Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Il Marchese di Roccaverdina

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Erano due settimane che egli non tornava a Ràbbato, anche per evitare l'impaccio di una visita alla zia baronessa e di un abboccamento con Zòsima. Non poteva più dirle: «Non piove!». Acqua n'era cascata tanta, per due giorni e due notti di seguito! E le terre già schiumavano, inverdivano, frettolose di far germogliare i semi delle erbe d'ogni sorta rimasti addormentati e inoperosi tra le zolle indurite. Ma come pensare al matrimonio con quella fabbrica dello Stabilimento a cui egli doveva badare da mattina a sera, perché si fosse potuto trovare pronto prima che arrivassero le macchine e i coppi e le botti da collocare a posto? Come pensare al matrimonio con tante faccende campestri per le quali era costretto a scarrozzarsi da Margitello a Casalicchio, da Casalicchio a Poggiogrande, volendo osservare ogni cosa lui, sorvegliare tutto lui! Poteva fidarsi di quei stupidi contadini che non capivano nulla o fingevano di non capire ed eseguivano gli ordini a rovescio per farlo disperare e sgolare? Quando però, dopo la colazione con l'ingegnere o con qualcuno dei soci, andato a Margitello a osservare lo stato dei lavori, si affacciava alla finestra e vedeva là, a un centinaio di passi di distanza, le mura già coperte coperte dal tetto, le finestre con le solide inferriate e le imposte, e il via vai dei muratori che lavoravano nell'interno, e udiva il rumore delle seghe, delle pialle, dei martelli dei falegnami che allestivano le porte, egli si sentiva gonfiare il petto di orgogliosa soddisfazione. «Ve lo sareste immaginato mesi fa?» «Portenti vostri, marchese!» Quei soci erano un po' imbalorditi pensando anche ai gran quattrini già spesi. Li aveva anticipati il marchese, è vero, ma alla fine essi dovevano venir fuori dalle loro vigne, dai loro oliveti, quantunque a poco a poco; intanto avrebbero assorbito altro che i primi guadagni! E questi erano poi certi, sicuri? «Ci siamo imbarcati in una grossa impresa!» «Chi non risica non rosica. Ecco come siete!» S'indispettiva di vederli dubitare davanti a quel fabbricato sorto da sottoterra per incanto e che, tra non molto, sarebbe avvivato dall'attività delle macchine e colmato, negli spazi ora vuoti, dai coppi e dalle botti contenenti tesori! E per rincorare gli spericolati, li conduceva là dentro, tra l'ingombro dei materiali, facendoli montare su le impalcature non disfatte, saltare qua e là attraverso sbarre di ferro, legname, arnesi da muratori; fermandoli a ogni quattro passi per ridare spiegazioni cento volte date, per eccitare le loro immaginazioni perché vedessero le cose come apparivano agli occhi di lui, in pieno assetto, coi torchi sprementi le ulive infrante e colanti olio a rivoli; coi mosti che fermentavano nei tini e davano alla testa. Per poco egli non spillava limpidi vini dalle botti e non glieli porgeva nei bicchieri ad assaggiarli! «Ma dunque, nepote mio?» Finalmente avea dovuto andare dalla zia, preparato ai rimproveri che ella gli avrebbe fatto. «Cara zia! ... Appena mi sarò sbarazzato di questi impicci. Faremo presto, in poche settimane.» «Tutto alla buona, modestamente, senza lusso, desidera Zòsima.» «Questo non deve dirlo lei. Il marchese di Roccaverdina non può sposare come un galantomuccio qualunque.» «Lo credo anch'io. Ma quella povera figliuola non rinviene ancora dallo stupore di veder avverare il suo sogno. Ha paura di rallegrarsi troppo presto della sua buona sorte. E io debbo trovare ogni volta un nuovo sotterfugio per far accettare a lei e alla sua mamma quel po' con cui tu ed io vogliamo farle accorgere della loro mutata fortuna. "Abbiamo quel che c'è sufficiente. Ormai, ci siamo abituate! ... " Quel suo famoso "ormai!" Mi fa pena intanto l'altra ragazza. Si farà monaca, dice.» «Ora che stanno per abolire i monasteri?» «Dio non lo permetterà!» «Penseremo anche a lei. Ci penserà Zòsima. La marchesa di Roccaverdina riceverà una dote, e potrà disporre di qualunque somma, a suo piacere.» «La conosci poco. Le parrebbe di abusare del suo stato. Ha tutte le delicatezze quella figliuola. Giorni fa, mi diceva: "Deve trovarsi male con mamma Grazia. È persona fidata, affezionata, proprio una mamma. Una casa come quella però ha bisogno di una donna che sappia ... ".» «Infatti ha ragione. Da qualche tempo in qua, mamma Grazia va giù, va giù; è mezza istupidita. Ma posso mandarla via? Chiuderà gli occhi in casa Roccaverdina, poveretta!» «Mi diceva anche ... Debbo riferirtelo, perché tu la disinganni; il tuo modo di comportarti non è tale, in verità, da tranquillarla. Mi diceva anche: "Se lo fa unicamente per contentare sua zia (giacché io so quanto interesse ha preso lei perché questo matrimonio avvenga), se il suo cuore non sente per me quel che il mio sente per lui", e le tremava la voce, "lasciamo andare! Non vorrei che egli si sacrificasse. Ormai!". Sempre quell'"ormai!" La ho sgridata; ho risposto per te.» «Avete fatto bene, zia.» «Sarebbe assai meglio che cercassi di convincerla altrimenti tu stesso. Non pretendo che, alla tua età, tu ti metta a fare lo spasimante. Ma c'è modo e modo, nepote mio. "È un po' orso!", le ho detto. Lo addomesticherai tu, lo renderai un altro in poco tempo.» Il marchese non sapeva che rispondere. Sentiva di trovarsi dalla parte del torto. Il suo cuore non era preso, e quando egli pensava a Zòsima gli si agitava poco o niente. Provava un piacevole sentimento, una dolce soddisfazione; non altro. I suoi sensi non vibravano, come gli accadeva se una folata di ricordi, investendolo improvvisamente, gli avvampava il sangue e lo lasciava turbato e sconvolto, con un indefinito senso, che egli non distingueva bene se di rancore o di rimpianto. Appena la vide entrare però, assieme con la sorella e con la mamma, le andò incontro e le strinse fortemente la mano che ella gli porgeva commossa. «La campagna dev'essere un paradiso», disse la signora Mugnos. «Germoglia a vista d'occhio; sembra che scoppi!», rispose il marchese. «Era tempo!», esclamò la baronessa. Cristina non diceva niente. Si era seduta vicino ai seggioloni dove i due superstiti canini della baronessa stavano accovacciati coi musi appoggiati sul piano imbottito e con gli occhi socchiusi, e ne accarezzava con una mano le teste che mostravano di gradire assai la carezza, tremando leggermente ed abbassandosi sotto la mano. Intanto il marchese, tratta un po' in disparte Zòsima, le diceva quasi sottovoce: «Voglio giustificarmi». «Di che cosa?» «Di quel che voi sospettate.», «Non sospetto niente; temo. È naturale.» «Non dovete temere di nulla.» Guardandola e sentendola parlare, egli riconosceva più chiaramente il suo torto; e le parole di una volta: «Questa è la donna che ci vuole per me!», gli ronzavano nel cervello come un rimprovero. «Un po' di pazienza», rispose. «Qualche altro mese ancora. Voglio liberarmi dall'ingombro di parecchi affari. In certi giorni, ho una specie di stordimento, tante sono le cose a cui mi tocca di badare. Dovrebbe farvi piacere questa febbre di attività, dopo il mio balordo isolamento.» «Non me ne sono mai lagnata.» «Lo credo; siete immensamente buona. Voglio farvi ridere. Ho pensato di dare il vostro nome alla botte grande dello Stabilimento; porterà fortuna all'impresa.» «Grazie!», disse Zòsima sorridendo. «È una sciocca idea, forse ... » «Niente è sciocco se fatto seriamente.» Lieto della risposta, egli tacque un istante; poi riprese: «È vero che vostra sorella pensi di farsi monaca? ... ». «Non lo so; può darsi.» «Dissuadetela.» «Assumerei una grande responsabilità.» «Non vi ho mai palesato una mia idea. Non voglio separarvi dalla mamma e dalla sorella. La mia casa è abbastanza vasta da poter accogliere anche loro.» «Ve ne sono gratissima da parte mia. La mamma però ha una particolar maniera di vedere le cose.» «La sua delicatezza non potrà offendersi dell'invito ad abitare in casa di sua figlia.» «La nostra condizione c'impone molti riguardi di dignità. Quante volte non ho io pensato: "Che diranno di me?". È vero che non bisogna occuparsi della malignità della gente. Basta la propria coscienza.» «Io non mi sono mai occupato dell'opinione degli altri. Non mi chiamo Antonio Schirardi marchese di Roccaverdina per nulla!» «A voi sarà lecito; ma una famiglia come la nostra ... » «I Mugnos non sono da meno dei Roccaverdina.» «Erano!» «Il sangue non muta; il nome è qualche cosa.» «C'è un orgoglio che non può essere scompagnato dai mezzi di farlo valere. Io la penso come la mamma. E per ciò ho detto alla baronessa quel che deve avervi riferito, se ho ben compreso il significato delle vostre prime parole. Siate sincero, per vostro bene e mio! Tutto è rimediabile ora.» «Quando il marchese di Roccaverdina ha impegnato la sua parola ... » «Potete esservi ingannato. Qui non si tratta della vanità di mantenere o no la propria parola. Io vorrei detto da voi ... » Ella parlava con gentile timidità, quantunque non timide fossero le parole. La voce era alquanto affiochita dalla commozione, e anche dalla circostanza di dover ragionare alla presenza della baronessa, della mamma e della sorella. Il marchese, ammirando l'assennatezza delle parole di Zòsima, cominciava a scoprire che sotto quel contegno nobile e riservato covava un fuoco intenso, a cui soltanto la fortezza della volontà di lei non permetteva di divampare. Ebbe uno slancio; e prendendole le mani con rapido gesto, senza ch'ella avesse tempo d'impedire quell'atto, disse: «Non ho altro da dirvi, Zòsima, che sono dispiacentissimo di avervi dato occasione di dovermi parlare così!». Una leggera pressione delle belle mani di lei fu la risposta. Zòsima abbassò gli occhi, col volto colorito da una sfumatura di roseo.

Giacomo l'idealista

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De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Mentre don Lodovico pensava al modo di aver un abboccamento con monsignore di San Zeno, che non aveva l'onore di conoscere di persona, sentí dire dal canonico Murari che il degno prelato era venuto a Milano ospite per alcuni giorni dei padri barnabiti di Sant'Alessandro. Non tardò a procurarsi una lettera di presentazione, non volendo perdere una cosí bella occasione, mentre perorava la causa d'un libertino, di tastare il terreno sul programma che il partito intransigente stava preparando per le prossime elezioni amministrative. Già da qualche tempo i vari partiti conservatori, di fronte alle fortunate audacie della progresseria radico- massonico- socialista, sentivano la necessità d'un segreto concentramento di forze, in virtú del quale i sentimenti piú liberali avrebbero dovuto abdicare a molte speranze e cedere un pezzo di superbia ai clericali, che, avendo un programma piú stretto e piú determinato, eran piú sicuri di vincere. Era sonata l'ora in cui i liberali della destra pura dovevano sostituire alla speranza la rassegnazione, al bene il meno male: ma non tutti sapevano acconciarsi al fatale destino, che travolge i partiti che non sanno rinnovarsi. Di Breno era uno di quelli che piú mordevano il freno e giurava che lui a Canossa non sarebbe andato mai. Cavouriano indurito, che sulla formola di "libera Chiesa in libero Stato" si sarebbe lasciato inchiodare vivo, era persuaso che con questo programma storico si poteva far molta strada ancora nella via del progresso e della libertà, non solo, ma che l'aristocrazia intelligente, piú che all'ombra del baldacchino, doveva prendere il suo posto all'ombra di questa bandiera, che era sventolata da Novara a Roma. Ma i preti, non contenti di far la parte del leone nella distribuzione delle cariche amministrative e nella rappresentanza delle Opere pie, pretendevano di mettere all'uscio addirittura il vecchio e nobile partito che aveva fatto l'Italia e, se era possibile, di seppellirlo non ancor morto del tutto nel sudario di Roma intangibile. Fiutando il vento infido, anche in vista d'una non lontana elezione politica, che avrebbe scosse le basi del suo vecchio Collegio, sapendo che questo monsignor di San Zeno aveva un po' la natura degli antichi arcivescovi, che andavano in battaglia colla croce in una mano e la spada nell'altra, immaginò che lo scappuccio di Giacinto potesse tornargli comodo, se non altro per rendere sua Eminenza meno rigido e meno restrittivo. Non c'è economia piú astuta di quella che insegna a trar profitto dai peccati degli altri: e il nostro don Lodovico, senza essere un genio, ci aveva questo talento nella zucca pelata. Sua Eminenza, appena ebbe ricevuta la lettera dell'onorevole deputato, gli fece sapere che sarebbe stato lieto di conoscere personalmente un gentiluomo, che conosceva cosí bene di fama. E il conte fu puntuale al convegno. Introdotto da un giovine prete grande e robusto come un gendarme in un salotto della fabbriceria, fu amabilmente e decorosamente ricevuto da monsignore. Questi era ancora una bell'asta d'uomo, di solida e fresca senilità, di carni ancor morbide e quasi biancheggianti sul severo paonazzo della mozzetta, che egli sapeva portare con signorile eleganza. Quantunque non schivasse col rigore dei principî le occasioni per farsi dei meriti presso la Curia romana e presso il partito piú intransigente che domina la Chiesa, pure nei rapporti sociali rivelava un uso non mai interrotto di aristocratiche abitudini e un galateo di tolleranza, che una certa prelatura di piú recente fabbrica non può né conservare, né inventare. Se avesse dovuto crearsi uno stemma morale a insegna dell'episcopio, al posto del santo, che decorava le torri della famiglia, monsignore avrebbe scritto il motto: "Mano di ferro in guanto di velluto ." , essendo egli persuaso che il primo segno di forza è nel rispetto che si usa all'avversario. La trivialità non è che una secrezione velenosa di animali inferiori. Di fronte alla persona larga e paludata del prelato, il povero conte, già cosí magro e cosí poco nei panni, con quel suo passo breve e come dimezzato, con quegli occhietti miopi di formica affogati nelle lenti dell'occhialetto, con quella testa a foggia di mellone, faceva la figura, non d'un legislatore, ma a dir molto d'un fabbriciere, o quasi d'un sollecitatore d'elemosine. Monsignore, per quanto fiutasse da lontano il motivo di questa visita, volle per una strategia diplomatica mostrarsi esagerato nei complimenti. Se questi signori liberali, scassinati nelle loro basi, venivano al tempio col capo coperto di cenere, curvi sotto il peso di tutti gli errori commessi in sedici anni di cattiva politica ecclesiastica, piú che il gridare: "Vade retro, Satana ." era il caso di ammorbidir loro la contrizione e di mettere un cuscino di velluto sotto i loro ginocchi. - Ringrazio il signor conte di questa bella visita, - disse il vescovo, che, sorridendo in tutte le pieghe della sua faccia morbida e pastosa, soggiunse poi con arguzia: - Per quanto traviato, l'onorevole di Breno non è per noi un Innominato . - Invece io sono venuto a cercare il mio Federico Borromeo, - fu pronto a ribattere il conte, che in queste battagliuccie diplomatiche era un piccolo Machiavelli in guanti inglesi. E non volendo perdere il vantaggio di parlare per il primo, vantaggio che serve a dare, se non il motivo, almeno la battuta della musica, continuò subito: - Avrei dovuto venir prima a compiere il mio dovere verso monsignore e non qui in casa altrui . - I nostri doveri sono i nostri piaceri - declamò monsignore, premendo un istante sul largo petto la mano ossuta del conte nella sua piú nutrita, ingemmata del ceruleo topazio. I due illustri personaggi, davanti a un vasto camino, dove ardeva silenziosamente un gran tronco, sedettero in due seggioloni a spalliera ritta, coi bracci imbottiti di cuoio, sotto lo sguardo un po' fiero di un santo dipinto, dalla lunga barba nera, credo San Paolo, che reggeva colla sinistra un gran libro squinternato e colla destra si appoggiava a un lungo spadone. Cornice, quadro, seggioloni, e i pochi mobili massicci, che arredavano l'area della vasta sala in cui fluttuava un filo di odor d'incenso e di cera bruciata, ebbero per gli occhi del conte l'aspetto stanco e addormentato delle cose che non si muovono mai, come certi principi che non sentono gl'impulsi del tempo. - Prima d'ogni altra cosa mi dica come sta la signora contessa - riprese monsignore con un tatto gentile d'uomo, che sa il vivere del mondo. - Molto bene, grazie, monsignore. Essa mi ha incaricato di presentarle il suo ossequio rispose il conte, sapendo di dire un'amabile bugia. - Conosco donna Fulvia dalle unghie tenerelle. Non fu essa educata nel collegio delle Dame inglesi? - Appunto, Eminenza. - Non era compagna di mia nipote Cristina? - Precisamente. - L'ho confessata piú volte quand'ero vicario da quelle parti. Ha figliuoli, n'è vero? - Dio non ha voluto contentarla - confessò confusamente colle orecchie un po' calde il conte, fissando lo sguardo nel fuoco. - Pazienza! Si può essere sempre di vantaggio all'umano consorzio - si affrettò alla sua volta a correggere monsignore, che, per quanto esperto e navigato, non aveva forse finito d'imparare. - Io sono venuto, Eminenza, per due motivi - ripigliò subito il conte per uscir presto da quel discorso impacciato. - Il primo motivo è, dirò cosí di ragione pubblica; l'altro molto piú delicato, tocca molto da vicino la persona e la famiglia di vostra Eminenza. Cominciamo dal primo. Presto avremo le nostre elezioni amministrative, che preludieranno alle grandi elezioni politiche di questa prossima primavera . - Sicuro! - disse la voce baritonale del prelato che, ripercossa dalla vólta, lasciò indietro un silenzio un po' lungo pieno di difficili sottintesi. Il conte vedendo che il nemico non rispondeva alla prima cannonata, fece un passo avanti: - Io so che vostra Eminenza è un capitano che non dorme sugli allori. - Dica spine, dica spine, signor conte. - Se è permesso a un bandito qualche indiscrezione, vorrei chiedere a monsignore quali sono le sue intenzioni per la prossima battaglia. - Non ho nessuna difficoltà a dir quel che è. Il nostro partito questa volta farà da sé. - Cioè porterà nomi suoi, escludendo quelli degli alleati . - Salvo una o due eccezioni. - A tutto vantaggio degli avversari comuni. - L'urna deciderà. Il dialogo seguiva serrato col passo d'un esercito che si concentra. Il conte masticò una goccia di saliva, e alzando una mano quasi per invocare indulgenza: - Ecco! - fece - se vostra Eminenza mi assolve, io credo che il partito, al quale Ella consacra la sua nobile attività, si lasci un po' troppo presto acciecare dalla buona fortuna e voglia mangiare, come si dice, il fieno in erba. - A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarci, - fu pronto a ribattere monsignore, ingrossando la voce. - Oggi troppa zizzania è mescolata al buon frumento, e io son persuaso che, come in natura, cosí nella vita morale nessuna idea può nascere da ibridi connubi. - E nel finire questa bella frase, la voce, come se sentisse l'impulso dell'interna convinzione e dell'indole battagliera dell'uomo, cominciò a prendere una solennità pastorale. Il conte, che intese subito il latino della sacrestia, tentennò un poco la piccola testa aguzza, si fregò le ginocchia, masticò ancora una goccia di saliva, per finir di concludere: - Prego vostra Eminenza di credere ch'io non parlo per me, perché ormai della vita politica son piú le amarezze che le dolcezze che vado continuamente ingoiando, e il mio sogno è di ritirarmi in campagna a coltivare i miei cavoli. Ma la mia vecchia esperienza mi dice che il partito clericale, con questa sua intransigenza, fa un buco nell'acqua: provvederà forse a qualche piccola ambizione locale, ma perde di vista il bene supremo della patria e della religione . - Conte, conte, conte - scattò monsignore, facendosi rosso e caldo in viso, quantunque si sforzasse di smorzare l'improvviso risentimento sotto un sorriso, che non riusciva ad essere allegro. - Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della religione, tanto quanto lo può intendere un seguace delle idee liberali. Non è colla diuturna guerra alle istituzioni ecclesiastiche, alle mense vescovili, agli ordini rnonastici, non è coll'obbligare al servizio militare i giovani chierici, condannandoli all'obbrobrio delle caserme, non è colla confisca delle mani morte, non è coll'ignorare o col fingere d'ignorare che ci sia una coscienza religiosa nel paese, non è coll'oltraggiare l'istituzione stessa del cattolicismo nella persona del suo Capo, non è con questi mezzi che i nostri avversari di ieri hanno provveduto al bene della patria. Peggio non potranno fare i nostri avversari di domani, se l'urna sarà repubblicana o socialista. Cristo ha detto: "se la tua destra ti è cagione di scandalo, tagliala", e noi tagliamo, caro conte, cioè noi separiamola causa nostra da tutti coloro che considerano, per esempio, il pontificato romano, non come una gloria e come una futura salvezza, ma come una vergogna della patria. È duro di dover ferire dei cari amici, ma l'intransigenza e la coerenza, è la forza dei principii, e per noi è la verità. L'Apostolo delle genti, che ci sta guardando da questa cornice - e monsignore indicò colla mano la fiera figura del santo dalla lunga barba nera - ci ha insegnato a combattere per Cristo. Il simbolo della pace è la spada. Il conte si guardò bene dall'interrompere una eloquenza, che sgorgava cosí calda e sonora, ma, fingendo un atto remissivo di rassegnazione, con voce umile riprese a dire: - Perdoni, Eminenza, se nella foga del dire mi è uscita qualche parola, che possa essere sonata male al suo orecchio. "Iliacos intra muros peccatur et extra", e la storia ci giudicherà tutti a tempo opportuno. Ora, per non farle perdere il suo tempo cosí prezioso dirò subito dell'altro motivo, che mi ha persuaso a chiederle questo abboccamento. Qui non è piú il deputato che parla ma parla l'ambasciatore: mi sia lecito dunque invocare il diritto delle genti, che riconosceva sacra e inviolabile la persona del feciale. Chi mi manda, come vostra Eminenza può vedere da questo biglietto, è don Giacinto Magnenzio, il figlio di donna Cristina. - Notus in Judea Che cosa vuole l'elegante ufficialetto? la mia benedizione? - Vuole, vuole, veramente non saprei come dire. Se parlassi a un uomo di mondo, potrei invocare il detto classico: Homo sum et nihil humani a me alienum puto. Il conte si rallegrò in cuor suo d'aver infilato cosí felicemente e in cosí breve tempo le due belle citazioni latine, e lasciò capire che la riverenza verso il ministro di Dio lo rendeva un poco imbarazzato e perplesso. - Cioè? ha fatto degli altri debiti? è vero che giuoca? quella povera Cristina ha avuto la sua croce in questo ragazzo. - È un ragazzo un po' vivo e, girando per il mondo, si sa, le occasioni son molte. Anche sant'Agostino ha fatto le sue in gioventú. - Lei, conte, sarebbe un eccellente avvocato per la mia canonizzazione. - Monsignore rise con tutta la sua bella voce per dissipare con un gran frastuono quel po' di amaro e brusco che poteva essere rimasto nell'aria. Poi seguitò: - Parli, parli, il sacerdote è abituato a compatire le debolezze umane. Che cosa vuole questo signor Argante? - C'è che ha conosciuta una ragazza - disse il conte, scivolando sulle parole. - Cioè? - fece il vescovo, corrugando le grosse sopracciglia - E ci sono conseguenze . - Oh .! - uscí con un suono secco il prelato. - Una ragazza di bassa estrazione, una figlia del popolo . - Asino, imbecille! - tuonò questa volta monsignore, lasciando cadere sul braccio della poltrona un gran colpo di mano. E si volse a interrogare collo sguardo corrucciato. E il conte sempre umilmente, come se confessasse dei peccati suoi, continuò: - Suo padre non lo sa e non lo deve sapere, povero uomo. La contessa non fa che piangere. - Peggio per lui e peggio per lei! -soggiunse, battendo un altro colpo sdegnoso colla mano chiusa: poi, alzandosi in tutta la maestà del suo portamento patriarcale: - Dica a don Giacinto sentenziò gravemente - che ad altre cure, ad altri bisogni è consacrata la dignità del vescovo. - Monsignore, non respinga le lagrime di un peccatore, - supplicò nuovamente don Lodovico di Breno, che pregustava già il saporino del suo piccolo trionfo. - Chi è causa del suo mal pianga sé stesso - ribadí il vescovo duramente, rimettendosi lentamente a sedere. - Io credo invece che il caso questa volta meriti una speciale considerazione. La ragazza non è sconosciuta dalle nostre parti e, se i parenti vogliono sollevare un clamoroso scandalo, e mettere in qualche imbarazzo anche vostra Eminenza, avranno buon giuoco in mano. I nostri avversari, pardon, - corresse con un saltuccio di malizia birichina- dirò meglio gli avversari di vostra Eminenza non aspettano che un pretesto per dare una grande battaglia, che quest'anno sarà, da quel che so, non contrastata nemmeno dal Ministero, che vuol vincerla ad ogni costo. Ora è evidente che non Giacinto solo ne andrà di mezzo, ma ne andranno di mezzo i Magnenzio, i San Zeno, i di Breno, vale a dire tutti i piú bei nomi del Collegio, le colonne del partito onesto, che non so come potranno resistere ai colpi dei giornali avversari. Uno scandalo di questo genere, quando sia ben manipolato, fa una grande impressione sulle masse, è un turbine, che scompagina tutte le baracche della fiera. Mi par già di leggere quel che si stamperà in grossi caratteri sui giornali piú scalmanati di Milano o di Roma: "I fasti dei Catoni", "I diritti feudali .", "La moralità dei predicatori di morale", "Il nipote d'un vescovo .". Aggiunga, Eminenza, - continuava quel birbonaccio di conte colla compostezza di chi mette a posto un prezioso mosaico - aggiunga che la ragazza era fidanzata a un giovanotto di là, un ex garibaldino, un arrabbiato libero pensatore, una mezza testa filosofica, tutt'amicizia, pare, coi capoccia della framassoneria, che stampa dei libri, e che saprà fare di questo scandalo un buon sgabello per andare in su. " Rebus sic stantibus", io non so se a vostra Eminenza convenga proprio lavarsene le mani . - Quel che mi dice, caro conte, è veramente brutto - balbettò monsignore, abbassando la testa, coll'abbandono d'un uomo stanco, mentre col fazzoletto si asciugava la pallida fronte. - Perché non mi hanno scritto subito? - Prima non si sapeva, poi si è creduto che il male fosse minore di quel che è. Si è sperato sempre in qualche atto di riparazione… ma è una desolazione, creda, per la povera contessa. Se lei non interviene, monsignore, colla sua autorevole benevolenza, è una rovina per tutti . - E come posso io impedire ai nostri nemici di usare di un loro diritto di guerra .? - Ecco! - riprese colla sua vocetta meticolosa l'ometto avveduto - conosco un poco questi nostri nemici, perché li vedo piú da vicino. Dove non può arrivare la mano consacrata dei vescovo, potrebbe arrivare la mano scomunicata del deputato .(Il conte, per togliere ogni sapore ingrato alla facezia, cercò colla sua la mano paffutella dell'alleato, che rispose con una stretta lunga e cordiale). - Non solo conosco molti di questi avversari, ma so anche quel che costano. Quando poi lasciassi capire al sottoprefetto che una guerra di scandali non sarebbe gradita alla Corte, Gadda é un uomo da far tacere anche le oche del Campidoglio. Ma perché io possa essere forte con Gadda, bisogna che mi senta sicuro nelle mie scarpe, ovverosia che vostra Eminenza mi dica fin dove posso andare col suo nome e col suo appoggio . - Ho capito! - disse monsignore, chinando la testa: e per un istante le due piccole potenze rimasero in silenzio in una grave contemplazione del fuoco. Quindi come due corrieri che, giunti da strade diverse a un crocicchio, si preparano a far insieme il resto della strada, continuarono a discorrere un pezzo, in un colloquio piú sciolto e familiare, da buoni amici, che provvedono a guardarsi dai ladri. Il deputato promise di veder subito il sottoprefetto: il vescovo avrebbe fatto chiamare il curato del sito; se la ragazza era già nelle buone mani delle contesse di Buttinigo, non sarebbe stato difficile farla viaggiare anche piú lontano; non restava che uno scoglio: il fidanzato, questo ex garibaldino. - Come si chiama questo giovane? - chiese il prelato. - Giacomo Lanzavecchia - disse il conte, dopo aver consultato un piccolo taccuino. - 1 suoi hanno una fornace e un deposito di tegole non molto lontano dal Ronchetto. Monsignore prese nota dei nomi, dei siti, delle circostanze, e promise di scrivere al piú presto le notizie delle sue investigazioni. Il conte posò le labbra sul ceruleo topazio e venne via in fretta col suo passetto dimezzato, desideroso di veder Giacinto, prima che partisse per Roma. Lo trovò che passeggiava martoriandosi i piccoli baffi, in preda ad una nervosa inquietudine, sotto l'atrio del teatro alla Scala. Infilò il suo braccio in quello del giovine e, rimorchiandolo verso il caffè Cova, andarono a sedersi a un tavolino d'angolo nella sala grande del ristorante, dov'era tutto preparato per la colazione. - Coraggio, le cose si mettono bene. Credo di aver vinto, non una, ma due cause, la tua e la mia. È proprio il caso di ripetere col salmista: " Felix culpa. !" e, tracannato un bel bicchiere d'acqua per spegnere l'arsura interna che lo rodeva, disse al cameriere, che aspettava gli ordini, ritto, impalato nella sua linda falda nera, coll'aria anche lui d'un solenne diplomatico: - Il tenente beve Lafitte e in quanto al resto ci mettiamo nelle tue mani, Biagio. Oggi pago io, s'intende, per diritto d'anzianità. - E dopo aver ripulita due volte la bocca col tovagliolo, don Lodovico, che sentiva d'aver guadagnata la sua giornata, datasi una fregatina di mani, soggiunse: - Peccato non essere un Paolo Ferrari, che avrei l'argomento per una magnifica scena diplomatica. Avessi sentito con che tono alto aveva cominciato: "Vorrà concedere, signor conte, all'ultimo dei ministri di Dio di saper intendere che cosa sia il bene supremo della patria e della religione. A noi non importa tanto il vincere quanto il purificarsi .". Ma poi il sant'uomo scese da cavallo, ammorbidí la voce, sbarrò tanto d'occhi a sentire come suo nipote santifichi le feste, e per farla corta, s'incaricò di far chiamare il prete della parrocchia e mi ha dato un specie di carta bianca per tutte le autorità eretiche e scismatiche. Per questa volta, - continuò con nervosa garrulità l'onorevole di Breno, mentre col tovagliolo finiva di compiere la pulizia delle posate e dei bicchieri - per questa volta anche il diavolo avrà la sua parte. E a rivederci alle elezioni generali! Non resta ora che di mettere a posto quel povero pretendente, che tu hai servito un po' troppo ladramente, turpe seduttore di ragazze oneste. Che porcheria mi dai per cominciare? - chiese, interrompendosi e volgendosi al cameriere, che metteva in tavola un piatto di cibi freddi. - Huîtres à l'huile , signor conte.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

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Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Il Torresani, dopo il suo abboccamento col Gran Proposto, si recò all'Uffizio di Sorveglianza per procedere senza ritardo alle operazioni richieste dal caso. Il suo zelo fu adeguato alla importanza della missione; ma forse egli non sarebbe riuscito ad appagare pienamente i desideri del suo superiore, se la fortuna non lo avesse singolarmente favorito. Erano trascorsi quindici giorni dacché l'Albani aveva lasciato Milano per recarsi a Costantinopoli e quindi a Pietroburgo, e il Torresani, che aveva mandato sulle sue tracce una mezza dozzina de' suoi segugi più fidati per spiare ogni sua azione, ogni suo movimento, non aveva ancora ricevuto alcun dispaccio soddisfacente. Il vecchio Capo di Sorveglianza già cominciava a dubitare della buona riuscita del suo piano strategico, quando un incidente, che a prima giunta non pareva avere alcun rapporto coll'affare che tanto gli stava a cuore, venne inaspettatamente in suo soccorso. Una mattina, mentre il Torresani se ne stava, come al solito, nel suo gabinetto, a decifrare i dispacci arrivati nella notte, un esploratore di alto cielo

L'ALTARE DEL PASSATO

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Gozzano, Guido 1 occorrenze

Fu persin necessario un abboccamento tra mio zio e il vecchio di sopra, per la questione d'un camino in comune. - Sembra un uomo dabbene, nessuno lo direbbe il padre di quell'anticristo. E mio zio tossiva, tossiva e tossivo anch'io; e l'aria in questa sala si faceva sempre più irrespirabile. Ed una notte l'incredibile catastrofe avvenne. Fu nel buio e nel silenzio un fragore, un rombo che scosse la casa dalle fondamenta. Tutti ci trovammo in piedi, in camicia, nell'oscurità: io, lo zio, la cuoca, urlando impazziti. - Il terremoto! Le mine! Una bomba! I ladri! Quando furono accesi i lumi e ci precipitammo verso la sala, l'aria era annebbiata di fumo e di calce. La prima cosa che mi vidi venire incontro fu il cane dei nostri vicini di sopra, che guaiva lamentosamente. E nella sala, alla luce delle nostre candele, apparve una rovina spaventosa. L'ultima trave era spezzata, un buon terzo del soffitto sfondato; nella sala, tra un cumulo di macerie, si distingueva un letto, due sedie, materassi e lenzuola disperse e un uomo che si agitava non più in eroica camicia rossa, ma in prosaica camicia da notte - invocando soccorso. - Ortensia, ritirati! Mi rifugiai nel corridoio, ascoltando. - Ma come mai lei s'è introdotto nella mia casa? - Introdotto? Ci sono precipitato, non vede? - Ma che cosa macchinava lassù? Chi ha fatto quel buco? - Lo domando a lei! Non io certamente! Sono salvo per miracolo! Ma una gamba non mi regge e vedo le stelle ... - Vediamo, vediamo, - e la voce di mio zio si rabboniva, - si accomodi intanto e si copra. Io mi vesto e vengo subito. S'udivano dall'alto, dall'orlo della buca, le grida di spavento, le invocazioni della famiglia di sopra che domandava notizie dello scomparso e la cagione dell'accaduto. Era accaduta una cosa strana e semplicissima. Una scintilla del camino aveva carbonizzato la trave del soffitto, minandola come può fare un tarlo, per settimane e settimane, pur lasciandone intatta la superficie. E nell'ora fatale aveva ceduto. - Mio figlio! Mio figlio! Cesarino? Sei vivo? - Vivo, mamma! Non ti disperare. Subito tutta la famiglia di sopra fu nella nostra casa. Un dottore, chiamato d'urgenza, giudicò la gamba non grave, ma temibilissima una congestione per lo shock del capitombolo, necessaria l'immobilità assoluta ed il silenzio. Fu improvvisato un letto in questa sala stessa, là, in fondo. E il ferito restò qui tre settimane. - E lei lo vegliò amorosamente, come nei romanzi d'una volta. - Proprio, ma non sola. C'erano la madre e la sorella che si davano il turno; e mentre noi si vegliava, il padre di lui e mio zio giocavano a carte, bevendo, ciarlando, presi da quella reazione di simpatia improvvisa che segue sovente le avversioni silenziose ed ingiustificate. L'ammalato migliorava. Ma verso sera sopraggiungeva la febbre ed il delirio. Una sera, per adattargli la vescica del ghiaccio sulla nuca, fui costretta a sollevare la folta chioma nera sulla bella fronte pallida. Egli mi baciò la mano che ritirai subito; aprì gli occhi, arrossì come un fanciullo. - Perdoni, signorina, l'avevo presa per mia sorella. Un altro giorno, dopo un lungo silenzio, soli questa volta, io fissavo nel sonno quel bellissimo volto, quando m'accorsi che il giovane mi guardava tra le lunghe palpebre appena socchiuse: - Signorina, io sono umiliato. - Umiliato di che? - Non le so dire. Della figura grottesca che ho fatto, che faccio con lei. Penso che nella mia vita avrei potuto conoscerla in dieci occasioni gloriose ed apparirle un eroe. E invece le sono precipitato in casa come un sacco di legumi. Avrei voluto averla infermiera a Milazzo, quando sbaragliammo le truppe di Bosco. Fu una lotta a corpo a corpo contro i Borboni. Non guardavano più a noi. Tutte le sciabole erano dirette a Lui, era Lui che volevano uccidere. E il Dittatore sarebbe stato finito se Missori, se Statella, se noi più fidi non gli avessimo fatto scudo. E fu nel fargli scudo che mi presi questa graffiatura. E Cesarino scoperse il petto sopra una larga cicatrice obliqua. - Fui dieci giorni in un fienile tra la vita e la morte: e avevo a vegliarmi una vecchia quasi scema ... Penso oggi, con rimpianto, che quella vecchia avrebbe potuto esser lei. - Sono giunta troppo tardi, - sospirai, ad arte, - sono giunta troppo tardi, signor Cesarino. - Troppo tardi per la gloria, ma non per l'altra cosa. - Qual cosa? - La cosa che penso, - mormorò fiocamente il malato. E non parlò più. E chiuse gli occhi. Ma quando gli posai il ghiaccio sulla fronte ardente, mi baciò la mano ancora una volta. E non mi disse più di avermi prosa per sua sorella. *** E così, sei mesi dopo, sposavo l'uomo che fu per quasi quarant'anni il compagno della mia vita. - Ed è stata felice? - La domanda è indiscreta; ma le mie confidenze gliene dànno il diritto. Non felice, - la felicità non è di questo mondo, - serena. Certo non si prolunga per mezzo secolo la poesia dei vent'anni. Se penso a quei giorni mi par d'averli letti in un bel romanzo. - Signora, temo che lei non abbia amato suo marito, mai. - Signore, l'ho adorato! - Mi spiego. Ha amato in suo marito l'eroe dei suoi diciott'anni: Giuseppe Garibaldi. Penso che molti cuori diciottenni abbiano avuto in Italia, in quei giorni, la stessa illusione e abbiano sposato un garibaldino non potendo sposar Garibaldi ... - Per copia conforme, - e la vecchia signora sorrise, col suo bel sorriso giovanile - per copia conforme: può darsi anche questo ...

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