Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Galateo

180995
Brunella Gasperini 30 occorrenze
  • 1912
  • Baldini e Castoldi s.r.l.
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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Oggi anche al tipo più alieno dalla vita pubblica può capitare di essere coinvolto in qualche assemblea e sbalzato sul podio davanti a un gruppo di gente che per lui sarà sempre una folla immane, sia che si tratti di una riunione di condomini o di una sagra per i decreti delegati o di un dibattito al cineforum della parrocchia. Se avete qualcosa da dire, è giusto che la diciate, a volte è doveroso. Non abbiate paura di mostrarvi impreparati o di usare un linguaggio troppo semplice e casereccio: sarete molto più simpatici di quelle piovre dei dibattiti che si incontrano un po' dovunque, ansiosi di essere ascoltati e di ascoltarsi, esibendo un linguaggio che suppongono tecnico o dotto, zeppo di espressioni sindacal-politiche o pseudo intellettuali, («la poiesi», «l'analisi strutturalistica», «nella misura in cui», «a livello di», e così via). Questo non è un linguaggio dotto, è un linguaggio prefabbricato. Rendetevi conto che la maggioranza delle assemblee è fatta di gente come noi e preferisce sentire un linguaggio più familiare e spontaneo. Badate solo a non ripetervi, a non uscire di tema, e soprattutto a essere brevi. Le assemblee hanno un sistema nervoso molto labile: sono congenitamente portate alla distrazione, al chiacchiericcio, al baccanale, al sonno.

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«A tavola non si invecchia», si diceva una volta. In base a questo luogo comune i pranzi potevano durare ore e ore, tra portate decorative e vini gloriosi, senza le letali conseguenze descritte da Marco Ferreri. Oggi il gusto dello «stare a tavola» si è in gran parte perduto: se a tavola non si invecchia è per il motivo opposto, perché ci si sta troppo poco, e male. «Si mangia per vivere, non si vive per mangiare»: con quest'altro luogo comune si giustifica la fretta, l'incuria, la sciatteria dei nostri pranzi quotidiani. E poi c'è l'ossessione della linea, l'insufficienza epatica, il colesterolo, cui si aggiungono i moniti degli psicologi: mangiare molto è una nevrosi, ci si riempie lo stomaco per supplire a carenze di tipo psicologico-affettivo. Qui comunque non si parla di quanto si mangia, bensì di come si mangia. È logico che il galateo si adegui alle mutate esigenze: cose che alle tavole di ieri erano considerate eleganti, oggi sono inutili e affettate. Le regole conviviali odierne sono molto più elastiche e spontanee di un tempo, quindi star «bene» a tavola dovrebbe essere più facile. E invece i più stanno a tavola malissimo: per mancanza di allenamento, prima che di educazione o di gusto. Nessuna «buona maniera» funziona, se non nasce dall'abitudine. In altre parole, è un'illusione credere di potersi comportare come cavernicoli al desco quotidiano e di potersi poi trasformare in impeccabili convitati quando l'occasione lo richieda: sotto le posticce apparenze del gentiluomo sarà sempre riconoscibile l'uomo delle caverne. Lungi da me, comunque, l'intenzione di predicare l'educazione conviviale dal pulpito. L'unica regola che mi sento di riconoscere in pieno (non soltanto a tavola) è infatti: non infastidire il tuo prossimo. Ma come non infastidirlo? Le osservazioni che seguono non si riferiscono tanto alle buone abitudini da seguire, quanto alle cattive abitudini da perdere.

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Secondo il galateo classico, anche se dalla cucina arrivano orrendi scrosci di vasellame o sinistre nuvole di fumo nero, la signora dovrebbe continuare impavida a conversare, senza che l'occhio vacuo o la voce tremula tradiscano la sua angoscia. A me questo sembra eccessivo. È molto più normale che la signora dica: «Sarà meglio che vada a vedere cos'è successo», e ritorni poi con un resoconto il più possibile succinto, sdrammatizzato e si spera divertente degli eventi verificatisi in cucina. Una spontanea disinvoltura, oggigiorno, è molto più gradevole di una assurda impassibilità. Pranzi senza domestici. Sono sempre più frequenti, quindi le signore dovrebbero ormai essersi organizzate. E invece molte non lo sono, e probabilmente non lo saranno mai. Mi spiego. C'è la casalinga di ferro, che quando invita qualcuno a pranzo prepara manicaretti squisiti, ma ne rovina completamente la degustazione continuando ad alzarsi e sedersi, a mettere e togliere, a fare vertiginose spole tra la cucina e il pranzo, rifiutando categoricamente ogni aiuto, con scarso gaudio degli invitati, i quali preferirebbero mangiare magari peggio, essere serviti un po' meno, ma non assistere a questa affannosa corvée, e non sentirsi di conseguenza dei sultani serviti da un'affaticata schiava. Altre signore, al contrario, preferiscono rimanersene in ozio totale e mobilitare al proprio servizio gli ospiti: «Ornella cara, ci pensi tu a girare il risotto, mentre io prendo l'aperitivo?», «Dottore, sia bravo, apparecchi lei la tavola», «Sia carina, signora Giulia, porti in cucina i piatti sporchi: la lavatrice è a sinistra, entrando.» Ora, tutto questo può andare benissimo tra amici intimi e volonterosi; ma per altri può essere molto irritante, alla lunga. Se si ha intenzione di usare gli ospiti come camerieri o cuochi, bisognerebbe almeno preavvertirli, in modo che si sappiano regolare e, nel caso non siano portati al servizio domestico, possano sottrarsi abilmente all'invito. La signora moderna, se fa un normale invito a pranzo, sa che non deve comportarsi come una domestica nei confronti dei suoi ospiti, ma sa anche che non deve obbligare loro a far da domestici. Quindi, se fa un normale invito a pranzo senza colf, lo fa secondo alcuni semplici criteri: un menu adatto (molti piatti freddi); uno o più carrelli a portata di mano; l'utilizzazione intuitiva degli ospiti: la cui collaborazione sarà accettata, e al caso richiesta, solo per quanto riguarda la raccolta e il passaggio dei piatti, la stappatura delle bottiglie e altre piccole intuibili cortesie che gli invitati devono sportivamente disporsi a compiere. Non di più. Diverso è il discorso per le cene improvvisate. Succede che dopo una serata al cinema, a teatro o in casa di amici, a qualcuno venga fame e tutti decidano con fervore: la spaghettata! È un modo molto rilassante, simpatico e affratellante per concludere la serata (purché la padrona di casa non sia pignola: e la signora moderna non deve esserlo). Qualcuno apparecchia la tavola (qualche bicchiere rotto è in preventivo); qualcuno mette l'acqua sul fuoco («e il sale, ce l'hai messo il sale» Sì, ce l'ha messo, anzi si scopre che ce l'hanno messo in tre, bisogna buttar via tutto e rimettere su altra acqua, che forse stavolta non verrà salata da nessuno); qualcuno prepara la salsa (chi mangia in bianco viene maledetto da tutti, ma accontentato), qualcuno stappa le bottiglie, il formaggio non lo vuol mai grattare nessuno e bisogna tirare a sorte. Ma alla fine, salata o no, in bianco o con la salsa, con piatti di carta o di porcellana, con o senza bicchieri rotti, ecco gli spaghetti pronti in tavola (o anche senza tavola). «Sono scotti!» grida immancabilmente qualcuno. «Ma se sono crudi!» protesta di sicuro un altro. Non importa. L'importante è stare allegri. «Ingrasserò orribilmente», dicono le signore; e chiedono la seconda porzione. Buone maniere? E chi bada alle buone maniere per la spaghettata? Basta non mangiarla con le mani, ecco.

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Gli incidenti a tavola sono un po' come le gaffe in conversazione. Se non siete distratti, se non siete nervosi, se non bevete troppo, se non vi esibite in virtuosismi conviviali, le probabilità di incidenti diminuiscono. Ma non scompaiono. E quando capitano, la miglior cosa è minimizzarli. Non sprofondatevi in scuse esagerate, non lanciate grida di cordoglio («Sono imperdonabile! Vorrei sprofondare!» ecc.). Se vi capita di sporcare la tovaglia, non comportatevi come certi superstiziosi che davanti a una macchia di vino si comportano come sacerdoti pagani, compiendo tutta una serie di scongiuri e riti propiziatori: la padrona di casa preferisce provvedere lei, più tardi, a eliminare la macchia senza esorcismi ma col detersivo. Se vi va di traverso qualcosa, non tossite rovinosamente in faccia ai convitati, non abbandonatevi a impressionanti scene di asfissia: mettetevi il tovagliolo sulla bocca e cercate di rimettervi in sesto senza terrificare i convitati. I quali, dal canto loro, non stiano lì a guardare come se si trattasse di uno spettacolo straordinario (comico o drammatico), non lancino grida di allarme o compassione, non gli battano colpi sulla schiena, non gli dicano di guardare l'uccellino, non lo afferrino repentinamente rovesciandolo a testa in giù. A meno che non stia per asfissiare sui serio: nel qual caso, prima che muoia, sarà il caso di prestargli soccorso. Minimizzare va bene: ma non esageriamo. Se vi capita di rovesciare vino o salsa sul vestito della vostra vicina di tavola, non ridetene come di un grazioso scherzetto, la signora non lo apprezzerebbe; scusatevi con sincerità e rincrescimento, senza arrivare però alla cenere in testa. Le scuse esagerate sono più imbarazzanti che utili. In quanto alla vicina spruzzata, non la obbligheremo a ridere: ci basta che non ne faccia un dramma. Si asciughi, si rassetti (un po' alla svelta, grazie) e trovi la voce per dire «Non si preoccupi» con una larva di sorriso sulle labbra, anche se ha la morte nel cuore. Quando gli incidenti capitano agli altri, il galateo vorrebbe che i commensali non coinvolti fingessero di niente, guardassero accuratamente altrove, parlassero e si occupassero d'altro. Questo è ridicolo. Come si fa a far finta di niente quando c'è una tovaglia allagata, una signora innaffiata, un rovinio di vasellame rotto, un volo di pietanze, un tale che asfissia a un metro da noi? Un padre di mia conoscenza; in vista di un pranzo importante cui per la prima volta avrebbero preso parte i suoi terribili figli maggiori, allora adolescenti, li minacciò di severe sanzioni qualora, in caso capitasse un incidente a qualcuno degli invitati, si fossero messi a ridere o altro. «Tutto quel che dovete fare», raccomandò loro, «è occuparvi d'altro! Intesi? Occuparvi d'altro.» Accadde che proprio il padre, durante il famoso pranzo, mandò di traverso il vino: istantaneamente i due figli si alzarono e corsero a guardar fuori dalla finestra. Il che non contribuì a minimizzare l'incidente. Passato rovinosamente dalla tosse al riso, quel padre, che era molto più avanti dei suoi tempi, giurò che mai più avrebbe cercato di insegnare ai suoi figli «il galateo o altre fesserie del genere». E mantenne. Da allora, qualsiasi incidente succedesse a qualcuno dei suoi numerosi e movimentati figli, tutti in coro dicevano: «Occupati d'altro, papà». Lo diciamo ancora: è entrato nel lessico familiare, anche se sono vent'anni che lui non c'è più.

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A diverse più o meno vere signore del giorno d'oggi, che dovunque ci tengono a «distinguersi», questa regola appare inconcepibile. E invece è ancora abbastanza buona. Vediamo di interpretarla insieme.

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Un tempo le donne che guidavano erano pochissime, quindi oggetto di diffidenze e facezie a non finire. Oggi sono moltissime, a volte più brave degli uomini, e perciò odiate. Pazienza. A ogni modo, gentili signore, ricordate che una donna che siede al volante non ha solo il dovere di guidare benissimo, ma anche quello di rinunciare a tutti quei vantaggi (precedenze, indulgenze, favori) cui il sesso debole, secondo alcuni, avrebbe diritto. Dal momento in cui siede al volante, una donna smette di essere una donna per diventare un'automobilista femmina, creatura di sesso incerto e comunque infida. Ricordatevene, gentili signore. Rassegnatevi allegramente ad aver torto anche quando avete ragione, specialmente se avete ragione; e accettate con spirito il fatto che i più cavallereschi e galanti signori, quelli che quando siete a piedi vi cedono il passo, vi dedicano inchini e baciamani, non appena vi mettete al volante sono i primi a gratificarvi di compite e soprattutto moderne espressioni sul tipo: «Ma va' a fare il brodo!» Non risentitevi, gentili signore. Non rispondete per le rime. Sorridete. Proseguite. Ignorate. Sono le piccole rivincite dei poveri maschietti spodestati: fingere di non sentirle è la risposta più elegante, e la più crudele.

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Non pretendete che stiano zitti e fermi come mummie, ma abituateli a non cacciare strilli improvvisi, a non imitare a gran voce clacson e motori, a non scalciare, a non fare lagne. E vietate loro di sporgere testa e mani dai finestrini. Molti bambini soffrono il mal d'auto (e non tutti, anzi pochi, sopportano le apposite pastiglie). Fateli viaggiare sui sedili davanti, col finestrino un po' aperto; non incitateli a dormire, spesso è peggio; e non chiedete continuamente: «Stai bene? Stai male?»: è un richiamo pressoché certo al mal d'auto in agguato. Lasciateli stare, parlate d'altro, e se vedete che cominciano a sbadigliare e impallidire, fermate la macchina, fate fare loro un giretto, fategli mangiare qualcosa di solido (mai bere). Può darsi che funzioni e può darsi di no. È comunque conveniente abituare i bambini all'uso dei sacchetti di plastica, come in aereo. Dopo l'uso, aspettate a sbarazzarvi del sacchetto in un posto adatto, non in mezzo alla strada. Chiaro che a questi bambini l'automobile piace pochissimo. In compenso ce ne sono altri a cui piace moltissimo, in modo direi abnorme: piccoli mostri che a sei anni sanno tutto sui motori, le carrozzerie, gli accessori, la guida, riconoscono le marche e la cilindrata di tutte le auto che passano, ne recitano ad alta voce i pregi e i difetti con un linguaggio da tecnici consumati. «Che fenomeno», dicono i padri con orgoglio. Già, un fenomeno dei nostri tempi: a parer mio molto deprimente. Al posto di quei padri non ne sarei affatto fiera, ma piuttosto sgomenta. Va bene che i miti della nostra infanzia sono stati distrutti, ma per piacere non permettiamo che siano sostituiti dal mito dell'automobile: già in via di decadenza anche lui.

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Un posto a sedere è solo un posto a sedere: non un traguardo per cui battersi selvaggiamente, rischiando l'incolumità e la dignità personale. Se potete raggiungere un posto senza colluttazioni, spintoni, sgambetti, acrobatiche torsioni del busto e di quel che al busto fa seguito, bene. Altrimenti pazienza, starete in piedi: dopo tutto una persona sana e civile dovrebbe aspirare a qualcosa di meglio nella vita che a un posto a sedere in tram. A chi cedere il posto? Il galateo tradizionale dice che un uomo deve sempre cedere il posto a una donna, una persona giovane a una più anziana. Oggi, col livellamento dei sessi e delle età, si cede il posto solo agli invalidi, alle donne con un bambino in braccio, a quelle che visibilmente ne aspettano uno, alle anziane che siano inequivocabilmente e esplicitamente anziane, agli uomini che siano inequivocabilmente ed esplicitamente decrepiti. E basta. Naturalmente, se uno è proprio nato cavaliere... Ma ci vada piano con la cavalleria, perché può anche essere male interpretata. Comunque, l'uomo che cede il posto a una signora non si alzerà dicendo a gran voce, con gesto da moschettiere: «Prego, si accomodi!» E neanche le si fermerà davanti, statua del Vero Cavaliere, obbligandola a un regime continuato di gratitudine tranviaria. Si limiterà ad alzarsi con un breve cenno e si allontanerà subito. In quanto alle signore che restano in piedi, sono pregate di non lamentarsi, di non fare amari commenti sulla cavalleria che è morta, sui bambini che non hanno più educazione, e così via. Un uomo che torna da una giornata di lavoro, un bambino con una cartella più grossa di lui, possono essere più stanchi di una signora che è stata a far spese in centro, e avere più di lei diritto al posto. La storia del sesso debole, cosa volete farci, non funziona più. E a parte questo, non c'è come pretendere un posto per far passare a chiunque la voglia di cedervelo. La signora non più giovane non si varrà quindi dei suoi capelli grigi, forsanco tinti, per dire imperiosamente: «Tu, ragazzino, non ti vergogni a star seduto mentre c'è una signora in piedi?» o: «Giovanotto, non faccia finta di leggere e favorisca cedermi il posto!» Se è proprio anziana e proprio stanchissima, potrà dire a bassa voce: «Mi scusi, sarebbe così gentile da farmi sedere? Non mi sento molto bene». Anche il più screanzato dei giovani d'oggi, anche il più immerso nella lettura, non potrà non esaudire una così umile richiesta.

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L'inconveniente del taxi, tariffe a parte, sta nella difficoltà di trovarlo. Potete chiamarlo per telefono, ma nei giorni di pioggia e nelle ore di punta le linee sono intasate. Potete recarvi al posteggio più vicino; se, come spesso accade, il posteggio è povero di taxi e ricco di gente in attesa, rispettate le precedenze, senza tentare di fare i furbi: provochereste una sommossa. Se siete del tipo avventuroso, potete sperare di fermarne uno in corsa: ma guardate che abbia il segnale libero, prima di sbracciarvi, correre forsennatamente, lanciare grida superacute: «Taxi! Taxi!», e poi restare lì con aria stupida a guardare il taxi che vi sfreccia incurante davanti al naso, con a bordo un passeggero piccolissimo e sogghignante. Gli autisti del taxi dovrebbero aprire la portiera al cliente: a Roma lo fanno, a Milano stanno imparando a farlo; non spetta comunque a voi insegnarglielo. Se lo esigete, l'autista è tenuto a seguire il percorso che voi gli indicate. Tenete comunque presente che in genere l'autista conosce le strade, il traffico e i sensi vietati meglio di voi, e che, dato il sistema vigente, non ha nessuna convenienza ad allungare proditoriamente il percorso. Quindi, di solito, è meglio lasciar fare a lui, senza dire continuamente: «Ma perché gira di qui? Perché non è andato di là? Guardi che di lì era più corta...» Meglio non innervosire gli autisti. In taxi ci si comporta come ospiti: non si appoggiano sui sedili borse sporche, pacchi infangati, ombrelli zuppi. Non si fuma se c'è il cartello che lo vieta; anche se non c'è divieto, non si sparge cenere dappertutto, non si spengono le cicche per terra. Non si sbattono troppo forte le portiere. Se l'autista non vuol prendere a bordo il vostro cane, è nel suo diritto. Non fate discussioni: aspettate un autista cinofilo. Non è obbligatorio conversare con l'autista: ma se questo vi rivolge la parola, non rispondetegli con secchi monosillabi o grugniti. Date risposte concise, ma cortesi. Se al contrario siete voi che avete voglia di parlare, ed è l'autista che grugnisce, non prendetevela; forse è stanco, forse è nervoso, forse è scorbutico, pazienza: non soffocherete se starete zitti per un quarto d'ora. Se invece l'autista è un tipo estroverso, loquace e ricettivo, non lasciatevi trascinare a parlare di faccende personali. E mai di politica, come succede malauguratamente a me. Alla fine del percorso, pagate senza discutere (il tassametro non è un commerciante di tappeti), arrotondando la cifra.

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Se un ragazzo (gli adulti lasciamoli fuori) è moralmente e fisicamente attrezzato per farlo, l'autostop può essere non solo un modo economico di viaggiare e conoscere la gente, ma anche di imparare ad adattarsi e cavarsela da soli: cosa che a tanti figli di mamma nostrani può fare molto bene. Naturalmente si vorrebbe che gli autostoppisti, italiani o stranieri, oltre che prudenti (una ragazza sola preferisca macchine dove ci sia anche una donna) fossero puliti, allegri, beneducati, discreti: pronti a rispondere (magari a gesti se non sanno la lingua) alle domande di chi li prende a bordo, ma non ad attaccargli bottoni; pronti ad aiutare quando è il caso, a sorridere, a salutare, a ringraziare quando salgono e quando scendono. Si vorrebbe che lasciassero, in chi li ha raccolti, un'impressione positiva di loro e, per estensione, del loro paese di provenienza. Molti automobilisti nostrani, anche se hanno la macchina vuota, non si fermano mai a raccogliere l'autostoppista maschio, anche se visibilmente affaticato e supplichevole («E se ha i pidocchi? E se spaccia droga? E se è un terrorista?»), ma sono generalmente disposti a raccogliere un'autostoppista femmina e carina (come se una ragazza carina non potesse essere abbondantemente fornita di esplosivi, marijuana e parassiti). A costo di passare per sconsiderata, devo dire che durante le vacanze noi di famiglia abbiamo spesso dato passaggi a questi variopinti ragazzi con lo zaino e il pollice alzato, maschi o femmine, con o senza bandierina nazionale infilata nello zaino, con o senza chitarre, barbe e capelli fluenti; ci siamo sempre divertiti (spiegandoci in miscugli orripilanti di lingue), abbiamo imparato da loro cose che non sapevamo, e loro da noi; alcuni, a distanza di anni, vengono ancora a trovarci in Italia. Nessuno ci ha mai rapinati, contagiati, drogati, o è stato villano con noi. Qualcuno dirà che siamo dei fortunati incoscienti. Può essere. E infatti siamo i primi a dire che, se non si ha simpatia per gli autostoppisti, o se ne ha paura, è molto meglio lasciarli a terra: anche perché, una volta che si ha un ospite a bordo, bisogna trattarlo con cordialità e fiducia, non con nervosismo o sospetto. Se per qualsiasi motivo un autostoppista non vi ispira fiducia, tirate dritto senza rimorsi: se è arrivato fin lì, se la caverà anche senza di voi. È largamente nel vostro diritto non accogliere sconosciuti nella vostra auto, neanche durante le vacanze: però è inutile che vi giustifichiate dicendo che tutti gli autostoppisti sono pezzenti, tossicomani, delinquenti. Tra quelli che abbiamo raccolto noi ricordiamo, per esempio, un professore universitario (americano), un missionario (francese) e un architetto (svedese) molto ricco, che viaggiava in autostop non già perché fosse tirchio, ma perché voleva fare esperienze nuove e dirette: viaggiando da ricchi, diceva, non si conoscono veramente né i paesi, né la gente, né i loro usi genuini: i grandi aerei e i grandi alberghi sono uguali in tutto il mondo.

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In un albergo di lusso come in una modesta pensione, il comportamento di una persona normale è simile a quello che si terrebbe se si fosse ospiti di conoscenti non troppo intimi. Il fatto che si paghi non autorizza nessuno a fare i propri comodi, a ignorare orari e esigenze di servizio, a conversare ad alta voce nei corridoi, a camminare sbatacchiando zoccoli, a far scrosciare l'acqua del bagno o della doccia nelle ore del riposo, a buttare cenere e cicche per terra, a sentire la radiolina in ogni ora del giorno e della notte, a spargere olio solare e sabbia in ogni dove. Se vi fermate in un albergo per le vacanze, non isolatevi tipo principe in incognito o ricercato dall'Interpol, come fanno certuni che rifiutano ogni contatto, dialogo, sguardo con gli altri ospiti, e lasciano capire con tutto il loro atteggiamento che solo per caso si trovano in quell'albergo così scadente, in quel posto così indegno di loro. Se l'albergo non vi va, se il posto non è degno, andatevene. Se non ve ne andate, smettete questo ridicolo atteggiamento. Incontrando nei corridoi, nei soggiorni, in sala da pranzo altri ospiti dell'albergo, salutate sempre: buongiorno, buonasera, sorriso. Coi vicini di camera e di tavola, potete anche scambiare qualche parola, sempre che la vostra iniziativa risulti gradita. La cortesia è normale, la cordialità è simpatica, la familiarità può essere temeraria.

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Oppure fateli mangiare a parte. Non tutti gli ospiti amano mangiare in una bolgia di bambini vociferanti. Lasciate un po' di libertà ai vostri figli: non assillateli con troppe apprensioni e proibizioni. Ma neanche immergetevi nel bagno di sole, occhi orecchie e cervello in disarmo, limitandovi a gridare ogni tanto «Bambiiiini!» o a chiamare i nomi dei figli con voci tanto acute quanto meccaniche e indifferenti, mentre i figli continuano, come è logico, a fare quel che stanno facendo. Gridate meno (c'è già tanto rumore) e agite di più. Se i bambini stanno facendo giochi o pericolosi per loro o fastidiosi per gli altri, coraggio, alzatevi e intervenite, distraendoli con decisione ma anche con buonumore; mai con sberle e scenatacce, per piacere, o sareste molto più fastidiosi voi dei vostri figli. E quando invece siete voi a essere infastiditi dai bambini altrui? Se uno o più bambini insistono a sconfinare nel vostro spazio, a calpestarvi piedi, borse e occhiali, a buttarvi sabbia addosso? Per un po' lasciate correre. Poi dite loro con fermezza: «Non fare così!» Se non basta, chiedete con gentilezza.

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Non chiedete favori («mi guarda mezz'ora il bambino mentre scendo a far la spesa?»). Evitate di chiedere prestiti (mezzo limone, un dado, i fiammiferi, ecc.); se una volta, per un caso che non si ripeterà, siete costretti a farlo, restituite il tutto con abbondanza e rapidità. Rumori. Non fate correre l'acqua nel bagno dopo mezzanotte. Non tenete il televisore o il giradischi al massimo volume. Non camminate avanti e indietro, con gran batter di tacchi, sulla testa degli inquilini di sotto. Se una sera ricevete amici e prevedete un po' di baccano, chiedetene preventivamente scusa ai vicini; moderate comunque il chiasso dopo la mezzanotte. Se siete voi a essere disturbati da vicini chiassosi, non pestate nei muri. Non urlate: «Andate a dormire, incoscienti!» Men che meno presentatevi, magari in vestaglia e bigodini, a fare scene drammatiche che ai bigodini non si addicono. Le prime volte, portate pazienza. Indi pregate, con molte scuse, di limitare il chiasso, perché avete da lavorare, perché siete stanchi, perché soffrite di mal di testa, eccetera. Se non ottenete niente, fate una discussione più approfondita, ma sempre pacata, qualche giorno dopo. Se gli schiamazzi notturni continuano, non vi resta che avvertire il padrone di casa, o il consiglio dei condomini: senza ottenere niente lo stesso. E allora? E allora, si spera che non abbiate vicini così. Finestre e balconi. Potete affacciarvi alla finestra o sostare sui balconi per godervi il sole (non nudi), per innaffiare i fiori (senza sgocciolare di sotto), per battere i tappeti (solo nelle ore lecite); non per sbirciare nelle finestre dei vicini, per chiamare a squarciagola chi passa di sotto, per intrecciare altisonanti conversazioni con altre signore o cameriere del casamento. Scale. Non fermatevi a chiacchierare sui pianerottoli o per le scale. Ma salutate sempre tutti quelli che incontrate; rivolgete un cenno o un buongiorno anche a quelli che non conoscete. Ascensore. Se l'ascensore non arriva alla chiamata, non arrabbiatevi subito, pestando pugni e calci nella porta e urlando «Ascensore! Ascensore!», come gridereste al fuoco in caso di incendio. Non fate gare con l'inquilino di sotto o di sopra per arrivare primi a schiacciare il bottone e soffiargli la baracca. Se, entrando in ascensore, vedete qualcuno che arriva, aspettatelo civilmente. Non sbattete fragorosamente la porta: specialmente di notte. Non tenetela abusivamente aperta per comodo vostro o dei vostri familiari: nascerebbero rappresaglie scomode per tutti. Portinai. Ricordatevi di dar loro la mancia a Natale, Pasqua, Ferragosto: è fatale. Salutateli sempre per primi, fermatevi pure un momento a scambiare qualche parola; ma non parlate dei fatti vostri e assolutamente mai di quelli dei vicini. Bambini. Non lasciateli urlare, scorrazzare e saltare in casa per troppe ore filate, con scarso gaudio del vicino di sotto. Insegnate loro a non scendere le scale a rompicollo facendo rimbombare la casa, a non cantare, a non gridare, a non giocare per le scale. A non seminare cartacce e cicche americane usate. A salutare le persone che incontrano. A non usare l'ascensore per divertimento; a non decorarlo di scritte e disegnini. Cani. In quasi tutte le case cittadine il regolamento vieta di tenere cani, e in quasi tutte le case cittadine ci sono inquilini che hanno il cane. Se voi siete tra questi, fate in modo che il cane assolutamente non disturbi. Se un cane è maleducato, la colpa non è sua, è dei suoi padroni. Non entrate col cane in ascensore, se ci sono altre persone. Insegnategli a non abbaiare sconsideratamente, a non far festa saltando addosso alla gente, a non rompere le calze della vicina, a non addentare le caviglie ai postini, a non fare pazzi caroselli per le scale, e così via. Per insegnargli tutto questo non occorre picchiarlo (picchiare un cane è sempre stupido e ingiusto): basta sgridarlo con voce severa e dito alzato ogni volta, ma proprio ogni volta che fa una cosa sbagliata (sbagliata per voi, ovviamente, non per lui). La sgridata diventerà più efficace se lo minaccerete agitando un giornale: tutti i cani, in questo più saggi di noi, hanno paura della carta stampata.

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L'andazzo delle poste, per cui oggi imbucare una lettera è un po' come affidarla a un piccione viaggiatore lunatico, ha dato un ulteriore incremento al già incrementato telefono. Le linee straripano, i contatti infuriano, le bollette raggiungono cifre iperboliche, ma tutti continuano a telefonare, telefonare, telefonare come pazzi. Il telefono oggi assomma, interpreta e simboleggia le migliori e le peggiori caratteristiche del nostro tempo: ansia, velocità, progresso, comodità, meccanicità, indiscrezione, aridità, noia, pigrizia, fretta, angoscia, invadenza, paura del tempo, paura di se stessi, solitudine. Adorato e maledetto, temibile e indispensabile come tutti i grandi protagonisti, il telefono, di per sé, è uno strumento del tutto innocuo: siamo noi che ne facciamo, troppo spesso, un uso detestabile. Invece di maledirlo, impariamo a non lasciarcene condizionare e a non servircene per condizionare gli altri. Amen.

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Se la cosa rischia di diventare un'abitudine, siete autorizzati a difendervi decisamente: «Sì, a quest'ora dormo sempre», «Sì, a quest'ora sono sempre a tavola. Ti dispiace chiamarmi in un altro momento?» Secondo le regole, non si dovrebbe mai chiamare nessuno prima delle nove del mattino e dopo le dieci di sera: ma anche questa è una regola che ormai vacilla, la gente ha orari strani, cercate di informarvi e di adeguarvi caso per caso. Solo una situazione d'emergenza potrà indurvi a chiamare una persona mentre presumibilmente dorme o mentre la sapete immersa in un lavoro urgente.

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Le persone molto importanti, o molto occupate, o che ci tengono a sembrare tali, usano spesso far chiamare la gente dalla segretaria o dalla domestica: questo sistema, che non è gentile in caso di telefonate private, è abbastanza normale per le telefonate di lavoro: purché colui che fa chiamare si tenga pronto a prendere il ricevitore non appena la segretaria avverte che la persona cercata è in linea. Anche se siamo importantissimi e occupatissimi, non siamo autorizzati a far aspettare in linea per più di due minuti (son già molti) una persona che abbiamo fatto chiamare noi. Fosse pure un «inferiore». E non valgono le giustificazioni tipo: «Scusa, sai, ma sono preso fino al collo». Se è così, aspettate a chiamare la gente quando avete il collo libero.

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A parte che nessuno ne spedirebbe più (e questo non sarebbe un gran male), oggi una persona normale che ricevesse una cartolina di saluti pudicamente avvolta in busta chiusa la girerebbe con curiosità da tutte le parti per cercar di scoprire il perché di tanta segretezza. Che cosa si scrive sulle cartoline? C'è chi riesce a scriverci dei mezzi romanzi, girando e rigirando la scrittura in tutti i sensi, talché decifrare il testo diventa una specie di gioco enigmistico. Se avete tante cose da dire, meglio dirle per lettera. Le cartoline non si addicono ai lunghi messaggi; né agli sfoghi, ai pettegolezzi, agli scherzi salaci: non è il caso di coinvolgere nelle facezie postini e portieri. Le cartoline servono solo a mandare dei saluti, generalmente turistici: vi consigliamo comunque di non mandarne troppe, da ogni tappa che fate, tempestando di monumenti, luoghi esotici e vedute panoramiche i poveretti che sono rimasti a casa a lavorare. Come devono essere i saluti? Come vi pare: cordiali, affettuosi, possibilmente non cari (cari a chi?), e si spera non distinti. Ma basta anche la firma, il saluto è sottinteso.

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Una volta si scrivevano a macchina solo le lettere d'ufficio, a mano tutte le altre. Oggi la regola è molto ammorbidita: se si scrive una lettera molto lunga, spesso è meglio scriverla a macchina: non solo per chi la scrive, ma anche per chi la riceve. Ci sono però ancora persone, ligie all'antico galateo, per le quali una lettera scritta a macchina equivale a una mancanza di riguardo. Per conto mio è assai più irriguardosa una lettera scritta con una grafia indecifrabile o comunque faticosa. Se scrivete a mano, comunque, non fate come tanti, che cominciano le lettere con una calligrafia pressoché normale e poi, via via che la missiva si allunga e la mano si stanca, i caratteri si appiattiscono, si deformano, la grafia si fa gradatamente squinternata e incomprensibile. Intendiamoci: non importa affatto che la calligrafia sia bella o brutta, importa solo che sia chiara: costringere una persona a rovinarsi gli occhi e lambiccarsi il cervello per decifrare i nostri scritti non è gentile. Ve lo dice una che ha quotidiane tristi esperienze in proposito. Scrivete con spazi e margini ragionevoli, con inchiostro decente, con tutte le correzioni che volete, purché chiare; e senza troppi richiami, postille, aggiunte di frasi perpendicolari al testo già scritto (come fanno i matti: anche di questo ho tristi esperienze). Non fate troppi post scriptum. Soprattutto, non scrivete nel post scriptum, fingendo che sia venuto in mente per caso, l'argomento che vi preme e che vi ha spinto a scrivere la lettera: sono astuzie trasparenti, non ci casca nessuno.

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A parte le lettere ufficiali, d'etichetta, o commerciali, la corrispondenza oggi non ha e non deve avere delle regole: il linguaggio in una lettera è tanto più elegante, simpatico e attuale quanto più si avvicina al linguaggio parlato. A «parla come mangi» oggi si aggiunge «scrivi come parli». Niente schemi fissi, niente formalismi, niente ricerche stilistiche, (per me oltremodo irritanti) niente lettere simili a temi in classe o a esercitazioni pseudoletterarie. Una lettera è una lettera, non un saggio. Usate il meno possibile le maiuscole, i punti esclamativi, i puntini di sospensione, tutte cose enfatiche e antiquate.

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Non si scrivono mai, a nessuno, per nessuna ragione. Nemmeno per il cosiddetto «buon fine». Il buon fine, tra persone intelligenti e civili, si affronta a viso aperto. Oppure non si affronta per niente.

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A volte si è così inferociti (per un trattamento scortese, un'accusa ingiusta, una menzogna, una calunnia, una delazione, altre migliaia di cose) che par di scoppiare se non si scrive una lettera di protesta. E va bene, scrivetela, vi servirà a sfogarvi. Ma date retta: non speditela subito. Rileggetela due ore o due giorni dopo, a freddo: troverete molte cose da correggere, smorzare, o togliere del tutto. Forse non la spedirete più. O forse ne spedirete un'altra, un ben calibrato saggio di «dignitosa ironia» e non quell'escandescenza scritta che poi vi costringerebbe forse a scrivere di nuovo: per scusarvi, stavolta.

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I ricevimenti nuziali classici sarebbero tre: il buffet in piedi, che può assomigliare a un cocktail sostanzioso, ed è il meno noioso dei tre. La colazione a tavolini, che vede al tavolo centrale gli sposi coi loro amici, ai tavoli vicini gli altri, alternati secondo buonsenso, affinità o caso. Noiosità media. La colazione a tavolo unico, (a ferro di cavallo, di solito, ma se è rettangolare fa lo stesso): gli sposi siedono al centro, e il galateo gli affibbia come vicini i suoceri, i testimoni anziani e i parenti di riguardo. Seguono gli altri come capita. Noiosità massima. Oggi si tende, sensatamente, a lasciare gli sposi accanto ai loro amici giovani, e gli adulti mescolati agli adulti: il che non elimina la noiosità, ma spesso la attenua. Brindisi. La torta tradizionale, se c'è, viene portata a fine pasto, e servita con lo champagne. È il momento fatale dei brindisi: che ci auguriamo brevi e senza discorsi. I discorsi nuziali, dopo un pranzo sostanzioso e tanto buon vino, sono un grave rischio: o vanno sul patetico, con grave imbarazzo dei giovani e mio; o vanno sul prolisso-ermetico, tra sbadigli e palpebre pesanti; o vanno sul faceto-scollacciato, che è quanto di peggio possa capitare. Niente discorsi, grazie. Dopo i brindisi, gli sposi tradizionalmente fanno il giro degli invitati offrendo qualche confetto a ognuno. Indi se ne vanno all'inglese. Stanchi morti ma, si spera, contenti lo stesso. Agli sposi nuovi noi comunque auguriamo, fervidamente, di riuscire a evitare il ricevimento-rinfresco, o di organizzarlo a modo loro dove come e quando vogliono: se occorre in segreto.

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In quanto a quelli che insistono a chiedere alle spose, in tono allusivo: «E allora, ci sono novità? A quando le novità?» proporrei la fucilazione sul posto. Se una donna aspetta un bambino, sarà lei a decidere quando, come e a chi dirlo. (Dirlo, e non «comunicarlo» tipo annuncio o bollettino). Il controgalateo si limita ad augurarsi che le spose d'oggi evitino le tremende frasi perpetrate dalla peggior tradizione rosa («Tra poco, amore mio, saremo in tre»; e se poi fossero in cinque? giusta punizione); che evitino i languori-con-sottinteso, le frasi sibilline, i quiz coniugali, il golfino azzurro esibito all'improvviso come il coniglio del prestigiatore; e non si aspettino che sposo, parenti e amici restino folgorati dall'annuncio o si abbandonino a scene di tripudio. Una notizia lieta e commovente, quando lo è, lo è tanto di più se viene data e accolta con semplicità. Senza squilli di fanfara o esagerati pudori: entrambi anacronistici. E guai (ci riferiamo in particolare agli amici e colleghi del futuro padre) guai a chi fa commenti vieti o, Dio guardi, salaci. Semplicità non vuol dire, beninteso, brutalità, impudicizia, ostentato cinismo. Sparare la notizia al marito davanti a cinquanta persone, in termini crudi o «spiritosi» non è segno di disinvoltura e modernità ma di snobismo o di insicurezza: spia di vecchi tabù esorcizzati con l'arroganza.

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C'erano però delle eccezioni; in particolare, per la strada l'uomo non doveva salutare per primo la signora, anzi doveva fingere addirittura di non vederla, in quanto: 1) la signora poteva trovarsi in quella via per recarsi a un appuntamento clandestino; 2) la signora poteva non gradire che i passanti la vedessero scambiare saluti con un uomo. Cosicché il gentiluomo doveva se mai aspettare che fosse la signora a salutarlo per prima, o a sorridergli invitandolo al saluto, il che significava: «Sono una donna evoluta e moderna, perciò ti concedo di salutarmi». Ovvio che questa eccezione è ormai defunta, sepolta dal ridicolo e dall'emancipazione femminile. Ma anche la regola si può considerare defunta. In base alla concezione moderna del saluto, che non è, ripetiamolo, una forma di omaggio o di confidenza, ma di elementare cortesia, oggi tutti devono salutare per primi, cioè subito e spontaneamente, senza stare a cavillare sulle precedenze, sui sessi, sui gradi, sui tocca a me tocca a te. Tra persone normali, il saluto è contemporaneo.

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Se per la strada, o in un luogo pubblico, si incontra un conoscente (maschio o femmina) accompagnato da una persona dell'altro sesso, forse non sospetta, comunque a noi sconosciuta, sarebbe maligno andargli sotto il naso dicendo con voce stentorea e confidenziale: «Ehi, ciao!» Sarebbe anche stupido, però, restare lì pietrificati come se l'amico (l'amica) fosse un fantasma, o scantonare in fretta, o passargli vicino voltando la testa per non guardarlo. Una volta che lo si è visto, lo si saluta: con un normale sorriso, un cenno della testa o un sobrio buongiorno, ciao. E non ci si offende se, eventualmente, non si è ricambiati. Se però siete voi la persona accompagnata, vi esortiamo a ricambiare sempre, udibilmente e cordialmente il saluto, anche se (soprattutto se) la persona che vi accompagna è un partner geloso, possessivo e sospettoso: mai dar corda a queste tendenze, tanto grette quanto pericolose. Se oggi, per amore del quieto vivere, rinunciate a salutare gli amici, domani vi ritroverete in catene. E le catene, a parte tutto, sono fuori moda.

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A questo punto Gigi comincia a piangere, sua madre a sculacciarlo, e la signora a desiderare acutamente di essere altrove. Mettetevi in mente, madri, che la principale aspirazione dei vostri conoscenti non è quella di venir salutati dai vostri figlioletti; e che tutti quanti preferiscono di gran lunga rinunciare a questo onore che essere l'involontaria causa di una scena del genere. Le lezioni di saluto, gli insegnamenti, le opere di persuasione vanno fatte (se volete farle) sempre e comunque in privato. Se il vostro bambino, nonostante le lezioni, insiste a non voler «salutare la signora», potrete anche sgridarlo: ma dopo, per piacere, dopo! Per contrasto, ci sono bambini così condizionati che al primo fatidico invito materno «Saluta i signori, Peppino», scattano come fossero caricati a molla, si inchinano, fanno la riverenza o il baciamano (a seconda del sesso) e recitano identici stereotipati convenevoli a tutti i presenti: i quali, lungi dal lusingarsene, vivamente si augurano che gli si rompa quella maledetta molla e che ricomincino a essere bambini, non scimmiette ammaestrate, non fantocci di cui le madri muovono rigidamente i fili. A questi compitissimi Peppini io preferisco di gran lunga i recalcitranti Gigetti. Questione di gusti? Anche. Ma la caratteristica essenziale (e la più amabile) dell'infanzia è la spontaneità: e non mi si venga a dire che è spontaneo per un bambino baciare la mano a vecchie signore e recitare convenevoli a memoria. Nessuna madre aggiornata dovrebbe insegnarglielo. I bambini oggi devono essere naturalmente disinvolti, o timidi, mai saccenti, condizionati, repressi. Fino all'età di un anno circa, possono salutare con la manina se ne hanno voglia o non salutare affatto se non ne hanno: è loro sacrosanto diritto. Fino a quattro o cinque anni possono dire «Ciao» e basta: anche ai vescovi e ai capi di stato. Dopo, si potrà cominciare ad abituarli gradatamente, senza insistenze e pignolerie, a dire «Buongiorno», poi «Buongiorno signora», infine a stringere la mano come si deve.

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Gli inviti di oggi, che nascono spesso da un momento all'altro e non di rado a vanvera, si fanno generalmente a voce, perlopiù al telefono. Che sia meglio, che sia peggio, non è il punto: la realtà è questa. E a me personalmente va benissimo. Solo nelle occasioni ufficiali o comunque molto importanti oggi si diramano gli inviti su cartoncini stampati: per esempio in caso di matrimonio (ne parliamo a parte), o in caso di ricevimenti in grande stile, pranzi d'etichetta, inaugurazioni ufficiali, anteprima di gala, lanci di prodotti o di personaggi, e così via: e di questi non parliamo per niente, presumendo che chi organizza ricevimenti siffatti sappia, o abbia sottomano chi sa, come si redigono questi inviti. Che sono comunque tanto più eleganti quanto più semplici e chiari. Oggi il buonsenso e il buongusto inducono a ridurre al minimo le sfilate di titoli nobiliari, accademici, onorifici, a evitare espressioni come «hanno l'onore e il piacere di invitare», «la Signoria Vostra» (illustrissima o meno) e altre assurde ridondanze. La disinvoltura è più elegante della pompa. Solo se il cartoncino dell'invito porta in calce la classica sigla RSVP (Répondez s'il vous plaît: internazionalmente, «si prega di rispondere»), l'invitato civile è tenuto a far noto, sia pure per telefono, se può o non può accettare l'invito: chi invita ha evidentemente bisogno di sapere a quante e quali persone, così a un dipresso, dovrà offrire da sedersi, da mangiare, da bere e, chissà mai, da divertirsi.

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- Quando l'ospite arriva, non trascinatelo subito, stanco e frastornato dal viaggio, a visitare tutta la casa, il giardino, i possedimenti. Accompagnatelo nella stanza o nell'angolo di stanza che avete preparato per lui, mostrategli i cassetti, i ripiani degli appendiabiti a lui destinati, indicategli dove sono gli interruttori, dov'è la stanza da bagno, indi lasciatelo solo per un po' a rilassarsi e a sistemarsi liberamente. - Al mattino, non piombate a ore antelucane nella stanza dove l'ospite riposa, né lasciate che vi irrompa la domestica con scope e lucidatrice. - Non ditegli: «Fa' come se fossi in casa tua», esortazione che serve solo a ricordargli ancor meglio che non è in casa sua, ma in casa vostra. - Accettate pure qualche aiuto dall'ospite, senza trasformarlo in baby-sitter, lavapiatti, fattorino. - Cercate di farlo mangiare bene, ma senza rimpinzarlo, senza insistere, senza disperarsi se una pietanza non gli va bene. Gli andrà bene la prossima. E se neanche la prossima gli va bene, offritegli formaggio o uova e lasciate un po' che si arrangi, quella piaga. - Non abbandonate l'ospite a se stesso («io sto fuori tutto il giorno, fa quel che ti pare, ciao») ma non assillatelo con le premure: «Cosa vuoi fare? Stai comodo? Vuoi più luce? Ti metto una coperta sulle ginocchia? Sei certo di star bene? A cosa pensi? Hai l'aria stanca, come mai?» Come potrebbe non avere l'aria stanca con un trattamento del genere? - E infine non assumete, neanche se l'ospite è un ragazzo, un piglio militaresco («Svegliarsi! Alzarsi! Si va a tavola! Si esce! Si va a letto!»). L'ospite non è una recluta, e non è un bambino bisognoso di cure. È un amico che passa qualche giorno in casa vostra: lasciate che si senta libero (di sedersi, di alzarsi, di uscire, di dormire, di tacere). Non libero di fare i propri comodi infischiandosene delle esigenze di chi lo ospita: c'è sempre un modo (magari scherzoso, sempre amichevole) di far capire a un ospite indiscreto che la nostra casa non è un albergo e noi non siamo elettrodomestici.

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Oggi, in base a quel fenomeno di elefantiasi che ha investito la società e il costume, i trattenimenti o pseudotali sono molti di più, come genere e come numero; mentre le regole, sempre più elastiche e fluttuanti, tendono a mescolarsi e a confondersi.

Pagina 84

Il deprecabile diminutivo stava a sottolineare la modestia dell'evento: cioè un incontro tra il lavoro e la cena per fare quattro chiacchiere, ma non più di quattro, in quanto era inteso che ognuno poi cenasse per conto proprio. Oggi invece, il più delle volte, la riunione-aperitivo in casa dell'uno o dell'altro funge da preludio a un altro programma comune per la serata (metti, cena al ristorante e poi cinema o teatro, o viceversa). Si offrono diversi tipi di aperitivi, semplici o diluiti o mescolati a piacere, alcolici e non, con contorno di olive, mandorle salate, stuzzichini vari. Se non si è molto in confidenza, sono i padroni di casa a mescere. Se si è in confidenza, ognuno può versarsi il suo aperitivo da sé e servirsi di stuzzichini senza aspettare l'invito, ma senza farne scorte o rovesciarsene in bocca a manciate.

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Le buone usanze

195637
Gina Sobrero 2 occorrenze
  • 1912
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • paraletteratura-galateo
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A quelli che vivono in un'altra città la partecipazione si manda anche il più presto possibile. A queste partecipazioni sono inutili e affettati gli orli neri troppo alti; per una moglie o un marito devono avere l'altezza di un dito, più piccoli per padre e madre, piccolissimi per i fratelli e congiunti di qualunque grado. L'annunzio di morte di un bimbo non porta l'orlo a lutto. Nelle partecipazioni vanno nominati i parenti più prossimi dell'estinto, e la formula cambia secondo i casi. Vi si mette però sempre l'età del morto, la data del funerale, la chiesa dove avrà luogo la funzione, il luogo di partenza del corteo. Le corone, i fiori per il feretro vanno di tinte violacee, brune per gli adulti, tutte bianche per una giovinetta, a colori gaj per un bambino; la chiesa non suona a morte per la partenza di un angiolo; bisogna intonarsi, in questo caso, al sentimento religioso. Veramente le donne della famiglia, figlie, madri o sorelle, non seguono il feretro, gli uomini sì; ma a poco a poco si introduce l'uso gentile che se si tratta di una signora, anche le amiche l'accompagnano almeno fino alla chiesa; e allora è necessario che la famiglia faccia trovare pronta qualche carrozza per chi non può far la strada a piedi. Però i funerali cattolici in Italia si seguono generalmente a piedi, mentre in America vanno tutti in vettura. Incontrando un funerale i veicoli si fermano, gli uomini si scoprono, le donne s'inchinano. Alla porta di casa del morto, nell'ora del funerale, sta un individuo incaricato di raccogliere su di un vassoio i biglietti di visita di coloro che sono venuti al funerale, o hanno mandato i domestici e i fiori. A questi biglietti, come a tutti gli altri giunti per la posta, i superstiti rispondono con un biglietto stampato a lutto e colla scritta "La famiglia riconoscente ringrazia,, . Alle lettere di condoglianza si può far aspettare qualche giorno la risposta: naturale che chi ha perduto recentemente una persona cara, non abbia voglia di imporsi la fatica dello scrivere. Terminata la triste funzione del funerale, la vita riprende le sue esigenze, e bisogna pensare al vestito da lutto. Per le vedove il lutto dura due anni: sei mesi esse portano il lunghissimo velo, che ricade davanti fino a mezza gonna, e di dietro fino quasi a terra: lo scialle a punta, l'abito di crespo o di thibet, senza alcuna guernizione; dopo i sei mesi il velo è più corto, ma continua a portarsi lo scialle invece del mantello. Finito l'anno, al crespo si sostituisce la garza, la grenadine opaca: il velo prende le consuete proporzioni, ed è ammessa qualche guernizione che una vedova giovane può portare in bianco, in viola, in grigio; ella può riprendere i brillanti, ma non le gemme colorate. Se si rimarita, appena finito l'anno tronca il lutto e segue la moda. Per i genitori il lutto grave è di sei mesi, e sei mesi dura il cosidetto mezzo lutto, come pure per i suoceri. Per i nonni, sei mesi in tutto; per le sorelle ed i fratelli, e per i cognati, due mesi di lutto pesante, quattro di mezzo lutto; per gli zii quaranta giorni di lutto grave; pei cugini sei settimane di mezzo lutto. Ciò che costituisce il mezzo lutto non si può stabilire: l'abito è lo stesso di quello con cui si è fatto il lutto grave, ma lo si attenua con un nastro viola, grigio, o anche bianco, un mazzo di viole o candidi fiori sul cappello. Per i genitori il lutto ai figli non è obbligatorio, ma lo esige la voce del cuore. Anche se il parente morto sia in un'altra città, dura il dovere del lutto. Per un lutto a un parente lontano si può anche limitarsi a mettere una fascia di crespo al braccio sinistro, è una conseguenza naturale dell'uso di dar garbo maschile alla toeletta delle signore: e si può anche adottare per un mezzo lutto. I servi di una famiglia colpita dalla morte vestono in nero. Per la morte del padrone e della padrona di casa si fanno verniciare in nero le carrozze e si cambia pure in nero la livrea. Per la morte dei sovrani molte signore mettono il lutto che dura più o meno a seconda dei sentimenti di devozione, o secondo le cariche che si occupano. La carta da lettera, i biglietti di visita, i fazzoletti, si debbono listare a nero, più o meno, a seconda della parentela. Alcuni oggetti si possono portare anche durante il lutto, per esempio le pelliccie: sono oggetti di gran valore e di utilità e non si può pretendere che nel cuore dell'inverno una signora non molto ricca rinunzi alla sua calda pelliccia, o si decida di acquistarne un'altra. Per gli uomini il lutto pesante è in panno nero opaco, la fascia sul cappello, la cravatta nera, i guanti, le scarpe nere, il fazzoletto orlato di nero; quest'ultimo segno però tende a scomparire. Il mezzo lutto consente la cravatta bianca, panciotto bianco, il soprabito di colore, colla fascia al braccio. In lutto grave non si va a balli, a teatri, a qualunque riunione pubblica: si evitano le passeggiate troppo frequentate, e tutto ciò che costituisce la vita mondana. Chi rappresenta all'estero il proprio paese, sia console, ambasciatore, ministro, deve portare il lutto dei proprii sovrani, e se ha famiglia, questa deve pure vestire a bruno. È bene, finito il lutto, di non mostrare troppa premura nel ritornare in società, per non esporsi a far supporre di aver commesso un'ipocrisia durante il periodo di vita ritirata, o di averlo fatto per il mondo: questo non è mai grato dei sacrifizi che gli facciamo! Chi ha avuto un'eredità, deve, più che mai mostrarsi severo nel seguire le leggi che ho detto; so non fu soddisfatto del lascito, eviti di parlarne, ma non mostri rimpianto o rancore al defunto; per quanto siamo tutti più o meno interessati, disprezziamo però coloro che palesano troppo questo basso sentimento. Finalmente, per quanto strano possa sembrare vi sono anche norme che ci dettano il modo di agire al cospetto di una tomba, norme che tutte si comprendono nel massimo rispetto a questo ultimo asilo, e che un'anima fine non ha bisogno di leggere in nessun libro. Non si applaudisce ad un discorso funebre, fatto al camposanto, anche se l'oratore avesse l'eloquenza d'un Cicerone. Le epigrafi vanno fatte con molta semplicità e cuore; niente di più grottesco che quelle lunghe filze di epiteti, quelle lodi sperticate sulla tomba di un individuo che il mondo conosceva forse indegno di stima; i suoi lo piangono ugualmente, ed è giusto; ma è quasi un insulto esaltarlo come un santo, quando forse molti piangono e dolorano per colpa sua. Tanto nelle orazioni funebri quanto nelle iscrizioni sono da evitare le ampollosità, la cortigianeria, che non riescono che a diminuire la maestà della morte. Alla messa per il defunto, che molti fanno celebrare il trentesimo giorno dopo quello della sua morte, e che si chiama messa di trigesima, tutti i parenti devono vestire a lutto, e gli invitati a colori oscuri. Le stesse norme vanno seguite per la messa d'anniversario.

Pagina 116

La vita degli stabilimenti balneari è presso a poco quella delle stazioni alpine. C'è però qualche regola che riguarda chi piglia il bagno. Una signora che vuol essere rispettata sarà molto severa nella scelta del proprio costume; le stoffe troppo chiassose, quelle che, bagnate, disegnano con soverchia evidenza le forme, sono sconvenienti; le scollature esagerate, il busto, i fronzoli, infine tutto ciò che prova troppo desiderio di farsi ammirare, o, per lo meno, osservare, sono di pessimo effetto. La stoffa che meglio risponde a questo scopo è la lana ruvidissima turchino o nera; essa non aderisce troppo al corpo e serba Ia decenza. Una signora per bene non esce dal camerino senza aver compiuto il suo abbigliamento; se i capelli sono bagnati, avrà tempo di farli asciugare a casa sua, ma è un'affettazione mostrarsi sotto il manto naturale delle chiome, anche se sono copiose come quelle di Berenice. Per fortuna gli uomini non portano più la semplice mutandina che serviva appena a salvaguardare il più elementare pudore: ora hanno tutti adottata la maglia fino al ginocchio, o quasi, il collo e le braccia nude; stanno esteticamente meglio e sono più decenti. Una signora non si allontana in mare con un uomo che non conosce; non si fa insegnare a nuotare; non si lascia invitare a pigliar parte a nessun giuoco, nè si mostra troppo libera, neanche coi suoi più intimi. La semplicità del vestiario, la ginnastica del nuoto, si prestano a scherzi un po' spinti; gli uomini hanno torto di accordarsi la licenza e le signore doppio torto di permetterla. Non trovo parole sufficienti per indicare la sconvenienza di quelli che dalla spiaggia commentano, criticano o anche ammirano le bagnanti; per ogni civetta che si compiace del volgare omaggio, vi sono dieci donne per bene che chiedono al mare la salute e che si trovano imbarazzate e molestate dalla stolta contemplazione.

Pagina 178

Il galateo del contadino

202992
Miles Agricola 1 occorrenze
  • 1912
  • Casalmonferrato
  • Casa agricola F.lli Ottavi
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Viaggiando in ferrovia, si badi anche qui a non contrastare pei posti, pel finestrino aperto o chiuso, ad usare modi cortesi col personale di servizio, a non pestare i piedi ai vicini, a non ingombrare i sedili coi bagagli, a non usare sotterfugi per rubare il posto altrui, ad essere cortesi e garbati con tutti, specie colle donne e coi fanciulli.

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Eva Regina

203095
Jolanda (Marchesa Plattis Maiocchi) 17 occorrenze
  • 1912
  • Milano
  • Luigi Perrella
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AI BAGNI Nessuna donna guadagna a essere veduta al mare. La luce cruda mette in evidenza ogni difetto del-l' epidermide che il sole o abbronza, o arrossa, o macchia, togliendo uno dei maggiori elementi di bellezza muliebre, che è quello d'una carnagione bianca e delicata. Il vento dominatore scompone le pettinature, e le onde perfide e burlone si divertono a finir di maltrattarle. Inoltre, per la necessità di spogliarsi e di vestirsi in fretta a tutte le ore del giorno, conviene rinunziare a molti accessori, a molti ornamenti che aiutano la donna non bella a parere attraente, e la donna brutta a parere passabile. Poi c' è la berlina del costume, per quelle di forme troppo... abbondanti, come per quelle di forme troppo... scarse. Ma non importa, le donne amano il mare, il gran mare benefico e purificatore, e gli sacrificano generosamente qualche lembo della loro vanità. Forse ora si fa un po' meno volentieri la vita degli stabilimenti, vivaio di pettegolezzi e d'invidie, ma ogni famiglia ama di avere sulla spiaggia sabbiosa la sua tenda o la sua capanna dove rimanere a fare la siesta in cospetto della cerulea immensità risonante, mentre i bimbi affondano i piedini nudi nell'arena calda e fine, e vanno e vengono dall'onda che si dilata spumosa fra i loro trastulli. Alcune di queste capanne sono vere succursali della casa, veri piccoli luoghi di delizie nell'interno dove non mancano sedie americane, amache, tavolinetti, necessaires, libri, e perfino mobilucci da riporvi le stoviglie per poter far colazione in accappatoio uscendo dal bagno, e prolungare quell'igienica vita da selvaggi e da nòmadi fino all'ora di pranzo. Quest' è la vera vita di cura, a cui una signora di senno, sia che vada per la sua salute o per quella dei suoi piccini, deve uniformarsi. Nè, la sera, rubi le ore al placido sonno che dovrà rinvigorirle le forze e permetterle di essere lesta di buon mattino, o lasci i suoi bimbi, o, peggio, li trascini dietro, per intervenire ai concerti o ai balli nelle sale chiuse, delizia delle signorine in cerca di marito o delle signore avide di... novità. Il più delle volte, poi, una signora è costretta a rimanere ai bagni senza lo sposo, trattenuto in città dalla sua professione o dal suo impiego o dai suoi affari. E allora il suo contegno deve essere ancora più riguardoso, in modo che i maligni non trovino proprio nulla da ridire. Sia pure guardinga nelle conoscenze che contrae : giacchè le può avvenire di ingannarsi sulla rispettabilità di qualche persona, e può stringere inconsideratamente dei vincoli di cui avrà a pentirsi e a vergognarsi; quando non si veda mescolata a qualche intrigo a fatta vittima di qualche soperchieria. La facilità con cui al mare si annodano conoscenze deve consigliarla, almeno, a mantenerle di un carattere superficiale. Non confidenze intime, dunque, non abbandoni d' anima, non espansioni calorose verso una donna che il giorno prima nemmeno salutavate e che, forse, in capo a un mese non rivedrete più. Cortesia con tutti, aiuto vicendevole, anche,giacchè si può dare il caso che una donna abbia bisogno di un' altra donna in qualche triste ora della vita, e nessuna di noi dovrà sottrarsi per il motivo che non è un'amica ma un' estranea colei che attende il nostro soccorso; ma in via normale, intrinsichezza no, almeno finchè non siamo ben sicure che l' oggetto della nostra preferenza è del tutto degno. L'abbigliamento, ai bagni, sia semplice, lindo, fresco, ma nulla più. Molto bianco per le mamme, le giovinette, per i bambini: lunghi veli per riparare il volto dalla brezza troppo rude: cappellini sobri, calzature pratiche. Pochi e meglio non gioielli affatto, perchè si dimenticano nei camerini del bagno o si smarriscono fra la sabbia: fascette elastiche e leggere, in modo da lasciare al torace tutta la libertà di respirare e di muoversi. Accuratezza, decenza ed anche una certa eleganza nel costume incriminato, che alle signore magre consiglierei bianco, di lana ruvida e consistente, con grande collare: alle signore un po'... forti, come dicono le sarte, nero, a lunga blusa.

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Dal trottolino che può appena reggersi, ma che già brandisce il suo badiluccio per scavar fossette ; al piccolo uomo di dieci anni che fa dune di sabbia e palizzate con la serietà e la prudenza di un vero esploratore : dalla bimba tranquilla che va in cerca di conchigliette, alla frugolina che passa la giornata in maglia e in accappatoio per tuffarsi nel mare e sgambettare boccconi sulla sabbia fine e vellutata e calda; tutta l' infanzia adora quella vita libera, un po' primitiva, delle capanne, dove cammina a piedi nudi, si veste succintamente e non ha paura di insudiciarsi o di sciupare il cappellino. Eppure ho osservato che il mare urta i nervi a molti bimbi. Tanti che sono di carattere mite e condiscendente, divengono al mare irritabili e capricciosi. Bisogna tener conto di questa influenza dell' aria o del bagno salso per non essere troppo severi od ingiusti con loro. Una mamma deve ar- madri, al mare, d' una pazienza inesauribile : deve anche sapersi sacrificare senza difficoltà. Alla sera i bambini vanno messi a letto presto; ed essa non dovrà mai abbandonarli per le riunioni negli stabilimenti o negli Hôtels, a meno che i suoi bimbi non riposino a due passi da lei, sotto qualche custodia fedele. Li abitui a levarsi di buon mattino, a indossare senza tanti ostacoli il costume: a spogliarsi e a vestirsi con decenza, e se il mare li spaventa non li faccia entrare con la forza ma con la persuasione, dimostrando loro che non esiste nessun pericolo. La scossa nervosa prodotta da un bagno fatto con la violenza gli toglie ogni effetto benefico. Tutte le madri lo sanno oramai.

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Sono quelle che maltrattano i loro figliuoletti, che ne amano uno a preferenza dell' altro, che li spingono sulla via del male col cattivo esempio, con la trascuratezza assoluta, con l' abbandono vile per fuggire verso il piacere egoistico: per posporli a qualche passione bassa e malsana. Sono le madri dal cuore arido e dalla testa leggera, capaci di ricevere gli adoratori e civettare con essi mentre il loro bambino ammalato desidera inutilmente le loro cure: sono le madri egoiste che si procurano tutte le raffinatezze e lasciano mancare i bimbi del necessario; sono le madri corrotte che macchiano le piccole anime candide con l' immoralità della parola e del contegno : che insegnano ai fanciulli a mentire, a spiare, a essere delatori e adulatori; che li sgridano solo quando macchiano il vestito, e li accarezzano quando l' amante le guarda, come l' Aspasia seduttrice del Leopardi. Non dite che esagero : tutte ne abbiamo conosciute di queste madri colpevoli che profanano la loro missione! Tutte abbiamo provato santi impulsi di sdegno assistendo a scene d' infanzia torturata dalla malvagità, dal vizio, dalla squilibrio morale. E abbiamo udito talvolta con strazio profondo, con vergogna indicibile del nostro sesso, i piccoli martiri stessi ergersi a giudici, narrare storie di vergogna, esprimere propositi truci per quando il loro fisico ne permettesse il compimento, augurarsi la morte per sfuggire all' ingiustizia, alla crudeltà! Oh stringiamoci ai nostri bambini e preghiamo! Preghiamo Dio che non conceda la fecondità a certi seni: che non s' oda più chiamare col sacro nome di madre chi non meriterebbe nemmeno di far parte dell' umanità!

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L'ARTE DI MENTIRE Inoltre c'è uno studio che la donna che devia si trova costretta a fare, c'è un'arte che le è necessario apprendere. Studio penoso, arte ben triste, se ha sortito di natura uno di quei caratteri per cui la dissimulazione è tortura, la finzione angoscia suprema. È lo studio di nascondere, l'arte di mentire. Dal giorno fatale in cui si diede a un altro uomo, la dissimulazione e la menzogna sono divenute una necessità della sua vita. Ella si trova obbligata a fingere col marito un sentimento che non prova più, che è ben morto nel suo cuore. Deve abituarsi a udire il nome di lui, a pronunziarlo anche, con indifferenza, come quello di qualunque conoscente: a salutarlo quando lo incontra in presenza del marito o d'altri, a intrattenersi con lui, serena, cortese, riservata, come con tutti gli altri. E se alcuno ne sparla davanti a lei, ella non può insorgere a difenderlo, non può far tacere il maldicente, se no la sua premura sarebbe notata, la sua foga commentata e il suo dolce e tremendo mistero svelato al mondo. E quando qualche dubbio o qualche gelosia le avranno messo l'inferno nell'anima, dovrà mostrare ancora, in casa e fuori, il suo volto calmo e sorridente, e se incontra la rivale temuta, sarà costretta a salutarla da amica; e se qualcuno — ingenuo o maligno — le troverà l'aspetto un po' sconvolto, dovrà addurre un motivo giusto, plausibile, o portare con maggior energia la maschera di donna paga e lieta. Qualche giorno tornerà in ritardo, o incontrerà un amico del marito, il marito stesso, dove non pensava d'incontrarlo, allora le converrà inventare tutta una storia dall'apparenza di verità, e se ha destato dei timori, dei dubbi, calmarli, disperderli col suo contegno di donna che nulla ha a rimproverarsi : e con le labbra ardenti ancora dei baci dell'amante, dovrà rendere allo sposo le sue carezze, mostrarsi tenera più del consueto per cancellare ogni ombra di sospetto... Ripeto : per certi caratteri sinceri, impulsivi, questa necessità del sotterfugio, del nascondiglio, dell'inganno, della menzogna, è così terribile pena e così insopportabile, che non di rado essi preferiscono romperla apertamente con le leggi sociali, coi vincoli antichi, e s'appigliano a risoluzioni estreme, quelle che fanno le posizioni irreparabili.

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IL GIORNO DI RICEVIMENTO A tutta prima pare che il cosidetto giorno di ricevimento significhi pompa e vanità. Ma, a pensarci bene, è una misura economica e una garanzia di libertà per gli altri sei giorni della settimana. Una signora che non abbia giorno fisso per ricevere le sue conoscenze, è costretta a tener la casa in un andamento alquanto signorile, ad avere più d' una persona di servizio, e a mantenersi ella medesima sempre a disposizione altrui, esposta a venir interrotta nelle sue occupazioni e nei suoi progetti; oppure a provare il rammarico di trovarsi fuori di casa intanto che un' amica desiderata veniva a visitarla. Mentre fissando un giorno da serbare a disposizione degli amici, ella saprà regolare occupazioni e atti in modo da rimanere perfettamente libera nel pomeriggio una volta per settimana. Certo che il giorno fisso obbliga alla puntualità, all'ordine, assoluti, poichè nulla di più sconveniente che non farsi trovare in casa o farsi trovare in abiti negletti in un salotto impreparato. La signora ornerà quel giorno il salotto di fiori, preparerà in un tavolinetto o l' occorrente per il thé o un servizio da caffè e un po' di dolci. In estate non si fanno visite, ma quando la stagione è un po' avanzata servirà delle bibite o dei gelati e curerà che il salotto sia ben ventilato, come d' inverno procurerà che sia riscaldato a sufficenza. Ora le visite si fanno brevi quindi due ore basteranno per ricevere : dalle cinque alle sette. La signora indosserà un vestito elegante, una bella camicetta, secondo i suoi mezzi, e potrà ornarsi di gioielli a piacere, giacchè è di buon gusto portare i gioielli specialmente in casa, come è di cattivo gusto ornarsene troppo fuori. Si farà trovare in salotto : aspettando, prenderà un lavoruccio o un libro. La cameriera o il domestico non dovranno muoversi dall' anticamera per essere pronti ad introdurre i visitatori. Non è più di moda ora che il servo annunzi pronunziando il nome : egli fa passare in silenzio. Se chi entra è una signora di riguardo, superiore d'età o di grado alla signora di casa, ella si alza dal suo posto anche se occupata con altri e le muove incontro : se è una sua pari o un' amica si leva in piedi solamente, per salutarla. Non è obbligo che le altre signore si alzino in piedi al sopraggiungere d' ogni nuova visitatrice se non in casi speciali. Mai, poi, quando entra un uomo, se non è un prelato o qualche vecchia notabilità che onori la patria. Quando c' è bisogno di presentazioni, la padrona di casa dice i nomi, semplicemente, presentando sempre prima chi merita minor riguardo : i giovani ai vecchi, gli uomini alle signore, chi non ha una posizione sociale a chi occupa già qualche grado od è più noto. Ora il cerimoniale della presentazione accenna a passare di moda, come tutte le regole d' un' etichetta un po' rigida troppo in disaccordo con le attuali abitudini di vita : ma se la signora non presenta dovrà fare in modo con qualche frase di far conoscere il nuovo o la nuova venuta in modo che possa affiatarsi subito con tutti. La donna sarà sempre la prima a porgere la mano : alla presentazione d' una signora di riguardo farà un inchino, ma non lo ripeterà ad un secondo saluto. La padrona di casa non s' inchina a nessuno. L' arte del dirigere un salotto, l' esercizio del conversare, è un arte malagevole, è un esercizio difficile che richiede tutta la delicatezza, tutte le facoltà della mente e le gentilezze del cuore. Quante la conoscono senza fare della critica piccina e personale, della galanteria stucchevole ? Quante sanno occuparsi di tutti con grazia semplice e insinuante, e troncare a tempo un soggetto noioso o scabroso senza parere di farlo : e ribattere spiritosamente una frase spiritosa, e dare anche qualche lezione con garbo e con brio a qualcuno che potesse meritarla? Poche, ben poche, ad ogni modo con la buona volontà, il desiderio di riuscir gradite a ciascuno e un po' di pratica, tutte le signore possono riuscirvi.

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E allora, tra l' uno che si logora o in un impiego o tra gli affari, per ottenere una rendita che non basta quasi mai a tatto, e l' altra che non capisce il perchè non può bastare, e non vuol saperne di sacrifizi e d' economie, parendole sempre di farne abbastanza, è naturale che s' accendano di quei diverbi che ripetuti frequentemente disgregano e alterano il sentimento più dolce e sincero. Bisogna che la donna faccia un po' d' esperienza pratica col denaro suo, guadagnato da lei a prezzo delle sue fatiche, per imparare a tener calcolo e a rispettare il denaro dell' uomo. Inoltre una attività diversa dal semplice disbrigo delle faccende domestiche ch' ella spesso compie con indolenza ed irregolarità, riempiendo ogni intermezzo di pettegolezzo e di vanità ; un' attività più regolata e più grave rassoderà il suo carattere, le darà nuove sorgenti di riflessioni e d' energia. Certe signore che pure avrebbero intelligenza e abilità da far fruttare, se ne astengono per una specie di pudore, parendo ad esse, quasi, d' abbassarsi se si dedicassero a un' opera proficua. Mentre il lavoro non umilia, ma nobilita : non abbassa, ma innalza, perchè è pace, conforto, dovere. Una madre di numerosa famiglia non può, convengo, lasciare in abbandono la propria casa per attendere a un lavoro estraneo che non le renderebbe quanto la sua poca sorveglianza detrae ai suoi ; ma se una donna che possa farsi aiutare da qualche parente nelle cure domestiche, o possa sbrigarle in breve, trova qualche ora libera, che male c' è se le impiega a dar lezione, a ricamare, a dipingere, a far fiori, a scrivere a macchina, dietro un compenso, piuttosto che uscir a zonzo a far dei vani desideri dinanzi alle vetrine o recarsi in qualche salotto a far della maldicenza? Conosco una signora in posizione modesta, la quale dando lezioni di pianoforte raccoglie in capo all'anno una sommetta che le permette di passare un mese al mare coi suoi bambini senza ricorrere al portafogli del marito. Ella dona ad essi salute e vigore, a sè un igienico riposo, fine che non potrebbe conseguire se non si adoperasse o che costerebbe al suo compagno un non lieve sacrifizio. Conosco un' altra signora che provvede le sue toilettes col ricavo d' un' industria ch' ella medesima ha iniziato e dirige attivamente. Una delle mie più care amiche seconda il marito nell'insegnamento, contribuendo e non per poca parte, al benessere della sua famigliuola. Inoltre questi guadagni conferiscono alla donna una libertà maggiore, mentre è sempre un po' umiliante per essa dover ricorrere per ogni più piccola spesa, al marito che tante volte fa pesare il beneficio. Il modo per aumentare le proprie rendite, non è però sempre in un accrescimento di guadagno. Consiste anzitutto nella regola, nel risparmio, nella previdenza ed anche... nel coraggio.

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Vi sono anzi certe discendenti da famiglie d' antichissima schiatta, i cui nomi aristocratici rivaleggiano per nobiltà con quelli di parecchie sovrane, e che nella finezza dei lineamenti e delle forme, nella maestà o nella suprema grazia delle movenze, nell' eleganza dell' atteggiamento, nell' impero delicato della parola, sono a molte sovrane infinitamente superiori. L' aristocraticità è una dote che non s' acquista nè con lo studio nè con la consuetudine, ma non è sempre concessa alle titolate. Vi sono delle signore il cui nome è segnato nell'albo d'oro, che si scambierebbero con la loro cameriera se avessero lo stesso abito, mentre ve ne sono altre, che sebbene cadute in povertà, serbano sotto le vesti dimesse l' indelebile impronta della propria origine. Profili caratteristici, storici, somiglianti a qualche quadro d'autore celebre, rinchiuso in una galleria o in un museo : bianche mani affusolate, lunghi colli di cigno, spalle pioventi, persone simili a quelle delle dee e delle allegorie nelle tele quattrocentesche ; la nobiltà vera, di schiatta, si manifesta e si afferma attraverso un lungo ordine di generazioni in maniera particolare. E come coi caratteri fisici, la nobiltà può rivelarsi per mezzo di alcune caratteristiche morali che spesse volte sopravvivono al naufragio d'ogni virtù femminile, ancora come i segnali visibili di razza resistono alla decadenza: la fierezza, la lealtà, il coraggio, la padronanza di se stessi. L'Italia, terra di tradizioni vetuste ed epiche, ha una vera ricchezza di nomi aristocratici ognuno dei quali rievoca una pagina della sua storia. I De Genova di Pettinengo, i Petitti di Roreto, i Mayneri, i Morra di Lavriano a Torino: i Borromeo, i d'Adda, gli Sforza, i Visconti, i Melzi a Milano, i Doria, i Centurione, i Spinola a Genova: i Malvezzi, i Pe-poli, i Rusconi, i Gozzadini a Bologna; i Sanvitale a Parma ; i Montecuccoli, i Rangoni, i Molza a Modena; i Morosini, i Gradenigo, i Grimaldi a Venezia; i Gonzaga, i Cavriani a Mantova; gli Strozzi, i Medici a Firenze ; i Massimo, i Colonna, i Ruspoli a Roma, i Borboni a Napoli : e ognuna di queste antiche case patrizie ha a rappresentarla una o più dame, note per avvenenza, per amor dell' arte, per nobili iniziative di filantropia e di patriottismo. E quando qualche spettacolo straordinario chiama in folla ai teatri, è bello vedere nei palchi di famiglia le bianche dame aristocratiche, adorne dei gioielli che hanno servito a parecchie generazioni; vederle passare nei ricchi equipaggi sui viali; ammirarle in gruppo nei saloni della reggia o nei palazzi aviti: mentre i loro nomi dall'eco gloriosa sembrano ravvivare il nostro sentimento di nazionalità di fronte allo straniero.

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LE RICCHE Ma non si può aver tutto a questo mondo: e molte volte chi ha la nobiltà non ha la ricchezza e la vorrebbe. Molte signore si struggono dal desiderio di possedere una coroncina qualunque da far litografare sui biglietti da visita, da far ricamare sui fazzoletti, da far dipingere agli sportelli della carrozza, e non hanno torto di desiderare questo come un complemento, giacchè parrebbe proprio che ricchezza e nobiltà non si potessero disgiungere. La plutocrazia ha però la sua forza e il suo vanto speciale : forza più energica e vanto più meritorio, forse, di quelli della tradizione aristocratica. Il denaro ai nostri giorni è il mezzo più sicuro per arrivare, e la coscienza di dovere a se stessi, ad un passato di lavoro proprio o della propria famiglia, questo mezzo possente di conquista deve suscitare un orgoglio non minore di quello della dama che addita il feudo dei suoi padri e le pergamene che fanno fede della sua nobiltà. Una fabbrica, un' officina, un negozio, possono pure costituire un feudo, sono i feudi dell' umanità ; e nessuna signora dovrebbe esitare a parlare dei suoi avi se erano mercanti, industriali o contadini, ma dovrebbe anzi proclamarlo con compiacenza, rammentarlo ai figliuoli come un esempio di vittoria e d'attività. La ricchezza non è certo la felicità, poichè molte signore ricche a milioni, non hanno la salute, non hanno la concordia in famiglia, non hanno figliuoli a cui trasmettere le proprie sostanze o li perdettero dolorosamente. Ma, come ho detto, la ricchezza è una leva possente, e per chi sa valersene è un'arma sicura. Una signora ricca può soddisfare i suoi gusti d'estetica, d'eleganza, di sport, può circondarsi di tutta la bellezza e d'ogni raffinatezza: può dare ai propri figliuoli un'educazione completa; può fare molto bene. Questo sopratutto vorrei che le ricche tenessero a mente. Giacchè fare il bene non vuol dire sottoscriversi per una forte somma a vantaggio di qualche istituzione o per qualche beneficenza di prammatica e di circostanza. Fare il bene con discernimento è difficile perchè non richiede solamente il concorso del denaro, ma lo sforzo dell'idea, la pazienza dell'indagine, il criterio della scelta. Dare sviluppo a qualche industria che porta guadagno e decoro al paese; aiutare la fioritura di qualche geniale manifestazione d'arte; concorrere a fornire impulso efficace per qualche nuova istituzione di carità armonizzante coi tempi che venga a colmare qualche lacuna; preferire i prodotti nazionali a quelli stranieri: interessarsi a tutta la bellezza e a tutta la bontà: ecco quello che le ricche dovrebbero fare per obbligo oltrechè per possibilità.

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E Cyrano di Bérgérac, il più infelice fra gli amanti, perchè obbligato a conquistare per altri la donna che ama, definisce a Rossana il bacio così:

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Molte signorine vedendo che questo benedetto amore s'ostina a passare sempre a una rispettosa distanza da esse, senza concretarsi in una forma magari meno regale, ma più pratica, prendendo una determinazione decisa e coraggiosa, gli vanno incontro, lo assalgono, o gli tendono degli agguati. E d'accordo con la mamma, la caccia al marito incomincia. Si apre quasi sempre in principio di carnevale. La signorina che vuole assolutamente sposarsi è la più assidua, la più elegante, la più istancabile. Non manca nè a un ballo, nè a un teatro nè a un ritrovo: si moltiplica per essere dappertutto e senza mai dar segno di stanchezza, amabile sempre e sorridente ; specialmente col sesso forte : se l'uomo è giovane e libero, la sua amabilità diventa quasi adulazione, e la sua grazia aumenta sino all' artificio ottenendo, spesse volte, il risultato opposto a quello ch'è nel suo desiderio. Fatiche e sconfitte producono poi in lei degli scatti di cattivo umore, delle impazienze brusche, dei nervosismi a scoppi di sgarbi e di insolenze e di capricci, ma queste sono gioie ch'essa riserba alla santa intimità domestica, e fuor della madre, delle sorelle e della cameriera — concordi nella lega del silenzio per non mandare a male qualche bel colpo — nessuno sa e nessuno se ne avvede. Così può passare per un modello di gentilezza, di mansuetudine, per un'anfora ricolma d'ogni virtù femminile. Ma il carnevale passa e la signorina ha sciupato sei abiti nuovi e dodici paia di guanti inutilmente... Allora va a tutti i concerti della quaresima, a tutte le prediche, a tutte le passeggiate eleganti con gli occhi languidi e malinconici nel viso incipriato e grossi bouquets di violette fra le mani o sul petto. Niente...passa anche la quaresima. Ci sono le corse, le feste sportive del maggio ed ella non ne lascia neppur una trascinandosi dietro quella povera mamma che spira esaurimento dal cappello alle scarpe. Gli sportmen sono troppo occupati dei cavalli vincitori, delle automobili, delle biciclette, delle coppe d'oro e d'argento, per pensare ad una cosa noiosa come quella di prender moglie: e anche questa volta la povera cacciatrice di marito ha sciupato gli abiti ed i sorrisi. Ma viene la stagione dei bagni, ed eccola con l'inevitabile mamma, sempre abbigliata decorosamente per fare da degno sfondo alla figliuola, sulle terrazze degli stabilimenti più eleganti a stiracchiare un lavoruccio fra le mani, a lanciare occhiate che sembrano lenze ma a cui nessun pesce-uomo abbocca. Misera! ha un bel tuffarsi nelle onde in elegantissimo costume da bagno, mandando piccole grida di paura per attirare l'attenzione; ha un bel seguire a nuoto tutti i sandolini e magari fingere un naufragio quando è all'ultima cartuccia ; tutt'al più le butteranno un salvagente o... la lasceranno affogare in pace. Una ragazza di più o di meno, il mondo gira lo stesso. Addio bagni! — C'è la montagna, e su con l' alpenstock a raccogliere l' ultimo edelweis sull'ultima cima e sostare a tutte le capanne di rifugio e legarsi alle corde di tutte le spedizioni; ahimè, nemmeno a duemila metri c'è verso di afferrare un marito ! Si scende allora sulle collinette, si combinano gite, ottobrate, si recita nelle ville, si ostentano le proprie forme nei tableaux vivants.... Passa invano anche l'autunno... e bisogna ritornare in città, riprendere il proprio posto di signorina in casa e in società. Ma la pazienza e la fede d' una cacciatrice di marito sono inesauribili, ed ella si prepara a ricominciare il suo inseguimento nel prossimo carnevale. Ogni criterio di scelta, ogni gusto di preferenza sono spariti dalla sua mente. Vecchio o giovine, simpatico o brutto, sano o deforme, ricco o povero, ufficiale o borghese, nobile o commerciante, purchè sia un uomo da sposare ella lo accetterà, non solo, ma troverà anche il modo di fargli credere che incarna il suo ideale. Infatti, egli non è l'amore, ma il marito.

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Il suo metodo di vita è regolato secondo quello della signora a cui è addetta, alla quale è costretta a fare il completo sacrifizio della sua volontà e delle sue tendenze. Anche il suo epiteto significa schiavitù, accessorio, cancellatura d'individualità. Se la signora è lieta, deve mostrarsi lieta, se la signora è in vena di malinconia, dovrà secondarla, se la signora ha caldo dovrà aver caldo anche a costo di buscarsi un raffreddore; se la signora ha freddo dovrà rinchiudersi con lei a venti gradi pur a costo di scoppiare.... Per solito, le signore che prendono una signorina di compagnia sono ancora belle, giovani, eleganti, e la signorina, obbligata alla maggior severità di vestiario, magari a un lutto perpetuo, è destinata a fare da sfondo, da cornice all' altra : deve allontanarsi nei momenti opportuni, ricomparire a tempo : spesso è anche direttrice di casa, e allora ha sulle spalle tutta la grave soma dell' azienda domestica, è afflitta dai pettegolezzi del servidorame, vittima dei loro ricatti, delle loro malignità, della loro rozzezza, e la sua posizione tra padrona e dipendenti è oltremodo difficile. Se la signora presso cui dimora non è più giovane, avrà altri difetti, sarà bisbetica, sospettosa, stramba, egoista; esigerà da lei i più faticosi servigi, la più assoluta dedizione. Ombre lievi, silenti, riflesso dell'azione altrui, passano anche queste nei palazzi patrizî, nelle signorili dimore e vanno ... dove? Tante volte in alto, verso una vita propria; tante volte attraverso l'inganno, il disonore, l'abbandono, alla miseria e alla morte.

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LA RELIGIONE E LA DONNA «Quand l' homme a perdu la foi il lui reste l'honneur quand la femme a perdu la foi il ne lui reste rien» scrisse un letterato francese. Infatti una donna senza religione è assai vicina a transigere con la sua coscienza, a trasgredire i suoi più severi doveri. La religione proveniente da una salda fede, in un animo illuminato è l' appoggio più sicuro, la guida più infallibile per la rettitudine della vita e delle azioni. Ma la religione non consiste, come molte signore credono, nell'assidua frequenza alla chiesa, nell' osservanza stretta delle regole e dei comandamenti : la religione deve compenetrare come un fluido divino tutti i nostri pensieri, tutte le azioni della nostra vita. Deve insegnare sopratutto la superiorità, quindi l'indulgenza, la tolleranza, la pietà per tutti : deve nutrire incessantemente l' energia più nobile della nostra anima per il compimento del dovere a qualunque costo, per il sacrificio, per l'abnegazione ; deve fornirci di una serenità costante, quale può possederla chi sa di avere posto le proprie sorti nelle mani di Dio. Deve, la religione, insegnarci a pregare. Molti pregano con le labbra, pochi con l'anima. Vi sono certe preghiere (e sono le più efficaci) che non hanno bisogno di parole per essere espresse e ascoltate dall'Ente supremo. Basta uno slancio fervido del pensiero nell' ora del pericolo o dell' angoscia : basta un atteggiamento di rassegnazione dell'anima, basta un desiderio di preghiera. Alcune signore trascurano la loro casa e la loro famiglia per prender parte a tutte le funzioni religiose, per - recarsi a pregare innanzi a questa o a quella immagine. E il marito che risente le conseguenze della diserzione se la prende con la religione, coi sacerdoti, con Dio : esce in frasi irriverenti : trova che la fede è più dannosa che utile, e dal suo punto di vista pratico, e nel suo caso particolare, non si potrà dargli torto. E se le figliuole abbandonate a sè stesse crescono infingarde e civettuole, o peggio abusano dell' abbandono ; se i fanciulli annoiati dalle lunghe permanenze in chiesa, pigliano più tardi la religione in uggia e acquistano un falso concetto della preghiera, di chi la colpa ? Della madre loro... Altre donne si servono della religione come di un manto destinato a coprire le peggiori brutture. Seminano la discordia, opprimono i deboli, impongono il loro egoismo, soddisfano i più bassi istinti della loro natura, passano di scandalo in scandalo non curandosi dei cattivi esempi che dànno nella intimità, ma poi, per proteggere la loro fama, vanno ad inginocchiarsi ad ogni altare, appendono voti, fanno parte di tutti i Comitati di beneficenza, trascinando religione e fede nel fango dell' ipocrisia.

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MANIFESTAZIONI DI CORDOGLIO Il dolore, come la gioia, l' avvenimento nefasto come l'avvenimento lieto, sono stati costretti dalla civiltà ad assumere un carattere e a sottoporsi a costumanze speciali. Del resto il rito, sia di gioia o di lutto, è sempre solenne ed accresce l' entità dell' evento che celebra, associando al nostro sentimento il sentimento altrui. Si partecipano le nozze, si partecipano le nascite e si partecipa anche la morte. Se non si preferisce servirsi dei giornali come è invaso l'uso, gli annunzi funebri vanno distribuiti entro le ventiquattro ore del decesso : devono essere redatti in forma sobria e chiara, indicando pure il luogo e il modo dei funerali. I primi a dare il triste annunzio sono i parenti più prossimi e poi grado grado fino ai meno prossimi. La vedova ha diritto di precedenza pur sui genitori. Anche nelle partecipazioni l' orlo nero è largo, secondo il lutto è più o meno grave. L'annunzio di morte d'un bimbo non porta il lutto che in un angolo. Anche il colore dei fiori per la bara, varia a seconda dell' età e della condizione dell' estinto : di tinte violacee per gli adulti, tutti bianchi per una giovinetta, d' ogni tinta per i bambini. I parenti dell'estinto ne seguono il convoglio in carrozza, gli amici a piedi: se si tratta d'una signora, anche le signore vanno a piedi e possono reggere i cordoni della bara: distinzione che si accorda sempre a chi ha qualche privilegio di posizione, d' età o di parentela o di amicizia. Nell'ora del funerale, alla porta della triste casa visitata dal dolore sta una persona incaricata a raccogliere su un vassoio i nomi o i biglietti da visita di quelli che sono intervenuti o si sono fatti rappresentare o hanno mandato fiori. A questi biglietti e a tutti quelli di condoglianza, la famiglia risponde con apposite carte da visita, a lutto, con ringraziamento stampato. Alle lettere sarà bene rispondere personalmente, scrivendo anche poche parole su un cartoncino chiuso. Non si fanno condoglianze nè si risponde ad esse per cartolina. Le visite di condoglianza si fanno dopo otto o quindici giorni; brevi visite nelle quali s'indosseranno vesti semplici ed oscure. Anche alla Messa che la famiglia fa celebrare per il defunto dopo i trenta giorni, gli invitati debbono intervenire con abiti dimessi e bruni. Al funerale e alla Messa di requiem il lutto è d'obbligo per tutti. Le tombe fiorite come altari dall'amore e dalla pietà dei superstiti, suscitano commozione e rispetto: ma certe epigrafi troppo elaborate e pompose, ma certe frasi stampate o ricamate in qualche quadretto votivo o in qualche nastro destinato a far sapere agli altri la misura del nostro dolore, mi sembrano irrisioni e profanazioni alla sacra maestà della morte. Un semplice nome, un pronome a piedi d'una ghirlanda o d' una croce, sono abbastanza eloquenti per il mondo : e per il caro spirito a cui s' indirizzano e che legge dall'alto nei nostri cuori, non c'è bisogno di parole scritte. Quanto alle visite al cimitero, non c'è regola che obblighi o che vieti. Ognuno segue il proprio sentimento e interroga le proprie forze. Vi sono delle persone che non hanno mai saputo vincersi e non si sono mai recate a pregare sulla tomba che racchiude un essere diletto: altre invece trovano conforto a recarvisi spesso e a prodigarle le loro cure. Io credo che questo ufficio pietoso sia quasi un obbligo per la donna : poichè nessuna mano sarà più provvida e più pia di quella d'una vedova, d' una figliuola, d' una madre. Meglio dunque imporsi subito il coraggio e iniziare la mesta consuetudine, che passato il primo periodo di emozione procurerà realmente qualche sollievo. Nel tempo del lutto grave non si frequenta affatto la società: non si 'interviene a balli, nè a ricevimenti, nè a ritrovi. Ai teatri e ai concerti è permesso andare dopo sei mesi. Non si riceve più a giorno fisso nè si va a trovare le amiche nei giorni di ricevimento. È bene astenersi dal farsi vedere nei luoghi e nelle ore delle passeggiate eleganti. Se anche il lutto non fu molto doloroso, non si dovrà mai dimostrare troppa premura nel riprendere le abitudini e la vita di società. Ad ogni modo si riprendano gradatamente.

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Se il suo destino la porta lontana dalla città dove abitava con l'altro, il distacco è più facile e può anche divenire assoluto e completo; ma se continua a vivere nello stesso ambiente, e tiene a non commettere mancanze di riguardo e scortesie, dovrà condurre le cose con una certa convenienza. Prima di tutto è necessario che la signora si rimetta al desiderio, all' opinione del marito, che non interpellerà direttamente in proposito, ma il cui sentimento scandaglierà per regolarsi. Se il nuovo compagno è uno di quei tali dalle gelosie retrospettive è naturale che non vedrà di buon occhio la moglie coltivare le conoscenze che l'hanno veduta sposa dell'altro, e la famiglia di lui, la quale le rinnoverà incessantemente la memoria del perduto. E allora la donna dovrà far capire a queste persone che le sue nuove abitudini e i suoi nuovi doveri l' assorbono in modo da non potere più far parte della loro società; e con la famiglia del defunto si limiterà a quelle dimostrazioni di cortesia puramente necessarie. Se poi il secondo marito è uomo superiore e la lascia libera, ella può continuare a coltivare le sue antiche amicizie, senza però dimostrare di preferirle a quelle che la sua nuova posizione le ha procurato. Ed anche con la famiglia del primo marito continuerà a corrispondere, di lontano, a frequentarla, con moderazione, se vicina, giacchè le nuove nozze non costituiscono certo per lei un'azione vergognosa, e sarebbero assai sciocchi quei parenti che le imputassero a colpa una deliberazione ch' ell' era liberissima di prendere. Nondimeno ricondurrà poco a poco i suoi rapporti con essi nel limite della semplice amicizia. Non chiamerà più « mamma » l'antica suocera, ma « la signora Tale » come la chiamava prima di sposarne il figliuolo. Potrà continuare a dar tu alle cognate ; coi cognati userà il voi; non accetterà inviti nè per sè nè per il marito, se la famiglia avesse il poco tatto di farne, ma potrà però invitare qualche volta a casa sua, l'uno o l' altro di essi; ricordarsi dei natalizi o degli onomastici con qualche regaluccio, con qualche fiore. Se poi dal primo marito ebbe figli, il dovere di conservare buone relazioni con la famiglia di lui è ancora più stretto, giacchè sussiste tuttavia un vincolo di sangue, di tradizioni, d'affetto, che la avvince a quella. I bambini continueranno a dare ai parenti il dolce nome di nonna e di nonno, di zia e di zio, li manderà di frequente a trovarli, li lascierà presso di loro per qualche periodo di tempo se lo desiderano. I nuovi obblighi che si è imposta non l' affrancano dagli antichi, fra i quali si trova l'obbligo di usar rispetto e deferenza, e farne usare, a quelle persone che ebbero con lei tanta comunanza d'affetti e di dolore.

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Le assicuro, intanto, che queste regole sono presso che infallibili, come ho potuto esperimentarle io stessa sulla calligrafia di persone a me perfettamente sconosciute che mi si mandava per analisi, il cui risultato, al dire dei conoscenti, era sempre conforme a verità. Dunque, per analizzare la calligrafia d'una persona occorre avere di essa uno scritto qualunque su carta senza righe, ove entrino molte maiuscole. Lo studio sarà più sincero se fatto dietro un frammento copiato da un libro qualsiasi. Gli individui miti, compassionevoli, civili, hanno una scrittura rotonda, ricca di curve; i crudeli, gli spietati, gli ostinati, l' hanno angolosa e acuta. Le lettere aperte superiormente accennano a carattere espansivo, franco : quelle chiuse, a carattere freddo e riservato. Le iniziali grandi, ornate di svolazzi, indicano disposizioni artistiche; le maiuscole a stampatello accennano a un interesse per la letteratura e le scienze, e denotano anche semplicità rifuggente dalla pompa e dall'artificio, e preferenza per la chiarezza e la bellezza. Chi trascura e sfigura molte lettere è trascurato nel vestire e nel portamento. Invece le curve a spirale e lo sviluppo esagerato di alcune parti secondarie delle lettere, indicano gusto ad ornarsi in tutta la gamma, dall'accuratezza alla vanità. I pretensiosi sottolineano spesso con la coda di una grande iniziale il resto della parola. L' arrogante usa per solito iniziali molto grandi ; il modesto le fa basse. Le maiuscole o le lettere finali con un'appendice rivolta all' indietro, danno segno d'eroismo ; le linee finali ad uncino indicano costanza e tenacia nel lavoro. Una lunga linea alla fine della parola è segno di diffidenza: così pure nella firma la linea girata a elisse intorno al nome è segno di natura diffidente, che si chiude in sè stessa. Chi ha molto sviluppato il senso dei numeri, dà involontariamente a certe lettere la forma di cifre. Le lettere separate significano fantasia, intellettualità; le lettere unite, senso pratico, natura prosaica. Se la grandezza delle lettere cresce dal principio alla fine della parola o della riga, è segno che chi scrive ama la verità, è schietto, ingenuo; se invece termina a serpentello, chi scrive è astuto e ingannatore. La scrittura pendente a destra è di chi obbedisce al sentimento ; quella verticale, di chi obbedisce alla ragione. La scrittura inclinata a sinistra può indicare simulazione. Quando in una pagina le linee tendono a salire a destra, è segno di ottimismo: quando scendono di pessimismo. La scrittura di moda adottata dalle signore e dalle signorine d'oggi non si presta alla grafologia, perchè non è affatto personale, ma il risultato d'un artificio che nel dare tutta l' importanza all'estetica dell'apparenza nasconde la verità dell' istinto, delle tendenze, del sentimento.

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Per esempio, il francobollo a destra, in alto, come si applica generalmente, significa calma perfetta, dunque.... niente : ma se lo applicate capovolto, sempre a destra, significa nientemeno che la domanda di un convegno.... A sinistra è la risposta : sì o no ; sì, se è dritto; no, se è rivoltato. Sotto l'indirizzo significa Tenerezza; dietro la busta Segreto d' amore ; collocato di sbieco, in modo che abbia un punta in alto, vuol dire : Volubilità; due francobolli alle parti opposte della lettera, l' uno a destra e l' altro a sinistra esprimono: Il mio cuore è impegnato; ma una fila di francobolli lungo il margine superiore dice: Per sempre tua!

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Non so se al tempo della loro invenzione, le « ridicules » avessero l' ufficio di sostituire le tasche, come l' hanno ora, ma certo furono di grande soccorso a quelle nostre ave, come a noi. Allora le facevano grandissime, della stessa stoffa del vestito, e si chiudevano con lunghi nastri : ai nostri tempi si sono fatte nere, di preferenza, o molto scure, di raso con qualche fiore dipinto, di amoerro, di faglia; ricoperte di trina grossa, nera, di ricami a perline. Ora però si torna all'uso antico e si copiano fedelmente le autentiche ridicules dell' Impero. Si fanno anche in pelle di camoscio di color naturale o bianca, per l'estate; e per teatro si creano dei veri gingilli in seta a tinte languide e spumeggianti trine candide o color avorio. Sono destinate a contenere il cannocchiale, la bomboniera, il fazzoletto di merletto, il programma, la scatolina d'argento della cipria e l'astuccio degli spilli. Nelle uscite mattutine in città, a piedi, per fare piccole commissioni, le « ridicules » sono deliziose. Contengono il portamonete, il libretto degli indirizzi e il pro-memoria, campioncini di stoffe, gioielli da accomodare, e infine le minute spese che si fanno. Giacchè queste borsette magiche sembrano piccole ma contengono tutto quanto vi si fa entrare e quando, a caso, le rovesciamo sulla tavola, gli altri si meravigliano della loro misteriosa capacità. Nei viaggi affidiamo loro quanto occorre aver sottomano e che sarebbe troppo incomodo chiudere nelle grandi valigie: denaro, chiavi, giornali, lapis, guanti di ricambio, ventaglio, fialette, cioccolatini.... E se andiamo a far compagnia a qualche amica convalescente o ci rechiamo a passar la sera da qualche altra, è sempre la impareggiabile « ridicule » che accoglie il libro, il ricamo, il pezzo di musica, il giornale di moda, il lavoro a maglia. L' esame di una di queste borsette che serbano il profumo della signora e non di rado qualche più o meno innocente segreto di lettere e di fiori, fornirebbe materia per qualche fine pagina a un psicologo-dilettante. Potrebbe designare il grado d'eleganza, le abitudini, le tendenze, e quasi l'età della proprietaria, giacchè non si troverà un paio d' occhiali nella borsetta di una donna giovine nè un piccolo specchio in quella d'una signora matura. Recentemente le « ridicules » di stolta hanno ceduto il campo alle borsettine di pelle a cerniera, di tutte le tinte e di tutte le forme, e a quelle più ricche di maglie d' oro o d' argento. Ma le ultime arrivate sono più piccole, c' entra appena il fazzolettino e un minuscolo portamonete; le suggestive, le misteriose, le più personali e interessanti rimangono sempre le « ridicules » che forse dalle loro progenitrici raccolsero e serbarono il profumo più acuto della femminilità.

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