su quel visetto un tempo fresco, aperto, gioviale, che sembrava ora come velato e invecchiato precocemente dalla tiratura che era agli angoli della bocca, dalla mancanza di ogni vivacità, negli occhi, che sfuggivano sempre d'incontrarsi in quelli di chi parlava con lei, e dalla perduta rotondità nel contorno quasi infantile del volto e delle forme giovanili. La voce pure aveva attenuato il suono argentino che Roberto rammentava così bene, e che incominciava a divenir monotono, con dei suoni nasali; il gesto, una volta pronto e vivacissimo, si era fatto sobrio e lento; le mani rimanevano spesso incrociate alla cintura, o nascoste dentro le maniche del vestito, nella posa consueta alle monache, che cercano di sottrarsi più che possono all'osservazione altrui. Roberto Catalani non poteva credere agli occhi suoi: tutto quel profumo agreste di gioventù florida, spensierata, che gli era piaciuto tanto in lei, era scomparso, e ritrovava, dopo pochi mesi soltanto, un essere avvizzito di corpo e di spirito, su cui era passato un soffio distruggitore che ne aveva disseccata la vita nel suo pieno rigoglio. Dinanzi a quella rovina di cui Roberto Catalani scorgeva ora i segni palesi, si sentì prendere da una tristezza profonda, accresciuta da una punta di rimorso: non avrebbe dovuto lasciarla; egli era responsabile di tutto.... Bisognava condur via subito lei e la bambina.... risolver poi.... Oh! come si pentiva del suo egoismo, della sua leggerezza... Ma chi poteva supporre una cosa simile? Ebbene, l'avrebbe condotta via ora, per forza, giacchè non poteva per amore. Finalmente, era la madre della sua bambina ed aveva l'obbligo di seguirlo: era così giovane, così semplice, che tolta di lì si sarebbe rifatta in breve, d'anima e di corpo, ed ei l'avrebbe riavuta come prima, bella, giovane, sana, allegra e fiduciosa. Tutto ciò passò come un lampo dinanzi al pensiero di lui. Sì, non c'era altro mezzo e non, bisognava lasciarsi vincere dalle resistenze di Maria. Glielo disse chiaramente, bruscamente, passando all'improvviso dalle parole buone, dolci, persuasive, alle frasi dure, tronche imperiose. Essa parve spaventarsi un momento, smarrirsi; ma si riebbe presto e gli disse con voce ferma, che non aveva paura di lui, che, grazie al cielo, egli non aveva nessun diritto su lei e non poteva obbligarla a far cosa che ripugnava alla sua coscienza di fare. - Come t'hanno ammaestrata! Si vede che han pensato a tutto, e tu, povera grulla, ti sei prestata ai loro infernali raggiri..... Ma te ne pentirai e più amaramente di quello che tu ti sia pentita d'avermi voluto bene, d'aver ceduto al tuo amore per me, e non sarai più in tempo; non potrai più tornare indietro. Maria, al ricordo del suo fallo, aveva abbassata la testa e chiusi gli occhi, come inorridita, e alla profezia del suo nuovo pentimento, avea fatto un segno energico di negazione, come se avesse sentito dire un'eresia. Roberto Catalani, ormai stanco e disgustato, uscì dalla povera stanza nella quale aveva pur passate tante belle ore, quando la Maria, rimasta sola in casa, dopo che il babbo e i fratelli erano andati a lavorare, lo avvertiva che poteva entrare da lei, e andò fuori, sull'aia, come per respirare e riaversi del suo sbalordimento. Il vecchio e i due giovanotti, seduti sur una panca all'ombra di un pagliaio, capirono dal viso di lui, come fosse andata la cosa: - Fiato sprecato eh? Me l'immaginavo - disse Sandro. - E se si provasse a adoperare un pò di sugo di bosco, chi sa che non fosse il modo di farle capir ragione - aggiunse l'altro fratello. - Mah! io ho fatto di tutto.... e non so più che dire..... Il Catalani, non sentendosi nè la forza, nè la voglia di discutere con loro che disprezzava, si avviò verso il vicino paesello, con l'idea di ritornare la sera per fare un ultimo tentativo. Camminava come un sonnambulo senza vedere, senza sentire.... con una gran confusione in testa, un gran vuoto nell'anima.... A un tratto si scosse e provò il bisogno irresistibile di rivedere la sua bambina. Andò dalla donna che l'allattava e la trovò con la piccina attaccata al petto. Questa, veduto il nuovo arrivato, sospese di poppare: spalancò gli occhietti guardandolo, rise alzando i piedini e battendo le manucce, come se avesse capito chi era.... Roberto Catalani si sentì inondato da una grande tenerezza: la bimba era bella, sana, tenuta bene, ed era sua... tutta sua, dappoichè la mamma l'aveva rigettata, con una crudeltà indegna perfino di una belva. Era possibile che una madre, dopo averla baciata, rinunziasse ad una creaturina simile? Fosse stata malaticcia, stentina, brutta..... ma così rosea, così forte e graziosa, proprio il frutto rigoglioso di due esseri belli e sani che si amano con tutto lo slancio, tutta la vitalità naturale dei migliori anni giovanili! Vi era da andarne orgogliosi, da tenersela come un tesoro benedetto, da coprirla continuamente di baci e di carezze. Allora Roberto Catalani pensò che rivedendo la bambina insieme con lui, la Maria non avrebbe saputo resistere, si sarebbe commossa e data per vinta. Pregò quindi la balia di prendere in collo la piccola Ghita e di seguirlo: ancora una volta il bel fiore della speranza tornava ad aprirsi nel cuore di lui; ancora una volta sorgevano delle illusioni ad illuminargli l'anima. Giunse alla casetta in fondo al villaggio, con la scala ripida di fuori, sull'aia, che incominciava ad annottare. In cucina era stato acceso un lume, se ne vedeva il chiarore fioco riflettarsi in una striscia chiara sul palchetto, dall'uscio aperto. Roberto Catalani entrò in casa e vide il vecchio che si accingeva ad accendere il fuoco, chino sul focolare basso e largo, ove era appeso il paiuolo. - Chiamatemi la Maria, fatemi il piacere - gli disse Roberto Catalani. Quegli si voltò accigliato e borbottò: - La Maria? O dov'è la Maria? chi l'ha più vista? Ha preso il volo - e stendendo il braccio, accennò con la mano che se n'era andata. La donna con la bambina in collo, era rimasta ritta, nel vano dell'uscio illuminato. Il vecchio le dette un'occhiataccia e soggiunse : - Sì, ora che è entrata là dentro, mettetegli il sale sulla coda: chi l'ha vista, l'ha vista; quelle mura agguantano, ma non rendono; era tanto che lo diceva, stasera poi s'è decisa... Per me, non ci metto nè sale nè pepe: guà, chi si contenta gode... Roberto era rimasto sbalordito: questa poi non se l'aspettava... La sua comparsa aveva dunque affrettata la risoluzione della Maria di chiudersi in convento! - E voi l'avete lasciata andare? Perchè non glielo avete impedito? Non siete suo padre? - Io? la ragazza ha l'età della discrezione, ognuno può far di sua pasta gnocchi. Che forse mi veniste a chiedere il permesso, quando metteste insieme quel negozio là? - e accennò la bimba col dito pollice, senza voltarsi a guardarla, sempre curvo sul focolare; poi riprese: - Ora invece pare che abbia mutato idea e si voglia far monaca: buon prò gli faccia; vuol dire che l'abbadessa, se la prende, ha buono stomaco. Il su' fratello maggiore ci s'è arrabbiato, è andato su tutte le furie, il grullo... Come se non fusse una bocca di meno a mangiare... tanto per quel che faceva in casa, da un pezzo in qua..... Roberto Catalani fremeva; capì che non aveva più nulla da fare in quella casa, e se ne andò con un saluto asciutto asciutto. Dopo pochi giorni il giovane pittore riappariva in città, in mezzo ai suoi amici, triste e taciturno. Quelli lo credevano già pentito del passo inconsiderato che stava per fare; nessuno osava perciò di interrogarlo e dirgli qualcosa su tale argomento. Ma il Catalani, natura franca e espansiva, non potè frenarsi a lungo e scoppiò a dire: - Non sapete, eh? non sapete che son tornato con le pive nel sacco? Non m'ha voluto sposare... siete meravigliati, eh? Vi pare impossibile... i preti, cari miei, le monache le han messo per la testa tanti scrupoli, che l'han persuasa a rinunziare a me, e, quello che è peggio, che è mostruoso addirittura, alla sua figliolina..... L'han fatta entrare in convento..... tutto è stato inutile, tutto: preghiere, minacce, ragionamenti, tutto... Non m'ha neppure guardato in viso, capite? Me l'hanno ammazzata... se vedeste... era un fiore... e la mia bambina, la mia povera bambina non avrà mai la madre..... A quest'ultimo grido, il nodo che gli stringeva la gola si sciolse e potè finalmente dar libero sfogo al suo dolore, piangendo a calde lagrime.

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La ballerina (in due volumi) Volume Primo

246851
Matilde Serao 1 occorrenze
  • 1899
  • Cav. Niccolò Giannotta, Editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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Bruttina, un po' sgraziata, timida malgrado il mestiere di ballerina che faceva, selvatica per il senso della sua bruttezza e della sua miseria, diffidente contro ogni apparenza di lusinga, trascurata per la povertà nei suoi vestiti, Carmela passava così abbandonata e, talvolta, bistrattata, nel mondo elle un tratto di bontà, di affetto, la faceva commuovere sino alle lacrime: il miracolo di quei fiori, che le sembravano magnifici, non era stato fatto per lei, ma perchè il caro nome della deliziosa danzatrice, sparita dal mondo, era stato pronunziato in quella bottega di fiori. Ella, andando alla stazione, non guardava nessuno in volto, presa dal suo pensiero: ma passando innanzi al caffè Gambrinus, il più chic di Napoli, quasi inconsciamente ella guardò verso la porta. Giusto, sulla soglia di marino bianco, fissando le nuvole del bigio cielo di novembre con quei suoi occhi superbi e freddi di un azzurro così duro che rammentava l'acciaio, Ferdinando Terzi, con le mani nelle tasche del paletot strettamente inglese, fumando un sigaro di Avana dalla cintura di carta d'oro, Ferdinando Terzi di Torrepadule aspettava qualcuno o non aspettava nessuno, perdendo tempo, disoccupato, annoiato forse, senza nulla mostrare sul suo volto, dove si armonizzavano bizzarramente le linee più crudeli e più glacialmente crudeli di una bellezza virile bionda. Purissimo il profilo del naso aquilino; bianchissimi i denti che apparivano fra le labbra rosse ancora di giovinezza sana e segretamente focosa, sotto i sottili mustacchi biondi; bianco come la fronte spaziosa il mento ovale; e azzurri, di un largo azzurro gli occhi. Ma qualche cosa di tagliente, anche nel profilo; ma nel candore dei denti qualche cosa di ferino; ma la durezza di volontà in quel mento e un costante ignoto pensiero su quella fronte: e sovra tutto, in quegli occhi azzurri tanto gelo di orgoglio, tanto gelo di indifferenza, e quasi sempre un velo d'ironia sprezzante, un velo di disdegno crudele. Carmela Minino lo conosceva, Ferdinando Terzi: egli era abbonato alla prima fila delle poltrone al teatro San Carlo e non mancava mai, verso il tardi, ogni sera, al suo posto, in marsina, con la gardenia all'occhiello, portando nella persona una certa rigidità militare, non scevra di eleganza, che gli era restata dal suo servizio come ufficiale in un reggimento di cavalleria. Ella lo conosceva anche meglio, Ferdinando Terzi, poichè era l'amante della bella Emilia Tromba, la, seducente ballerina di prima fila, che ballava così male, ma che aveva dei magnifici capelli neri, che non andava mai a tempo, ma aveva delle spalle mirabili, che faceva un grande chiasso, ma che si rideva delle ammende, poichè era piena di denaro, di gioielli, di carrozze, e che l'impresa di San Carlo scritturava solo per far piacere agli elegantissimi abbonati delle poltrone, mentre ella era una maleducata, volgare, strillona, in continua lite con le sue compagne. Ferdinando Terzi raramente saliva sul palcoscenico, a prendere Emilia Tromba, e l'aspettava, taciturno, superbo, guardando le corifee coi suoi altieri occhi che attiravano e respingevano, crollando le spalle quando udiva la voce rauca di Emilia disputarsi con la cameriera, col custode del palcoscenico, col pompiere di guardia, rimanendo sempre lui un signore, un gran signore, malgrado l'incanagliamento di quella relazione. Più spesso, quasi sempre, il coupé di Ferdinando Terzi aspettava Emilia Tromba all'uscita del Teatro San Carlo, ma non sempre egli vi era dentro. li Carmela Minino, quasi sparendo sotto la sua corona di fiori, fissò per un minuto il viso preoccupato del giovino signore: egli non si accorse di lei naturalmente, e rientrò nel caffè. Un sospiro sollevò il petto di Carmela e, a, un tratto, la stazione ferroviaria le parve tanto lontana e la corona dei fiori soffocante. Ma ella vinse questo momento di scoraggiamento; l'ora si faceva tarda, il cielo si rannuvolava sempre più e se la pioggia la sorprendeva per le vie di Napoli non avrebbe potuto neanche aprire l'ombrello, impedita dalla corona. Nella piccola stazione della Nola-Baiano la folla era così grande che la ballerina comprese non avrebbe trovato posto, in terza classe: si sentiva così oppressa, così debole, scoraggiata e ammiserita nelle più misteriose regioni della sua anima, che dimenticò i suoi costanti proponimenti di economia e prese un biglietto di andata e ritorno, di seconda classe, pagando diciotto soldi. Anche la seconda classe era zeppa; tutti andavano al camposanto: chi portava un pacchetto di candele di cera, da far ardere innanzi alle tombe; chi una piccola corona di perline; chi mia corona di mortelle gialle, secche, con lettere di velluto nero che formavano le parole di dedica, e chi niente: e quasi tutti eran vestiti di nero, uomini, donne e fanciulli: e quasi tutti avevano l'aspetto contrito, silenziosi, alcuni vinti certamente dai ricordi di vecchi sopiti dolori, alcuni certamente portanti nel cuore un rammarico lontano e inconsolabile fattosi novellamente acuto, alcuni indifferenti nell'anima, ma fiaccati nei nervi dal cielo bigio, dal viaggio triste, dalla tristezza altrui. Per la massima parte in quella seconda classe del treno di Baiano, vi erano piccoli borghesi, operai, servi di famiglie ricche, impiegati e servi di quelle congregazioni religiose che riempiono delle loro cappelle il camposanto di Poggioreale e che rappresentano la più vasta associazione di mutuo soccorso innanzi alla morte, per la borghesia e pel popolo napoletano. Carmela Minino taceva: e oppressa dai suoi pensieri di miseria e di abbandono, oppressa dall'ambiente, abbassava la faccia dietro la grama veletta nera del suo cappello. - Poggioreale! Poggioreale - gridarono dalla minuscola stazione del cimitero i due ferrovieri. E quasi immediatamente, con un gran rumore di sportelli battuti, il piccolo treno si vuotò tutto, mentre pel viale saliente al largo ingresso inferiore del cimitero, un flutto di gente si avviava, portando i suoi pacchetti di cerei, le sue corone di canutiglie, di semprevivi, di fiori freschi. Attorno all'ampio cancello una quantità di omnibus, di calessi, di char-à-bancs, di biroccini, stazionava, coi cavalli senza cavezza, la testa immersa in un sacco di crusca, coi cocchieri che fumavano la pipa, seduti di traverso sulle loro serpi, alcuni aggruppati, altri in cerca di qualche osteria dei dintorni, dove mangiare un boccone, aspettando i passeggieri che dovevano ritornare dal loro lugubre pellegrinaggio. Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fiori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gli ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gli uccellini, gli alberi alti che ombreggiamo le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli edifici, ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti aperte da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. L'ampio viale onde Carmela Minino, insieme con gli altri, saliva alle alture del cimitero ove sono le chiese più belle e i monumenti funerari più ricchi e più artistici, era murato e sulle mura vi eran delle lapidi cementate, le più antiche, con date di trenta o quarant'anni: la ballerina ne lesse due o tre ed ebbe un moto d'indifferenza. Che mai eran quelle donne, quei bimbi, quegli uomini che essa non avea mai conosciuti? Nulla a lei e, forse, nulla a nessuno di costoro che salivan con lei: quaranta, cinquant'anni sono troppi, perchè mi morto possa esser più niente a nessuno. Qua e là, ora che cominciavano i prati fioriti di rose, di cinerarie, di tutti que' fiori bigi, lilla, violetti che par che Iddio faccia nascere nell'autunno per esser di accordo con la stagione e con le tombe dei morti, gruppetti di due o tre persone si agitavano intorno alle pietre mortuarie, infisse semplicemente nella terra e, ripulitele, amorosamente, vi depositavano le corone novelle e infiggevamo, nella terra i cerei che ardevano nel giorno, con certe linguelle di fiamma esili e pallide, e qualcuno s'inginocchiava, pregando, senza, curarsi di chi passava; e un singhiozzo, ogni tanto, rompeva l'aria, sulle tombe più recenti, singhiozzi scoppianti da donne vestite di nero, austeramente velate, mentre da tutte le cappelle, da tutte le chiese grandi e piccole, da ogni maestoso monumento escivano i canti del De profundis e della Libera e scintillavano, nel fondo di pietra, le candele accese e si dilatava l'odore dell'incenso, nell'aria. Carmela Minino, disfatta, sentendo sul suo corpo e sulla sua anima tutto un insopportabile peso di dolore, quasi non poteva avanzare più passo: un desiderio folle la travolgeva, di gittar via, quella corona, di buttarsi sulle erba, sui fiori, faccia a terra, e di sciogliersi in lacrime, fino a che la morte l'avesse sorpresa, colà! Ma, a un tratto, il monumento elevato ad Amina Boschetti le apparve innanzi, quasi magicamente. Sorgeva in un quadrivio pieno di alberi, alti e folti, pieno di odorati cespugli di fiori: aveva dirimpetto la cappella magnatizia dei principi di Sansevero: da un lato la chiesa votiva per la morte della giovanissima duchessa di Noja; ma il tempio eretto alla memoria della ballerina era più ampio, più ricco, più bello delle due chiese patrizie. Aveva un'architettura schiettamente egiziana, imitante una delle antiche tombe faraoniche, tutto in granito oscurissimo e in lucido basalto grigio: le due porte, di un massiccio e puro artistico bronzo cesellato, erano schiuse: intorno intorno a quelle possenti, gravi e larghe masse di granito, girava un giardino fiorito, chiuso a sua volta da un cancello di bronzo. Guardandolo di lontano, il tempio egizio costruito per chiudere la leggiera salma della danzatrice, pareva tozzo, goffo, come sempre appariscono queste architetture, anche laggiù, fra il Nilo e il deserto. Ma come vi si avvicinava, le linee si sviluppavano, si ingrandivano, diventavamo imponenti, maestose. E bastò questo solo suo aspetto grandioso e calmo, per dare un sussulto di coraggio a Carmela Minino; bastarono le due semplici parole, in bronzo dorato, scritte sul sommo della porta: AMINA BOSCHETTI, perchè mia novella forza la ringagliardisse. Man mano che ella si accostava a quella magnifica forma di tempio, dove la fortuna, la ricchezza e la potenza della sua madrina, ricevevano la consacrazione del trionfo anche dopo la morte, una esaltazione facea balzare l'anima di Carmela, asciugandone, disseccandone tutte le lacrime, gonfiandole di tenerezza, ma di tenerezza superba, il suo piccolo cuore. Fu senza dolore, con un senso singolarissimo e inesplicato a lei, che ella entrò nel tempio egizio, segnandosi piamente. Il tempio era riccamente adorno per la commemorazione di Amina Boschetti: dal soffitto pendevano quattro massiccie lampade d'argento, sospese a grosse catene di argento, dove bruciava l'olio votivo: quattro alti e adorni candelieri di argento sopportanti i grossi cerei accesi erano collocati innanzi al breve altare funebre, disposto sotto la lapide che murava la salma. Tutto il tempio, intorno, spariva, sotto le corone fresche di fiori rarissimi: ve ne erano, di fiori, sparsi per terra, sul basalto: e la lapide ne era coperta. Un prete, assistito da due altri, in ricchi paramenti dai colori mortuari celebrava la decima o la duodecima messa funebre, colà, e come egli era venuto dopo gli altri, altri sarebbero venuti dopo lui, sino alle tre pomeridiane: e due chierici spandevano incenso dagli incensieri di argento. Due camerieri in livrea, appartenenti alla casa del banchiere Schulte, colui che aveva, per dieci anni della sua vita, adorato la leggiadrissima danzatrice, che le avea dato la sua fortuna e che, fedele oltre la morte, in un miscuglio singolare di amore, di misticismo e di cinismo, le dava tutte le pompe più ricche del culto religioso, stavano in fondo al tempio, muti, immobili; il loro padrone era venuto presto colà e tutto era stato disposto secondo i suoi ordini, sotto i suoi occhi, e tutti quei fiori li aveva portati lui, ed egli stesso aveva pregato per un'ora, lì dentro, incapace di dimenticare, incapace di consolarsi. l due camerieri presero silenziosamente dalle mani di Carmela Minino la corona di fiori, per deporla presso l'altare: - Sulla pietra, sulla sua pietra - ella mormorò, supplice, tremante di una emozione che non era solo dolore, anzi quasi non era dolore. Poi, quando la corona andò ad appoggiarsi a metà della lapide marmorea, sul posto dove giaceva, dietro la fredda pietra, il freddo cuore della incantevole Amina, la sua figlioccia, si piegò sovra un inginocchiatoio di legno scolpito, dal cuscino di velluto rosso, dove, un'ora prima, era venuto a pregare Otto Schulte e chiuso il volto fra le mani mentre il prete orava, pronunziando le parole tetre, tristi, dolenti, ploranti, della messa per i defunti, mentre il grido dell'anima cristiana che, giunta davanti all'Eterno suo giudice, domanda misericordia esciva dalle labbra dei suoi coadiutori, invece di pregare, Carmela Minino vide innanzi agli occhi della sua immaginazione colei che era sepolta dietro quel marmo, colei per cui era stato eretto quel tempio ricchissimo, colei per cui ardevano quelle lampade e quei candelabri, per cui olezzavano quei fiori, per cui pregavano il Signore quei sacerdoti. E vide una figura esile e lieve, un paio di occhi larghi, bruni, pensosi e ridenti insieme, un sorriso sopra una bocca deliziosamente espressiva, un fascino emanante da ogni atto gentile, un fascino di bellezza, di grazia, di giovinezza, di poesia, qualche cosa di trasvolante tra i veli candidi, fra lo scintillio dei corsaletti ricamati d'oro, qualche cosa, di fugace, di alato, d'inafferrabile che facea palpitare e fremere non solo gli uomini giovani ma i vecchi, non solo gli uomini ma le donne: Amina Boschetti! Fra la luce, innanzi ai teatri zeppi e semioscuri, ella appariva, sottile come uno stelo, con la sua piccola testa carica di capelli bruni, e non toccava terra nelle sue gonne simili a una nuvola e i suoi piccoli piedi calzati di seta rosa non toccavan terra e appena appena parea ricamassero delle cifre posate fra i fiori, sulle aiuole. Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, eran fatti per lei, perchè i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. Ella aveva ville a Portici e a Posillipo, palazzi a Napoli, mobili sontuosi, equipaggi ricchissimi, vesti e pietre preziose degne di una sovrana; e la sua lieta giovinezza spensierata rideva di tutto ciò: ed ella dava in cambio tutta la poesia della sua bellezza, tutta la poesia della sua danza, sorridendo ai sogni di amore e di piacere. Così, nella sua infanzia, Carmela Minino l'aveva vista, ammirata, amata, come se Amina Boschetti avesse in sè qualche cosa di divino: così la povera figliuola della rammendatrice di maglie, la figliuola di Bettina Minino, aveva volto gli occhi pieni di ammirazione trepida e devota alla fata delle danze. Tutti quei deliri, tutte quelle acclamazioni, tutti quei gioielli, tutto quel denaro che la gente gittava innanti alla danzatrice adorabile, non sembravano, alla oscura piccola corifea, che un omaggio naturale, giusto, dovuto a quel leggiadrissimo idolo. La messa, funebre quasi finiva, mentre alte risuonavano le parole latine d'implorazione del sacerdote, sotto la volta granitica del tempio egizio. Ma Carmela Minino che, pure, era una, umile e pia cristiana, ancora non pensava a pregare per l'anima della sua madrina. Ora, si rammentava come la bella danzatrice era entrata nella sua piccola vita, piena di ombre, di tristez- ze, di miserie! si rammentava di essere stata condotta, un giorno, due giorni, varie volte, in quel grande palazzo della Riviera di Chiaia, dove Amina Boschetti viveva fra la ricchezza del lusso e dell'arte, e in quell'amena, fresca villa di Portici, posta fra gli orti, i giardini e il mare: sua madre rammendatrice di maglie di seta, aveva servito la Boschetti, quando costei era una semplice ballerinetta di quarta fila, e, più tardi, quando la ballerinetta era diventata una stella fulgida, la povera rammendatrice, assai misera per mancanza, di lavoro, andava a raccogliere le vecchie maglie che la Boschetti gittava via, gli scarpini di raso rosa che la Boschetti metteva una volta soltanto, e di questi doni, facili alla prodigalità, della grande artista delle danze, Bettina Minino faceva un piccolo commercio. Allora, Carmela Minino aveva dieci anni, due grandi occhi neri e dei bei capelli neri, non pareva che dovesse diventare bruttina come era, poi, più tardi, di- venuta pur conservando il dono dei belli occhi e dei bei capelli. Ogni tanto, Amina Boschetti passava nella sua anticamera, dove Carmela si rannicchiava in un angolo; la carezzava lievemente, passando, nelle sue ampie vesti di lana bianca che avevan del peplo greco e da cui si ergeva la seducente testina. - E falla ballare, falla ballare - rispondeva familiarmente la Boschetti, quando la sua vecchia rammendatrice sospirava, parlando di sua figlia. - E se è brutta, Eccellenza? - Speriamo di no. - E se si perde l'anima e il corpo a teatro? - Chi si perde, si ritrova - replicava, ridendo, la Boschetti. Ciò finì con questo: che la Boschetti dava venticinque lire il mese, per vari anni, a Bettina Minino, perchè la sua figliuola, potesse imparare il ballo. Ohimè, la piccola Carmela mancava di grazia, di brio, di leggerezza, nella danza: studiava molto, si stancava enormemente, era obbediente, sommessa alle osservazioni del maestro, tentava del suo meglio, ma non arrivava a conquistare quelle qualità necessarie ad una ballerina. Anche, verso i sedici anni, invece di fiorire come tutte le giovinette, deperì. La sua carnagione si fece bruna e opaca, le linee s' indurirono ai pomelli, al mento; le labbra s'impallidirono. Forse mangiava poco: forse, ballava troppo: forse mancava d'aria e di luce, in quella stanza del vico Paradiso; ma la sua gioventù fu sfiorata, restandole solo quei begli occhi un po' tristi, ma pur fieri, che, del resto, hanno le napoletane più brutte, quei bei capelli, che, anche, sono un pregio assai comune, a Napoli. - Signora mia, è brutta, è brutta - diceva, piagnucolando, ogni tanto, Bettina Minino alla sua benefattrice. - Pazienza! Così non si perderà - rispondeva, sorridendo la Boschetti. E per la sua protezione, solo per questo, Carmela Minino era entrata nel corpo di ballo di San Carlo: ma nell'ultima fila, con due lire e cinquanta ogni sera di ballo, con l'obbligo di fornirsi del basso vestiario, scarpette, coturni, maglie di seta, gonnellini di velo, coll'obbligo di venire ben pettinata o di farsi pettinare dal parrucchiere del teatro, con tanti obblighi, tutti costosi, che riducevano a nulla le due lire e cinquanta serotine. Era, anche, una grazia, particolare, perchè a San Carlo non volevano brutte ballerine, anche nell'ultima fila, perehè Carmela ballava così e così, sovra tutto mancava di sorriso, sempre con quel viso senza gioventù e gli occhi malinconici. Con il poco guadagno della madre, con le venticinque lire il mese del sussidio Boschetti, meno male, si tirava avanti, quando Amina Boschetti morì... Ora, la messa era finita e il prete secondato dai due coadiutori, benediceva con l'acqua santa il tumolo, cioè la lapide. E invece di pregare per colei che dormiva da sei anni l'eterno sonno della morte, dietro quel macigno di granito, Carmela Minino pensava alla morte di Amina Boschetti. Ella l'aveva vista ballare, l'ultima volta, in un ballo grandioso, di carattere egizio: Le figlie di Cheops. Le due figliuole del Faraonide eran rappresentate da una bellissima mima, alta, formosa, Assunta Mezzanotte, che poi, più tardi, doveva tentare con minor fortuna il teatro di prosa, e l'altra figliuola, la sorella, la rivale, era Amina Boschetti. Non so per quante sere, nelle vesti orientali, con l'ibis d'oro fermante i capelli bruni sulla fronte, carica di gioielli antichi, Amina Boschetti aveva ballato, e più che ballato, sceneggiato e drammatizzato quel ballo delle Figlie di Cheops: e non so quale storia d'amore vincitore e vinto, fra le due sorelle, conduceva la minore Faraonide, la danzatrice, alla morte. Nell'ultima scena, ell'appariva in una festa sacra, bella di una ieratica bellezza fatale, coverta di ori e di gemme preziose, con un sorriso inebbriato ed inebbriante sulle labbra, con qualche cosa di folle negli occhi scintillanti. Così la Faraonide Amina Boschetti imprendeva una sua danza religiosa insieme a uno serpente: a un serpente pitone, sacro alle deità egizie, che ella si avvolgeva alle braccia, al corpo, scherzando, giuocando con esso, accostandosene lietamente e follemente la testa al volto, gittandolo via, ghermendolo, agitandolo intorno a sè, in volute bizzarre. Poi, l'affanno delle danze cresceva, cresceva, i capelli della danzatrice si scioglievano sulle spalle, ella girava come folle, come convulsa, fino a che, appuntando la testa del serpente sul suo petto nudo, si faceva mordere, cadeva, moriva, fra il terrore di tutti. In questo ballo, in quest'ultima scena, Amina Boschetti esciva dal limite della danzatrice felice, vaga e spensierata: ell'assumeva un aspetto drammatico e il pubblico ne aveva un effetto più profondo e più alto. Quattro giorni dopo la chiusura del San Carlo, quattro giorni dopo l'ultima trionfale rappresentazione delle Figlie di Cheops, non ancora trentenne, in piena beltà, in pieno trionfo, Amina Boschetti moriva nel suo palazzo della Riviera di Chiaia, in pochi minuti per la rottura di un aneurisma. Niuno sapeva che ella fosse malata al cuore: forse, lo sapeva ella sola. E nella limitata intelligenza di Carmela Minino, la esaltazione dell'adorazione che ella portava ad limina Boschetti, la induceva oltre i confini della piccola anima popolana, la slanciava in pieno sogno. Quel tempio, quegli argenti, quei fiori, quegli incensi, quelle preghiere, quel culto d'amore e di lusso grandioso che oltrepassava il tempo, che oltrepassava la morte, non dicevano l'imperio della grande maga, ancora, sempre? Non era Amina Boschetti indimenticabile, indimenticata, come una suprema parvenza di poesia? Nessuna ne aveva preso il posto nella fervida ammirazione del pubblico e tutta una folla la rimpiangeva, ogni volta che una nuova ballerina appariva sulle scene del San Carlo: nessuno ne aveva preso il posto, nel cuore di colui che l'aveva amata. Nessuno, nulla, nè il tempo nè gli eventi avrebbero potuto prenderne il posto nella oscura vita, di Carmela Minino, la corifea. Colà, sola, innanzi a quella tomba, piegate le ginocchia innanzi a un diletto nome scritto sulla pietra, nell'ardore che le bruciava le vene, Carmela Minino promise, giurò, alla sua madrina morta, di fare sempre quello che ella aveva voluto la sua figlioccia facesse: promise, giurò di continuare quel mestiere duro, faticoso, pieno di pericoli, pieno di tristezze, che appena le dava il pane, che la lasciava mesi intieri senza lavoro, che la esponeva alle delusioni, alle amarezze, ai dileggi di tutto l'orribile mondo teatrale, che la teneva fra il disonore e la miseria e che, infine, l'avrebbe portata, chi sa, all'elemosina, all'ospedale: che importava? Ella aveva voluto così: e Carmela s'inchinava ancora una volta, ebbra di obbedienza, ebbra di devozione, oltre la tomba, sino alla morte e oltre la morte. Anzi, nella sua febbre di amore e di sacrificio, Carmela dimenticò completamente di pregare. Con la familiarità religiosa comune ai cuori semplici napoletani, con la empietà ingenua dei cuori passionali , ella era certa, certa, che il Signore aveva perdonato ad Amina Boschetti tutti i suoi peccati. La corifea rientrò in Napoli verso le cinque. Quasi annottava. Questa volta, per trovarsi più presto in Via Paradiso, alla Pignasecca, voltò dalla Stazione per la regione settentrionale di Napoli, Via Cirillo, Via Foria. Quando fu presso il Museo Nazionale, la pioggia cominciò a cader fitta fitta. Temendo pel suo vestito, pel suo cappello, per le scarpe, ella si rifugiò nella Galleria Principe di Napoli, dove centinaia di altre persone, senza ombrello, o con qualche vecchio ombrello consunto, aspettavano che finisse di piovere. Si faceva tardi, per Carmela. La pioggia diminuiva ed ella discese la scalinata della Galleria verso via Toledo; guardando innanzi a sè, ella scorse un elegantissimo coupé signorile fermo innanzi al grande arco della Galleria. Sul marciapiede, piegato verso lo sportello, nascondendone il vano, un signore parlava alacremente e attentamente ascoltava chi era dentro la vettura. Malgrado che le volgesse le spalle e che avesse cambiato vestito, Carmela riconobbe subito il Conte Ferdinando Terzi. Ella si fermò un istante sugli scalini, guardando verso il coupé, cercando timidamente di scorgere chi vi si trovasse dentro. Oh ella sapeva bene, Carmela, che Ferdinando Terzi nascondeva e mal nascondeva, una perigliosa e violenta relazione con una giovane signora dell'aristocrazia, a cui Emilia Tromba faceva o da paravento o da diversivo: sul palcoscenico se ne parlava, fra le ballerine che spettegoleggiavano sugli amori e sui vizi del mondo aristocratico, in cui spesso hanno delle rivali, e Carmela conosceva il nome e il volto giovanile, pensoso e dolce di colei che si diceva, amasse follemente Ferdinando Terzi. Ma pioveva ancora e fra le penombre del crepuscolo, il velo sottile della pioggia, nel giro largo e lento che Carmela Minino fece intorno alla piccola carrozza signorile, non giunse a distinguere nulla. Lentamente, la ballerina si allontanò lungo il marciapiede opposto, andando verso la sua casa: si voltò solo, sotto ombrello, due o tre volte, a guardare indietro. Il coupé era sempre fermo, Ferdinando Terzi - le pareva a Carmela - si era sollevato, guardandosi intorno, per diffidenza: poi si era curvato di nuovo, a discorrere. Ma in quell'ora, con quel tempo, lontano dal centro aristocratico di Napoli, fra le oscurità del crepuscolo che si facea sera, sotto la pioggia, chi potea, lassù, riconoscere Ferdinando Terzi e il coupé della marchesa.... chi, se non l'occhio umile ma acuto di una poveretta che ritornava dal cimitero, a piedi dalla ferrovia, tutta molle di umidità, senz'aver pranzato, anelando alla sua stanzetta solinga e a un po' di cibo? Fu più in là, verso piazza Dante, che una voce amabile interruppe il cammino di Carmela. Sulla soglia di uno dei grandi magazzini inglesi di Gutteridge, un giovanotto l'aveva interpellata: - Oh signorina Minino, buonaseral non mi salutate, neppure? - Buonasera, buonasera - ella mormorò, interdetta, fermandosi e pentendosi subito di essersi fermata. - Entrate un poco, signorina - soggiunse il giovane, liberando l'entrata. - No, non posso, signor Gargiulo, ho fretta. - Sempre così! E donde venite, sempre simpatica, sempre così simpatica e così cattiva, con me? Da una prova di ballo? - A quest'ora? - ella mormorò, senza badare ai complimenti. - Io vengo dal camposanto. - Scusate - disse Garginlo, interdetto. - Andate a casa? Posso accompagnarvi, un poco? - No, no, grazie, badate al vostro lavoro. - Oh, è già sera, non verrà più nessuno, dico a un compagno di supplirmi alla cassa. Permettete? - Nossignore, buonasera, signor Gargiulo - concluse lei, in fretta licenziandosi. Il giovane cassiere rimase un po' interdetto: ma lo stesso sorriso un po' fatuo gli restò sulle labbra, mentre guardava allontanarsi la ballerina. Egli era alto e magro, con un viso olivastro e un po' di baffetti bruni a cui teneva molto, accarezzandoli spesso: portava i capelli neri tagliati a spazzola sulla fronte e non mancava di una certa linea di eleganza, nella sua magrezza. Parlava con sovrabbondanza, come tutti i commessi di negozio, con uno spolvero di false buone maniere, con le unghie lunghe e accurate e un brillante al mignolo: vivente maluccio col suo stipendio di cassiere, ma sempre ben vestito, con quella ricercatezza speciale dei giovani commessi, amatore dello smoking e frequentatore accanito di teatri e di balletti borghesi. In teatro andava gratuitamente, per mezzo di un giornalista suo amico, specie a San Carlo: e, talvolta, con l'amico era andato ad aspettare l'uscita delle ballerine dopo lo spettacolo. Colà aveva visto passare, varie sere, Carmela Minino sola: le aveva diretto qualche parola, così, per far anche lui il corteggiatore di una ballerina. - Lascia fare - gli aveva mormorato l'amico giornalista. - È brutta ed onesta. - Ne sei certo - Certissimo. Sono otto o dieci, ancora zitelle, a San Carlo, fra cui la Minino. - Allora, sarebbe un bel guaio per me. - Naturalmente. Niente altro. Ma sempre che la incontrava, Roberto Gargiulo si avvicinava a Carmela, le faceva dei complimenti vivaci e delle allusioni poco velate. Ella rispondeva poco o nulla, si schermiva alla meglio, si allontanava,. Pure, Gargiulo che aveva fatto qualche conquista, nel monduccio borghese ove si aggirava, pensava che se avesse voluto, con una corte assidua, con qualche regaluccio, Carmela Minino avrebbe finito per amarlo. Conveniva a lui, però, insistere, poichè la ballerina era onesta, affrontare certe conseguenze, portare la catena di una relazione simile? Chi sa... più tardi... forse... e intanto, ogni volta che ella gl'impediva di continuare i suoi discorsi, egli conservava il suo sorriso fatuo, di seduttore che non vuole insistere. Carmela affrettava il passo, verso via Pignasecca, aveva crollato le spalle, lasciando Roberto Gargiulo. Egli non le dispiaceva e non le piaceva, ma ella adoperava con lui le armi di difesa abituali di una donna che ha paura dell'amore e paura del peccato. Credendosi anche più brutta di quello che era, una istintiva, selvatica diffidenza le veniva contro ogni accenno di corte; ella supponeva sempre un inganno maschile, una trama, per farla cadere nel peccato, per burlarsi di lei, subito dopo. Vagamente, nella sua coscienza di povera serva sociale, di povero atomo, senza forza e senza coraggio, ella sentiva che, un giorno o l'altro, questo sarebbe accaduto: ma con tutte le cure quotidiane ella respingeva da sè questo avvenimento, ciecamente respingendo chiunque avesse potuto rappresentarlo: adoperava le più puerili e le più inani armi di difesa, fuggendo le conversazioni, fuggendo i contatti, evitando ogni occasione, facendosi anche più rustica e più sgraziata. Oh non molti la corteggiavano, mal vestita, sempre sola, sempre danzante nelle ultime file, senza un gioiello, senza un fiore nei capelli, ma ogni tanto qualcuno, Roberto Gargiulo o don Gabriele Scognamiglio, il cav. Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, consuetudinario di San Carlo, che abitava in piazza della Pignasecca, o il figliuolo del direttore del palcoscenico, qualcuno di questi la perseguitava per due o tre giorni, per una settimana, dicendole sempre le stesse cose, volendo tutti la medesima cosa, ingannarla, cioè, pensava lei, condurla al peccato, per piantarla subito. No, no. Ella li scoraggiava, facendosi vedere sempre più sgraziata, a occhi bassi, troncando i discorsi, fuggendo, quasi sempre. - Buonasera, donna Carmelina! - disse una voce d'uomo, mentre ella sbucava sulla piazza della Pignasecca. - Ecco l'altro - mormorò fra sè, Carmela. - Buonasera, cavaliere. Era don Gabriele Scognamiglio, il ricco farmacista, celibe impenitente, famoso donnaiuolo: un uomo che aveva già i suoi cinquantacinque anni, ma che portava la sua barba bianca bene tagliata e profumata, quasi sempre in marsina, la sera, pulito, svelto, che sapeva parlare alle donne, brutale, del resto, nel fondo del suo animo, freddo e calcolatore. - Donna Carmelina, volete venire a pranzo con me, a Frisio, stasera? - Grazie, cavaliere, ho già pranzato. - Allora, andiamo insieme al cafè concerto, donna Carmelina, che ne dite? Dopo mezzanotte, si cena... - Buonasera, buon divertimento, cavaliere - diss'ella, allontanandosi. - Siete proprio una scema, donna Carmelina, ve ne pentirete! - esclamò lui, ridendo, chiamando una carrozza per andare a pranzo. Ah, quando fu in casa, nella stanza al quarto piano, piena di umidità, Carmela Minino fu presa da una stanchezza mortale. A forza si trascinò sino al tavolino per accendere il lume a petrolio; e per forza se ne andò in cucina, ad accendere un po' di fuoco, per cucinarsi un paio di uova, che aveva in casa: niente altro, perchè sarebbe morta di fame, anzi che discendere quei quattro piani a comperarsi qualche altra cosa. Moriva di fatica, di lassitudine morale, di segreta tristezza: e mangiando quel poco di cibo, sopra un angolo nudo del suo tavolino, alla luce fumosa della sua lampada, pensò, sì, di essere una scema, come aveva detto don Gabriele Scognamiglio. Ma non se ne pentì, in quella sera.

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Una peccatrice

249693
Giovanni Verga 1 occorrenze
  • 1866
  • Augusto Federico Negro
  • Torino
  • Verismo
  • UNICT
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Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione del corpo da fata) o aI teatro dove la vedeva splendente di tutto il prestigio del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che reca la bellezza, la giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda, appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo piú oscuro della loggia, colla testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù. Egli passava la notte sotto i veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza; aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più insensibili del suo passo, del fruscìo della sua veste, tutte le emanazioni della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un singhiozzo dalla strada. Egli sapeva l'ora del suo levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a se. Era un martirio spaventevole che s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni febbricitanti. Alcune volte, ritirandosi ella dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata da due o tre giovanotti eleganti che la corteggiavano si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche minuto a guardarlo. Una notte, negli ultimi di settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo solito posto. Narcisa ne scese più lestamente del solito, e scomparve quasi subito insieme al conte. La carrozza ripartì. Pietro udì il passo leggiero di lei che saliva le scale accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la seguiva: udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i lumi. Poco dopo la dolce voce di Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece battere fortemente il cuor del povero giovane. - Mio Dio!... che buio!... Ma dormono tutti in questa casa stassera!... Indi alcuni suoni, tratti così a caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi. Però sembrava che un'attitudine estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con un'espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio festevole dalle note del valtzer, e faceva piangere con quelle del melodramma. Giammai a Pietro parve di avere udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto e rischiarata dalla luna. Tutt'a un tratto anche il valtzer fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano. Ella si appoggiò all'inferriata del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi di un trasparente vapore. Un'altra ombra si avanzò e le si mise al fianco. - Perdio! - disse una voce secca ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte, - non mi leverò mai d'addosso quest'accidente! Brusio sentì che quelle parole erano al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso. - Che dite? - rispose la fresca voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo. - Parlo di quell'importuno che stà a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che credo, in fede mia, sia pazzo di voi... La contessa alzò le spalle con un moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone: - E che ci ho da fare io se quest'uomo è pazzo?... Pietro si alzò, lento, come se le gambe gli si piegassero sotto; sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla fronte; coi denti sbattentisi di convulsione. Di giorno il conte sarebbe rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui e dal sinistro splendore dei sui occhi ardenti. Egli rimase un momento immobile, annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri. - Questa donna ha ragione! - momorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: - io son pazzo!... son pazzo!... sono stato vile anche!... E partì lentamente, quasi strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo. Si fermò in mezzo alla strada, a guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza, quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando, cogli occhi umidi di lagrime infuocate: - Addio, signora!... Addio! Camminò tentoni barcollando come un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo. - Oh! questo valtzer! questo valtzer! - gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul cervello, - Dio! ... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!... E partì correndo, come un delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della contrada. Si aggirò quasi tutta la notte per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche, gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un grido, or come un singhiozzo, or come una invocazione disperata: - Narcisa!... Narcisa!... - E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si afferava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni. Cominciava ad albeggiare; quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quell vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea pensato al suicidio perchè odiava troppo ancora per essere stanco della vita. Aprì la porta di strada di casa sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera, così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto in un angolo il suo cappello: era annichilato. La stanchezza fisica e la morale l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto, gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno agitato, febbrile ed interrotto. Sua madre, che all'alba avea lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi un giorno intero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato. Pietro passeggiò un pezzo per la camera, strascinandosi o camminando a salti, a seconda della istantanee trasformazioni che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora; odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser vicino alla sua famiglia, quella famiglia, che avea formato il suo culto e per la quale avrebbe dato altravolta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo, coll'occhio arido, lucido, di una straordinaria fissazione. Una febbre ardente faceva vibrare con forza le sue pulsazioni; allorchè sentì battere sì violentemente le sue arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul cervello; allorchè sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte; allorchè, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la tempesta della sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di se, della sua vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che avevano costato, dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma, per convincersi che non era pazzo... poichè egli avea paura d'esserlo... poichè egli odiava ferocemente... Udì suonare nove ore all'orologio della stanza contigua. . - Vediamo! - mormorò egli alzandosi - a quest'ora dev'esser buio... Ho tutta la mia ragione ancora!... Che vale disperarsi per colei?.. quali diritti ne ho io?... Siamo uomini, perdio!... come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!... Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne... l'orgia!... Aprì le imposte, per vedere s'era notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra stanza.

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