Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Se non ora quando

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Levi, Primo 1 occorrenze

Finché ce l' hai addosso, abbiti riguardo. Leonid lo guardò attonito e sospettoso: _ Che cosa hai voluto dire? _ Non mi vorrai prendere alla lettera. Anch' io ho sangue di profeta, come ogni figlio d' Israele, e ogni tanto gioco a fare il profeta. Con Line e Sissl abbandonò il vaticinio e sfoderò maniere da operetta. Le chiamò "mie nobili dame", ma volle sapere quanti anni avevano, se erano ancora vergini e chi erano stati i loro uomini. Sissl rispose intimidita, Line con fierezza chiusa, tutte e due mostrarono fretta di porre fine all' interrogatorio. Gedale non insistette e si rivolse a Mendel. Ascoltò attento la sua narrazione, e gli disse: _ Tu non reciti. Sei rimasto un orologiaio, non hai messo su le penne del pavone e neanche quelle del falco. Benvenuto anche tu, ci sarai utile perché sei un prudente, servirai da contrappeso. Qui tra noi la prudenza è andata un po' dimenticata. Abbiamo anche poca memoria, salvo che per una cosa. _ Quale? _ chiese Mendel. Gedale accostò solennemente l' indice al naso: _ "Ricòrdati quello che ti ha fatto Amalec nel cammino, dopo che voi eravate usciti dall' Egitto. Ti ha assaltato mentre eri in strada, ha ucciso tutti i deboli, i malati e gli affaticati che erano alla tua retroguardia; non ha avuto timore di Dio. Perciò, quando il tuo Dio ti avrà dato requie dai tuoi nemici, tu di Amalec spegnerai perfino la memoria: non lo dimenticare". Ecco, questo noi non lo dimentichiamo. Ho citato a memoria, ma questa volta non a sproposito. A metà maggio la banda di Gedale era accampata sulle rive del Gorin, bianche di mughetti e di margherite frettolose. Uomini e donne, nudi o quasi, si lavavano con gioia nell' acqua lenta del fiume. Jòzek, con due compagni armati, era partito per Recitsa con le due vacche e il cavallo di Pavel: a Recitsa, presso il confine ucraino, c' era mercato. Ritornò poche ore dopo; aveva barattato le vacche contro pane, formaggio, lardo, carne salata, sapone: il resto era in marchi tedeschi d' occupazione. Il Tordo incedeva glorioso e sudato sotto il carico. Sembrava quasi che la guerra fosse finita, comunque era finito l' inverno. Nella cittadina Jòzek non aveva visto traccia di tedeschi: se c' erano, se ne stavano acquattati. Non aveva avuto bisogno di dare spiegazioni né di mercanteggiare, i contadini avevano imparato da un pezzo che con i partigiani (di qualsiasi colore) non si doveva essere né curiosi né avari. Al ritorno, Jòzek vide una buona metà della banda schierata in silenzio sulla sponda del fiume; Gedale seduto su un ceppo, con i piedi nell' acqua e il violino a mezz' aria; ed Izu, uno degli uomini di Blizna, peloso come un orso e tutto nudo, che guadava lentissimo, passo dopo passo, verso uno scoglio in mezzo alla corrente. Tutti lo stavano guardando, e lui faceva cenno a tutti di non muoversi e non parlare. Quando fu ai piedi dello scoglio, si immerse completamente, sempre con estrema prudenza; si vide l' acqua agitarsi per un istante, ed Izu emerse stringendo fra le mani un grosso pesce che si dibatteva. Lo morse dietro la testa, e il pesce si afflosciò: era lungo due palmi, le sue scaglie color bronzo scintillavano al sole. _ Che cosa ha preso, Izu? _ chiese Gedale. _ Credevo che fosse una trota; invece è un sazàn! _ rispose Izu orgoglioso, risalendo la riva. _ È strano, nell' acqua così bassa _. Si accovacciò presso una pietra piatta, sventrò il pesce, lo lavò nell' acqua corrente, lo incise lungo il dorso con il coltello, e prese a staccarne la carne dai fianchi ed a mangiarla. _ Come, non lo fai cuocere? _ Il pesce cotto non ha più vitamine, _ rispose Izu masticando. _ Però è più gustoso. E poi ha più fosforo, e il fosforo fa diventare intelligenti. Si vede che voi di Blizna lo mangiate sempre crudo. Gedale salutò Jòzek da lontano, agitando la mano: _ Bravo, Jòzek, per una settimana siamo a posto _. Poi riprese a suonare il violino: si era spogliato fino alla cintura, ed aveva in viso un' espressione estatica, non si capiva se per la musica o per il pediluvio, ma Bella non gli dava requie. Delle tre donne che erano arrivate a Turov con la banda sembrava che Bella fosse la più vicina a Gedale, che si ritenesse la sua donna legittima e definitiva, e che Gedale fosse di opinione diversa oppure non si curasse di definire la questione. Insieme con altri, Bella stava montando una tenda militare, ma continuamente si interrompeva, ed interrompeva Gedale gridandogli all' orecchio come a un sordo; Gedale le rispondeva pazientemente, riprendeva a suonare, e di nuovo Bella lo interrompeva con le sue doglianze: _ Smettila con quel violino: vieni piuttosto a dare una mano! _ Appendilo ai salici, Gedale! _ gridò Dov di lontano. _ Non siamo ancora a Gerusalemme, ma non siamo più a Babilonia, _ rispose Gedale, e riprese a suonare. Bella era una biondina esile dal lungo viso imbronciato. Dimostrava una quarantina d' anni, mentre Gedale non doveva aver oltrepassato i trenta; distribuiva spesso rimbrotti e critiche, e dava ordini che nessuno eseguiva, ma non mostrava di risentirsene. Gedale la trattava con tenerezza appena tinta di ironia. Nella tarda mattinata le sentinelle avvistarono un uomo solo, che di lontano gridava "Non sparate!"; lo lasciarono avvicinare, ed era Piotr. Gedale lo accolse senza mostrare stupore: _ Bravo, hai fatto bene a venire con noi. Siediti, fra poco si mangia. _ Compagno comandante, _ disse Piotr, _ ho solo la rivoltella, il parabellum l' ho lasciato a quelli di Ulybin. _ Se lo portavi con te era meglio, ma non importa. _ Vedi, io lo so che non ho fatto bene, ma con Ulybin ho litigato. Era troppo duro, non solo con me ma con tutti. E una sera abbiamo avuto una discussione seria ... una discussione politica. _ E avete parlato dei gedalisti, non è vero? _ Come hai fatto a indovinarlo? Gedale non rispose, ma domandò a sua volta: _ Non manderà a cercarti? Guarda che noi con Ulybin non vogliamo questioni. _ Non manderà a cercarmi. È lui che mi ha cacciato via. Mi ha detto di posare il parabellum e di andarmene. Me l' ha detto lui di venire da voi. _ Te lo avrà detto da arrabbiato. O da ubriaco: magari poi ci ripensa. _ Era arrabbiato ma non era ubriaco, _ disse Piotr. _ E poi, adesso loro sono a quattro o cinque giorni di marcia. E io non sono un disertore. Non sono venuto con voi per paura; sono venuto per combattere con voi. Quella sera, senza un motivo preciso, nel campo di Gedale si fece festa: forse perché era stato il primo giorno fuori delle paludi e dei pericoli, e il primo giorno di primavera aperta; forse perché l' arrivo di Piotr aveva rallegrato tutti; o forse soltanto perché, frammezzo agli altri viveri accatastati sulla groppa del Tordo, Jòzek aveva riportato anche un barilotto di vodka polacca. Avevano acceso un fuoco fra due dune di sabbia e tutti sedevano intorno a cerchio; Dov disse a Gedale che forse era un' imprudenza, e allora Gedale spense il fuoco, ma il bagliore delle braci riscaldava gli animi ugualmente. Il primo ad esibirsi fu Pavel. Nessuno lo aveva chiamato, ma si mise fieramente in piedi presso le braci, prese un pezzo di carbone e si tracciò sul labbro superiore due baffetti, si tirò sulla fronte un ciuffo di capelli bagnati, salutò tutti col braccio teso all' altezza degli occhi, e incominciò a concionare. Dapprima parlò in tedesco, con rabbia crescente: il suo era un discorso improvvisato, contava più il tono che il contenuto, ma tutti risero quando lo udirono rivolgersi ai soldati tedeschi incitandoli a combattere fino all' ultimo uomo, e chiamandoli volta a volta eroi della Grande Germania, figli di puttana, cani celesti, difensori del nostro sangue e del nostro suolo, e buchi del culo. A grado a grado, la sua collera si faceva più rovente, fino a soffocargli la parola in un ringhio canino interrotto da accessi di tosse convulsa. Ad un tratto, come se fosse scoppiato un ascesso, lasciò il tedesco e continuò in jiddisch, e tutti si torsero dalle risa: era straordinario sentire Hitler, nel pieno del suo delirio, che nella lingua dei paria incitava qualcuno a massacrare qualcun altro, non si capiva se i tedeschi a massacrare gli ebrei o viceversa. Lo applaudirono con frenesia, gli chiesero il bis, e Pavel dignitosamente, invece di replicare il suo numero (che, spiegò, aveva collaudato nel 1937 in un cabaret di Varsavia) cantò "O sole mio", in una lingua che nessuno comprendeva e che lui sosteneva essere italiano. Poi venne sulla scena Mottel il Tagliagole. Mottel era un ometto dalle gambe corte e dalle braccia lunghissime, agile come una scimmia. Arraffò tre, poi quattro, poi cinque tizzoni, e se li fece volteggiare intorno, sopra la testa, sotto le gambe; sullo sfondo del cielo viola si disegnava un intrico sempre nuovo di parabole rutilanti. Fu applaudito, ringraziò inchinandosi ai quattro punti cardinali, e si ritirò imitando l' andatura sghemba dell' orango. Perché Tagliagole? Spiegarono a Mendel che Mottel non era il primo venuto. Era di Minsk, aveva trentasei anni, ed era tagliagole due volte. Nella prima metà della sua carriera era stato un tagliagole rispettabile: per quattro anni era stato il shokhèt, il macellaio rituale, della Comunità. Aveva superato l' esame prescritto, possedeva la licenza, ed era considerato un esperto nell' arte di mantenere affilato il coltello e di recidere con un solo colpo la trachea, l' esofago e le carotidi dell' animale. Ma poi (per colpa di una donna, si sussurrava) si era messo su una cattiva strada: aveva abbandonato la moglie e la casa, si era intruppato con la malavita locale, e, pur senza dimenticare il suo mestiere precedente e la preparazione teorica, era diventato bravo anche a tagliare le borse e a dare la scalata ai balconi. Aveva conservato il coltello rituale, lungo e con la punta ottusa; tuttavia, ad emblema del suo nuovo indirizzo, ne aveva spezzato obliquamente l' estremità, ricavandone una punta acuminata. Così modificato, il coltello si prestava anche ad altri usi. _ Una donna! Avanti una donna! _ gridò qualcuno con voce rauca di vodka. Si fece avanti Bella pettinandosi i capelli color della stoppa, ma Pavel, barcollando come un orso, la urtò con l' anca rimandandola nel cerchio degli spettatori, e riprese il suo posto. Non aveva ancora finito, e non si capiva se fosse ubriaco o fingesse soltanto. Questa volta era un rabbino chassidico; ubriaco, naturalmente, che snocciolava le preghiere del Sabato in preteso ebraico, di fatto in un russo da postribolo. Pregava a perdifiato, a velocità vertiginosa, perché (spiegò in un a parte) fra una stecca e l' altra non deve passare il porcellino: fra una parola sacra e l' altra non deve potersi far strada il pensiero profano. Questa volta gli applausi furono più moderati. Bella non si era arresa. Si accostò alle braci, levò in gesto grazioso la mano sinistra, pose la destra sul cuore e incominciò a cantare una romanza, "Si me ne andrò lontana"; ma non andò molto lontana, perché dopo poche battute la voce le si fece stridula e scoppiò a singhiozzare. Venne Gedale, la prese per mano e la condusse da parte. Da molte parti si faceva il nome di Dov. _ Vieni fuori, siberiano, _ gli disse Piotr, _ e raccontaci che cosa hai visto nella Grande Terra _. Gli fece seguito Pavel, che si era assunto il ruolo di maestro della festa: _ Ed ora, ecco per voi David Yavor, il più saggio fra noi, il più anziano e il più amato. Avanti, Dov, tutti ti vogliono vedere e ascoltare _. Era sorta la luna, quasi piena, e illuminava i capelli bianchi di Dov, che si avviò malvolentieri al centro dell' arena. Fece un riso timido e disse: _ Che cosa volete da me? Non so né cantare né ballare, e quello che ho visto a Kiev ve l' ho già raccontato troppe volte. _ Raccontaci di tuo nonno nichilista. _ Raccontaci della caccia all' orso al tuo paese. _ Raccontaci di quella volta che sei scappato dal treno dei tedeschi. _ Raccontaci della cometa _; ma Dov si schermì: _ Sono tutte cose che ho già raccontate, e non c' è noia più grande che ripetersi. Facciamo qualche gioco, invece; o qualche gara. _ La lotta! _ disse Piotr. _ Chi vuole misurarsi con me? Per qualche momento nessuno si mosse; poi ci fu una breve discussione fra Line e Leonid. Leonid intendeva accettare la sfida, e Line, per qualche motivo, cercava energicamente di dissuaderlo. Alla fine Leonid si svincolò; i due contendenti si sfilarono la giubba e gli stivali e si posero in guardia. Si afferrarono a vicenda per le spalle, cercando di ribaltarsi col gioco delle gambe; ruotarono più volte attorno, poi Leonid tentò di cingere Piotr alla vita e non ci riuscì. I due cani della banda abbaiavano inquieti, ringhiavano e rizzavano il pelo. Piotr, oltre che più forte di Leonid, era avvantaggiato dalle braccia più lunghe. Dopo una schermaglia confusa e non troppo corretta, Leonid cadde e Piotr gli fu subito sopra, facendogli toccare la terra con le spalle. Piotr salutò il pubblico con le mani levate, e si trovò davanti Dov. _ Che cosa vuoi, zio? _ chiese Piotr: era più alto di Dov di quasi tutta la testa. _ Lottare con te, _ rispose Dov, e si mise in guardia, ma con indolenza, con le mani che pendevano molli dai polsi, nell' atteggiamento che gli era abituale nei momenti di riposo. Piotr attese, perplesso. _ Ora ti insegno una cosa, _ disse Dov, e si fece sotto. Piotr arretrò tenendolo d' occhio. Il movimento di Dov, nel pallido chiarore della luna, non si distinse bene; si vide Dov tendere una mano e un ginocchio, abbassandosi leggermente, e Piotr vacillare sbilanciato e cadere sulla schiena. Si rialzò e si scosse via la polvere: _ Dove hai imparato questi colpi? _ chiese impermalito; _ te li hanno insegnati da militare? _ No, _ rispose Dov, _ me li ha insegnati mio padre _. Gedale disse che Dov avrebbe dovuto istruire tutta la banda in quel modo di lottare, e Dov rispose che lo avrebbe fatto volentieri, specialmente con le donne. Tutti risero, e Dov aggiunse che quella era la lotta dei Samoiedi: nel luogo dove lui era nato erano state deportate diverse famiglie di Samoiedi. _ Sono i russi che li hanno chiamati così, perché credevano che mangiassero carne umana: "Samo-jed" vuol dire "mangia-se-stesso", ma a loro questo nome non piace. Sono brava gente, e da loro si imparano molte cose; ad accendere il fuoco quando c' è il vento, a ripararsi dalla tormenta sotto un cumulo di fascine. Anche a guidare le slitte trainate dai cani. _ Questo, è meno facile che ci venga utile, _ osservò Piotr. _ Ma questo, invece, può servire, _ disse Dov. Dal cinturone che Piotr aveva deposto insieme con la giubba, estrasse il coltello; lo afferrò con le due dita per la punta, lo librò per un momento come per prendere la mira, poi lo scagliò contro il tronco di un acero, lontano otto o dieci metri. Il coltello volò volteggiando e si piantò profondo nel legno. Provarono altri, primo fra tutti Piotr, stupito e ingelosito, ma nessuno riuscì, neppure riducendo a metà la distanza dall' albero: nel migliore dei casi, il coltello colpiva il tronco col manico o di piatto e cadeva a terra. Gedale e Mendel non riuscirono neppure a centrare il tronco. _ Peccato che al posto dell' acero non ci fosse il Dottor Goebbels, _ disse Jòzek, che non aveva preso parte né allo spettacolo né ai giochi. Dov spiegò che per uccidere un uomo non va bene un coltello qualunque; ci vogliono coltelli speciali, sottili ma pesanti, e ben bilanciati. _ Capito, Jòzek? _ disse Gedale, _ tienilo a mente, la prossima volta che vai al mercato. Alcuni dormivano già quando Gedale prese il violino e cominciò a cantare; ma non cantava per essere applaudito. Cantava sommesso, lui che era così chiassoso quando parlava; altri gedalisti si unirono, alcune voci del coro erano armoniose ed altre meno, ma tutte erano convinte e risentite. Mendel e i suoi ascoltarono con stupore il ritmo, che era alacre, quasi di una marcia, e le parole, che erano queste: "Ci riconoscete? Siamo le pecore del ghetto, Tosate per mille anni, rassegnate all' offesa. Siamo i sarti, i copisti ed i cantori Appassiti nell' ombra della Croce. Ora abbiamo imparato i sentieri della foresta, Abbiamo imparato a sparare, e colpiamo diritto. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? I nostri fratelli sono saliti al cielo Per i camini di Sobibòr e di Treblinka, Si sono scavati una tomba nell' aria. Solo noi pochi siamo sopravvissuti Per l' onore del nostro popolo sommerso Per la vendetta e la testimonianza. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando? Siamo i figli di Davide e gli ostinati di Massada. Ognuno di noi porta in tasca la pietra Che ha frantumato la fronte di Golia. Fratelli, via dall' Europa delle tombe: Saliamo insieme verso la terra Dove saremo uomini fra gli altri uomini. Se non sono io per me, chi sarà per me? Se non così, come? E se non ora, quando?" Finito che ebbero di cantare, tutti si addormentarono avvolti nelle coperte; vegliarono solo le sentinelle, arrampicate sugli alberi ai quattro angoli dell' accampamento. Al mattino Mendel chiese a Gedale: _ Che cosa cantavate ieri sera? È il vostro inno? _ Chiamalo così se vuoi; ma non è un inno, è solo una canzone. _ L' hai composta tu? _ La musica è mia, ma cambia un poco, di mese in mese, perché non sta scritta da nessuna parte. Le parole invece non sono mie. Eccole, guarda, sono scritte qui. Dalla tasca interna della giubba Gedale cavò fuori un plico di tela incerata legato con uno spago. Lo disfece e ne estrasse un foglio quadrettato, sgualcito, intestato 13 Juni, Samstag. Era stato strappato senza garbo da un' agenda, ed era fittamente ricoperto di caratteri jiddisch tracciati a matita. Mendel lo prese, lo guardò con attenzione, poi lo rese a Gedale: _ Leggo a stento i caratteri stampati, e il corsivo non lo leggo affatto. L' ho dimenticato. Gedale disse: _ Io ho imparato a leggerlo tardi, nel '42, nel ghetto di Kossovo: in una occasione è servito come linguaggio segreto. A Kossovo c' era con noi Martin Fontasch. Di mestiere era carpentiere, si è guadagnato da vivere così fino alla fine, ma la sua passione era comporre canzoni. Faceva tutto da solo, le parole e la musica, ed era conosciuto in tutta la Galizia; si accompagnava con la chitarra, e cantava le sue canzoni ai matrimoni e alle feste di paese; qualche volta anche nei caffè concerto. Era un uomo pacifico e aveva quattro figli, ma è stato con noi nella rivolta del ghetto, è scappato con noi ed è venuto nel bosco, lui solo e non più giovane: tutti i suoi erano stati uccisi. Nella primavera dell' anno scorso eravamo dalle parti di Novogrudok e c' è stato un brutto rastrellamento; metà dei nostri sono morti combattendo, Martin è stato ferito ed è caduto prigioniero. Il tedesco che lo ha perquisito gli ha trovato in tasca un flauto: più che un flauto era un piffero, un giocattolo da quattro soldi che Martin si era fatto da sé intagliando un ramo di sambuco. Ora quel tedesco era un suonatore di flauto: ha detto a Martin che un partigiano si impicca e un ebreo si fucila, lui era ebreo e partigiano, e poteva scegliere. Però era anche un suonatore, e allora lui, essendo un tedesco che amava la musica, gli concedeva di esprimere un ultimo desiderio: ma che fosse un desiderio ragionevole. _ Martin chiese di comporre un' ultima canzone, e il tedesco gli concesse mezz' ora di tempo, gli diede questo foglio e lo chiuse in una cella. Trascorso il tempo, ritornò, si fece dare la canzone e lo uccise. È stato un russo che ci ha raccontato questa storia; da principio collaborava coi tedeschi , poi i tedeschi lo sospettarono di fare il doppio gioco e lo chiusero nella cella accanto a quella di Martin, ma riuscì ad evadere e rimase con noi qualche mese. Pare che il tedesco fosse fiero della canzone di Martin; la faceva vedere in giro come una curiosità e si riprometteva di farsela tradurre alla prima occasione. Ma non ha fatto in tempo. Noi lo tenevamo d' occhio, lo abbiamo seguito, lo abbiamo isolato, e una notte siamo entrati scalzi nell' isba requisita dove lui abitava. A me piace la giustizia e avrei voluto chiedergli qual era il suo ultimo desiderio, ma Mottel mi faceva fretta, così io l' ho strozzato nel suo letto. Gli abbiamo trovato addosso il flauto di Martin e la canzone: a lui non ha portato fortuna, ma per noi è come un talismano. Ecco, guarda qui: fin quaggiù è il testo che ci hai sentito cantare, e queste parole in fondo dicono così: "Scritto da me Martin Fontasch, che sto per morire. Sabato 13 giugno 1943". L' ultima riga non è in jiddisch ma in ebraico; sono parole che tu conosci, "Ascolta Israele, il Signore Iddio nostro è unico". _ Aveva composto molte altre canzoni, allegre e tristi; la più famosa l' aveva scritta molti anni prima che in Polonia arrivassero i tedeschi, in occasione di un pogrom: a quel tempo, a fare i pogrom ci pensavano i contadini. Quasi tutti i polacchi la conoscono, non solo gli ebrei, ma nessuno sa che l' ha composta Martin il carpentiere. Gedale rifece il plico e lo rimise in tasca: _ Adesso basta, pensieri come questi non sono per tutti i giorni. Vanno bene ogni tanto, ma se uno ci vive dentro se ne avvelena e non è più un partigiano. E tieni bene a mente che io credo in tre cose soltanto, alla vodka, alle donne e al parabellum. Una volta credevo anche nella ragione, ma adesso non più. Qualche giorno dopo Gedale decise che il riposo era durato abbastanza, ed era tempo di riprendere il cammino: _ ... ma questa è una banda aperta, e chi preferisce rimanere in Russia se ne può andare; senza le armi, s' intende. Può aspettare il fronte, o andare dove gli pare _. Nessuno scelse di lasciare la banda, e Gedale chiese a Piotr: _ Conosci questo paese? _ Abbastanza, _ rispose Piotr. _ Quanto è distante la ferrovia? _ Una dozzina di chilometri. _ Benissimo, _ disse Gedale. _ La prossima tappa la facciamo in treno. _ In treno? Ma tutti i treni sono scortati! _ disse Mendel. _ Ebbene, provare si può sempre. Con le scorte si ragiona _. A Gedale apparve più seria l' obiezione di Pavel: _ E il cavallo? Non vorrai mica abbandonarlo. Oltre a tutto ci serve, metà dei bagagli li porta lui. Gedale si rivolse di nuovo a Piotr: _ Che treni passano su questa linea? _ Treni merci, quasi tutti; a volte c' è a bordo anche qualche passeggero, gente che fa la borsa nera. Se portano materiale per i tedeschi, sono scortati, ma non è mai una grossa scorta: due uomini sulla locomotiva e due in coda. Tradotte militari di qui non ne passano mai. _ Qual è la stazione più vicina? _ È Kolki, quaranta chilometri a sud: è una piccola stazione. _ C' è il piano caricamento? _ Non lo so. Non ricordo. Intervenne Dov: _ Ma perché ci vuoi far prendere il treno? Gedale rispose con impazienza: _ E perché non dovremmo prenderlo? Camminiamo da più di mille chilometri; e la ferrovia è a due passi; e insomma io voglio entrare in terra polacca in una maniera che la gente si ricordi di noi. Ci pensò su un momento e aggiunse: _ Abbordare un treno in stazione è troppo pericoloso. Bisogna fermarlo in aperta campagna, ma allora il cavallo non può salire. Ecco, il grosso dei bagagli li prendiamo noi, tanto la tappa è breve; tu Pavel vai avanti col cavallo e ci aspetti a Kolki. Pavel non era convinto: _ E se non arrivate? _ Se non arriviamo ci vieni incontro col cavallo. _ E se il piano caricamento non c' è? Gedale scosse le spalle: _ E se, e se, e se! Solo i tedeschi prevedono tutto, ed è per questo che perdono le guerre. Se non c' è ci arrangeremo. Vedremo sul posto, il modo non ci mancherà. Parti, Pavel; ricordati che sei un contadino, e non farti vedere troppo nell' abitato. Da queste parti, i tedeschi i cavalli li requisiscono. Pavel partì al trotto, ma era ancora in vista quando il Tordo ricadde nel suo solenne passo abituale. Gedale e i suoi si misero in marcia e in poco più di due ore raggiunsero la ferrovia. Era a un solo binario, e tagliava la prateria da un orizzonte all' altro diritta come un raggio di luce. È facile confondere la speranza con la probabilità. Tutti si aspettavano che il treno venisse da nord e fosse diretto al confine polacco; dopo qualche ora di attesa lo videro invece arrivare da sud. Era un merci e viaggiava lentamente. Gedale fece appostare uomini armati dietro i cespugli ai due lati dei binari, poi, in maniche di camicia e disarmato, si pose fra le rotaie sventolando uno straccio rosso. Il treno rallentò e si fermò, e dalla cabina di guida incominciarono immediatamente a sparare. Gedale scattò via in un lampo e si defilò dietro un nocciolo; tutti gli altri risposero al fuoco. Mendel, mentre anche lui sparava cercando di centrare le feritoie della locomotiva, ammirò la preparazione militare dei gedalisti. Da quanto aveva visto delle loro maniere fino a quel momento, si sarebbe aspettato che fossero spericolati, come infatti erano; ma non aveva previsto la precisione e l' economia del loro fuoco, e la tecnica corretta con cui si erano disposti. Sarti, copisti e cantori, diceva la loro canzone: ma avevano imparato presto e bene il loro nuovo mestiere. L' inesperto e lo spaurito si riconoscono subito, perché cercano il riparo massiccio, la roccia o il grosso tronco, che proteggono sì, ma impediscono di spostarsi e di sparare senza esporre il capo. Invece tutti si erano appiattati dietro cespugli folti, e sparavano attraverso le foglie, spostandosi spesso per disorientare l' avversario. Anche la scorta del treno, al riparo delle lamiere, sparava preciso e fitto: dovevano essere almeno quattro uomini, e non facevano economia di munizioni. Nel vagone di coda, invece, non c' era difesa. Mendel vide a un tratto Mottel balzare fuori ed avventarsi al convoglio. In un attimo si arrampicò sul tetto dell' ultimo vagone; lassù era al riparo, e del resto dalla cabina non lo avevano visto. Aveva appesa alla cintura una granata a mano tedesca, di quelle a forma di clava, che esplodono a tempo, e correva verso la locomotiva di vagone in vagone, saltando le giunzioni. Quando fu sul tetto del primo vagone lo si vide strappare l' innesco della granata e aspettare qualche secondo; poi, con la granata stessa, ruppe il vetro del lunotto della cabina e lasciò cadere la granata nell' interno. Ci fu l' esplosione ed il fuoco cessò. Nella cabina trovarono che i tedeschi della scorta erano solo tre; uno era ancora vivo, e Gedale lo finì senza esitare. Anche il macchinista e il fuochista erano morti; peccato, disse Gedale, loro non c' entravano e ci sarebbero stati utili: beh, chi serve i tedeschi ha dei rischi e lo sa. Faceva il broncio come un bambino. L' iniziativa di Mottel era stata brillante ma aveva guastato i suoi piani: _ E chi la fa muovere, adesso? Chissà la tua bomba che guai ha combinato sulle leve di comando; e oltre a tutto bisogna invertire la marcia. _ Tu, comandante, sei una testa dura e non sei mai contento, _ disse Mottel che si aspettava un elogio. _ Io ti regalo un treno e tu mi critichi. Un' altra volta voi andate all' attacco e io accendo la pipa. Gedale non gli diede ascolto, e disse a Mendel di salire in cabina e di vedere se se la cavava a rimettere la macchina in moto. Altri uomini intanto stavano ispezionando il convoglio. Ritornarono delusi: non portava roba pregiata, solo sacchi di cemento, calce e carbone. Gedale fece sgomberare dal cemento due vagoni coperti, per gli uomini e per il cavallo: non aveva abbandonato l' idea della scampagnata ferroviaria. Era molto eccitato; ordinò di tagliare tutti i sacchi col coltello, poi ci ripensò e ne fece accatastare un buon numero fra i binari davanti alla motrice: _ Con meno fretta si sarebbe potuto fare un buon lavoro; ma anche così, con un po' di pioggia e un po' di fortuna, farà un bel blocco _. Poi salì in cabina da Mendel: _ Allora? Che cosa mi sai dire? _ Una locomotiva non è un orologio, _ rispose Mendel seccato. _ Nu, sempre ingranaggi sono, e la tua non è una risposta. Una locomotiva non è un orologio, e un orologiaio non è un ferroviere, e un bue non è un porco, e uno come me non è un capobanda, ma fa il capobanda e lo fa meglio che può; anzi, fa il capobandito _. Qui Gedale rise, di quel suo riso facile che rischiarava l' aria in un attimo. Rise anche Mendel: _ Adesso scendi, che proviamo. Gedale scese e Mendel armeggiò fra i comandi. _ Attento, ora do il vapore _. Il fumaiolo sbuffò, i respingenti gemettero, e il convoglio si spostò a ritroso di qualche metro; tutti gridarono "urrà", ma Mendel disse: _ C' è ancora pressione in caldaia, ma durerà poco. Non basta il macchinista, ci vuole anche il fuochista _. Quanto erano efficienti i gedalisti nel combattimento, altrettanto erano confusionari nelle scelte di pace. Nessuno voleva fare il fuochista; dopo un' intricata discussione, a Mendel fu assegnata come aiutante una donna, che però era forte come un uomo: Ròkhele Nera, che doveva scontare una punizione perché diversi giorni prima, nel corso della pulizia delle armi, aveva smarrito la molla di un moschetto. Si chiamava Ròkhele Nera per distinguerla da Ròkhele Bianca: era scura in viso come una zingara, magra e svelta. Aveva gambe lunghissime, lungo anche il collo, che reggeva un piccolo viso triangolare illuminato dagli occhi ridenti ed obliqui. Portava i capelli neri raccolti in una crocchia. Era anche lei una veterana di Kossovo, benché avesse poco più di vent' anni. Ròkhele Bianca invece era una creatura semplice e mite, che non parlava quasi mai, e quando parlava lo faceva con voce così bassa che si stentava a capirla. Per questi motivi nessuno sapeva nulla di lei, né lei sembrava desiderosa di far sapere qualcosa a qualcuno: seguiva passivamente il cammino della banda, obbediva a tutti e non protestava mai. Veniva da un remoto villaggio della Galizia ucraina. Mendel mostrò alla Nera come doveva fare per alimentare la caldaia, tutti gli altri salirono sui due vagoni liberi e il treno si mosse, spinto invece che trainato. Mendel bloccò la manetta del vapore su una velocità molto bassa, perché dalla cabina non poteva vedere la via. Jòzek si era installato col mitra nell' abitacolo del frenatore, sull' ultimo vagone che ora era il primo, e faceva da battistrada; ogni tanto si sporgevano entrambi, e Jòzek segnalava a Mendel se la via era libera. La fuochista rideva come a un gioco e impalava carbone con entusiasmo infantile; in breve fu tutta sudata, e nera sul serio, da capo a piedi, tanto che occhi e denti brillavano come fanali nel buio. Mendel, invece, non si divertiva affatto. La soddisfazione per aver domato quel bestione meccanico si spense presto; il sangue sul pavimento di lamiera lo metteva a disagio, si sentiva inquieto per quella marcia fatta quasi alla cieca, e l' intera impresa gli sembrava una follia gratuita e un' imprudenza estrema. Non capiva quali lontane intenzioni avesse Gedale. A metà strada si dovette convincere che Gedale aveva raramente intenzioni lontane, e preferiva improvvisare: si era sporto dal vagone e gli faceva cenno di fermare. Fermò, e scesero tutti e due. _ Senti, orologiaio, mi è venuto in mente che sarebbe bene danneggiare questo treno più che possiamo. Che cosa si può fare? _ Qui, proprio niente, _ rispose Mendel. _ Se andassimo per diritto invece che a rovescio, potremmo sganciare i vagoni e bloccarli in qualche modo, ma così è un altro discorso. Ecco, il solo lavoro che si può fare è di ribaltare le sponde dei vagoni scoperti; così, con le scosse, tutta la calce e il carbone finiranno sparsi sulla scarpata. _ E i vagoni stessi e la locomotiva? _ Ci penseremo dopo, _ disse Mendel. _ Quando tu ne avrai avuto abbastanza. Gedale ignorò la provocazione, mandò tre uomini a ribaltare le sponde, e il treno ripartì seminando allegramente il materiale dai due lati. Arrivarono a Kolki nel primo pomeriggio, e i vagoni erano quasi vuoti: Pavel col cavallo li aspettava sul piano caricamento. Nella stazioncina non c' era nessuno, salvo il capostazione, che però vide il mitragliatore in mano a Jòzek, fece una specie di saluto militare e si ritirò. Mendel frenò, caricò in un istante Pavel e il Tordo, e ripartì. Gedale era felice, e fece segno a Mendel di andare avanti, e più in fretta: "A Sarny! A Sarny!" Al di sopra dello strepito della macchina, dai due vagoni arrivavano fino a Mendel grida e canti, e i nitriti di Tordo spaventato. Poco dopo fu Mendel che prese l' iniziativa di fermare il treno presso un fiumiciattolo che solcava la steppa disabitata. Non solo per riposarsi e per dar modo a Ròkhele di lavarsi un poco, ma anche per avvisare che l' acqua del serbatoio stava per finire. Tutti si misero al lavoro, facendo la spola al fiume con i pochi recipienti disponibili: qualche pentola di cucina e un secchio trovato sulla motrice. L' operazione andava per le lunghe, e Mendel ne approfittò per ascoltare Pavel, che stava raccontando quanto aveva visto a Kolki. _ Non abbiamo corso nessun rischio, né il cavallo né io. Nessuno si è occupato di noi né ci ha rivolto la parola, eppure credo proprio che nessuno mi abbia preso per un contadino. Tedeschi non ne ho visti; ci devono pur essere, perché davanti al municipio c' erano i loro manifesti di propaganda, ma in strada non si fanno vedere. La gente non ha più paura di parlare, o ne ha meno di prima; sono entrato in un' osteria, c' era la radio accesa, e la voce era quella di Radio Mosca: diceva che i russi hanno ripreso la Crimea, che tutte le città tedesche sono bombardate di giorno e di notte, e che in Italia gli alleati sono alle porte di Roma. Ah, come è bello passeggiare nelle strade di un paese, vedere i balconi con i vasi di fiori, le insegne dei negozi, le finestre con le tendine! Guardate che cosa vi ho portato: l' ho staccato io dal muro, ce n' è su tutte le cantonate. Pavel mostrava in giro un manifesto, stampato in grossi caratteri su brutta carta gialliccia, in russo e in polacco. Diceva: "Non lavorate per i tedeschi, non date loro informazioni. Chi fornirà grano ai tedeschi verrà ucciso. Lettore, ti stiamo spiando; se strappi questo manifesto ti spareremo". _ E tu lo hai strappato? _ chiese Mottel. _ Non l' ho strappato, l' ho staccato: è un' altra cosa. L' ho staccato con rispetto, chiunque si sarebbe accorto che lo portavo via per farlo vedere a qualcuno; e difatti non mi hanno sparato. Vedete? è firmato dal Reggimento Stella Rossa: comandano loro. _ Comandiamo anche noi, _ interruppe Gedale con impeto. _ Entreremo a Sarny a modo nostro: in modo da farci ricordare. Chi conosce Sarny? La conosceva Jòzek, che ci aveva fatto il servizio militare nell' esercito polacco: una cittadina modesta, forse ventimila abitanti. Qualche fabbrica, una filanda e un' officina per la riparazione del materiale ferroviario. La stazione? Jòzek la conosceva benissimo perché ci era stato di presidio poco prima che scoppiasse la guerra; Sarny era l' ultima città polacca prima della frontiera, i russi ci erano entrati senza combattere, subito dopo l' inizio delle ostilità. Era una stazione abbastanza importante, perché ci passava la linea per Lublino e Varsavia, e per via dell' officina di riparazioni. C' era un gran capannone e una piattaforma girevole, appunto per avviare le locomotive all' officina. Gedale si illuminò, e disse a Mendel: _ La tua macchina farà una fine gloriosa _. Mendel disse che sperava di non farla anche lui. Gedale fece fermare il treno a notte, all' imbocco dello smistamento, e fece scendere tutti dai vagoni. Il cavallo, impaurito dal buio, si imbizzarrì: rifiutava di scendere, tentava di inalberarsi, nitriva convulso e scalciava contro la parete di fondo del vagone. Lo tirarono e spinsero, alla fine si decise a saltare, ma atterrò malamente rompendosi una zampa anteriore; Pavel si allontanò senza dire parola, e Gedale lo finì sparandogli nella nuca. Anche la stazione di Sarny sembrava deserta: nessuno reagì allo sparo. Gedale disse a Mendel di spingere i vagoni su un binario laterale, e a Jòzek e Pavel di andare avanti cauti, e di deviare gli scambi in direzione della piattaforma; tornarono a lavoro compiuto, e riferirono che il ponte della piattaforma era in posizione trasversale rispetto al binario di arrivo: benissimo, disse Gedale. Avrebbe mandato la locomotiva a fracassarsi nella fossa della piattaforma, l' officina sarebbe rimasta bloccata per almeno un mese. _ Non sei convinto, orologiaio? Ti ci sei affezionato, eh? Un poco anch' io, ma ad andare più avanti non mi fido, e non la voglio regalare ai tedeschi. E ti dirò una cosa che ho imparata nei boschi: le imprese che riescono meglio sono quelle che il tuo nemico non crede che tu possa fare. Su, spingi via i vagoni, metti in moto la macchina e salta giù. Mendel obbedì. La locomotiva senza equipaggio sparì nel buio, visibile soltanto per le faville che scaturivano dal fumaiolo. Tutti aspettarono col fiato sospeso; pochi minuti dopo si udì un fracasso di lamiere sfondate, un rombo di tuono, e un sibilo acuto che andò estinguendosi lentamente. Ululò una sirena d' allarme, si sentirono voci concitate, i gedalisti fuggirono in silenzio verso la campagna. Mentre camminava a tentoni, nel buio dell' oscuramento, inciampando nelle rotaie e nei cavi, ronzavano nella testa di Mendel, incongrue, le parole della benedizione dei miracoli: "Benedetto sii Tu o Signore Dio nostro, re del mondo, che hai fatto per noi un miracolo in questo luogo". In questo modo la banda di Gedale segnò il suo ingresso nel mondo abitato.

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USI,COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA

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Zanazzo, Giggi 5 occorrenze

In de le piazze e in de ll’antri siti, indove ce capitàveno li bburini e li villani (ccome adesso a Ccampo-de-Fiori e a li Gipponari) c’ereno un sacco de vennitori de robba usata speciarmente de abbiti vecchi, de cappelli, e dde scarpe. Siccome le scarpe speciarmente stanno messe in fila, un paro appresso a ll’antro, pe’ strada, in modo che fformeno certe filare lónghe lónghe, noi pe’ scherzo, a quelli che sse l’annaveno o sse le vanno a ccomprà’ llà, je dimo che sso’ scarpe comprate a la Filarmonica o dda Filomèna.

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