Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 3 occorrenze

Scarmigliata, cogli occhi distrutti e infossati, essa era più forte di lui, gli graffiava il viso, lo copriva di oltraggi volgari, finché rotta e sfinita in tutte le ossa, ricadeva in un profondo abbattimento. Lorenzo, posando la testa sul suo guanciale, piangeva come un bambino. Gli altri in casa non eran più gente. Eran morti in piedi. Si chiamò con telegramma lo zio Demetrio, che aspettava d'essere invitato a battesimo. Durante quei tre o quattro giorni la poverina rivisse in sogno delirando ora coi vivi, ora coi morti, finché le rimase un'oncia di forza. Rivide la sua bella mamma ancor giovane andare alle feste con un vestito celeste orlato di un pizzo doré. Vide se stessa ancor fanciulletta in mezzo a' suoi fratellini, mentre frullava il sabaglione in una piccola cazzeruola lucente. Mario, Naldo e il piccolo Bertino, bello e biondo come un angelo, ridevano a veder la spuma gialla e profumata traboccare dall'orlo; e la malata rideva anche lei d'una gioia intera e traboccante, immaginando che quella spuma gialla e profonda montasse a ondate ad avvolgerla. Quindi usciva la sensazione della prima comunione, colla vista della chiesa lunga, chiara, tutta fiori e pizzi bianchi; ma non capiva perché Ferruccio fosse andato a porsi in mezzo alle ragazze. Che c'entrava lui colle ragazze? e perché tutti lo carezzavano con tanta tenerezza. Essa ne provava un'invidia amara, correva a strapparlo via, gridava: "È mio". Se non che altri fantasmi la conducevano a visitare le cameruccie sotto i tetti, dove abitava una volta lo zio Demetrio, un uomo buono come un santo, che aveva molte gabbie di canarini, che cantavano a stordire, svolazzando liberi intorno. Entrando nelle stanzuccie, ne vide più di cento volarle addosso, belli, vispi, bianchi e gialli posarsi sulle spalle, sulla testa, sul braccio. Se la pigliavano in mezzo, la portavano via, in alto in alto, in un volo delizioso, verso il campanile di Cremenno, che si disegnava sullo sfondo azzurro del cielo... E in questa felicità la poverina finiva di patire.

Molti fatti nuovi e imprevisti erano intervenuti a mutare il suo sentimento, a scuoterla da uno stato di abbattimento e d'inerzia morale, che non di rado è così comodo confondere coll'umiltà e colla rassegnazione. La lettera di don Felice (persona degna d'ogni fede) era stata per lei come la chiave di molte cose misteriose, che prima non sapeva spiegare, una fiaccola che, se non rischiara tutti gli angoli di un brutto sotterraneo, è abbastanza per mostrare l'orrore del sito e per non invogliare a rimanervi di più. Man mano che le forze fisiche tornavano e che essa ripigliava le sue abitudini nella bella casa fresca e nuova, presa da un senso di abbandono, quasi di squilibrio nel corpo, cresceva in lei il dubbio, se poteva rimanere senza rimorso e senza vergogna a godere della sua agiatezza, acconciarsi, come scriveva don Felice, alla sua parte di complice inerte e soddisfatta dell'ingiustizia, continuando a godere i frutti d'una ricchezza, per la quale aveva perduto il frutto più caro del suo sacrificio, per la quale aveva quasi bussato all'uscio della morte. Se Dio non l'aveva voluta di là, questo era un segno che il suo dovere non era ancora tutto compiuto. Ma il suo dovere, oggi, non poteva più essere, come ieri, semplicemente d'obbedire e tacere. Il suo dovere era di combattere, forse più per gli altri che per sé. Segretamente scrisse a don Felice chiedendo qualche schiarimento e dei consigli. L'Augusta portava e riportava le lettere. Non chiesta e non desiderata, arrivò anche una lettera della zia Sidonia, che scusavasi di non venire ad abbracciare la nipote come avrebbe desiderato il suo cuore. La compassionava mostrando di separare la causa di Arabella da quella di suo suocero, uomo indegno del nome di fratello, che come aveva speculato sulla bontà dei signori Botta, costringendo un povero angiolino a sposare un uomo indegno del nome di marito, così sperava di speculare sulla dabbenaggine dei parenti, confiscando un'eredità carpita colla frode e col tradimento. E come se queste scosse non bastassero, si aggiunsero altre noie da parte della mamma. Questa benedetta donna si era fissa in mente che Arabella avesse i sacchi dell'oro in casa e che il matrimonio era stato fatto principalmente per aggiustare gli strappi, per rabberciare i buchi, per provvedere a tutti i bisogni della famiglia. È vero che il signor Tognino aveva dato di frego a un grosso debito, ma i bisogni erano più grossi. All'avvicinarsi della Pasqua scadeva una rata d'affitto, e i fieni erano in ribasso, le bestie valevan nulla e il povero papà Paolino, uomo in croce, non sapeva a che santo votarsi. La promessa che aveva fatto il signor Tognino di interessarlo nell'azienda di San Donato non aveva ancora portato a nulla, perché la guerra dei parenti e gli intrighi di una causa imprevista tenevano le cose sospese. Arabella, a sentir la mamma, avrebbe potuto o dovuto fare di più. Suo suocero aveva della bontà per lei, non le diceva mai di no, e se la ragazza avesse fatto presente lo stato della famiglia che cosa erano due o tre mila lire per un uomo quasi milionario? Una volta la buona donna disse tanto, che persuase suo marito a venire a Milano a discorrere personalmente colla figliuola. Papà Paolino venne, ma trovò Arabella così pallida, così malinconica, con un'aria così poco felice, che dopo aver girato e rigirato un pezzo di cappello nelle mani e masticato dei discorsi vaghi, se ne tornò via senza dir nulla, con un velo sugli occhi. La mamma pensò allora di ricorrere a qualche ambasciatore più coraggioso e più eloquente. Che cosa non avrebbe fatto la povera donna per il bene della sua famiglia? La malata cominciava a uscir dal letto. Suo suocero, sempre attento e premuroso, aveva pensato a farle regalare da Lorenzo una ricca vestaglia di lana, tutta bianca, con dei risvolti di seta celeste e badava attentamente che le stanze fossero ben riscaldate e che quello zoticone non portasse in casa il puzzo del tabacco e del cognac. Più volte, combattuta tra il sì e il no, essa fu sul punto d'approfittare di queste buone disposizioni di suo suocero per consegnargli la lettera di don Felice; ma ebbe paura sempre di far peggio, d'irritare il vecchio, di chiudersi la via a comprendere il resto. Un giorno, in principio di quaresima, sedeva nella sua poltrona davanti al caminetto, ancor debole e svogliata, quando l'Augusta venne ad annunciare la visita di un uomo di campagna e d'un ragazzetto. Entrò il Pirello della Cascine, con un cesto sul braccio, in compagnia di Naldo, che aveva una lettera della mamma. Erano i soliti rimproveri. Nel suo stile blando e lagrimoso, la mamma finiva coll'accusarla d'ingratitudine e di cattivo cuore. Se non voleva procurare le due mila lire, consegnasse almeno duecento lire subito in mano del Pirello: o preferiva esporre sua madre e il suo benefattore al disonore di un sequestro? Le facce contrite del vecchio contadino e del ragazzetto facevano un muto commento alla lettera. Arabella, colta in un momento di malinconia nervosa, contrastata, offesa nelle sue intenzioni e ne' suoi pensieri, accasciata da un rancore che non trovava in nessuna parte compatimento, invece di interrogare quei muti ambasciatori di tristezza, cominciò a piangere come forse non piangeva da un pezzo, come forse non piangeva più dai giorni della sua fanciullezza; era un pianto che da tre o quattro mesi andava via via addensandosi nel suo cuore. Naldo, ammaestrato dalla mamma, si accostò alla sorella, e carezzandola, le disse con una vocina di pitocchetto: "Fallo in memoria del nostro povero papà, Ara..." Il Pirello, spremendo anche lui due lagrime di compassione colla cantilena propria dei villani furbi, che cercano d'intenerire un padrone in buona fede, entrò a dire: "Fa proprio pietà ai sassi, povero sor padrone! Domani deve pagare una bestia, e il mediatore ha detto che se non ha i denari sequestra il latte e il formaggio cosa che, oltre il dispiacere, è una malora in questa stagione. Se ci fosse il fieno alto, pazienza, ma la Merica seguita a mandar giù roba, che oggi come oggi, vale di più, con poco rispetto parlando, quel che si mette sul prato, che non quel che si raccoglie. Povero padrone! con quel cuore che darebbe via anche la camicia, è proprio tribolato." Naldo, vestito di pochi panni mal lavati, col peggior paio delle sue scarpe sui piedi, andava ripetendo colla nenia imparata: "Fallo per il nostro povero papà, Ara." Arabella con una piccola scossa di donna irritata lo fece tacere; ma pentita del suo mal garbo se lo strinse subito al cuore, lo baciò sulla fronte, gli accomodò il colletto e la cravatta, mentre contemplava nei lineamenti delicati e signorili del povero ragazzo una sembianza che si allontanava sempre più dalla sua memoria, quasi ottenebrata da una nebbia di nuovi dolori. "Darò quel che potrò" disse alzandosi, e passò nella camera da letto. Essa non aveva denari, perché suo suocero amava tener lui i conti della casa; ma pensò che avrebbe potuto disporre liberamente, senza rimorso, di una bella fornitura di corallo, unico avanzo salvato e ricuperato dallo zio Demetrio dal naufragio di casa Pianelli. Questo astuccio era la sola ricchezza che aveva ereditata da suo padre, la sola dote che aveva portato andando sposa. Di questo piccolo tesoro, che per la sua antichità e per il lavoro artistico poteva valere un prezzo, come si dice, di capriccio, essa poteva liberarsene senza correre il pericolo di dar via roba non sua, e poiché l'accusavano d'ingratitudine e di cattivo cuore voleva dimostrare a' suoi che dava quanto aveva di più caro e di più geloso. Aprì il cassetto dove teneva le sue robe più fine, e tra i pizzi e le garze cercò il vecchio astuccio verde dagli orli consumati; ma non ve lo trovò più. Turbata da quel senso di penosa meraviglia che ci assale in questi casi, quando non si osa sospettare della gente che ne sta intorno e non ci si rassegna a credere agli occhi propri, rimandò le sue ricerche a più tardi, raccolse invece due o tre anelli d'oro in uno scatolino, anche questi memorie del passato, vi aggiunse la medaglia d'argento degli esami, e consegnò tutto a Naldo, con un biglietto per la mamma. "Credo che questi oggetti basteranno per ora a impedire un sequestro" disse al Pirello. "Domani manderò altre cose, se sarà necessario..." E, quando furono partiti, tornò col batticuore a cercare il suo vecchio astuccio verde; aprì tutti i cassetti, buttò in aria ogni cosa. L'Augusta, una buona ragazzona friulana, che nei pochi mesi del suo servizio aveva imparato a voler bene alla padrona, la sorprese nel momento che, affaticata, cogli occhi riarsi dalle lagrime non asciugate, tentava inutilmente di rimettere i cassetti a posto. Arabella non poté nascondere il motivo delle sue lagrime. Oltre il bene che la padroncina sapeva acquistarsi colla sua bontà, c'era per l'Augusta un'altra ragione fondamentale che la spingeva a proteggere la sua siora : ed era l'odio accanito che quel pezzo di friulana portava ai siori omeni Questi dovevano avergliene fatta una grossa al suo paese, da dove era quasi fuggita, una grossa a cui non accennava che con frasi e con pugni in aria, ma che non avrebbe dimenticato più, come non si dimentica più un male irreparabile. Nei pochi mesi che serviva in casa Maccagno aveva avuto campo d'osservare che gli omini ominisono malignazi , birboni, egoisti anche a Milano come al suo paese, forse come dappertutto, tranne forse quel povero putelo che scriveva nel mezà , con quegli ocioni neri e grandi come parioli e con quei riccioloni che facevan vogia a vederli. L'Augusta non avrebbe voluto fare la spia, perché non era nata per questo mestiere; ma la siora poteva sospettare di lei e la verità è sacrosanta come la messa cantata. Dopo aver tentennato un pezzo la testa, come se pesasse il pro e il contro, incrociate le braccia al petto, disse inchinandosi verso la padrona, che non cessava mai dal rimestare nei cassetti: " So mi dove che 'l xe sto astucio ". "Parla, dunque." " L'ho visto in te la camera del sior ." Avvertita da un pronto consiglio di prudenza e messa in guardia contro le insidie, Arabella ebbe la virtù di reprimere un senso di stupore e d'irritazione, mostrando di prendere la cosa naturalmente. Mandò l'Augusta fuori di casa con un pretesto, e corse a far nuove ricerche nella stanza di Lorenzo. Era la prima volta, dopo la grave malattia, che osava porre il piede nello studio del signor agente di cambio, trasformato in poco tempo in una specie d'antro o di covile, tanto era il disordine e lo scompiglio della roba. Il caminetto, il tavolino, il letto, erano più che ingombri, sepolti dalle cose più disparate, messe là, buttate là, e dimenticate; stivali, bottiglie di liquori, scatolette, cartuccie, pistole, morsi di cavallo, pipe e giornali illustrati e il tutto condito di quell'acredine speciale che manda il tabacco trinciato di seconda qualità, delizia e ristoro dei cacciatori di forza. Arabella, superata l'afa e la ripugnanza, cominciò a cercare con febbrile impazienza il suo astuccio verde. Che cosa l'aveva persuasa a credere così subito alle indicazioni di una donna di servizio? Non era in istato di rispondere, ma sentiva quasi che la spiegazione data dall'Augusta non poteva essere più vera e più naturale. Cominciò a cercare cogli occhi intorno, sui tavolini e sulle sedie, e non trovando quel che le stava a cuore di trovare, provò ad aprire qualche cassetto della scrivania, colla mano tremante di una doppia emozione, tra il desiderio di ritrovare un oggetto caro e il timore di scoprire qualche cosa di più triste e di più penoso. Durante la lunga malattia di sua moglie, Lorenzo, abbandonato a se stesso, precipitò nelle vecchie abitudini, da cui non era uscito se non come un soldato ubriaco, che fa degli sforzi enormi per star diritto innanzi al caporale. Ogni cosa intorno a lui parlava di un uomo incapace di un pensiero d'ordine e di un'elevata aspirazione. Arabella si arrestò un minuto a contemplare quel gran disordine con un senso di scoraggiamento. La vista di un vecchio mazzo di carte, abbandonato sul camino, richiamò ciò che più volte si era presentato al suo pensiero, vale a dire la possibilità che Lorenzo fosse tornato al vizio di prima. Il giuoco è una passione terribile, che non perdona, secondo essa aveva udito dire: e forse la sua bella fornitura di vecchio corallo era andata a pagare un nuovo debito... La mente correva ancora dietro a questi presentimenti quando, in un cassettino a destra, la mano, frugando, cadde sull'astuccio. Fu un attimo di gioia; un attimo. L'astuccio era vuoto. Vuoto! - Questa parola rimbombò nella testa per un istante e rese ottusi i suoi sensi. La prima idea fu di parlarne a suo suocero, che rappresentava il giudice della casa; ma un secondo riflesso fece presente quel che la gente diceva e scriveva anche di lui. Qual giudice? Essa era in mano ai ladri... Questa volgarità di parola scattò, quasi con dispetto, dal fondo amareggiato della sua coscienza, l'avvilì, come se per la prima volta sentisse e vedesse la volgarità della sua casa insudiciare la dignità di una donna onesta. Era una casa di ladri! Come pretendere che questi ladri restituissero la roba sua? che cosa scrivere allo zio Demetrio, che a riscattare quel tesoro di famiglia aveva consacrato tutti i risparmi di una vita sobria e solitaria? E un vagabondo gliel'aveva carpito, approfittando d'un istante di delirio o di debolezza, forse penetrando di notte, come un ladro volgare, nella sua camera... C'era ben motivo di piangere; ma con suo stupore gli occhi non davan lagrime: qualche cosa di forte e di ribelle vi si opponeva. Dai cassettini uscirono dei vecchi ritratti di donne. Eran le antiche simpatie di suo marito, il suo genere, come soleva esprimersi egli stesso, parlando delle avventure galanti degli amici. Eran forse le memorie non distrutte di un passato allegro, forse non dimenticato, forse rimpianto... chi sa? forse ricercato. Anche quelle care creature dalle gonnelle corte, dalle pose arrischiate avevano preso col tempo una forte tinta di tabacco. Le buttò via con schifo. Essa non poteva essere gelosa di questo passato, per quanto ripugni a una donna onesta di vedere attraverso a quali viottoli suo marito è arrivato fino a lei. C'era anche un libro in quel tritume di carta che rappresentava gli affari del signor agente di cambio, un logoro romanzo tradotto, dalla copertina gialla, che portava scritto in un angolo un nome di donna. E dal libro uscì un ritratto, lucido e fresco, che pareva fatto ieri. Era una donna non molto giovine ma di una bellezza maestosa e teatrale. Mentre la moglie onesta sforzavasi di trovare dei sensi logici nella torbida violenza da cui fu assalita, il suono di un passo, e uno sbattere di usci nella stanza vicina, la strappò repentinamente al suo dolore. Richiuse i cassetti, dopo avere deposto il libro, ma nascose l'astuccio e il ritratto nell'ampia manica della vestaglia. Si sforzò di alzarsi, ma non poté, come se a un tratto le venisse meno la forza nelle gambe. Coi gomiti appoggiati alla scrivania, strinse nelle mani la testa che mandava vampe di fuoco, mentre un brivido le corse per tutto il corpo, le parve che tornasse la febbre terribile dei primi giorni. Lasciò passare una lunga visione di mali, come un ingenuo che giunto alla riva di un gran fiume si ferma ad aspettare che l'acqua passi tutta, prima di tentare il guado. Quando la prima tempesta fu alquanto sedata, trovò che in fondo al suo cuore non c'era soltanto del dolore... Non avrebbe osato sperare di trovarci tanto orgoglio! Ed era un orgoglio amaro ed aspro, che dava un vigore insolito alla sua natura, come certe medicine ripugnanti al palato che rinforzano la fibra. Se non le fosse sembrato un assurdo, avrebbe osato dire che dal mezzo di questo suo dolore scaturiva una vena di acre piacere, o, se piacere è dir troppo, di soddisfazione selvaggia, qualche cosa insomma di ancora indecifrabile, che si sarebbe potuto paragonare al sentimento che prova una schiava affranta dalle verghe quando vede il furore del suo padrone scagliarsi su un altro corpo ignudo. Quando aveva essa amato codesto suo padrone, perché dovesse fargli l'onore d'essere gelosa? E perché avrebbe odiata a morte la donna che, frammettendosi, qualche poco glielo contrastava? Era sorpresa di sentirsi così calma e così ragionevole davanti al testimonio della sua umiliazione; ma capì ben presto che da quell'uomo non poteva venire a lei nessuna umiliazione, che quella donna poteva aver nome anche liberazione. L'enorme mare di ribrezzo, che l'anima e il corpo avevano assaporato a goccia a goccia in quattro mesi di matrimonio, soverchiava già i limiti della sua pazienza e del suo dovere. Qualcuno finalmente gettava una fune alla vittima vicina ad affogare. Prese con sé il ritratto di Olimpia come un documento, e pensò di chiedere alla zia Sidonia, già così disposta a compatirla, delle spiegazioni che la buona zia era smaniosa di dare colla speranza di avere nella nipotina una forte alleata nella gran guerra che i parenti e gli offesi facevano ai Maccagno. Per alcuni giorni non si mostrò diversa in casa; anzi cercò di essere lieta e disinvolta. Guardandosi nello specchio si trovò per la prima volta meno pallida. Anche la voce, se doveva giudicare da ciò che ne sentiva, aveva acquistato un tono più vibrato e sicuro. Qualche cosa di forte e d'individuale nasceva in lei. Forse la monachella di Cremenno aveva finito di patire... Dio, la ragione, la giustizia, l'opinione pubblica erano con lei e per lei. Ecco perché, quando l'Augusta venne ad annunciare in ora così insolita che Ferruccio desiderava parlarle, corse in sala, col passo ardito di chi si muove al primo segnale della battaglia.

La morte dell'amore

663208
De Roberto, Federico 1 occorrenze

… Allora, ripensando alla premeditata freddezza di quella creatura che senza darsi la pena neppure di mendicare un pretesto m’aveva scacciato; ripensando alla crudeltà della quale aveva dato prova nel restar sorda alle mie preghiere, al mio pianto, alla mia disperazione; per un poco il mio dolore si mutava in un sordo rancore, in un odio secreto; ma io riconoscevo ben tosto, nel finale abbattimento di tutto l’essere mio, che questa sua freddezza, che questa sua crudeltà, che l’inflessibile rifiuto opposto a tutte le mie insistenze, erano l’origine della mia disperazione. L’idea di non averla potuta piegare, il sentimento della mia incapacità a ridestare una passione della quale ero andato superbo, mi prostravano, mi umiliavano, mi attaccavano a lei sempre più. E come se tanta miseria non bastasse, la gelosia, una gelosia terribile che non poteva fermarsi sopra una determinata persona, ma che comprendeva tutti gli uomini, mordeva il mio cuore. Perché dunque m’aveva lasciato, colei, se non per darsi ad un altro? Perché era stata così dura verso di me se non per riacquistare la libertà, per correre a nuove avventure? Un altro aveva preso il mio posto; e quest’altro poteva essere uno dei miei più intimi amici come il primo sconosciuto che mi passava accanto per la via! La credevo capace di tutto; e la disistima, invece di guarirmi, accresceva il mio male! Avevo pensato di partire, riserbandomi di porre ad effetto questo proposito quando null’altro mi sarebbe rimasto da tentare, come i medici riserbano per i casi disperati certi pericolosi rimedii che, se non affrettano la morte, riescono ad eccitare una crisi salutare nelle fibre vicine a distruggersi. I viaggi m’avevano sempre procurato la più gradita delle distrazioni. Dentro un treno che corre con la velocità di sessanta chilometri all’ora lasciandosi dietro monti, valli, fiumi e città; sopra un piroscafo che fende maestosamente il mare mobile e largo, avevo sempre respirato a pieni polmoni, m’ero sempre liberato da ogni oppressione. Ora non mi decidevo ad andar via. Quantunque la ragione mi dimostrasse fino all’evidenza che non c’era più nulla da fare, io aspettavo non sapevo bene che cosa. L’orgoglio mio era stato crudelmente ferito, nondimeno l’idea di tornar da lei a pregarla, ad umiliarmi, mi tentava certe volte ancora. Io mi ribellavo contro me stesso, m’accusavo di viltà, non facevo nulla – ma restavo. La divorante e mortale curiosità di sapere che cosa sarebbe accaduto di lei, se veramente un altro avrebbe ottenuto i suoi favori, mi tratteneva. E mi umiliavo altrimenti, spiandola da lontano, studiando il modo di far parlare di lei la gente che la conosceva. Alle volte mi sentivo sollevare da tale sdegno contro me stesso per l’incapacità di strapparmi quella donna dal cuore, che la risoluzione di partire era presa, irrevocabilmente. Ma il terrore di portar meco quel ricordo come un vampiro attaccato alla mia carne, intento a succhiare il mio vivo sangue, fiaccava il mio coraggio. E speravo ancora, accoglievo ancora qualche lusinga! Pensavo che ella avrebbe potuto pentirsi del male che m’aveva fatto e cercare un giorno o l’altro di me. E con l’istinto della salute che fa aggrappare anche ad un filo d’erba chi precipita in un abisso, m’afferravo a queste lusinghe, lavoravo a dar loro qualche apparenza di fondata speranza… Fu un giorno del settembre che ricorreva l’indimenticabile anniversario. Lo avevo aspettato con un’ansia ineffabile: i miei ricordi, i miei pentimenti, i miei rimpianti, le mie speranze, tutti i moti dell’animo mio s’erano esasperati talmente che non credevo possibile resistere di più a simile travaglio. Tanti disegni m’erano passati per il cervello, uno più pazzo dell’altro, che non sapevo veramente che cosa imaginare. Spuntò quel giorno, ed io non feci nulla di nulla. Ma se le fossi stato vicino, se l’avessi sentita tutta stretta a me, non sarei stato così pieno di lei come in quelle ore di agonia, occupate a ricordare le altre, le antiche, le divine, le prime e le sole che contassero nella mia vita. Che cosa faceva ella in quei momenti? Era possibile che non ricordasse anch’ella? Nonostante la lunga separazione, nonostante la lontananza, in quel momento le nostre anime non dovevano confondersi come s’eran confuse altra volta? E se così pensava anch’ella, se era pentita, se era libera, non toccava a lei di scrivermi una riga, una parola, perché tutto fosse detto?… Quando arrivò la posta cercai con mano tremante in mezzo al fascio dei giornali e delle lettere. Non c’era nulla. Ebbi veramente un sorriso di profonda commiserazione per la mia sciocchezza. Calò la sera, e mai tenebre più paurose chiusero il mio cuore. Improvvisamente udii squillare il campanello. Il servo mi venne incontro con un dispaccio in mano. Poiché il cuore non mi si ruppe in quel punto, la fibra dev’esserne molto resistente. Apersi in quel foglio: era un mio creditore che mi mandava un vaglia telegrafico. Il giorno dopo partii. In verità l’esistenza più salda, più tenace, non è già quella delle cose o degli esseri, ma quella delle idee e dei sentimenti. Voi potete spezzare un oggetto materiale, calpestarlo, incenerirlo, darne al vento le ceneri, voi potete uccidere una persona, distruggere quel prodigio che è un corpo vivente: ma dinanzi a questa cosa semplicissima che si chiama un pensiero, così tenue, così alato, fuggevole tanto che un soffio parrebbe doverlo abolire, voi siete inermi. La volontà è l’unico mezzo del quale potreste disporre; ma tutti gli sforzi della vostra volontà per sradicarlo servono invece a configgerlo più profondamente nel vostro cervello. Non voler pensare a una cosa importa rammentarsela continuamente; contro l’invasamento spirituale non vi sono esorcismi… Sì, io partii, con l’anima abbeverata di fiele, con le labbra contorte da un sardonico riso; ma il fischio del treno che si metteva in moto mi parve l’urlo della mia disperazione, e quasi tentai rompermi la fronte contro la gabbia che mi serrava, tentai precipitarmi dallo sportello per finirla una buona volta… E quando fui lontano, quando mi vidi in un paese straniero, fra gente sconosciuta, quando udii risonarmi d’intorno una lingua ignorata, un immenso stupore mi vinse e sedò per un istante il mio cordoglio. Io domandai a me stesso: "Perché sono qui? Che cosa sono venuto a fare? E potrò respirare soltanto?…". Mi mancava l’aria, mi sentivo morire. In mezzo al vasto tumulto di quella metropoli, dinanzi allo spettacolo di migliaia e migliaia d’uomini correnti dietro agli affari, ai piaceri, agli amori, io sentivo di me stesso la pietà che certi poveri fanciulli smarriti tra la calca in un giorno di festa m’avevano talvolta ispirata. Provai d’annegare il mio dolore negli stordimenti dell’orgia; ma come un legno che noi spingiamo sottacqua risale rapido a galla appena abbandonato a sé stesso, così il mio dolore risorgeva ogni volta, più acuto. E senza più ritegno, senza più vergogna, mi abbandonai ad esso, interamente. Avevo portato con me le sue lettere, i suoi ritratti. Una sera mi chiusi in camera e li rividi. Terribile! Terribile! Era dunque lei? la sua fronte? le sue guance? le sue labbra che avevo tanto baciate? Era il suo sguardo che si fissava ancora su di me, pieno della mia visione? Tutte quelle lettere, quelle parole d’amore, quei giuramenti, quelle promesse erano stati ispirati da me? Ed io non avrei più riveduto quella figura reale come ora ne rivedevo la mera effigie? Non avrei più ricevuto nessuna di quelle lettere, mai? Era dunque come morta?… Allora, nella nuova e più dura crisi d’ambascia scatenata nell’anima mia, io pensai di fare ciò che prima non avevo voluto: restituirle quelle carte per poterle scrivere ancora. Rapidamente quest’idea mi soggiogò. Io le avrei scritto per mostrarle l’esulcerata mia piaga, per farle intendere che l’amavo ancora tanto da perdonarla, da accusare anzi me stesso, da implorare il suo perdono per me. Fra giorni ricorreva il suo natalizio: ella non aveva parenti, nessuno dei suoi conoscenti sapeva la data che io solo avevo festeggiata, altre volte. Volevo anche ora mandarle una buona parola per questa festa che è sempre un po’ triste… Nella notte alta, nel silenzio profondo, alla luce d’una candela che si struggeva con fiamma tremula e lunga, io mi misi a scriverle. Scrivevo tre righe e ne cancellavo due. Volevo mettere sopra un foglio di carta tutto ciò che avevo in cuore; ma le parole mancavano, ed anche temevo di contenermi troppo o di troppo lasciarmi trascinare. Ma ero deciso a non levarmi dalla scrivania se non dopo aver finito. Quando finii rilessi la lettera; ne rammento ogni parola, diceva così: "Lasciata l’Italia per un tempo non breve, compio il dovere di rimandarvi alcune carte che non posso esporre al rischio di cadere in mani indiscrete e che per altro mi dorrebbe troppo distruggere. Già io ho sempre pensato che le carte di questa natura si debbano restituire quando restano a testimoniare qualcosa che più non esiste, un passato perduto: serbarle è permesso soltanto quando sono le prove d’una realtà che ricomincia continuamente. Eccole adunque: distruggetele voi stessa, o voi stessa serbatele, secondo stimerete opportuno. Come passa rapido il tempo! Ecco tornare il vostro giorno natalizio che lo scorso anno noi passammo insieme. Mi permetterete di presentarvi ancora i miei augurii, fervidi come quelli d’un tempo? Ora e sempre, possiate voi ottenere tutto quel bene che il vostro cuore desidera…". Mi parve di non aver detto niente e d’aver detto fin troppo. Niente, perché quelle poche righe non mostravano la mia lunga passione; troppo, perché il rammarico e l’implorazione vi si leggevano, nonostante, in mezzo. Esausto della lunga veglia, andai a letto. Quando mi destai erano le undici; mancavano due ore alla partenza del corriere d’Italia. Senza più pensare a nulla, ricopiai la lettera, feci un pacco di quelle carte, lo suggellai e andai alla posta. Mi movevo come in sogno; non avevo coscienza dei miei atti. Consegnai dapprima il pacco all’ufficio di raccomandazione, poi mi avviai alla buca delle lettere. Quando vi fui vicino, quando cercai in tasca la lettera mia, parvemi che qualcuno m’afferrasse per tirarmi indietro. Il pacco non poteva partir solo? La restituzione di quelle carte aveva forse bisogno di commenti? Nella mia lettera io mi davo vinto, dicevo a quella donna che l’amavo ancora, imploravo ancora da lei il ricambio dell’amor mio – ed ella forse l’avrebbe letta fra le braccia d’un altro. Ella avrebbe riso di me, m’avrebbe risposto due righe di ricevuta – forse non m’avrebbe risposto neppure! Era stata così malvagia, m’aveva fatto tanto soffrire; ed io le davo ancora quest’altra soddisfazione!… Tutto ciò fu pensato nel tempo che la mia mano andò dalla tasca alla buca – perché vi andò, e vi lasciò scorrer dentro la lettera. Prima che potessi avere risposta dovevano passare cinque giorni. Impiegai questo tempo a imaginare la risposta. Poteva essere arida e fredda come avevo temuto, ma il pentimento era inutile, ormai. Se invece… se invece… Ed io dicevo a me stesso che, infatti, nel rivedersi dinanzi le sue lettere, le prove dell’amore che m’aveva portato, nel ritrovarmi supplice ancora dopo i torti che m’avea fatti, nel sapermi tanto lontano, ma nel sentirmi pure così vicino a lei, il suo cuore avrebbe dovuto palpitare più forte e, se non l’amore, almeno la pietà, la simpatia, la compiacenza dettarle una buona parola, indurla a consolarmi… Allora, sostenuto ed infiammato dalla divina speranza, io pensavo all’altra lettera che le avrei subito scritta: "Ebbene, non occorre più ch’io ve lo dica, voi già lo sapete: nonostante tutto, voi siete ancora l’amor mio, l’amor mio forte e grande, il mio unico amore, l’amore che non posso più scordare, che porterò eternamente con me… Se mi volete ancora, dite una parola e sarò ai vostri piedi. Se volete che aspetti, aspetterò quanto vorrete. Sempre, in tutto, la vostra volontà sarà la mia…". Ma una lettera avrebbe messo troppo tempo a dirle queste cose: io mi sarei piuttosto servito del telegrafo, le avrei mandato il mio pensiero con la velocità del lampo. E cercavo le parole del telegramma!… Al quinto giorno ebbi la sua risposta. L’ebbi alla posta, la lessi per via, tra le spinte della gente, lo strepito delle vetture, gli squilli delle cornette dei tram. Diceva così: "Grazie! Nessuna attenzione commuove, quanto quella che meno si prevede perché meno si sente di meritare. I vostri augurii d’oggi sono graditi come quelli di un tempo, anche perché come quelli di un tempo sono stati i soli che ho ricevuti in questa ricorrenza. Mi sono pervenute e non ho distrutto le carte che con rara delicatezza avete creduto di dovermi restituire: c’è un passato che si custodisce gelosamente, come il più reale dei beni, disperderne le tracce sarebbe delitto. Se voi vorrete ancora ricordarvi di questa vostra povera amica, sarà sempre una festa per lei". Orbene; quando io ebbi finito di leggere questa lettera me ne andai al caffè, perché avevo fame. Fu la prima volta, dopo tanto tempo, che mangiai con gusto. Tutto il giorno fui in giro al Museo, che non avevo ancora visto. Prima di desinare visitai una bella signora che avevo conosciuto di fresco. La sera andai al teatro con amici, dopo cenammo allegramente. Tornai a casa alle tre della notte e dormii d’un fiato sino alle due del domani. Svegliandomi, mi rammentai della lettera ricevuta la vigilia, e la rilessi. Non c’era bisogno di molta penetrazione psicologica per comprenderne l’intimo significato: "Un’attenzione che si sa di non meritare… i soli augurii, graditi come quelli d’un tempo… non ho distrutto le carte che avete creduto di dovermi restituire… un passato custodito gelosamente, come il più reale dei beni… se vorrete ricordarvi ancora di questa vostra povera amica…". Il suo rammarico, il suo pentimento, la sua solitudine: ella diceva apertamente tutto ciò; non diceva. "Tornate!", ma questa parola era come scritta su tutte le altre, io quasi la leggevo attraverso la grana della carta. Nel mio farneticamento dei giorni scorsi avevo mai sperato tanto? Non dovevo fremere di gioia, risponderle subito, aprirle il mio cuore?… Per una settimana non trovai il tempo di scriverle. Quando finalmente mi posi a tavolino le scrissi così: "Ho ricevuto la vostra lettera e vi ringrazio della buona memoria che serbate di me. Siate certa della devozione che vi porto, e lasciatemi sperare di potervene dare qualche giorno la prova. Io sono qui per fare qualche studio e per vedere un po’ di mondo. Se potessi giovarvi in qualche cosa, disponete pure liberamente di me: mi farete sempre un regalo…".

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