Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abboccato

Numero di risultati: 6 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Cucina di famiglia e pasticceria

280590
Giaquinto, Adolfo 1 occorrenze
  • 1931
  • Scuola Tip. Italo-Orientale «S. Nilo»
  • Grottaferrata
  • cucina
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Collocate il recipiente nell'acqua calda (non bollente), e con una frusta (sbatti-uova) sbattete sempre egualmente e con movimento cadenzato, tenendo un pò abboccato il polzonetto a destra per facilitare l'operazione.

Pagina 405

Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

663967
Faldella, Giovanni 1 occorrenze

A me San Pietro ispirò poca devozione; e al mio segretario comunale ne ispirò di meno; imperocché, in un momento di distrazione, egli trasse fuori dal taschino del pastrano l'astuccio dei sigari, e, senza un mio pizzicotto, ne avrebbe abboccato uno senz'altro. Altre chiese sono più profane di San Pietro, per esempio, San Paolo fuori delle mura. È una vera sala da ballo, con due ale fatte apposta per il mormorio di una queue e con un pavimento lucido degno di riflettere gli inchini delle quadriglie e i circoli di un valts. Il cupolone di San Pietro visto da vicino non fa effetto. A guardarlo in piazza sembra accasciato dietro il frontone della Chiesa. Ma dilungatevi; la cupola cresce. Dilungatevi ancora; la cupola si innalza vieppiù, vi insegue... Fantasma classico. Vista dalla campagna, la cupola è una immensa mitria da vescovo antidiluviano, posta sul capo di questo mastodonte che è San Pietro. Sembra una minchioneria da nulla tirare una bella linea sull'orizzonte. Vi credete da tanto voi altri; e quasi vorreste subito farne la prova con il vostro indice. Eppure una linea, una curva sono il segreto del genio e della bellezza di Michelangelo, di Cleopatra e di Orsolina, la nipote del mio prevosto. A proposito di nipoti, dicono che se il nipote Tevere allagasse Roma dalla sommità di monte Pincio al cucuzzolo di monte Mario, come faceva un volta il Tevere padre Ozio, resterebbe scoperto il lanternino della cupola di San Pietro. Prima di visitare un alloggio si dovrebbe vedere il .padrone di casa. Invece io ho visto le cappelle, le loggie, i musei e le gallerie del Vaticano, senza vedere il Prigioniero del Vaticano. E le ragioni per cui ho fatto questo sono semplicissime. Anzitutto mi spiace disturbare la gente senza necessità; e poi i miei amministrati non sono tali, a cui possa portare un pugnello di paglia facendo loro credere essere un campione di quella su cui dorme il Prigioniero. Da ultimo, se io avessi veduto il Papa, quale diritto avrei avuto ad intitolare le mie note; Un viaggio a Roma senza vedere il Papa. Quest'argomento finale mi sembrò proprio perentorio, come mi sembra che dicano gli avvocati; ossia uno di quegli argomenti che ammazzano il bue senza lasciarlo più rifiatare. Una volta io detestava i musei e le gallerie, perché mi facevano venire una spranghetta nella testa, al pari delle fiere, degli organini e delle alzate di gomito. Ebbene il Vaticano mi ha convertito ai musei e alle gallerie. I suoi quadri sono pochi e buoni più che i versi del Torti; e perché sono pochi non vi frastornano, e perché sono buoni vi tengono un pezzo davanti a loro, e vi mandano via con un'estasi riposata. Nel solo cortile del Belvedere si trovano dentro le celle di un castelletto sei meraviglie della scultura mondiale, che valgono le sette barbe dei sette savi della Grecia; il Laocoonte, l'Antinoo, l'Apollo, statue antiche, e poi il Perseo e due gladiatori del Canova. Il popolo delle altre statue antiche, disseminate per i corridoi e le sale, esalta anch'esso: quelle statue fanno vedere chi fossero veramente quegli antenati più che non lo facciano vedere le storie e le commedie togate. A mirare quel marmo giallo come cera per il vecchiume, quelle troscie di nero, che rigano i fianchi delle statue gialle, come per una malattia cronica, a guardare quelle teste snasate, quei mozziconi di braccia e di gambe, si ricostruisce un mondo morto... La fantasia soffia della vita, del rosso, del sangue su quel giallo, su quel nero, completa quei nasi, quelle braccia, li agita, li fermenta; fa venire innanzi delle donne, degli uomini, che avevano passioni, diritti e doveri diversi dai nostri. Oh che ghigno falso hanno quei Cesari? Che colli grossi, grassi e torosi! Come stanno da padroni e da machioni, avviluppati nella loro toga rossa di porfido, o nel loro paludamento rigato di marmo cipollino! Che mostaccioni da fontana hanno quegli eroi, quei semidei! Quali teste pecorine! Come erano gagliardi e salaci quegli Dei intieri! Paiono torelli. Che mazze, da voltare asini, portava Ercole! E i muscoli e i gamboni dipinti di Michelangelo? Quali pieghe! Le sue pieghe hanno l'andazzo di un'orifiamma, che corra sventolando in un regno soprannaturale, nell'Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso. Come è venusto, aitante, intriso di antichità e di nudità il Canova! A voler dare le prime impressioni c'è da ammattire - c'è da rabescare spranghe storte di bambino che balocchi con la penna, senza essere ancora andato a scuola. Che musica e che amorini di dipinture e di nomi: Raffaello, Giulio Romano, il Domenichino, il Guercino, lo Spagnoletto, e Donatello, e Pierin del Vaga! Io ripeterei tutto il giorno il nome di Pierin del Vaga; ma non lo tormenterò con nessun dramma, come ha fatto - mi fu detto un certo signor Proto di Maddaloni. Dopo il Vaticano, non potei frenarmi; ed irruppi a visitare i musei e le gallerie del Campidoglio, e le gallerie Borghese, Barberini, Pamphily-Doria, ecc. ecc.Devo confessarvi che io, negli anni scorsi, dopo lunga dimora nel villaggio fra i bilanci municipali e i colloquii sui travi d'estate e nella farmacia d'inverno, io, sissignori, ho dubitato parecchie volte del Bello e dell'Arte; e certe volte, guardando un rosone di tappezzeria, una litografia di un almanacco da muro, o un figurino della moda, ho esclamato dal profondo di me stesso: Chi sa non risieda qui su questo pezzo di carta, su questo almanacco, su questo Tesoro delle famiglie, il Bello tanto quanto nelle gallerie famose e nei musei! Chi sa che Raffaello, Michelangelo, Leonardo da Vinci, Murillo, non siano finzioni dell'economia umana, come l'arcivescovo della diocesi, il quale ha una testa più debole del mio cappellano; eppure egli è arcivescovo, mentre il cappellano è cappellano! Ebbene se a qualche mio collega di villaggio spunti nella mente questo dubbio fra le fatiche dei bilanci o all'accademia del trave o della farmacia, per levarselo venga a Roma, portandosi sotto il braccio il volume vecchio di un giornale di mode. E confronti i figurini della moda con il San Sebastiano, di Guido Reni, e con la Sibilla, del Domenichino. Oh si avvedrà della differenza! I figurini, che pure parevano belli e irreprensibili nel giorno in cui comparvero, dopo due anni diventano ridicoli; fanno degli angoli e delle smorfie buffe, di cui non si sospettavano neppure capaci; appariscono musi, pasticci, minchionerie inanimate di gesso e di sapone. Invece il San Sebastiano e la S ibilla sono tuttavia, dopo il trascorso di centinaia d'anni, e saranno sempre fino alla consumazione dei colori e della tela, culmini di bellezza mascolina e femminina. Oh nell'arte non si può essere scettici! Bisogna credere al bello di ogni tempo e di ogni luogo, al bello assoluto e oggettivo, come diceva il mio professore di metafisica, il quale, poveretto lui! aveva la testa della forma di una tabacchiera e di una bruttezza assolutamente assoluta e oggettiva.

Piccolo mondo antico

671651
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Egli ha abboccato nel quarantotto il boccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavarsela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano si muove vuol dire che c'è sotto il pesciatello. L'anno scorso il sughero s'è mosso un pochino; il caro pesciatello non aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verrà un movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà un poco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, il nostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più, quel porcellino bianco, rosso e verde!" Il Biancòn ci aveva fatto una gran risata e spesso, mettendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevano per solito altri sottili e profondi pensamenti politici. Quella mattina il lago era quieto, propizio per le contemplazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si vedevan diritte, segno che non c'eran correnti. I bocconi, slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, il filo si distese via via sotto il sughero che gli navigò dietro un poco indicando con spessi anellini i titillamenti dei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che i bocconi s'erano adagiati sul fondo e che i cavedini non li toccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muricciuolo e si mise a pensare all'ingegnere Ribera. Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose di mansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli aveva fatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto se ne poté accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello si mangiò il boccone di Lombardia con l'amo e il filo e la bacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn, rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costituzionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudine, posando la bacchetta e pensando che si trattava di pescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli provò una singolare compiacenza non nel cuore, non nel cervello né in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo particolare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non aveva coscienza di sé come di un organismo distinto dall'organismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccola dogana di frontiera, si considerava una punta d'unghia in capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi, si considerava un occhiolino microscopico sotto l'unghia. La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le facevano il solletico sulla pelle della Galizia, egli ne sentiva il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloria dell'Austria gli ispiravano un orgoglio smisurato. Non ammetteva che il Brasile fosse più esteso dell'Impero Austriaco, né che la Cina fosse più popolata, né che l'Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, né che Domeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddio era l'Imperatore; rispettava quello del cielo come un alleato di quello di Vienna. Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l'ingegnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole del Commissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addirittura; e l'idea di trovarsi a portata questo malfido servitore accendeva il suo zelo d'occhio regio e d'unghia imperiale. Si diede dell'asino per non averlo conosciuto prima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene: bene bene bene bene! "Lasci fare a me! Lasci fare a me, signor ..." Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero aveva impresso nell'acqua un anello, dolcemente, muovendosi appena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bacchetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altro anello più grosso; il sughero va pian piano sull'acqua, si ferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sughero cammina ancora per un piccol tratto, a fior d'acqua e sprofonda; zac! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta si torce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto. "Peppina, el gh'è!", grida il Carlascia perdendo la testa, confondendo il sesso della tinca con quello dell'ingegnere in capo: "El guadèll, el guadèll". Il sedentario si volta invidioso: "Ghe l'ha, scior Recitòr?". Il Cüstant si cuoce dentro e non fa motto né volge la sua tuba. Ratì accorre e accorre anche la signora Peppina portando il "guadèll", una pertica lunga con una gran borsa di rete in capo, per imborsarvi la tinca nell'acqua, ché il tirarla su di peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancòn piglia il filo, lo raccoglie pian piano a sé. La tinca non si vede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su per un paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quindi torna a venire, viene, viene, e in fondo all'acqua, sotto il naso dei tre personaggi, balena un giallore, un'ombra mostruosa. "Oh la bella!", fa la signora Peppina sottovoce. Ratì esclama: "Madòne, madòne!", e il Biancòn non dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescione, corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro che viene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, con mala volontà. Le tre facce non gli piacciono perché volta loro di colpo la coda e sbattendola fa un'altra punta furiosa verso il fondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto il muro con la pancia dorata all'aria. La Peppina, rovescioni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica per imborsar il malcapitato e non le riesce. "Per el müson!", grida suo marito. "Per la cua!", strilla Ratì. A quello strepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si dibatte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trova il "müson", non trova la "cua"; il Biancòn tira, la tinca trascinata a galla si aggomitola e con una potente spaccata rompe il filo, strepita via tra la spuma. "Madòne!", esclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l'acqua con la sua pertica; "dova l'è sto pèss? dova l'è sto pèss?", e il Biancòn che era rimasto petrificato col filo in mano, si volta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglie per le spalle, la scuote come un sacco di noci, la carica d'improperi. "L'è andada, scior Recitòr?", fa il sedentario, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda il luogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suo pacifico sughero e brontola in tono di compatimento: "Minga pràtich!". Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, malconcia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopo Novara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toccherà la stessa fortuna.

IL RE DEL MARE

682246
Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - È vero che un giorno una nave inglese è giunta alla foce del Kabatuan e che quel pellegrino si è abboccato col comandante? - chiese Yanez. - Sì, signore, anzi aggiungerò che durante la notte l'equipaggio sbarcò altre casse piene d'armi. - Non sai a che razza appartiene quell'uomo? - No, signore: quello che vi posso dire è che la sua pelle è oscura assai e che parla il bornese con difficoltà. - Che mistero impenetrabile! - mormorò Yanez. - Mi romperò il capo senza riuscire a schiarirlo. Stette un momento silenzioso, come se si fosse immerso in un profondo pensiero, poi chiese: - Come avevano fatto a sapere che la Marianna giungeva in soccorso di Tremal- Naik? - Pare che sia stato un servo dell'indiano a informare i capi dayaki ed il pellegrino. - Quale incarico ti avevano dato? Il malese ebbe una breve esitazione, poi rispose: - Di arenare la vostra nave, innanzi tutto. - Non mi ero dunque ingannato, dubitando di te. E poi? - Lasciate che non confessi il resto. - Parla liberamente: ti ho promesso di lasciarti la vita ed io non manco alla mia parola. - Di approfittare dell'assalto dei dayaki per incendiarvi la nave. - Grazie della tua franchezza, - disse Yanez, ridendo. - Sicchè avevano deciso la nostra morte? - Sì, signore. Pare che il pellegrino abbia avuto qualche motivo di dolersi delle tigri di Mompracem. - Anche di noi! - esclamò Yanez, che cadeva di sorpresa in sorpresa. - Chi può essere costui? Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani. - Non so che cosa dirvi, signore. - Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque? - Non vi lascerà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all'ultimo, - disse il pilota. - Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi. - E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa? - Sì, signor Yanez, - rispose il meticcio. - Padada, - disse il portoghese, - sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata? - Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi. - Dunque la via che va dall'imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera. - O almeno poco guardata. - Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi? - Cinquanta fiorini e due carabine. - Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong. - Accetto, signore, - rispose il malese, - e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita. - Siamo ancora lontani dall'imbarcadero? - Fra un paio d'ore vi giungeremo, è vero? - disse Tangusa guardando il malese. - Fors'anche prima. Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo: - Saliamo in coperta. Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate. Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti. La Marianna, che s'avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s'avanzava nell'acqua sorretta da alcune file di pali. - L'imbarcadero del kampong di Pangutaran, - avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa. - Giù le àncore e accosta, - aveva comandato subito il portoghese. - Alle spingarde gli artiglieri. Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all'imbarcadero ai cui pali fu legato. Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva. Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall'imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme. - Pare che non vi sia nessuno qui, - disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata. - Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, - rispose Tangusa. - Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume. - Quanto distiamo dal kampong! - Un paio d'ore, signor Yanez. - Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci? - È probabile. Contate di partire subito? - Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti. - Quanti uomini prenderemo? - Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma. Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto. Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l'imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti. Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell'equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull'imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.