Una bella parete di mattoni a vista, e in un silenzio, in un verde, sembra un giardino pubblico insiste mia madre come volesse persuadermi di qualcosa che fatica a entrarmi in testa, mentre quello che mi ostino a non voler considerare sono queste sue psicosi che non stanno né di qua né di là, tra il mortale e il mortuario. Ma tempo ce n'è rimasto poco, occorre affrettarsi, una nostra parente aveva già prenotato per sé e per i suoi addirittura sul disegno, sulla carta, riuscendo così ad accaparrarsi i posti migliori naturalmente, in basso, dove non c'è neppure bisogno della scala.
Torno a casa alle due e mezzo, mi metto a letto, leggiucchio, di sicuro ho tolto la sovraccoperta - verde e scostato il lenzuolo: il letto è fatto e io non dormo mai sopra il drappo della gatta.
Ippodromo a Cesena fino a tardi: Gran Premio, diecimila persone, verso la fine un 'oppressione da svenire e prima - appena entrato - il mio disturbo agli occhi: bolla liquida per abuso di computer; crollo di zuccheri. Il mondo mi circonda, vorticoso e lontano, la piadina alla salsiccia che mangio è un grumo informe, nella mia mano.
Poi, senza aver percepito nulla - devo pur essermi addormentato, a un certo punto - mi scuoto di colpo dopo un corpo a corpo con mia madre, in un viluppo sconsiderato, qualcosa di erotico e mortale mai provato prima, devo scrollare e picchiare efarmi largo per liberarmi, lei vuole trascinarmi dentro uno specchio nero appoggiato al pavimento, un pozzo senza fondo e il nero non è vuoto, ma un robo appiccicoso come petrolio, vischiosa materia, secrezione indelebile di bestia. Non respiro né sono oppresso, è solo che affogo.
Anziane e vedove, tornano a vivere insieme nella casa in cui trascorsero una giovinezza allegra e accordata.
La pioggia riga i vetri e le foglie scrosciano a terra. Il caffè brucia nel vano della cucina in lontananza. E il pericolo è buio, buio e polvere misti a desiderio.)
“Neppure riuscita a lavarmi i capelli...”
Il tempo mentre scriviamo vola, noi moriamo a noi stessi mentre intorno ci cresce la vita e la realtà si addensa, s'intreccia, diventa una radice che sale fino a un tronco e ridiventa foglio.
Il fratello della sposa va per duecento chilometri di autostrada a prendere le valige dimenticate. Tornerà a festa conclusa.
Non so perché ma sento il bisogno di parlarti, a te proprio a te che da anni non dici piu nulla, che nemmeno mi guardi.
Così ogni pochi minuti sono qui, di fianco a dove passi inchiodata le giornate e ti parlo: a raffica, non so bene di cosa, memorie dissepolte, perdite, presagi, fatti strani.
Non si potevano pubblicare a parte?
Risposta: E' stato come accorgersi che il Nemico ha un avamposto in casa; di piú, che la sua azione si colloca a livello neurologico, Nella stessa maniera, l'immagine dell'individuo anatra-lepre si è insediata nel libro senza che il firmatario potesse farci nulla, se non provare a esporre, tramite questo dialogo, le ragioni della propria resa.
Una domanda a cui rispondo in fretta: sono in un vento che annuncia un temporale, ascoltando una radio notturna che parla di futuro.
Dopo averci guardato danzare il maestro argentino assunse la desolata espressione propria di chi alla fine s'accorge d'aver parlato inutilmente e col dito rivolto ai sordi che per lui a quel punto eravamo prese a disegnare nell'aria figure ovali quadrate circolari soavemente unite tra loro da una semplice linea.
Un giorno ho pensato che ci sarebbe voluto tempo, proprio quando mancava il tempo, per cucire lentamente vicino a una finestra. Quello che avevo scritto poteva stare in un lenzuolo. Poesie, foto, qualche pensiero. Immagino chi ha inventato l'ago. Era vicino al fuoco e di colpo ha visto che l'osso più affilato (come la spina) teneva insieme la pelle. Spina e pelle. Osso. Quello che la morte smembrava poteva essere unito di nuovo. Da piccola cucivo foglie di castagno tra loro fino a farne corone. Sognavo di fare vestiti completamente verdi appena rigati di nero dalle spine dei ricci. Sopportavo che mi entrassero nelle mani. Le corone erano perfette, ma fragili. Bastava una folata di vento e si decomponevano volando a caso nel castagneto.
A quet'ultimo i compagni portano sigarette e cioccolato, ma continua a disperarsi, pretende di vedere l'amico.
Poi un tenente assicura all`infermo che, l'indomani, il compagno trasferito verrà a visitarlo. Solo allora il ragazzo s'acquieta.
A metà settembre torna a Capalbio, per la sagra del cinghiale, carne fra le più fragranti.
Difende uccelli strani, bestie prossime a sparire, belve raramente acquattate. Partecipa a congressi dove si decidono soccorsi per pesci di lago e di fiume. Dice che in Calabria ha visto trote enormi in una vasca di cento metri per lato. Gli occorre una vasca uguale per allearci trote e cavarne mucchi di soldi.
Dice che è tardi, deve tomarsene a casa. Domani le tocca alzarsi presto per andare al lavoro.
Da vicino si scoprì trattarsi di un falchetto color grigio chiaro, il becco a uncino non lasciava dubbi sul rapace. Fu gettato tra le erbacce di un campo e amen, tutti a casa.
Questi racconta di essere venuto a Roma da un tale, conosciuto durante una festa in casa di amici, che si era offerto di ospitarlo per qualche giorno. Quel tale lo ha lasciato sulla porta d'ingresso, sostenendo di non averlo mai visto prima. Perciò lui s'è messo a cantare a squarciagola sotto le finestre del vigliacco, fino a notte tarda. E quello ha chiamato la polizia.
Telefona alla sorella del ragazzo, che rifiuta di assumersi la responsabilità.Da un parente, che torna spesso in paese, M. viene a sapere un poco della storia del ragazzo. A nove anni, lavorando con un muratore, cadde da un'impalcatura. Dopo un intervento al cranio cominciò a imparare prodigiosamente. Conosce otto lingue, ha superato con i voti più alti gli esami di maturità. Ha un fratello maggiore nato in manicomio. Anche la sorella della madre è stata per anni in manicomio. Gli zii materni sono sani. Di notte la nonna cantava e rideva da sola.
Il marito s'addormenta, a tavola, dopo il pranzo. Se russa lo sveglia e lo manda in terrazza a spandere i panni o al supermercato per il fabbisogno di domani. Il vecchio obbedisce ansimante, a volte bofonchia bestemmie. Lo sveglia anche di notte, per ricordargli che bisogna far sistemare le tegole prima delle piogge d'ottobre.
A settant'anni respinge le carezze del marito. Dopo che il figlio s è trasferito a Milano, sente di essere tornata libera. Finalmente puo abbandonarsi all'immaginazione, come da ragazza. Di nuovo può riempirsi di attesa.
Dietro le siepi dei viali un'infinità di piccole pietre grige tutte delle medesime dimensioni tutte appartenenti a qualcuno da cercare, seguendo come noi le indicazioni dei cartelli tra campi riquadri file numeri fino al giusto rettangolo di neve di Giuseppe, proprio il nostro sento che dico a mio padre curvo accanto a me, con il fiore che ci siamo portati dall'Italia.
Accompagno mio padre a ritrovare il fratello morto soldato nel '44.
A distanza e indietro c'è il sanatorio dove viene ricoverata a vent'anni. Indossa sempre la stessa giacca di lana a quadri ruggine e neri. La neve sferza la sdraio dove resta tutta la mattina con una borsa di acqua calda tra le gambe. Ha paura. Di nascosto si cuoce un uovo in un tegame. Tra la porta e il vento il gas stringe il tuorlo in un fuoco azzurro-rame.
A ottant'anni, racconta un sogno già sognato altre volte.
Torna a discorrere sullo zen, è lì che intravede la salute, certa dell'illuminazione finale. E ripete che la verità è nell'andare, nell'accettare i contrari, nell'indifferenza a morire.
Quando spariscono le chiavi o l'accendino, prima se ne lagna a voce alta, poi esce dalla stanza e conta fino a dieci. Quindi rientra e rivede gli oggetti perduti.
Il coperchio della scatola del ghiaccio, scomparso a maggio, lo ritrova in dicembre nello scomparto in alto del guardaroba, in mezzo alle coperte e alle candeline per l'albero di Natale. Non trova più in cucina il detersivo appena comprato. Lo ricompra due volte e due volte sparisce. La donna delle pulizie minaccia di abbandonare la casa abitata dai fantasmi. I tre fusti di detersivo riappaiono d'improvviso, nel bagno, al suo ritorno da una vacanza a Praga.
Vengono certo da umori segreti, da attenzioni a minimi segni: passi brevi, desideri inseguiti, attese bestemmiate, rabberciate bellezze. Lacerti di un mondo spiato, intravisto da un occhio corto.
La chiesa della Trinità è un piccolo edificio a navata unica appena fuori dal paese e poco distante dal camposanto. Quando vado a visitarla in un tardo pomeriggio immancabilmente ventoso e deserto, se si esclude la presenza malinconica di un asino in un recinto, vedo che dell'antica architettura settecentesca non resta nulla. Tutto è nuovo, di legno chiaro, da uno dei banchi per inginocchiarsi spuntano un paio di pantofole da casa e poco distante un telo bianco più simile a un asciugamano che a un paramento con la scritta ricamata “Trinità”. A questi dettagli se ne aggiunge un altro: la parete opposta all'altare è interamente coperta di ex voto: non cuori d'argento ma fotografie. Un immenso collage di visi e di corpi di epoche diverse, alcuni ancora vivi altri già morti, mescolati tra loro quasi sempre senza cognomi, solo i nomi, le date, le brevi frasi di invocazione o di ringraziamento.
Mi chiedo, osservando le foto più antiche, se tra quei nomi ci siano anche quelli le cui ossa andarono disperse nel trasporto dal vecchio cimitero a quello attuale, quando - come scrive un cronista del tempo - “migliaia di isolani sprofondarono nell'oblio” a causa della sepoltura usata allora. Le bare infatti venivano collocate su delle sbarre di granito e quando il legno marciva le ossa cadevano nello spazio sottostante confondendosi tra loro.
e al tempo stesso che questa fosse più simile a una poesia che a un monologo.
Per esempio, a volte vedo gli alberi del viale vicino a casa guarire del loro male; vedo a volte avanzare gruppi di adolescenti, come in un bosco, e vedo gli alberi al passaggio abbassarsi nuovamente...
Pensando a te ho scritto una poesia, per cercare di spiegare, una poesia a cui non so dare un titolo:
Invece non so niente di ciò che avverrà di me e di tutto questo insieme; forse il nostro cambiamento assomiglia a ciò che entra dal portone, a ciò che se ne va, a ciò che toma prima di una resurrezione.
I pezzi sono stati raccolti, quasi tutti in un primo momento, altri nel corso del tempo, a mano a mano diminuendo le proporzioni dei reperti. Dopo un mese in un anfratto del pavimento è comparso un vetrino trasparente, ma nessuno l'ha raccolto.
Quando mi stendo sul tappeto del salotto e guardo in alto, a volte c'è una mosca a volte un moscerino che volando descrive traiettorie stranamente geometriche, di colpo e di continuo svoltando con un angolo di solito acuto, e quello che è più strano è che tuttosi compie sullo stesso piano ideale: quello parallelo al soffitto e al pavimento dove sono io.
È successo che avevamo rinunciato a sognare, e a riconoscere il profilo e il colore delle cose. Attraverso di noi cresceva la stagione peggiore. Un principio di immobilità aveva assunto i connotati della concenlrazione. Pensavamo che rimanere all 'erta fosse necessaria per non farci trascinare dall 'onda della vita altrui. E restavamo fermi, e se qualcuno ci chiedeva: Tu cosa pensi ?, noi pensavamo che non volevamo pensare niente.
Ci sono piante che una volta strappate appassiscono subito.Così la menta cede la sua forza a chi la coglie, e forse non èun caso che tonifichi e rinfreschi. In questo caso la generosità è volontà di morte.La maggior parte delle piante invece qui resiste a lungo: settimane, soprattutto in acqua. Sono queste disperatamente recidive che ravvivano le stanze. Di queste si compiace la vista, anche se il nostro cuore batte per le prime.
Hölderlin corrispondeva a un nome spesso deriso. Scardanelli scardinava il passato.
Se il destino è nel nome, il mio sta impallidendo fino a spegnersi e forse si disfa: una sconosciuta in un posto sconosciuto.
Lui la respinge, lei gli si accuccia a fianco sul divano.
Anzi, dopo aver evitato per una premonizione dell 'ultimo momento la strage del 2 agosto 1980, a Bologna, il treno lo prendo solo verso Roma e molto, molto di malavoglia. Non era cosi da bambino, quando mi facevo accompagnare alla Stazione grande di Modena a veder sibilare i settebelli, trattenendo un minuto il respiro annientato dall'impeto di quel vento improvviso, e la voglia di tuffarmici dentro. Per di più, ho sempre abitato dirimpetto a uno scalo minore, la Stazione piccola, destinato ai trenini per Sassuolo. E lì dentro giocavo, certi giorni di primavera dei primi Sessanta, tra vagoni abbandonati, binari morti, depositi misteriosi e inaccessibili, traversine consunte dalle quali spuntavano sterpi, fili d'erba e sassi odorosi di catrame o di ferro. Mi accompagnava la sensazione di stare in bilico sulla prateria, nel buco di questa pianura che penso da sempre inflnita. Di lì a non molto, verso i dieci anni, ho sentito parlare la prima volta di Fossoli. E ha cominciato in me a scavare, molto prima delle mode e dei bilanci secolari, il tarlo di Auschwitz: prima di tutto il resto, un'esperienza ferroviaria priva di ritorno, della quale era stato senz 'altro colpevole - in quanto testimone muto - anche qualche ramo della mia discendenza, capostazione, casellante o semplice passante che aveva osservato, un mattino qualunque, quei vagoni attraversare la linea dell orizzonte, dal cortile o dalla strada di casa verso nord.
La sorella “signorina” del prete che «prega ancora per me» lascia detto a mia madre quando si incontrano a messa.
Il cantoniere che dopo cena fuma due sigarette, una all'andata una al ritorno della passeggiata e mi saluta sempre due volte, quando d'estate siedo sui gradini davanti a casa.