Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Psicologia Vol.II

641953
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Imperciocchè, siccome l' anima naturalmente progredisce alle sue operazioni, simigliantemente l' ingegno degli uomini, che si applicano a meditare su di sè stessi, tiene questo naturale andamento e progresso (e lo dimostra la storia della filosofia) di attendere prima ad investigare che cosa sia l' anima, e poscia com' ella si modifichi, che faccia, come lo faccia. Ma corre questa notabilissima differenza tra il progredire dell' anima al suo spontaneo svolgimento nella vita dell' uomo, e il progredire della scienza psicologica per le varie età della vita dell' umano genere, che l' anima, per quantunque si svolga fino agli ultimi atti, non abbandona mai sè medesima, rimanendosi gli atti anche estremi congiunti necessariamente alla radice che li produce; laddove la considerazione e l' attenzione del filosofo, che s' allontana per lungo cammino dal primo argomento, dimentica in fine, per una cotale sua limitazione e stanchezza, la meta onde mosse, la quale è quella stessa a cui dovrebbe pur ritornare. E questa obblivione è il decadere della filosofia, che, abbandonate le essenze delle cose sì avidamente e generosamente cercate al cominciamento, non s' occupa oggimai più che delle loro efficienze e dei loro effetti, i quali, separati dalla loro prima e sostanziale cagione, si rimangono fenomeni vani, apparenze inesplicabili. Il qual fatto rende manifesto il perchè, dopo essere stati periodi fiorentissimi di filosofia profonda, nei quali risplendettero a tutta la terra ingegni nobilissimi, ardimentosi, sublimi, rapiti di divino entusiasmo nella contemplazione del vero, varcando i secoli, accada quello che nel primo aspetto parrebbe impossibile ad avvenire; cioè che lo stesso progresso adduca altri periodi di tempo, ove la filosofia, erede di tanti monumenti, di tante antiche verità, appaia nulladimeno al tutto superficiale, materiale, priva della sua vita, senza una favilla di genio che la riscaldi. E in sì tapino aspetto cenciosa e smemorata, orgogliosa non meno, noi la vedemmo nel secolo XVIII andarsene per le nostre contrade. Al quale miserevole termine, benchè più cause insieme concorse la riducessero, tuttavia prima e profonda causa ci pare quella psicologica che noi accennavamo, di cui le altre sono per avventura effetti e cause seconde. Ci pare che ciò non sia stato per manco di naturali ingegni, compartiti da natura ad ogni secolo con equa mano; anzi, che gli ingegni abbondassero ben lo dimostrano i grandi svolgimenti sociali, allora compiuti, e le naturali scienze, le arti e i commerci fiorentissimi; ma sì per la legge di quel mentale progresso che accennavamo, il quale nell' umanità di generazione in generazione trascorre una serie dei pensieri così ordinata, che il primo anello si ferma alla natura delle cose, e gli altri di mano in mano riguardano le operazioni e gli atti delle diverse nature; di maniera che gli ultimi dal primo lontanissimi, occupando intieramente di sè le menti, le distolgono dagli anteriori, e soprattutto allontanano l' attenzione dal primo di tutta la serie generatore; pel quale allontanamento, rotta la catena delle scientifiche verità, trovasi l' umana scienza esser divenuta, nè ben si vede il perchè, superficiale ed ignobile; e il perchè misterioso è questo, appunto, che gli ultimi veri, le estreme conclusioni non hanno valore, nè stabilità, nè ragione, tostochè al principio immobile non si attengono, cioè alla natura ed all' essenza delle cose. E che alla filosofia del secolo precedente mancasse cotesta fermissima base, ella stessa lo confessava con vanto di sua vergogna. Di niuna cosa si gloriavano più quei filosofi che di « non voler entrare a discutere l' essenza delle cose », pronunciando con presuntuosissima ed orgogliosissima modestia che « l' essenza delle cose è inescogitabile ». La qual massima è il vero principio, il fonte di ogni sapere superficiale (1). Ma quel vanissimo periodo di superficialità filosofica, il che viene anche a dire di materialità e di sensismo, siane lode a Dio, è ora passato, o certo si sta in sul passare; e già ciascheduno sente il bisogno di rannodare la infranta catena, e raggiungerne gli anelli saldamente fra loro dagli ultimi sino al primo. Ad aiutare il quale utilissimo e necessarissimo lavoro, noi abbiamo posto, come meglio potemmo, l' ingegno; e però alla parte moderna della Psicologia che ci resta ad esporre, trattante dello sviluppo dell' anima, noi anteponemmo la parte antica dell' essenza, quasi del tutto dimenticata nei trattati comuni, rifacendola però e ristorandola in modo, se non ci fallì il consiglio, che non dovesse offendere il gusto dei nostri contemporanei. Di che qual vantaggio raccolga la scienza e qual perfezione ella ne acquisti, apparirà nel progresso; ora, senza più poniamo sotto gli occhi dei lettori la principale divisione di questa seconda parte, nella quale entriamo, delle psicologiche ricerche che ci siamo proposti. Volendo noi accuratamente descrivere lo sviluppo dell' anima umana e porgerne la dottrina, due questioni ampie del pari e del pari necessarie ci si presentano: Quali atti, potenze, funzioni, abiti, produca di sè l' anima umana. Quali leggi ella segua in questo suo continuo produrre ed operare. Delle quali ricerche, la prima addimanda un ragionare analitico , perchè ella intende a spezzare, quasi direbbesi, l' essenza dell' anima in tutte le sue diverse attività, ove ella si rifonde; la seconda poi esige una via sintetica , perocchè ella vuole adunare sotto certe leggi universali le maniere del diverso operare, in cui l' anima continuamente si espande, riducendo così la moltitudine infinita degli atti suoi alla semplicità delle norme prescritte loro da natura, dalle quali essi mai non deviano. Di che si scorge che tutta la materia che noi abbiamo alle mani, si distribuisce da sè stessa in due sezioni, la prima delle quali, movendo dall' essenza dell' anima, procede alle sue svariatissime operazioni, quando la seconda muove anzi dalle operazioni di lei per ricondurle tutte nella fine a quell' unità medesima di essenza, ond' elle uscirono, ed in cui riposando si giacciono. Poniamo mano alla prima ricerca delle attività dell' anima umana. Noi ci proponiamo in essa non pure di annoverare quasi storicamente coteste attività, ma più ancora di dedurle, di farle scaturire dalla essenza del soggetto, a cui elle appartengono. Laonde il nostro lavoro di nuovo si biparte in due questioni: « qual sia il modo nel quale le diverse attività sono contenute nell' essenza dell' anima, e da lei si distinguono »; e « quali elle sieno, come queste attività si possano enumerare e classificare ». Dissero gli antichi che le potenze dell' anima non si conoscono che pei suoi atti (1). Anzi si levarono alla sentenza più generale, che [...OMISSIS...] : principio dialettico ed ontologico nobilissimo (2). Quindi l' errore da noi notato di quei filosofi che, parlando dell' anima, dalle potenze, siccome da cosa cognita, incominciarono, invece di muovere dall' osservazione degli atti (3). Perchè dunque, ci si dirà, avete voi tolto in prima d' ogni altra cosa a parlare dell' essenza dell' anima? Rispondo esser vero che gli atti vengono alla nostra cognizione prima delle potenze, tuttavia non prima dell' essenza. Perocchè insieme cogli atti si conosce l' essenza, che negli atti indivisa rimane. Che se l' atto e l' essenza si conoscono ad un tempo, nulladimeno queste due notizie tengono fra sè un ordine logico, pel quale l' essenza è prima conosciuta, e in essa e per essa gli atti accidentali. Veramente è una illusione il credere che si possa conoscere l' atto, senza conoscere in qualche modo l' ente di cui egli è atto, cioè senza riferirlo al suo subbietto. Conciossiachè niun atto possiamo noi percepire, nè conoscere se non come una entità, e però, o dobbiamo pigliare lui stesso per un ente, una sostanza, ovvero dobbiamo pensare qualche cosa d' altro, in cui e per cui egli sia: il che altrove abbiamo dichiarato (1). Noi dunque ci giovammo degli atti, in cui esce l' essenza dell' anima, come di occasione ad acquistare il conoscimento di essa essenza; ma di questa, come di primo e naturale fondamento ad ogni altra cognizione psicologica, dovemmo prima di tutto parlare. Il che dimostra vie più il difetto di quei trattati psicologici, che, od omettono al tutto di ragionare, o ragionano assai leggermente dell' essenza dell' anima come di cosa poco importante ed inutile; ovvero anche dichiarano apertamente non sapere che pronunciarne. Ai loro autori manca oltracciò il principio onde dedurre razionalmente le umane potenze e facoltà; laonde essi non possono altro che venirne facendo una cotale enumerazione empirica, arbitraria, casuale, senza deduzione; non possono mostrarne il nesso e l' unità, che loro si deriva dalla comune origine; non giustificarne il numero; non additarne le intime relazioni, senza le quali cose non si dà una scienza dell' anima. Ancora, come potranno cotesti trattatisti risolvere l' apparente contraddizione fra la semplicità dell' anima e la moltitudine di sue potenze ed operazioni? Riesce facile all' opposto il risolverla, ove si sappia che la essenza dell' anima si sta unicamente nell' essere ella primo principio di sue operazioni; e di più, che un principio reale può avere un' unica attività idonea a produrre più effetti. Ma noi sappiamo ancora che un ente, un' entità o più entità, possono inesistere in un altro ente, qualora questo secondo sia di natura spirituale, al contrario di quanto accade nelle reciproche relazioni dei corpi, la cui natura è di essere impenetrabili. Abbiamo trovato questa verità ontologica importantissima, considerando immediatamente il fatto con quella osservazione intellettiva, che sola somministra i primi dati della scienza. Dalla quale poi ce n' è venuta la dottrina dell' individualità, perocchè un principio s' individua in virtù delle relazioni attive, passive, ricettive, che egli mantiene con ciò che ha in sè di straniero, e più generalmente con ciò che è suo termine. I quali veri discoperti, ci condussero a disaminare quali termini e quali entità straniere inesistano nell' anima semplicissima, e la costituiscano in gran parte coll' individuarla; trovate le quali entità ed accuratamente descritte ed annoverate, elle ci spiegano siccome avvenga che l' unica virtù dell' anima riferita ad esse, che sono più, si vada moltiplicando, e così apparendo anch' ella molteplice nei suoi atti ed effetti, senza nulladimeno cessar mai di essere unica in sè stessa, cioè nel principio che ne forma l' essenza. Laonde nella medesima essenza dell' anima rinvenimmo tutti gli elementi, che occasionano e spartono le attività di lei, tutti i germi di sue potenze. Perocchè noi vedemmo che nell' anima umana trovano loro sede permanente queste entità da lei diverse, e a lei in diverse intime relazioni connesse: 1 l' essere ideale , unito a lei per via d' intuizione; 2 l' animalità , a lei copulata per una fondamentale ed immanente percezione. Nell' animalità medesima distinguemmo più elementi: 1 un principio sensitivo , che contiene anch' esso altre entità straniere, a cui egli si lega con sue proprie relazioni; 2 l' esteso corporeo , contenuto nel detto principio colla relazione immanente di sensilità; 3 la materia , ossia una virtù che non agisce immediatamente sul principio sensitivo, ma sull' esteso corporeo, e violentemente lo immuta, onde mediatamente si fa sentire allo stesso principio sensitivo. Ed ecco qui nel seno dell' essenza dell' anima tutte le radici della umana attività; ecco la ragione di tutte le varie potenze e facoltà; le quali per quelle loro radici sono distinte e determinate a dover essere piuttosto queste che quelle, tante, e non una di più, non una di meno. Tale è la deduzione delle potenze umane dalla stessa essenza dell' anima; l' essenza perscrutata a fondo somministra dunque il principio della loro legittima deduzione. Ma qui, prima d' innoltrarci più avanti, posciachè lo sviluppo dell' anima è un cotal movimento che la conduce da uno stato ad un altro, ciò che in essa si giace in potenza uscendo al suo atto, appare dover essere necessario ed utile il chiarire le stesse nozioni di potenza e di atto , e ancor prima quelle di materia e di forma , provvedendo altresì che l' imperfezione del linguaggio filosofico non c' impedisca il passo, siccome sterpo che trova il piè tra via, o non trattenga la mente di chi prende con noi il faticoso e pure ameno viaggio di queste investigazioni, dal tenere la diritta via, senza che, trasviata dagli equivoci, si smarrisca per avventura a destra od a sinistra. La parola atto significa ogni entità; e sotto questo aspetto ella non si può definire, ma si deve supporre conosciuta (1); però non significa l' entità mera, ma con di più la relazione mentale alla potenza . Ora, la mente è condotta a questa distinzione fra atto e potenza dall' esperienza che ella prende delle cose contingenti, colle quali trovasi in comunicazione. Toglie dunque questa distinzione dalle realità finite, che cadono sotto ai sentimenti, la trova nel sentimento stesso, il quale è realità. Di che apparisce che l' uomo non potrebbe mai dedurre a priori cotale distinzione dall' « essere ideale », che egli intuisce per natura senz' altro aiuto; perocchè l' essere ideale, dall' uomo intuìto, fa conoscere l' essere puro , non per sè solo il modo dell' essere, non l' ordine che l' essere interiormente contiene; il quale ordine appartiene del tutto alla realità , che si esperimenta nel sentimento (2). Di qui è che l' ordine interiore dell' essere non si rivela mai tutto all' uomo; perocchè l' uomo, essendo un reale limitato, non comunica se non con una parte della realità, e con essa in modo limitato (3). E questo è ciò che limita essenzialmente la cognizione umana, e che impone al filosofo di proporre le dottrine ontologiche, che meditando raccoglie, colla modestia che si addice all' essere umano, « cioè non pretendendo di descrivere a fondo tutto l' essere e tutto l' ordine dell' essere, ma sapendo e confessando di non abbracciare col suo pensiero più di una particella di quest' ordine immenso, quella che fu data a conoscere alla umana intelligenza ». La quale modestia è religioso dovere di ogni uomo, come uomo; quanto più dell' individuo umano, per quanto si voglia fornito di eccellente intelletto, il quale deve pur credere, se non folleggia, di rimanersi ancora colle sue investigazioni molto al di qua dal segno, a cui può giungere l' intendimento della sua specie? Consapevoli noi adunque di raccogliere quei soli elementi dell' ordine dell' essere, che sono presentati al nostro conoscere in quella limitata porzione di realità , che ci è data quaggiù a percepire e sperimentare, e anche ciò quanto le forze della nostra individuale intelligenza lo consentono; dobbiamo di questi, quasi frammenti di dottrina, comporre quella ontologia imperfetta, che sola all' uomo e a noi particolarmente è conceduta. Ora, la realità comunicataci sta compresa nel sentimento nostro; dove, come dicemmo altrove (1), quasi sopra scena apertale innanzi, può la mente cogliere gli esseri reali; e tutti quelli che su questa scena del sentimento non si rappresentano, ella non può in modo alcuno percepire, nè riconoscere come sieno fatti. Conviene dunque che ci domandiamo: quali sono quelle realtà che si comunicano a noi nella realtà nostra? Già noi trovammo che esse si riducono a tre, le quali sono i corpi, l' anima in quanto è sensitiva in modo corporeo, e la stessa anima nostra in quanto è intellettiva. Ecco le uniche realità a noi percettibili . Oltre di queste tuttavia noi abbiamo ancora l' idealità che è intuibile, ed è il mezzo col quale conosciamo per via di percezione le dette realità . Come dunque tutte le nozioni ontologiche che riguardano l' ordine dell' essere , così medesimamente le nozioni di materia e di forma , di potenza e di atto , noi dobbiamo cavarle dall' esperienza che abbiamo della materia, del sentimento animale e del sentimento intellettivo; le quali realità, essendo tutte finite e contingenti, dar non ci possono che nozioni appartenenti all' ordine dell' essere finito e contingente; che di conseguenza non si adeguano all' essere infinito se non per un cotal modo di analogia, che altrove più chiaramente dichiareremo. Prendiamo ad esaminare le condizioni di quell' ente che si chiama corpo; il che noi faremo accennando e rimettendo pel di più i lettori all' Antropologia , dove ampiamente se ne ragiona. Ma primieramente s' avverta che noi dobbiamo considerare il corpo tale quale a noi immediatamente si rappresenta; perocchè questo solo significa il vocabolo corpo , e non altro. Che se pur vogliamo col raziocinio argomentare che ciò che noi percepiamo supponga qualche altra virtù antecedente o entità, causa del percepito, conviene ricordare che noi abbiamo riserbato a questo immediato principio del corpo, che non cade nella percezione, ma sembra nascondersi quasi giocolatore dietro alla parete, la denominazione di principio corporeo (1). Non dunque da questo essere occulto, ma dal corpo percettibile noi dobbiamo cavare le nozioni ontologiche, che andiamo cercando. Nell' Antropologia fu distinto il sensifero , che è la causa prossima delle sensioni corporee, dal sentito o sensibile, che è il termine esteso e proprio del sentimento. Ma ivi si raccolse sotto la denominazione di sensifero tanto quella virtù, che produce immediatamente il sentito nel sentimento fondamentale, quanto quella virtù che, operando nel sentito fondamentale, lo immuta e così occasiona la sensazione. Dovendo ora noi spingere l' analisi più innanzi, ci è necessario distinguere queste due virtù (che pur si riducono alla stessa attività che opera in due modi, come vedremo) mediante due vocaboli, e però riserbando la denominazione di sensifero alla virtù che soggiace al sentito del sentimento fondamentale, chiameremo forza esterna quella che altera il sentimento fondamentale medesimo, provocandovi la sensazione passeggera. Ora, dichiarata così la maniera di parlare che seguiremo in appresso, diciamo che la percezione del corpo ci somministra tre entità strettamente connesse: 1 un sentito esteso; 2 un' attività, che concorre a produrre immediatamente quell' esteso sentito nell' anima, ossia il sensifero; 3 una forza straniera, che con violenza immuta il sentito esteso. Il concetto di sentito esteso, unito a quello di sensifero, è propriamente il concetto di corporeità , laddove il concetto di agente, che immuta il sentito, è il concetto di materialità . Il sentito esteso si percepisce come una cotal proprietà del sensifero, e con esso forma il nostro proprio corpo; se non che noi non gli imponiamo il vocabolo di corpo, se non quando siamo giunti a conoscere la sua solidità; e non ne conosciamo la solidità, se non aggiungendo all' esperienza soggettiva del sentito esteso i dati dell' esperienza extra7soggettiva , per la quale percepiamo i confini del nostro proprio corpo mediante le sensazioni superficiali (1). Ma in ogni esperienza extra7soggettiva , oltre percepire il nostro corpo, noi percepiamo anche la forza straniera, ossia la materia; perocchè sentiamo un impulso che muta il nostro sentimento corporeo, di maniera che nello stesso luogo dove nasce la nuova sensazione, ivi appunto percepiamo un agente estraneo al nostro sentire, il quale non si fa conoscere per alcun' altra proprietà che per questa virtù d' immutare il nostro sentito. Di più, ben presto ci accorgiamo che il sensifero, immediata causa del sentito in noi, ha la virtù di immutare con violenza qualche altra parte del sensifero, e così qualche altra parte del nostro sentito medesimo; di che concludiamo che il nostro proprio corpo è materiale , ossia che ha la stessa proprietà della forza straniera di operare con violenza. Ma pur questa non parrà una rigorosa dimostrazione della identità della forza straniera e del sensifero, potendo concepirsi nello stesso luogo due entità diverse, il sensifero e la forza straniera, e spettare al primo la produzione del sentito, alla seconda l' immutazione violenta del sensifero; fra le quali entità la sapienza creatrice avesse posto una armonia di operare così ammirabile, da manifestarsi entrambe nel luogo medesimo, simultaneamente, con certe leggi. Perocchè, quantunque il sensifero producendo il sentito si dimostri essere un agente sul principio senziente, che è l' anima, tuttavia la sua azione è grandemente diversa da quella che viene esercitata sull' agente stesso, e lo fa operare sull' anima in modo diverso. Pare adunque che qui intervenga una serie di quattro termini: l' anima , che al suo modo è passiva; il sentito , che è prodotto nell' anima; il sensifero , che lo produce; una forza straniera , che immuta il sensifero, la quale si manifesta ora nel luogo stesso dov' è il sentito e il sensifero, ora in luogo diverso. Dai quali quattro elementi noi certo raccogliamo ogni concetto di corpo e di materia, che abbiano gli uomini. Cerchiamo, adunque, se fra il sensifero e la forza straniera vi sia o no quella identità di sostanza che parrebbe, considerando l' identità del luogo che occupano, e non parrebbe, considerando la diversità dell' effetto. Acciocchè la ricerca proceda con ordine, nè lasci indietro difficoltà atte a intralciare il ragionamento, o turbare l' attenzione di chi con noi ragiona, cominciamo a ben notare la differenza fra l' anima ed il sensifero. Primieramente l' azione dell' anima, movente il proprio corpo, deve essere immediata almeno su qualche parte di esso, perocchè si deve trovare un luogo nel corpo nostro, dove il primo moto venga comunicato. Infatti, supponendo anche che noi moviamo la mano mediante il movimento dei nervi, che per essa si allungano, e che il movimento impresso a questi nervi si comunichi longitudinalmente, conviene in fine ricorrere ad una o più estremità nervose, alle quali da prima il moto sia comunicato dalla stessa anima. In secondo luogo, si consideri che l' azione dell' anima sul corpo non ha per suo termine immediato il sentito , ma il sensifero , ossia la forza che produce il sentito. Poichè il sentito stesso non si cangia, se non cangiandosi, ossia movendosi, la virtù o forza che immediatamente lo produce; giacchè il sentito , essendo passivo, suppone un sensifero che con azione immanente o transeunte lo produca. Ma il sensifero si dà a noi a percepire in tre modi: Quale immediata cagione del sentito, e come tale agisce immediatamente sull' anima, senza alcuna violenza, perchè la violenza è quando l' azione, che si fa sull' anima, è in opposizione all' azione spontanea dell' anima stessa, e nel sentito l' anima concorre anzi con quella prima spontaneità, che abbiamo chiamata istinto vitale (1). Quale ricevente l' azione dell' anima, che lo immuta. Infatti, quando l' anima, a ragion d' esempio, colla fantasia produce a sè stessa un' interna sensione, ossia immagine, allora essa opera sul sensifero e lo modifica in modo che le produca quell' immagine, o che cessando di produrre un' immagine ne produca un' altra; e in tutte quelle azioni, colle quali l' anima produce a sè stessa nuovi sentimenti corporei, o li cangia (il che ella fa col movimento del proprio corpo), l' anima, immutando il sensifero, immuta il sentito dal sensifero immediatamente in essa prodotto (2). Il quale fatto pure accade senza violenza rispetto a ciò che riguarda l' azione immediata dell' anima, perocchè il mutamento, che avviene nel sensifero, lungi d' essere opposto all' azione spontanea dell' anima, è ad essa conforme. Ora che questo sensifero, immutato dalla azione immediata dell' anima, sia identico al primo è manifesto; perocchè egli è quello appunto che produce immediatamente i sentiti dall' anima. O quale ricevente l' impulso d' una forza esterna, che lo immuta con violenza, senza che l' anima da principio vi concorra colla sua spontaneità; la quale, essendo sempre attiva, se non concorre alla azione, già per questo solo le è opposta (3). Ora qui, in questi due ultimi casi, già noi scorgiamo la differenza che passa fra l' anima ed il sensifero , essendo quella attiva, e questo passivo. Vediamo ancora la differenza che passa fra l' anima e la forza straniera; poichè, quantunque tanto l' anima, quanto la forza straniera abbiano virtù d' immutare il sensifero, tuttavia questa è azione violenta , e quella spontanea; il che è quanto dire che l' anima umana nel primo caso ha la coscienza di essere ella che opera; nel secondo ha la coscienza di essere passiva da un agente diverso al tutto da lei. Ora, se si considera che il sensifero, che produce immediatamente il sentito, viene immutato da due agenti, l' uno dei quali è l' anima, e l' altro è una forza totalmente all' anima straniera, s' intende primieramente non essere ripugnante che questa stessa forza straniera abbia un principio spirituale; giacchè anche l' anima è un principio spirituale, e tuttavia ella ha virtù di operare e di mutare il sensifero producente il sentito, senza che a ciò ponga ostacolo l' estensione del sentito, la quale estensione ha di natura sua l' esistere nel semplice (1). Ma dell' operare dell' anima noi conosciamo non solo il termine che vediamo esteso, ma ancora il principio che riconosciamo semplice; laddove noi non conosciamo la forza straniera che nel suo termine, e non ne percepiamo il principio, conciossiachè non la percepiamo che nel sentito , il quale rimane da lei mutato. Percependo adunque questa forza nel suo effetto, che è l' immutazione del sensifero, causa immediata del sentito, non possiamo determinare la natura del suo principio stando alla sola percezione che noi ne abbiamo; cioè non possiamo affermare che ella sia spirituale, ma possiamo bensì affermare che non ripugna che sia. Lasciando dunque da parte per ora la questione: « che cosa sia in sè stesso il principio di questa forza immutante il sensifero, causa immediata del sentito », passiamo all' altra: « se si possa provare l' identità di questa forza straniera colla forza immediatamente sensifera ». Noi abbiamo osservato che ciò che è immediatamente sensifero, in quanto egli è tale e non in quello che può essere in sè stesso, presenta l' estensione commisurata perfettamente a quella del sentito, che produce nell' anima (2); il che di nuovo prova che il sensifero, come precisamente tale, non è l' anima, la quale è semplice. Ora lo stesso argomento prova altresì che anche la forza esterna, che immuta ciò che è immediatamente sensifero, deve avere l' estensione ed una estensione medesima, anzi identica a quella del sensifero immediato; ancora prova che neppure la forza esterna, in quanto è precisamente tale, è spirito. Ma l' identità dell' estensione non è propriamente l' identità della forza, poichè la identità della forza non si può desumere che dall' identità dell' effetto; e qui l' effetto è diverso, poichè l' effetto del sensifero immediato è quello di produrre il sentito, laddove l' effetto della forza esterna è quello di mutare il sensifero. Converrebbe dunque giungere a dimostrare che anche la forza esterna ha virtù di produrre immediatamente il sentito, ed allora solo si sarebbe trovata la dimostrazione della cercata identità. Ma per questa via non si va molto innanzi. Vero è bensì che, se una parte del mio proprio corpo agisce sopra un' altra parte, sorge una sensazione in un modo del tutto simile a quella che sarebbe prodotta da un corpo esterno, ossia dalla forza straniera. Chiamo mio proprio corpo, come è chiaro, quello dove sento, dove è continuamente prodotto un sentito (fondamentale). Dunque nello stesso luogo dov' è il sentito, vi è una forza che produce lo stesso effetto della forza esterna, cioè che immuta ciò che è immediatamente sensifero. Possiamo dunque intanto raccogliere che questa forza è della stessa natura della forza esterna, giacchè abbiamo detto che la natura identica di tali forze si desume dall' identità degli effetti. Un altro effetto identico si trova ancora in queste due forze, ed è che tanto il mio corpo, quanto il corpo esterno, producono effetti eguali sopra un terzo corpo esterno. Ma circa l' identità del sensifero e di questa forza straniera e violenta rimane sempre il dubbio, che dicevamo prima, non forse nello stesso luogo dov' è il sentito vi fossero contemporaneamente due forze diverse, l' una sensifera, l' altra immutante il sensifero, e che questa seconda fosse identica alla forza esterna, e non la prima. Conviene dunque prendere un' altra via a dimostrare che è identica la forza sensifera e la forza immutante il sensifero; non provando tutto ciò se non l' identità dello spazio che occupano, e la inesistenza della stessa forza straniera nel sentito. Andiamone in cerca. Tutta l' azione dell' anima sensitiva ha per suo principio formale il sentito; comincia dunque nel sentito; quella stessa spontaneità con cui concorre a sentire, è quella che ha virtù d' immutare il sensifero (1). Ritenuto adunque che la sua azione non può eccedere il sensifero, perchè non può eccedere il sentito, a cui quello inerisce come causa prossima o formale, converrà vedere se l' anima possa anche mutare immediatamente la forza straniera od esterna. Perocchè se l' anima coll' immutare il sensifero immuta anche la forza straniera, converrà dire che il sensifero e la forza straniera sono identici, cioè sono attività d' un medesimo subbietto. Ora così appunto avviene; perocchè l' anima non muta mai il proprio sentito, se non per via di movimento prodotto nelle parti del corpo. Ma il movimento è un fenomeno appartenente alla forza straniera. Se dunque l' effetto dell' anima non può eccedere il sensifero, e tuttavia ella immuta la forza straniera, convien dire che la forza straniera e il sensifero sieno identici, ossia appartengano allo stesso subbietto sostanziale. Questa prova è fondata sul principio che, « se l' effetto di un' azione, determinato e limitato ad una entità, apparisce anche in un' altra entità, conviene dire che le due entità sono identiche di sostanza » (1). Un altro argomento, appoggiato allo stesso principio, si trae dal considerare che s' intende bensì come la forza esterna, nella quale non si conosce né sentito, nè sensifero, possa produrre il movimento, che non è che uno spostamento della stessa forza esterna, ma non s' intende poi come ella possa agire sul sensifero, senza supporre che il sensifero formi una stessa sostanza colla forza straniera. Infatti, l' immaginare che la forza straniera produca due azioni così diverse come sono: I spostare un' altra forza esterna (moto); II e immutare il sensifero; sarebbe confondere in uno due concetti di forze affatto diverse, e quindi un mutare il concetto della mera forza straniera, e moltiplicare questa in due forze, le quali si debbono escludere anche pel principio che vieta moltiplicare gli enti senza necessità. Conviene dunque dire che la forza esterna in questi due effetti così diversi operi sopra una stessa sostanza, e però il sensifero e la forza esterna siano identici di natura. Un terzo argomento ci è somministrato dalla vita dei primi elementi, che noi crediamo di aver munita di sufficientissime prove. La quale ammessa, toglie via dalla radice la difficoltà; perocchè non vi è più una forza meramente straniera, ma ogni forza straniera è divenuta sensifera. E questa stessa conseguenza sembra una nuova prova di quella nostra sentenza. Ma supponendo il contrario, supponendo che una parte della materia non sia animata, è ancora argomento, atto a provare l' identità del sensifero e della forza straniera, il fatto dell' animazione che in questa ipotesi la materia bruta riceve; scorgendosi che quella stessa forza straniera, che prima non presentava altri fenomeni che quelli dello spostamento di un' altra porzione di simile forza, diviene ella stessa sensifera. E che sia ella stessa quella che diviene sensifera, si deduce da questo, che quando la forza bruta immuta ed altera il sensifero per mezzo di un certo contatto, ben presto il sentito si distende a lei; e poichè dov' è il sentito, ivi è il sensifero, quindi dove è la forza bruta, appariscono pure i fenomeni del sensifero. E` vero che hoc post hoc, ergo propter hoc , non è valido argomento; ma se si unisce questo argomento al primo, e si considera che la forza bruta diviene così in potere dell' anima, la dimostrazione riesce rigorosa. Un quarto argomento si può trarre dalla natura del contatto . Se due forze estese fossero semplicemente di posizione contigue, non si potrebbe ancor dire esservi fra esse contatto. Il concetto del contatto suppone un' azione reciproca delle due forze, la quale, trattandosi di forze brute, si manifesta col fenomeno della coesione. Ma se si applica una forza bruta ad un nervo, l' effetto di questa coesione, od anche impulso, è la sensazione . Sia pure che la sensazione nasca per un movimento intestino dell' organo sensorio, ma questo movimento non potrebbe nascere, se il movimento della forza bruta non fosse passato nel sensifero, il quale così produce l' alterazione nel sentito. Se dunque il sensifero comunica colla forza bruta per via di moto, e ne riceve l' azione, uopo è che sia anch' egli un esteso capace di moto e di impulsione; al che si riduce appunto il concetto della forza bruta, ossia straniera. Questi argomenti provano l' identità di sostanza fra la forza straniera (materia) e il sensifero, il quale ha concetto di corpo animato, laddove la forza bruta non presenta che il concetto di corpo inanimato. Ora qui, dopo aver veduto il rapporto d' identità che ha quello che è immediatamente sensifero, con quello che da prima si presenta alla nostra esperienza come pura forza straniera o bruta, vediamo come tanto il sensifero , quanto la forza bruta , siano, quasi direi, vestiti del sentito; sicchè il sentito si mescoli col sensifero, e se ne abbia il concetto di corpo, e colla forza bruta, e se ne abbia il concetto di materia . Quanto al sensifero, è manifesto come egli debba apparire vestito di sensazione, dappoichè, essendo il sensifero l' immediata e prossima cagione del sentito, egli è presente dovunque v' è il sentito medesimo, e da lui indiviso e termine dell' atto dell' agente che lo produce. Ma riesce alquanto più difficile intendere come questa unione intima ed individua nasca fra il sentito e la forza straniera o bruta; il qual nesso non è mai considerato abbastanza. Primieramente questo avviene perchè l' anima, immutando il sensifero, lo immuta là appunto dov' egli è, cioè nello stesso luogo che tiene il sentito (1). Questa identità di luogo fa sì che il sensifero appaia necessariamente vestito dell' estensione stessa, e delle qualità del sentito. Ora, alla forza straniera e bruta, che produce le sensazioni, s' unisce individualmente il sentito per una ragione simile, e di esso si veste. Perocchè, quando l' immutazione del sentito viene da un principio straniero all' anima, allora questa forza non si sente che dov' è il sentito, che ella immuta. Quindi è pel luogo stesso, in cui ella agisce, che il sentito si unisce a lei; ed ecco la cagione, per la quale noi attribuiamo alla materia esterna il colore, il sapore, il gusto e tutte le qualità seconde, che a dir vero sono nostre proprie sensazioni, o per dir meglio, sono il nostro sentito. Ma in questo sentito, manifestandosi la forza straniera, del sentito e di lei facciamo una cosa, poichè percepiamo le due entità coll' atto stesso e nell' identica estensione. Quando poi i corpi esteriori cessano dall' agire sui nostri corpi, noi non li possiamo immaginare se non a quel modo nel quale ci comparvero nell' atto del percepirli; perocchè la percezione di essi è l' unica nostra maniera originale ed immediata di conoscerli. Quindi ad essi, anche separati dai nostri sensi, diamo le qualità sensibili, delle quali noi li abbiamo investiti nell' atto della percezione; poichè la memoria di essi non è che la memoria della percezione. Quando i corpi esterni sono già staccati e separati dal nostro sentito, non più nell' atto di agire in esso, noi allora li consideriamo come agenti in potenza . Ora, come li immaginiamo noi separati? Che cosa vuol dire separati dal nostro sentito? Vuol dire esistenti in altro luogo diverso da quello in cui esiste il nostro sentito; il che accade per cagione del movimento, come abbiamo dichiarato nell' Ideologia e nell' Antropologia. E tuttavia, quantunque noi li pensiamo esistenti non più nel luogo del sentito , ma in altro spazio, immaginiamo però che abbiano portato seco il nostro medesimo sentito, per la ragione detta, che nel primo percepirli occupavano lo stesso luogo del sentito, e ne abbiamo percepita la forza insieme con questo, con un atto solo di percezione. Ma perocchè il considerarli in potenza ad agire su di noi, e il considerarli vestiti e accompagnati dal sentito è cosa contradittoria, perciò i filosofi col ragionamento spogliano giustamente i corpi7materiali delle qualità sensibili in atto, e non le lasciano loro che in potenza; concepiscono cioè i corpi come agenti, atti a modificare il nostro sentimento in modo da produrre le sensazioni, ma non già aventi seco il colore giallo o verde, il sapore agro o dolce, il suono acuto o grave, ecc.. E tuttavia è difficilissimo a fare questa separazione colla mente nostra; perocchè la potenza non è determinata e conosciuta se non dall' atto che essa produce, onde è necessario che noi riferiamo sempre la potenza materiale alla sensazione, ossia al sentito, se vogliamo pure formarcene un concetto determinato; riferir poi la potenza di modificare il sentito al sentito medesimo non possiamo, se non pensando la potenza congiunta a questo nell' atto di modificarlo, e però in quel modo stesso nel quale noi l' abbiamo da principio percepita e conosciuta come tale; il qual modo importa che la potenza sia in atto, unita individualmente al sentito per l' identità del luogo. Quindi ci tornano sempre i corpi a riuscire colorati, sonori, saporosi e delle altre maniere di sentito rivestiti od accompagnati, anche quando noi ce li immaginiamo chiusi in un armadio, dove non entra raggio di luce, né da essi può venire a noi alcuna sensazione; e il filosofo stesso difficilmente si libera da una cotale immaginazione. Ma in appresso, facendoci la riflessione conoscere che queste qualità non possono essere annesse ai corpi separati dal nostro sentito, si ritorna colla ragione a concepirli da esso divisi, e così l' uomo si forma finalmente il concetto d' una materia7bruta, inanimata, priva di sentito (1). Nè basta; il sentito è opposto al senziente, ma si trova nel senziente, altrimenti non sarebbe sentito. Ma la forza corporea esterna che modifica il sentito, quando è separata da questo, è meramente in potenza d' agire, non è nè sentito, nè senziente; ella rimane dunque una mera potenza . Quindi se si osserva attentamente il ragionare degli uomini intorno ai corpi, facilmente si scorge che essi usano alternativamente di due concetti di essi, senza accorgersene; talora parlano della materia come di cosa inanimata, a cui non danno punto di ciò che appartiene a sensazione; altre volte attribuiscono al corpo sensibili qualità, come fosse sentito in atto, senza pensare che il sentito è nel senziente, e che se si dà ad un ente il sentito, forza è dargli ancora un principio senziente. Ma la mera potenza è un concetto, che non racchiude alcuna relazione se non all' atto o effetto che ella produce, relazione esterna a lei; dunque la potenza da sè sola non racchiude l' atto del proprio sussistere . Ora niuna cosa si può concepire dall' intelletto, se non si concepisce l' atto pel quale ella sussiste, pel principio di cognizione . Dovendo dunque l' intendimento concepire una potenza di modificare il sentito, e non potendo egli dare a questa potenza nè l' atto onde sussiste il sentito, perchè separata da questo, nè l' atto onde sussiste il senziente, perchè aliena affatto dall' attività senziente; trovasi obbligato di supporre nella potenza di modificare il sentito un atto suo proprio, altrimenti non la potrebbe concepire. Ma questo atto non si conosce punto, nè egli è termine di alcuna percezione, altrimenti non si avrebbe più il concetto della potenza, ma d' un atto; dunque l' atto è meramente supposto in virtù della legge dello stesso intelletto; nè questa supposizione è tuttavia senza ragione o meramente soggettiva; anzi si fa per logica necessità, cioè pel principio di cognizione , come dicevamo (1); pure quell' atto di sussistere rimane una cosa del tutto incognita, di cui non si sa altro che l' esistenza. Ebbene, questo atto così concepito per via di supposizione, è la sostanza materiale , la cui esistenza riesce certa per logica necessità, ma la sua natura rimane occulta. Tuttavia l' uomo determina questo occulto da lui scoperto, in modo da non poterlo confondere con altra entità, mediante la sua relazione; perocchè egli sa che una tale sostanza, o atto di sussistenza, è il soggetto di quella potenza che immuta il sentito come sensifero, e che immuta il sensifero come forza straniera; essendo il sensifero e la forza straniera potenze, che convengono nella medesima sostanza, come fu dimostrato. Il principio di sostanza può prendere anche questa enunciazione, più comoda al nostro presente ragionamento: « Un atto, che passa in un ente, non può essere concepito senza un altro atto fisicamente anteriore che non passa; e questo atto che non passa è la sostanza, per la quale esiste l' atto che passa ». L' atto, che non passa in un ente, chiamasi anche atto primo, ed è l' atto per cui tutto l' ente (l' essenza piena) sussiste. L' atto che passa dicesi atto secondo. Come conosciamo l' atto che passa? Percependo l' effetto che egli produce in noi, il quale effetto ci si presenta come passivo. Così il sentito, che esperimentiamo in noi stessi, è una passività nostra, un modo nostro che ci viene imposto, il quale suppone l' atto che ci produce quella passività, o che c' impone quel modo; e tale atto è il sensifero. Ma il sensifero, come tale, esprimendo un atto che passa, ed essendo pure un atto che passa quello della forza straniera che immuta il sensifero, e quello che immuta la forza straniera, tutti questi tre atti non si possono concepire se non supponendo un atto primo, che è la sostanza; i ragionamenti poi, che prima abbiamo fatto, dimostrano che tutti e tre quegli atti appartengono ad una medesima sostanza; la quale è la sostanza dei corpi. Solamente qui conviene avvertire, che non si deve già credere che la mente passi dal sentito al sensifero, dal sensifero alla forza straniera, da questa ad un' altra forza straniera, e finalmente a trovare la sostanza per via di raziocinio; no, anzi con un solo atto semplicissimo, quale è la percezione , ella abbraccia contemporaneamente tutti questi termini, e comincia a conoscerli ed a conoscere il corpo, solo quando li ha abbracciati tutti e non prima, siccome abbiamo dichiarato nel Nuovo Saggio , ed altrove (1). La sostanza materiale, ossia l' atto primo, è adunque un quid incognito, di cui non si conoscono che gli atti secondi (il sentito, il sensifero, e la forza straniera). Ma l' atto primo, l' ente materiale supposto a tutta ragione dalla mente, non essendo per noi determinato che dai suoi atti secondi, noi lo pensiamo individualmente con questi unito. E poichè l' effetto di questi atti secondi sono i sentiti, il cui modo è l' estensione, perciò noi uniamo individualmente questi effetti, benchè prodotti in un altro ente, cioè nel senziente ossia anima, agli atti secondi, e quindi anche alla sostanza materiale; la quale ci riesce così estesa e fornita di tutte le qualità sensibili. Ma qui è da considerarsi bene la differenza fra l' estensione e le sensazioni . Noi abbiamo definita l' estensione « « il modo del sentimento corporeo »(1) »; tale infatti ce la presenta l' osservazione, che ne coglie il concetto alla sua origine, « « giacchè la vera natura degli oggetti del nostro pensiero non si rileva, se non risalendo alla prima origine della formazione dei loro concetti » ». Quindi anche l' estensione misurata appartiene al sentimento, e da questo non si divide che per astrazione. Come dunque l' abbiamo noi posta fra le qualità primarie del corpo, cioè fra quelle che ce ne somministrano l' essenziale concetto? (2). E` da confessare che se noi spogliassimo il concetto di corpo da ogni sentito, noi con questo stesso lo spoglieremmo anche della sua estensione; perocchè la sua estensione non si pensa che come il modo del sentito, e però come sentita. Ma in tal caso ci svanirebbe affatto di mano il concetto di corpo e di materia, quale tutti gli uomini lo si formano ed esprimono con quei vocaboli. Noi all' incontro ci proponemmo sempre « di parlare delle cose, quali l' uomo le percepisce e le esprime »; giacchè, dovendo usare i vocaboli comuni, e quelli esprimendo le cose concepite dal senso comune degli uomini, che si fonda sulla percezione, qualora noi volessimo adoperare quei vocaboli a significare altro, ne falseremmo il significato, e introdurremmo equivoci senza fine, e questioni in cui non ci sarebbe più possibilità d' intenderci. Quindi noi già definimmo il corpo « « la causa prossima delle sensazioni e il subbietto delle qualità sensibili »(3) ». Secondo questa definizione il corpo è il sensifero, identico, come abbiamo veduto, alla forza straniera. Ora al sensifero, come causa prossima delle nostre sensazioni, benchè si spogli delle qualità sensibili, forza è attribuire la estensione; perocchè noi lo consideriamo per tutto là, dove è il sentito; ma il sentito è esteso, dunque la sua causa prossima deve essere « una virtù che, quanto al suo atto, si diffonde nella estensione medesima del sentito, essendo l' attivo dov' è il passivo ». Questa è la dimostrazione da noi data dell' estensione del corpo (4). Si opporrà che il sensifero, non essendo proprio la sostanza, ma un atto della sostanza, che si conosce a cagione del suo termine, e corpo essendo un nome sostantivo, cioè esprimente sostanza, non si può attribuire al corpo (sostanza) quell' attributo che appartiene al termine della sua azione sensifera. A cui noi rispondiamo, che noi pigliamo il sensifero come sostanza, pel bisogno che abbiamo di far ciò volendolo concepire; il che non ci autorizza ad aggiungere, nè a togliere nulla al sensifero. L' aggiunta non è, non deve essere se non puramente il mezzo di conoscere, deve essere puramente quanto a noi basta per arrivare a percepire intellettivamente il sensifero come ente . Ci rimane dunque il concetto di corpo, quale ce lo dà la percezione e quale viene nominato dalla parola, tutto racchiuso nel sensifero; al quale, come vedemmo, appartiene il concetto di « forza operante nella estensione, e però estesa ». Ma se dopo di ciò noi colla riflessione vogliamo salire più su, troveremo benissimo che l' ente subbietto della virtù sensifera, considerato in sè stesso e non come lo percepiamo, potrebbe essere un ente inesteso; e ciò anzi s' induce al vedere che l' estensione appartiene originariamente al sentito e al senziente, e però all' inesteso (1). Ma in tal caso noi non avremmo già più in mano il concetto di corpo, ma di altra cosa che non percepiamo, e che nominammo principio corporeo . Fin qui abbiamo sufficientemente dichiarato che cosa sia corpo , tale quale la percezione ce lo somministra, come sensifero e come forza straniera. Abbiamo veduto come questa forza, o si manifesti come sensifera o come straniera, si dà a percepire a noi per estesa nel termine della sua operazione; e come è per questa estensione che chiamasi corpo (sensifero), o materia bruta (forza straniera). Abbiamo veduto come questa forza estesa venga rivestita delle qualità sensibili, e propriamente del sentito. Abbiamo veduto finalmente come la meditazione filosofica salga dal corpo ad un principio corporeo , che è la cagione incognita producente il corpo, quale da noi si percepisce. Possiamo dopo di tutto ciò passare a dichiarare come nascano i concetti opposti di forma e di materia , i quali non sono alieni dal senso comune, e di cui i più antichi filosofi, generalizzandoli, fecero sì grande uso nelle loro filosofie. A far questo convenevolmente ci bisogna primieramente osservare in che modo diverso noi vestiamo il corpo (secondo il concetto datoci dalla percezione) di estensione e di sentito . L' estensione misurata, noi abbiamo detto, è il modo del sentito; e questo modo vi è sempre, benchè ne variano i limiti, e quindi la figura e la grandezza; ma lo stesso sentimento varia oltracciò specificamente, varia del tutto, perocchè il colore è cosa specificamente diversa dal sapore, e nella medesima specie di sensazione, per esempio nella sensazione del vedere, il sentito può variare frequentemente, senza che varii il modo dell' estensione (1), giacchè una stessa superficie può presentare successivamente colori e gradazioni diverse all' infinito. Se dunque noi prendiamo l' estensione misurata in genere, questa è cosa invariabile nella sensazione corporea; cioè ogni sensazione corporea ha sempre qualche estensione. La quale costanza dell' estensione, nella variabilità di tutte le altre note o caratteri del sentito, fa sì che noi ravvisiamo nell' estensione qualche cosa di permanente, un esteso permanente. E poichè l' atto onde una cosa sussiste, ossia la sostanza, si considera permanente relativamente agli atti suoi accidentali, quindi noi attribuiamo al corpo l' estensione, come qualità a lui essenziale e precedente a tutte le qualità variabili in esso. Nominando dunque forza, o forza corporea, tanto il sensifero, quanto la forza straniera, che abbiamo dimostrati identici, diremo che « una forza estesa »è ciò che v' è di permanente e di sostanziale nei corpi. Non si dimentichi però mai che, quando diciamo la forza estesa essere la sostanza dei corpi, la mente nostra ci suppone l' atto primo necessario alla sussistenza della « detta forza estesa », e l' immedesima colla forza estesa, perchè altro ella non vuole che percepire questa forza estesa, e non cercare ciò che esser vi possa oltre di essa. Quindi il principio corporeo non è la sostanza corporea, di cui tutti gli uomini parlano pronunciando il nome sostantivo corpo , ma è un principio incognito al di là di questa sostanza. Conviene adunque qui, prima d' inoltrarci, considerare attentamente in che modo l' uomo si formi il concetto delle varie sostanze, che egli percepisce. Essendo la percezione un' azione, che viene esercitata in noi esseri suscettivi di riceverla, cioè di sentirla e d' intenderla, questa azione in noi è la prima cosa che conosciamo dell' agente, e perciò in quella ci fermiamo colla mente, perchè anteriormente ad essa nulla percepiamo; quindi l' azione percepita diviene base, atto primo, della sostanza che pensiamo; il che è quanto dire, noi erigiamo quell' azione in un ente, supponendovi il mero atto del sussistere, che è la sostanza; il quale atto certamente non manca, perchè di fatto quell' azione sussiste. L' azione prima adunque, l' azione percepita nel senso e pensata come sussistente, tale è il concetto umano delle sostanze (1); e questo concetto è vero, benchè limitato, non ascendendosi con esso all' atto assolutamente primo, il quale è a noi impercettibile, ma solo all' atto primo relativamente a noi, che è quello che percepiamo, il quale indubitatamente sussiste, e come a tale poniamo un nome sostantivo. Ciò che percepiamo, in una parola, è l' agente in atto, e questo atto può essere atto secondo rispetto all' agente in potenza, ma rispetto a noi è primo, e però è a noi l' agente stesso. La ricerca poi degli atti anteriori alle sostanze percepite appartiene alla Filosofia trascendentale, ossia alla Teosofia. Veniamo al concetto di materia prima . Il sensifero e la forza straniera appariscono a noi vestiti: 1 di estensione limitata; 2 di limiti a questa estensione, ossia di figura; 3 di quelle qualità sensibili, che dicemmo secondarie. Queste qualità sensibili non si percepiscono mai che in una figura; la figura non si percepisce mai che nell' estensione; l' estensione limitata poi ci si presenta siccome indivisibile dal sensifero e dalla forza straniera, in modo che noi non possiamo in alcuna maniera nè percepire, nè pensare il sensifero o la forza straniera senza una qualche estensione, per guisa che nella stessa immediata percezione vi è sempre ed invariabilmente l' estensione; mentre può variare la figura e le altre qualità sensibili. Appartenendo dunque l' estensione limitata (in generale) invariabilmente a ciò che di primo pensiamo e percepiamo, ed essendo l' essenza sostanziale appunto « ciò che di primo pensiamo », noi, come si è detto, dichiariamo il sensifero e la forza estesa un' essenza sostanziale, di cui la figura e le altre qualità sensibili siano accidenti, e quell' essenza sostanziale la chiamiamo corpo. Ma quantunque questi accidenti sieno variabili, alcuni di essi accompagnano sempre il corpo. Ond' è che l' essenza sostanziale del corpo non esiste mai sola; e acciocchè possiamo pensarla da sè, dobbiamo farla divenire un oggetto di nostra mente, dal quale separiamo tali accidenti. L' essenza sostanziale del corpo non è adunque separata che nell' idea nostra, è un astratto che non può essere realizzato se non a condizione d' essere vestito di certi accidenti. Quindi si dice che « l' essenza sostanziale del corpo ha in potenza i suoi accidenti »; il che è quanto dire che « una tale idea, quando viene realizzata, può e deve essere vestita di accidenti, benchè non debba essere vestita di tutti i possibili, ma solo di alcuni ». Ma se il corpo è « una forza estesa », non si può ben conoscerne la natura, se non si conosce quella dell' estensione. Ora tale è la natura dell' estensione che colla immaginazione si può dividere in parti; onde la forza, che è vestita d' una parte di questa estensione, è al tutto separata dalla forza, che è vestita di un' altra parte contigua alla prima o no; il che vuol dire che le forze corporee non operano punto l' una nell' altra, ma nella propria estensione, senza eccedere un punto da quella. Quindi « l' essenza sostanziale del corpo »ha la proprietà pure essenziale di essere divisibile in parti; di modo che ella non ha per sè unità, poichè il suo principio agente non si vede, non è il corpo, e se esiste, appartiene alla filosofia trascendentale, come dicemmo, ma è anzi l' azione percepita da noi nel suo termine; questo termine adunque, che è l' azione da noi percepita, è essenzialmente divisibile in modo che quell' entità che si mostra attiva in una parte, in una estensione, non è identica di numero (ma solo di qualità) a quella entità, che si mostra attiva in un' altra parte, in un' altra estensione. Ora qui abbiamo tutti i dati, dai quali possiamo raccogliere il concetto di materia prima. Se noi spogliamo la forza corporea di ogni estensione, ella ci si annulla, non operando oggimai più in luogo alcuno (1): ella dunque non può essere la materia prima, perchè la materia prima non è il niente (2). Di poi la materia prima non può essere la mera estensione, perchè questa per sè non si divide; ma si divide solo per immaginazione, laddove la materia è subbietto di reale divisione. In terzo luogo la materia prima, da Dio creata e realmente esistente, non può essere infinita; nuova prova che essa non è l' estensione, la quale si percepisce naturalmente immensurabile e così infinita, come pure si concepisce immobile e non in potenza ad alcuna figura; ed è soltanto la mente che disegna le figure nella pura estensione con dei segni immaginari, i quali non sono l' estensione stessa. In quarto luogo la materia prima non ha confini determinati, perocchè in tal caso avrebbe figura; ma è tuttavia un ente reale concepito dalla mente, astrazione fatta dai suoi confini; ha dunque confini e figure in potenza. In quinto luogo la materia prima ha parti sostanziali e reali in potenza; cioè può essere divisa in parti indefinite, ciascuna delle quali è materia nel concetto eguale, in realtà diversa; e ciò a cagione della qualità estesa, che è il suo modo di essere; il qual modo è in potenza a qualunque dimensione (1), figura, forma e moltiplicità (2). Dal che concludiamo: Che il concetto della materia prima è un concetto astratto, che nondimeno dimostra alla mente un primo elemento dei corpi ancora indeterminato, appartenente alla loro realità, ma che non può sussistere se non aggiungendovi le determinazioni. Dove si noti che l' astrazione fa due uffici: I) fa pensare qualche elemento realizzabile, ma privo delle sue determinazioni ( astrazione tetica ); II) fa pensare altresì un quid non realizzabile, come allorquando separa di quelle cose, le quali non si possono al tutto separare, senza che ciò che rimane sia del tutto inconcepibile, come sarebbe il centro del circolo senza la circonferenza, la forza corporea senza alcuna estensione neppur generica, ecc. ( astrazione ipotetica ). Questa seconda specie di astratti, se vogliamo ridurla ad una formula generale, si può definire così: « astratti, nei quali l' astrazione ha tolto via anche la potenza di ricevere le determinazioni necessarie a divenire reali ». Ora, il concetto della materia prima non si ha coll' uso di questa seconda astrazione, ma della prima. Quindi: La materia prima è una forza estesa, la quale è in potenza: 1) ad avere una quantità determinata di estensione; 2) ad avere una determinata figura; 3) ad essere divisa in parti, ciascuna delle quali ha la sua quantità determinata e la sua figura; 4) ad avere un determinato sensibile. Ancora, la materia prima è la sostanza dei corpi , e in questo senso ha ragione Aristotele attribuendole il nome di sostanza; e le determinazioni della quantità, figura, numerosità quantitativa e sensibilità, sono altrettante condizioni, alle quali ella può avere l' atto del sussistere. Le quali condizioni, insieme prese, costituiscono la forma del corpo. Ora queste determinazioni possono variare, ma ad ogni modo le une o le altre sono necessarie. In quanto sono necessarie, costituiscono la forma sostanziale del corpo unitamente all' atto della sostanza. Cioè l' estensione determinata o quantità, la figura e il sensibile, in quanto terminano e perfezionano l' atto che le fa sussistere, che è l' atto della sostanza materiale dal quale ricevono unità, in tanto si dicono forma sostanziale dei corpi (1). In quanto poi sono variabili, in tanto costituiscono altrettante forme accidentali o accidenti; e come tali, non si considerano nell' unità della sostanza che le fa sussistere, ma separate le une dalle altre coll' astrazione (2). I diversi elementi della natura corporea hanno un ordine fra loro, e l' ordine è questo: 1 vi è la forza, il cui modo essenziale è la quantità estensiva. La forza non si può considerare divisa dalla quantità estensiva se non per via dell' astrazione di secondo genere, cioè ella in tal caso rimane un assurdo, poichè è la forza, e pur le manca l' elemento necessario a costituirla, è la forza in potenza, e la forza in potenza non è la forza da noi concepita, la quale è in atto; 2 la quantità estensiva ha dei confini, i quali le determinano una figura; la figura adunque è nell' estensione, come i limiti sono nel limitato; 3 la figura non si presenta a noi senza qualche sentito, e quantunque coll' astrazione si possa prescindere da ogni sentito, tuttavia non si può prescindere da un sentito in genere; sicchè la figura astratta non è già una figura senza sentito, ma una figura che « si pensa come possibile a sentirsi, senza determinare qual sia questo sentito che racchiude, poichè può racchiuderne separatamente diversi ». Quando dunque si pensa l' astratto della forza, si pensa insieme l' estensione, ma questa si lascia indeterminata; e questo è il concetto di materia prima dei corpi. Quando si pensa l' astratto minore della forza con una estensione o quantità estensiva determinata, si pensa insieme la figura, ma questa si lascia indeterminata; e questa è la materia con una sua dimensione (materia non prima). Quando si pensa l' astratto ancor minore della materia con quantità determinata e con figura, si pensa insieme il sentito, ma si lascia indeterminato qual sia la qualità, o quali sieno le qualità sensibili che vi si appongono. Quando finalmente si pensa la materia con quantità, figura e sentito determinato, allora si pensa il corpo formato, la materia insieme alla forma, la specie piena , l' idea universale, ma non astratta del corpo (1). Il corpo stesso poi reale si percepisce intellettivamente, quando si unisce la percezione sensitiva all' idea che a lei corrisponde, cioè alla specie piena. Ciò che si pensa anteriormente alle sue determinazioni si dice il subbietto delle determinazioni; quindi la materia prima è il primo subbietto di tutte le determinazioni corporee; la quantità estensiva si prende come subbietto dialettico della figura; la figura come subbietto dialettico delle qualità sensibili. Ma si osservi bene che il ragionamento umano percorre due vie opposte, o per meglio dire, percorre la stessa via in due direzioni, va e viene. Quando va, procede per l' ordine naturale e comune, e questa è una direzione analitica dal tutto alle parti; quando ritorna, procede coll' ordine scientifico o dotto, e questa è una direzione sintetica dalle parti al tutto; questo ritorno della mente suppone quella prima andata, la sintesi dotta suppone l' analisi volgare. Quando dalla materia prima si discende fino al corpo reale, dalle parti si ritorna al tutto; lo spirito prima di fare il cammino in questo senso dovette farlo nel senso contrario, dal tutto alle parti; ed in tal processo si cangia l' ordine dei predicati e dei subbietti. Prima dunque si ha il sentito, poscia la sua figura, poscia la sua quantità. Quindi si predica la figura del sentito e la quantità della figura, ossia si dice che la figura è un modo del sentito, la quantità estensiva un modo della figura. Ma la materia, essendo la causa prossima attuale del sentito, non si può predicare; ma di lei si deve predicare tutto ciò che si predica del sentito, che è il termine del suo atto, in cui ella si percepisce; e perciò rimane sempre che della materia si predichi la figura, e la quantità, e il sentito come suo effetto. Onde in ogni direzione in che vada la mente, la materia ha sempre ragione di primo subbietto, ossia di sostanza; non può essere mai predicata, ma solo subbiettata. Dalle cose dette apparisce che la materia è l' atto, nel quale e pel quale esistono i corpi (1), cioè l' atto, pel quale e nel quale sussistono le qualità corporee; è ciò che primo s' intende col pensiero, quando si concepiscono i corpi. Ma poichè questo atto non può essere realizzato nudo e solo da tutte le qualità corporee, che in lui si concepiscono essere potenzialmente, perciò v' è qualche cosa che lo perfeziona, e sono queste qualità corporee determinate, le quali si chiamano forma . Ma poichè alcune sono variabili, perciò in quanto esse sono al tutto necessarie a poter pensare la materia realizzata, esse si chiamano forma sostanziale del corpo, perchè anch' esse concorrono a costituire quell' atto, pel quale il corpo si può concepire come idoneo ad essere realizzato; e in questo senso si dice che la forma è anch' essa sostanza, cioè entra a formare parte della sostanza. In quanto poi queste qualità sono variabili, sicchè ciò che è necessario alla sussistenza d' un corpo rimane indeterminato, perchè basta che delle dette qualità ve ne sia l' una o l' altra, in tanto diconsi forme accidentali . Ma posciachè si possono concepire dei corpi forniti di tutte le qualità sì sostanziali e sì accidentali, a cui nulla manchi acciocchè sieno realizzati, e tuttavia possono essere realizzati con grandezze maggiori e minori, e anche può ripetersi la stessa grandezza un numero qualunque di volte; perciò dicesi che la quantità continua o discreta della materia non è determinata nè dal concetto di materia , nè da quello di forma , ma da quello di realizzazione; la quale dipende dall' arbitrio dell' Autore, che realizza i corpi. La ragione prima adunque, onde tutto ciò che v' è in un corpo si concepisce come sussistente, si è la materia, che perciò riceve per la prima il nome di sostanza e di primo subbietto; quindi essa è anche il subbietto della forma sostanziale, come questa è il subbietto degli accidenti. La realizzazione poi non ha la sua ragione nel corpo, ma nella causa creatrice; e non è subbietto del corpo, ma quella che fa sussistere il subbietto. Ora che abbiamo svolto il concetto di materia prima , e veduto che questa si trova nei corpi, nei quali la perfezione di questa materia e gli ultimi atti di essa si chiamano forma , possiamo dimostrare (avvegnachè ciò risulta anche dalle cose dette nella prima parte) che nell' anima una tale materia non si rinviene. Ma per evitare le questioni di parole, e porgere altresì una chiave per intendere i maggiori filosofi sanamente, gioverà che prima accenniamo come quei filosofi non sempre parlano della materia prima con precisione, nè fissarono accuratamente il suo concetto, come noi abbiamo tentato di fare, adoperando il vocabolo di materia o di materia prima in varie significazioni; onde avvenne che incorsero in apparenti contraddizioni, ed agitarono fra loro caldissime ed inutili questioni. E primieramente quasi tutti confusero la materia prima colla realità sussistente , da cui noi l' abbiamo distinta. Così accadde a Platone, facendo che il quanto sia una dipendenza o conseguenza della materia, laddove il quanto non si trova punto inchiuso nel concetto di materia, ma è posto dalla realizzazione di essa, ed è determinato dall' arbitrio del realizzatore. Così pure accadde ad Aristotele, il quale pose la materia essere il principio dell' individuazione; il qual principio noi dimostrammo doversi anzi porre nella realità sussistente (1), che è sempre pienamente determinata. Come noi abbiamo veduto, se dal concetto di materia leviamo ogni pensiero di estensione in genere, quel concetto non esprime più cosa alcuna; noi allora consideriamo la forza coll' astrazione ipotetica e non più colla tetica. Quindi anche S. Tommaso insegna che, qualora si astragga da ogni estensione, si astrae con ciò stesso da ogni materia. Consideriamo le sue parole: [...OMISSIS...] Noi abbiamo veduto che v' è una materia prima , che è « la forza che opera nell' estensione », la quale è in potenza: 1 all' estensione determinata o quantità, che può essere una o più, e quindi ancora numerizzabile; 2 alla figura; 3 alle qualità sensibili. Che cosa sono le specie matematiche? Sono le figure e i loro termini, la superficie, la linea, il punto. Le specie matematiche non sono adunque la materia prima , ma una materia già ridotta all' atto della quantità e della figura, e però in parte informata; solamente che si prescinde dal considerare le qualità sensibili, alle quali è in potenza; ed appunto perchè è in potenza, si chiama ancora materia . Questa è la materia matematica degli Scolastici. Quando dicono adunque che nel concetto della materia matematica si astrae dalla materia sensibile, tanto individuale, quanto comune, intendono che si astrae dalla potenza alle qualità sensibili, tanto considerate come reali, quanto considerate come ideali. Quando poi dicono che si astrae dalla materia intelligibile individuale , intendono per materia intelligibile individuale la quantità determinata e figura (con ciò che appartiene alla figura) realizzata; ma questo dicono in modo improprio, poichè gli Scolastici stessi già posero che l' individuo non si concepisce dall' intelletto, onde incoerentemente alla propria dottrina ponevano una materia, che fosse intelligibile insieme ed individuale . Ma essi davano il nome d' intelligibile a questa materia, perchè la quantità e la figura, astratta dal sensibile, è puramente oggetto dell' intelletto; non vedendo poi che, come tale, non è mai individuale, se non si fissa arbitrariamente ad un luogo dello spazio. Tuttavia, perchè ciò che è nell' intelletto possiamo riscontrarlo nella realità, non è del tutto vana una tale denominazione. Dicendo poi che il concetto di materia matematica non astrae dalla materia intelligibile7comune, vengono a dire che la quantità e la figura è considerata dai matematici non solo astrattamente dalle qualità sensibili, ma ben anche senza riferirla a un corpo reale, come possibile a realizzarsi. Ora vediamo quel che segue: [...OMISSIS...] . Ed ecco qui come, se si prescinde dalla estensione e da ogni quantità continua, già siamo fuori da ogni materia; il concetto di materia ci svanisce al tutto dalle mani, ed altro non ci rimane che alcuni astratti ultimi, i quali possono essere realizzati nella materia o fuori di essa. Vi è dunque qualche cosa di anteriore alla materia, vi è qualche cosa di atto e di potenza attiva (2). Il concetto dunque della materia non comincia nella nostra mente, se non allora che si pensa ad « una potenza sensifera nell' estensione ». Ma questo concetto non fu ritenuto sempre, come dicevamo. Onde, quando alcuni Scolastici dicono della materia che « talis potentia non est ad operationem, sed ad esse (3) », invece di dire ad formam , allora allargano il concetto della materia in modo che la materia già può appartenere ad ogni creatura, perchè ogni creatura anche spirituale, prima di essere, ha la potenza ad esse , il che equivale a dire: potenza di ricevere la sussistenza. Secondo questo principio inteso letteralmente, la materia si converte nella « cosa possibile », che è l' idea; il che non conviene di fare, poichè si ha idea non meno delle forme che della materia, come abbiamo detto di sopra. Di che alcuni Scolastici fecero che tutte le cose, tanto visibili, quanto invisibili, tanto mobili, quanto immobili, tanto corporee, quanto incorporee, sieno composte di materia e di forma; ma, come assai bene osserva S. Tommaso, questo è un prendere la parola materia in due significazioni, e non nella sua propria e vera significazione (1). Quelli che prendono la materia come sinonimo di « ciò che è in potenza », escludendo dal suo concetto ogni relazione coll' estensione, ne fanno di necessità un ente, da cui è già astratta la stessa materia, e perciò rimane indivisibile, come osserva lo stesso S. Tommaso, il quale scrive: [...OMISSIS...] , dove per quantità conviene intendere non una particolare quantità determinata, ma qualunque sia. I filosofi accennati non si accorsero che il concetto di materia dimostra all' intelletto tal cosa, che ha relazione coll' estensione; e però con una soverchia astrazione, togliendo via questa relazione, distrussero il concetto di materia, non restando loro in mano che il concetto di cosa immateriale ed indivisibile, che precede a quello della materia. Vi furono altri, i quali non abolirono intieramente la relazione coll' estensione, accordando alla materia di poter essere mossa nello spazio; ma le tolsero la facoltà di muovere e la dissero inerte. Ebbero questi ragione? La cagione logica, che condusse costoro a un tal pensiero, si fu che posero la loro attenzione ai fenomeni della mole materiale , la quale si presenta a noi come un mobile, un' entità ben diversa dal sensifero. Ora, essendo la mole materiale talora in moto, talora in quiete, dedussero rettamente che dunque il moto non le è essenziale, che esso non entra nel suo concetto, che la materia riceve il moto da un altro principio attivo da essa diverso. E certo è indubitato che niun corpo muove sè medesimo, onde il principio del moto si deve trovare altrove. Ma i fenomeni extrasoggettivi del moto non sono i primi che ci si presentino nel concetto di corpo; come vedemmo, il primo fenomeno è il sentito, dove abbiamo la percezione intellettiva del sensifero, il concetto del quale è quello di un' attività sull' anima nostra, che si espande nell' estensione del sentito. Questa attività dunque, che produce il sentito, è indubitabile, ed è prima nel concetto del corpo; perciò è quella che costituisce l' essenza conoscibile e nominabile di lui. Ora questa attività medesima è anche il subbietto del moto, il quale moto altro non è se non « la manifestazione del sensifero in un sentito, che occupa una estensione successivamente diversa ». Sotto questo aspetto è dunque vero che il sensifero è passivo, cioè atto a ricevere il moto ed a trasmetterlo, non a darlo. Dove dunque troveremo noi il principio del moto? Primieramente noi lo troviamo nell' anima, la quale muta di luogo il sensifero. Noi intendiamo altresì che fuori dell' anima umana deve esservi qualche altro principio che lo produca; ce lo dimostra il fenomeno dell' attrazione. Noi intendiamo in terzo luogo che questo principio del moto, fuori dell' anima umana, non può essere la mole, nè la forza straniera; perocchè se questa non riceve il moto, non lo può trasmettere ad un' altra forza; ella deve dunque aver ricevuto già in sè stessa il moto, e non produrlo, non esserne il principio. Sarà dunque principio del moto quello che noi abbiamo denominato principio corporeo? Per rispondere a ciò dobbiamo esaminare quale è il concetto di principio corporeo. Noi abbiamo dedotto questo concetto dal vedere che il sentito , come pure la forza sensifera che in esso noi percepiamo, non è che il termine di un' azione, che viene fatta nell' anima nostra, e l' agente è incognito quale è in sè stesso, cioè nel suo principio, non conoscendolo noi che dall' azione viva nel suo termine. Ignorando dunque il principio di questa azione, noi gli abbiamo dato il nome di principio corporeo . Ora secondo questo concetto, noi sappiamo che il principio corporeo è il principio di quell' azione, che chiamammo sensifero , denominandola come un ente pel bisogno di concepirla intellettivamente. Ma questa azione sull' anima non è ancora il moto, la cui natura consiste nello spostare il sensifero. Dunque non possiamo neppure affermare che sia il principio corporeo . Noi non vogliamo qui parlare della facoltà di trasmettere il moto, che costituisce propriamente la forza straniera e la mole; la quale facoltà si deve indubitatamente attribuire al principio corporeo, come a suo subbietto. Ciò che qui cerchiamo unicamente si è il principio del moto. Ora l' opinione che abbiamo esposta nella prima parte, che ogni elemento materiale sia termine di un principio senziente, colloca un principio di moto nella natura; spiega i movimenti naturali dei corpi, senza bisogno di fare intervenire Iddio quasi causa seconda; e concilia la grande questione agitata sempre sull' inerzia e sull' attività della materia. Perocchè alcuni filosofi, ponendo mente al concetto di materia, trovarono ripugnante con essa l' essere causa di moto; e questi, secondo noi, hanno piena ragione; altri, vedendo che tutta la natura si muove, e che non solo ci si presentano i fenomeni dell' urto meccanico dei corpi, ma quelli delle attrazioni, dell' espansione, dell' elasticità, ecc., ripugnanti di ricorrere ad un' azione immediata di Dio per ispiegarli, nè sapendo a quale altra causa appigliarsi, fecero la materia attiva; senza avvedersi che l' attribuirle tale attività cozza col concetto, che di essa ci porge la percezione; e tuttavia avevano ragione in questo, che riconoscevano sparso in tutta la natura un principio di spontaneo moto. Il che conferma l' opinione indicata dell' animazione della materia, come quella che spiega con somma facilità e senza assurdo tutti i fenomeni naturali (1). La ragione per cui il concetto di materia (e neppur quello di forma del corpo) non ci somministra il principio del moto, si è che il concetto di materia e di corpo noi l' abbiamo dalla percezione, e la percezione ci mostra l' atto nel suo termine (il sentito), e non il suo principio. Questo termine (il sentito) è esteso, e quando questa estensione sentita si sposta, allora vi è il moto; ma questo spostamento del termine non è nel termine stesso, perchè il termine si percepisce quando è già costituito, e non prima, perchè prima non è termine, non è sentito. All' incontro l' azione che sposta il termine, trasportandolo da un luogo ad un altro, è un' azione anteriore alla costituzione del termine (al sentito), e quindi non cade sotto la percezione. Ora, se noi consideriamo che il termine (il sentito), da cui solo caviamo il concetto di mole, di corpo, di materia, e anche di forza straniera, perchè è quello solo di cui abbiamo esperienza, è tal cosa cui noi sentiamo nello spirito nostro, nel principio senziente; non possiamo dubitare che lo stesso spirito non concorra insieme col sensifero a produrlo, giacchè il principio senziente riceve l' azione nel modo suo proprio, che è quello di essere principio attivo. Ma in che concorre a ciò il principio senziente? Certo vi concorre in tutto, cioè in entrambi gli elementi, che sono: 1 il sensibile; 2 il suo modo, cioè l' estensione; concorre a produrre il sensibile, perchè dove non è principio senziente, ivi non può essere sentimento; concorre a produrre il suo modo, cioè l' estensione, perocchè l' estensione, ossia il continuo, non può essere che nel semplice. Che cosa dunque può fare il sensifero? Certo non altro se non suscitare lo spirito a produrre il sentito col suo modo, cioè coll' estensione. Ma questo è il concetto trascendente del sensifero, concetto che dimostra il sensifero nel suo principio, nel principio corporeo. Questo dunque giova a spiegare come si genera la materia ed il suo concetto, ma non è il concetto della materia. Vedesi pertanto che la materia, quale ci viene data dalla percezione (concetto comune o volgare), involge non poco del soggettivo; e che conviene tenersi in guardia per non ragionare di lei, come se il detto concetto della materia avesse una verità anche fuori della percezione. Esso è vero, ma nella percezione. Se noi cerchiamo che cosa sia la materia al di là della percezione, la materia ci sfugge; non parliamo più di quello, di cui parla tutto il mondo, che parla sempre della materia quale è percepita. Così anche i sensi non illudono, se la ragione riconosce in essi quello che ci danno e non più; ma se noi pretendiamo che i sensi ci somministrino quello che non sono nati a somministrarci, incontanente cadiamo nell' inganno; e non sono già i sensi, ma la ragione che erra, giudicando al di là di ciò che portano i dati sensibili. In secondo luogo giova assai meditare sul concetto trascendente della materia, o per dir meglio sul concetto trascendente di quella entità, che risponde al concetto comune di materia; perocchè intendiamo per esso quanto sieno connesse l' una coll' altra le cose della natura, e nel caso nostro lo spirito e il principio corporeo; e come dalla loro connessione e mutua azione vengano prodotte alcune entità (1), le quali noi concependo isolatamente, le consideriamo come enti o sostanze; e con ragione, perchè con ciò non pronunciamo sulla loro natura, ma altro non diciamo se non che esse sono « quell' atto primo che noi percepiamo, nel quale e pel quale sussistono molti atti secondi »; giacchè « la sostanza è l' atto primo, che fa sussistere la cosa ». Onde questa parola di sostanza ha due significazioni: l' una trascendente, che esprime quell' atto che è assolutamente primo, e fa sussistere tutte le cose; e in questo significato la parola sostanza non conviene che a Dio; l' altra comune, che esprime « quell' atto dell' entità da noi percepita, che è primo nella percezione nostra »; e in questo significato relativo a noi, noi distinguiamo più sostanze, che possiamo acconciamente chiamare sostanze relative e non assolute; in tal senso anche la materia è sostanza. Finalmente la distinzione dei due concetti, cioè del concetto di materia e del concetto trascendente, a quello corrispondente, giova oltremodo a spiegare come nacquero le diverse sentenze dei filosofi sulla materia, ed a conciliarle insieme. Ora che abbiamo chiarito il concetto di materia e di materia prima, ci è facile dimostrare che l' anima umana è scevra interamente di ogni materia. Infatti il concetto di materia, per riassumere il detto, risulta da più elementi. Esso: 1) ci presenta un' attività in atto nel suo termine , e non nel suo principio; 2) ci presenta un' estensione, una mole, come modo di questa attività in atto nel suo termine; 3) ci presenta mobilità, cioé attitudine a ricevere il moto e a trasmetterlo, non attitudine a produrlo; perchè il ricevere e trasmettere il moto appartiene al termine; il produrlo, al principio dell' attività. Ora tutte queste cose ripugnano all' anima. E veramente l' anima, come noi l' abbiamo definita, « è il principio senziente, razionale e attivo, secondo il sentimento e la razionalità ». Ora questa definizione pone non solo una differenza, ma una vera opposizione fra il concetto dell' anima e quello della materia. L' anima è il principio dell' atto, e la materia non ha ragione che di termine . L' anima come principio è inestesa, e la materia ha per sua propria ed essenziale condizione l' estensione, la mole. L' anima come principio è movente, ma non è mobile; è principio di moto, ma ella stessa è immobile. Dunque l' anima esclude da sè tutti gli elementi, che entrano a costituire il concetto della materia. Forse a primo aspetto non s' intenderà come l' anima sia immobile . Ma per intenderlo basta considerare attentamente che ogni cosa mossa ha ragione di termine , perchè il movimento è il termine dell' azione movente. In secondo luogo, il moto non si fa che nell' estensione. Ma l' anima non è nell' estensione, nè come continuo solido, nè come le linee e i punti, che altro non sono se non i confini astratti del solido, e perciò al solido appartengono. Infatti il solido, e perciò anche i suoi confini, non esistono che nel semplice, onde l' anima è detta dai maggiori filosofi contenente il continuo, e non da lui contenuta (1). Onde come il continuo solido è nell' anima senza che esso sia l' anima, essendo anzi in opposizione con essa, come il termine è in opposizione col principio, e l' obbietto col soggetto (e ciò per quella connessione e comunicazione di sostanze, che costituisce il sintesismo della natura); così si può ben dire che il moto avvenga in quel continuo che è nell' anima, ma non mai nell' anima stessa, che ha in sè il continuo, suo termine. Si opporrà che, trasportando il corpo da un luogo nell' altro, si trasporta anche l' anima. Ma ciò non è vero; l' anima non si trasporta; altro non nasce che una nuova sua relazione fra il suo corpo e il luogo dal corpo occupato; perchè è questo che si cangia e non l' anima. Ma trovandosi il corpo dell' anima in relazioni con altri oggetti esteriori e con altro spazio, sembra che l' anima sia trasportata insieme col suo corpo, mentre non si è mosso altro che il sentito dell' anima, e non il principio senziente. Perocchè tutto il sentito, che sopravviene all' anima pel movimento, è nell' anima come il sentito che è passato via; dove per sentito si avverta bene che s' intende anche il luogo del proprio corpo, e che l' anima d' altra parte è presente a tutto lo spazio (2). La nozione adunque di materia importa un' attività considerata nel termine della sua azione. E poichè il termine dell' azione e ciò che viene fatto e non ciò che fa , quindi la materia ha in sè il concetto di potenza passiva e non di potenza attiva (1). Ma il concetto di materia non importa solo l' attività giacente nel suo termine, ma questo termine considerato come ente, un ente termine. Poichè l' intendimento non concepisce nulla se non come ente, pel principio di cognizione. E l' ente si aggiunge a ciò che primo di una entità si percepisce. Se si percepisce dunque un' entità termine, e niente di anteriore, il concetto nostro ha per oggetto un ente7termine; e in questo ente7termine ciò che si concepisce come primo atto dell' ente, contenente tutto il resto che in quello si può distinguere, dicesi atto, o sostanza, o subbietto. In due modi adunque noi percepiamo gli enti: come principio e come termine. Noi percepiamo gli enti come termine, quando noi siamo passivi e riceviamo nel nostro sentimento la loro attività; allora noi percepiamo l' attività in noi come nel termine dell' azione, e desumiamo la natura dell' ente percepito dalla natura del termine dell' azione di lui, unica cosa da noi percepita. Questo è ciò che avviene nella percezione dei corpi. L' ente poi, che percepiamo come principio di attività, altro non è che noi stessi, l' anima; essa si percepisce come un proprio sentimento, nel quale ciò che pensiamo come primo atto, in cui sussiste tutto il resto che in esso si distingue, è la sostanza, il subbietto. L' anima umana, dunque, è un ente7principio. Vero è che, oltracciò, l' anima percepisce sè stessa anche come termine, appunto perchè percependosi come sentimento, il che involge una passività, intende che la sua stessa esistenza deve avere una causa; e così si solleva al pensiero del Creatore. Ma ella si percepisce tuttavia anche come principio attivo; ed è sotto questo aspetto che il suo concetto ha opposizione col concetto del corpo, il quale si percepisce unicamente come ente7termine, e non come ente7principio. La considerazione adunque della materia fatta sotto la guida dell' esperienza, cioè della percezione, colla quale il nostro intendimento è posto in comunicazione con essa, e quindi ne ha il concetto, ci dimostra quale sia l' ordine intrinseco dell' essere nell' entità corporea. Noi vediamo che in tale entità, che corpo e materia si dice, vi è un atto anteriore agli altri, sul quale si fondano gli altri, un atto senza di cui non ci è possibile pensare gli altri; e il quale noi possiamo ben pensare senza gli altri, benchè dobbiamo insieme sottintendere che, venendo realizzato, egli s' accompagni con altri, e questi in parte variabili. Ora questo atto primo concepito è la sostanza, e gli altri, che hanno quel primo come loro subbietto, noi li pensiamo di poi e li chiamiamo sostanziali , in quanto sono al tutto necessari alla sussistenza di quel primo, benchè non al concetto di lui (e questi atti nella loro unità diconsi forma sostanziale ); li chiamiamo poi accidentali in quanto non sono necessari, in quella parte cioè nella quale essi possono variare, senza che venga meno la sostanza, nè gli atti sostanziali; e sono le forme accidentali o accidenti . A cui s' aggiungono certe determinazioni estrinseche venienti dalla realità e non dall' idea dell' ente. Tale è dunque l' ordine intrinseco dell' ente materiale, che in esso si distinguono coll' intendimento: Un atto primo, sostanza, senza del quale non s' intendono gli altri atti, e al quale si riferisce la denominazione di ente . Atti o forme sostanziali, che hanno per subbietto che li regge la sostanza, ma che sono necessari al concetto compiuto dell' ente. Atti o forme accidentali, che hanno per subbietto le forme sostanziali. Determinazioni non comprese nella idea specifica7piena dell' ente, ma venienti dalla sua realità . Il primo atto adunque, che si concepisce nell' oggetto della percezione, è la sostanza. Ma questo primo atto talora ha ragione di principio , talora ha ragione di termine . Di più talora quel primo atto (s' intenda sempre primo, rispetto all' ordine intrinseco dell' entità percepita, o concepita) ci si presenta come essenzialmente e unicamente principio; talora ci si presenta come essenzialmente ed unicamente termine dell' atto medesimo, di cui ci rimane occulto il principio; talora come avente in sè i due rispetti di termine d' un atto e di principio di un altro atto. Quindi tre specie di sostanze, l' una delle quali è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di principio; l' altra è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di termine; la terza è atto primo (nell' oggetto concepito), che ha ragione di termine rispetto ad un atto precedente a sè (che è perciò una sostanza diversa da sè), ed ha ragione di principio rispetto all' atto proprio e agli atti susseguenti, dei quali soli essa è atto primo ed atto7principio. L' essere atto, essenzialmente ed unicamente principio, appartiene a Dio solo; l' essere atto primo, essenzialmente ed unicamente termine, appartiene alla sostanza materiale; l' essere atto primo, termine rispetto ad un' attività precedente a sè e principio rispetto all' atto del proprio sussistere e agli atti secondi, appartiene alle creature spirituali, e quindi all' anima umana. E` bene notare che questa è classificazione di sostanze, ossia di atti primi (intendendo per primo quello che nel concetto di un ente, noi, secondo l' ordine logico, prima degli altri concepiamo); e non è classificazione degli atti in generale. Se non si pone mente a ciò, si farà l' obbiezione che anche i corpi sono principii di loro operazioni. Ora non è così, perchè in tutte le apparenti operazioni dei corpi si considera sempre il termine; onde abbiamo provata già innanzi l' inerzia della materia. Le mutazioni dei corpi adunque non sono operazioni della sostanza corporea, ma modificazioni di essa; onde l' attività si percepisce sempre nel suo termine, e mai nel suo principio. Noi abbiamo detto che l' anima si può considerare come termine di un' azione precedente a sè (del Creatore); ciò ha bisogno di spiegazione. Altro è il dire che l' anima sia termine di un' azione precedente a sè, altro è il dire che questa azione, giacente e operante nel suo termine, sia l' anima. Il dir questo sarebbe errore manifestissimo. Il che non solo si scorge dall' assurdo che ne verrebbe, giacchè in tal caso l' azione creatrice sarebbe l' anima; ma si prova anche direttamente, com' è dovere del filosofo, dalla percezione dell' anima, confrontata colla percezione che abbiamo della materia. I corpi si percepiscono come effetti immediati di un' azione straniera nell' anima; il concetto di essi adunque risulta dalla loro azione in un altro ente che si percepisce; quindi è che si percepiscono, in quanto l' attività loro è nel suo termine, nelle passività dell' anima. Ma questa attività dei corpi nell' anima, come in loro termine, non è il principio che li fa sussistere come enti in sè stessi, il quale principio noi non percepiamo. All' incontro l' anima non si percepisce come agente in un altro ente diverso da sè, ma come essente in sè; si percepisce adunque tutta intera fino nel principio della sua attività. L' azione dunque, di cui ella è termine, è cosa straniera a quel principio che si chiama anima, ed a questo anteriore. Ciò che è principio di un atto non può essere termine dello stesso atto, ma di un atto precedente. Dunque il concetto dell' anima è quello di essere principio; e non è termine rispetto allo stesso suo atto primo (sostanziale), ma è termine rispetto ad un altro atto diverso da lei, che non si percepisce. Abbiamo veduto quale sia l' ordine intrinseco dell' ente che si chiama corpo. In quest' ordine abbiamo distinto: 1 la materia, primo subbietto delle altre qualità, o sostanza; 2 la forma sostanziale ecc.. Ma nell' anima umana non v' è materia. Non vi sarà dunque alcuna distinzione fra la sostanza e la forma sostanziale dell' anima? Come in ogni questione, così in questa conviene prima ben intendersi sul valore delle parole, cioè conviene definirle accuratamente, e quindi procedere conseguenti alla data definizione. Che cosa dunque si intende per forma sostanziale? Per forma sostanziale noi intendiamo « un atto perfezionante un altro atto, per modo che da questa perfezione, che il nuovo atto riceve, viene denominato con un nome sostantivo ». Così la materia non si chiama col vocabolo sostantivo corpo , se non concepita con quelle determinazioni che si concepiscono necessariamente nei corpi, come sarebbe una data grandezza, una data figura, ecc.. Ciò posto, è da notarsi che « l' atto perfezionante un altro atto »può concepirsi in due modi; cioè in modo che « l' atto perfezionante dia perfezione e finimento ad un atto, nel quale e pel quale egli stesso esiste », come accade pure della materia, nella quale, come in subbietto, e per la quale sussiste la sua determinazione, cioè la sua grandezza, la sua figura, che la compie e perfeziona. Ovvero l' atto perfezionante può intendersi in modo che dia perfezione ad un altro atto, pel quale e nel quale egli non esiste, ma sia un atto diverso da quello, in cui e per cui esso esiste; e così l' anima si concepisce essere forma del corpo extrasoggettivo, in quanto che il corpo animato presenta all' osservazione esterna i fenomeni della vita, che si hanno come una sua perfezione (relativa a noi). Considerato poi il corpo soggettivamente, esso risulta: 1 da un' azione di un agente nell' anima; 2 dalla natura dell' effetto che questo produce nell' anima, che è il sentito ed il suo modo, cioè l' estensione. E poichè questi effetti avvengono nell' anima e per la natura essenzialmente sentimentale dell' anima, quindi ancora l' anima è quella che si modifica, in modo da presentare in sè stessa tali sentimenti. Quando dunque il pensiero dell' uomo prende questi sentimenti e li unisce all' agente, cioè al sensifero, questo riceve dall' anima le qualità sensibili colla loro estensione; e quindi è ancora l' anima, che col suo atto veste il corpo (il termine dell' agente) di ciò a cui s' aggiunge il vocabolo sostanziale corpo; e perciò è l' anima, anche sotto questo aspetto, che dà alla materia la sua forma sostanziale. Dico che dà alla materia la sua forma sostanziale, perchè in questa operazione la forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell' anima e il termine interno della sua operazione, e però non è l' anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo. Se si considera dunque l' anima come perfezionante e informante il corpo, ella è forma sostanziale non di sè, ma d' un altro ente, cioè del corpo; ed in sè stessa considerata, piuttosto che forma sostanziale si deve chiamare sostanza senza più (1). Si dirà che l' anima ha per sua essenza di essere forma o entelechia del corpo. Sebbene noi abbiamo già dichiarato come ciò si debba intendere nella prima parte, tuttavia conviene che, a dissipare l' obbiezione, qui si aggiunga qualche cosa. Se per corpo s' intende un ente diverso dall' anima, in tal caso non si può dire che l' essenza dell' anima consista nell' essere forma del corpo, perchè l' azione o la relazione di due enti non costituisce mai l' essenza, nè la sostanza di niuno di essi. Questa relazione può bensì conseguire necessariamente alla sostanza di uno d' entrambi questi enti; ma ciò che consegue alla sostanza, non è sostanza. Dico che consegue alla sostanza, perocchè le sostanze sono così fra loro unite e quasi costipate nella natura dell' universo che le une colle altre si sostengono e producono, sicchè diventano condizioni reciproche della loro esistenza; e queste conseguenze noi le chiamiamo conseguenti sintetici delle sostanze . Ma se noi consideriamo la sostanza dell' anima in sè e non in questi suoi conseguenti sintetici , in tal caso noi dobbiamo primieramente distinguere fra l' anima meramente sensitiva dei bruti e l' anima umana. E in quanto all' anima sensitiva, ella deve avere certamente, oltre il principio, anche il termine (sentito7esteso) del suo atto; ma la sua sostanza non istà in questo termine, ma nel principio; e questo termine non è che condizione di sua esistenza e ragione della sua individuazione. Che se questo termine si vuole tuttavia chiamare forma dell' anima, in quanto perfeziona l' atto pel quale ella è e lo individua, non ne viene però che l' informante sia la materia; perocchè ciò che informa ha ragione di principio e di atto, quando è essenziale alla materia essere termine. Ma la materia, intesa come sensifero, è occasione suscitatrice della forma , cioè del sentito fondamentale che individua l' anima, e che è dove si svolge e dimora il principio senziente. Il sentito adunque può dirsi forma sostanziale dell' anima, ma non la materia; perocchè egli non riceve la perfezione sua dal principio, ma piuttosto la dà al principio, al contrario di ciò che fa la materia, che è quanto d' imperfettissimo e di sommamente indeterminato (1) si può pensare nei corpi. Onde in ogni modo la nozione di materia non può convenire all' anima. Tanto più ciò s' intenderà, quando si considera che lo stesso termine dell' anima è in essa come in suo principio, come dichiareremo più ampiamente in appresso. Onde nell' anima dei bruti vi è sostanza e forma sostanziale indivise, in modo che non si può pensare l' una senza l' altra, ma non vi è materia. Se poi si parla dell' anima umana sensitiva ed intellettiva ad un tempo, noi vedemmo che la sua essenza sta nell' essere un principio razionale, e che lo stesso principio sensitivo riceve natura di termine a tal principio, in quanto è unito al principio razionale con naturale e continua percezione. Onde rispetto all' anima razionale si possono fare tutte le riflessioni, che facemmo rispetto all' anima meramente sensitiva per escludere da essa la materia; oltre agli argomenti particolari, che provano l' intelletto essere immune da ogni materia, per la ripugnanza che passa fra i caratteri essenziali di questa e i caratteri essenziali di quello. Per le quali cose convien dire che se nell' anima si distingue la sostanza dalla forma sostanziale, ad ogni modo la sostanza dell' anima non ha ragione di materia, ma di atto7principio, benchè in questo atto7principio si possa distinguere qualche cosa che lo perfezioni e individui, e che ha ragione di termine, rimanendo però l' anima anche in questo suo termine essenzialmente principio; e questa perfezione e termine si può chiamare forma sostanziale. Sotto la parola atto noi intendiamo qualsivoglia entità . Tuttavia la parola atto esprime l' entità con di più una relazione, cioè colla relazione a potenza , onde è necessario ricorrere al concetto di potenza acciocchè sia dichiarata pienamente la nozione di atto. E` nondimeno da osservarsi che la nozione di atto involge la relazione con quella di potenza, talora in un modo positivo, e talora in un modo negativo. La involge in un modo positivo , contrapponendosi la potenza all' atto , quasi che la potenza non sia ella stessa un atto. La involge poi in un modo negativo , escludendo la potenza dall' atto, come quando si parla di un atto, a cui non risponde alcuna potenza. Noi abbiamo detto che l' ordine intrinseco dell' ente non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' esperienza di quegli enti, che cadono nel nostro sentimento, i quali sono i corpi e l' anima propria. Abbiamo quindi posta la nostra attenzione su questi enti per conoscerne l' intrinseco loro ordine, ovvero come essi siano internamente costruiti e quasi organati. Noi rilevammo, da questa attenta osservazione, che ogni ente ci presenta una unità, ma che la mente in questo uno discerne più elementi con tale ordine fra loro, che taluno si concepisce anteriormente a tal altro, di modo che questo non si può pensare esistente se non insieme con quello che nell' ordine logico lo precede; onde questo secondo si dice che esiste nel primo e pel primo. Il primo poi di tutti, che si può concepire da sè innanzi agli altri, si dice che contiene gli altri, li sorregge e li fa esistere; e a lui si dà il nome di sostanza . Ma fra quegli elementi (che diciamo anche entità) non tutti e in egual modo sono necessari a pensare l' ente, e a denominarlo con un nome sostantivo. Quegli elementi o entità, che possono variare senza toglierci il concetto dell' ente, e senza aver bisogno di mutare all' ente il nome sostantivo che gli abbiamo dato, furono da noi chiamati forme accidentali o accidenti . Gli accidenti dunque sono certe attualità o entità non necessarie al concetto dell' ente, le quali però lo perfezionano; ovvero sono le privazioni di tali attualità o entità, che soggiacciono a variazioni. Ma anche queste attualità accidentali non si possono concepire senza la sostanza e la forma sostanziale dell' ente, onde si dice che esistono nella sostanza e per la sostanza. Di qui avviene che si possa concepire l' ente, ora fornito di queste attualità, ed ora privo di esse. Quando noi concepiamo l' ente privo di tali attualità, allora noi vediamo ad un tempo che egli può averle, e che, avendole, rimane lo stesso ente; e questo è considerare l' ente come una potenza . Diciamo ancora che quelle attualità esistono nell' ente in potenza e non in atto, volendo con ciò significare che quell' ente è suscettivo di tali attualità, benchè non le abbia. La potenza adunque è quella relazione, che la mente concepisce in un ente colle sue attualità accidentali, o colle variazioni e privazioni di esse. Dal quale concetto scaturiscono più conseguenze. E in primo luogo si scorge che non vi può essere potenza, la quale sia mera potenza senza alcun atto, poichè la potenzialità d' un ente suppone sempre l' ente, e quindi l' atto ond' egli esiste come sostanza e come forma sostanziale. In secondo luogo si vede che l' atto precede, assolutamente parlando, alla potenza, giacchè la sostanza è un primo atto, e la forma sostanziale ne è la sua perfezione necessaria a costituirlo; e la potenza non è, come dicevamo, se non la relazione che concepisce la mente fra quel primo atto e gli atti accidentali, e loro variazioni e privazioni. In terzo luogo è manifesto che ogni potenza è congiunta ad un atto, e che non forma un ente diverso da quello dell' atto a cui aderisce. All' incontro gli atti possono dipendere e ricevere la loro esistenza da altri atti a loro precedenti, in modo che questi atti precedenti costituiscano enti diversi. Di che si scorge perchè S. Tommaso con molta acutezza insegni che [...OMISSIS...] (1). Ora, se noi seguitiamo a considerare l' interna costruzione degli enti, che cadono sotto la nostra esperienza, facilmente conosceremo che le potenzialità, di cui parliamo, hanno tre modi; di che nasce la divisione delle potenze in tre classi. Poichè talora vediamo che un ente può riceverne in sè un altro senza confondersi con lui, come, a ragion d' esempio, gli oggetti conosciuti sono nell' anima che li conosce; e questa potenzialità dà luogo ad una classe, che chiameremo di potenze recettive (2). Talora un ente, ricevendo l' azione d' un altro ente, ne rimane in qualche cosa modificato, e questa sua passività dà luogo ad un' altra classe, quella di potenze passive (1). Finalmente l' ente stesso può porre degli atti che gli sono accidentali, e così gli si attribuisce quella relazione, che noi chiamiamo potenze attive . Ben si noti che tutto ciò che si dice degli atti in potenza, si dice, in senso contrario, anche della loro privazione, onde il poter essere privato di tali attualità prende forma di potenze negative . Dappertutto dove vi è una sostanza (unita all' idea), vi è un ente, perchè la sostanza è il primo atto che concepiamo, il quale fa sussistere gli altri nel modo detto. Ora le sostanze, e conseguentemente gli enti, furono da noi distinti in due classi, chiamate degli enti7principio e degli enti termine . Gli enti7termine sono quelli che non si concepiscono come senzienti; tale è la materia. Gli enti7principio sono quelli che si concepiscono come senzienti; tale è l' anima e tutte le intelligenze. Tanto gli enti7principio, quanto gli enti7termine sono sostanze, perchè si concepisce in essi un primo atto, pel quale esistono tutti gli altri atti (attivi e passivi) in essi discernibili col pensiero. Questi atti distinti (attivi e passivi) dalla sostanza, altri sono necessari (forme sostanziali), altri accidentali (forme accidentali). Essendovi dunque tanto negli enti7principio, quanto negli enti7termine atti accidentali, si distingue in essi la potenza dall' atto . Di più possono cadere, tanto in enti che appartengono alla classe degli enti7principio, quanto in enti che appartengono alla classe di enti7termine, delle potenze ricettive, attive e passive; e quindi possono soggiacere ad uno sviluppo, cioè a modificazioni e attualità che li perfezionino, come pure, al contrario, che li deteriorino (privazioni, potenze negative). Ma è da osservarsi che l' ente7principio conserva la sua natura di principio in tutto il suo sviluppo; e parimente l' ente7termine conserva la sua natura di termine in tutto il suo sviluppo, poichè l' essere principio o termine appartiene alla sua essenza, che non può variare senza cessare di essere quell' ente che era prima, e divenirne un altro. Dalle cose dette apparisce manifesto come anche nell' anima umana, oltre l' atto , vi sia la potenza . Anzi, dandosi in essa molti atti accidentali, conviene che molte sieno le potenze, che ad essi si riferiscono. Le quali potenze dovendo noi trar fuori e diligentemente descrivere, come ci siamo proposti a principio, ci conviene prima d' ogni altra cosa investigare in che modo nell' anima sì gli atti che le potenze possano essere contenute. Gravissima e difficile questione, come sono tutte quelle che considerano l' interna costruzione dell' ente, si trova esser questa: « come gli atti accidentali sieno contenuti potenzialmente nell' ente ». Conviene anche qui che noi cominciamo dalla lunga. In prima, si rammenti che, quando noi parliamo di un ente per riconoscerne la natura e l' interna costituzione, l' ente, di cui parliamo, è quello che esiste innanzi alla mente nostra, e non alcun altro; poichè se non l' avessimo concepito, non potremmo riflettere su di lui, nè parlarne; chè altra cosa è l' esistenza d' un ente non concepito, ed altra l' esistenza d' un ente concepito, essendovi in questo secondo di più la concezione nostra, l' opera del nostro spirito. In secondo luogo si rammenti ancora che noi conosciamo in diversa guisa l' ente e il modo dell' ente, ossia il suo ordine intrinseco. Poichè, come abbiamo detto, l' ente lo conosciamo per un naturale intuito; il suo ordine intrinseco poi lo raccogliamo a posteriori, dall' esperienza, percependone la realità. In terzo luogo si avverta bene alla regola, non mai abbastanza ripetuta, colla quale si distingue ciò che v' è di oggettivo e ciò che v' è di soggettivo nell' ente da noi percepito, la quale si è: « tutto ciò che riguarda l' ente, e che è somministrato dall' intuito, è oggettivo essenzialmente; e tutto ciò che riguarda l' ordine intrinseco dell' ente, e ci viene dall' esperienza, è soggettivo ». Il quale principio si potrebbe fraintendere; lo si fraintenderebbe, se si volesse inferirne che tutto ciò che è soggettivo nel nostro conoscere fosse falso; poichè in tal caso niente vi sarebbe più di vero intorno al soggetto. All' incontro, tutto ciò che sappiamo del soggetto e sue pertinenze è vero, allorquando non pretendiamo che il soggetto e sue pertinenze siano l' oggetto. E così ciò che sappiamo soggettivamente è pur vero, se noi l' affermiamo soggettivamente, come sarebbe falso, se noi affermassimo a noi stessi di conoscerlo oggettivamente. E tuttavia il vero nasce sempre dall' oggetto come da sua causa formale, a quel modo che dall' oggetto nasce ogni cognizione, sì fattamente che il solo soggetto, e tutto ciò che è soggettivo, non sarebbe neppure conosciuto, nè come soggetto, nè come soggettivo, senza il lume dell' oggetto. A ragion d' esempio, quando dico: « Io soggetto esisto », allora affermo l' esistenza del soggetto Io. Ora l' esistenza è oggettiva, benchè la cosa cui ella si riferisce sia il soggetto; e ciò vale tanto rispetto all' esistenza possibile, quanto rispetto all' esistenza reale. Che se io non annettessi al soggetto nè l' esistenza possibile, nè la reale, il soggetto rimarrebbe cosa sconosciuta al tutto, e quindi per me essere intelligente non esisterebbe in modo alcuno. Di che procede questa conseguenza, che non solo a noi uomini, ma ad ogni altra intelligenza altresì, esiste la realità solamente in tanto, in quanto è conosciuta; poichè l' atto stesso del conoscere è quello che aggiunge al reale soggettivo l' idea, cioè l' essere oggettivo che si chiama esistenza, e quindi altresì egli è quello che vi aggiunge la verità, perchè la verità non è altro se non ciò che è (1). Premesse queste cose, veniamo alla nostra questione: « in che modo gli atti accidentali sieno contenuti virtualmente nell' essenza dell' anima ». E` chiaro che è una di quelle questioni che riguardano l' ordine intrinseco dell' ente, e che perciò non si possono sciogliere se non ricorrendo all' esperienza del fatto. Tutto ciò che si può dire di più, riducesi a dimostrare che nel fatto non vi è contraddizione o assurdo; poichè questo appunto avviene talora, che il fatto ci apparisca a prima giunta pregno di elementi ripugnanti fra loro. Nel caso nostro l' apparente contraddizione non manca, e sta in questo che, mentre l' anima da una parte è un ente solo e semplice, dall' altra presenta pluralità di atti e di potenze. A quello che noi abbiamo detto su di ciò nella prima parte, è ora d' aggiungere altre considerazioni. Lume ci viene in sì arduo argomento dal principio ontologico annunziato, che « le sostanze, di cui si compone l' universo, stanno tutte coerenti e costipate insieme, così fattamente che l' una sorregge l' altra, e la fa essere quasi informandola, senza però che niuna di esse perda la propria distinzione e si confonda coll' altra ». Di che nasce una legge di continuità fra le sostanze, tale però che non distrugge la loro specifica distinzione. Ne deriva altresì quello che abbiamo chiamato sintesismo della natura. A ragion d' esempio, la natura dell' anima sensitiva non si può concepire senza ammettervi un esteso, che è il sentito o il sensifero, onde ci viene il concetto di corpo. Eppure l' anima è sostanza al tutto diversa dall' esteso e dal corpo. Alla sua volta il sentito esteso non si può intendere, nè concepire, se non si suppone che egli esista nel semplice, onde riceve l' unità; eppure di nuovo l' esteso corporeo è sostanza al tutto diversa dall' anima. Sono dunque due sostanze, l' una delle quali sorregge e fa esistere l' altra, niuna delle quali si concepisce senza l' altra; eppure l' una è dall' altra differentissima. Se noi parliamo dell' anima razionale troviamo la stessa legge. E` impossibile concepire un' intelligenza senza un oggetto primitivo (1). Ora l' oggetto essenziale dell' intelligenza è l' essere in universale, al quale non conviene a dir vero la denominazione di sostanza, perchè è più di sostanza. Quindi fra la sostanza dell' anima razionale e l' oggetto che la informa vi è una infinita distanza di natura, sicchè si rimangono cose al tutto inconfusibili; ad ogni modo l' anima razionale non è se non in virtù di quest' altra cosa, che non è lei, e che in lei a suo modo dimora; e l' essere in universale non di meno, benchè si possa intendere senza l' anima umana od altra intelligenza contingente, tuttavia, essendo essenzialmente intelligibile, l' intelligibilità stessa, non si può concepire se non in quanto per l' essenza sua propria è inteso; onde deducemmo a priori l' esistenza di Dio, cioè d' una realità intelligente, che non ha natura diversa dallo stesso essere intelligibile, anche se quella si distingua da questo per intima relazione (2). Se noi dunque consideriamo questa coerenza ontologica delle sostanze, onde risulta il creato, riceverà lume maggiore quanto abbiamo detto, venendocene la seguente classificazione: Talora due sostanze si sorreggono e si attuano reciprocamente, in modo che una di esse ha ragione di principio, la quale si dice sostanza7principio, e l' altra ha ragione di solo termine, la quale si dice sostanza7termine. Che queste sieno due specie di sostanze diverse apparisce da ciò, che l' idea prima di ciascuna di esse è non solo diversa dall' idea prima dell' altra, con cui tiene sintetica relazione, ma ben anche opposta; il che si riscontra nelle due sostanze di anima e di corpo. Talora la sostanza è sorretta ed attuata da un termine, che, come dicevamo, non è propriamente sostanza; il che si avvera nell' anima intellettiva, il cui termine è l' essere ideale, per essenza oggetto. Ora nella concezione dell' essere noi non troviamo già un atto diverso da lui, anzi chiaramente intendiamo che l' atto, con cui è l' essere, non può essere che l' essere stesso; quindi in questa elevata regione cessa quella comunicazione di più sostanze che, quasi facendo l' una puntello all' altra, si sorreggono a vicenda, ed altro non v' è che l' essere a tutte le sostanze superiore. L' anima intellettiva, adunque, s' appoggia a questo essere, e così appoggiata, per così dire, ella esiste. Dalla quale ispezione, per noi fatta nell' interno delle sostanze contingenti affine di scorgervi l' ordine della loro costituzione, ci scaturisce un' altra classificazione di esse, che rientra nella prima, ma che è degna di essere distintamente accennata. Alcune sono extrasoggettive, non hanno che un' esistenza relativa ad altre sostanze finite. Il che si riconosce vero, qualora tengasi presente che noi dobbiamo parlare della sostanza secondo quel concetto che ce ne presta la percezione, al quale s' appoggia l' imposizione dei vocaboli di cui usiamo. Ora nel concetto della sostanza corporea o materiale, sostanza7termine, escludendosi qualunque principio sensitivo, rimane escluso anche l' atto di una soggettiva e propria esistenza, e non rimane a tale sostanza che l' esistenza relativa ad un principio senziente, non percependosi ella che come sentita. E` solo l' intendimento nostro che le aggiunge l' atto dell' esistere in modo assoluto; ma già notammo che lo fa, perchè altrimenti non potrebbe concepirla; nè intende egli con ciò di mutarne la natura o di aggiungervi cosa straniera; sicchè l' atto dell' esistenza subbiettiva, che vi deve certamente essere, non è più cosa che appartenga alla realità corporea da noi percepita, ma è supposto virtualmente dal pensiero per necessità del conoscere, è un atto non specificato e non specificante, sul quale riflettendo poi, si può indurre che appartenga a qualche altro ente fuori del corpo, in una parola a ciò che abbiamo chiamato principio corporeo. Alcune sono soggetti perché sono principŒ; e il principio, quantunque abbia col termine suo una relazione sintetica, tuttavia si concepisce avanti il termine, e quindi la sua esistenza reale non è fisicamente relativa a cose precedenti a lui, ma solo a cose che a lui conseguono. Tali sono le anime sensitive. Tuttavia queste non hanno ancora una suità, ad esse non compete il sè , e però neppure propriamente il suo , nè loro si addice in proprio alcun pronome personale. Ma l' uomo pensa e parla di loro, come avessero un' esistenza in sè, e loro applica i pronomi personali. Il che egli fa di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle; non vuole con ciò attribuir loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo di essere, senza il quale egli nulla concepisce. Perocchè questo modo suppone che « l' ente abbia un atto suo proprio, sia in sè stesso qualche cosa, e però abbia un sè , una personalità ». Infatti non si dà essere completo, se non è persona; la persona è condizione ontologica dell' essere. Onde le anime meramente sensitive sono soggetti, ma soggetti incompiuti; e però non hanno tutta quella realità, che è necessaria a costituire un ente reale. Alcune finalmente sono soggetti perfetti, perchè hanno il sè , e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un' esistenza in sè; queste sono le sostanze intellettive, le quali sono enti7principio e non dipendono da niuna sostanza contingente, nè antecedente, nè conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall' essere eterno e divino. Queste sole hanno la suità, e possono dire Io a quel modo che abbiamo spiegato; ed esistendo un Io, esiste una vera causa, onde sono veri agenti, dotati di libertà. L' atto, con cui queste sostanze esistono, è indipendente da ogni sostanza creata; esse possono quindi sovrastare a tutte, ed operare in modo da non essere necessitate dall' azione di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono pure intelligenze, e non legate all' essere sensitivo o corporeo, come accade dell' uomo, essere misto di sensitività corporea e d' intelligenza. Classificate così le sostanze secondo l' intrinseco loro ordine, giusta il quale sono costruite, noi possiamo finalmente riprendere la questione propostaci: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza dell' anima umana », la quale dipende dall' altra più generale: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza delle sostanze ». E la risposta generale a questa questione nasce dalle cose dette, e si può esprimere così: « Posciachè le diverse sostanze contingenti sono reciprocamente così unite che l' una sorregge l' altra e la fa esistere, basta concepire una mutazione in questa unione ontologica, acciocchè si concepisca altresì come le sostanze debbano riuscire variamente modificate, e queste modificazioni sono gli atti accidentali di esse ». Gli atti accidentali adunque delle sostanze dipendono dalle connessioni ontologiche , che esse hanno fra loro, e quindi si può dire che siano ad esse estrinseci. In questo modo l' unità della sostanza è mantenuta nella moltiplicità e varietà dei suoi atti, e così è sciolto uno dei più difficili problemi dell' Ontologia. Perocchè tale è la natura di quell' atto, che si chiama sostanza contingente , che egli si congiunge ad un' altra sostanza, e per questa congiunzione sussiste. Onde, quantunque non si ponga alcuna mutazione nell' atto stesso della sostanza in sè considerato, tuttavia se si cangia il contatto ontologico che ella ha con ciò che è diverso da lei, ella acquista un altro modo, viene ad essere attuata diversamente. Sicchè, quantunque il cangiamento non istia nelle sostanze, ma nella diversa loro congiunzione ontologica, tuttavia ne risulta un cangiamento nella sostanza, in quanto che la sua attualità dipende dal modo di quella congiunzione. Vediamo adunque in quante maniere si può concepire variata tale congiunzione. In prima si può pensare tale congiunzione affatto distrutta; e in tale supposto si annullano le stesse sostanze sintesizzanti. Così se noi separiamo il senziente dal sentito, si annulla l' anima sensitiva, poichè non è più anima sensitiva dove è spento affatto ogni sentimento ed ogni possibilità di sentire. Se noi separiamo il sentito dal senziente, si annulla la sostanza corporea e materiale; poichè non troviamo più nè estensione, nè forza sensifera, nè forza esterna, che immuta la sensifera, nè qualità sensibili, che sono gli elementi costituenti il concetto di corpo. Se noi separiamo l' anima intellettiva dall' essere ideale, quella già non è più, perchè ciò che nulla affatto intende non è in alcun modo anima intellettiva. Ma se noi separiamo l' essere ideale dall' anima, noi intendiamo tuttavia che egli deve essere inteso per essenza, e quindi non si annulla, perchè è indipendente dall' anima e da ogni altra sostanza mondiale, ma suppone un reale che abbia con esso lui un' identica esistenza. In secondo luogo possiamo concepire che la sostanza congiunta ad un' altra, a cui dà l' attualità, si cangi, o venendole sostituita un' altra, o venendole aggiunta un' altra, ovvero congiungendosi con lei un' altra parte sostanziale, come accade trattandosi di materie le cui parti sono sostanze numericamente separate, benchè della stessa natura. Il primo di questi casi è impossibile; perocchè se la sostanza che dà l' attualità ad un' altra, si cangiasse interamente, anche la sostanza che riceve l' attualità non sarebbe più, ricevendo ella la sua natura e formale esistenza dalla congiunzione con quella. Così se l' anima non avesse per suo termine il sentito corporeo, ma un essere intelligente, non sarebbe più anima. Il secondo caso, in cui trattasi che ad una sostanza se ne aggiunga un' altra della stessa specie, è possibile, ed è possibile in più modi. Qui trattasi di sostanza corporea e materiale, e però di porzioni diverse della stessa sostanza. Si considerino le diverse specie di animali bruti. Propriamente parlando, tutti gli animali non intelligenti costituiscono una sola specie, sono sostanze specificamente eguali, concependosi in tutti un primo atto eguale di esistere, che consiste nell' unione del principio senziente col sentito armonicamente eccitato. Ora gli animali appariscono di tante maniere diverse, perchè varia la quantità del sentito, dell' eccitamento e dell' armonia, colla quale il principio senziente è eccitato, che sono i tre elementi della sostanzialità degli animali. Questa variazione adunque nella connessione fra le due sostanze (anima e corpo) non cangia propriamente la sostanza, ma la mette più o meno in atto, onde si hanno animali più o meno perfetti, senza tuttavia che si possa dire che queste varietà sieno accidenti passeggieri, perchè si è cangiato sostanzialmente e stabilmente il sentito; onde il senso comune le considera come specie diverse. Che se si volessero chiamare varietà, converrebbe in tal caso distinguere due specie di varietà, chiamando le prime varietà costitutive , e le seconde consecutive o passeggiere, che sono accidenti rispetto alle prime. Se ad un animale si aggiungesse un senso nuovo (il che è possibile a concepirsi negli animali imperfetti, benchè non credo che si possa affermare possibile nei perfetti, se parlasi di sensi corporei), in tal caso seguirebbe in lui una mutazione costitutiva e stabile a cagione dell' unione d' un nuovo sentito, il quale differirebbe dai precedenti non pure per la quantità, ma ben anche per la qualità della congiunzione. Dalla quantità e dalla qualità, che può variare nelle sostanze congiunte ontologicamente ad altre, nasce altresì il concetto di quelle che si chiamano parti integrali d' un tutto; poichè l' uomo, a cui fu recisa una gamba, sofferse un cangiamento costitutivo e stabile, in quanto che non gli aderisce più una parte di quella sostanza, che a lui doveva aderire secondo il suo tipo ideale; eppure l' essenza dell' uomo rimase intatta, poichè non si cangiò nulla di ciò che cade nell' idea prima di uomo, cangiò bensì la congiunzione ontologica per la quale l' uomo sussiste. Finalmente la congiunzione ontologica talora non muta in modo che l' una delle due sostanze si cangi stabilmente, ma muta solo in questo, che l' una si unisce più o meno, o in diversa guisa alla sua compagna, e ciò per modo passeggiero e variabile, onde nascono quei cangiamenti accidentali, che sono gli accidenti comuni, a cui le sostanze create soggiacciono. Applicando tutto ciò all' anima umana, due sono gli elementi che la informano, il sentito corporeo (sostanza corporea), in quanto l' anima è sensitiva, e l' essere ideale, in quanto è intellettiva. Che l' anima umana sia sensitiva in un modo perfetto risultante dall' organismo umano, questa sembra una predisposizione necessaria all' intelligenza, come abbiamo veduto. Ma l' organismo umano che è il sentito, benchè debba avere una data conformazione acciocchè l' anima sia sensitiva al modo umano, cioè a quel modo al quale si aggiunge l' intelligenza, tuttavia quella conformazione non è tanto determinata che non possa menomamente variare. Quindi le diversità del sesso, delle età, dei temperamenti, dello stato diverso di salute, della maggiore o minore perfezione dell' organismo, ecc., le quali diversità: 1) parte sono stabili, e appartenenti perciò alle varietà o accidenti costitutivi secondo natura , come il sesso; 2) parte sono mutazioni di parti integrali , come accade nei mostri, a cui manca qualche parte o qualche parte si è aggiunta; e questa è un' altra classe di varietà o accidenti costitutivi contro natura; 3) parte non sono che di qualità , come la maggiore o minore robustezza, o il colore nero o bianco della carnagione. Ora poi, essendo la costituzione animale una predisposizione necessaria alla razionalità, in quanto che l' uomo riceve dall' animalità la materia della cognizione e le segnature secondo le quali ragiona, e quindi anche l' attitudine a ragionare con più o meno di perfezione, dipendente dalla facilità di avere, richiamare, mantenere, o mescolare a sua voglia le segnature sensibili delle cose; risultano nella facoltà ragionatrice ed affettrice altrettante varietà, quante sono le varietà indicate spettanti all' animalità umana. Che se poi l' essere, dall' uomo intuìto, acquistasse una realità, il suo stato intellettivo si cangerebbe sostanzialmente; ed è il passaggio che fa l' uomo dallo stato naturale allo stato soprannaturale; il quale argomento appartiene alla Teologia. A questo cangiamento però, risguardante la forma soprasostanziale dell' uomo, seguita un cangiamento relativo nella sua facoltà ragionante e nello stesso suo corpo, per l' attività che ha la parte intellettiva sulla parte animale, di che parlammo. Ma queste varietà secondo, o contro, o sopra natura, integrali o qualificative, che in qualche senso accidentali si dicono, cioè nel senso che non si racchiudono nell' idea di uomo, riguardano tutte varietà di stato , e non sono atti transeunti , dei quali noi dobbiamo parlare. La materia corporea, avendo ragione di termine, è necessariamente inerte; perciò non si avvera rispetto a lei che vi sia passaggio dalla potenza all' atto; ma tutte le mutazioni di lei procedono dal di fuori; ella è meramente passiva; onde non ha che atti passivi, che non sono propriamente atti, ma passioni. Le passioni poi dell' ente corporeo riguardano sempre la quantità, e quindi cagionano mutamento nella pluralità, nelle forme, nelle località dei corpi, ecc.. L' essere sensitivo pare che abbia degli atti accidentali, e così si possono chiamare. Ma se si considera attentamente come egli è costituito, si scorge che questi atti non hanno la loro ragione sufficiente in lui, ma nella sostanza che lo sorregge e lo attua, che è la sostanza corporea. L' essere egli adunque sorretto ed attuato diversamente, è ciò che cangia il modo accidentale della sua attività. Poichè egli è un' attività, giacchè, come vedemmo, è un ente7principio. Ma questa attività è sostenuta, informata ed attuata dal suo termine, cioè dal sentito; onde al cangiarsi di questo, quell' attività diventa maggiore o minore, e spiegasi in diverse guise, ma senza che muti la legge o il tema della medesima. A ragion d' esempio, se noi teniamo aperti gli occhi sopra una superficie, sulla quale trapassino diverse figure variamente colorate e disposte, la ragione della mutazione successiva giace al tutto fuori dell' occhio; l' attività dell' occhio inteso a riguardare rimane la medesima, benchè cangino quelle rappresentazioni; l' occhio vede sempre colla stessa virtù, collo stesso atto; pur egli pare che cangi l' atto visivo, ma non cangia da parte sua, sì bene è il termine che cangia. E tuttavia questo termine dell' atto dello sguardo è necessario al vedere, ed è ciò che fa che l' occhio veda attuando la visione. Onde secondo il cangiare della superficie veduta, cangia di conseguente anche l' atto dell' occhio, ma restando immutabile il suo tema, cioè il principio veggente e la legge del vederla. Ora è indubitato che se sulla superficie rimirata dall' occhio diminuisce il numero delle figure e s' impiccioliscono, l' occhio vede meno cose di prima, e se cessano affatto quelle rappresentazioni, l' occhio non vede più che una superficie uniforme. Ma se questa superficie visibile all' occhio andasse restringendosi, anche l' atto del vedere diminuirebbe, e se la superficie visibile sparisse del tutto, l' atto del vedere insieme con lei cesserebbe, non rimanendo più visione alcuna. Il che nasce perchè l' atto visivo non dipende unicamente da sè, ma è condizionato al suo termine, onde l' attività visiva non aumenta, nè cala, nè cessa per sua propria deficienza, ma per deficienza del termine che l' attua ed informa. Così ogni principio sensitivo, risultando da questa duplicità di sostanze, cessa col cessare della sostanza che gli presta il servigio di forma e di termine, e muta col mutare di questa sostanza, non che egli muti o cessi per propria deficienza, o per ispontaneo accrescimento e diminuzione di attività. Nè si opponga che da ciò verrebbe la conseguenza che il senziente fosse unicamente passivo, e perciò che rimarrebbero inesplicati tutti quei fenomeni animali, dove si manifesta l' azione del principio sensitivo sul corpo, come, per esempio, la circolazione del sangue; perocchè tutti questi movimenti hanno la loro ragione appunto nell' attività primitiva del principio senziente, la quale attività è sempre agente sul suo termine, secondo la legge stessa e secondo lo stesso tema. Onde se un' irritazione, poniamo un veemente dolore, cagiona aumento di circolazione, il che significa, secondo noi, crescimento di azione nel principio senziente, non nasce già questo perchè il principio senziente abbia da sè medesimo aumentata la propria attività, ma unicamente perchè l' attività, che egli aveva prima, trovò un altro termine che maggiormente l' attuò ed informò, e quindi potè spiegarsi a quel modo. Così se dinnanzi ai raggi del sole io pongo qualche corpo opaco, e poi vi sostituisco uno diafano, i raggi del sole percuotono il corpo loro opposto colla stessa loro legge, colla stessa celerità e veemenza; ma nel primo caso s' arrestano e danno indietro, e nell' altro trapassano, non perchè essi stessi abbiano modificato la propria attività, ma perchè la loro propria attività nel modo dello spiegarsi è condizionata a quei corpi di diversa natura, che incontrano nella loro via. Gli atti accidentali dell' uomo sono sensitivi ed intellettivi . E in quanto sono sensitivi, si spiegano al modo detto. In quanto poi sono intellettivi, non si possono spiegare se non ricorrendo al termine loro proprio, che è l' idea che attua l' attività intellettiva, l' oggetto, l' essere in universale. L' essere in universale è semplicissimo e per sè stesso immutabile; onde l' intelletto, come tale, è pure immutabile nell' ordine della natura, e non suscettibile che di una mutazione soprannaturale, quando l' essere ideale gli si realizza dinnanzi; il che non accade che nell' ordine della grazia e della gloria, fatto superiore all' umana filosofia. E` vero che si può dubitare se lo stesso essere ideale risplenda di egual luce a tutti gli intelletti umani; ad ogni modo io inclinerei a dedurre la primitiva diversità degli ingegni dall' ordine razionale, anzichè dal solo ordine intellettivo. L' ordine razionale comincia colla percezione fondamentale e il suo sviluppo, tostochè l' uomo percepisce le realità esteriori nell' idealità. Gli atti delle percezioni dipendono adunque dalle realità, che cadono nel suo sentimento; e quindi si spiegano anch' essi ricorrendo alla varietà del termine della percezione e all' attività razionale primitiva, per la quale l' anima è sempre tesa e per così dire inarcata verso il termine percettibile, che gli si presenta nel sentimento, senza bisogno di riporre alcuna mutazione spontanea cominciante in questa stessa attività primitiva. I bisogni poi determinano la riflessione dell' uomo, e questi atti riflessi rimangono spiegati allo stesso modo, perocchè i bisogni si fanno sentire dapprima nell' animalità. Solamente quando l' uomo è giunto all' uso della propria libertà (1), si presenta in lui un genere di atti affatto nuovo, la cui spiegazione sembra richiedere che l' agente si muova siffattamente da sè, che il passare dalla potenza all' atto non dipenda dal termine, ma dal principio operante. E qui sta appunto la difficoltà maggiore, nello spiegare cioè come quegli atti accidentali non tolgano l' unità del principio agente. La quale difficoltà è tanta che colui, che pur giunge ad intendere lo scioglimento di questa specie di mistero filosofico, trova somma difficoltà ad aprire il suo pensiero in parole per modo da farsi altrui ben intendere. Il che tuttavia noi tenteremo di fare. In prima si ricordi che la libertà (parliamo di libertà bilaterale) è la facoltà di eleggere fra due volizioni (2). Di poi si consideri come non vi ha luogo a vera libertà bilaterale se non nell' ordine morale, quando si tratta di eleggere fra una volizione consentanea alla legge e la sua contraria; perocchè fuori di questo caso non vi è ragione che possa indurre l' uomo a posporre il bene al male soggettivo, o il maggior bene al minore bene soggettivo (3). Ma qualora si tratta di porre a confronto l' ordine soggettivo coll' ordine oggettivo7morale, allora s' intende come possa essere che l' uomo anteponga il minor bene oggettivo7morale al maggiore fra i beni soggettivi; ovvero anche faccia il contrario, anteponendo il bene soggettivo a qualsivoglia gran bene oggettivo7morale. La ragione di ciò si è che l' ordine soggettivo e l' ordine oggettivo7morale non appartengono alla stessa categoria, nè i gradi loro si possono confrontare o commisurare insieme; onde niente hanno di comune, nè la specie, nè il genere, e però neppure vera somiglianza, nè manco vera analogia. Quindi se si considera il bene morale puramente tale (il quale si scorge nella necessità dell' obbligazione morale), egli non ha forza per sè solo di staccare l' uomo dal bene soggettivo, col quale venisse in collisione, se l' uomo stesso non vi pone della sua forza, e a favor suo non si determina; nel che consiste appunto la libertà. L' ordine morale adunque, ossia l' ideale7morale (la legge), è il termine dell' attività morale, come il bene soggettivo è il termine dell' attività reale. Essendo questi due termini categoricamente distinti, anche le due attività che sorreggono ed attuano, sono categoricamente distinte, e ciascuna di esse varia i suoi atti accidentali secondo le mutazioni del proprio termine. Ma poichè l' anima ha questo doppio termine, ella ha una doppia attività categoricamente distinta, i cui termini non potendosi commisurare insieme, quando vengono in collisione, non possono determinarla a spiegare piuttosto l' una che l' altra, onde ella stessa deve entrare in campo e decidersi; e in questo, per dirlo di nuovo, sta la libertà. Ora tutta la difficoltà consiste nello spiegare come l' anima, essendo unica, abbia queste due attività sì distinte, e possa liberamente aderire piuttosto all' una che all' altra, senza essere da niuna di esse determinata. Ora, che l' anima umana, essendo unica, abbia due termini, non è assurdo, poichè la duplicità sta nei termini e non nel principio; che in lei si suscitino due attività, è conseguente alla duplicità del termine, poichè abbiamo detto che il termine aderente attua il principio a cui aderisce; essendo dunque i termini categoricamente distinti, devono suscitare nell' anima due attività categoricamente distinte. Ma il difficile sta primieramente a spiegare come queste due attività, essendo categoricamente diverse, possono avere un unico principio, cioè l' anima. A tal uopo conviene considerare che le categorie conseguono alle forme dell' essere. Noi abbiamo detto che l' essere identico è in tre forme o modi, cioè nel modo reale, ideale e morale . Nell' essere dunque, nell' unità dell' essere convengono le tre categorie, benchè distinte fra loro assai più che genere da genere, ed incomunicabili. Trovato il nesso, ossia la sede unica delle categorie, dove vi è un' unità semplicissima con una trinità distintissima, si potrà intendere ancora come l' essere, che si comunica all' anima sotto la categoria reale e sotto la morale, possa mantenere nell' anima l' unità e non distruggerla, solo che si concepisca nell' anima anteriormente all' attività reale ed all' attività morale, e contemporaneamente una attività che riguarda l' essere nella sua unità; e questa attività si prova di fatto essere nell' anima, solo considerandosi l' intelligenza che ha per termine l' essere. Poichè, quantunque questa facoltà abbia per termine l' essere sotto la forma ideale, tuttavia ella ha prima ancora per oggetto l' essere puro , non potendosi comunicare colla forma ideale dell' essere senza comunicare coll' essere stesso, che in questa forma si manifesta. Onde anche nell' anima vi è unità e trinità di efficienza, vestigio manifestissimo della divina Trinità. In quanto adunque l' anima comunica coll' essere, ella ha un' unica attività, dove si unificano tutte le altre anche categoricamente distinte, siccome sono le due attività, reale e morale, di cui parlavamo. Non è dunque assurdo che come l' essere, essendo unico e semplicissimo, tuttavia ha tre forme, così l' anima, a cui l' essere si comunica, benchè semplicissima, abbia nell' unità sua tre attività categoricamente distinte. Ma rimane sempre a spiegare come quella attività unica che risponde all' essere, nella quale si unificano le due attività reale e morale, che rispondono alle due categorie dell' essere, possa determinarsi da sè stessa a preferire gli oggetti dell' una agli oggetti dell' altra quando vengono in collisione, per modo che non possa abbracciare gli uni e gli altri ad un tempo. A giungerne a capo (ed è l' intento di tutto il nostro ragionamento), conviene considerare che nell' essere intero, completo, assoluto, le sue forme non possono venir mai in collisione fra loro (1). E come la forma reale ha ragione di principio, la forma ideale di mezzo, e la forma morale di fine, così l' ordine di questo essere è tale, che la forma morale sta alle altre quasi loro compimento e perfezionamento. Quindi anche dove l' essere è partecipato con limitazione, la forma morale ha questo di proprio, che non può mai perdere la ragione di fine e di perfezione, che ne forma il concetto. Qualora dunque ella fosse posposta alle altre, e fatta servire siccome mezzo, o al tutto negletta, vi sarebbe disordine, cioè distruzione dell' ordine intrinseco e naturale dell' essere; vi sarebbe intestina lotta nell' essere medesimo, tendente a distruggerlo, poichè l' essere non può esistere se non coll' ordine suo proprio. Quindi l' anima, o una intelligenza qualunque avente a suo termine l' essere colle sue categorie, deve necessariamente nel suo primo atto serbare quell' ordine che gli somministra l' essere, il quale la sostiene e la attua colla comunicazione di sè stesso. Di che seguita che, qualora l' anima (non guasta ancora) operasse secondo questa sua prima attività così ben ordinata, nelle sue operazioni conserverebbe un ordine del tutto analogo e corrispondente all' ordine dell' essere stesso; e dall' ordine dell' essere sarebbe determinata ad operare con morale perfezione. Si deve dunque supporre che vi sia nell' anima una spontaneità di moralmente operare, cioè di tenersi sempre al bene morale, senza mai sacrificarlo al bene reale. Con ciò si restringe la nostra questione, poichè ella si riduce a spiegare come l' anima possa abbandonare l' ordine morale per correr dietro al bene semplicemente reale o soggettivo, cioè come sia possibile il peccato; perocchè spiegato questo, rimane spiegata altresì la libertà e gli atti suoi accidentali. E` dunque da considerarsi che l' anima, in quanto possiede l' attività reale, è mobilissima, cioè basta qualunque bene e qualunque male, quantunque piccolo egli sia, per determinarla all' operazione (1). E fino a tanto che questa operazione non si oppone all' ordine morale, ella opera secondo la spontaneità propria della sua attività reale. Ma allorquando l' operazione si oppone all' ordine morale, allora vengono in collisione dinnanzi a lei due attività, che la determinano in senso contrario, ciascuna delle quali, se fosse sola, basterebbe a farla operare, ma essendo l' una in opposizione dell' altra, quale vincerà? L' attività morale è superiore in quanto all' eccellenza e all' ampiezza del termine che la produce, poichè il suo termine è l' essere nel suo completamento e nella sua ultima perfezione, la quale abbraccia tutto. Onde se quest' ordine morale operasse nell' anima con quella efficacia di cui sarebbe capace, dovrebbe prodursi una spontaneità sempre mai prevalente. Ma questo ordine, benchè sia il termine dell' anima, non opera su di lei con sì piena efficacia. Quindi è che ella intende bensì la dignità di lui e la necessità assoluta di preferirlo, ma non ritrae indi la forza necessaria a reprimere la spontaneità dell' attività reale. Tuttavia ella può riuscire a ciò, ma ad una condizione, che da sè stessa si unisca più strettamente al termine morale che la informa e la attua, e così cresca la forza salutare di questo termine su di lei, onde ella stessa s' avvigorisca moralmente. Di ciò fare ella ne vede la necessità, come dicemmo; e il vederne la necessità non la determina certamente, ma la avvisa che, se ella vuole, può determinarsi da quella parte; dico se ella vuole, cioè se ella cresce il vigore della sua spontaneità morale con istringersi più intimamente al termine morale, con che riceve aumento di forza (2). Così il vedere la necessità morale , questo speciale termine della sua intelligenza, è il fonte della sua libertà, perchè sa per esso di potere e di dovere, benchè non sia determinata a volere. L' intelligenza adunque è il fonte della libertà, poichè l' intelligenza rappresenta all' anima l' ordine morale e la sua necessità suprema; le rappresenta che da quest' ordine le può venire quella forza che non ha, e che dipende da lei l' avere. Come dunque le altre attività dell' anima si determinano ai loro atti dagli oggetti o termini loro, che le attuano e le sorreggono, perchè tali oggetti sono determinati, così la libertà è determinata dal suo oggetto; ma questo oggetto, che è quello dell' intelligenza, abbracciando le due parti opposte, il reale e il morale, non la determina all' uno di essi; ma trovando l' anima in questo oggetto la possibilità di far prevalere il morale, perchè gliene viene rivelata l' eccellenza suprema, ed anche la necessità, e finalmente la potenza illimitatamente attuabile, ella rimane capace di determinarsi da sè stessa dalla parte migliore, o di cedere alla peggiore. Concludiamo: ogni sostanza reale, quando per la congiunzione ontologica sostiene ed attua un' altra sostanza, le dà un' attività determinata; ma l' essere ideale, congiunto ontologicamente con un' altra sostanza (l' anima), non le dà un' attività determinata, ma solo la potenza di determinarsi. Ma le potenze, che si rinvengono nell' anima, sono esse distinte dall' essenza dell' anima? In primo luogo si distingua fra la potenzialità generale dell' anima e le potenze speciali . Ora noi dobbiamo parlare della potenzialità dell' anima in genere, e cercare come ella si distingua dall' essenza dell' anima; perocchè della distinzione delle potenze fra loro parleremo nei libri seguenti. La potenzialità dunque dell' anima si concepisce dai filosofi in due modi: I - Come il principio dell' anima separato dal suo termine; e questa nozione rappresenta al pensiero un principio informe, il quale non è più anima, nè cosa dell' anima, perchè non ha alcun atto proprio dell' anima, neppur quello di suo principio, chè non è più se si stacca dal suo termine. Che se questa potenzialità si considera in relazione col suo termine, e non da lui separata, in tal caso cessa di essere potenzialità, perchè è atto primo, è l' anima (1). II - O come il principio dell' anima informato dal suo termine, ma da un termine, come già dicemmo, variabile . - Ora questa variabilità, che è la causa delle potenzialità, spetta al termine dell' anima e non al principio, che è l' anima stessa, la quale dal suo termine viene diversamente attuata. Onde questa, che è la vera potenzialità, rimane distinta dall' essenza dell' anima, la quale si potrebbe concepire anche se il termine non variasse giammai. A ragion d' esempio, non si può concepire anima sensitiva senza un sentito , ma questo sentito può essere vario in mille modi, e variare da un modo all' altro. Quindi ciò che si esige a concepire l' anima (a pensare la sua essenza) è un esteso sentito, ma senza bisogno di determinare la qualità di questo sentito esteso. Nel concetto dell' anima adunque, in cui si pensa l' essenza e non più, rimane indeterminato il sentito. In quanto adunque l' anima ha un sentito esteso qualunque, ella si concepisce nella sua essenza; in quanto l' anima può avere l' uno o l' altro sentito, si concepisce nella sua potenzialità . La potenzialità dunque è diversa dall' essenza dell' anima. Lo stesso ragionamento si può fare dell' oggetto, che è termine dell' anima intellettiva, solamente che l' anima intellettiva ha un oggetto determinato, che è l' essere in universale; e la variabilità non cade in lui propriamente, come quello che è immutabile, ma nelle realità, che in lui e per lui si conoscono (2). Ma perchè i termini dell' anima sono variabili? La ragione si è perchè i termini suoi sono limitati; giacchè in ogni limitato si può concepire variazione, e più e meno. Se all' incontro esistesse un ente, il cui termine fosse tutto l' essere e conseguentemente tutto l' ordine dell' essere, questo ente non avrebbe potenzialità di sorte alcuna, ma sarebbe puro atto. Perocchè tutto l' essere con tutto il suo ordine è perfettamente uno ed immutabile; il che si prova all' uso dei matematici, per l' assurdo che ne verrebbe dal supporre il contrario. Infatti supponiamo che nascesse variazione nel tutto. Ogni variazione appartiene all' ordine dell' essere. Dunque il termine dell' ente non era tutto l' essere con tutto il suo ordine, contro il supposto; perocchè dall' ordine mancava quella variazione, che ne è seguita. Quindi Iddio solo di necessità non può avere alcuna potenzialità, ma egli è atto puro; perocchè il suo termine è tutto l' essere con tutto l' ordine dell' essere, perocchè è sè stesso. Quindi ancora ciò che si concepisce in Dio come potenza, non può distinguersi dalla sua essenza senza errore. Deriva ancora da ciò quest' altra conseguenza, che se si concepisce una potenza che sia la stessa essenza dell' essere, anche gli atti, che si attribuiscono a questa potenza, debbono identificarsi coll' essenza dell' essere, dovendo essere un atto solo, che abbia per termine tutto l' essere nella sua perfetta unità e semplicità (1). E tuttavia l' essenza dell' anima è il fonte delle sue potenze, poichè consistendo l' essenza dell' anima nella natura di principio , il quale viene attuato dal suo termine, è chiaro che è il principio , cioè l' anima , che, attuata diversamente dai diversi termini, fa tutti quei diversi generi di atti, a cui si riferiscono le potenze; onde l' anima è dichiarata dal sommo filosofo italiano il principio degli atti, ma il principio remoto, laddove le potenze il principio prossimo (2). Rimane che parliamo degli abiti, e che dimostriamo come la loro moltiplicità non nuoccia all' unità dell' anima, a quel modo che abbiamo dimostrato questo stesso della moltiplicità degli atti e delle potenze. E la via ci è aperta da quello stesso che abbiamo fin qui ragionato. Ma per procedere più chiaramente, cominciamo dal definire che cosa s' intenda per abito, fissandone bene la natura. L' abito , in generale, è una certa disposizione acquisita ed accidentale dell' anima, per la quale ella è posta in uno stato migliore o peggiore, ed è più atta ad operare in un dato modo (1). Quindi la parola abito riceve due significati principali: o si considera relativamente all' essenza dell' anima, o relativamente alle sue potenze. Se l' abito si considera relativamente all' essenza dell' anima, egli è quello che aggiunge qualche cosa in meglio od in peggio allo stato naturale di lei, e perciò pone l' anima in uno stato migliore o peggiore di quel che ella avrebbe priva di lui. Se poi si considera relativamente alle potenze dell' anima, l' abito è una disposizione che dà loro maggior facilità di operare in un dato modo, ordinato o disordinato, buono o cattivo. Ad esempio del primo di questi due significati, recheremo la condizione dell' anima resa moralmente migliore da un atto di virtù o dall' acquisto di un merito, ovvero resa peggiore da un peccato o dalla commissione di una colpa. Ad esempio del secondo, valgano tutte le arti, le quali altro non sono che disposizioni acquistate di operare facilmente in un dato modo, per produrre ciò che l' arte intende produrre. Ora, se ben si considera, non sarà difficile accorgersi che l' abito in entrambi i significati conviene propriamente all' anima intellettiva e morale, e che all' anima sensitiva non conviene, in senso proprio, se non nel secondo significato. La ragione di ciò si è che l' anima meramente sensitiva, non avendo alcuna personalità, nè essendo causa delle proprie azioni, nè avendo alcuna norma ideale da seguire, non è suscettiva se non della perfezione naturale di fatto. Onde un' anima sensitiva può essere più o meno perfettamente naturata di un' altra, ed anche la stessa anima può acquistare e perdere, ma ella acquista e perde della natura, e non dell' abito che la rende migliore o peggiore. A ragion d' esempio, se un' anima sensitiva ha un termine maggiore, più molteplice, più organato a conservare la vita, più eccitante, quell' anima è maggiormente attuata; ma questa maggiore attuazione è della stessa indole dell' attuazione naturale; onde si deve dire che la sua natura è cresciuta o diminuita, non che ella è migliorata o peggiorata, se non in un cotal senso traslato, in quanto si riferisce dall' uomo alla idea archetipa di quell' animale. Così pure un corpo se è più grande, non è che sia migliore, o che abbia un abito; soltanto egli ha più quantità di materia. All' incontro le potenze dell' anima sensitiva possono avere degli abiti, intendendo la parola abito nel secondo significato, cioè come una disposizione della potenza ad operare in un dato modo. L' anima razionale poi, avendo una norma ideale da seguitare, non è solamente suscettiva di avere più o meno attività naturale, ma ben anche di essere migliore o peggiore, secondo che è più o meno conformata alla sua norma, dalla conformazione alla quale ella riceve dignità, merito, diritto al bene eudemonologico; il che non appartiene alla sua natura propriamente, poichè è una relazione con cosa diversa da lei; e perciò appunto si dice abito, perchè ella acquista una condizione migliore o peggiore in virtù di tale relazione, la quale relazione è migliore o peggiore; onde la bontà o malvagità della relazione si riflette sull' anima. Ove ancora rimane chiarito come l' anima possa avere degli abiti soprannaturali, se si congiunge a lei Iddio, il quale, non essendo oggetto naturale, non appartiene alla natura dell' anima, ma è cosa che le viene dal di fuori, benchè in qualche modo questa maniera di abiti aggiunga all' essenza dell' anima ciò che niun altro abito le aggiunge, quasi una nuova natura. Venendo ora a parlare degli abiti nel secondo significato, cioè come disposizioni delle potenze ad operare in un dato modo, conviene circa la loro natura più cose osservare. E primieramente è da osservare che la classificazione degli abiti delle potenze deve seguire necessariamente la classificazione delle potenze. Ora le potenze sono di due maniere: altre hanno uno scopo solo, altre poi, superiori, sono ordinate a reggere e a dar ordine alle inferiori. Quindi anche gli abiti o perfezionano la potenza rispetto al suo proprio scopo, o perfezionano l' ordine fra le potenze, disponendo bene ed avvalorando quelle che debbono reggere le altre. Quantunque poi l' abito di sua natura perfezioni la potenza, tuttavia talora produce indirettamente un danno ed un disordine nel soggetto; e ciò avviene quando l' abito perfeziona quelle potenze, che debbono essere dirette e subordinate, dando loro una forza e prontezza di agire maggiore di quella che non abbia la potenza ordinatrice; nel quale caso la potenza perfezionata dall' abito rimane sbrigliata, e adduce il disordine, e talora la distruzione dell' ente. Vediamo ora come gli abiti si producano; al che ci fa strada l' aver veduto come si producano e costituiscano le potenze e i loro atti accidentali. Noi abbiamo detto che gli atti accidentali nascono pel cangiamento accidentale del termine che informa l' ente; questi atti secondi suppongono l' atto primo, cioè l' ente stesso informato. Ora nell' ente informato vi è principio e termine; e il termine è quello che suscita l' attività del principio, qualora il termine si cangia accidentalmente in modo da suscitare l' atto accidentale e secondo. Ora, benchè questo atto sia transeunte, tuttavia, anche cessando, lascia nel principio un resto di attualità; onde il principio più attuato si fa più pronto; perciò è più energico a rispondere ad un nuovo eccitamento che egli riceva dal termine, che s' immuta per la seconda volta nel modo stesso in cui si è immutato la prima, quando suscitò la prima volta l' atto accidentale. Secondo questa legge apparisce come la frequenza degli atti, quanto è maggiore, debba produrre un abito maggiore, benchè l' abito incominci pure col primo atto accidentale. Forse si dirà non potersi capire come il principio di un ente debba rimanere più attuoso quando cessa l' atto accidentale, posciachè il cessare di questo atto involge che sia tolto il termine che lo suscitò. Che se la cosa fosse tuttavia così, non sarebbe più vero che l' attualità nel principio di un ente dipenda, come si supponeva, dall' azione e dall' inerenza del termine; ma si dovrebbe cercare un' altra cagione della maggiore o minore attuosità del principio, indipendente da quella che gli viene dal termine, se, anche cessato questo, egli resta più attuoso. Al che rispondiamo che quando cessa l' atto transeunte, non cessa del tutto l' inerenza del termine. E ciò si vede sì negli atti delle facoltà sensitive, come in quelli delle facoltà razionali. E veramente in quanto alle facoltà sensitive, dopo avuta una percezione esterna o provato un sentimento passivo od attivo, rimane nel senso il vestigio dell' una e dell' altro. Infatti è cosa indubitata che il principio sensitivo conserva nel suo sentito una modificazione prodotta dall' azione dei corpi esteriori sul corpo da lui avvivato, anche quando essi hanno cessato di agire; è indubitato che una passione qualsiasi o una inclinazione istintiva rimane, anche dopo cessata un' azione nel nostro sentito. E queste modificazioni permanenti sono la cagione degli abiti, o piuttosto sono la stessa attività abituale del principio sensitivo. Il che meglio s' intenderà, quando si consideri che l' attività del principio sensitivo è più ampia ed estesa che non sembri, non terminando ella già nella sola sensazione, nel solo sentito, ma operando sul sensifero. Ad ogni mutazione del sentito, ella sorge ad operare sul sensifero, per accomodarlo a sè siffattamente da trovarsi il meglio che ella possa; di che le viene la sua virtù organizzatrice. Quindi, dopo avere ella provate certe sensazioni, e, coll' attività per esse in sè suscitata, avere accomodato a sè medesima il sensifero nel modo più opportuno che per lei si possa, ella è rispettivamente migliorata di condizione. Il che via più si scorge, se si considera la legge dell' istinto sensuale , che è una parte di sua attività. Poichè il principio senziente prima d' aver provato una piacevole sensazione, non può volgere la sua attività a produrla a sè stesso; ma quando l' ha provata, allora mette tutte le sue forze a ritenerla; e non potendo ritenerla del tutto, perchè gli è tolto lo stimolo esterno che la suscita, egli la ritiene in parte, accomodando, più che egli può, ad essa il proprio sensifero, che non gli è tolto; onde si rimane in conato e tensione per riprodurla tostochè egli possa; e però allorquando gliene torna l' occasione, coll' essergli applicato nuovamente lo stimolo esterno, egli è già pronto ed avido di cooperare subitamente con esso a riavere lo stesso piacere; e ad essere in tale attività maggiore lo aiuta, come dicevamo, il sensifero da lui ritenuto in quell' atteggiamento che fa bisogno per esserne così attuato, od averlo pronto all' effetto. Poichè la piacevole sensazione non sorge già per la sola opera dello stimolo esterno; ma intervengono principalmente a suscitarla i movimenti del sensifero, i quali pure dipendono da quella disposizione dell' anima, che sorge durante l' atto accidentale, e che, cessato, non cessa interamente, non cessando il sensifero da rimanersi attuato al bisogno, quantunque cessi lo stimolo esteriore. Della qual dottrina è conferma il vedere che gli abiti sensitivi cessano, ove il corpo umano e però il sensifero sia mal disposto, come cessa la stessa attività sensitiva, se quello le venga disorganizzato e distrutto. Così adunque si spiegano gli abiti delle facoltà sensitive e tutto lo sviluppo dell' istinto sensuale, che appartiene principalmente ad un' attività abituale. Quanto poi agli abiti delle facoltà razionali, essi si spiegano in un modo somigliante, per via di quel termine che rimane quasi infisso nell' anima, anche cessati i sentimenti corporei che occasionano il ragionamento. E veramente nell' ordine della razionalità vi è: Un termine costante e immutabile, il quale è l' essere indeterminato nella sua forma ideale. Di poi vi sono le percezioni, le quali sono atti transeunti. Ma posciachè esse lasciano nel sentimento, come abbiamo detto, dei vestigi, degli istinti suscitatori d' immagini e di altri sentimenti attivi e passivi, in questi vestigi e rimasugli si contiene lo stimolo agli atti dell' intelligenza, coi quali si suscita l' attività dei concetti, ecc.. Il linguaggio pure appartiene all' ordine sensibile, in quanto si compone di suoni e di altre sensazioni, le quali lasciano i loro vestigi del pari nella sensitività interiore. Cogli abiti adunque delle facoltà sensitive e cogli istintivi movimenti si spiega come la potenza razionale sia suscitata e tratta a molti suoi atti dal sensibile, anche quando niuno stimolo esterno opera nella sensitività. In terzo luogo avviene dell' attività razionale quel medesimo che della sensitiva; dopo fatto un atto, ella ritiene la propensione a ripeterlo, e ciò a cagione che rimane qualche cosa dell' oggetto nell' intelligenza. Questo s' intende quando si considera che l' oggetto della ragione è il sensibile, considerato come ente. L' ente appartenendo unicamente all' intelligenza, ella ne ritiene il concetto (ideale), anche passato l' atto del percepirlo. Ma due cose qui rimangono da investigare: Se il concetto ideale possa rimanere, senza che vi sia alcun vestigio sensibile a cui riferirlo. Se possa rimanere la percezione dell' esistenza reale dell' ente concepito. Quanto al primo, noi teniamo che il concetto determinato di un ente non si possa pensare attualmente, senza che egli si riferisca a qualche vestigio della realità. Tuttavia, durante questo vestigio è certo che l' attività intellettiva acquista degli abiti rispetto a lui. Contro la prima parte di questa nostra posizione nulla prova il fatto degli astratti , i quali non sembrano riferirsi a nessun vestigio di realità; poichè, se ben si considera, essi si appoggiano e si riferiscono pure a qualche elemento di vestigio, benchè non all' intero vestigio. Laonde pare che la mente possa pensare attualmente gli astratti, solo allora che ella venga a ciò aiutata da qualche vestigio di loro realità. Quanto poi alla persuasione della loro sussistenza esperimentata in passato, si richiede qualche prova a convincersi che un ente, di cui si esperimentò la sussistenza in passato, sussista anche in presente, ed ogni prova involge qualche percezione di realità. Del pari ad essere persuaso di avere percepito in passato un sussistente (cioè ad averne memoria), sembra indispensabile l' aiuto di qualche sensibile vestigio, giacchè il sensibile talora è la materia propria della cognizione razionale, talora è lo stimolo al suo atto, come si dirà a suo luogo. Quindi è che gli abiti delle singole potenze razionali dovrebbero interamente cessare, se venisse tolto all' anima ogni sentito corporeo, e non gliene fosse dato alcun altro, che avesse con quello alcuna relazione. Non procede però da questo che cessino interamente gli abiti remoti del principio razionale, perocchè l' anima separata conserva, come abbiamo detto, il principio dello spazio, che è il principio remoto del corpo, e questo principio può essere subbietto di abiti remoti, reliquie degli atti del vivente. Conosciuta così la natura degli abiti, e come essi sieno attività mantenute dai termini dell' anima che suscitano gli atti e le potenze, è chiaro che neppure la loro moltiplicità pregiudica all' unità dell' anima; conciossiachè la moltiplicità non dipende dall' anima, ma dai suoi termini; e le diverse sue attività si riducono all' identico principio, che astrattamente si può concepire come una cotale attività per sè indeterminata, che variamente si attua secondo il variare dei termini suoi. Il quale pure, unito ai suoi termini, ha un' attività propria, perchè egli è sostanza dai suoi termini distinta; e però cresce di attuosità e di tensione; ma diviso interamente dai suoi termini già non è concepibile, e per ciò stesso neppure possibile. E` ammesso da tutti che l' anima è il principio di tutte le sue operazioni e di tutte le potenze; ma alcuni dicono che il subbietto delle potenze, che hanno bisogno di organo corporale, è il composto, e non l' anima sola (1). Il che è vero sotto un aspetto, cioè in quanto che l' anima non potrebbe avere una speciale sensazione, se non fosse fornita del corpo organico; le sensazioni speciali adunque (e lo stesso dicasi d' ogni altro atto, a cui abbisognano organi corporei) non si hanno dall' anima per un' attività sua propria, e non in lei suscitata. Ma noi abbiamo dimostrato che gli atti, le potenze e gli abiti, dipendono dalla stessa legge, cioè « sono attività suscitate nell' anima da entità diverse dall' anima, ma ontologicamente a lei unite come forma e termine ». Di che avviene che il composto non possa essere il soggetto nè delle potenze, nè degli atti, nè degli abiti, perchè ciò che nel composto non è l' anima, ha ragione di termine e non di principio, e il soggetto ha sempre ragione di principio (1); ma l' anima sola, appunto perchè ella è in egual modo il principio di tutte queste sue attività. Solamente che alcune hanno bisogno di un termine, ed altre di un altro termine. Così la potenza intellettiva deve avere per termine l' essere ideale, le potenze sensitive il corpo colle sue mutazioni, e le potenze razionali l' uno e l' altro annodati. Dissero gli antichi la Filosofia andar contenta di pochi giudici (1). E a fine di cessare da lei la moltitudine, i maggiori savi in segreto affidavano ad orecchi sceltissimi di provati discepoli il più sincero frutto di loro meditazioni. Noi all' opposto amiamo il popolo, parliamo a tutto il genere umano; quello che crediamo poter dire a un uomo, ci rallegriamo che sia detto a tutti. E ciò nonostante, il solo giudizio di pochi ci appaga; chè gli uditori o i lettori hanno tutti diritto di giudicare, a condizione che sappiano; ma i più non sanno, e questi provvederebbero alla propria dignità e all' avanzamento della scienza, se udissero tacendo. Perocchè anche gl' ingegnosi, che non ebbero voglia od agio di cercare il fondo delle questioni, distratti dai negozi della vita o da altri studi, ovvero che non credettero necessario impiegarvi diligente meditazione (volgare pregiudizio e comune consuetudine!), e però non giunsero a produrre a sè stessi una chiara ed intima persuasione della verità, profitterebbero meglio al decoro proprio ed a quello della filosofia, astenendosi dall' infrascarla e confonderla con imperfetti ragionamenti. E tuttavia molti di questa medesima schiera, invece di fare ingombro, potrebbero esserle di gran pro, qualora fra noi una critica severa castigasse gli scrittori troppo confidenti ed incuriosi, e una novella educazione, rendendo viva e gagliarda la morale nazionale (come oggimai pare indubitato che avverrà), accrescesse la dignità degli scrittori, e facesse loro sentire onesta vergogna di scrivere quanto non ebbero maturamente pensato e lungamente meditato. La qual vergogna nobilissima chi è ora che senta? Chi dimostra persuasione che all' ufficio dello scrittore debba presiedere la coscienza? O almeno quanto pochi stimano essere un dovere morale il ben pesare, prima di comunicarle al pubblico, le proprie opinioni, e ridurle a quella chiarezza e certezza, che possono ricevere da pazienza di assiduo studio, e il non confondere con concetti indigesti le menti altrui? Laonde io non mi prenderei meraviglia, se udissi condannare, con quella sicurtà che sogliono, non tutti per grazia del Cielo, ma pure alcuni dei nostri connazionali, le questioni svolte nel libro precedente siccome inutili, difficili, e però fastidiose; quasicchè le verità, che riguardano l' umanità ed altri esseri, si potessero rendere facili o difficili a nostra volontà; o convenisse meglio appagarsi di quella superficialità di scienza, che è dottrina mentita e presuntuosissima, anzichè adoperarvi fatica ed amore, e farsi discepoli alla natura, disposti di seguitarla coraggiosamente, quanto ci basta la lena, per tutto dove ella si avvolge fino addentro ai suoi più cupi recessi. Il che se fosse, lasciando noi giacere cotesti Italiani in su quei loro morbidi origlieri, e cantarci eziandio fra la veglia e il sonno il « pochi compagni avrai », noi riprenderemo il filo interrotto del nostro ragionare, sordi al dileggio, e così ci verremo continuando: Fin qui, o miei generosi lettori, noi svolgemmo la distinzione fra l' essenza dell' anima e le sue potenze o attività, e vedemmo come quella sia unico principio, queste sieno molteplici; di che ci diede ragione una bellissima legge ontologica della comunicazione degli esseri, per la quale molti e diversi possono comunicare con uno, e suscitare in lui medesimo diverse attività relative alla loro varietà. Il che non toglie l' unità del principio; chè egli si rimane sempre un primo ed unico atto, che abbraccia virtualmente gli atti secondi e molteplici; così essendo fatto l' ordine dell' essere, che quelle entità che sono molteplici considerate in sè stesse, sono une, considerate nel loro comune principio. Ora poi ci rimane a distinguere le attività dell' anima fra loro, deducendole dall' essenza, cioè dimostrando come di mano in mano vengano fluendo da quell' atto primo, uno ed ampissimo, che in virtù le contiene. Al quale intento rammentiamoci che l' anima non si può dividere realmente, senza distruggersi. E tuttavia, noi lo vedemmo, ella ha una costituzione sì fatta che le bisognano due entità per esistere, l' una principio , e questa è ella stessa; l' altra termine , il quale non è dessa, ma sì è suscitatrice di sua attività, condizione senza la quale ella stessa non è. Quindi se il principio si stacca da ogni suo termine, ci svanisce in nulla; ma unito al suo termine, egli è qualche cosa di ben distinto da questo; ha un' attività sua propria, benchè ella sia suscitata dal termine quasi causa della forma. Altra è dunque l' attività suscitata dal termine, che pone in essere il principio; altra è l' attività di questo principio già posto in essere. Le potenze sono determinate dal termine, e variano secondo il variare di esso; gli abiti procedono, come da loro fonte, dall' attività propria del principio già costituito. Ora quali sieno le leggi, secondo le quali l' attività propria del principio cresca, diminuisca, si modifichi indipendentemente dal termine, questo, noi dicemmo, non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' attenta osservazione. L' osservazione poi ci attesta che il principio ha tal virtù, per la quale egli si sforza di tenere a sè unito il termine suo, e di conservarlo in quell' atteggiamento e in quella disposizione che più gli piace, od anche di modificarlo alquanto per atteggiarlo così, ed anche stringerlo a sè con più intenso legame; i quali sono quattro modi diversi, in cui il principio, ossia l' essenza dell' anima, spiega la sua attività. E da questi modi nascono gli abiti, pei quali le potenze operano più facilmente , più prontamente , più efficacemente e più dilettosamente . Poichè, quando l' anima esercita qualche sua attività, sente diletto; chè ogni attività è in lei essenzialmente sensibile e dilettevole, in quanto è attività; e l' esercizio dell' attività è attività anch' esso, e però anch' esso è dilettevole. Ora, cessato l' atto accidentale, rimane nell' anima un resto del provato sentimento; la quale ritentiva del sentimento dilettevole cresce l' attività, che intende a riprodurlo rinnovando l' atto accidentale; questa propensione attiva è appunto l' abito. Come poi perdura nell' anima quel rimasuglio di sentimento provato nell' esercizio dell' attività? Per l' attività propria dell' anima stessa, che tiene seco unito, come dicevamo, e a sè stringe, quanto mai può, quel termine che le suscitò l' atto dilettoso; e lo tiene nell' atteggiamento convenevole a riprodurlo, ed anche l' aiuta a mettersi in tale atteggiamento, che sono i quattro modi detti, in cui il principio, cioè l' essenza dell' anima, è attiva. Nè osta a ciò, parlandosi dell' anima sensitiva, la cessazione dello stimolo esterno, che suscita la sensazione attuale. Perocchè non è lo stimolo esterno che immediatamente la suscita, ma il corpo vivente, che è termine costante dell' anima; onde, cessato lo stimolo esterno, cessa è vero la sensazione attuale, ma non cessa la disposizione del corpo animato, mantenuto dall' anima in quell' atteggiamento e mobilità necessaria a riavere prontamente e vivacemente la sensazione, tostochè lo stimolo esteriore si raccosti. Oltre di che rimangono i vestigi nella fantasia, in cui l' anima coll' aiuto degli interni movimenti casuali, che accadono nel corpo vivo dove tutto è movimento, risuscita facilmente le immagini; le quali pure appartengono agli atti accidentali della sensitività, e prestano all' anima razionale nuovo ossia variato termine, come fanno le sensazioni. Ma l' anima razionale stessa ritiene i rimasugli degli atti suoi, che costituiscono la memoria, anche cessati quegli atti accidentali. Onde i rimasugli sensibili e intelligibili, che restano nell' anima dopo gli atti accidentali, sono accrescimento del suo termine e aumento in lei di attività abituale. Quando poi l' anima razionale è pervenuta ad aver presente attualmente un fine, allora ella è fatta arbitra di molti atti sensitivi e intellettivi, che le valgono di mezzi a quel fine, onde può muoversi da sè, e accostarsi e stringersi più al suo termine, e applicare a sè gli stimoli esteriori. Il termine adunque dell' anima può ricevere cangiamento o modificazione da due parti: dal principio stesso, che è l' essenza dell' anima, e da una causa diversa dall' anima. Il cangiamento del termine si può concepire in diversi modi. Può concepirsi diviso intieramente dal suo principio, e in tal caso non è più termine. Può concepirsi che sia tolto un termine e sostituito un altro specificamente diverso, e in tal caso l' essenza dell' anima è cangiata, l' anima non è più quella di prima. Può concepirsi che il termine sia specificamente ingrandito, e in tal caso l' essenza dell' anima è quella medesima, ma ingrandita anch' essa. Ma ora noi mettiamo da parte questi cangiamenti concepibili, per parlare di quelli che non pur si possono concepire, ma avvengono ogni dì come l' esperienza ci attesta. Circa questi è da dire: Che il termine dell' anima in parte è costante e invariabile, e specifica l' anima umana, ne determina la natura. La parte invariabile del termine è duplice: a ) un esteso sentito, dove vi è continuo cangiamento di parti, causa del sentimento di eccitazione, e vi è organismo determinato; b ) l' essere ideale indeterminato. Che il termine dell' anima in parte è variabile. La quale variabilità consiste: a ) rispetto al corpo, nel cangiamento dell' estensione, del movimento intestino, causa dell' eccitamento, e dell' organismo, causa della perpetuità della vita; b ) rispetto all' essere ideale, la mutazione è soltanto dalla parte dell' anima, in quanto questa vede in lui i reali percepiti nel senso, e ne cava la dottrina della realità, onde così si arricchisce il suo oggetto, non cangiandosi in sè stesso, perocchè è l' anima che vede in esso ciò che prima non ci vedeva. Ora tutti questi cangiamenti danno luogo agli atti accidentali, i quali, cessando, lasciano gli abiti nell' anima. Gli atti accidentali adunque nascono pei cangiamenti che avvengono nei termini dell' anima, senza che si mutino questi termini specificamente. Ma questi cangiamenti, o avvengono in virtù dell' attività propria dell' anima, nel quale caso sono atti attivi , o avvengono in virtù d' una causa straniera all' anima, nel qual caso sono atti passivi . Gli abiti nascono da quel rimasuglio di attività, che resta nell' anima al cessare degli atti accidentali. Le potenze , finalmente, nascono dalla specifica diversità dei termini, accoppiata all' attività dell' anima stessa. Alla sentenza che l' attività dell' anima sorge in virtù dell' azione del termine, consegue che nell' ordine logico si concepisce prima nell' anima la passività e la ricettività , poscia l' attività . Dico nell' ordine logico , poichè non sempre nell' ordine cronologico è posteriore l' attività alla passività. Si distinguano dunque gli atti secondi e accidentali dall' atto primo, che mette in essere l' anima stessa. Negli atti secondi l' osservazione dimostra che la passività precede nell' anima l' attività, non solo nell' ordine logico, ma anche nel cronologico; giacchè prima l' anima sente e riceve, e poscia si muove ed opera. Ma questo non è possibile che avvenga rispetto all' atto primo, che è quello pel quale l' anima esiste, giacchè prima d' esistere ella non può essere passiva; ond' è forza che rispetto all' atto primo la passività e l' attività sieno contemporanee. Ma posciachè si vede che la relazione, che hanno fra loro la passività e l' attività nell' atto primo, è simile a quella di causa ed effetto, sicchè l' atto primo sorge in virtù dell' azione del termine; quindi si dice che nell' ordine logico precede la passività e l' attività sussegue, quantunque fino a che non vi è l' attività, non vi è l' ente. Nascendo dunque l' attività dalla passività, rimane a cercarsi se le potenze passive si possano dire specificamente distinte dalle attive. Stando a quello che abbiamo detto, che le potenze si distinguono secondo la distinzione specifica dei termini, propriamente parlando, la passività e l' attività non costituiscono potenze diverse, ma piuttosto diverse facoltà o funzioni della stessa potenza; perocchè l' attività è una continuazione di quel movimento che incomincia nella passività, quasi come la linea è continuazione del punto (1). Infatti il termine è nel principio come agente; quindi il principio appare passivo, ma nello stesso tempo è sorto all' atto ed alla sua operazione, e così si fa attivo, così è divenuto principio individuato. Quando poi il principio è già posto in essere, egli può da prima essere passivo al suo modo, e successivamente attivo; onde non v' è difficoltà a concepire che nel processo degli atti secondi una cotale passività preceda l' attività non solo logicamente, ma anche cronologicamente. Essendo dunque nella passività il cominciamento dell' attività dell' anima, onde nasce lo spontaneo o libero movimento del principio attivo costituente l' anima, la facoltà passiva e l' attiva, che le corrisponde, costituiscono una sola potenza, avente un solo termine, distinta però in due facoltà pel diverso modo ond' ella si esercita. Dove conviene aver presente che nell' intelletto in luogo di passività vi è ricettività , poichè il termine non è nè in tutto, nè in parte prodotto dall' attività del principio; che egli è di natura sua immutabile, inalterabile, onde fra lui e l' anima non v' è propriamente relazione di azione e passione, ma di presenza e d' intuizione. Tale è l' essere ideale; laddove il sentito riceve natura di sentito dallo stesso principio senziente, come abbiamo dichiarato, e però dal principio stesso egli è posto e costituito come tale, cioè come sentito. Si distinguono adunque le potenze come si distinguono i termini dell' anima umana, con questa sola avvertenza che i termini primieramente informano l' anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi, modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano gli atti secondi. Ora l' attività dell' anima, considerata rispettivamente a questi atti secondi, si chiama potenza . Di che deriva ciò che abbiamo altrove detto, cioè che v' è nell' anima un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alla sua natura, perchè ne mette in atto l' essenza; e vi è un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alle sue potenze, cioè alle potenze di sentire e d' intendere. Ma se la diversità dei termini è fondamento alla diversità delle potenze, noi non potremo classificare a rigor filosofico le potenze, senza indagare come i termini diversifichino specificamente fra loro. Entriamo in questa ricerca. I termini sono entità agenti nell' anima; il cercare come essi diversifichino fra loro è questione che riguarda l' ordine intrinseco dell' essere, il quale, noi abbiamo detto, non si può inventare, nè discoprire a priori, ma si deve rilevare quale egli è dall' attenta osservazione; e tanto lo conosceremo, quanto l' osservazione ci aiuta, nè un capello di più; onde dobbiamo restarci contenti a ciò che ci dà l' osservazione, se non vogliamo comporre la filosofia di vani deliramenti. Ora, tutto ciò che dall' osservazione si raccoglie circa l' ordine primitivo dell' essere, viene a questo; che qualsivoglia entità, che noi possiamo pensare, si riduce in una di queste tre categorie: 1 o ella è sentimento , oppure cosa che cade nel sentimento, per esempio la forza che immuta il sentimento; 2 o ella è idea; 3 o ella è ordine fra il sentimento e l' idea. In ciascuna delle quali categorie noi troviamo l' essere identico; e in quanto egli appartiene al sentimento, lo chiamiamo essere reale; in quanto appartiene all' idea lo chiamiamo essere ideale; in quanto appartiene all' ordine completo fra l' essere reale e l' ideale, lo chiamiamo essere morale . Riducendosi adunque a tre categorie tutte le entità possibili, forza è che anche i termini dell' anima, che sono entità, si riducano prima di tutto a questi tre modi dell' essere. Di che potremmo agevolmente scorgere che la trinità dell' anima deve apparire sì nella sua essenza , e sì nelle sue potenze; e ciò senza impedimento dell' unità, poichè in tutti questi tre modi vi è l' essere uno ed identico, non partito, ma intero. Solamente è degno di considerarsi che l' essere morale, risultando dall' unione dei due primi, nell' ordine logico sembra ai due primi posteriore. Ma è da distinguere l' ente finito dall' ente assoluto. In questo l' essere morale non è posteriore, perocchè il completamento e la perfezione è essenziale all' ente assoluto. Ogni ente finito e intelligente all' apposto è costituito dall' essere sotto forma di realità, e dall' essere sotto la forma di idealità; ma non è necessario che vi concorra attualmente l' essere sotto la forma di moralità. Tuttavia, laddove si trovano unite le due forme di realità e di idealità, non può mancare una ordinazione fra loro; perocchè l' essere sotto questi due modi tende necessariamente a completarsi e congiungersi seco stesso, facendone risultare la terza forma, che è la forma morale in atto. Donde, se negli esseri intelligenti finiti non vi è necessariamente l' ordine morale in atto, che è ciò che si dice anche bene morale , non può tuttavia mancare la potenza di conseguirlo, ed anche la tendenza , e finalmente la necessità , acciocchè sia perfetto. Dico che non può mancare la potenza, perchè questa è annessa alla compresenza dell' essere reale ed ideale; poichè l' essere reale e ideale, come termini dell' anima, suscitano in lei due potenze. Ora queste, congiunte insieme nell' unità dell' anima, fanno luogo prima ad una terza potenza, cioè alla ragione , e poi questa alla potenza morale. Perocchè la ragione congiunge l' ideale col reale, appercependo questo nel lume di quello; e quindi ella vede quale sia l' ordine dell' essere, a cui l' anima, aderendo con tutta la sua razionale attività, si fa moralmente buona, o a quell' ordine contrastando, si fa malvagia. Ma l' anima non possiede a principio questa potenza se non virtualmente, perchè ella non ha l' ordine dell' essere presente per natura, ma soltanto ha l' essere nella sua forma ideale e in parte nella sua forma reale altresì. Onde nell' anima la potenza morale è posteriore e solamente virtuale. Conviene dopo di ciò considerare in che maniera l' essere reale e l' essere ideale concorrano a costituire l' anima; perocchè non vi concorrono al modo stesso. La differenza sta qui, che l' essere reale è principio e termine dell' anima; e in quanto è principio, egli costituisce l' essenza stessa dell' anima; all' incontro l' essere ideale non è principio, ma soltanto termine; ond' egli non costituisce l' essenza dell' anima, ma concorre a produrla siccome causa formale, o, se più piace, causa della forma, in quanto suscita in essa l' atto dell' intelligenza. Dal sapere poi che l' essere reale rispetto all' anima è di due guise, cioè principio e termine, si chiarisce via meglio come si generi l' atto dell' essere morale, perocchè l' essere morale si radica nell' essere reale in quanto egli è principio, e non in quanto egli è termine; chè la moralità ha propriamente ragione di principio e non di termine, consistendo nel compiacersi che fa un intelligente dell' essere conosciuto, in quanto è essere; nel quale compiacimento consiste l' ordine compiuto fra il reale e l' ideale. Ma quest' ordine deve essere prima presentato all' uomo dalla ragione, quale oggetto della sua attività razionale, cioè della volontà, e così costituisce il termine della potenza morale. Ora l' ordine morale nasce così: L' essere reale intelligente conosce nell' ideale l' essere sotto tutte le forme, e proporzionatamente se ne compiace. Perchè se ne compiace? Perchè lo conosce, o, che è il medesimo, lo trova nell' ideale; onde per mezzo dell' ideale si compiace dell' essere, in quanto è essere sotto tutte le forme. Questo compiacersi è l' ordine morale nell' anima, è il bene. Raccogliendo ora quanto abbiamo detto in questo capitolo, intenderemo facilmente che, essendo due i termini attuati nell' anima, due altresì debbono essere le potenze primitive, cioè la sensitività e l' intelligenza; ed essendovi un terzo termine solo virtualmente compreso nei due primi, deve esservi una terza potenza virtuale, la quale è quella della moralità. Al che aggiungendo ciò che abbiamo veduto nel capitolo precedente, cioè che ogni potenza incomincia dall' essere passiva o recettiva, e passa all' essere attiva, le due potenze della sensitività e dell' intelligenza avranno ciascuna due facoltà: la facoltà passiva e la facoltà attiva. Quanto poi alla potenza morale, non avendo termine in atto, ma solo in virtù, cioè dovendosi produrre questo termine dagli atti delle altre due potenze, o, per dir meglio, dell' anima stessa razionale che le dirige; ella non può avere passività, e quindi si rimane potenza puramente attiva; giacchè la passività, che a lei si riferisce, non è altro che quella delle potenze che la producono. E` dunque necessario distinguere due sorta di potenze nell' anima, le attuali e le virtuali , intendendosi per attuali quelle, di cui l' anima reca seco il termine nella propria natura; e per virtuali quelle, di cui l' anima non reca seco stessa il termine, ma lo produce ella medesima operando. Vero è che anche le potenze che chiamiamo attuali, fino a che si stanno immerse nell' essenza dell' anima non si distinguono, unificandosi nell' unità del principio, in cui si giacciono come quiescenti; o certo almeno non si possono distinguere come potenze, il cui concetto involge una relazione a diversi generi di atti accidentali, che sono ordinate a produrre. Ma quando gli atti accidentali nascono, quando s' immuta quel termine che è già nell' anima senza cangiare la specifica sua natura, allora appariscono le potenze, che si dicono attuali. Ora, come due sono i termini propri dell' anima umana, il sentito e l' inteso , così due sono le potenze attuali e primitive, il senso e l' intelletto , dotata ciascuna di facoltà passiva ed attiva; il senso della facoltà attiva dell' istinto, l' intelletto della facoltà attiva della volontà. Ma posti nell' anima il sentito e l' inteso, in cui terminano le due potenze del senso e dell' intelletto, sorge il termine di una nuova potenza, il quale si è l' accoppiamento del sentito e dell' inteso; pel quale accoppiamento « il sentito si conosce nell' inteso », cioè nell' idea, e conseguentemente si può volere ed amare, in quanto è conosciuto; quindi una potenza derivata, che è la ragione , il cui officio è quello di apprendere l' unità dell' ente, ossia l' identità del medesimo ente nel sentito e nell' inteso, ossia nella realità e nell' idea, come pure nell' ordine suo. Ora questa potenza, benchè sia conseguente alle due prime, e perciò si possa chiamare derivata , non è tuttavia nella natura dell' uomo solamente in virtù, ma è in atto; perocchè, come abbiamo veduto, nell' anima umana vi è una prima percezione fondamentale della propria animalità, in cui consiste l' unione dell' anima intellettiva col corpo, onde risulta il composto umano; e questa prima e fondamentale percezione è l' atto primo, pel quale la ragione esiste. Ma non basta avere nell' anima il reale e l' ideale, termini del senso e dell' intelletto; non basta neppure avere il loro accoppiamento logico, termine della ragione, a far sì che sia posta in atto la potenza morale . All' esistenza di questa è uopo che almeno esista la percezione di un essere intellettivo, a cui si possa porre tanto affetto, quanto egli si merita; il che viene a dire che lo si possa stimare ed amare per sè, non quale semplice mezzo a noi stessi, il che niente vieta di fare cogli esseri bruti. Ora in questa misura giusta della nostra stima comincia la moralità. La natura poi della moralità inchiude certa relazione a tutto l' essere, perocchè ella è quell' atto che lo compie e perfeziona, e quindi non può avere per oggetto se non l' essere intelligente che ha ragione di fine, ed ha ragione di fine perchè attinge l' infinito (1). L' uomo adunque, benchè senta, non percepisce però, nè conosce per natura alcun essere intelligente, e neppure sè stesso; giacchè la propria animalità, di cui ha la naturale percezione, non è sè stesso. Il perchè gli manca il termine della potenza morale, e se lo deve procacciare coll' uso di sua ragione. Onde la potenza morale giustamente da noi si chiama non pure conseguente e derivata , ma ben anche virtuale , non trovandosi nell' umana natura se non la virtù di produrre il termine di questa potenza, e così metterla in essere. Lo stesso è a dirsi della libertà bilaterale, che consegue all' ordine morale, come abbiamo dichiarato. Lo stesso della riflessione , che suppone dinnanzi la percezione, ed è una funzione della ragione. Dal che si raccoglie che le potenze, come pure le facoltà e le funzioni, nascono l' una dall' altra, allorquando le potenze, e facoltà, e funzioni precedenti cogli atti loro accidentali danno un prodotto, che diviene termine anch' esso dell' attività dell' anima; e termine variabile, onde l' attività, che a questo suo variare si riferisce, acquista ragione di potenza, di facoltà o di funzione. E qui stimiamo opportuno, prima di dire alcuna cosa delle potenze speciali, di porre sotto gli occhi del lettore una tavola sinottica delle potenze attuali, derivate e virtuali, acciocchè egli, considerandola, se ne rappresenti il complesso, e possa più comodamente seguirci nel viaggio che siamo per fare. Uno dei termini dell' anima umana, noi abbiamo detto, è il sentito esteso. A questo termine si riferisce la sensitività corporea. Ma non è a credersi che ogni sensitività dell' umana natura finisca qui; la sensitività corporea non è che una sensitività speciale. Si richiami alla mente che l' anima ha natura di principio, il quale non si può concepire senza concepire insieme il suo termine correlativo, di maniera che un principio senza termine è un assurdo, perciò nulla. Ma se noi concepiamo il principio unito al suo termine, abbiamo tosto il concetto di cosa, che ha la sua propria esistenza distinta essenzialmente dal termine a cui va unita, e quindi che è fornita di attività sua propria. La natura di questa attività è quella di essere sentimento, onde noi abbiamo anche definita l' anima umana un sentimento sostanziale . Ora un sentimento non si può concepire senza quei due quasi poli, che noi abbiamo nominati senziente e sentito . Se dunque l' anima umana da una parte è essenzialmente sentimento, e dall' altra ha natura di principio e non di termine, conviene dire che è essenzialmente sentita come principio, e non come avente natura di termine. Ma poichè il sentito, come tale, ha natura di termine, perciò nel principio sentito s' identificano il principio ed il termine; il che viene a dire che quell' anima stessa che sente è quella che è sentita nel suo termine, sicchè il principio, nel termine sentito, diventa sentito anch' egli, il che è quanto dire, s' individua. Si debbono adunque distinguere due maniere di sentire, quella che spetta al principio del sentimento, e quella che spetta al termine. Il principio è sensibile in altra maniera da quella in cui è sensibile il termine. Ciò che si sente è propriamente il termine, ma nel termine si trova il principio; sicchè questo viene ad essere sentito unicamente perchè aderisce e giace nel termine, la cui essenza è di essere sentito. Quindi l' anima, cioè il principio, non ha già una sensibilità propria, ma mutuata dal suo termine. Eppure il suo termine, in quanto è suo termine proprio e non straniero, è prodotto da lei stessa, appunto perchè ella ne è il principio. Ma se si considera l' anima in quel momento, nel quale ella non ha ancora prodotto il suo termine, ella è cosa del tutto insensibile, e non è anima. E quantunque quel momento si possa e si debba concepire colla mente, perchè infatti appartiene all' ordine dell' essere, tuttavia sarebbe un errore il credere che quel momento fosse un istante di tempo diverso da quello, in cui l' anima è naturata e individuata per avere prodotto il suo termine. Perocchè l' anima si natura in un solo istante, di guisa che l' anima, che produce il termine, e l' anima, che ha prodotto il termine, non si dividono per alcuna mora di tempo; ma in quel medesimo istante in cui il termine è prodotto, in quello l' anima è producente; sicchè nel prodotto si sente l' anima producente. Il principio adunque dell' atto che produce, e il compimento dello stesso atto, cadono nel medesimo istante senza pausa di sorte alcuna; e tuttavia questi sono due momenti ontologici distinguibili alla mente, la quale negli enti vede un' azione intrinseca, e in questa azione un ordine, e in questo ordine un prima e un poi diverso affatto dal prima e dal poi del tempo, non cronologico in una parola, ma ontologico. Tornando dunque al nostro proposito, quando l' anima è già formata, ella sente il principio ed il termine; ma la maniera, con cui è sensibile il principio senziente, differisce oltremodo dalla maniera, in cui è sensibile il termine sentito. Poichè: Il principio senziente non è sensibile in sè come semplicemente producente, ma pel sentito e nel sentito da lui prodotto; laddove il sentito è sentito, e perciò sensibile per sua propria essenza. Il senziente è sensibile egualmente in ogni sentito, perciò si può dire senso universale; laddove vari sono i sentiti che si escludono a vicenda, la cui sensibilità può dirsi senso speciale . Il senziente come tale è sempre identico, quantunque varii il sentito; perchè, avendo natura di principio, egli è come il vertice di un angolo uno e semplice, quantunque le due linee che lo formano sieno più o meno divergenti, e più o meno lunghe. E tuttavia il senziente si sente coi suoi nessi ai diversi sentiti, e così l' anima sente le sue potenze, funzioni, facoltà, atti, ecc.. A questa maniera, con cui l' anima sente sè stessa e tutto ciò che ella fa, noi diamo il nome di sensitività psichica . Rimane che noi diciamo qualche cosa delle sensitività speciali. Nell' anima umana noi possiamo concepirne quattro, almeno come possibili, che chiameremo corporea, pneumatica, ideologica, teorica . La sensitività corporea e l' ideologica non ammettono alcun dubbio; la pneumatica e la teorica non sono egualmente evidenti a tutti. La natura della sensitività speciale esige che il sentito sia un' entità diversa da quella del senziente. Quindi in ogni sensitività speciale vi è un' alterità , cioè l' anima sente un diverso da sè. Quest' alterità è carattere comune a tutte le sensitività speciali possibili. Ma ella si manifesta in due modi, come passività e come mera ricettività . La passività si riscontra nella sensitività corporea e nella pneumatica; la ricettività nella sensitività ideologica e nella teorica . Conviene accuratamente distinguere la passività e la ricettività , che sono i due modi pei quali l' anima sente e percepisce l' alterità, cioè un' entità diversa dalla propria. Ecco il doppio carattere che le distingue: Nella ricettività la cosa ricevuta non soffre alcuna modificazione dall' anima che la riceve, perchè è immutabile; come una moneta d' oro, che si mette in una borsa, non cangia natura, nè cessa di essere quella di prima perchè fu ivi collocata. Così l' essere ideale è nell' anima umana (1). All' incontro nella passività l' entità, che agisce nell' anima, prende qualche cosa dalla natura e dall' attività del paziente, cioè dell' anima stessa, che contribuisce a dare a quell' entità il suo essere. Così l' esteso sentito riceve dall' anima l' estensione (2) e la forza straniera che lo cangia, benchè, contro la tendenza dell' anima, produce l' effetto coll' aiuto di questa, che è suscitata a terminare spontaneamente il suo atto in un' altra estensione. Nella ricettività l' anima non è, propriamente parlando, modificata, solo acquista ciò che non aveva prima. Così la borsa, in cui si mette la moneta d' oro, non cangia natura, ma la borsa vale più piena che vuota. E se pigliamo un' asta e vi attacchiamo un ferro a forma di dardo, l' asta primitiva non è cangiata, nè modificata; ma ne è uscito uno strumento nuovo, a cui si dà nuovo nome ed ha nuova virtù. E così coll' aggiungersi l' essere ideale ad un principio senziente, il principio propriamente non s' è modificato; ma acquistò quel che non aveva prima, e da anima sensitiva divenne anima razionale. All' incontro la passività modifica propriamente l' anima, come accade nel senso corporeo. Intanto, se il sentito è posto in atto dall' anima stessa, ella fa più che ricevere, opera; e l' operazione di lei si riduce al concetto generale della modificazione. Di poi quando le viene cangiato il sentito, ella ha nuovamente bisogno di concorrere a ciò, e per un poco può ripugnare; ora il ripugnare, e poi l' essere indotta ad una operazione, è già una modificazione del soggetto operante. All' essere ideale l' anima non può opporre resistenza di sorte alcuna; neppure può cooperare a formarlo; deve dunque unicamente ricevere senza più, poichè rispetto a lui, ella non è prima che egli sia venuto in essa, e però non può opporsi a lui, perchè prima di essere non può operare. Dunque niente in questo fatto interviene nell' anima che abbia natura di modificazione; ma soltanto di nuovo acquisto da parte dell' anima, e di creazione da parte di quella virtù, che pone in lei l' essere ideale. Alla passione risponde dunque il fare; alla ricezione risponde il dare . Gli Scolastici confusero talora questi due modi, il che introdusse nelle loro dottrine qualche vena di sensismo , venendo tratti a parlare dell' intelletto come fosse una potenza interamente passiva, quando è ricettiva, e quindi ad assomigliarlo troppo al senso. La sensitività corporea ha per termine l' esteso e le sue passioni e modificazioni, cioè il movimento intestino dell' esteso sentito e l' organizzazione, ossia un dato collocamento delle parti, e quindi l' armonia dei movimenti sensibili. L' esteso sentito suppone il continuo , ed un solo continuo (1); perocchè se fossero due, i due sentiti non avrebbero alcuna attinenza, nè comunicazione fra loro. E poichè dove è il sentito, ivi è il senziente, perciò anche i senzienti sarebbero due, pari ai continui, senza attinenza, nè comunicazione fra loro. Ma se le parti del continuo si muovono con certa legge, senza cessare d' essere continue, nasce l' eccitamento del senziente, e la sensazione viva rispondente al moto intestino delle parti sentite. I quali moti e le corrispondenti sensioni possono essere molti in uno stesso tempo e in luoghi diversi; e la ragione si è che essi sono congiunti dal continuo sentito unico, in cui nascono, e quindi dall' unicità e semplicità del principio senziente. L' attenzione attuale e riflessa dell' uomo si reca assai più facilmente sulle sensioni eccitate, che rispondono ai movimenti intestini locali, che non sia al sentimento universale ed uniforme di tutto il continuo; indi a noi pare di sentire contemporaneamente in più luoghi separati, quando il vero si è che sentiamo un unico esteso continuo in modo non uniforme, in certe parti di esso più vivamente e variamente, a cagione dei minimi moti, come dicevamo, che ivi si suscitano. Il sentito esteso fondamentale è limitato , ma per sè solo non è figurato , giacchè a percepire la figura è necessario distinguere le linee o le superfici, che la circondano e formano; e queste non sono distinte nel sentimento fondamentale, nè possono distinguersi se non colla percezione di qualche cosa al di là dei suoi confini (2). Ora il sentimento fondamentale non va al di là dei confini del suo esteso, e perciò neppure distingue i confini dell' esteso, oltre i quali cessa il sentimento. Per intendere la differenza che passa fra i confini segnati con una linea o superficie percepita , dai confini determinati dalla cessazione del sentimento, si può recare un esempio tolto dalla visione. Se io guardo la tavola quadrata alla quale sto scrivendo, distinguo le linee con cui la tavola finisce; e le distinguo perchè coll' occhio abbraccio anche ciò che va al di là di quelle linee, un resto della stanza. Ma se io, tenendo gli occhi aperti, voglio vedere i confini della mia visione, cioè dello specchio visivo, io non posso vederli nè precisarli, molto meno confrontare lo specchio visivo con altro spazio maggiore, perchè oltre lo specchio visivo non si estende la visione, ma cessa; onde mi è impossibile il dire che lo specchio, a cui si stende la mia visione, sia piuttosto rotondo che quadrato, o d' altra figura, se pretendo desumere questa figura dalla sola visione e non dal raziocinio. Ora poi, come le sensioni speciali nascano dall' eccitamento del sentimento fondamentale fu da noi altrove ragionato. Ma è da confessare che la filosofia non è ancora giunta a conoscere la ragione di tutte le varietà singolarissime delle sensioni, e neppure a classificarle ed enumerarle compiutamente. Noi le abbiamo distinte in figurate e non figurate . Le figurate le abbiamo anche chiamate superficiali , perchè costituiscono la superficie o parte della superficie del corpo nostro e dei corpi al nostro esteriori, quali sono quelle del tatto, della visione, ecc.. Le non figurate furono quasi dimenticate dai psicologi, con più attenzione le considerarono i fisiologi. E` necessario osservare che il sentito figurato non si sente in noi, cioè non si sente riferendolo a noi, ma si sente in sè stesso come una superficie; la quale certo non è in noi come una superficie piccola sarebbe in una grande, anzi per sè non ha luogo, o, se si vuole, ella stessa è il suo luogo. Così lo specchio visivo non è già in un altro spazio più grande di lui, poichè egli è tutto lo spazio che si vede, nè più nè meno. Il luogo, in cui sono le sensazioni, si viene adunque formando, quando si considera una parte della sensazione superficiale in relazione a tutta intera la superficie sentita; ovvero quando più superfici sentite si pongono insieme colla immaginativa, formandosene una superficie sola, se non sentita, almeno immaginata o intesa, a quel modo che abbiamo detto formarsi da noi per via di moto il concetto dello spazio illimitato (1). Ma della località delle sensioni abbiamo ragionato nell' Antropologia . Qui solamente vogliamo osservare che da questa proprietà delle sensazioni figurate e superficiali, di non avere per sè altro spazio in cui sieno che sè stesse, s' intende come il senso interiore della fantasia può riprodurle; giacchè quelle sensioni non hanno per sè rapporto locale al nostro corpo, cioè esse non ci appaiono nè come collocate alla superficie del nostro corpo, nè come collocate nell' interno del nostro corpo; ma, come dicevamo, in sè medesime. Quindi niente osta che ai movimenti, per esempio, di quella parte del nostro cervello, che è l' organo della fantasia, risponda l' apparizione d' un campanile e d' una chiesa; giacchè il sentito non è già il cervello, quale anatomicamente lo conosciamo, ma è ciò che ci apparisce; e non apparisce già nel cervello che non si vede, anzi non ha altra località che quella, che nell' immagine stessa o nella visione apparisce. Come dunque, si dirà, percepiamo noi la superficie del corpo nostro? Come sappiamo che la superficie del corpo umano, che ci apparisce, è la superficie del corpo nostro e non dell' altrui? - Certo, la sola sensione superficiale non ce lo dice; ma lo sappiamo dalla sensione superficiale in rapporto con altre sensioni; per esempio, se io sono toccato da un corpo straniero ho una sensione sola, ma se io tocco me stesso ho due sensioni, che riferisco allo stesso luogo; di che conchiudo che io non sono solamente il toccato, ma anche il toccante. Così se io vedo un corpo, e quando questo corpo è toccato da un altro corpo qualunque in un punto da me veduto, provo una sensazione tattile, conchiudo che il corpo che vedo è il mio. Ma anche di ciò più a lungo fu ragionato nell' Antropologia . Ora la ragione delle diverse maniere di sensione, come dicevo, non fu ancora investigata. Il principio generale da cui dedurla, si può nondimeno raccogliere da tutta la nostra teoria dei sentimenti corporei, ed annunziare così: « Essendo il movimento intestino che avviene nel continuo sentito, se non la causa, almeno il fenomeno extrasoggettivo correlativo alle sensioni, alla varietà nelle sensioni deve rispondere altrettanta varietà in esso movimento; e questa varietà del movimento se non è, può almeno rappresentare la ragione di quella varietà delle sensioni ». Per applicare un tal principio conviene enumerare tutte le varietà, che si possono concepire nell' intestino movimento del continuo sentito e dei vari organi; e di poi, coll' aiuto dell' esperienza, ricercare quale sia la varietà di sensione, che corrisponde a ciascuna di quelle varietà. Quest' opera appartiene ai futuri progressi della filosofia; noi, che siamo ben lontani dal poterla intraprendere, ci contenteremo di soggiungere solamente qualche cenno, che aprirà forse la via al grande studio da porsi nell' applicazione del detto principio. Il moto intestino riesce diverso primieramente, secondo che è diversa l' organizzazione. Che anzi la diversa maniera di organizzazione non solo occasiona diversità nei movimenti intestini, ma prima ancora fa luogo ad una diversità nel sentimento fondamentale, e ciò in più maniere. A ragione d' esempio, in quelle parti del corpo sensibile dove la tessitura è più fina e compatta, è mestieri che si trovi accumulato maggior sentimento fondamentale che non in altro spazio di eguale grandezza, dove la tessitura è più larga e porosa, e meno compatta. La stessa grandezza totale del corpo animale sensibile determina l' estensione del sentimento fondamentale, e questa è varia siccome quella. Il moto intestino, che produce le sensioni acquisite, varia altresì secondo che nelle diverse parti del corpo animale varia il moto intestino fondamentale, prodotto dall' istinto vitale e dall' istinto sensuale. Che anzi l' operare stesso di questi istinti riceve di nuovo la legge dall' organizzazione. Ad ogni modo si può dire che il moto intestino, che risponde alle sensioni acquisite, trova la ragione di tutte le sue variazioni in queste tre cagioni: 1 nella varia organizzazione del corpo e delle singole sue parti; 2 nella varia attività dell' istinto animale; 3 nella varietà degli stimoli suscitatori di quei moti. Ma il movimento intestino, di cui parliamo, è un fenomeno meramente extrasoggettivo? o è anche un fenomeno soggettivo? - Per rispondere con chiarezza, descriviamo il fatto. Le sensioni dei colori e dei suoni seguitano ad un tremare od oscillare del nervo ottico e del nervo acustico; questo tremare od oscillare è il movimento intestino, di cui parliamo; i colori ed i suoni sono le sensioni. Ora in queste sembra che non si percepisca punto nè poco l' oscillare o il tremare dei nervi sensorii. Dunque il movimento intestino, di cui parliamo, è fuori della sensione, non è il sentito; dunque egli è extrasoggettivo. Ma come sappiamo noi che avvenga quel tremore nel nervo ottico ed acustico? - Noi lo sappiamo per ragionamento. Tuttavia non è assurdo l' immaginare che quel tremore potesse essere materia all' osservazione esterna; e certo quando noi immaginiamo un tremare ed un oscillare, noi parliamo di cosa che conosciamo per via di osservazione esterna; poichè se nessun tremore avessimo mai veduto od esperimentato, non potremmo immaginare che tremassero i nervi della vista o dell' udito. Questo tremore, adunque, è fenomeno della natura di quelli che cadono sotto la vista e gli altri organi esteriori. Applichiamo perciò l' occhio a riguardare i movimenti oscillatorii di una molla a spira. In tal caso qui abbiamo un' altra sensione visiva, nella quale il sentito è la detta molla col suo movimento. Ma un movimento simile ad esso è appunto il movimento intestino del nervo ottico, a cui rispose la prima sensazione del colore. Ora questo movimento intestino, che rispetto alla prima sensione abbiamo veduto essere extrasoggettivo, rispetto a questa seconda sensione è divenuto soggettivo, perchè ne forma il sentito medesimo. Ogni movimento intestino adunque, a cui risponde una sensione, è cosa extrasoggettiva relativamente a quella sensione; ma può divenire stimolo ad una seconda sensione, che lo prende per suo termine. E qui è da riflettersi che circa la seconda sensione si può fare lo stesso ragionamento, che si fece circa la prima; poichè se la seconda sensione ebbe a suo termine il movimento intestino della prima, non ebbe già a suo termine il proprio movimento intestino, che può divenire termine ad una terza sensione. Così l' occhio, che vedesse il movimento frequente che fa la molla a spira accorciandosi ed allungandosi, o vedesse anche il tremore dell' altrui nervo ottico, non vedrebbe perciò il tremore suscitato nel nervo ottico del suo proprio occhio, a cui risponde la sua propria sensione. Si può dunque andare all' infinito colla serie delle sensioni, rimanendo sempre vera in generale questa proposizione, che « il movimento intestino di ciascuna sensione non è il sentito della stessa, ma può avere natura di sentito per la successiva; e però essere cosa extrasoggettiva rispetto alla prima, e soggettiva rispetto alla seconda ». Qui si deve bene considerare come il movimento possa appartenere al sentito. Il movimento nel sentito non è già un' unica e semplice sensione; è una successione di sensioni eccitate nello stesso esteso sentito. Posciachè dunque con un organo, poniamo coll' occhio, noi percepiamo un movimento, per esempio vediamo cadere una stella filante, è necessario supporre che il nostro organo sia organizzato di un complesso di parti, ciascuna delle quali si possa muovere liberamente indipendente dall' altra, e così egli sia quasi un complesso di organi distinti. Tale infatti noi abbiamo descritta la costruzione del nervo ottico, non come un nervo solo, ma come un fascicolo di filamenti, quasi piccoli tubi, ciascuno dei quali può tremare dentro e fuori con diversa frequenza, e così occasionare un diverso colore e diversi colori successivi, secondo i successivi tremori dei vari filamenti (1). Ed ecco come la diversa organizzazione rende diversa la maniera di sentire, giacchè se l' occhio non fosse così fabbricato, che i minutissimi fili componenti il cordone non si potessero muovere ciascuno a parte con proprio moto, ma si dovessero muovere tutti insieme con uno stesso metro e nello stesso tempo, non si avrebbero le varietà dei colori, nè la sensazione del movimento. I vari colori e i vari suoni rispondono al numero dei tremiti o delle oscillazioni dei nervi, che a loro presiedono. Ora è chiaro che la prontezza e celerità, colla quale si muovono alcune parti del corpo nostro più che altre, dipende: 1 dalla loro organizzazione speciale, che contribuisce a renderle più pronte e celeri al moto; 2 dall' attività maggiore dell' istinto animale, che in esse si manifesta. Onde, di nuovo, la diversa organizzazione e la diversa azione conseguente dell' istinto rappresentano la ragione dei diversi sensorii. Ma quale rapporto ha mai il numero dei tremiti con la sensazione del suono, quale similitudine? - Nessuna; e perciò dicemmo che quello è un fenomeno extrasoggettivo rispetto a questo, che è soggettivo, d' indole tutta diversa. Pure, se si ammette che il sentimento sia annesso agli atomi della materia, non è più difficile il concepire che il movimento intestino, che non toglie la continuità, debba non già spostare il sentito, perchè ha per natura d' esser continuo e però senza parti sensibili, bensì alterarlo, producendovi quella eccitazione, che altrove abbiamo descritta, e che dipende dalle primitive leggi dell' istinto vitale, la cui ragione ultima si perde nell' abisso della creazione. La grandezza adunque del corpo sensibile, la sua forma, la forma dei singoli organi, la diversità dei tessuti, la diversità delle molecole le une incartocciate nelle altre, e quindi di ordini diversi sempre più intimi, la loro diversa minutezza, la diversa loro figura, i loro diversi contatti, la loro speciale mobilità, le varie direzioni in cui si muovono, la comunicazione varia del loro moto, il moto più o meno propagabile, la celerità e frequenza dei movimenti, ed altre simili varietà che si possono riscontrare nei corpi animali e nelle loro parti, sono le circostanze che vanno studiate in relazione alle varie maniere di sensioni, e ai modi e gradi che in ogni maniera si riscontrano; le quali circostanze rappresentano la ragione di tutte queste varietà e modificazioni. La seconda sensitività speciale, da noi distinta, fu quella che chiamammo sensitività pneumatica . Intendiamo per questa specie la facoltà di sentire gli spiriti altrui, o di ricevere da essi un sentimento, che ce li rappresenti. Questa facoltà è così poco studiata che sembrerà quasi cosa nuova; tuttavia l' osservazione mi rende probabile la sua esistenza. E` però da osservarsi che, essendo l' uomo un essere misto, la sensitività sua non può mai avere a termine immediato uno spirito puro; ma io credo che un' anima senta l' altrui anima od altro spirito coll' intermezzo del corpo e nel corpo. Infatti è certo che un corpo animato dà sensioni d' indole affatto diversa da quelle che dà un corpo inanimato. Io mi ricordo di aver letto in qualche opera del Conte de Maistre un tratto eloquente e assai fine su quel misterioso e recondito, che è nel bacio e nei sentimenti che esso produce. Pare che in tali comunicazioni vi sia qualche cosa di vivo e di spirituale, che non si possa attribuire alla sola materia. Nell' amore e nell' amicizia sembra che, nell' affezione e nell' unione dei corpi, le due anime stesse si sentano e si comunichino. Anche mi pare che questa comunicazione spirituale non si debba restringere fra esseri della stessa natura; gli angeli stessi potrebbero in qualche maniera rendersi sensibili agli uomini, operando nei corpi in modo loro conveniente. L' argomento è fecondo e meriterebbe di essere accuratamente studiato. Lasciandolo noi all' investigazione dei filosofi che ci succederanno, vogliamo qui arrestarci un poco a considerare che merito abbiano i lavori di Gall e Spurzheim, al lume delle cose fin qui ragionate. Il principio, onde muove la dottrina dei mentovati fisiologi, si è che « il cervello non è un organo unico, nel quale nascano tutte le operazioni dell' intendimento, ma un complesso di sistemi nervosi, ossia di organi distinti, a ciascuno dei quali appartenga la produzione d' una speciale facoltà ». In questo principio e nella dottrina che ne derivano i loro autori, conviene distinguere una parte vera, che rimane solida base alla frenologia, ed una parte falsa, associata con essa dall' ignoranza delle più importanti ed evidenti verità psicologiche. Le osservazioni, a cui appellano i detti autori, suffragano alla parte vera; la parte falsa che le associano, lungi dall' essere il risultato di accurate osservazioni sulla forma del cervello e delle sue parti, altro non è che il prodotto della immaginazione e dell' arbitrio, che s' intromette di continuo nei lavori di questa classe di studiosi della natura. Ecco a che si riduce la parte vera. L' anima è un principio unico, ma ella ha più termini. Uno di essi è l' esteso, che suscita nell' anima la sensitività corporea in generale. Ora è un fatto che in questo termine esteso si distinguono varii organi, i quali sono cagione che la sensitività corporea variamente modificata si sparta in diversi modi di sentire, che si considerano poi come altrettante facoltà. Quindi niente vieta che il cervello, considerato prima come un organo solo, si riconosca essere un aggregato di varii organi, ciascuno dei quali presieda ad un ramo della sensitività corporea, purchè non si creda che ciascun organo sia indipendente dagli altri, che sia un esteso continuo dagli altri diviso; giacchè è cosa indubitabile, come abbiamo veduto, che il termine di un' anima è un continuo solo, le cui parti sono variamente organate, e si muovono con tanta armonia che al movimento speciale d' una di esse concorrono tutte le altre. Questo e non altro può essere il fondamento della Frenologia , e quindi appariscono gli errori che vi hanno mescolato Gall, Spurzheim ed altri frenologi; i quali errori sono principalmente i seguenti: I errore . - Essi confondono l' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza. Le funzioni dei diversi organi, di cui si compone il cervello, possono riguardarsi come altrettante facoltà della sensitività, non mai dell' intelligenza. Ciò che produsse questa confusione si fu che, prestando la sensitività materia all' intelligenza, per ogni ramo nuovo di sensitività si spiega in un modo nuovo l' intelligenza, ricevendo nuova materia. II errore . - Essi non avvertono, o per dir meglio, taluno d' essi non avverte che, anche stando nell' ordine della sensitività, questa potenza non è produzione del mero organo, il quale non è altro che il termine del principio senziente, che si chiama anima; e la potenza di sentire nasce dall' unione del principio e del termine, dell' anima e dell' organo, e non da quest' ultimo solamente; anzi la potenza è del principio e non del termine, dell' anima, non dell' organo; perocchè il principio è il soggetto di tutti gli atti della potenza, e però della potenza stessa. III errore . - Da questa seconda confusione dell' organo col principio senziente, associata coll' altra confusione dell' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza, scaturì il falso concetto che si fecero alcuni frenologi dell' intendimento umano. Essi pretesero che come il cervello è un aggregato di organi, così l' intendimento umano fosse il complesso di una moltitudine di atti differentissimi. Se avessero attentamente considerato che colui che intende, benchè faccia molti e vari atti, è sempre il medesimo soggetto, essi avrebbero riconosciuto l' unità e la semplicità dell' intelligenza, come facoltà d' un soggetto unico e semplicissimo. L' intendimento fa bensì molti atti e grandemente diversi fra loro, ma egli non è l' aggregato dei propri atti; ne è l' autore, la causa, il principio unico, ai quali logicamente e, rispetto ai più, anche cronologicamente è anteriore. IV errore . - Quindi può conoscersi quanto sia insulso il vanto che cotesti fisiologi si danno, di avere notomizzata l' intelligenza, parendo loro che col portare il coltello sulla massa encefalica, l' abbiano proprio inserito nell' intelligenza stessa! E` poi chiaro che tali fisiologi, i quali confondono le cose più disparate, non possono essere atti a formare una retta classificazione delle facoltà dello spirito umano. Onde quando Spurzheim, per esempio, divide le facoltà dell' anima e dello spirito in affettive ed intellettive , egli non s' accorge che vi sono delle facoltà affettive, che sono intellettive; perocchè il soggetto intelligente ha degli affetti, che gli vengono dall' intelligenza. Quando poi, dopo aver diviso le facoltà affettive in inclinazioni ed in sentimenti , riduce le inclinazioni al numero preciso di nove, che, con vocaboli da fare spiritare i cani, chiama l' abitavità , l' affezionività , la combattività , la distruttività , la construttività , la mangiatività , e la secretività , e vuol dire l' inclinazione ad abitare, ad affezionarsi, a combattere, a distruggere, a costruire, a cibare, a segregare umori; egli dimentica tutte le inclinazioni intellettive e morali. Di più, egli non annovera le inclinazioni primitive dell' anima, ma solamente alcuni effetti , che vengono prodotti nell' animale dal concorso di molte inclinazioni e facoltà primitive. A ragion d' esempio, l' inclinazione ad avere un' abitazione e a fabbricarsela non è una facoltà primitiva, ma è il risultato di vari bisogni che sente l' animale, ai quali si muove istintivamente a soddisfare; e così può dirsi di ognuna di quelle inclinazioni. Venendo ai sentimenti dell' anima, Spurzheim pretende che sieno dodici in punto, quattro dei quali comuni all' uomo e alle bestie, e sono quelli dell' amor proprio , dell' approvazione , della circospezione e della benevolenza . Ma egli non s' avvede che in questi quattro sentimenti ha luogo l' intelligenza, e però al solo uomo convengono; laddove nelle bestie vi sono bensì delle affezioni corrispondenti, che simulano questi affetti, ma sono veramente tutt' altro. Ora appartiene pure alla sagacità del filosofo rilevarne la profonda ed essenziale distinzione, senza lasciarsi così grossamente illudere dall' apparente somiglianza fenomenale. Gli otto sentimenti propri dell' uomo, secondo il medesimo autore, sono quelli della venerazione , della speranza , della soprannaturalità , della giustizia; dai quali egli fa derivare le nozioni religiose e morali della perseveranza , dell' arguzia , ossia del motteggio, dell' idealità e dell' imitazione. Ma oltrechè questi sentimenti non sono gli unici, anch' essi sono tutt' altro che sentimenti primitivi; sono per lo più risultanti dall' uso di più facoltà primitive, loro produzioni ed effetti. Così l' uomo arguto e motteggiatore non trae il suo spirito arguto che da un certo temperamento e da una certa mistura di varie facoltà. S' aggiunga che qualcuno di essi, come l' imitazione , è un istinto manifestamente comune agli animali bruti, e più che in ogni altro essere manifesta la sua forza nelle scimmie (1). La stessa imperfezione si scorge nella classificazione delle facoltà intellettive, che lo Spurzheim divide in tre ordini: 1 le funzioni dei sensi esterni; 2 le facoltà percettive; 3 le facoltà riflessive . Ora le prime non appartengono all' intelligenza, ma alla sensitività corporea, che è tutt' altro. Egli divide le facoltà percettive in due gruppi, nel primo dei quali colloca quelle che riguardano la percezione degli individui , nel secondo quelle che riguardano la percezione delle relazioni degli oggetti e loro fenomeni. Mette dunque nel primo gruppo le facoltà dell' individualità , della configurazione , dell' estensione , del peso e del colorito . Ma queste cose, separate le une dalle altre appartengono all' astrazione e non alla percezione, la quale si riferisce sempre all' oggetto fornito di tutte le sue proprietà percettibili, secondo la natura delle diverse percezioni. Nel secondo gruppo egli colloca le facoltà del luogo , del numero , dell' ordine , dei fenomeni , del tempo , della melodia e del linguaggio artificiale; le quali, lungi dall' appartenere alla mera percezione, sono anch' esse altrettante funzioni dell' astrazione e del ragionamento, effetti di più facoltà primitive e secondarie, che operano e cospirano insieme a produrli. A ragion d' esempio, la facoltà del linguaggio, lungi dall' essere una facoltà primitiva, è un effetto oltremodo complesso di quasi tutte le facoltà umane, sieno quelle dei sensi esterni o quelle dell' istinto animale, sieno quelle del giudizio, del raziocinio, ecc.. Il terzo ordine delle facoltà intellettive, che è quello della riflessione, viene diviso da Spurzheim nelle sole facoltà del paragone e della causalità . Ogni filosofo, che abbia un po' meditato sullo spirito umano, può conoscere agevolmente l' insufficienza d' una tale classificazione. Oltre a ciò non esiste una facoltà primitiva della causalità, ma solo una legge ontologica, a cui ubbidisce l' intelletto, che cerca la causa di ogni contingente. Conviene adunque conchiudere: Che il cervello è un aggregato di vari organi, ma insieme armonicamente connessi in un solo continuo. Che ciascuno di essi ha delle funzioni speciali, ma solo nell' ordine della sensitività. Che nell' uomo alle diverse funzioni della sensitività corporea e al loro diverso sviluppo risponde un diverso sviluppo d' intelligenza, la quale riceve dalla sensitività la materia di sue operazioni; ma che nulla di ciò avviene nelle bestie, alle quali non è data intelligenza alcuna, ma una sensitività che simula coi suoi effetti istintivi l' intelligenza. Che le diverse funzioni della sensitività corporea, che rispondono ai diversi organi del cervello, sono funzioni primitive ed immediate, quali sono quelle del vedere, dell' udire, dell' assaporare, ecc.; alle quali succedono corrispondenti facoltà attive, come, a ragion d' esempio, alla funzione dell' udito la facoltà dei suoni vocali (non quella del linguaggio, che appartiene all' intelligenza). L' enumerazione accurata di queste funzioni primitive e immediate della sensitività corporea in relazione cogli organi del cervello, è appunto ciò che rimane a fare al frenologo. Questo lavoro è appena abbozzato; pochissime sono le proposizioni provate fino ad ora coll' osservazione, e, per indicarne una che pare ridotta a grande probabilità, citerò quella di Gall che « il cervelletto sia l' organo dell' amore fisico ». L' amore fisico infatti è una funzione primitiva della sensitività corporea. Non basta; quando si dice che un organo presiede a una funzione o a un ramo della sensitività, conviene guardarsi dal credere che egli solo basti a produrre le sensioni corrispondenti; anzi se si separa dagli altri organi, non si ha più l' effetto. Conviene adunque che il frenologo stabilisca oltracciò, moltiplicando le osservazioni e i più sagaci esperimenti, la connessione necessaria che ciascun organo ha cogli altri acciocchè possa produrre l' effetto; e più generalmente conviene che stabilisca non tanto quale sia l' organo di una data funzione della sensitività, quanto « quale sia l' apparato di organi, che è ordinato a produrla ». Di più, dopo avere dimostrato quale è l' organo speciale delle funzioni, quale l' apparato di organi che concorre a produrre effettivamente l' effetto, conviene che ricerchi finalmente: « quale sia la connessione di ogni apparato con tutto il sistema nervoso e con tutta intera la fabbrica dell' animale ». Ecco davvero un gran campo coltivato bensì dai moderni fisiologi, donde si potranno tuttavia cogliere ancora nuovi ed abbondanti frutti di solide cognizioni. La terza specie di sensitività è l' ideologica. Noi siamo consapevoli d' intuire le idee. Ora non potremmo essere consapevoli di questa nostra intuizione, se non sentissimo che siamo noi gli intuenti. Noi dunque abbiamo il sentimento di noi stessi come intuenti. Sembrerà che questa maniera di sentire si confonda colla sensitività psichica; e si può veramente concepire come un ramo di questa. Perocchè nell' una e nell' altra l' anima sente come principio; ma in quella che abbiamo chiamata psichica, l' anima sente come principio nel termine esteso , nell' ideologica sente nell' idea; giacchè i due termini dell' anima sono l' esteso e l' idea, e il principio sente nel termine. Laonde i termini essendo due, di natura disgiuntissima, il principio medesimo ha un doppio sentimento. Dove è da notarsi che il sentimento che ha l' anima, in quanto termina nell' idea, è un sentimento oggettivato, sicchè l' anima, che pure è soggetto, sente sè stessa oggettivamente, quasi perdendo nella pura intuizione la sua propria individualità. Dove giace il misterioso punto di congiunzione fra l' ordine soggettivo e l' oggettivo, fra il senso e l' intelligenza; di che ci promettiamo di poter parlare più compiutamente nella Teosofia . L' idea stessa non è tuttavia il proprio termine della sensitività ideologica, poichè ella è solo il termine dell' intuizione . La differenza fra il termine proprio del sentimento e dell' intuizione è capitale. Il termine proprio del sentimento deve essere qualche cosa che appartiene al senziente; il termine dell' intuizione è qualche cosa che s' intuisce come un diverso dal senziente, qualche cosa che è puramente in sè. Ora l' anima, che vede l' idea, sente sè stessa nell' essere ideale; e questa è la speciale sensitività ideologica, di cui parliamo. L' anima poi col sentirsi in possesso dell' idea si sente intelligente, nobilitata, e piglia un istinto intellettuale e razionale , che è la parte attiva della sensitività ideologica. Finalmente io chiamo sensitività teorica quella che Iddio produce nell' anima col darlesi a percepire. Iddio non si concede ad altra potenza che a quella dell' intelletto, qualora questa potenza si definisca in generale « la potenza dell' essere ». Questa sola ha una capacità infinita, perchè l' essere è infinito (1). Abbiamo veduto che l' essere è uno, ma in tre forme. Quindi se la potenza dell' intelletto si considera rispetto all' essere, anch' ella è una; ma se la si considera rispetto alle forme, ella pure veste tre forme, apparisce come tre potenze. Sotto la forma ideale, l' essere intuìto è il lume dell' anima, e a questa solamente si riferisce l' intelletto naturale all' uomo, che anche chiamiamo spesso intelletto semplicemente. Sotto la forma reale, l' essere contingente è limitato, non è l' essere ideale infinito realizzato. Ora, separato dall' essere ideale che è il lume, egli si rimane oscuro, non è più oggetto di alcuna potenza intellettiva. Ma unito al lume, unito all' essere ideale, anche l' essere reale si rende conoscibile, e diviene oggetto della potenza speciale della ragione . Ed appunto perchè il contingente reale non è conoscibile per sè stesso, ma ha bisogno che gli sia applicato l' essere ideale da un atto intelligente, perciò l' apprensione dell' essere reale contingente non si attribuisce alla semplice potenza dell' intelletto, ma a quella della ragione. All' incontro, se l' essere ideale infinito si manifesta realizzato, allora l' intelletto apprende lo stesso essere infinito anche come reale, indivisibile per sua natura dall' ideale, e se ne ha la percezione di Dio, che non si può avere per natura, come sognando asseriscono gli antichi e i moderni platonici. Ora questo, considerato rispettivamente alla realità, è un senso intellettuale7soprannaturale. Si dirà: come si possono avverare rispetto a Dio le due condizioni del senso, che l' agente resta mutato e che l' anima pure s' immuti? Rispondo: Iddio non è mutabile, in sè stesso niente egli patisce dall' anima a cui si comunica. Non di meno è da considerarsi che l' anima non comprende totalmente Iddio; perciò altro è Dio in sè stesso, illimitato, incomprensibile, altro è quella misura o grado qualitativo, nel quale la realità di Dio si comunica all' anima. Questo grado qualitativo è determinato dall' anima stessa, che colla sua limitazione lo forma; la limitazione poi viene dalla misura limitata nella quale Iddio si comunica. Onde si può dire che Iddio in quanto è limitatamente percepito dall' anima, in tanto viene limitato dall' anima, che ne è come il recipiente; misura o limite, che non cade punto nello stesso Dio, ma nel rapporto di connessione fra Dio e l' anima, pel quale Iddio si fa oggetto prossimo e immediato della percezione. Quanto poi alla modificazione che riceve l' anima dalla realità di Dio a lei comunicata, ella nasce dall' azione della realità di Dio nell' anima, a cui conseguono altri meravigliosi effetti. Poichè l' oggetto dell' intelletto è naturale scopo all' affetto razionale, che sta in seno alla natura umana, e della volizione primitiva, che tende al bene in universale. Onde conviene che l' affetto e la volontà, trovando un tanto oggetto, si rinforzino, si sublimino, si trasnaturino; e che l' anima riceva una potenza tanto diversa dalle altre, quanto è diverso Iddio dagli altri oggetti, cioè infinitamente. Questo è ciò che i teologi chiamano lume di grazia e di gloria . Poichè, come ogni termine specificatamente diverso suscita una nuova potenza, così è uopo che ne susciti una nuovissima quell' oggetto, che differisce da tutti gli altri non solo di specie, di genere, di categoria, ma addirittura di essere. L' intelletto umano, adunque, colla percezione della divina sostanza mantiene bensì la stessa radice, ma riceve una nuova attività, più diversa da quella che aveva prima, che non sia una potenza qualunque da qualunque altra. E qui non è tanto difficile lo spiegare come l' anima possa ricevere l' azione della divina essenza, quanto come la divina essenza possa agire nell' anima. Ma a noi basterà dire in generale che Iddio agisce nelle creature a quel modo che le creature sono in lui; perocchè è scritto che [...OMISSIS...] . Onde per agire nelle creature egli non ha bisogno di uscire colla sua azione da sè stesso. Perocchè quell' azione, che in Dio è la divina essenza, niente vieta che fuori di Dio rechi un effetto limitato. Conciossiachè le nature contingenti hanno un' esistenza relativa a sè stesse, nè Iddio, creandole od operando in esse, toglie la loro soggettività ed individualità, anzi la forma. Ora quell' atto che non distrugge i soggetti e gli individui, ma che dopo averli creati dà loro ciò che vuole, non ha mestieri d' essere limitato in sè stesso, come è limitato nel suo termine relativo. Ma questo è argomento, che appartiene alla Teologia; e noi avremo occasione di parlarne, a Dio piacendo, nella Teosofia . Ora, dopo aver noi parlato del senso dell' anima come potenza passiva, dovremmo parlare di lui come potenza attiva, cioè dell' istinto; ma ci vien meglio rimettere questa trattazione a quel libro, che espone le leggi che presiedono all' attività dell' anima, per non ripetere più volte le stesse cose. L' intelletto, in generale, è la potenza dell' essere come essere, ossia dell' essenza dell' essere. A nessun intelletto creato è naturale l' apprendere l' essenza dell' essere sotto la forma reale, bensì sotto l' ideale. L' essere nella sua trina forma non è noto naturalmente che a sè stesso. Dell' intelletto umano, in quanto è formato dall' essere ideale, ragiona a sufficienza l' Ideologia . In quanto poi gli è dato l' essere nella sua forma reale, è divenuto potenza soprannaturale, di cui tratta l' Antropologia soprannaturale . Che se si considera che nell' intelletto, a cui l' essere sia comunicato anche sotto la forma reale, deve trovarsi quella perfetta armonia e reciproca convenienza fra l' essere ideale e il reale, che costituisce l' essere morale, avente ragione di compimento, di perfezione, di bene; nasce un terzo rispetto, sotto cui si può considerare l' umano intelletto od ogni altro quale si voglia; la cui trattazione compiuta spetta all' Agatologia . Noi qui toccheremo una questione importante. Abbiamo detto, in qualche luogo, non essere assurdo che si concepisca un soggetto meramente intellettivo, non affettivo o volitivo; il che è vero, se si considera la cosa da parte del soggetto. Si avrà nondimeno una conclusione contraria, se la si riguarda da parte dell' oggetto. Di vero l' essere ha questo di essenziale, di essere bene; perciò egli non può essere conosciuto se non come bene. Il conoscerlo poi come bene importa un affetto o inclinazione a lui. Come dunque l' essere nella sua condizione di lume crea l' intelletto, quasi causa formale dell' anima (o, se meglio si vuole, causa della causa formale, causa dell' illuminazione dell' anima), così lo stesso essere nella sua condizione essenziale di bene crea la volontà primitiva, come causa finale che attua il primo affetto, la prima volizione volta all' essere in universale. E come l' intelletto è la potenza ricettiva, così la volontà è la potenza attiva che gli corrisponde. Ora, posciachè l' intelletto ha per oggetto essenziale l' essere ideale, il quale è in sè stesso immutabile, perciò esso non è suscettivo di alcuno sviluppo; ed ha natura piuttosto di atto immanente che di potenza . Solamente può essere perfezionato, accresciuto, sublimato coll' ordine soprannaturale, a quel modo che dicemmo, svelandosi l' essere essenziale nella sua realità. Vero è che l' essere ideale s' intuisce anche variamente determinato e limitato; e perciò gli Scolastici attribuiscono all' intelletto l' intuizione di queste idee, e così gli danno uno sviluppo. E dove la cosa sia prima chiara, niente vieta che si adoperi la parola intelletto a significare in generale « la potenza di intuire le idee ». Qualora però si consideri che la determinazione e la limitazione dell' essere ideale non si può avere senza la percezione delle realità contingenti e i vestigi di lei che rimangono nell' anima, si vedrà esser più esatto l' attribuire alla ragione anche l' intuizione delle idee determinate, come quella che non è intuizione semplice, ma contiene nel suo seno l' applicazione dell' essere ideale alla realità, opera della ragione. Allo stesso modo si può dire che la volontà primitiva ed universale non ha ragione di potenza, ma di atto immanente, principio e base della potenza; onde meglio che volontà primitiva a noi pare di doverla chiamare volizione primitiva. Per queste ragioni non aggiungiamo qui la tavola sinottica della potenza dell' intelletto. La potenza della ragione risulta nell' anima, principio comune del senso e dell' intelletto, quale conseguenza del sentito e dell' inteso, poichè lo stesso principio comune li unisce nell' unione percettiva , che è quella per la quale esso principio comune apprende il reale nell' ideale come nella sua essenza. Di che si trae che la potenza della ragione piuttosto che soggettiva è il soggetto stesso operante, al quale però l' idea prescrive la legge. Si trae ancora che la ragione, quanto all' ordine logico, è una potenza posteriore alle due potenze del senso e dell' intelletto, da cui risulta; non però quanto all' ordine cronologico, perocchè tosto che è l' uomo, è la ragione; il che si prova così. L' uomo è un soggetto unico composto di anima intellettiva e di corpo animale. Ma l' unione dell' anima intellettiva col corpo animale si fa per via d' una prima ed immanente percezione. Ora la prima e immanente percezione è l' atto primo della ragione, quell' atto pel quale la ragione esiste. Dunque l' esistenza dell' uomo e l' esistenza della ragione sono contemporanee. Che se la ragione è tostochè esiste l' uomo, e se prima che esista l' uomo, non esiste nè il senso corporeo, nè l' intelligenza, dunque queste facoltà primitive non sono nell' uomo anteriori di tempo all' esistenza della ragione, benchè questa risulti da quelle quasi come una conseguenza dai suoi principŒ. Vero è che il senso, o, per dir meglio, l' animale può esistere innanzi all' uomo; ma perciò appunto noi parliamo del senso e dell' intelligenza, in quanto sono propri dell' uomo. Come poi si dia priorità nell' ordine logico, senza che ne consegua necessariamente priorità di tempo, merita d' essere considerato dal filosofo. Ne abbiamo più esempi: per addurne uno dei più degni d' attenzione, accenneremo quello del sillogismo, dove l' unione dei due primi termini, ossia la conseguenza, non è posteriore ad essi di tempo nell' umana mente, benchè risulti da essi. Infatti, finchè la mente non vide il rapporto dei due termini, non c' è ancora sillogismo, nè il primo termine si può chiamar primo, nè il secondo secondo, nè c' è maggiore o minore; e tostochè ella vide la conseguenza, trovò altresì incontanente che una nozione è primo termine e un' altra è secondo; e così trovò la maggiore e la minore. Lo stesso accade, se vogliamo discendere a un caso particolare, nella percezione dei corpi, la quale, benchè paia fatta per un cotal ragionamento, pure è del tutto immediata (1), perchè ella stessa forma il suo oggetto (2). Dal qual vero importante, che « in un medesimo ente vi sono elementi che tengono fra loro una relazione di priorità e di posteriorità, e non tuttavia alcuna priorità e posteriorità di tempo », nasce un bellissimo principio ontologico, cioè che « nel seno dell' ente vi è un' azione continua, immanente »; col quale principio si riforma e corregge il concetto volgare dell' ente; poichè l' uomo, pigliandone sempre l' esempio dalla materia, suol concepire l' ente come cosa immobile e morta, non sapendo egli immaginarsi altra azione che quella del movimento locale e dell' atto transeunte. Ora qui non trattasi di azione che passa e che si fa per parti, benchè una parte sia passata e l' altra debba avvenire; ma v' è nel seno all' ente un' azione che si fa tutta continuamente, per la quale si mette in essere lo stesso ente e lo si fa permanere; onde, se non fosse fatta tutta, l' ente non sarebbe, e se non fosse continua, non permarrebbe, e tuttavia ella ha in sè un suo proprio ordine, analogo a quello della successione delle cose nel tempo, alla quale si potrebbe applicare cogli Scolastici l' appellazione di evo . Dal qual fatto deve prendersi anche la spiegazione della memoria, che suppone che ciò che è successivo in sè stesso diventi contemporaneo, rimanendo presente tutta la successione, nella quale stava il tempo. E la memoria è facoltà della ragione, perchè non potrebbe esistere senza che qualche sentimento non segnasse nell' essere ideale le entità particolari successive. Ma sulla memoria dovremo tornare in appresso, quando parleremo dell' unità dell' uomo, e del modo onde da quella unità escono le sue attività molteplici. Il fine adunque, a cui è ordinata la potenza della ragione, si è quello di mettere l' essere intelligente in comunicazione colla realità delle cose. Infatti l' uomo, in quanto è intelligente, per natura sua non comunica che coll' idealità, che costituisce il lume dell' intelligenza. La realità poi o è infinita e necessaria, o è finita e contingente. Nella pura idealità non si trova nè la realità infinita, nè la realità finita; perciò l' intelligente, che intuisce l' idealità pura, non comunica per sua natura con niuna realità. La realità dunque deve essere data all' intelligenza umana, perchè non è a questa essenziale. Ma come le può esser data? La realità infinita, Iddio, non le può venire che da una graziosa comunicazione di Dio stesso; e se le vien data, ella è intelligibile per sè stessa, giacchè è la stessa essenza dell' essere ideale7reale. Dunque ella non ha bisogno d' altra potenza per essere intesa che del solo intelletto, che intuisce l' idealità; solamente che questo viene perfezionato e sublimato, reso percettore dell' assoluta realità. La realità finita e contingente non è intelligibile per sè stessa, perchè è priva dell' essenza dell' essere. Affinchè adunque la realità finita si comunichi all' intelligenza, conviene che l' intelligenza stessa la renda intelligibile. Ora con questa operazione, che fa l' intelligenza, si costituisce una potenza nuova diversa dall' intelletto, la quale si chiama ragione . Di vero, altro è intuire ciò che è intelligibile, e altro rendere intelligibile ciò che intelligibile non è. Queste sono due maniere di atti specificamente diversi, di cui sono specificamente diversi gli oggetti formali. Ora le potenze si distinguono secondo la distinzione degli atti e dei termini formali. Dunque la ragione è potenza diversa dall' intelletto. Come poi la realità contingente, che non è l' essenza dell' essere, possa rendersi intelligibile, noi l' abbiamo svolto altrove. Ma ricapitolando diremo: Che la prima condizione a rendere intelligibile la realità contingente si è che questa sia accessibile all' essere intellettivo. La seconda, che l' essere intellettivo aggiunga alla realità l' idealità, cioè l' essenza, di queste due cose costituendo un ente, oggetto dell' intendimento. Ma quando e come può accadere che la realità contingente diventi accessibile all' ente intellettivo? - La realità accessibile all' ente intellettivo è la realità dell' ente stesso intellettivo, poichè questo è un reale. Che poi la realità dell' ente intellettivo debba riuscire accessibile a sè stesso è manifesto, poichè non è lungi da lui, ma è lui stesso. E questa realità non è morta, ma viva, perchè è sentimento. Onde il dire che un ente intuisce l' essere ideale viene quanto a dire che un sentimento è congiunto all' essere ideale. Il sentimento, dunque, e l' essere ideale sono congiunti per natura, e costituiscono un unico intelligente. Ma l' essere ideale è l' intelligibilità stessa di tutte le cose. Dunque il sentimento è reso intelligibile per l' intima unione che ha coll' intelligibilità, fondata in natura; unione tale che di lui e della sua intelligibilità risulta un solo ente, il quale dicesi intellettivo. E qui si debbono fare diverse considerazioni. Primieramente io diceva che la realità dell' essere intellettivo è un sentimento. Non si creda che da ciò nasca che l' essere intellettivo non possa percepire altro che la realità propria. Poichè, quantunque sia vero che « la percezione intellettiva non si estende fuori del sentimento proprio », tuttavia è evidente che deve abbracciare anche tutte le modificazioni di questo sentimento; e di più non è a dimenticarsi quell' osservazione ontologica, da noi fatta di frequente, che l' azione di un ente si manifesta in un altro ente, senza confondersi coll' azione dell' ente in cui si manifesta; onde avviene la distinzione dei due concetti di attività e di passività. Se dunque accade che nel nostro sentimento proprio si manifesti l' azione di un altro ente, forza è che noi percepiamo anche questo altro ente percependone l' azione, appunto per la ragione che percepiamo il nostro proprio sentimento e quanto accade in esso. Nè osta il dire che il percepire l' azione d' un ente non è il percepire l' ente, attesa la legge immutabile della percezione che « non si percepiscono le azioni degli enti, senza concepire gli enti a cui appartengono ». Che anzi, propriamente parlando, « altro mai non si concepisce ed intende che l' ente e ciò che nell' ente accade », poichè il solo ente è oggetto dell' intelligenza. Ed è perciò appunto che le realità contingenti non sono intelligibili per sè stesse, perchè non sono enti, ma sono azioni di un altro ente o, se si vuol meglio, termini delle sue azioni; di maniera che lo stesso sentimento nostro sostanziale non è ente per sè, ma è propriamente il termine dell' azione di un ente che ci rimane nascosto. Onde anche per intendere questo nostro sentimento, come pure tutte le realità contingenti che cadono in esso, noi dobbiamo supplirvi l' ente con un atto della nostra intelligenza, ed è così che noi le completiamo e le rendiamo intelligibili. Similmente le azioni che fanno in noi gli enti diversi da noi, noi le intendiamo coll' aggiungervi l' ente, cioè unendole ad un ente di cui sono azioni. In secondo luogo si scorge dallo stesso principio, onde nasca l' autorità, che ha presso ogni uomo la deposizione della propria coscienza . Questa non è, a dir vero, la prima percezione intellettiva del proprio sentimento, ma è la riflessione su questa e sulle altre percezioni. Ora, se colla prima e naturale percezione l' uomo conosce la propria animalità, colla percezione della percezione, ossia colla percezione del percipiente che è la prima riflessione, l' uomo rende intelligibile e percepisce sè stesso come intelligente, fino a formarsi l' io nel modo che abbiamo descritto. Ma se la prima percezione non fosse naturale, e in essa non si fondassero le altre percezioni, che l' uomo acquista successivamente di sè modificato, le deposizioni della coscienza non avrebbero quell' autorità che hanno in tutti gli uomini; i quali sono persuasi che esse sieno infallibili ed evidenti. E tale persuasione nasce, perchè la prima congiunzione del sentimento e dell' idea è un fatto della natura stessa; nel qual fatto l' uomo percepisce abitualmente il proprio sentimento; e la percezione non dubita mai di sè stessa, anzi la persuasione ne è il suo naturale finimento: tale è il testimonio della coscienza, che è sempre una percezione della percezione. In terzo luogo possiamo qui chiarire facilmente come nasca, e di che natura sia la riflessione . Questa nasce evidentemente dall' attività del soggetto razionale . Ora noi abbiamo veduto come il soggetto razionale sia posto in essere. Egli è posto in essere colla percezione intellettiva fondamentale , per la quale l' ente intelligente è individualmente unito al sentimento animale, nella quale unione l' uomo è costituito. Senza di ciò il soggetto, ossia principio razionale, non esisterebbe. Ma posto che egli esiste, ha un' attività sua propria, indipendente, in quanto al modo, dal termine; giacchè, come abbiamo veduto, l' attività di ogni principio esiste bensì pel termine, ma opera alla sua maniera, la qual maniera noi dobbiamo dedurre dall' osservazione. Ora l' attività del principio razionale si può chiamare generalmente attenzione , benchè questa parola non si usi con tanta generalità di significato, adoperandosi solitamente ad esprimere « l' attività intellettiva libera o di elezione, di cui si suol avere coscienza, che si applica e si concentra in un oggetto determinato ». Ma considerando noi che la virtù intellettiva, che si applica liberamente ad un oggetto scelto, non differisce da quella che si applica istintivamente a quell' oggetto, che dapprima si presenta allo spirito, noi crediamo che convenga pigliare il vocabolo attenzione intellettiva a significare in generale « la virtù dello spirito, che si applica anche senza una speciale concentrazione, anche istintivamente, ad un oggetto qualsiasi ». Così presa, diviene un primo atto di attenzione anche l' intuizione dell' essere; un atto di attenzione si acchiude anche nella percezione. Ma dopo di ciò l' attenzione seguita a dirigersi e concentrarsi con varie leggi, ora secondo l' istinto guidato dai bisogni, ora per elezione spontanea, ora anche per elezione libera fra oggetti che sono presenti allo spirito. E questa è la propria virtù del principio di poter concentrarsi sopra più oggetti, o sopra uno o una sola parte di esso, ritraendosi alquanto dagli altri o anche interamente. Si ritenga qui, adunque, che questa è legge propria dell' attività del principio o soggetto razionale di concentrarsi in un oggetto, o parte di oggetto qualsiasi, fra quelli che stanno presenti allo spirito. Come dunque accade che lo spirito possa riflettere sulle sue proprie operazioni? Stabilito che tutte le operazioni passive od attive dello spirito sono sentimento, e che ogni sentimento dell' uomo è oggetto d' una percezione naturale, si manifesta incontanente come nasca la riflessione. Poichè questa non è, come abbiamo detto, che una percezione delle percezioni e degli atti precedenti; percezioni ed atti che sono sentimento, e però capaci d' essere percepiti. Che se rimane così spiegato come l' uomo possa riflettere sugli atti del proprio spirito, ancor più facilmente si spiega com' egli possa riflettere sugli oggetti di questi atti; giacchè tali oggetti sono uniti alle percezioni e ne costituiscono il termine, di cui gli atti sono i principŒ. E` dunque percettibile il termine, come il principio degli atti intellettivi, i quali non sono senza quei due estremi; e per la forza di concentrazione lo spirito può applicare la sua attenzione agli uni o agli altri, ai principŒ o ai termini esclusivamente (1). In quarto luogo è spiegato altresì come il principio razionale possa operare sulla realità e sulla stessa materia. Poichè noi abbiamo veduto che il principio razionale è un reale egli stesso, cioè un principio di sentimento, il quale rende intelligibile sè stesso, attesa la naturale unione che egli ha coll' essere ideale, che è l' intelligibilità di tutte le cose; e percependo sè stesso, percepisce altri reali, che in esso suscitano degli effetti. Ora l' essere reale, ossia il sentimento sostanziale, ha un principio attivo, col quale può modificare sè stesso e reagire altresì su ciò che in lui agisce. Che se questo essere reale percepisce e quindi conosce sè stesso e i suoi diversi stati, per questa condizione di sè egli impara altresì a conoscere come debba muovere e adoperare la sua propria attività, per venire a capo di modificare sè stesso e le altre cose seco annesse. Se dunque il principio razionale sa come debba operare, e in pari tempo è egli stesso la virtù operativa, chiaro è che il medesimo principio razionale sarà attivo a sua volontà su di sè stesso e sui reali, che si continuano a lui, in virtù dell' azione che essi esercitano in lui, ed egli in essi. Fin qui noi abbiamo parlato dell' origine e della natura della percezione e della riflessione , che sono le due facoltà della ragione. Gioverà che aggiungiamo una breve analisi dell' una e dell' altra. La percezione ha tre gradi, che noi chiameremo apprensione, affermazione e persuasione . Nell' apprensione (intellettiva) della realità si contengono virtualmente l' affermazione e la persuasione; e a questo primo grado si ferma la percezione fondamentale della nostra animalità. Infatti l' uomo nei primi istanti di sua esistenza non afferma espressamente la propria animalità, ma molto tempo dopo, quando incomincia a far uso di un qualche linguaggio; e così si concilia colla dottrina della percezione fondamentale l' altra opinione per noi espressa, che l' uomo percepisca prima le cose esterne, e molto dopo, sè stesso colle cose sue. Noi dicevamo questo, riferendo il nostro pensiero all' affermazione espressa , che è il secondo grado della percezione, quello che la compie e trae dietro sè la persuasione distinta . Dobbiamo anche dire che la sola affermazione forma il nerbo della mente, il quale però nell' apprensione si trova in un cotal modo implicito e virtuale. La persuasione poi, anzichè un atto, è un abito dello spirito, ed è distinta ed attuale quando è prodotta dall' affermazione; allora ella è l' affermazione stessa, che abitualmente rimane nello spirito. Alla percezione tien dietro la facoltà dell' universalizzazione , ossia delle idee specifiche7piene , intorno alla quale ragionammo abbastanza nel « Nuovo Saggio (1) ». Venendo ora alla riflessione, noi abbiamo già posto il principio dell' analisi che si deve fare di essa. Il qual principio si è che lo spirito razionale ha virtù di dirigere la sua attenzione su gli oggetti percepiti, di restringerla a pochi e di estenderla a molti, o a tutti, o ad una parte di essi anche realmente non divisibile, e di concentrarla in un solo punto, per così dire, accrescendone l' intensione. Prima però di venire all' analisi è da rammentare che la riflessione, essendo sempre percezione di percezione, ha per sua legge di raffrontare l' oggetto, su cui riflette, coll' essere universale (2), ond' ella cava i principŒ trascendenti. Dal che avviene che la facoltà della riflessione non operi già per modo di semplice riflessione. In questo caso ella non aumenterebbe gli oggetti del conoscere; altro non farebbe che rivederli, riguardarli di nuovo. Ora il semplice riguardarli di nuovo non è ciò che si chiama filosoficamente riflettere; non è altro che un attuare nuovamente l' attenzione, dopo che questa rimise dall' atto suo e divenne abituale. Questo atto nuovo dell' attenzione, se si tratta di cose abitualmente conosciute, non è dunque la riflessione , ma la reminiscenza . Se poi si ripete la stessa percezione esterna avuta altre volte, neppur questa è riflessione, ma solo ripetizione della percezione. La riflessione si deve dunque distinguere accuratamente dalla memoria , che è il deposito delle cognizioni abituali, dalla reminiscenza , che è l' attuale avvertenza di quelle, e dalla percezione ripetuta . E la distinzione principale sta in questo, che nè la memoria, nè la reminiscenza, nè la percezione ripetuta aumenta il sapere dell' uomo; laddove la riflessione sì. E lo aumenta, perchè, come dicevamo, la riflessione nel percepire la percezione la rapporta sempre e confronta all' essere ideale, e ne discopre le relazioni, che si cangiano in altrettanti principŒ. Di qui nasce che la riflessione si debba dividere in parziale e totale . Chiamo parziale quella riflessione, che tende a discoprire i rapporti che dividono od uniscono gli oggetti, sui quali ella cade, senza però ch' ella tenda ad avere per risultamento del suo operare i rapporti degli oggetti collo stesso essere universale ed essenziale. Chiamo totale quella riflessione, che discopre e pronuncia i rapporti dei suoi oggetti coll' essere universale ed essenziale. La riflessione ricorre sempre all' essere universale, essenziale, ideale, senza di che non potrebbe scoprire niuna cosa nuova; ma talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che hanno fra di loro, e si dice parziale; talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che questi hanno coll' essere stesso, e si dice totale . La ragione di queste denominazioni non si trae dal diverso mezzo di conoscere, poichè la riflessione usa sempre dello stesso mezzo, che è l' essere ideale; ma si trae dal diverso risultato che se ne ha; il quale è parziale, se si ferma ai rapporti degli oggetti parziali fra loro, ed è totale, se finisce collo stabilire i rapporti che ha l' essere stesso, l' essere universale, cogli oggetti, benchè parziali. I rapporti dell' essere universale sono sempre universali, e però abbracciano in qualche modo tutto lo scibile; all' incontro i rapporti degli oggetti parziali fra loro sono parziali, e non costituiscono che una parte dello scibile. Dalla natura della riflessione parziale si traggono i diversi ordini della riflessione, cioè si trae la ragione che spiega perchè, dopo aver io riflettuto sulla percezione, posso riflettere sulla mia riflessione, facendo un secondo atto di riflessione, e con una terza riflessione posso ripiegarmi sulla seconda, e con una quarta sulla terza, e così via, ricavando sempre qualche cognizione nuova, ogniqualvolta mi elevo ad un ordine maggiore di riflessione. Ora, che la possibilità di questi diversi ordini di riflessione proceda dall' essere parziale la riflessione, si vede da questo, che se io colla prima riflessione esaurissi lo scibile, non potrei più conoscere nulla di nuovo colla seconda e colle susseguenti, e dovrei limitarmi a ripetere l' atto della prima. E quanto importantissima cosa sia lo studio di questi diversi ordini di riflessioni, solo può intenderla colui, il quale abbia saputo scorgere che indi si trae il principio supremo del metodo (1); il principio altresì che deve reggere una storia filosofica delle scienze, il principio d' una storia dell' umanità, ed infinite altre conseguenze di sommo momento nel governo morale e politico degli uomini. Ma in quella riflessione, che abbiamo detta totale , cessano gli ordini molteplici, poichè, giunta alle somme e più complesse verità, quella via resta chiusa a nuovi discoprimenti. Così se io sono pervenuto a intuire colla mente qualche supremo principio, posso bensì riflettendo trovarne le applicazioni, il che è un ricadere alla riflessione parziale, ma non posso sollevarmi più su colla riflessione totale, alla quale non rimane che di replicare l' atto, onde contempla quel principio già rinvenuto; quindi la contemplazione . Ma qualunque sia l' ordine della riflessione, i modi coi quali ella opera, riescono i medesimi. E posciachè ella si volge a trovare i rapporti , e questi ora sono tali che dividono fra di loro le cose, quali sono le differenze, le opposizioni, ecc.; ora sono tali, che le uniscono e legano insieme, quali sono le eguaglianze, le similitudini, le correlazioni, le analogie, ecc.; perciò i due modi, nei quali opera la riflessione parziale, sono primieramente l' analisi e la sintesi . L' analisi divide, e la sintesi unisce; ma qui si tratta sempre di oggetti conosciuti. La riflessione parziale talora non solo trova il rapporto fra gli oggetti conosciuti, ma nello stesso tempo produce ella stessa colla sua attività uno dei termini del rapporto. E questo ella suol farlo sempre coll' uso e coll' applicazione dell' idea dell' essere, ma in due modi diversi, o deducendolo o fingendolo; ai quali due modi noi diamo il titolo di fede razionale e di creazione razionale . Onde analisi, sintesi, fede e creazione razionale sono i quattro modi nei quali opera la riflessione; di ciascuno dei quali faremo qualche cenno. L' analisi, che spezza e divide gli oggetti conosciuti, è materiale o formale . Si dice analisi materiale quella, per la quale le parti dell' oggetto diviso riescono tutte della medesima natura e condizione logica, pigliandosi la similitudine dalla divisione, di cui è suscettibile la materia, che si suppone uniforme, le cui parti perciò non differiscono di natura, ma solo di grandezza; tale è l' analisi chimica, la divisione numerica, ecc.. Si dice all' opposto analisi formale quella, in cui le parti che si hanno coll' oggetto dalla mente diviso, variano di natura, come se si dividesse un genere in molte specie, dove il genere ha una natura logica diversa da quella della specie, e ciascuna specie ha diversa natura dalle altre. Di che si vede che la facoltà di astrarre appartiene all' analisi formale. La sintesi riceve una classificazione consimile, poichè può essere anch' essa materiale o formale , secondochè si uniscono parti della stessa natura, come accade nella somma o moltiplicazione numerica, o in un tutto formato per giusta posizione; ovvero si uniscono parti di diversa natura, come accade nel giudizio, in cui la mente unisce il predicato col soggetto. Il subbietto dunque dell' analisi e della sintesi materiale è la quantità; il subbietto dell' analisi e della sintesi formale è la qualità, la modalità, o la relazione. Ma rispetto alla sintesi formale, la cui forma generale è il giudizio , è da riflettersi che si modifica non poco, aumentandosi gli ordini della riflessione. Poichè, se dopo aver io fatto diversi giudizi con una sintesi appartenente al primo ordine di riflessione, io m' innalzo ad un' altra sintesi appartenente ad un ordine superiore di riflessione, trovando il nesso dei due giudizi fra loro, mi vien data tosto la forma del sillogismo; nella qual forma apparisce come la riflessione sia produttiva di nuova cognizione, giacchè i giudizi che unisco sono due, e il sillogismo, che me ne risulta, ne ha tre; il che è quanto dire che colla riflessione io ho guadagnato un giudizio di più, che è la conclusione del sillogismo stesso. E` manifesto che se io m' innalzo ancora ad altri ordini di riflessione sintesizzando, posso confrontare i sillogismi stessi coi giudizi, e i sillogismi fra loro, e cavarne altre conclusioni; il che mi produce il ragionamento . Ma qui non si deve tralasciare una osservazione, ed è che in ogni analisi interviene sempre qualche specie di sintesi; perocchè per trovare le differenze e le opposizioni, mediante le quali separiamo una cosa dall' altra, dobbiamo prima di tutto confrontare e paragonare le cose, che poscia distinguiamo e separiamo; e il confronto è una specie di sintesi, un primo grado di sintesi. Quindi è che la distinzione dell' analisi dalla sintesi ha luogo piuttosto nel risultato della riflessione che non nella stessa operazione del riflettere , la cui forma propria è sempre sintetica. E questa è la ragione, per la quale noi abbiamo collocato il giudizio e il raziocinio nella classe delle sintesi anzichè delle analisi, quantunque il risultato non sempre sintesizzi, ma riesca talora analitico. Infatti, quando i giudizi sono negativi, o quando è negativa la conclusione del sillogismo, il risultato suol essere analitico e dividente; ma la forma è sempre sintetica. Il che apparirà vie più chiaro a coloro, i quali sanno che la mente umana concepisce ciò che è negativo sotto una forma positiva, il nulla come un qualche cosa, e che la negazione è un' affermazione in quanto alla forma. Onde il predicato negativo fa sintesi col soggetto, quando si vuole separare e distinguere; la qual legge del pensiero condusse gli algebristi a sommare tanto le quantità positive, quanto le negative, con una stessa operazione, che chiamarono appunto somma , equivalente a unione o sintesi. Ma passiamo a quelle operazioni della riflessione, nelle quali questa facoltà discopre o finge uno dei due termini della sua analisi o della sua sintesi; le quali operazioni abbiamo detto essere due, la fede razionale e la creazione razionale . Allorquando la mente umana riflette sopra un oggetto percepito, raffrontandolo all' essenza dell' essere, e, mediante questo raffronto, trova che l' esistenza sua è condizionata ad un altro ente, che ella non ha mai percepito, di maniera che ripugna all' essenza dell' essere che l' oggetto percepito esista solo, mentre pure esiste; allora nasce in lei la fede razionale, che è quanto dire « la persuasione ragionevole che esista quell' altro termine, benchè non l' abbia mai percepito, nè conosca punto nè poco il suo modo di essere ». Questa è quella funzione, che abbiamo chiamata integrazione . A ragion d' esempio, Leibnizio, raffrontando gli esseri reali creati coll' essenza dell' essere, trova che nell' ordine dell' essere stesso giace la legge di continuità . Di poi vede nelle cose naturali, conosciute al suo tempo, mancante un anello della catena. Egli crede all' esistenza di questo anello ancora incognito, e così predice la scoperta dei zoofiti , che ebbe luogo posteriormente. Pur ora Le7Verrier scoperse in modo simile, quasi direi a priori, l' esistenza del suo pianeta, che vide, come acconciamente disse Arago, non nella lente del suo telescopio, ma sulla punta della sua penna. Dal confronto degli enti reali coll' essenza dell' essere erano già conosciuti i due principŒ di causa e di analogia . Questi produssero quella scoperta. Le7Verrier ragionò seco stesso che alcune irregolarità nel movimento dei pianeti conosciuti dovevano avere una causa, pel principio di causa. Notò che altre irregolarità e perturbazioni venivano spiegate per la mutua attrazione di tali astri. Conchiuse che le irregolarità, che rimanevano senza causa, dovevano per analogia essere prodotte dall' attrazione d' un pianeta incognito. Applicò il calcolo a trovarne la posizione, e il calcolo gliela diede. Il pianeta fu scoperto nel luogo indicato. Un ragionamento pari conduce dall' essere contingente al necessario, che non si percepisce. L' essere contingente ripugna che esista solo, senza l' essere necessario; il che è quanto un fare questo sillogismo: « Il contingente esiste, ossia è un ente. Ma l' ente non è mai solamente contingente. Dunque, perchè il contingente sia ente com' è, è uopo che esista il necessario ». Così tutto il genere umano ascende per una spontanea integrazione a credere con ragione l' esistenza dell' Ente supremo. Anche la fede positiva alle cose divine si riduce alla fede razionale, quando si supponga prima la fede razionale dell' esistenza di Dio. Poichè così si ragiona: « Se quest' uomo non fosse inviato da Dio ad annunziare la verità, egli non opererebbe tali cose, che suppongono l' intervento di Dio. Ma quest' uomo prodigioso esiste, ed annunzia queste cose divine. Dunque queste cose divine sono vere, perchè la loro verità è condizione necessaria all' esistenza e alla predicazione di quest' uomo ». In altre parole: « La verità delle cose divine, che quest' uomo annunzia, è la ragione necessaria a spiegare come e perchè quest' uomo faccia quelle opere che fa ». Le cose che quest' uomo annunzia nessuno le ha vedute; ma si debbono credere per la detta forma di raziocinio, che chiamiamo integrazione , vale a dire perchè ciò che si percepisce non potrebbe essere, se non fosse altresì ciò che quest' uomo annunzia e che non si percepisce. Con un argomento della stessa natura il cieco crede all' esistenza dei colori. Questi colori che io non percepisco, egli dice, esistono, perchè vi è uno degno di fede, che io percepisco. Se i colori non esistessero, non potrebbe esistere quest' uomo degno di fede. Ma quest' uomo degno di fede esiste; dunque anche i colori esistono. Dai quali esempi si scorge: Che l' argomento dell' integrazione è fondato nell' ordine intrinseco e necessario dell' essere , che si suole esprimere in forme di principŒ ontologici; il quale ordine nella contemplazione naturale dell' essere si rinviene, e per esso s' intende che una data parte dell' essere, che si percepisce, non sarebbe come è, se non ve ne fosse un' altra, che non si percepisce. Che la fede razionale, di cui parliamo, riguarda le entità che noi non abbiamo mai percepite, ossia che non ci furono mai comunicate nella loro realizzazione, e di cui perciò non conosciamo positivamente la natura, la quale solo per via di percezione o di similitudine coi percepiti a noi si fa nota (1). Che dunque s' avrà a dire della fede , che noi prestiamo ad un uomo, il quale ci attesta l' esistenza d' una cosa, di cui abbiamo altre volte percepita l' essenza realizzata? Appartiene una tale credenza alla fede razionale ? Per esempio, se noi prestiamo fede ai viaggiatori, che ci dicono avere scoperto nell' interno dell' Africa un nuovo fiume, è questa l' operazione che noi chiamiamo fede razionale ? Conviene, a farvi risposta, osservare che le conoscenze umane si partono in due grandi classi: quella delle essenze delle cose e quella delle sussistenze , che sono il realizzamento delle essenze. Ora, quando viaggiatori degni di fede ci dicono avere scoperto quel nuovo fiume, rispetto all' essenza del fiume nulla di nuovo ci attestano; perchè noi sapevamo già che cosa è un fiume, avendone tanti percepiti coi sensi nostri. In quanto all' essenza dunque essi non sono testimoni , ma semplici monitori o eccitatori della nostra attenzione, che tosto pensa a un fiume, cioè all' essenza d' una cosa a noi nota. Quanto poi alla sussistenza di quel fiume nell' interno dell' Africa, essi sono veri testimoni, e noi prestiamo loro una fede razionale . Ma in questa fede razionale, che riguarda la sussistenza e non l' essenza delle cose narrate, non interviene integrazione; perchè l' operazione dell' integrare è volta a contemplare l' essenza dell' essere , senza riguardo alla sussistenza. Gli esempi addotti delle scoperte di Leibnizio e di Le7Verrier riguardano la sussistenza; ma il modo di ragionare è il medesimo, e per dichiarare questo modo furono addotti. L' integrazione adunque è una specie della fede razionale; ma questa abbraccia altre specie ancora. Dalla fede razionale si diparte la creazione razionale . Come la fede dal condizionato percepito argomenta alla condizione, così la creazione assume o finge qualche cosa, di cui ha percepita altre volte l' essenza, ma di cui non crede veramente alla sussistenza. La quale assunzione o finzione si fa dall' attività dell' umana intelligenza per cagioni diverse, non sempre razionali. Quindi ella riceve tre forme, divenendo ora facoltà delle ipotesi , ora facoltà delle personificazioni , ora facoltà dell' errore . L' ipotesi, se è ben fatta, ha del razionale e si avvicina molto all' integrazione, ma se ne distingue per queste differenze: Nell' integrazione si trova un termine, la cui essenza non fu da noi percepita; laddove ciò che si assume per ipotesi è sempre cosa, la cui essenza fu percepita. Nell' integrazione l' argomento induce necessità, laddove nell' ipotesi esso è congetturale. Nell' integrazione il termine non percepito è unico ed esclude tutti gli altri, laddove nell' ipotesi il termine, che si assume per spiegare i fatti, non esclude gli altri, giacchè i fatti, che si prendono a spiegare, possono di solito essere spiegati con più ipotesi. La personificazione non è razionale; ha un' origine istintiva, e l' uomo se ne serve quasi di simbolo per eccitare in sè stesso il sentimento, anzichè per accrescere il proprio sapere. La facoltà dell' errore , finalmente, è un' affermazione arbitraria che nega la verità, e però non è punto razionale, anzi ha una relazione di contrarietà alla ragione. E` manifesto che l' attività dell' anima nella creazione razionale appartiene a quella soprabbondanza di attività, che spiega il principio (il soggetto, l' anima), quando egli è posto in essere dal termine, e che non viene precisamente dal termine stesso. Ci rimane a parlare della riflessione totale , che è quella, come vedemmo, che cerca i rapporti dell' essere universale, e non si ferma a quelli degli enti particolari. Ora la riflessione totale abbraccia un gruppo di quattro facoltà, che noi denomineremo: 1 facoltà dei principŒ , 2 facoltà degli archetipi , 3 facoltà del metodo , 4 facoltà della cognizione assoluta o trascendentale . I principŒ presi in senso assoluto, come noi li prendiamo, sono proposizioni che hanno un valore universale, e non hanno altre ragioni superiori a sè stesse; quindi essi sono la stessa idea dell' essere considerata nella sua applicazione al ragionamento, dove ella spiega la sua maggiore potenza (1). Come l' essere illustra la mente, così anche dirige l' attività umana; quindi presiede non meno alla ragione teorica che alla ragione pratica , e all' una e all' altra somministra i principŒ direttivi. Se l' essere non fosse essenzialmente ordinato e quasi organato, egli non potrebbe produrre in sè i principŒ dell' umano ragionamento, i quali tutti esprimono il suo ordine. Perocchè, se ben si considera l' officio che prestano i principii alla mente, si scorge che « ogni principio altro non fa che mostrare alla mente come l' ente debba essere, acciocchè sia ente »; per esempio, il principio di cognizione dice: « Il pensiero non è, se non ha per oggetto l' ente »; il che viene a dire che l' entità, che si chiama pensiero, non sarebbe un' entità o semplicemente non sarebbe, se non avesse l' ente per oggetto. Descrive dunque come deve essere l' entità pensiero , ossia descrive l' ordine di questa entità. Il principio di sostanza dice: « Non è l' accidente senza la sostanza ». Descrive adunque il modo o l' ordine dell' entità accidente, acciocchè egli sia entità. Il principio di causa dice: « Ogni avvenimento deve avere una causa ». Descrive dunque come possa essere un avvenimento, ossia quale debba essere l' ordine necessario dell' entità significata colla parola avvenimento. E così si può procedere trascorrendo gli altri principii; ciascuno esprime come debba essere l' ente, acciocchè sia; e questo è un esprimere il suo ordine intrinseco e necessario. L' ordine suppone sempre una moltiplicità unificata; quindi si può considerare l' unità nella moltiplicità, come pure la moltiplicità nell' unità. Da questi due aspetti si deducono due serie di principŒ della ragione teoretica, i primi dei quali indicano come l' unità si possa moltiplicare, i secondi come la moltiplicità si possa unificare. Ai primi, oltre i tre enumerati di cognizione, di sostanza e di causa, si riducono i principii d' individuo sostanziale , di soggetto , di persona , di assoluto , i quali dicono: « l' ente non sarebbe, se non vi fossero individui sostanziali; l' ente non sarebbe, se non vi fossero soggetti; l' ente non sarebbe, se non vi fossero persone; l' ente non sarebbe, se non vi fosse l' assoluto ». I quali principii si possono anche tradurre in queste altre formule: « Se vi è moltiplicità di enti, dunque vi debbono essere individui sostanziali »; questo è quello che chiamo principio di individui sostanziali . « Se vi sono individui sostanziali, dunque si sono individui soggetti (senzienti) »; questo è quello che chiamo principio di soggetto . « Se vi sono soggetti, dunque vi sono persone »; questo è quello che chiamo principio di persona . « Se vi è un ente, dunque vi è l' ente assoluto »; questo è quello che chiamo principio dell' assoluto , dal quale si trae la cognizione trascendentale ed assoluta. Dal considerarsi poi i rapporti della moltiplicità coll' unità nascono altri principii della ragione teoretica, come sarebbe: « Il tutto è maggiore della sua parte »; « Due cose eguali ad una terza sono eguali tra di loro », ecc.. E per toccare anche di quei principii, che presiedono e dirigono la ragione pratica, diremo che questa ha i due atti della contemplazione e dell' azione . Alla contemplazione presiede il principio della bellezza; all' azione poi quello della legge morale. La facoltà degli archetipi è quella che spinge col pensiero qualunque essenza conosciuta all' ultima sua perfezione possibile, determinando come ella deve essere, acciocchè sia perfettissima; questo è il fonte delle scienze deontologiche (1). E` questa un' opera nobilissima della riflessione, che, paragonando le specie imperfette delle cose, date all' uomo dalla percezione, coll' essere, trova quanto le loro essenze possono ricevere in sè dell' ordine dell' essere stesso. Questa facoltà rende sublimi gl' ingegni, fu meravigliosa in Platone, e gli procacciò il titolo di divino. Niuno può essere uomo grande che non la possegga in alto grado, perocchè le magnanime azioni dei grandi si realizzano sempre, copiando l' eccelso ideale, che nella mente loro vivo contemplano. La facoltà del metodo nasce dalla riflessione, allorquando ella si eleva su tutti gli ordini speciali di riflessione per ordinarli convenientemente fra loro; e però è una cotal riflessione universale, che abbraccia con uno sguardo tutte le possibili riflessioni, cioè un numero di riflessioni indefinito. Finalmente la facoltà della cognizione assoluta o trascendentale è pur ella frutto della riflessione totale, quando, prendendo quante cognizioni ella vuole e raffrontandole all' essenza dell' essere, distingue ciò che vi è in esse di soggettivo e di fenomenale da ciò che è la cosa conosciuta in sè stessa, senza quel che riceve dall' atto del nostro conoscere; e prova che nel fare quest' atto di separazione niente vi si intramette più di relativo al soggetto, come si può vedere dal dialogo intitolato il Moschini . Dopo aver noi considerata l' anima rispetto a ciò che patisce e che riceve, e indi dedotte quelle potenze che chiamammo passive e ricettive, dobbiamo considerarla rispetto a ciò che ella agisce, e indi dedurre le sue potenze attive. Conviene non dimenticare giammai ciò che abbiamo detto dell' interna costituzione dell' anima. L' anima, noi dicemmo, ha natura di principio; ma questo principio non è concepibile se non a condizione che abbia i suoi termini, chè principii e termini sono correlativi e sintesizzanti. Ora, in quanto il principio è affetto dal suo termine, è ricevente o passivo . Ma questa ricettività e passività involge un grado d' attività propria dello stesso principio; e così l' attività nei soggetti creati viene in parte dalla ricettività e passività, e in parte è anch' essa condizione di questa. Dato dunque che una volta sia posto in essere il principio (l' essere del quale sta, come dicevamo, nell' unione col suo termine), l' attività del principio non si limita a ricevere ed a patire, ma è tale che opera sul suo termine stesso, se pure il termine è atto a ricevere la sua azione ed a restarne immutato. Perocchè, se la natura del termine fosse di essere puro atto, ogni passività o ricettività sarebbe esclusa per la sua essenza; il che s' avvera di Dio e delle cose divine. Allora l' attività del soggetto si spiega nel soggetto stesso, allontanandosi o avvicinandosi al termine, modificando la propria unione con esso. Ora, posciachè i termini primitivi dell' anima umana sono due, il sentito e l' inteso, verso all' uno dei quali ella è passiva, verso all' altro ricettiva; due sono pure le sue attività di assai diversa natura: l' una si chiama istinto , ed è quella che nasce dalla sensitività, l' altra chiamasi volontà , ed è quella che nasce dall' intelligenza. Il termine dell' istinto è mutabile, e però l' attività istintiva, operando su di lui, lo immuta; ma il termine della volontà, in quanto è lo stesso di quello della pura intelligenza, è immutabile, perchè è cosa divina (le idee); e però l' attività, che nasce da questa, limitasi ad essere più o meno ricettiva, ovvero ripiegasi sull' anima stessa, mutando questa anzichè il termine oggetto dell' intelligenza. L' istinto adunque è il movimento della sensitività. E poichè la sensitività accompagna tutte le potenze e le operazioni anche razionali dell' anima, perciò l' istinto si stende amplissimamente, accompagnandosi a tutte le parti dell' uomo. Onde colui che volesse compiutamente descriverne la diramazione, dovrebbe derivare le speciali attività di questa potenza, classificando e diramando tutte le altre, e dimostrando che ciascuna ha il suo proprio e speciale istinto. L' istinto di sua natura è potenza cieca. Ma poichè anche le potenze razionali e morali hanno i loro istinti, perciò conviene distinguere quell' istinto, che è cieco interamente nel suo moto e nel suo termine, da quello che è cieco solamente nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, ovvero che è cieco solamente nel suo moto, ma non nel conato e nel suo termine. Infatti, se si considera il moto istintivo della volontà, vedesi che parte da un lume e termina in un oggetto conosciuto. Ma in quanto il moto della volontà si fa per inclinazione naturale e spontanea, senza deliberazione o decreto, come talora avviene, in tanto quel moto è cieco, e solo per questo dicesi che quel movimento è istintivo. E per dare un esempio anche di quell' istinto, che è cieco nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, indicheremo gli atti onde acquistiamo le prime nostre cognizioni, i quali tendono ad acquistare quel lume di cognizione, che dapprima non hanno. Poichè quando si muove il soggetto all' acquisto delle sue prime cognizioni, egli non le ha ancora, e però non può muoversi ad esse se non ciecamente, trattovi dal sentimento e dall' attività sua nativa, onde il principio di tal moto è cieco, benchè il termine sia la cognizione dove è luce. E` dunque mestieri distinguere primieramente queste due branche: l' istinto interamente cieco, che non si associa ad alcuna cognizione, nè nel suo principio, nè nel suo termine, e questo è l' istinto animale (che anche nell' uomo si ha, perchè anche l' uomo è animale); e l' istinto cieco bensì nel suo moto, ma tale che si associa a qualche cognizione, onde prende le mosse, o dove finisce, e questo è l' istinto umano . Se noi poniamo mente alle varie operazioni dell' istinto animale, potremo forse ridurle acconciamente a sei classi. Lasciando quel primo atto, col quale l' anima unendosi al suo termine pone sè stessa, in cui risiede virtualmente tutta l' attività istintiva, il principio dell' istinto , e non enumerando se non le conseguenti sue operazioni: L' istinto concorre alla produzione dei sentimenti animali accidentali. L' istinto ha virtù di riprodurre i sentimenti, quando questi hanno perduta la loro attualità e lasciate nello spirito solo le vestigie, le inclinazioni abituali; la quale operazione non si suol fare se non coll' aiuto delle facoltà istintive seguenti. L' istinto ha virtù di associare i sentimenti e unificarli a cagione dell' unità dell' anima; e questa è quella che chiamammo forza sintetica dell' animale, cagione di tante meraviglie, simulatrice della ragione, di che abbiamo lungamente parlato nell' Antropologia (1). Dall' associazione di più sentimenti nell' unità dell' anima ridondano in questa certe modificazioni generali, che chiamiamo affezioni , le quali sono quasi sentimenti di mezzo fra i sentimenti singolari e le passioni . Sono dunque queste affezioni i principŒ generatori delle passioni, poichè quando quelle si completano e lasciano nell' anima un' abituale inclinazione a riprodursi , allora ricevono questo nome di passioni. E le passioni sono la quinta manifestazione della potenza istintiva. Finalmente, la sesta manifestazione della potenza istintiva animale si è l' attività, con cui quella potenza modifica il sensifero, producendo in esso dei movimenti corrispondenti all' atteggiarsi attivamente di esso istinto. Accenniamo qualche cosa di queste due ultime manifestazioni, le passioni e gli atteggiamenti spontanei che prende l' istinto. Le passioni non sono meramente animali. Anzi nell' uomo si debbono diligentemente separare le animali dalle razionali. E le une e le altre ricevono acconciamente quella divisione, che troviamo in Platone, di passioni cioè proprie del concupiscibile , e di passioni proprie dell' irascibile . Intendesi per concupiscibile l' inclinazione, che trae verso il bene, e che ritrae dal male. Per irascibile poi quella subita vigoria, che si condensa e quasi s' aggruppa nell' anima, quando questa trova un esterno impedimento alla sua tendenza (1), colla quale pugna ed urta per rimuoverlo e vincerlo, e sfogare la sua tendenza concupiscibile. Ma restringendoci ora alle passioni animali, quelle del concupiscibile tendono ad avere il gradevole ed evitare il disgradevole, chè nè altro bene ha l' animale, nè altro male; e quelle dell' irascibile sono ordinate a sforzare e superare la difficoltà, che incontrano le tendenze del concupiscibile a spiegarsi compiutamente. Onde propriamente l' irascibile non è che una attività dello stesso concupiscibile , il quale s' adonta e s' arma contro gli impedimenti stranieri, che non lo distruggono o snervano, ma solo si oppongono per arrestarlo. Non conviene adunque accomunare cogli animali l' amore , che è passione razionale e nobile, in luogo di cui è nei bruti l' affezione unitiva , che si suddivide nella tendenza generativa , e in quel gruppo di passioni che si raccolgono nella tendenza all' aggregazione , la quale abbraccia l' istinto, che fa stare e andare insieme i bruti della stessa specie, che pone fra le specie diverse simpatie o antipatie, che aggiunge i nati alla madre, che produce l' affezione che lega all' uomo alcuni bruti, la domesticità, ecc.. Il simile è a dirsi dell' odio , che esprime propriamente una passione razionale, a cui risponde nell' animalità l' avversione , l' antipatia , ecc.. Anche il desiderio e l' abborrimento non sono passioni animali, ma razionali; nell' animalità in quella vece si manifestano varie tendenze specificate da vari loro termini, come la voracità , la fame , ecc.. Il gaudio pure è proprio dell' intelligenza, a cui risponde nell' animalità qualche sentimento, che non ha nome proprio e ben definito; perocchè non tutte le passioni animali trovano nel linguaggio una propria espressione. Di che avviene che lo stesso vocabolo si usi sovente in diverso significato, ora a indicare una passione meramente animale, ed ora a indicare la passione corrispondente, che si manifesta nell' essere razionale, come è delle due parole tristezza ed allegrezza , ecc.. E questa scarsezza e povertà di linguaggio è anch' essa cagione, che inclina la mente poco vigile a confondere l' ordine sensitivo coll' ordine razionale. Fra le passioni animali si può annoverare altresì la proprietà , che è quella che affeziona l' animale a certe cose inanimate; ed apparisce identica nell' uomo, se non che l' uomo gode anche della cognizione della sua proprietà, e questo godimento aggiunge un elemento razionale al sentimento della proprietà. Di più, l' uomo, attesa la sua facoltà morale, innalza il sentimento della proprietà all' ordine del diritto, del quale il sentimento di proprietà non è altro che la materia (1). Benchè le parole ira, ferocia, paura, aspettazione , ecc., si applichino sovente tanto ai bruti quanto all' uomo, tuttavia sembrano più proprie dei primi che del secondo; all' incontro le parole sdegno, timore, audacia, speranza, disperazione esprimono manifestamente affetti e passioni razionali; e se si trovano applicate ai bruti dagli scrittori, si fa per un cotal traslato e per quella inclinazione, che gli uomini hanno, di accomunare la vita intellettiva e la ragione, che possiedono essi, a tutti gli enti che percepiscono, massime se questi appalesano di quei fenomeni che si producono anche dall' intelligenza, benchè possano essere prodotti da altra cagione. Nell' uomo adunque vi sono le passioni animali, perchè anch' egli è animale; ma queste nell' uomo ricevono dalla razionalità un carattere proprio, che le nobilita e le specifica. Di più le passioni animali, che nelle bestie non sono mosse che dagli stimoli e dalle leggi del senso corporeo, nell' uomo sono suscitate talora dalla razionalità stessa, per l' influenza che l' anima razionale esercita nell' animalità. Così se noi consideriamo la tristezza come passione animale, si potrà definire « quel sentimento disgradevole che prova l' animale, rallentandosi il corso del sangue in alcuni visceri, e indebolendosi l' attività del sistema nervoso ». Ma questo sentimento, che nell' animale non può prodursi che da una causa fisica o sensuale, la quale rallenti la circolazione e tolga il suo vigore all' organismo nervoso, nell' uomo sarà prodotto ora da questa causa medesima, ora da una notizia che funesta lo spirito; il che è quanto dire dalla potenza razionale. Le passioni animali adunque nell' uomo differiscono da quello che sono nei bruti per due cagioni: Perchè, supposto che abbiano la stessa cagione producente che hanno nei bruti, vi si associa l' intelligenza a modificarle. Così la tristezza che arreca una malattia ad una bestia, è diversa da quella che arreca ad un uomo, il quale conosce la sua infermità; e questa cognizione gli accresce afflizione. E al contrario, con dei motivi somministratigli dalla ragione egli può allenire e alleggerire anche fisicamente quella tristezza. Perchè le passioni stesse animali possono nell' uomo essere mosse da una cagione razionale, come già dicevamo. Ma nell' uomo, oltracciò, si spiegano delle passioni nuove, delle quali non v' è traccia nei bruti; perocchè i movimenti della potenza razionale producono effetti nuovi, sentimenti che non possono in alcun modo essere suscitati dal mero istinto animale. I quali sentimenti propri dell' uomo sembrano talora che sieno puramente razionali, ossia che dimorino entro la sfera dell' intelligenza; talora poi sembra che ne partecipi anche l' animalità. In questo caso l' animalità riceve un' affezione, che nel bruto non può manifestarsi, perchè vi manca la causa producente, la quale non è altro che l' intelligenza. Io non voglio già decidere con ciò la questione: « Se nell' uomo vi siano affezioni così pure che non prenda parte ad esse in alcun modo l' animalità, o se vi sia sempre del misto »; questa questione sottile sarà sciolta da altri. A me basta di stabilire che nell' uomo si manifestano alcune passioni interamente nuove, che non possono essere prodotte dall' istinto animale, e che hanno per unica causa l' intelligenza: passioni intellettive rispetto alla loro causa, benchè forse non sieno mai puramente intellettive per sè stesse. Nel numero di queste non intendo assolutamente collocare le passioni simpatiche , come la compassione, ecc.; dico solo che se nei bruti si manifesta qualche cosa che rassomiglia ad esse, questa cosa si può sempre ridurre a passioni e sentimenti individuali; perchè il bruto non si muove, finalmente, se non in virtù delle sue proprie sensioni, l' opposto dell' uomo, che partecipa delle passioni altrui col solo conoscerle, poichè, conosciute, egli può rappresentarle a sè stesso nell' immaginazione, e così entrarne a parte; onde la compassione è certamente passione razionale nella sua causa ed anche in sè stessa. Che se si ravvisa qualche cosa somigliante nei bruti, ciò può ridursi all' affezione unitiva , a quella che riguarda l' aggregazione , ecc.. I fonti delle passioni comuni ai bruti sono l' aggradevole ed il difficile; nell' uomo a cagione della razionalità si trovano due altri fonti, e sono il rapido moto dell' animo e il grande ; poichè l' animo, che passa rapidamente da uno stato intellettivo ad un altro opposto, non solo accresce la vivezza dell' atto sensitivo colla rapidità, il che accade anche nel senso animale, ma produce nuovi ed improvvisi sentimenti, quali sono il riso , la sorpresa , ecc.. Ancora, solo l' uomo colla sua ragione rendesi suscettibile del sentimento del grande, il quale produce vari effetti, come la meraviglia , lo stupore , l' estasi , ecc.; passioni tutte umane, di cui le bestie interamente son prive. Veniamo ora a ragionare brevemente della sesta manifestazione dell' istinto animale, che fu da noi collocata nella virtù che ha il sentimento di atteggiare sè stesso , modificando il sensifero. Per intendere che cosa noi vogliamo dire con questa virtù del sentimento, conviene richiamarsi alla mente che noi conosciamo il sentimento in due modi, mediante il sentimento stesso immediatamente, di cui siamo consapevoli (soggettivamente), e mediante fenomeni da lui prodotti e da noi sentiti, ma che non sono lui stesso (extra7soggettivamente). Così altro è il sentimento del dolore, altro sono i movimenti che il dolore cagiona nel corpo, i quali possono essere da noi veduti senza sentire il dolore. Il dolore è il sentimento soggettivo, i movimenti sono i fenomeni extra7soggettivi da lui prodotti. Questi indicano quello, ma hanno natura totalmente diversa; e se i fenomeni extra7soggettivi si conoscono per via d' altri sentimenti, questi sentimenti non hanno a far niente con quello di cui si parla; e, come sentimenti, hanno anch' essi la loro parte soggettiva e l' extra7soggettiva. Ciò tutto fu dichiarato nell' Antropologia , a cui deve ricorrere il lettore, che ama di seguire i nostri ragionamenti. Supposto dunque che sia stata ben distinta la parte soggettiva del sentimento dall' extra7soggettiva, tosto sarà inteso come il sentimento soggettivo sia cosa immune affatto dallo spazio e però semplicissima, giacchè nel concetto del piacere, del dolore e di ogni altro sentimento puramente soggettivo, niuno può trovare il concetto di alcuna estensione, la quale non è che il termine di alcuni sentimenti, non il sentimento stesso. Ciò non di meno i fenomeni extra7soggettivi hanno una simultaneità e una correlazione coi soggettivi. Noi abbiamo detto che fra gli uni e gli altri non passa la relazione di causa immediata e di effetto immediato, perchè sono al tutto dissimili. Tuttavia al cangiarsi del fenomeno soggettivo cangiansi i fenomeni extra7soggettivi; il che fa credere che il cangiarsi del fenomeno soggettivo, se non è causa immediata, possa almeno essere causa mediata di tali cangiamenti. E considerata la cosa solamente rispetto alla dissimilitudine delle due serie di fenomeni, rimane tuttavia incerto; diviene certo, allorchè si considera che il sentimento soggettivo termina nell' esteso, come abbiamo detto, e che l' esteso è già egli stesso, in un senso, extra7soggettivo, benchè individualmente unito al soggetto, ed appartiene anche al fenomeno extra7soggettivo del sensifero, con esso identico di sostanza. Laonde, quantunque il sentimento (soggettivo) non sia causa immediata e prossima dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero, tuttavia egli è causa della mutazione del proprio termine immediato (l' esteso), il quale termine è poi anche subbietto dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero. Rimane adunque che il sentimento (il soggettivo) sia causa rimota e mediata della modificazione dei fenomeni extra7soggettivi, ossia causa della causa di questa modificazione. Ben fermato tutto ciò, dico che « il soggetto, che è il principio del sentimento, ha per sua propria legge di adoperare ed atteggiare il sentimento in modo da trovarsi il meglio possibile, e quindi anche il meno male possibile ». Ora questa virtù e attività del principio senziente, che atteggia e modifica il sentimento, è cagione che succedano delle modificazioni nei fenomeni extra7soggettivi. Le facoltà, che si riferiscono a queste modificazioni, sono quattro principali: La facoltà locomotrice . Per questa l' animale cammina e fa vario uso di tutti i suoi organi. La facoltà formatrice o plastica. Per questa l' animale si natura, si nutrisce, ecc.. Noi dichiareremo meglio come ciò avvenga e secondo quali leggi nel quinto libro. La facoltà delle abitudini sensitive . Questa facoltà è la stessa virtù di atteggiarsi piuttosto in un modo che in un altro, la quale esercitandosi si sviluppa, si modifica, riceve nuove disposizioni, nuove condizioni del suo operare, e quindi nuove spontaneità. La facoltà che ha l' istinto animale di alterarsi e guastarsi . Questa facoltà, a cui appartengono i fenomeni morbosi, è sempre, come le altre tre precedenti, la stessa facoltà o virtù generale che ha il sentimento di atteggiarsi variamente, secondo le varie condizioni che gli sono poste dagli stimoli che agiscono su di lui, dalle abitudini, ecc.. Onde, qualora questi stimoli lo pongono in certe condizioni, egli è necessitato, sempre dalla medesima legge della sua spontaneità, a produrre i mentovati fenomeni morbosi, di cui parleremo in appresso. Continuiamo ora a parlare dell' istinto umano, il quale, sebbene sia cieco come istinto, tuttavia si associa a qualche cognizione, onde procede od in cui finisce. L' istinto umano si manifesta anch' egli con affezioni razionali, le quali producono una condizione passiva dello spirito, che si chiama passione razionale , e una condizione attiva , che costituisce gli abiti . Delle passioni razionali basta il poco che ne abbiamo detto. Quanto agli abiti , essendo l' abito « una disposizione della potenza ad agire in un dato modo », essi si dividono, primieramente, come si dividono le potenze o facoltà che modificano ed attuano. Le potenze e facoltà umane e intellettive, se si vogliono classificare dai loro effetti, si possono ridurre a due gruppi: il gruppo di quelle che producono effetti entro il soggetto, migliorandolo o deteriorandolo, e il gruppo di quelle che producono effetti fuori del soggetto (extra7soggettivi), quali sono quelle che cagionano i movimenti dei corpi. Quindi due gruppi di abiti: gli abiti che aderiscono a quelle facoltà che producono i loro effetti entro il soggetto, e gli abiti di quelle facoltà che producono i loro effetti fuori del soggetto. Le facoltà, che producono i loro effetti entro il soggetto, si riducono alla potenza morale , e qui si hanno gli abiti morali , che sono le virtù ed i vizi; e alla potenza razionale in quanto opera nel soggetto, e quindi gli abiti razionali della memoria , delle scienze , della prudenza , ecc.. Ma in quanto la potenza razionale muove i corpi, e quindi produce effetti extra7soggettivi, ella dà luogo al secondo gruppo di facoltà, onde nascono gli abiti delle arti meccaniche e liberali , quelli dei movimenti viziosi del proprio corpo , ecc.. Fin qui noi abbiamo toccate le principali diramazioni dell' istinto razionale, classificandole secondo i modi del suo operare . Un' altra classificazione ce ne riesce, qualora noi cerchiamo i suoi molteplici rami, pigliando a considerare i diversi oggetti , a cui l' istinto si riferisce. Ora, per intendere la natura di ogni istinto conviene investigare quale sia il suo principio, quale il principio comune di tutte le tante sue diramazioni. Se l' istinto non avesse un principio unico, il quale, restando sempre il medesimo, prendesse diverse forme di operare, non si potrebbero significare coll' epiteto generico d' istintive le funzioni animali e razionali, da noi enumerate e classificate. Quale è adunque il principio dell' istinto? quale l' intima e immutabile sua natura? L' istinto indica un modo di operare del soggetto, ossia una legge, secondo la quale egli opera. Cercare questa legge è cercare il principio e la natura dell' istinto. Questa legge, secondo la quale operando un soggetto, dicesi che opera istintivamente, noi l' abbiamo accennata parlando dell' istinto animale, e attribuendogli « la virtù di atteggiarsi nel modo più aggradevole ». Basta dunque che noi rendiamo più generale quella nostra osservazione, che non la limitiamo ai soggetti animali, ma la estendiamo a tutti i soggetti anche intellettivi e razionali, ed avremo trovato l' unico principio dell' istinto. Infatti noi abbiamo già stabilito che un soggetto qualsiasi è un sentimento sostanziale. Di più, abbiamo stabilito che ogni sentimento ha un' attività sua propria. In terzo luogo, abbiamo pure dimostrato che questa attività pone continuamente il sentimento, di cui ella è principio, nello stato più aggradevole che le sia possibile, e ciò perchè l' atto, che atteggia così il sentimento, è naturale e proprio di quella attività, giacchè ogni attività non sarebbe attività, se non avesse il suo atto naturale, col quale ella si pone ed è quello che è. Ma l' attività di un sentimento può talora essere dipendente e passiva da qualche cosa di straniero a lei; il che avviene in tutte le attività finite. Queste attività, questi principŒ senzienti sono dipendenti dalla natura del loro termine, il quale si muta per qualche cagione o forza straniera. Ora la qualità e quantità di questo termine straniero al principio senziente e le sue mutazioni sono talvolta favorevoli all' attualità del principio, e talvolta sfavorevoli. Sono favorevoli, quando aiutano il principio senziente a spiegare un' attività maggiore; sfavorevoli, quando comprimono la naturale sua attività, e la impediscono dallo spiegare tutto l' atto suo naturale. L' attività del principio allora lotta coll' impedimento; e qui si vede quale sia la nozione generalissima, che noi ci dobbiamo fare dello stato aggradevole o disgradevole di un sentimento. Un sentimento disgradevole, molesto, doloroso è quello in cui il principio senziente è impedito dalla condizione del suo termine a spiegare tutto quanto l' atto suo naturale. Un sentimento aggradevole è allora che il suo principio a suo agio spiega tutta quella attività che gli è possibile secondo la condizione del suo termine, senza che niente lo contrarii o impedisca. L' attività dunque del principio senziente, posta in atto, è essenzialmente piacere; quanto questa attività si fa più attuale, si spiega di più, tanto il piacere è maggiore; l' essenza dunque del sentimento è il piacere, e il dolore non è che ciò che diminuisce con forza e violenza il sentimento, lo comprime, lo limita. Se dunque il principio senziente ha per suo proprio atto naturale di spiegare il sentimento maggiore possibile, data la condizione del termine, egli lo deve fare spontaneamente; e ciò equivale a dire che lo fa con quell' atto stesso pel quale egli esiste, pel quale egli è principio senziente. Questo è il principio di ogni istinto. Esso si trova nella natura di ogni sentimento sostanziale, di ogni soggetto, è l' attività propria del soggetto. Perchè, a ragion d' esempio, si manifesta nell' animale l' istinto del cibo? perchè questo istinto lo muove a fare tutti i movimenti che egli fa per procacciarselo? La ragione si è che questi movimenti sono altrettanti sforzi del principio senziente per istar meglio, per avere uno stato di sentimento più compiuto, più aggradevole. Non conviene coll' immaginazione fermarsi a ciò che apparisce all' esterno, quando il lupo, poniamo, mangia la pecora. I movimenti del lupo, che appariscono ai nostri occhi extra7soggettivamente, non sono che conseguenze dell' operazione interna e soggettiva, che avviene nel lupo. Conviene che il nostro pensiero entri a considerare i sentimenti animali, che il lupo prova successivamente in questa sua impresa; questi interni sentimenti del lupo sono le cause dei suoi movimenti esteriori; tutto ciò che fa il lupo, lo fa nel suo interno, nel suo sentimento; quando dico lupo che fa qualche cosa, altro non dico che principio senziente operante, atteggiante il suo sentimento nel modo più aggradevole. Se appariscono, in conseguenza di quell' interno lavoro, dei movimenti all' esterno, essi non sono che conseguenze relative alla nostra facoltà visiva, e in generale alla nostra sensitività speciale. Noi parliamo di questi esterni fenomeni della sensitività nostra speciale, quasi che il lupo li producesse direttamente e immediatamente. Tutt' altro: l' azione del lupo comincia, prosegue e finisce nel suo sentimento; quell' azione del lupo muta il termine del proprio sentimento (corpo soggettivo); tale mutazione dà alla nostra vista i movimenti del corpo del lupo (fenomeni extra7soggettivi). Col mutare che fa il lupo i termini del proprio sentimento, e mediante questi termini mutati, agisce anche sui corpi esteriori (sulla pecora); e ciò che accade nei corpi esteriori, ha nuove relazioni colla nostra sensitività visiva o tattile, di modo che noi abbiamo nuovi fenomeni, i movimenti e mutazioni che accadono nel corpo della pecora a noi sensibile. Ma per dirlo di nuovo, la vera forza agente, la causa prima di tutto ciò è il principio senziente del lupo, che atteggia successivamente in varie guise il suo sentimento, fino che arriva a compire l' opera della propria nutrizione. Tale è il lavoro dell' istinto. Se noi consideriamo un atto dell' istinto razionale, troveremo che si fa secondo la stessa legge. Perchè sentiamo naturale diletto a considerare la verità? Perchè il nostro principio razionale7senziente ha per suo atto naturale e dilettevole l' apprensione e contemplazione del vero; e però noi spontaneamente procuriamo di apprenderlo il meglio che noi possiamo, e goderne. E` sempre il soggetto, che atteggia nel modo più piacevole sè stesso, il proprio sentimento soggettivo. Noi collocammo l' istinto nel novero delle facoltà. Ma vogliamo avvertito che egli è piuttosto un modo di operare di diverse facoltà che una facoltà determinata; è una legge, come abbiamo detto, che governa l' attività del soggetto e che lo costituisce. La volontà è la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire « quella virtù, che ha il soggetto, di aderire ad una entità conosciuta ». Questa adesione si fa per via d' interno riconoscimento . Ma dobbiamo dichiarare che cosa intendiamo per questa parola riconoscimento volontario . In senso rigoroso riconoscere suppone il conoscere precedente, e un conoscere che faccia equazione, dirò così, col riconoscere, sicchè l' oggetto della ricognizione rimanga tale quale nella cognizione si trova. Questo accade talvolta, e allora la ricognizione volontaria è vera, giusta, morale, perchè la volontà, riconoscendo l' entità conosciuta, non ne altera il pregio, ma se ne compiace in quella sola misura, che la cognizione diretta le prescrive. All' incontro, avviene altre volte che la volontà, invece di aderire semplicemente all' entità conosciuta, cresce a sè stessa o diminuisce ad arbitrio i gradi dell' essere, che ha quella entità; e però la stima più o meno di quel che vale, la riconosce per quel che non è, non per quello che è; ella suppone che quella entità sia diversa da quello che pur è nella cognizione diretta, e però all' entità, propostale dalla cognizione diretta, un' altra ne sostituisce, fingendola e creandola per l' energia di arbitrio, che ella possiede. Questo non è certamente puro e semplice riconoscere, ma è prima di tutto un contraffare e immaginare ciò che poscia si vuol riconoscere. Il riconoscere adunque, rigorosamente parlando, esprime l' atto della volontà, quando è retto e verace; quando poi è torto e menzognero, allora l' atto della volontà è prima un fingere, e poscia un riconoscere ciò che fu finto. Ma per cagione di brevità talora noi pigliamo la parola riconoscere per indicare la prima attività volontaria, sia ella retta o torta. Riconoscere adunque semplicemente e riconoscere fingendo , sono i due modi nei quali si manifesta l' attività volitiva. Che cosa è dunque questo atto della volontà, che chiamiamo riconoscere, sia egli retto o torto? E` un compiacersi che fa il soggetto intellettivo dell' entità conosciuta. - Onde avviene che il soggetto intelligente si compiaccia dell' entità conosciuta? - Avviene di qui, che l' entità conosciuta, e però ogni entità, è il suo proprio oggetto, quello che gli fa fare l' atto suo proprio. L' atto proprio di un soggetto è quello che lo fa essere ciò che è; ora ogni soggetto ama di essere, che l' atto di essere di un soggetto vivo è piacere, è l' essenza del piacere. Dunque, appunto perchè il soggetto intelligente tende ad essere e pone sè stesso, perchè l' essere è il suo proprio bene, quindi colla stessa energia, con cui il soggetto intelligente è, colla stessa tende ad essere più che possa, ad aumentare la propria esistenza, ad ingrandire e dilatare l' atto della medesima, e quindi a compiacersi degli oggetti di questo atto, coi quali esso si spiega, si accresce e si perfeziona. Dunque ogni entità conosciuta è bene al soggetto conoscente, ed è tanto più bene, quanto quella entità ha più gradi di essere. Ma non essendo l' uomo un soggetto puramente intellettivo, ma dotato ancora di sensitività corporea e razionale, avviene che egli non operi sempre secondo l' inclinazione e la legge dell' intelligenza, ma secondo quella della sensitività animale o razionale. Quando l' inclinazione di questa doppia sensitività prevale all' inclinazione della mera intelligenza, che fa allora l' uomo? Non amando rinunziare all' inclinazione dell' intelligenza, seduce ed inganna sè stesso, e si persuade che il bene, presentatogli dal sentimento animale o razionale, sia maggiore di quello che è, maggiore di quello che la cognizione diretta gli dice; e così finge, contraffà l' oggetto della cognizione diretta, lo distrugge in parte o nasconde a sè stesso, in parte aggiunge coll' immaginazione e crea in esso quel bene che non vi è. Questa è la facoltà che ha l' uomo di mentire e di peccare. Non è già che egli sia costretto o necessitato a far ciò; ma egli può farlo, e però talora lo fa; questo è propriamente l' arbitrio della volontà. Quando adunque la ricognizione è torta e menzognera, allora ella è tale perchè precede a lei un sentimento e un affetto, che torce e seduce la volontà riconoscitrice. Ma se il riconoscere semplicemente, o il riconoscere fingendo, è il primitivo atto della volontà, gli effetti della volontà si fermano e finiscono in esso? No, ma il riconoscimento ha un' efficacia reale, che tira dopo di sè varie sequele nell' uomo. Queste primieramente sono di due maniere, i decreti della volontà e gli affetti (1). Qualora la cosa riconosciuta dalla volontà sia qualche bene che l' uomo ancora non ha, allora seguita un decreto volontario, col quale la volontà si propone di procacciarselo, e quindi di mettere in uso i mezzi necessari per arrivare a tal fine. A ragion d' esempio, un ferito vuole la guarigione; egli prima riconosce la guarigione della sua ferita per una entità buona; quindi decreta di applicare i rimedi, e in conseguenza di questo decreto muove le mani e li applica. Questo movimento esterno delle mani e del suo corpo viene in conseguenza del decreto, il quale ha virtù di muovere la forza animale locomotrice. Ma talora la cosa riconosciuta dalla volontà per un bene già si possiede, e non si tratta che di goderne maggiormente. Allora l' effetto immediato del riconoscimento suol essere l' affezione sensibile , che si muove spontanea, e che non è altro se non aumento e perfezione di quel piacere, che già contiene il riconoscimento del bene posseduto. A questi affetti spontanei tengono dietro dei movimenti corporei che li aiutano, i quali si manifestano extra7soggettivamente agli spettatori; e sono quei gesti esterni e quelle esterne azioni, che naturalmente dimostrano la gioia o il dolore, o gli altri affetti internamente concepiti. Quantunque poi il riconoscimento di un bene conosciuto, più o meno abituale, più o meno attuale, si continui in forma di affetto istintivamente, tuttavia può intervenire anche il decreto, che fa la volontà, di suscitare tali affetti; col quale decreto l' uomo può rendere il riconoscimento attuale, o può dargli maggiore attualità che istintivamente esso non avrebbe. Così i movimenti, che avvengono nel corpo, possono procedere dalla volontà per due vie, per quella del decreto e per quella dell' affetto . Si possono adunque distinguere tre specie di atti della volontà: 1 gli atti istintivi , che sono gli affetti spontanei, compresa in essi la ricognizione spontanea che ne è il principio, e i movimenti conseguenti del corpo; 2 i decreti che determinano l' acquisto di un bene che non si ha, e l' uso dei mezzi per acquistarlo; ovvero determinano gli atti per accrescere il godimento attuale del bene che già si ha, e questi decreti si sogliono chiamare atti eliciti; 3 e finalmente i movimenti delle potenze stabiliti coi decreti, i quali atti si sogliono chiamare atti imperati . Gli atti eliciti e gli atti imperati sono sempre assentiti dalla volontà; ma gli atti istintivi sono assentiti solo allora che la volontà, potendo impedirli, fa il decreto di non impedirli; sicchè l' assenso suppone sempre il decreto. Tuttavia il decreto di non impedire gli atti spontanei può essere prossimo o remoto; è prossimo, se si decreta di non volere impedire quegli atti; è remoto, se si decreta di non volere impedire la causa di quegli atti, riputandosi che chi vuole la causa, voglia l' effetto. Tutti gli atti della volontà si chiamano volizioni. Gli atti istintivi, non mossi da alcun decreto, sono volizioni senza scelta. La scelta cade sempre nell' ordine dei decreti, perocchè quando si pronuncia internamente un decreto, allora si sceglie sempre fra il volere e non volere la cosa. Questa scelta talora è così libera che viene determinata dall' energia stessa della volontà e non dagli oggetti, ed allora v' è quella che si chiama libertà bilaterale , e che è necessaria al merito morale proprio degli uomini viatori. Quali sieno le condizioni della libertà bilaterale nel suo esercizio, fu da noi ragionato nell' Antropologia ed altrove. Ogniqualvolta l' ingegno umano si volge allo studio delle cose naturali, prende piede il metodo analitico; di che la ragione è questa, che la materia si conosce dall' uomo per la sua divisibilità, per le sue parti e loro diversi accozzamenti ed aspetti, ed apparenze sensibili; almeno tale è la cognizione che cercano di essa le naturali scienze, le quali non vanno più in là della percezione , che è tutto il loro fondamento. Il quale esercizio d' analisi giova sommamente ad addestrare l' ingegno, e a renderlo più spedito in opera di scienze. Ma poichè l' uomo è limitato, qualora s' appiglia ad un metodo parziale e se ne invaghisce, dimentica facilmente e non più apprezza gli altri, pur buoni anch' essi e necessari alla perfezione del sapere. Oltre di che, l' uomo propende agli estremi; e però, datosi al ragionare analitico e colti dei bei frutti, tosto immagina e si persuade che quel solo metodo basti a tutto, e che l' analisi sia l' unico fonte di ogni sapienza. E tuttavia questo eccesso di confidenza che gli uomini mettono nell' analisi, in quei secoli nei quali le scienze naturali pigliano il sopravvento, non è senza qualche vantaggio all' educazione dello spirito, che non può mai accingersi felicemente alla sintesi scientifica, se l' analisi prima non sia perfezionata e, se fosse possibile, esaurita. Ora l' analisi non si spingerebbe forse mai tanto innanzi, qualora la mente si applicasse a due lavori ad un tempo, volesse percorrere due vie, e parte ragionare analizzando, parte sintesizzando. Sono già ben due secoli che l' umano ingegno analizza; perchè sono oltre due secoli che le scienze fisiche e materiali acquistarono maggioranza sulle intellettuali e morali. Onde queste provarono i funesti effetti di quel metodo analitico, che, quando prevale a segno da escludere la sintesi, è insufficiente a rinvenire certe verità, e, se vuol fare quel che non può, partorisce errori. E le verità, a cui vien meno l' analisi scompagnata dalla sintesi, sono appunto molte di quelle che hanno per loro oggetto la natura e le leggi degli spiriti, i quali, semplici come sono, non si lasciano dividere in parti materiali. Per fermo, lo studio delle nature spirituali non può procedere innanzi utilmente colla sola analisi, e molto meno con un' analisi materiale. Laonde la prostrazione, in cui dopo la Scolastica caddero le scienze che riguardano gli spiriti, si deve riputare appunto a queste due cause: 1 ad essere state trattate esclusivamente per via d' analisi, dimenticata la sintesi; 2 ad essere state trattate con quella specie d' analisi, la quale ben si conviene alla materia, che è molteplice, ma non allo spirito, che è semplice e uno. Se noi consideriamo la storia della filosofia dello spirito, da Condillac fino a tutta la scuola scozzese, senza voler trovare in questi ultimi filosofi il materialismo, osserveremo che è perduta in essi l' unità dello spirito umano, il quale è divenuto una mera aggregazione di facoltà quasi iuxta positae : si parla di principŒ d' azione, di fatti di prim' ordine; del principio ond' escono le facoltà e in cui rientrano, del principio7sostanza, o non se ne parla, o assai leggermente, quasi fosse un' accessorio, o un non so che di appiccicato, quand' egli, ed egli solo, è pure lo spirito. Se questi filosofi, così procedendo, decapitarono, per così dire, le scienze psicologiche, si fu perchè fecero un uso esclusivo dell' analisi, avendo il loro spirito perduto quasi l' uso della sintesi. Ma i Frenologi, che ad essi successero, produssero dei lavori guasti di gravissimi errori, a cagione che non solo applicarono allo spirito il solo metodo analitico, escluso il sintetico, ma vi applicarono quel metodo analitico materiale, che ai soli corpi conviene, quasi pretendendo che l' aggregazione delle facoltà, di cui i precedenti filosofi avevano fatta constare l' anima, altro non fosse che l' aggregazione degli organi ben distinti, di cui si compone il cervello. Per questo, non senza ragione, un autore recente mise a confronto gli autori della scuola scozzese coi Frenologi, e trovò gli uni e gli altri peccare in questo, d' aver messo in obblìo l' unità del soggetto, squarciatolo in facoltà distinte o in organi, su cui non più la mente esercita la sua analisi, ma il coltello anatomico le sue incisioni (1). Niuno imputerà a noi che siamo avversi all' analisi; noi ripetiamo che non si dà una sintesi veramente scientifica, una sintesi verace, se l' analisi prima non fu in qualche modo esaurita. Che se noi abbiamo cominciato l' opera presente con una ricerca eminentemente sintetica, « quale sia la natura dell' anima », ciò ci fu lecito, dopo avere lungamente analizzato nei lavori precedenti quanto nell' anima si può osservare di atti e di facoltà. E noi abbiamo tutto ciò analizzato con quell' analisi che conviene solo allo spirito, la quale non lo tagliuzza in parti separate, anzi considera le singole parti senza schiantarle dall' unica radice in cui vivono, si muovono e sono, che è la sostanza dell' anima stessa. Ora poi, dopo aver noi meditato su quella prima questione sintetica, « quale sia la natura dell' anima umana », da questo ceppo delle facoltà tutte o delle funzioni movendo, abbiamo distinte ed enumerate queste facoltà e funzioni; il che fu un tornare all' analisi. Ma compiuto anche questo lavoro, derivate le facoltà umane dal loro principio, ci conviene che a quel principio medesimo le riconduciamo, acciocchè vi attingano le leggi del suo e del loro operare. Per questo noi abbiamo apposto l' epiteto di sintetici ai tre libri seguenti, che trattano delle leggi secondo le quali operano le potenze dello spirito umano, perocchè queste leggi derivano dalla natura intima dello spirito, e sono sequele a quell' atto primo e sostanziale, pel quale e nel quale lo spirito è quello che è, o, meglio ancora, a quell' atto che è lo stesso spirito. Oltre di che la dottrina delle leggi, che governano l' attività dello spirito, deve dirsi sintetica anche per questo, che ogni legge che si stabilisca, altro non è finalmente che una grande sintesi, a cui si conducono innumerevoli atti, che si fanno allo stesso modo; il qual modo identico, che essi tengono, è appunto il segno e la sostanza della legge. Come poi nel precedente libro, dove fu nostro intendimento enumerare e descrivere le speciali potenze dell' anima, lo abbiamo fatto incominciando a derivarle e raccoglierle dall' essenza stessa di lei, così ora ci è uopo di additare, prima d' ogni altra cosa, la sorgente unica di tutte le leggi che segue lo spirito e le sue attività, negli atti in cui si svolgono, la quale è pure l' essenza medesima dell' anima; al che poniamo tosto mano. Riprendiamo adunque la natura umana quale l' abbiamo descritta; ricapitoliamo tutti gli elementi che la compongono, e nella natura di questi cerchiamo le leggi che presiedono al suo operare, pel quale ella si svolge e perfeziona. A tale intento prima di tutto consideriamo da capo la definizione dell' uomo. L' uomo è « un soggetto animale, intellettivo e volitivo ». Questa definizione può essere compendiata in quest' altra: « un soggetto razionale ». La prima definizione ha il vantaggio d' indicare le potenze primitive dell' uomo. Infatti l' intelligenza è potenza primitiva , laddove la ragione è potenza risultante , come abbiamo veduto. Per questo noi preferimmo dire che l' uomo è un soggetto intellettivo piuttosto che un soggetto ragionevole. Che se in quella prima definizione avessimo posto ragionevole o razionale in luogo d' intellettivo, non ci era più permesso di far entrare nella definizione l' animalità, come quella che sarebbe stata già compresa nella razionalità; e così non avremmo ottenuto l' intento di dare una definizione, in cui fossero distintamente accennate le potenze primitive. A malgrado di ciò, ritrattando ora la questione, troviamo più perfetta l' altra definizione testè recata: « l' uomo è un soggetto razionale »; perchè, dato che la parola razionale sia precedentemente dichiarata, il che noi facemmo, questa definizione, oltre il pregio della brevità, gode dei vantaggi seguenti: 1 Quantunque l' intelligenza sia potenza primitiva, tuttavia non è quella che costituisce la natura dell' uomo; di maniera che colla sola intelligenza sarebbe posto in essere un soggetto intellettivo, ma non ancora l' uomo; fino a tanto adunque che il nostro pensiero si ferma all' intelligenza, l' uomo è in via di formarsi, ma non è ancora formato; l' attività che pone l' uomo è la ragione. 2 La ragione, essendo quell' attività in cui conviene e si annette l' intelligenza coll' animalità, esprime acconciamente l' unità del soggetto umano e il vincolo primordiale delle sue potenze. Vero è che nella definizione, « l' uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo », la parola soggetto indica sufficientemente l' unità dell' essere umano; ma la definizione, « l' uomo è un soggetto razionale », oltre esprimere l' unità dell' uomo, indica altresì il come questa unità si formi, in virtù cioè della ragione, che congiunge in sè stessa l' intelletto ed il senso (1). Ora, affinchè questo nesso meraviglioso dell' animalità coll' intellettualità riceva quella luce che ci bisogna per dedurne le leggi che segue operando l' umana natura, dobbiamo renderci presente all' attenzione della mente la dottrina ontologica delle relazioni essenziali agli enti, le quali si dicono essenziali perchè entrano a costituirli. E prima non si dimentichi che gli enti, dei quali noi parliamo, sono quelli che cadono nei nostri concepimenti, poichè se non li concepissimo, non ne potremmo pur parlare. Ora questi enti, i quali cadono nel nostro concepire, hanno in sè delle relazioni così essenziali che, senza di esse, non sarebbero quello che sono. Quindi essi cangiano di natura nella nostra mente, secondo che il nostro pensiero li considera con alcune di queste relazioni essenziali ovvero con altre; perocchè se da un ente concepito si toglie una sua relazione essenziale, egli è già per questo solo incontanente un altro ente, e viene espresso con un altro vocabolo; e se una ve ne si aggiunge, egli di nuovo non è più quell' ente, ma un altro; appunto perchè si tratta qui di relazioni essenziali, che fanno parte dell' essenza dell' ente, ossia dell' ente stesso. Questa avvertenza riuscirà chiara a quelli che già conoscono la nostra dottrina del sintesismo dell' essere. Ora dobbiamo applicarla alle diverse entità, che entrano nella costituzione dell' anima umana, la natura delle quali e il loro intimo nesso ci è bisogno conoscere per dedurne le leggi. Se noi consideriamo l' ente dotato di estensione, facilmente ci accorgiamo che il concetto dell' estensione risulta da una relazione essenziale fra le parti, che possiamo assegnare col nostro pensiero in un dato continuo, o fra punti che possiamo in esso a voglia nostra concepire. La relazione essenziale fra le parti, di cui parliamo, consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. La relazione essenziale fra i punti assegnabili consiste in questo, che fra un punto e l' altro sia un dato continuo, maggiore o minore, sicchè i punti non si possano toccar mai. Il concetto dell' ente esteso risulta da queste relazioni; e però l' estensione involge relazione possibile di parte estesa a parte estesa, e di punti a punti, la cui relazione è la distanza. Ma se all' incontro noi consideriamo la relazione del continuo col principio senziente, questa relazione è del tutto diversa; non è relazione di parte a parte o di punto a punto, poichè il principio senziente non è nè una parte estesa, nè un punto matematico. Questa relazione fra l' esteso e il principio senziente fu da noi chiamata relazione di sensilità . E` evidente che questa relazione è inestesa, appunto perchè non è relazione di parte a parte o di punto a punto, la qual sola forma l' estensione. Dunque noi conchiudemmo che il principio senziente apprende l' esteso in un modo inesteso. Quando poi diciamo che il principio senziente apprende l' esteso, noi veniamo a dire che l' esteso è nel principio senziente. Ma l' esteso non è nel principio senziente come una parte è in un' altra parte maggiore; dunque l' esteso non è nel principio senziente con quella relazione che costituisce l' estensione; dunque l' esteso è nel principio senziente in un altro modo, cioè in un modo inesteso. Questo stesso si prova con un altro argomento così. Che cosa vuol dire un ente essere nell' altro in un modo esteso? Vuol dire essere nell' altro secondo la legge dell' estensione. E quale è questa legge? E` che un ente sia in un altro come un' estensione minore è in un' estensione maggiore, come la parte di un corpo è nel tutto. La parte di un corpo è nel tutto in modo che ella è fuori delle altre parti, di maniera che niun corpo, propriamente parlando, è contenuto in un altro corpo, benchè possa essere da un altro corpo circondato, appunto perchè questa è la proprietà dell' estensione, che ogni sua parte sia fuori dell' altra; la quale proprietà, quando si considera nei corpi che godono dell' estensione, chiamasi impenetrabilità . All' incontro, se si considera come l' esteso sensibile sia nella sensazione o nella percezione sensitiva, è chiaro che non vi è nel detto modo, perchè non si trovano due estensioni, l' una delle quali minore compresa nell' altra maggiore, ma tutta intera l' estensione trovasi presente al principio senziente e percipiente, il quale non è già una estensione maggiore che comprenda la minore, ma anzi è cosa diversa dall' estensione, di cui l' estensione è il termine; dunque l' esteso non è nel principio senziente secondo il modo che prescrive la legge dell' estensione, ma vi è in un modo inesteso. Tutto ciò viene dato dalla semplice osservazione; è un fatto innegabile; basta dargli attenzione per riconoscerlo. Se si vuole ancora un' altra prova di questo vero, o un altro indizio a cui riconoscere questo fatto, si mediti ciò che sono per dire. La frase, « un corpo ne contiene un altro, un esteso contiene un altro di lui minore », è impropria e, rigorosamente parlando, falsa, appunto perchè l' estensione e ciò che gode dell' estensione è impenetrabile, come dicemmo; una parte non può essere dentro l' altra senza distruggere la sua propria estensione. Ora, se l' esteso fosse contenuto nel principio senziente come un esteso è nell' altro, conseguirebbe che l' esteso non sarebbe mai contenuto nel principio senziente, ma il principio senziente non farebbe che circondarlo, che stargli a lato. In questo caso il principio senziente non potrebbe mai sentire l' esteso, perchè l' esteso si rimarrebbe sempre fuori di lui, come accade di ogni esteso rispetto ad un altro esteso; e ciò perchè l' esteso non può sentire l' esteso. Ma il principio senziente sente l' esteso, tutto l' esteso; dunque è necessario che l' esteso sia nel principio senziente secondo un' altra relazione, secondo un' altra legge, diversa da quella dell' estensione, il che è quanto dire in un modo inesteso. Di più, se il principio senziente avesse estensione e percepisse gli estesi, ricevendoli nella sua propria estensione, allora o l' estensione del principio senziente sarebbe la medesima di quella degli estesi che egli sente, o sarebbe diversa. Se fosse la medesima, il principio senziente non sentirebbe che sè stesso e niuna nuova sensione a lui s' aggiungerebbe mai; se fosse diversa, aggiungendosi una estensione a quella del principio senziente, la nuova estensione per essere sentita dovrebbe diventare ella stessa principio senziente; altro assurdo manifesto, perchè nella sensione e percezione sensitiva altro è il senziente, altro è il sentito. Finalmente, se il principio senziente fosse esteso, ogni parte della sua estensione non potrebbe sentire che una parte estesa della sua propria dimensione. Ma per quantunque minime fossero le parti che si assegnassero col pensiero, si potrebbero sempre diminuire ancora, e ciò indefinitamente, di maniera che le parti minime non si potrebbero mai rinvenire, perchè nell' esteso non vi sono parti assolutamente minime; onde non si troverebbero mai le parti senzienti, giacchè ogni parte non potrebbe essere sentita tutta intiera dalla sua parte corrispondente, giacchè questa stessa avendo altre parti, ciascuna di esse non sentirebbe tutta la parte intiera, onde sarebbe impossibile determinare una parte che tutta sentisse tutta un' altra parte; mancherebbe adunque il principio senziente atto a sentire tutto un esteso, per piccolo che egli fosse (1). Per la stessa ragione mancherebbe anche l' esteso sentito, perchè non vi sarebbe un senziente capace di sentirlo come esteso. Che se si supponga il principio senziente essere un punto matematico, questo ad ogni modo non potrebbe sentire più che un punto matematico, perchè l' esteso o il punto non ha alcuna esistenza, nè azione fuori di sè stesso, e perciò non sentirebbe l' esteso. Anzi l' esteso stesso non sarebbe al tutto, giacchè fuori del principio senziente ei non può essere. Infatti se nell' esteso ogni parte è fuori dell' altra, ogni parte, e, per dir meglio, ogni minimo esteso esiste fuori dell' altro. Se esiste fuori dell' altro, la sua esistenza e la sua essenza è limitata a sè, e non ha alcuna relazione propria ed essenziale coll' altra. Ma ogni minimo esteso è una unione di estesi ancora più piccoli, e ciò all' indefinito; gli ultimi estesi adunque non sono reperibili, e così l' estensione va a svanire. Se dunque l' estensione suppone parti possibili coesistenti, se suppone continuità, la quale senza alcuna interruzione abbia un' esistenza unica simultanea, conviene che vi sia un principio semplice, che possa abbracciare simultaneamente tutte le parti possibili; sicchè non rimanga già la sola esistenza delle singole parti, ma di esse tutte si formi un' esistenza sola, un ente solo; tale essendo la natura del continuo, che in esso si possano assegnare parti con esistenza individuale ed indipendente, e che tuttavia egli non abbia queste parti, in quanto è continuo. La ragione dunque del continuo, proprietà dell' estensione, non si trova nell' esistenza individuale delle singole parti, ma in un principio semplice loro superiore, che dà loro un' esistenza unica per tutte, e che, abbracciandole tutte, le abolisce, cessando esse d' essere parti di continuo per essere solamente continuo. Ora questo fa il principio senziente, al quale è presente il continuo senza parti, benchè in esso si possano assegnare parti innumerevoli. Per questo noi dicemmo che l' esteso non può esistere che nel semplice (1). Quello che c' importa qui di raccogliere dai sopra esposti ragionamenti si è che della natura dell' estensione e dei corpi si può ragionare in due modi, e quindi anche averne due concetti. Poichè si può considerare la natura dell' estensione dei corpi: Sotto la relazione essenziale all' estensione , la quale consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. Colla quale considerazione il pensiero non esce dall' estensione o da ciò che è esteso; non fa che considerarla in sè stessa, paragona una sua parte ad un' altra. Sotto la relazione pure essenziale di sensilità . Colla quale considerazione si paragona l' estensione o l' esteso col principio senziente, e la si trova condizionata a lui e in lui inestistente. Il comune degli uomini considerano l' estensione e l' esteso sotto la prima relazione, ed in essa pongono la sua essenza; il filosofo deve considerarla sotto la seconda, ed intendere che anche la seconda entra a costituirne l' essenza, e quindi che l' estensione ha un nesso essenziale col principio senziente, che non è lei. Questi nessi tra due enti, essenziali ad entrambi, sono il fondamento del sintesismo ontologico , e la chiave della filosofia più elevata. Ora si deve osservare che la prima relazione essenziale non è già distrutta dalla seconda, che anzi la seconda suppone la prima. E veramente, qualora l' estensione continua o l' esteso continuo si considera come esistente nel principio senziente, non avviene che si confonda col principio senziente, a cui è anzi opposto siccome suo termine. Questo termine adunque è un ente in sè stesso, costituito di maniera che esso si può concepire non uscendo di lui, non aggiungendovi cosa alcuna; e però è una sostanza, perocchè « sostanza è ciò che ha quanto gli abbisogna d' avere per essere concepito, e che però esiste in sè stesso ». Si noti bene: acciocchè una cosa sia una sostanza non è necessario che ella non abbia una causa, o un principio che la costituisca; ma basta che possa essere concepita da sè; più brevemente, « sostanza è ciò che ha un concetto suo proprio ». Se non che la parola sostanza involge di più una relazione coll' accidente , come accade nella sostanza corporea, che ammette vari accidenti, i quali in essa e per essa esistono, e non hanno un concetto separato ed indipendente, non potendosi concepire esistente un accidente corporeo, se prima non si concepisce un corpo, un esteso, in cui egli sia; al quale si dà appunto perciò la denominazione di sostanza . Si chiama dunque sostanza « un ente (ossia ciò che ha un concetto proprio) considerato in relazione con altre entità, che in lui e per lui esistono »; e questa è la definizione più completa della sostanza. Si dirà che se l' esteso continuo ha per sua relazione essenziale l' esistere nel principio senziente, pare che esso non si possa concepire senza ricorrere al principio senziente in cui esiste, perchè tutto ciò che è essenziale entra nel concetto d' un ente. Ma qui si avverta primieramente che per questo appunto dicemmo che, coll' aggiungere una relazione essenziale o col sottrarla, mutasi l' ente nel nostro concetto, cangiandosi essenzialmente; giacchè abbiamo premesso che gli enti, di cui parliamo, sono quelli che concepiamo; ma la parte essenziale che vi si aggiunge, non muta la prima. Di poi si consideri che il concetto di esteso continuo, quantunque non si consideri in esso il principio senziente, tuttavia presenta in sè ciò che la semplicità di questo principio produce, che è la continuità ; di modo che è ragionando sulla natura di questa continuità che in appresso s' induce la necessità d' un principio senziente. Ma questa induzione, benchè si fondi sul primo concetto dell' esteso, tuttavia appartiene ad un ragionamento posteriore alla concezione di lui; il quale non è necessario alla concezione dell' ente, che col primo concetto , come dicemmo, si pone. Fin qui noi parlammo promiscuamente della estensione e dell' esteso, perchè il nostro ragionamento valeva per l' una e per l' altro. Ora, prima di procedere a parlare dell' unità, che il principio senziente dà al suo termine, giova, per ragione di chiarezza e per rimuovere ogni dubbio dalla mente di chi toglie a ragionare con noi, che distinguiamo l' estensione dall' esteso . Per estensione noi intendiamo il medesimo che spazio considerato indipendentemente dai corpi; e per esteso noi intendiamo il corpo che occupa una parte dello spazio, ossia della estensione. L' estensione, ossia lo spazio pieno o vuoto, occupato o non occupato dai corpi, esiste egualmente, e non è certamente un nulla, come taluno si dà a credere; conciossiacchè il nulla non può essere occupato da una cosa alcuna, nè nel nulla si possono assegnare parti col pensiero, come si può nello spazio. Ora questo spazio è immenso (1), immobile, indivisibile, ossia continuo ed immodificabile; ed è solamente il corpo che è misurabile, mobile, divisibile, modificabile; ma il corpo, sia o non sia in un dato spazio, non modifica punto lo spazio, ossia l' estensione; questa rimane quella che era prima. Noi ammettiamo che lo spazio puro sia un termine della percezione fondamentale dell' anima. Questo spazio primitivo non è una forma nel senso di Kant, quasi una legge dell' operare e una produzione dell' anima stessa, ma è il termine, distinto dall' anima, di una naturale percezione. Questo termine però ha successivamente due stati: il primitivo , privo di qualsivoglia distinzione o relazione quantitativa, o d' altra natura (spazio puro indistinto); e il riflesso , che è lavorato dalla riflessione della mente, che paragona lo spazio primitivo, percepito anche intellettivamente, colle varie dimensioni dei corpi e colle possibilità di tali dimensioni (idea di spazio puro distinto, ossia riportato ai corpi). Questo spazio riflesso, puro, ma distinto, con relazioni quantitative, è di altro genere, è l' idea di spazio interminabile , di cui abbiamo dichiarata l' origine nel Nuovo Saggio (1). Noi ammettiamo che uno dei termini del sentimento fondamentale è un corpo esteso, e però anche un' estensione distinta, limitata quant' è il corpo. Ma avendo l' animale virtù di muoversi, e il muoversi non essendo altro che trasportare il corpo in un' altra parte dello spazio, qualora rimanga un vestigio dello spazio precedentemente occupato, lo spazio distinto rimane ingrandito nel principio senziente in proporzione del movimento e della ritentiva del medesimo. Accadendo poi questo moto nell' uomo, il quale, dotato com' è d' intelligenza, ha il concetto del possibile, l' uomo intende la possibilità di moltiplicarsi e di estendersi lo spazio del suo corpo e di altro corpo all' indefinito mediante il moto, e così si forma il concetto dello spazio riflesso, distinto, puro od immenso (2). Questo concetto adunque manca all' animale che non ha concetti, e nell' uomo è acquisito; quando lo spazio indistinto della percezione sensitiva e razionale è innato. L' istinto poi del moto suppone bensì la percezione fondamentale dello spazio immenso distinto, ma non l' idea dello spazio distinto, perchè quell' istinto non è che il sentimento corporeo avente uno spazio limitato, benchè non ne senta i confini esteriori, e tendente ad atteggiarsi nel modo più agiato e piacevole, senza che l' animale senta, prima di recarvisi, come pieno e distinto, il nuovo spazio in cui colla sua attività si trasporta; ma lo sente distinto, cioè occupato ossia occupabile, solamente allora che vi si è già trasportato, se pure ha modo di conservare in sè i vestigi dello spazio precedente. Lo spazio adunque annesso al proprio corpo è lo spazio distinto perchè occupato, ma non è segnato da confini, che non si possono distinguere, perchè non si sente ancora nulla di corporeo fuori dello spazio sentito che lo limiti; lo spazio adunque del proprio corpo è assolutamente limitato, ma l' animale non ne ha la misura, perchè la misura suppone una relazione con altra quantità estesa, la quale manca ancora prima che esso animale eserciti la sua virtù locomotiva, e ne riceva nuove sensioni. Ora poi, essendo il mero spazio immodificabile ed immobile, egli non ha accidenti; e però, quantunque convenga a lui il nome di ente , perchè il suo concetto, dopo che l' uomo se lo procacciò, è sufficiente a sè stesso e non ha bisogno di corpo, tuttavia a lui non compete il nome di sostanza , perchè il concetto di questa è relativo ad altre entità, che nell' ente e per l' ente esistono, cioè agli accidenti. Dove di nuovo si vede essere una affermazione gratuita quella che « « non si dieno altri enti se non sostanze ed accidenti », » affermazione che appartiene ad una Ontologia materiale e falsa (1). Che poi lo spazio sia un ente e non sia un nulla, si vede da questo stesso che egli è termine, insieme colla forza corporea o senza questa, del sentimento. Ma perchè ciò che si muta è solamente questa forza ed egli si rimane immobile, conviene dire che egli sia un ente, che ha solo l' atto primo con cui è nel principio senziente, e come termine lo informa; ma non ha altra attività, nè atti secondi; perciò appunto non ha accidenti; onde alcuni, che nulla riconoscono se non vedono accidenti ed atti secondi, cadono nell' errore di dichiararlo un nulla. Per altro quando si considera lo spazio puro, l' estensione, come termine immediato dello spirito, egli si considera nell' atto stesso di costituirsi, non avendo altra attività che quella che dimostra come naturale termine del principio senziente; laddove il concetto del corpo (dell' esteso), quale termine del principio senziente, involge di più una passività che ha natura corporea, sì rispetto allo spirito di cui è termine, e sì rispetto ad altre virtù o forze esteriori, che lo muovono e lo modificano indipendentemente dallo spirito nostro. Laonde, se ad acquistare il concetto di spazio distinto, ossia di qualche spazio, basta all' uomo l' astrarre dal corpo, ad acquistare il pieno concetto di corpo è necessaria l' esperienza, che dimostri essere il corpo un ente che agisce nello spirito, su cui lo spirito reagisce modificandolo, e su cui finalmente altre forze e virtù straniere pure agiscono e producono in esso movimenti e modificazioni. Da tutte queste notizie, raccolte dall' esperienza, lo spirito umano conchiude quale forza sia quella che si distende nell' estensione, e che si chiama corpo (1). Noi possiamo ora dalle cose dette avere un corollario importante, cioè che quella unità che si trova nell' estensione e nell' esteso corporeo, viene costituita dalla unità e semplicità del principio senziente, ossia dall' anima. E veramente la sola unità, che si scorge nell' estensione e nell' esteso, consiste nella continuità . Se leviamo la continuità, se colla mente la spezziamo successivamente, lo spazio ed il corpo ci si moltiplica sempre più, e questa moltiplicazione non ha alcun fine, perchè il continuo ci rimane sempre; per questa via dunque della divisione e moltiplicazione all' infinito non si trova mai uno spazio ed un corpo senza continuo, e l' immaginarlo è un assurdo. Se poi noi leviamo il continuo d' un tratto e non successivamente, ogni estensione ed ogni corpo fenomenale è perito (1). Ora noi vedemmo che la continuità dell' esteso non si può concepire se non a condizione di un ente, il quale, identico, sia contemporaneamente in tutte le parti assegnabili del continuo; e questo è ciò che si può affermare dello spirito, quando si considera il continuo come termine indiviso e indivisibile di lui. Se dunque l' unica semplicità del mondo materiale consiste nella continuità, e se questa ha tal concetto, tal natura che fuori del principio senziente non può stare, anzi ripugna il pensarla, dunque la semplicità e l' unità del mondo materiale risulta da questa sua essenziale condizione e relazione, che egli è termine del principio senziente animale, o, che è il medesimo, dell' anima sensitiva. E qui mi affido che coloro, i quali avranno inteso tutto questo ragionamento, non faranno l' obbiezione che « l' essere due corpi contigui o disgiunti è condizione dei corpi stessi e non del sentimento », poichè, dicendo ciò, mostrerebbero di non avere considerato: Che l' estensione immobile è il fondamento del continuo anche nei corpi, i quali non sono che forze diffuse nella estensione, e questa ha la sua sede nel principio senziente. Che la contiguità dei corpi non è nulla rispetto agli stessi corpi singoli, ciascuno dei quali non ha in sè nulla della relazione di vicinanza o contiguità coll' altro; e però questa relazione è estranea al loro concetto, ed altro non è che una relazione, che ciascuno di essi ha col termine del principio senziente, cioè coll' estensione immobile ed immodificabile; e però la loro contiguità è relazione col principio senziente, il quale li sente nello spazio, da cui esso principio, come da termine suo proprio, è informato. Dato un ente, il cui concetto escluda la possibilità d' una successione, quell' ente dicesi eterno. Tali sono le idee (1), tale è l' essere necessario, Iddio. E si noti che a poter dirsi un ente eterno, egli non solo deve escludere di fatto la successione, ma ben anche la possibilità di lei, di maniera che il pensare che in esso sia successione equivale ad un distruggerlo. Così un atomo materiale immobile è privo di successione, ma egli potrebbe averla, perchè si potrebbero pensare in lui delle mutazioni, senza annullarne il concetto; perciò egli non è delle cose eterne. Successione importa mutazione; onde ciò che è eterno è altresì immutabile. Per la stessa ragione ciò che ha cominciato ad essere, oppure solo che si può pensare senza ripugnanza aver egli incominciato, non è eterno. Poichè se una cosa può cominciare, niente vieta che si pensi un' altra cosa, che cominci ad essere prima o dopo di quella, o che ella stessa finisca dopo avere cominciato; è dunque tosto possibile il pensare che quella cosa sia il termine di una serie successiva, ammetta successione; il che si deve dire anche dello spazio, il cui concetto ammette benissimo il cominciamento, senza che con questa concezione lo si annulli. Si consideri adunque attentamente il concetto della successione , giacchè esso è necessario a quello del tempo. La successione suppone una serie di più avvenimenti. Ora ciascuno di questi avvenimenti non forma la successione od il tempo, ma tutti insieme contribuiscono a formarla. Che se in ciascun avvenimento non consiste il tempo, dunque il tempo è fuori degli avvenimenti, perchè ogni avvenimento è essenzialmente singolare, e nella sua singolarità è compito, di modo che il concetto di lui non domanda e non ha alcuna relazione essenziale con un altro avvenimento. All' incontro il tempo consiste essenzialmente nella relazione di più avvenimenti fra loro. Ora, se questa relazione, che costituisce il tempo, non si trova negli avvenimenti, dove si troverà? Noi rispondiamo che questa relazione realizzata si trova prima nel principio senziente , il quale apprende più avvenimenti, e questi disposti in ordine successivo. E` questo un fatto che non si può rilevare che coll' osservazione interiore; ma possiamo poi analizzarlo e, meditando la sua natura, cercare le condizioni, alle quali il principio senziente può apprendere più avvenimenti successivi, per esempio, più modificazioni sue proprie. Acciocchè il principio senziente apprenda come suo termine più avvenimenti successivi, appare necessario che essi, rimanendo in qualche modo in lui, si rendano contemporanei; perocchè se dopo averne appreso uno, questo passasse del tutto e ne venisse un altro, nel principio senziente comparirebbero gli avvenimenti singolari come sono in sè stessi; ma la relazione di successione fra loro non sarebbe appresa, ella non esisterebbe in lui più che negli avvenimenti, e sopravvenendo il pensiero, questo non troverebbe alcuna successione. E` ben da osservarsi che il pensiero piglia le cose come sono, come gli vengono date dal sentimento, e non le cangia (1); dunque è uopo che la successione esista avanti il pensiero, nello stesso sentimento, acciocchè ella possa essere pensata. Ciò che fa il pensiero si è di concepire quella successione come possibile , e, come tale, rendere indefinita quella successione finita che gli presenta il sentimento; il che egli fa coll' idea di possibilità, come abbiamo altrove dichiarato; (2) ma rimane sempre che il sentimento gli debba aver prima presentata nella propria realità una successione finita. Il che s' intenderà meglio, ove si consideri che neppure la memoria sarebbe, senza l' aiuto di sentimenti, i quali notassero le cose nell' idea dell' essere. Perocchè è certo che, se cessasse ogni sentimento all' anima intellettiva, in lei cesserebbe ogni memoria di avvenimenti o di cose reali, non restandole presente altro che l' essere ideale senza determinazione o disuguaglianza di sorte, perchè nulla sarebbe che disegnasse in quello le cose speciali e reali. Tutto ciò che potrebbe restare sarebbero certe attitudini, potenzialità, abiti dell' anima, impotenti di passare all' atto. Ma perchè si vegga più chiaro quale parte abbia nella costituzione del tempo il pensiero, e quale il sentimento, conviene investigare più addentro il fatto della memoria, facoltà che appartiene all' ordine dell' intelligenza, e propriamente alla potenza della ragione. Parleremo adunque qui della memoria; la quale ha due funzioni principali, l' una chiamata ritentiva , che ha per ufficio di conservare le notizie, l' altra chiamata reminiscenza , che ha per ufficio di rivocarle all' attenzione riflessiva della mente, qualora l' uomo ne abbisogni. Non indugiamo su questa seconda, ma ci conviene trattenerci sulla prima, la quale è o inconsapevole o consapevole. La ritentiva inconsapevole è quella che gli antichi chiamavano l' abito della memoria, pel quale le notizie rimangono in noi, senza che noi vi diamo attenzione riflessa. La ritentiva consapevole è quella attività, per la quale abbiamo presente alla riflessione ed alla coscienza la notizia, sia per avercela richiamata coll' atto della reminiscenza, sia perchè ci abbiamo continuamente riflesso. Diciamo, adunque, che un evento passato acciocchè sia presente alla nostra coscienza: Ha bisogno d' un vestigio restato nell' immaginazione, o comecchessia nel sentimento dell' evento. Ora quel vestigio non è l' evento a cui noi pensiamo, e che è già passato, ma è un cotal segno di lui. Conviene dunque che oltracciò s' aggiunga una propria virtù del pensiero, colla quale la mente nostra possa andare dal segno alla cosa segnata, possa, aiutandosi col vestigio rimasto, trasportarsi all' evento che già non è più, e così finire l' atto del pensiero nel passato, come in suo termine. Ora questo non è così agevole a spiegare. Noi l' abbiamo fatto altrove; qui in aiuto dei lettori ci riassumeremo. Primieramente si abbia presente che la mera concezione dell' evento non è nè passata, nè futura; è presente nell' idea. Questa concezione adunque non dà cognizione dell' evento che nella sua natura e nella sua possibilità; qui non entra ancora il tempo, il quale è una relazione propria degli enti reali, e non delle pure idee. Ma per questo appunto che la concezione, la possibilità dell' evento è cosa immune dal tempo, perciò ella può applicarsi ad ogni tempo; io posso pensare l' evento tanto possibile ad essere avvenuto, quanto ad avvenire. Conviene dunque investigare come dalla cognizione dell' evento possibile l' uomo passi alla cognizione dell' evento reale, il quale è sito in un dato punto del tempo. Ora l' ente reale non si conosce se non per via di sentimento; quindi di nuovo è evidente la necessità del sentimento, acciocchè si possa pensare il tempo dell' evento. Ma il sentimento della percezione, colla quale noi fummo presenti all' evento, va a cessare. Vero; pure conviene osservare che la percezione si compie mediante un giudizio, ed anzi essendo accompagnata da riflessioni, come accade nell' uomo adulto, ella è accompagnata da più giudizi. Questi giudizi danno allo spirito delle notizie dell' evento; vediamo quali sieno tali giudizi e tali notizie. Il giudizio proprio della percezione è che l' evento, il fatto, l' ente di cui si tratta, sussista. Lo spirito così acquista la notizia della sussistenza di quella entità, parola che abbraccia ogni ente, ogni evento, fatto od azione. A questo giudizio se ne accompagnano molti altri, che determinano l' entità colle relazioni di contemporaneità, che egli ha con altri. Perocchè quell' entità non si percepisce sola, ma con essa se ne percepiscono molte che la circondano, coesistenti ad essa. Il che apporta allo spirito altre notizie, cioè altrettante quanti sono i giudizi, coi quali si affermò che quella entità coesiste con qualche altra. Non basta; fra le entità, che coesistono con quella di cui si tratta, alcune incominciano dopo che ella è già incominciata, ovvero erano incominciate prima, e mentre esse duravano, ella incominciò. Altre entità finirono prima di essa, ovvero continuarono a durare dopo che essa cessò. Nell' atto adunque della percezione, o per dir meglio delle molte percezioni contemporanee e dei giudizi riflessi che le accompagnano, lo spirito acquista la notizia dell' ordine cronologico, in cui cominciarono le entità contemporanee. Ora, poichè tutta la vita è una serie continua di percezioni e di riflessioni, di giudizi e di notizie cronologiche, perciò consegue che queste notizie rimanendo nello spirito, questo venga a conoscere l' ordine cronologico delle entità, ossia degli eventi percepiti. Tutto adunque si riduce a spiegare come queste notizie si conservino nello spirito, perocchè, dato che esse si conservino, lo spirito già sa quale evento è preceduto, e quale è susseguito, e se un dato evento ne ebbe pochi o molti davanti a lui; il che è quanto dire conosce la successione ed il tempo; e poco alla volta s' incammina a misurarlo più o meno accuratamente colla periodicità. Vediamo adunque come si conservano le notizie cronologiche degli eventi, che acquistiamo in occasione delle percezioni contemporanee. Dico delle percezioni contemporanee, perocchè è sempre un evento contemporaneo quello che segna il cominciare ed il finire di un altro; il quale pure segna il cominciare ed il finire degli eventi contemporanei a sè, e così successivamente. Che cosa sono adunque queste notizie cronologiche? Sono altrettante affermazioni, giudizi, persuasioni. Ora che è un' affermazione? Un atto del principio razionale. Se questo atto non cessasse mai, conseguentemente la notizia che produce allo spirito non cesserebbe del pari, ma sarebbe sempre presente allo spirito; per esempio, la notizia che prima che il sole cadesse, giunse a noi un amico lontano, rimanendo sempre attuata l' affermazione pronunciata da noi al venire dell' amico, rimarrebbe pur ella sempre presente al nostro spirito. Si consideri che in questa supposizione della presenza immobile di tale notizia davanti al nostro spirito, l' oggetto della notizia non varierebbe mai per volger di tempo, sarebbe sempre quello; noi sapremmo sempre egualmente ciò che sapevamo al primo pronunciare di quel giudizio, cioè che « quell' amico giunse a noi innanzi sera »; questi due avvenimenti della venuta dell' amico e del cadere del sole, nella detta notizia sarebbero sempre collocati l' uno prima e l' altro dopo. Questo è adunque un fatto importantissimo da tenersi ben fermo, che l' oggetto di una notizia, durante la notizia, non si muta col volger del tempo, ma rimane identico; trattasi sempre di amico e di sera, quantunque passino anche dei secoli. Ora questa identità dell' oggetto di una notizia si conserva non solo nell' ipotesi che quella notizia duri in essere innanzi allo spirito, ma ben anche se, dopo essere cessata, noi possiamo richiamarla al pensiero. Perocchè, quantunque sia vero che il nostro spirito, volgendo di nuovo il pensiero a quella notizia, farebbe un atto nuovo diverso dal primo, tuttavia l' oggetto di quell' atto nuovo sarebbe identico coll' oggetto dell' atto antico e cessato, e l' identità dell' oggetto è ciò che costituisce l' identità della notizia; questo non si avvera solo rispetto alle notizie cronologiche, ma rispetto a tutte le notizie di qualsiasi maniera. Se io penso mille volte a questa verità, che « due e due fanno quattro », io fo mille atti diversi, ma l' oggetto di tutti questi atti è il medesimo sempre, e però è identica la notizia. Se io penso mille volte che « fu al mondo Alessandro, figliolo di Filippo », di nuovo fo mille atti, ma l' oggetto è sempre uno; con ciascuno di quegli atti penso sempre il medesimo Alessandro, il medesimo Filippo, e penso questo padre e quello figliolo; la molteplicità dei miei atti non moltiplica i miei oggetti. Ciò vale adunque tanto se l' oggetto della notizia è necessario, come la verità geometrica « due e due fanno quattro », quanto se l' oggetto è contingente, come la verità dell' esistenza di Alessandro, figliolo di Filippo. Il che vuol dire che l' oggetto della notizia è immune dal tempo, perocchè il tempo che trascorre e gli eventi che si succedono, non lo cangiano; ma si noti, è immune dal tempo come oggetto di notizia, ma non è immune dal tempo in sè stesso; perchè il contingente soggiace al tempo, ed infatti tra Filippo ed Alessandro vi fu successione, e quindi tempo. Deve dunque conchiudersi che il pensiero apprende il tempo, ma non temporalmente; apprende ciò che è temporaneo, ma fuori del tempo; simigliantemente appunto a ciò che abbiamo detto dell' esteso, che è appreso dallo spirito in un modo inesteso. Se dunque l' oggetto della notizia è temporaneo, e pure, in quanto è divenuto oggetto di una notizia dello spirito, non soggiace più al tempo, e quindi lo spirito l' apprende fuori del tempo, dove l' apprenderà egli? E` forza concludere che il pensiero apprende il tempo e il temporaneo nell' eterno; perocchè esclusa la possibilità del tempo, come abbiamo detto, rimane l' eternità. Il che come sia si spiega, qualora si rifletta che nell' essere ideale , che è necessario ed eterno, si vede, presupposto il sentimento, anche il contingente ed il successivo, e la realità stessa come possibile a sussistere (idea della realità); ed è poi l' affermazione, che, congiungendo questa realità coll' essenza della cosa, pronuncia la sussistenza; onde quantunque volte la pronuncia, pronuncia sempre la realità della stessa essenza, e quindi sempre la stessa cosa identica. Di che si fa chiaro che il pensiero, il giudizio, l' affermazione, col ripetersi, non mutano il loro oggetto, ma lo colgono e pongono innanzi alla mente in un modo eterno e immutabile. Ora poi, qui noi abbiamo introdotto due ipotesi, l' una che il giudizio, che produce innanzi allo spirito la notizia cronologica degli enti in occasione delle percezioni, lasci questa notizia durare nello spirito quasi in deposito; l' altra che la riproduca, dopo essere ella svanita; e nell' una e nell' altra egualmente conchiudemmo che la successione di più enti, conosciuta una volta, si può conoscere egualmente anche molte, senza che a ciò faccia ostacolo il trascorrere del tempo. Ma per non lasciare indietro nulla, che turbar possa la mente di quelli che ci accompagnano in queste ricerche, domanderemo « quale delle due ipotesi sia conforme al fatto ». La seconda è preferita comunemente, perchè l' esperienza dimostra che molte notizie si dimenticano e poi si richiamano colla reminiscenza, onde non pare che di continuo si conservino nello spirito. Eppure ella soggiace a non leggiere difficoltà; primieramente se esse non si conservassero, almeno languidamente, non si potrebbe spiegare il loro richiamo; perocchè dove e come lo spirito le rinverrebbe perdute? Non può dirsi per associazione di esse con altre notizie presenti, giacchè se sono affatto perdute, l' associazione non può esistere; non per gioco d' istinto, giacchè l' istinto suppone il senso di cui esso non è che il movimento, e però suppone ancora le notizie conservate in qualche modo nel sentimento; e poi molte volte si richiamano non istintivamente, ma per decreto di volontà, tostochè piaccia. D' altra parte è indubitato che noi perdiamo la coscienza di quelle notizie, e poi di nuovo la riprendiamo. Tutte queste difficoltà svaniscono per colui che conosce la teoria della coscienza; questi intenderà facilmente come le notizie acquistate possano rimanere nello spirito nostro presenti, attuali, vive, e tuttavia spoglie al tutto di coscienza. Fu già da noi dimostrato che « niun atto dello spirito è conosciuto a sè stesso », a cagione che l' atto è sempre diretto a conoscere il proprio oggetto, e non sè stesso. Fa dunque bisogno un altro atto riflesso sul primo, pel quale l' atto primo divenga oggetto, acciocchè si conosca, acciocchè si sappia di conoscere. Conviene dunque appigliarsi alla prima ipotesi; conviene dire che non basta avere una notizia, ma di più conviene averla sempre in noi conservata, perchè ce ne rendiamo consapevoli. Non è dunque assurdo il dire che le notizie, una volta ricevute nello spirito, vi rimangano, e che quello che cessa sia l' atto dell' attenzione (1) che lo spirito pone in esse, e della riflessione , senza i quali atti non è coscienza di cosa alcuna che sia nello spirito. Riprendiamo ora il corso del nostro ragionamento. Il pensiero conosce la successione in un modo nel quale non entra successione alcuna, a condizione però che la successione una volta gli sia offerta nella percezione e nei giudizi riflessi, che si fanno in sua compagnia. Ora noi abbiamo detto che la percezione e i giudizi concomitanti offrono la successione al pensiero, perchè durante la percezione d' una entità se ne percepiscono altre, che incominciano o che finiscono; e queste percezioni si succedono, lasciando di mano in mano nello spirito le notizie cronologiche degli eventi. Ma questo suppone la durata della percezione. Infatti non si potrebbe concepire successione di avvenimenti, se fra l' uno e l' altro non fosse una durata. Ora il durare suppone ciò che dura, per esempio, la percezione stessa; la durata è propria di ciò che esiste, e niente all' incontro può esistere in un istante, il quale non ha durata alcuna; l' istante non è che il principio e il termine della durazione. Dunque la successione di eventi, cioè del loro cominciare e del loro finire, suppone la durata d' un ente, nella quale durata, quasi sopra termometro, sieno segnati tutti gli istanti in cui cominciano o terminano gli avvenimenti, che in quella si mutano e si succedono. Il tempo dunque si può definire in sè stesso: « la relazione fra la durata e la successione ». Ma i concetti della durata e della successione sono correlativi, per modo che l' una non si conosce, nè può esistere senza l' altra. Poichè come non si dà successione senza che fra l' uno e l' altro avvenimento, che è sempre un cominciare ed un finire, passi qualche durata, così la durata non s' intende se non mediante la possibilità che vi sia una certa successione di avvenimenti, a cui si riferisca (1). Conviene dunque occuparsi a meditare che cosa sia la durata , e prima di tutto quella del pensiero, poi quella della percezione intellettiva, in appresso quella del sentimento, e finalmente quella dell' ente materiale; e quando il nostro intendimento, meditando, sarà soddisfatto, allora sarà per noi spiegata sufficientemente la natura del tempo. Ora la durata del pensiero consiste nell' identità dell' oggetto. Noi abbiamo veduto che ogni oggetto della notizia intellettiva, come tale, è immutabile; sicchè ove il pensiero si volga ad un altro oggetto, egli è incontanente un altro pensiero, non più quel di prima. Ma finchè lo spirito non si volge ad un altro oggetto, questo essendo immutabile, rimane pure immutabile il pensiero. Non mancando dunque mai l' oggetto che determina un dato pensiero ad essere quello che è, perchè l' oggetto di una notizia è eterno, ed essendo possibile il pensiero tutte le volte che vi sia l' oggetto; ne consegue che la durata del pensiero sia una partecipazione dell' eternità del suo oggetto. Se non che, per la limitazione del soggetto pensante, il pensiero cessa e finisce, benchè rimanga l' ente che era suo oggetto; e questo cessare è appunto l' istante, che termina la sua durata. Ora poi la notizia che un evento precedette un altro è ricevuta dallo spirito mediante la percezione. Come adunque si spiega la durata della percezione? - La percezione non può durare, se non dura il sentimento a cui si riferisce (2); nè il sentimento può durare, se non dura l' ente senziente e l' ente sentito. Conviene dunque spiegare la durata dell' ente sentito, oggetto della percezione. Come si spiega la durata degli enti? La sussistenza d' un ente contingente altro non è che la realizzazione della sua idea. Questa realizzazione è fatta dalla prima causa delle cose, è la creazione. Ora la causa suprema è necessaria ed eterna, e l' idea è pure necessaria ed eterna. La maniera con la quale la causa suprema crea, ossia realizza gli enti contingenti, è per via d' intendimento, è un atto della ragione pratica di Dio, del suo pensiero operante. Iddio fa sussistere le cose con un atto analogo a quello, col quale l' uomo le pensa sussistenti. Il pensiero dell' uomo, come abbiamo veduto, da parte dell' oggetto cognito (benchè contingente) ossia della notizia , è immutabile ed eterno; ma cessa per deficienza del soggetto pensante. All' incontro, l' oggetto immediato del pensiero di Dio è pure eterno, ma è egualmente eterno ed indeficiente il soggetto pensante, cioè Dio. Quindi le cose create possono durare a volontà di Dio; e questa volontà infatti è senza pentimento; onde gli enti, una volta creati, non cessano più in eterno, perchè sono l' opera di Dio. All' incontro le loro azioni e passioni, avendo per oggetto e causa prossima gli enti stessi contingenti e deficienti, vengono a cessare, incominciano, terminano, ricominciano con una incessante vicenda e successione. Conviene dunque dire che la durata è una partecipazione dell' eternità di Dio, e la successione è l' effetto della limitazione e deficienza delle creature. Ora il tempo è appunto questa successione riportata, e quasi segnata graduatamente su quella durata. Così è chiaro come le entità durino e si succedano , e come la loro durata si misuri col numero, ossia colle serie delle successive azioni degli enti (1). Dichiarata così la natura del tempo, riprendiamo la nostra questione, la quale si era se il tempo è nelle cose materiali, se è nel sentimento, e finalmente se è il solo pensiero che lo forma. Da ciò che fu detto chiaramente si deduce che il tempo non può essere nelle cose materiali, perocchè la loro unità, e però la loro durata, è dovuta al principio senziente in cui sono, e non la hanno in proprio; onde il rapporto fra la successione e la durata non è cosa che possa esistere in alcuna parte assegnabile della materia, come materia, perchè non si dà parte senza estensione continua, e questa non è propria della materia come materia. Oltracciò, mettendo da parte quelle mutazioni fenomenali, che appariscono nella materia a cagione della sua relazione col principio senziente, e pigliando la materia nel suo puro concetto, niuna mutazione si concepisce in lei possibile se non quella del moto, il quale è una relazione con lo spazio. Ma lo spazio, il continuo, non appartiene alla pura materia; dunque in essa, puramente in essa, è impossibile concepire mutazione, e però nemmeno successione. Di più la materia non ha moltiplicità, perocchè ciascuna porzione della materia è una e rimane una, finendo in sè stessa senza potersi sommare con un' altra porzione, dalla quale ha esistenza intieramente separata, nè v' è realità comune fra esse. Certo, se nell' ente materiale vi fosse un principio semplice, questo potrebbe portare nel suo seno una cotal successione di svolgimenti, la quale avrebbe un nesso fisico col principio immutabile e durevole dell' ente, ed in tal caso il tempo vi sarebbe quasi realizzato; ma rimosso dalla materia corporea il sentimento, che non appartiene al suo concetto, ella non ha più, per dirlo di nuovo, nè semplicità, nè unità alcuna. Che se si ammette un principio corporeo , questo non può essere corpo, nè materia, di cui anzi è il principio; e però, supponendo che avesse in sè il tempo, non l' avrebbe però ancora l' ente meramente materiale. Ritorniamo adunque all' ente sensitivo, dove trovasi appunto un principio semplice, fonte di diverse sensioni e modificazioni, attività e passività. In questo si concepisce una durata appartenente ad esso principio, che rimane identico; si concepisce del pari una successione nelle sue sensioni particolari; si concepisce finalmente un nesso fisico tra la durata del principio e la successione delle sue passioni ed azioni, perchè queste sono contenute virtualmente in quello; da quello, poste certe condizioni, scaturiscono; e a quello, come a soggetto, appartengono. Ora questi tre elementi, durata, successione, nesso fra loro, compiscono il concetto del tempo. Il tempo dunque esiste nella natura del sentimento. Ma qualora si prenda a dar ragione di tutto ciò, la mente incontra dei nodi difficili, ed è meraviglia se ella non vacilla e tentenna. Giova che qui noi tocchiamo queste difficoltà, oltrepassando le quali, il ragionamento nostro non potrebbe indurre piena persuasione di verità. Gli atti transeunti e successivi d' un principio senziente, quando cessano, o lasciano nel principio stesso vestigio di sè o non ne lasciano. Se non lasciano vestigio alcuno, non può rimanere nel principio successione di atti in un modo contemporaneo, com' è pur necessario, acciocchè si abbia il tempo. Perocchè, come vedemmo, questo importa successione; e successione non v' è, se ella non può esistere tutta insieme, però contemporaneamente, se non v' è ciò che unisce i suoi anelli. Se poi gli atti successivi passando lasciano vestigi di sè nel principio senziente, questi vestigi non sono gli atti stessi; onde non sarebbe più la successione degli atti che il principio senziente mantiene in sè, ma la successione dei loro vestigi; e il tempo dovrebbe crearsi mediante questi. Ma che cos' è la successione dei vestigi? La successione dei vestigi non è già la loro durata, perocchè nella semplice durata non v' è successione. La successione dei vestigi non è che il loro cominciare l' uno prima dell' altro, come pure il loro finire, se finissero; ma noi supponemmo che rimangano permanenti. Ora, il cominciare di ogni vestigio passa in un istante e non lascia nulla di sè; rimane il vestigio che dura, ma non l' istante del suo cominciare. Se dunque il cominciare prima e poi dei vestigi, che forma la successione, altro non è che una serie d' istanti, il precedente dei quali non è più quando viene il susseguente, convien dire che la successione non rimanga, non sia raccolta da un ente che l' abbia presente; perocchè il principio senziente non ritiene i diversi cominciari dei suoi vestigi, i quali cominciari trapassano per la loro natura essenzialmente istantanea. Dunque si trova la stessa difficoltà ad intendere come il principio senziente possa raccogliere in sè tutta la successione dei vestigi, che lasciano gli atti suoi, e come possa raccogliere e ritenere in sè quella dei suoi atti passeggeri. E` dunque uopo cercare un' altra via a superare questa difficoltà. Noi la troveremo meditando la natura della durata . Il concetto, che noi ne abbiamo dato, si fu che « ella è una partecipazione dell' eternità ». Come l' ente ideale è immune affatto da tempo, così la sua realizzazione partecipa di questa immunità, benchè in modo limitato perchè di più non può; e questa è la durata. La durata dunque suppone identità . Come l' essenza d' un ente è identica in qualunque istante la si considera, così l' ente reale e semplice è del pari identico in qualunque istante egli opera e patisce. Ciò posto, se n' ha per conseguenza che quell' identico principio senziente che fa un atto, è quegli pure che fa tutti gli altri successivi. Essendo egli identico, è dunque presente a tutti gli atti che fa; è dunque presente a tutta la successione, senza che egli stesso soggiaccia a successione, oppure sia un anello di lei. Considerando in questo modo il principio senziente, s' intende assai chiaro come egli raccolga in sè la successione dei suoi atti egualmente che quella dei vestigi che lasciano in lui; benchè i termini della successione degli atti e dei vestigi trascorrano in modo che l' uno non è presente all' altro, come è necessario acciocchè formino successione. Conviene dunque ammettere che il principio sia fuori del tempo, acciocchè possa accogliere in sè la successione, e così mettere in essere il tempo; onde di nuovo dobbiamo dire che « il tempo non può esistere se non in ciò che non ha tempo, come suo termine ». Tutta la difficoltà, dunque, anche qui si riduce a pervenire colla mente a persuadersi che il principio senziente (come ogni altro ente semplice) non soggiace al tempo, ma propriamente è nell' eternità, o, come sogliamo anche dire, appartiene al mondo metafisico. Tutto questo ragionamento, a nostro vedere, è inattaccabile, a meno che non si voglia impugnare la durata del principio senziente, cioè la sua identità rispetto a tutti i suoi atti successivi. Supponiamo dunque che s' impugni; noi dovremo sostenerla, e quando l' avremo provata con invitti argomenti, allora sarà assicurata la nostra conclusione; qui conviene puntare il ragionamento. La prima prova, che noi daremo della durata identica del principio senziente, sarà quella che dimostra in generale la necessità della durata degli enti. Infatti, supponiamo che un ente non avesse alcuna durata; è chiaro che non esisterebbe più, perchè l' esistenza istantanea è assurda in sè stessa, nulla essendo l' istante se non il principio od il fine di una durata. Ma se un ente dura, per poco che duri, egli deve essere identico finchè dura, altrimenti non sarebbe durata la sua, ma successione di enti eguali, ciascuno dei quali fosse per un istante. Il che, per replicarlo, è manifestamente cosa assurda a pensarsi, sì perchè niuno di quegli enti sarebbe, giacchè nell' istante stesso in cui fu, nell' istante medesimo cessò, non fu; ora fu e non fu è contraddizione. Di più quegli enti non potrebbero formare successione, perchè fra l' uno e l' altro non vi sarebbe durata alcuna, la quale non può essere, come dicevamo, senza la possibilità almeno d' un ente durante. Una seconda prova, speciale alla durata del principio senziente, si trae da questo fatto, che gli atti successivi d' un animale sono ben sovente ordinati; il che dimostra che vi è una identità nella causa che li produsse, l' istinto animale. Che se non vi fosse una causa unica di tutti, ma ciascun atto avesse una causa diversa, un principio senziente diverso che li producesse, non vi sarebbe più una ragione dell' ordine che hanno fra loro, e dell' unicità dello scopo a cui tendono ben sovente; perocchè ogni principio non potrebbe operare che un atto solo, senza alcun legame cogli altri. Converrebbe adunque ricorrere o ad un' armonia prestabilita, o all' azione immediata di Dio medesimo, per spiegare le azioni e le passioni dell' animale; il che non può ammettersi per innumerevoli assurdi che escono da tali sistemi. Terza prova: tolta la durata degli enti identici, non sarebbe possibile neppure che esistessero nuove azioni di enti, perchè l' azione è un atto secondo, che suppone il primo dell' esistenza, e quindi almeno due istanti con intervallo di qualche durata, perocchè altrimenti non sarebbero due. Quarta prova finalmente: nell' uomo la coscienza depone l' identità del principio senziente rispetto ai suoi atti. Ora la riflessione del pensiero, non alterando punto le cose dall' esser loro, come già dimostrammo, ma solo facendole conoscere quali sono, è testimonio fededegno che il principio senziente dura numericamente il medesimo. Dunque non è assurdo che il principio senziente abbia una durata , il che è quanto dire si conservi identico rispetto a tutti i suoi atti successivi; ed anzi ciò si deve al tutto ammettere; ora in lui si genera quella relazione che poi tempo si chiama. Conchiudesi che l' unità della successione degli atti, modificazioni, passioni, cominciamenti e terminazioni, è dovuta ad un principio semplice che ha durata, cioè che è identicamente presente a tutti i termini della successione; senza di che vi sarebbero i singolari anelli, non mai la successione, e però neppure il tempo; nè i detti anelli avrebbero ragione di anelli. Per la ragione medesima che il principio razionale è un ente semplice, il quale fa più atti successivi, di cui è causa e soggetto durevole identicamente il medesimo, anche nel principio razionale vi sono tutte le condizioni richieste all' esistenza del tempo. Convien dunque conchiudere: Che se lo spazio e l' esteso ricevono la loro unità dal principio senziente animale , la successione all' incontro, il tempo ed il temporaneo ricevono la loro unità da un principio senziente di qualunque maniera egli sia, o animale o razionale . Che lo spazio è un concetto conseguente a quello dell' ente animale ; ma il tempo è conseguente all' ente reale senza più, tostochè esso divenga soggetto di mutazioni, perchè all' ente appartiene l' identità , ossia la durata , in mezzo alle permutazioni a cui si stende. Che il concetto di tempo non si riscontra in quello di spazio puro o di materia, dove può pensarsi la durata, ma non la successione, e però neppure il rapporto fra durata e successione. Quindi si deve distinguere: Il tempo reale , cioè il tempo in quanto esiste realmente nel nesso, che vi è tra un principio identico e la successione delle sue modificazioni. Il tempo reale7conosciuto , che è il tempo presente al pensiero che lo apprende. Il tempo ideale , che è il concetto, ossia la mera possibilità di un nesso fra la durata e la successione. Noi dobbiamo ora dimostrare come il principio razionale congiunga e unifichi l' idea ed il sentimento. Ma poichè il sentimento è di tre specie, animale, intellettivo e razionale , così di ciascuno di essi dovremo, a parte, dimostrare come possa coll' idea congiungersi. Di più, nel sentimento vi sono due elementi, il senziente e il sentito, ciascuno dei quali può nell' idea conoscersi. Divideremo adunque le questioni così: Come il sentito esteso e la successione degli eventi si percepiscano dal principio intellettivo, che così prende il nome di razionale. Come si percepisca intellettivamente il principio senziente animale. Come si percepiscano il principio intellettuale, a cui è termine l' idea stessa, ed il principio razionale. Come si percepiscano le diverse affezioni del principio razionale. Noi abbiamo veduto che l' estensione e l' esteso non comunica col principio senziente per via d' estensione, a quella guisa cioè che un esteso potrebbe essere in qualche modo contenuto in un altro esteso; che anzi, se l' estensione e l' esteso non avesse che questa proprietà dell' estensione, non potrebbe avere nessun nesso col principio senziente, il quale è inesteso. Ma l' estensione e l' esteso è anche sensibile, e però, mediante la relazione di sensilità , egli è ricevuto e contenuto nel principio senziente. La qual relazione però è prodotta dalla stessa natura ed attività del principio senziente, di cui tale è la natura che egli si congiunge alle cose a lui appropriate per via di sentimento; onde quel che è esteso egli lo rende sentito . Questa relazione di sensilità è più elevata della relazione di estensione; e come l' entità più elevata, avente più gradi di essere, abbraccia l' entità meno elevata avente meno gradi di essere, e abbracciandola la nobilita comunicandole del proprio, così il concetto di esteso è abbracciato e contenuto nel concetto di sentito , e non viceversa; e l' esteso stesso divenendo sentito, ossia considerato come tale, si eleva nella scala dell' essere un gradino più su. Ora, più elevato di ogni entità è lo stesso essere , il quale è l' oggetto dell' intendimento; e quindi il concetto di essere abbraccia tutte le entità inferiori, qualunque sieno i gradi d' essere di cui quelle godano. Quindi le cose tutte si mettono in congiunzione coll' intendimento per una relazione essenziale di entità . Ma le cose non possono essere percepite dall' intendimento, se prima non hanno la condizione e relazione di sentito (1), perocchè l' uomo non percepisce intellettivamente se non ciò che cade nel suo sentimento (2). Dunque l' esteso è nel sentito, e il sentito è nell' ente intuìto dall' intendimento. Conviene riflettere che l' essere ideale comprende la realità possibile , il che è quanto dire l' essenza delle cose reali; quindi, allorquando al principio, che vede l' ente, è contrapposto un sentito7esteso, forza è che lo veda nell' ente come partecipe dell' essere, e così lo percepisca, come abbiamo spiegato innanzi più estesamente. Ora, quando il principio che vede l' ente, vede anche l' entità partecipata dal sentito, allora quel principio, che prima chiamavasi semplicemente intellettivo, incomincia a chiamarsi razionale. Il principio razionale , adunque, percepisce il sentito nella sua qualità di ente, il che è quanto dire congiunge in uno ciò che vede nell' idea (essere) e ciò che sente; e così il sentito diviene un ente all' intelligenza, un suo oggetto. Che se niuna intelligenza percepisse il sentito, questo non avrebbe il concetto di ente, ma solo di sentito, perchè il concetto di ente lo riceve dalla sua relazione coll' essenza dell' ente, la quale essenza dimora nella mente suprema e in tutte le menti inferiori, a cui quella prima la comunica, così creandole. Chiamo poi questa relazione essenziale , appunto perchè ella entra a costituire il sentito7esteso come ente; il che è un dargli un grado maggiore di entità, anzi è un dargli quell' ultimo atto, nel quale è quello che è. L' ente sentito, adunque, esiste come ente nella mente; ma l' uomo, che ne parla, attribuisce giustamente la condizione di ente a lui stesso; perchè l' uomo non parla delle cose se non in quella guisa che sono nella sua mente; e la cosa stessa, che è nella mente, è ente, ed è ente diverso sostanzialmente dalla mente, che, ponendolo, lo percepisce. Per la stessa semplicità dell' idea e della notizia, per la quale ella è immune dallo spazio e dal tempo, si spiega come la mente possa concepire gli eventi successivi, passati e futuri, come vedemmo (1). Era necessario indicare qui la questione, perchè nostro intendimento si è dimostrare come il principio razionale è il principio che dà unità a tutte le operazioni umane. Ma la questione fu già da noi risoluta, e, ricapitolando, qui ci basterà dire che è la riflessione quella che, ripiegandosi sul sentito7ente, trova che a lui deve inesistere un principio senziente per la ragione detta, che il solo sentito esteso non avrebbe quella unità che egli ha, qualora non vi fosse alcun principio senziente. Ma non siamo noi ancora principŒ senzienti? non ce lo dice la coscienza? Sì, la coscienza ci dice indubitatamente che in noi è un principio senziente, un principio intellettivo e un principio razionale, in cui si unisce quello a questo. Ora la coscienza stessa è una riflessione sul sentimento nostro proprio. Ma si conosce il sentimento nostro proprio immediatamente per via di percezione, senza bisogno di riflessione. Sì, ma altra cosa è percepire il sentimento proprio, altro è distinguere in esso il principio , distinguerlo dico, accuratamente dal termine . Noi percepiamo questo principio entro il sentimento; ma per averne un concetto separato e distinto dobbiamo ricorrere alla riflessione. Ora la riflessione lo trova, considerando appunto la natura del sentimento. Tutto adunque si riduce a dichiarare la natura della riflessione e in che modo ella proceda. La riflessione si definisce « « la facoltà di applicare l' idea dell' essere alle nostre cognizioni e loro oggetti »(1) ». Ora, per ispiegare questa operazione dello spirito, conviene attentamente considerare la natura dell' idea dell' essere, che è il mezzo sì della percezione e sì della riflessione . La difficoltà, che si presenta, è questa: « Se nel percepire un ente io ho adoperata l' idea dell' essere legandola col sentito, come posso io più, dopo di ciò, applicare la stessa idea dell' essere alla percezione e al suo oggetto, e cavarne da questa nuova applicazione (che è appunto la riflessione) altre notizie? ». La risposta si deve desumere dall' osservazione accurata del fatto. Questo fatto osservato attentamente ci dimostra che la cosa avviene appunto così; dunque dobbiamo concludere, senza replica, che ella così può avvenire. L' idea dell' essere può sempre venire dalla mente applicata a sè stessa, ovvero a qualsivoglia cognizione, in cui ella è già contenuta. Questo fatto ammirabile non si può negare o impugnare; ma si può analizzare e cavarne conseguenze utili a farci meglio conoscere l' indole dell' idea medesima. Ecco quali sono: Se l' idea dell' essere quantunque la leghiamo nella percezione, tuttavia ci rimane nello stesso tempo libera a poterla usare nuovamente, applicarla di nuovo alla percezione che la contiene, conviene dire che ella è affatto immune da ogni passività , e che il vedere in lei qualche cosa non la lega propriamente, non la coarta a quella cosa, sì che ella non ci sia pronta come prima ai nostri bisogni, ai nostri usi. Il poter noi adoperare sempre l' idea dell' essere come fosse sciolta, e come fosse la prima volta che noi l' adoperiamo, dimostra che ella identicamente la stessa è sempre presente a tutti gli atti del nostro spirito, agli atti di percezione, di riflessione, ecc.; e l' esser presente nella sua identità a molti atti prova ch' ella è semplice , e come semplice sta incontro al molteplice e in sè l' accoglie; e l' esser presente a molti atti successivi dello spirito dimostra che ella non soggiace al tempo, ch' ella è eterna , come dicevamo di sopra. Infatti, questa è la proprietà di ciò che è eterno, che « esso, identico, sia presente a molte entità successive ». Ora quando io intuisco l' essere, egli è presente allo spirito intuente; quand' io rifletto sopra l' essere da me intuìto, allora l' essere stesso è presente all' atto della mia riflessione; lo stesso essere identico è dunque presente quale oggetto al primo atto dello spirito e al secondo, all' intuizione ed alla riflessione; è unico l' essere, ma ha relazione a due atti; in quanto ha relazione all' atto intuitivo, si mostra allo spirito senza distinzione; in quanto ha relazione all' atto riflesso, si mostra allo spirito con quelle distinzioni e condizioni, che l' analisi e la sintesi (due modi di operare della riflessione) vi ritrova. Il mostrarsi nel secondo modo non toglie l' essersi mostrato nel primo. E` dunque la semplicità e la eternità dell' ente che spiega la riflessione; senza quelle due doti questa sarebbe impossibile. Ciò che si conosce per via di riflessione è diverso da ciò che si conosce per via di intuizione o di percezione; cioè si conosce in diverso modo, con diversi gradi, ecc.. Dunque nella riflessione l' ente non fa che comunicare allo spirito una maggiore notizia di sè stesso, ovvero una notizia di diverso modo. La notizia dello spirito si deve dunque distinguere dall' idea dell' ente in sè stessa considerata, che la produce; quella ha qualche cosa di limitato e di soggettivo, questo è illimitato e tutto oggettivo, o per dir meglio, oggetto. Questo oggetto è sempre in tutte le notizie , sia che le abbiamo per via d' intuizione, o di percezione, o di ragionamento, cioè di riflessione; ma è in quelle varie notizie in diverse guise (1). Dallo stesso fatto si deduce e conferma la verità che l' essere viene dato, per così dire, a prestito alle cose finite, per la necessità che abbiamo di conoscerle, e l' impossibilità di conoscerle se non sono prima divenute enti, cioè se non sono copulate dalla mente coll' ente. L' essenza dunque dell' ente non si confonde, non s' immedesima colle realità sensibili, ma soltanto si congiunge con esse e così le rende intelligibili. Il qual vero distrugge il panteismo dalla radice, perchè dimostra che l' essenza, che si vede nell' idea, rimane sempre inconfusibile colla realità, finchè si tratta di cose finite; il quale è un corollario importantissimo. Niuna meraviglia adunque, se noi, dopo aver percepito intellettivamente il sentito7animale, possiamo applicargli l' idea dell' essere, e così colla riflessione cavarne il concetto del principio senziente. Noi possiamo sciogliere questa operazione nel ragionamento seguente: il sentito è un esteso7continuo; ma questa entità non potrebbe essere, se non avesse un principio semplice in cui fosse. Io rilevo questo vero raffrontando il sentito esteso all' essere , che gli attribuisco; perocchè, sapendo per natura che cosa è essere, io so che non può mai contrariare a sè stesso, cioè l' essere non può essere non essere pel principio di cognizione . Ma il sentito esteso non sarebbe sentito esteso, se non avesse un principio semplice; dunque, ecc.. Niuna meraviglia ancora se, dopo aver intuìta l' idea, noi possiamo cavare il concetto del principio intuente, applicando l' essere all' intuizione in un modo somigliante. Perocchè possiam dire: l' idea intuìta ha questa entità di essere idea intuìta; ma ella non avrebbe questa entità se non ci fosse un principio intuente; dunque, non potendo questa entità essere e non essere, debbo ammettere un principio intuente. Finalmente niuna meraviglia se, riflettendo sul sentito7esteso percepito intellettualmente, troviamo la necessità dell' esistenza del principio razionale; perchè, non ammettendo questo principio, non sarebbe vero che avessimo percepito intellettivamente il sentito7esteso. Ma non può ad un tempo esser vero che l' abbiamo e non l' abbiamo percepito, per la natura dell' essere (noto per natura), che esclude la contraddizione; dunque il principio razionale esiste. Che se si vuole che io giunga ad affermare il principio senziente, l' intellettuale ed il razionale, anche per via di semplice astrazione o di analisi, queste stesse operazioni si fanno, come ho dimostrato altrove, per una applicazione segreta e sfuggevole dell' idea dell' essere (1). Dalle cose fin qui ragionate si raccoglie: Che il principio senziente7animale non si riferisce che all' esteso. Che il principio intellettivo non si riferisce che all' idea. Che il principio razionale si riferisce egualmente all' esteso7sentito, colla percezione, e colla riflessione all' idea e al principio senziente ed intellettivo, e finalmente a sè stesso; onde è quello che tutto lega ed abbraccia quanto cade nell' uomo, e a tutto si estende. Che dunque l' unità dell' uomo è nel principio razionale. Finalmente che l' uomo, non essendo uomo se non perchè è un essere unico, egli è tale pel principio razionale; nel quale perciò, come in propria sede, si compie e pienamente si natura l' umanità. Riassunta così la dottrina dell' umana natura, e veduto com' ella si compia nel principio razionale, dove giace l' unità dell' uomo, noi dobbiamo volgere il pensiero all' attività, che dal principio umano deriva, affine d' investigarne e meditarne le leggi. Ma prima è necessario che noi sceveriamo quelle attività che si mescolano coll' attività umana, e che non sono lei; perocchè il confonderle intralcierebbe i nostri ragionamenti, e la confusione dei concetti ci menerebbe necessariamente all' errore. Da ciò che noi abbiamo detto risulta che cinque attività si fanno nell' uomo manifeste, delle quali una sola è propria dell' uomo. Poichè: Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza dell' estensione, termine del principio senziente7animale, che in questo principio giace quasi in sua sede, ma che non è questo principio. Tale attività nulladimeno è immanente e non produce atti secondi, onde non ha ragione di sostanza, ma solo di entità. Non ne abbiamo investigato la causa, ma ci siamo contentati d' osservare che essa ha una relazione essenziale con un principio senziente, sicchè il pensarla fuori di esso è assurdo. Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza di un' attività corporea che si manifesta nell' estensione, e in questa diviene termine del principio senziente7animale. In quanto è estesa, ella ha pure una relazione essenziale col principio senziente, cioè non può che avere la sua sede in esso, e ripugna il pensarla fuori di esso. Ma questa attività, che si manifesta nell' estensione, non è l' estensione, e non è neppure il principio senziente. Questa attività corporea non ha solo l' atto primo col quale esiste, ma ha ancora degli atti secondi, non presentandosi già al principio senziente come un termine immobile ed immutabile, ma con movimento e variate apparenze. La causa prossima di lei, straniera al principio senziente, fu da noi detta principio corporeo , il quale, quando fa sentire la sua azione nell' anima, prende nome di virtù sensifera; ma noi non siamo entrati ad investigare la natura di quel principio, secondo ciò che può essere o non essere in sè stesso. Rispetto poi alla causa onde i corpi si muovono secondo la legge dell' attrazione, e, quali termini del nostro principio senziente, cangiano di posizione e di aspetto, fu collocata, almeno con argomenti di grande probabilità, nell' animazione degli elementi. Quindi: 1) Talora l' attività stessa del principio senziente immuta e muove il suo termine. 2) Talora il termine corporeo d' un principio senziente viene immutato da un principio ch' egli non percepisce, e che probabilmente è un altro principio senziente. Lasciamo le leggi del movimento meccanico, che altronde deriva. Noi abbiamo riconosciuta in terzo luogo l' attività del principio senziente7animale. Questa attività è quella che costituisce l' animale. Risulta, da quanto abbiamo detto, che ella ha virtù d' immutare il sentito7esteso. Risulta ancora che il principio razionale percepisce il sentimento come entità, e quindi può agire in esso, ma questo non distrugge l' attività del principio senziente; onde, benchè nel sentimento possa agire l' attività del principio razionale e secondo certe leggi possa immutarlo, tuttavia rimane l' attività del principio senziente, che è elemento essenziale al sentimento. E che niente si muti nel sentimento colla semplice percezione, noi l' abbiamo veduto dove dimostrammo che la percezione non altera o contraffà gli oggetti percepiti. Ma il principio razionale non può agire immediatamente sul sentito, benchè lo percepisca, perchè lo percepisce essenzialmente nel principio senziente, e perciò come costituito da questo. Il principio razionale adunque deve immutare e muovere il principio senziente, acciocchè questo immuti ciò che egli costituisce, che è l' esteso sentito. Quindi si trovano due attività, che operano nello stesso sentito: l' una (il principio senziente) in un modo immediato, l' altra (il principio razionale) in un modo mediato, cioè movendo il principio senziente; le quali talora pugnano insieme, e così sorge la lotta della concupiscenza. Oltracciò, come l' attività del principio senziente è limitata e non è la sola che entri a costituire e a muovere l' esteso sentito, concorrendo anche altre attività, come la forza sensifera ed altri principŒ senzienti; così il principio senziente talora è concorde, talora discorde colle attività straniere, che hanno virtù di costituire o d' immutare i corpi; e quando è discorde, talora prevale, talora è vinto, secondo il grado di forza che spiegano i principŒ opposti, e così sorge la lotta delle malattie. Medesimamente avviene che il principio razionale può essere in discordia colle dette attività, e confederato al principio senziente lottante, od anche coll' attività dei principŒ stranieri, quando questi leghino e spossessino il principio senziente, impedendolo di piegarsi all' attività del principio razionale, e a questa servire. Ma se l' opposizione al principio razionale non nasce dall' agente straniero, ma dallo stesso principio senziente, in tal caso vi è difetto nella percezione primitiva, che è il vincolo dell' anima razionale col corpo animale; ed è perciò che il principio razionale non ha le piene e naturali sue forze, non può farsi ubbidire dal suo inferiore (1). Noi abbiamo riconosciuta in quarto luogo l' attività intellettiva, che consiste nell' intuizione dell' essere, la quale non ha e non può avere verso l' essere alcuna reazione. Finalmente abbiamo riconosciuta e lungamente descritta l' attività del principio razionale. Ora le prime tre attività non sono propriamente attività dell' uomo, e la prova ne è che talora si oppongono all' uomo. Se fossero attività dell' uomo, non potrebbero giammai opporsi all' attività razionale, che è l' umana. Tuttavia esse aiutano alla costituzione dell' uomo: la prima, quella dell' estensione, come condizione alla quale egli può percepire i corpi; la seconda e la terza, cioè la virtù sensifera ed il principio senziente, come strumenti del principio razionale: quella cioè come strumento mediato, questo come strumento immediato (1). Che se non sempre il principio razionale può far uso di questi suoi strumenti, reggendone e dominandone la potenza, ne vedemmo pur ora il perchè, che a queste due ragioni riducesi: I - La debolezza e imperfezione del principio razionale, che non può dominare la forza del principio senziente7animale, attesa l' imperfezione della percezione fondamentale. II - La debolezza del principio senziente, a cui non è ben congiunto e armonizzato il principio sensifero, da cui dipende. Se le tre prime attività non sono proprie dell' uomo, saranno esse proprie dell' uomo le altre due? Sì, quando si considerino nel loro nesso, pel quale esse non ne compongono che una sola, la razionale. Infatti l' attività intellettiva, la semplice intuizione dell' essere, è quell' atto primo che costituisce un principio intellettivo, ma non è ancora principio completo degli atti secondi , nei quali l' attività dell' anima si manifesta. E parlando noi dell' attività dell' anima affine di esporre le leggi del suo operare, cerchiamo la causa degli atti secondi e non ci fermiamo all' atto primo, che finisce tutto in sè stesso. Se dunque si considera il principio razionale, si vede che in esso vi è sempre l' atto del principio intellettivo, poichè egli non potrebbe percepire un ente reale, se non intuisse prima l' essere ideale. Quel soggetto adunque, che intuisce l' essere ideale e che, in quanto a ciò, si chiama principio intellettivo, è quello stesso che percepisce l' ente reale, e, in quanto a ciò, si chiama razionale. L' intuizione dell' essere ideale non esaurisce l' attività del soggetto; dunque l' intuizione dell' ideale è un atto del soggetto, ma non è tutto il soggetto stesso, tutto l' uomo. Perocchè un soggetto è posto da quell' atto primo, che abbraccia in sè potenzialmente tutti gli atti secondi. L' intuizione poi dell' essere ideale si può anche considerare come condizione necessaria agli atti del principio razionale. E qui si scorge un' ammirabile analogia fra l' ordine animale e l' ordine intellettuale. Nell' ordine animale vi è l' apprensione dello spazio, quale condizione all' apprensione del corpo. Nell' ordine intellettuale vi è l' intuizione dell' essere ideale, quale condizione preliminare alla percezione dell' essere reale. Quindi lo spazio puro è un bel simbolo dell' essere ideale indeterminato: in quello si percepiscono sensitivamente i corpi, in questo si percepiscono intellettivamente gli enti reali. Appartiene all' Ontologia la questione: « Se tali simboli, sparsi nella natura sensibile, di ciò che accade nella natura intelligente, siano conseguenze necessarie all' ordine intrinseco dell' essere, o un effetto dell' arbitrio sapientissimo del Creatore ». Ma torniamo a noi. Come dovremo dunque definire il principio razionale, acciocchè nella definizione si comprenda pienamente l' atto primo del soggetto umano colle sue forme diverse? - Noi lo definiremo: « Il principio razionale è la virtù di apprendere l' essere come essere, sotto le sue tre forme; la quale virtù è tutta in atto rispetto alla forma ideale; parte in atto e parte in potenza rispetto alla forma reale (essendo ella in atto rispetto al sentimento animale fondamentale, di cui vi è la percezione, e in potenza rispetto ai diversi termini di esso, che successivamente si mutano), ed è in potenza rispetto all' essere morale ». Quindi nel principio razionale , che è reso unico dall' unità dell' essere, si comprende il principio intellettivo come la prima forma del suo atto; e si contengono in radice i tre ordini supremi delle umane potenze e facoltà, cioè l' ordine delle potenze e facoltà che si riferiscono all' idea, l' ordine di quelle che si riferiscono alle cose (reali), e l' ordine di quelle che si riferiscono al bene morale7eudemonologico. Il principio razionale adunque ha un solo ed unico oggetto, l' essere; ma come l' essere è in tre forme, così l' atto primo del principio razionale è pure in tre forme rispettive, salvo che riguardo alla terza egli è da principio in potenza e non in atto; il che è possibile a concepire, poichè avendo l' atto delle due prime forme, dal rapporto di quelle esce poi necessariamente la terza (1). Dalle quali cose tutte si raccoglie che, come le potenze dello spirito si diversificano secondo le relazioni che ha il principio razionale con altre attività ed entità inferiori, così pure le leggi , che quelle varie potenze osservano operando, si debbono rinvenire nella natura di tali relazioni. Ora, posciachè legge della natura si chiama quel modo costante che dimostrano le operazioni degli enti, a preparare la via all' esposizione di quelle leggi non basta che abbiamo trovato nel principio razionale il fonte di tutte le operazioni umane e di tutte le leggi, ma è uopo altresì che premettiamo la teoria delle operazioni degli enti in generale; è uopo che presentiamo un concetto accurato dell' operare . Perocchè allora la mente, arricchita di questo accurato e bene analizzato concetto, potrà intendere la necessità di quei modi costanti che nelle operazioni si scorgono, ai quali si dà appunto il nome di leggi . Il quale argomento appartiene veramente all' Ontologia ed alla Cosmologia; ma mancandoci tuttavia sufficienti trattati di queste scienze, a cui ricorrere, noi dobbiamo, siccome abbiamo fatto altre volte, trascorrere in esse, pigliandoci dalle dottrine a loro spettanti quanto ce ne abbisogna. Incominciamo dunque dallo svolgere il concetto di operazione, dimostrandone quella possibilità che è ammessa dal senso comune senza alcuna difficoltà nè meraviglia, ma pure si fece sempre un grande inciampo alla filosofia. Allora quando noi concepiamo un ente determinato, concepiamo ad un tempo un atto , cioè l' atto del suo esistere. Questo atto è semplice, e dura quanto l' ente; perciò è uno degli atti che si dicono immanenti. Concepire un ente e concepire l' atto del suo esistere è egli il medesimo? L' atto dell' esistere dell' ente non differisce dall' ente, se non per certe relazioni che vi aggiunge la mente nostra. Quando diciamo atto , noi vi aggiungiamo una relazione colla potenza, a cui il concetto dell' atto è correlativo per opposizione. Quando diciamo ente , concepiamo l' atto compito ed ultimato, laddove quando diciamo atto di essere , noi concepiamo, ovvero immaginiamo di concepire tutta la via per la quale l' ente fu naturato; e nell' atto stesso distinguiamo un cotal principio (atto iniziale), un mezzo e un fine, in cui si riposa compiuto e assoluto. Quindi certe sentenze dei filosofi, come quella: in actu actus nondum est actus , e simili. Di più l' atto stesso dell' essere noi lo concepiamo preceduto o susseguito necessariamente da certi altri atti immanenti, come diremo in appresso. Quando poi l' ente è costituito con tutti i suoi atti immanenti a lui necessari, allora noi pensiamo, traendo il pensiero dall' esperienza, che l' ente, che ha già l' atto compito di esistere, passi ad altri atti, che si dicono anche sue azioni ed operazioni. Ora l' atto dell' esistere ed anche gli atti immanenti che lo accompagnano, si sogliono chiamare atti primi , e i susseguenti si sogliono chiamare atti secondi transeunti . La natura dell' atto transeunte consiste nel passaggio che fa l' ente da uno stato all' altro, sia che avvenga in un solo istante, sia che duri alquanto in un continuo moto. Il carattere adunque dell' atto transeunte è il passaggio , è il moto senza quiete. L' atto immanente è quello che dura coll' ente finchè non sopravviene sostanziale mutazione; e fra gli atti immanenti il primo è certamente quello che abbiamo indicato, l' atto dell' esistere. Tuttavia, oltre l' atto pel quale un dato ente esiste, noi troviamo degli altri atti immanenti, i quali si possono dividere in due classi. I - Gli atti immanenti che precedono (non già nell' ordine cronologico, ma nell' ordine intrinseco della naturazione) all' atto dell' essere. Così, a ragion d' esempio, noi vedemmo che l' atto dell' essere della natura umana, che è quello del principio razionale, risulta da due atti precedenti (quasi come da sua forma e da sua materia): cioè dall' atto intellettivo e dall' atto del sentimento animale fondamentale, i quali pure sono immanenti. II - Gli atti immanenti che susseguono all' atto dell' essere, ma che sono a lui indivisibilmente congiunti, come gli accidenti stabili di una sostanza, poniamo gli abiti. Sono adunque di tre classi gli atti immanenti: 1 quelli che precedono nell' ente all' atto dell' essere; 2 l' atto dell' essere; 3 quelli che susseguono all' atto dell' essere con istabile durata. Oltre di ciò l' analisi e l' astrazione scompongono talora un atto in più per diverse relazioni con cui lo considerano; e quindi gli atti immanenti si moltiplicano nel linguaggio e nella concezione umana. Fu in Italia che cominciarono a levarsi gli ingegni alle più difficili questioni, fu in questa terra, patria della dialettica. Quivi s' intese da prima che ciò che tutto il mondo ammetteva, cioè le operazioni degli enti, come atti transeunti, non era così facile a spiegarsi, come ad ammettersi; non era facile a conciliarsi con altre verità somministrate dal pensiero umano, quando pure la verità non può avere scissura in sè medesima, nè contraddizione. La difficoltà, che corse agli occhi dei più antichi filosofi italici, attaccava il concetto volgare degli atti transeunti, secondo il quale « l' atto transeunte dura qualche tempo in mutazione continua ». Veramente questo concetto di mutazione continua involgeva insuperabili difficoltà, le quali, svolte dall' illustre scuola italiana di Elea con polso di sottilissima dialettica, sollevarono a tumulto tutto intero il campo della filosofia; nè la lotta, riaccesa più volte, cessò mai per decisiva vittoria, ma sempre per isfinitezza dei combattenti. A me pare che quegli argomenti abbiano qualche cosa di solido. Io ne trarrò profitto, adducendone cinque contro la continuità dell' atto. Se un ente durante il suo atto transeunte si cangia continuamente, niuno dei suoi stati, che prende successivamente cangiandosi, ha durata di sorte alcuna. Ma ciò che non dura non è. Dunque nessuno dei suoi stati successivi è. Dunque il concetto di mutazione continua è assurdo. Se tutto insieme preso l' atto transeunte ha una qualche durata, nella quale l' ente muta di stato continuamente, il numero di questi stati successivi, che egli prende, non esiste, perchè non esiste un numero di istanti, si prenda qualsiasi numero, che insieme presi formino una durata (1). Se non esiste il numero degli stati che deve percorrere, è assurdo il pensare che li possa percorrere; perocchè se percorre degli stati diversi, questi debbono avere un numero determinato, giacchè non si dà in natura che ciò che è determinato. Dunque la mutazione continua involge assurdo. Dunque ella è impossibile. Che se taluno dicesse che una durata è divisibile attualmente all' infinito, sicchè possa esservi un numero infinito (cosa certamente assurda, e tuttavia affermata da uomini grandi quanto era un Leibnizio!), in tal caso noi domanderemo se ciascuna parte di questo numero infinito di parti, in cui si pretende potere sciogliersi la durata, dura qualche poco o non dura punto; perocchè fra questi due partiti non vi è nulla di mezzo. Ora se ciascuna parte dura, in tal caso a percorrere un infinito numero di durate, per minime che sieno, si esige un tempo infinito, e però l' atto transeunte non si compirebbe giammai; il quale è uno degli argomenti di Zenone contro il moto continuo (2). Se poi ciascuna parte della durata non dura punto, ma è un istante, in tal caso l' atto transeunte non potrebbe avere durata alcuna contro l' ipotesi, perocchè infiniti istanti, ciascuno dei quali ha una durata eguale a zero, sommati insieme, non danno che una durata pure eguale a zero. Se i corpi si movessero di moto continuo, non si potrebbero muovere giammai con diverse celerità. Perocchè supponendo che un corpo non si fermi in nessun luogo, egli deve passare da un luogo all' altro colla celerità massima; giacchè non si può concepire una celerità maggiore di quella che, senza posa alcuna, passa di luogo a luogo, non perdendo nel suo passaggio neppure un tempo minimo. Io trarrò questo argomento dal tempo, che impiega il moto a comunicarsi a tutte le parti d' un corpo. Che ad avvenire questa comunicazione si esiga tempo e non si faccia in istante, è indubitato presso tutti i fisici. Questa è la ragione, poniamo, perchè la palla vibrata da uno schioppo fora un' asse. Essendo assai grande la celerità della palla, ella rompe la coesione delle parti del legno, nelle quali batte, in un tempo più breve di quello che si esige acciocchè il moto si comunichi a tutto l' asse, il quale perciò resta al suo posto. Stabilito questo fatto indubitato, se ne trae due argomenti, che provano egualmente che il moto non è continuo. Il primo di questi argomenti si è che, se il moto si comunicasse senza fare nessuna posata in nessuno dei luoghi pei quali trascorre, il tempo totale che v' impiegherebbe dovrebbe essere nullo, perchè la somma di tanti zeri non produce che zero. Infatti l' istante non dura, e però ha una durata .uguale . 0. Questo argomento somiglia al precedente; e però mi contento di considerarlo come una conferma di quello. Ma il secondo è argomento nuovo, ed è questo. Un corpo che suppongo perfettamente duro, ricevendo da un altro corpo in moto, pure perfettamente duro, l' impulso al moto, non si muove fino a tanto che questo impulso non si sia comunicato successivamente a tutte le sue parti; e perchè questa comunicazione sia fatta, si esige, come abbiamo veduto, un certo tempo maggiore o minore, secondo la grandezza dei due corpi e la celerità del corpo impellente. Durante questo tempo il corpo duro, che riceve l' impulso, fa ostacolo al corpo in moto che lo dà. Dunque egli lo arresta durante quel breve tempo; trascorso il qual tempo, tutti e due i corpi, l' urtante e l' urtato, si mettono in viaggio secondo le leggi del moto. Dunque qui abbiamo un caso, in cui avviene indubitatamente che fra mezzo al moto del primo corpo, che sembra continuo, vi è una posata; vi è dunque moto, poi quiete durevole qualche tempo, poi di nuovo moto. Ma secondo la legge dell' inerzia quando una volta un corpo è in quiete, rimane in quiete, se non sopravviene una nuova causa di moto. Il fatto da noi indicato si oppone a questa legge; dunque è da dirsi che vi è una specie di posata e di quiete, la quale si compone benissimo con quel moto che si stima continuo, e a cui si applica la legge dell' inerzia (1). Di più, se il corpo urtato non può muoversi se non dopo che l' impulso si è propagato a tutte le sue parti, e se la propagazione dell' impulso non si ferma in nessun punto, come si suppone da quelli che credono il moto dover essere continuo, il moto sarebbe impossibile. Perocchè l' impulso, che si comunicasse ad un punto in un istante, o produrrebbe subito il movimento, o il moto, trovando un ostacolo a spiegarsi, rimarrebbe eliso e spento. All' incontro è necessario che nelle singole parti e punti del corpo l' impulso si conservi vivo, per tutto quel tempo che si richiede acciocchè tutte le parti acquistino lo stesso impulso, e così possano muoversi di conserva. Dunque ciascuna parte del corpo che riceve la spinta, prima di cominciare effettivamente a muoversi, aspetta un certo tempo, finito il quale, il moto incomincia. Dunque la comunicazione del moto stesso e non dell' impulso (2) si fa a ciascuna parte del corpo spinto in un dato tempo, e non in un istante. Ma tutti i corpi, per minimi che sieno, hanno dell' esteso continuo; dunque in tutti deve succedere lo stesso fatto, che il moto non si comunica a nessun corpo in un istante, ma con un intervallo di quiete. Come si risponde a questi argomenti? - Essi, secondo il veder nostro, sono insolubili e contengono altrettante dimostrazioni che l' atto transeunte non si fa per mutazione continua, ma per istanti, fra l' uno e l' altro dei quali vi è qualche durata. Noi abbiamo già dimostrato altrove la stessa cosa, quando negammo che il movimento reale sia continuo (1), benchè sia continuo fenomenalmente. La difficoltà a concepire come il movimento del reale, ossia la mutazione dell' atto transeunte, non sia continua, è immensa per le menti non esercitate alle speculazioni filosofiche, perocchè gli uomini sono propensi a credere al fenomeno dei loro sensi così fattamente, che non sanno pensare possibile se non ciò che loro apparisce sensibilmente. Quindi non sarà punto strano, nè inaspettato per noi che escano molti a così parlarci: « L' osservazione ci dimostra che il movimento è continuo, e contro l' osservazione del fatto non si può andare, come voi stesso di continuo predicate ». Ai quali è difficilissimo fare intendere come l' osservazione non possa decidere la presente questione, che tratta di cosa posta al di là di ogni osservazione sensibile, non provando questa più dell' apparente; ed è pur manifesto che al senso nostro sfugge ogni grandezza minore di una certa data misura. E quando anche si persuadesse loro che l' osservazione nulla può dire di quelle grandezze di spazio, di tempo o di moto, la cui piccolezza è tanta, come pure deve essere nel caso nostro, che niuna sensitività umana è valevole a percepirla (2), o certo niuna avvertenza della mente è sufficiente a considerarla nel senso, quando questo ce la desse; ancora sarebbero presti a domandarci: « Ma come si può concepire un' atto transeunte o un movimento reale, che si fa ad intervalli? ». La quale domanda già non è più tolta dall' osservazione, ma dal ragionamento, che considera la possibilità degli insensibili. A cui basterebbe rispondere che niente dimostra l' impossibilità di ciò, quand' anche non si sappia spiegare il modo come la cosa avvenga; ed essendovi due sentenze opposte, dell' una delle quali l' assurdità si dimostra, dell' altra non si dimostra, conviene attenersi alla seconda rifiutando la prima. Basterebbe, dico; e tuttavia non persuaderebbe molti, che hanno poca forza di fede a ciò che la ragione dimostra. A soccorso di questa cotal debolezza d' animo nel dare l' assenso semplice e fermo alle dimostrazioni speculative, a cui le apparenze sensibili fanno contrasto, noi dimostreremo prima direttamente che il senso della vista, a cui principalmente si crede, quando dà, o sembra, testimonianza della continuità del moto d' un corpo (e si può agli altri sensi applicare un ragionamento simile), non attesta propriamente, e non può attestare la continuità del moto. E veramente è un fatto riconosciuto da tutti i fisici e dato dall' esperienza, che la sensazione visiva ha una durata nel sensorio ottico, e non passa in un istante. Se questo non fosse un vero d' indubitabile esperienza, si potrebbe dimostrare la necessità che così fosse, considerando che una sensazione, che non avesse durata alcuna, non sarebbe. Ma non abbiamo bisogno d' una tal prova di ragione. Tuttavia, quantunque ogni sensazione ottica duri qualche tempo, essendone assai piccola la durata, il comune degli uomini la crede istantanea. Posto dunque questo vero, che ogni sensazione ottica ha una piccola durata, ne viene per indeclinabile conseguenza che l' occhio non può testimoniare punto nè poco il movimento continuo, perchè non può testimoniare ciò che non vede. E di vero, il movimento continuo è un continuo cangiamento di luoghi, in ciascuno dei quali il corpo non fa fermata alcuna. Per essere adunque veduto il movimento continuo, l' occhio dovrebbe avere una successione di sensazioni diverse, ciascuna delle quali non avesse durata alcuna. Ma il fatto non va così; che anzi l' occhio altro non prova, quando l' uomo crede di vedere un corpo che si muove continuamente, se non una serie di sensazioni l' una continua all' altra (o con intervallo insensibile), ciascuna delle quali dura qualche poco di tempo. Dunque anche il moto fenomenale, cioè sensibile agli occhi, si riduce in una serie di stati del mobile, ciascuno dei quali dura alquanto. Quella dunque che sbaglia è l' avvertenza della mente, quando, trascurando di osservare quelle minime durate, suppone che l' una segua all' altra senza alcuna interruzione (1). Da questi principŒ muovendo, gli studiosi della natura giunsero ad inventare delle ingegnose macchinette, colle quali fecero apparire all' occhio che un corpo si muova, unicamente col rappresentare successivamente alla vista un certo numero di corpi, ciascuno dei quali apparisca di egual forma in luogo così vicino all' altro che paia l' altro, passato innanzi di una menoma distanza. L' uomo, al vedere tutti questi corpi uguali successivamente presentarsi all' occhio in luoghi vicinissimi, li prende per un corpo solo, che si muova con continuo moto. E con questo artificio si compose qualsiasi moto apparente lineare, circolare, ecc., quando pure il corpo, che apparentemente si muove, non è un corpo identico, ma un complesso di più corpi eguali che si vedono in luoghi diversi, rappresentanti quel moto appunto che si crede continuo. Ora questo esperimento solo è sufficiente a rispondere anche alla domanda, benchè indiscreta: « Come sia possibile che un corpo passi da un luogo all' altro, senza che si muova continuamente passando per tutti gli spazi di mezzo ». Poichè è soddisfatto a tale istanza, quando si dimostra la possibilità che il moto sembri continuo a chi lo vede, senza essere tale; e la possibilità è dimostrata, se si prova avvenire così di fatto in un solo caso. Tuttavia io ne recherò un altro dei molti, che mi somministrerebbe la fisica e principalmente l' astronomia; ed ecco qual' è. Quando la persona passa davanti ad uno specchio, il moto dell' immagine risponde al moto della persona, e l' uno e l' altro pare continuo. Ora come si fa il moto apparente dell' immagine? Forse col passare qualche cosa da un luogo all' altro? Niente di ciò; quell' apparenza si produce per via di raggi sempre nuovi di luce, che dipingono sullo specchio immagini sempre nuove, ossia fisicamente diverse, svanite le precedenti; eppure pare sempre che l' identica immagine sia quella che cammini e passi. Dunque il fenomeno della continuità del moto si può spiegare, senza che sia assolutamente necessario che tutti i punti di un dato corpo che si muove, tocchino tutti i punti intermedi dello spazio, per cui passa o sembra passare. Forse un tempo si potrà invocare a favore di questa dottrina l' intermittenza della luce sospettata da alcuni fisici, se non ancora dimostrata a pieno; intanto mi proporrò un' ultima obbiezione. Gli esempi, che avete addotti, dimostrano benissimo che può nascere il fenomeno del moto continuo senza che in verità sia tale, per via di sostituzione successiva di più corpi eguali, o di più operazioni eguali. Ora, vorreste voi che i corpi che si muovono, non conservino la loro identità, come appunto diceva Leibnizio, il quale supponeva che il pieno e il vacuo dello spazio si facesse da una materia immobile, costituente l' infinito spazio, la quale quasi direi s' indurava successivamente, e così dava mostra che fosse un corpo identico che si muovesse? Rispondo che per quanto aliena paia una tale supposizione dal comune pensare, perchè il comune pensare si ferma al fenomeno e non entra a cercarne le ragioni e le cause, ella non fu mai nè dimostrata assurda, nè tampoco falsa nel fatto. E` questione metafisica, che, qualunque soluzione le si dia, lascia le cose fisiche quali sono; e però difficilmente potrà dimostrarsi o falsa o vera con fisici argomenti. Ma senza esaminare la supposizione leibniziana, io domando se è ben definito in che consista l' identità di un corpo. Ella è questione più ardua a sciogliersi che non paia. Io qui la tratterò brevemente, ma in maniera sufficiente all' intento. Nel corpo si distinguono due cose, l' estensione e la forza. Ora quando un corpo si muove, è certo che l' estensione è mutata, perchè cangia di luogo, ed un luogo non è mai identico ad un altro, essendo un luogo fuori dell' altro. Ciò che impedirà intendere questo vero, sarà il pregiudizio che il corpo abbia un' estensione sua propria, che egli porti seco, quasi che l' estensione si possa portare da un luogo all' altro, o l' estensione del corpo e quella del luogo che occupa sieno due estensioni, e non un' unica e semplicissima estensione. In questo credere fa gabbo al pensiero la misura o quantità dell' estensione, che è sempre conservata identica dal corpo; mentre muta l' estensione stessa, prendendone egli sempre un' altra, benchè di eguale misura di quella che aveva prima. Ora, essendo le diverse estensioni, in cui il corpo successivamente si espande, in tutto eguali di grandezza e di qualità uniforme, sorge assai facilmente l' illusione che sia una estensione stessa aderente al corpo, che venga dal corpo seco portata. L' identità dunque del corpo non può consistere che nell' altro elemento, nella forza corporea. Ora questa non è altro che il termine di un atto di quell' occulto agente, che abbiamo chiamato principio corporeo , il quale non può essere che semplice. In che consiste l' identità del termine di un atto? In questo, che egli sia eguale in tutto; è una identità specifica quella che in esso si cerca in relazione all' atto, perchè il termine è costituito da questa relazione essenziale. Così se io fiuto cento volte l' odore di rosa, benchè gli atti sieno numericamente diversi, essi hanno però un termine specificamente identico, perchè è sempre la stessa sensazione dell' odore di rosa in cui terminano, supponendo questa sensazione invariabile; io non ho in tutti questi atti altra sensazione che quella dell' odore di rosa, che si riferisce a più atti. Ora, se il principio corporeo attuasse il corpo con intermittenza, egli che essendo semplice può abbracciare ad un tempo tutto lo spazio, come abbiamo veduto avvenire del principio senziente, lo potrebbe far comparire successivamente in luoghi vicinissimi, a tale che paressero continui e non interrotti, e così il corpo parrebbe muoversi con movimento continuo, benchè non sarebbe. E tuttavia egli sarebbe lo stesso corpo, perchè termine eguale in tutto degli atti intermittenti di esso principio corporeo semplice; onde la diversità individuale che esservi potesse, sarebbe affatto indiscernibile. Che se non ci bastasse il mantenere ciascun corpo tanta identità specifica, e si volesse una identità numerica, non ce ne mancherebbe la via. Perocchè potrebbe considerarsi la forza sensifera come una virtù identica del principio corporeo, la quale operasse con intermittenza non osservabile ai sensi. Concludiamo: gli atti transeunti si formano in un istante, o sono un composto di atti minori, che si formano in altrettanti istanti vicinissimi, tra i quali passa una minima durata non osservabile all' uomo in modo alcuno. A spiegare il concetto dell' atto transeunte, anzi pure a formarcelo accurato, altre difficoltà non poche si rappresentano alla mente dello speculatore. Ma queste ci verranno innanzi tra via, ed allora ci studieremo di vincerle, giacchè il trarle fuori ad una ad una lenterebbe il corso del nostro ragionare, ansioso di pervenire là dove tende. Qui dunque è uopo che consideriamo il nesso dell' atto transeunte, secondo il concetto poco fa stabilito, coll' atto immanente. Noi abbiamo posto questo concetto in un passaggio , ossia in una mutazione, che si fa in un istante. Tenuto questo concetto e la dottrina dell' istante e della durata , si ha una definizione dell' atto transeunte, che dimostra ottimamente la sua relazione essenziale coll' atto immanente; perocchè la definizione dell' atto transeunte riesce a questa: « L' atto transeunte è sempre il cominciamento o il fine di un atto immanente »; ossia « l' atto transeunte non è che il cominciare o il finire dell' atto che dura ». Dalla quale definizione si trae un corollario importantissimo, che qui noi non vogliamo lasciare inosservato, come quello di cui abbisogniamo in progresso, a procedere con piena chiarezza e distinzione di pensieri. Il corollario si è quello dell' esistenza di Dio, dimostrata dalla sola esistenza di atti transeunti. La dimostrazione, che a noi sembra invitta, si può condurre così: Se si danno atti transeunti, si danno altresì atti immanenti, perchè quelli non sono che il principio o il termine di questi. Ma nessun atto immanente può essere causa del proprio termine, perchè nessun atto può essere causa del proprio non atto, ossia della cessazione di sè stesso. Neppure l' atto immanente può essere causa del proprio cominciamento, perchè nessun atto può dare a sè stesso l' esistenza, che sarebbe un operare prima che fosse. Ora l' atto transeunte ha pure bisogno di avere una causa, perchè esso è mutazione, è passaggio; e ciò pel principio di causa (1); nè questa causa può essere egli stesso, per la ragione addotta che ciò che non è non può dare a sè l' esistenza. Se dunque l' atto transeunte non è cagionato dall' atto immanente di cui è cominciamento o fine, converrà che vi sia un' altro atto immanente che lo cagioni. Ma questo atto immanente, che cagiona l' atto transeunte, o avrà cominciamento egli stesso, nel qual caso sarebbe cagionato da un atto transeunte, o non avrà principio di sorte alcuna, è però neppur fine. Se esso è cagionato da un atto transeunte, converrà ascendere ad un altro atto immanente, e per non andare al progresso di cause all' infinito (nel qual caso nessun atto sarebbe prodotto, perchè ci vorrebbe un tempo infinito a produrlo, e un tempo infinito non è mai trascorso) converrà fermarsi ad un atto immanente, che non abbia nè principio, nè fine. Se poi esso non è cagionato da un atto transeunte, già nuovamente abbiamo un atto immanente senza principio e senza fine. Esiste dunque un atto immanente senza principio e senza fine; e questi è Dio. Dunque se esistono degli atti transeunti, esiste necessariamente Iddio (2). Questa dimostrazione dell' esistenza di Dio ha il vantaggio che conduce a dimostrare direttamente che Dio è un atto immanente , ed un atto purissimo. Ora tale verità è fecondissima, e principio onde scaturisce tutta la dottrina intorno alla divina natura, come deve mostrare la Teologia Naturale. Ella fra le altre verità di cui va gravida, contiene una dimostrazione, che non so se fino ad ora sia stata trovata. Per accennarla brevemente si può condurre per via delle seguenti proposizioni. Tutti gli atti immanenti, che hanno cominciamento e fine, sono mescolati e connessi con atti transeunti, che sono appunto il loro cominciamento e il loro fine. Tali atti immanenti, che hanno cominciamento da un atto transeunte, non possono essere cagione di questo atto transeunte. Questo atto transeunte adunque, che dà cominciamento ad un atto immanente, deve essere cagionato da un atto immanente, il quale non abbia cominciamento nè fine, nè sia mescolato con niun atto transeunte. Dunque questo atto immanente, che, come vedemmo, dicesi Dio, producendo quell' atto transeunte, che dà principio ad un atto immanente, deve operare in modo che produca quell' atto transeunte fuori di sè, senza che in sè nasca perciò alcun passaggio, alcuna mutazione, ossia alcun atto transeunte. Ma questa maniera di operare dicesi creazione , rispetto all' atto transeunte prodotto, quale principio di atto immanente. Dunque si dà necessariamente la creazione, ossia la creazione è necessaria a spiegare l' esistenza del mondo, che è un complesso di atti immanenti e transeunti legati insieme. Il sagace lettore intenderà, io non dubito, che questa dimostrazione equivale a qualsivoglia delle dimostrazioni di Euclide (1). Passiamo ora ad un' altra difficoltà, che si presenta nel concetto dell' atto transeunte. Gli atti transeunti non possono essere che atti venienti da atti immanenti; perocchè ciò che è, è immanente, avendo noi veduto che un ente senza alcuna durata è un assurdo, giacchè l' istante è il limite della durata, e perciò suppone la durata, nè sta da sè, come il punto matematico è il limite della linea, che non istà da sè. Ora un atto immanente, che produce un atto transeunte, o lo produce con un atto eterno, immanente anch' esso, ed allora egli non è il soggetto dell' atto transeunte prodotto, il che si avvera solo nella creazione, come vedemmo; ovvero produce un atto transeunte, di cui egli è il soggetto, di modo che l' atto transeunte è un atto suo proprio; per esempio, l' atto con cui il principio senziente acquista una nuova sensazione, o l' atto con cui il principio razionale fa un pensiero, sono atti transeunti, il cui soggetto è il principio senziente o il principio razionale. Questi atti transeunti modificano il soggetto che li fa, producono in esso qualche cosa di nuovo; e nella loro spiegazione si presenta appunto la difficoltà accennata, la quale è questa. Se un ente, atto immanente, diviene soggetto di atti transeunti, il che è quanto dire modifica sè stesso, conviene assegnare una ragione sufficiente, una causa di questa modificazione, pel principio di causa. L' ente stesso, cioè lo stesso atto immanente, non contiene la ragione sufficiente, ossia la causa piena di questa novità; perchè se la contenesse, l' atto prodotto sarebbe immanente e non transeunte, cioè sarebbe sempre stato nell' atto immanente. Infatti posta la causa piena , l' effetto esiste. Ma l' atto immanente era prima che l' atto transeunte comparisse; dunque l' atto immanente non è causa piena degli atti transeunti, che in lui, come altrettanti suoi accidenti, si manifestano. Questa è una nuova prova che l' atto immanente, soggetto dell' atto transeunte, non può esserne la piena causa, che si deve aggiungere a quella che abbiamo data prima. La conseguenza di ciò si è che niun ente è veramente e rigorosamente semovente; ma deve concorrere al suo movimento, cioè alla sua immutazione, qualche agente straniero. Per evitare questa conseguenza, che pareva loro una difficoltà, molti antichi filosofi posero l' essenza dell' anima nel movimento (1); ma oltre non essere il movimento sostanza e aver bisogno d' una sostanza che ne sia il soggetto, e d' una causa, se nel movimento consistesse l' essenza dell' anima, questo movimento dovrebbe essere sempre uguale; perocchè se variasse, già si dovrebbe ricorrere all' intervento di un' altra causa per spiegare tale variazione. Onde Aristotele conchiude che all' anima spetta piuttosto la quiete che il moto (1). Egli osserva che tali filosofi vennero a questa sentenza, perchè non sapevano concepire come ciò che muove possa non essere in moto egli stesso (2); e contro di essi, dopo aver provato che l' anima non si muove per sè (3), conchiude: [...OMISSIS...] (4). Ma questa sentenza incontra non poche difficoltà, perocchè, o la parola movimento s' intende in senso proprio, cioè per movimento locale proprio dei corpi, e in tal caso è facile provare che l' anima ne va immune perchè semplice e spirituale, e che quindi può muovere i corpi senza che ella si muova, giacchè ella è principio, ed i corpi sono il suo termine, e in questo termine è lo spazio, il luogo ed il moto. Ovvero si dà alla parola movimento una più estesa significazione, quella dell' atto transeunte, della mutazione, dell' accadere qualche cosa di nuovo; il che pure fa Aristotele sovente. Onde non potendo negarsi che le potenze dell' anima escano in atti transeunti, nota Aristotele che Democrito, che dava all' anima il moto, confondeva la potenza dell' anima, a cui il moto conviene, coll' anima (1) a cui non conviene. Ma se le potenze altro non sono che attività dell' anima, giacenti nella sua stessa essenza, forz' è ben dire che l' anima stessa rimanga modificata dagli atti di sue potenze, non solo quando queste sono in atto, ma anche dopo il loro atto, restando in essa l' abito come quasi un rimasuglio dell' atto. Poichè, quantunque l' anima abbia natura di principio , tuttavia questo principio riceve o perde di sua attività; e così nasce in lui qualche mutazione, e in questa in senso metaforico qualche moto, chè alla fine, di tutti gli atti delle potenze l' anima è il soggetto, e il soggetto si modifica pei suoi atti transeunti. E` vero che Aristotele dice che l' anima è atto (l' atto del corpo vivo), ma non può negare che questo atto primo è potenza ad altri atti transeunti, e però non è atto puro ed immutabile, ma passa dalla potenza all' atto (2). Se dunque la parola movimento si piglia per ogni passaggio dalla potenza all' atto, nel quale passaggio sta appunto la natura dell' atto transeunte, conviene dire che fra la sentenza di quei filosofi, che ponevano l' essenza dell' anima nel moto, e la sentenza di Aristotele che nega all' anima ogni moto, giaccia la sentenza media e vera; cioè che « l' anima, come ogni altro ente che non sia il primo, è un atto immanente, soggetto di atti transeunti, ma non causa piena di questi »(1); perchè se ella fosse causa piena, gli atti non potrebbero cessar mai, durante la causa, e così sarebbero immanenti; come accade in Dio dell' atto creatore, che è atto eterno, che non ha e non pone in Dio mutazione o passaggio di sorte. Altrimenti l' anima sarebbe un semovente , il concetto del quale ripugna, come abbiamo detto. Se dunque niun ente può essere un vero semovente, cioè una causa piena dei propri atti transeunti, rimane a cercare ancora come questi nascano, quale sia la loro causa completa. A tal fine dobbiamo richiamare quello che abbiamo detto, che l' anima ha natura di principio, e il concetto di principio involge quello di atto. Ma il principio non esiste senza il suo termine, ed è dal suo termine che riceve la sua attualità ed attività. L' anima sensitiva ha per suo termine lo spazio ed il corpo. L' anima razionale ha per suo termine l' ente. Ora se si muta il termine, si muta conseguentemente l' attualità e l' attività del principio. Conviene adunque cercare la cagione degli atti transeunti, che accadono nell' anima nella mutazione dei suoi termini, come noi abbiamo già fatto prima. Perocchè il principio è essenzialmente atto, e però è indifferente ai suoi termini, nè gli vien meno l' attività giammai, per qualsivoglia termine gli sia dato; che, anzi, secondo il termine, più o meno attivato. Questa dottrina, che viene somministrata dall' osservazione interna, spiega in che modo nell' anima vi possa essere della potenza, quantunque ella sia essenzialmente atto, perchè è principio; il che parrebbe contraddizione. Ma se si pone che l' atto stesso riceve più o meno entità, secondo la natura dei termini che gli sono dati, da una parte si scorge che ella rimane sempre puro atto, benchè maggiore o minore, nè mai, propriamente parlando, ha unito seco un quid della sua essenza che sia potenza; dall' altra, essendo capace d' incremento e di diminuzione, dicesi che ella è in potenza a questo incremento di sè o a questa diminuzione. E così rimane spiegato il vero concetto della potenza , come una negazione di atto , e non come un che positivo, che costituisca una parte sostanziale dell' ente principio. Vero è che fra l' essere dato un termine ad un principio e l' essergli al tutto negato, vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso, ed il combattimento fra lui e il suo termine; ma di questo parleremo altrove. Ora, dunque, noi possiamo conchiudere che la ragione degli atti transeunti non si deve mai cercare negli enti principio, ma negli enti termine. Conviene adunque esaminare con somma diligenza quali sieno le forze, o virtù, o cause che mutano gli enti termine, e come queste operino; ed in tal caso solamente sarà spiegato come gli atti transeunti siano possibili, appunto perchè sarà dichiarato il modo come si formano. Ma perchè questo modo non è unico nei diversi enti, così noi dobbiamo discendere alle singole maniere di enti e di loro atti transeunti, come faremo nel seguente capitolo. Le quali cose tutte noi abbiamo creduto dover premettere a spiegare il movimento del principio razionale. Perocchè la condizione di questo movimento non riesce ben chiara nel concetto della mente: 1 se non si conosce la natura del movimento in genere di tutti gli enti, e specialmente di quelli che sono soggetti di atti transeunti; 2 se non si confronta il movimento del principio razionale a quello, secondo cui si muovono gli altri agenti della natura. Delle quali due cose la prima fu fatta nel capitolo precedente, la seconda noi togliamo a fare ora. All' uomo non è dato per natura altro spazio pieno, ossia distinto mediante il corpo che vi si espande, che quello del sentimento fondamentale. I confini di questo spazio a principio non si sentono, ma si trovano mediante le sensazioni superficiali. Nè questi confini si potrebbero percepire, senza che si sentisse qualche spazio di là da questi confini medesimi (1). Qui dobbiamo fermarci, perchè questo ha già bisogno di spiegazione all' intento nostro presente: Come si può sentire qualche cosa al di là del corpo nostro? Noi abbiamo, è vero, la percezione dello spazio illimitato, ma questo spazio è indistinto, cioè non ha ancora alcuna relazione coi corpi, che lo empiscono o lo possono empire; non basta dunque a spiegare come noi acquistiamo la cognizione dello spazio distinto, che eccede i confini del nostro corpo, cioè la relazione fra il nostro corpo e lo spazio immenso. La soluzione della difficoltà si deve ritrarre dalla distinzione delle due maniere di sentire, la soggettiva e l' extrasoggettiva . Il soggetto si spande nel sentimento fondamentale corporeo come padrone, come in cosa propria, a sè unita quasi una parte, una continuazione di sè stesso; egli agisce in esso, e ne ha bisogno come d' una condizione essenziale di sè stesso. Qui non compariscono confini lineari o superficiali, è un sentimento solido, fuori del quale nulla si sente di corporeo, nulla si può sentire; perciò non ha relazioni sensibili con niun corpo straniero. Ma la sensazione extrasoggettiva è di tutt' altra natura; ella accusa una forza straniera a quella del sentito; la quale forza produce una violenza (benchè talora piacevole) al sentimento fondamentale. La forza straniera agisce nell' estensione stessa del sentimento, nel sentito fondamentale, ed allora questa estensione si disegna e figura. Ora conviene bene intendere la natura di questi confini superficiali, che acquista così il nostro sentito fondamentale. Prima di tutto, allorquando il nostro tatto è affetto da un corpo straniero, si distingue che quel corpo è straniero, perchè si sente che l' azione di lui non è quella del principio senziente, anzi questo è in essa; si sente che l' agente straniero non è sentito in sè stesso, ma solamente ne è sentito l' effetto e il termine della sua azione, perchè il sentimento che se ne ha non è quello d' un solido, ma d' una superficie; si sente dunque il termine della sua azione, ma non lui stesso, a differenza di quanto accade nel sentito fondamentale, il quale non è un termine superficiale di azione che si senta, ma lo stesso agente in tutto lo spazio solido, in cui si espande come agente. Ma poichè il termine dell' azione straniera è nel nostro sentito fondamentale, che ne riceve l' azione, perciò la stessa superficie sensibile, che è il termine dell' azione straniera, si percepisce come confine del sentimento fondamentale, distinguendosi in questo quella superficie da tutto il rimanente del sentimento fondamentale, e diventando così quella superficie termine a due agenti, allo straniero e al proprio, che è il sentito fondamentale (in quanto è sensifero). Questo accade per via del tatto (prescindendo noi ora dalla vista e dagli altri sensi), il quale è la propria misura dei corpi (1). Quindi se il corpo nostro fosse immobile, noi col tatto non potremmo conoscere simultaneamente la superficie di un corpo straniero maggiore di quella del nostro, che la commisura. Per ispiegare, adunque, come noi possiamo percepire un corpo maggiore del nostro, si deve fare intervenire il movimento, sia nei corpi esteriori, sia nel nostro proprio. Quanto ai corpi esteriori, se diversi corpi agiscono successivamente sulla stessa parte del corpo nostro, in tal caso quei corpi o sono perfettamente eguali di estensione, di forma ecc., o hanno qualche varietà fra loro. Se sono perfettamente eguali, e si applicano successivamente alla stessa parte del corpo nostro, noi senza l' aiuto di altri sensi, col solo tatto non potremmo distinguere se l' agente è un solo e medesimo corpo, una stessa virtù che opera con replicati atti, ovvero se più. Ma qualora i corpi variassero di estensione e di figura, noi li prenderemmo per corpi diversi; e ciò non in virtù del solo principio senziente e della ritentiva propria di lui (di che ora prescindo, non bisognandomi di entrare in questione così sottile), ma per la ritentiva razionale. Perocchè, paragonando l' una superficie sensibile e sensifera all' altra, le troveremmo diverse, e così ci rimarrebbe nell' animo la notizia di più superfici, poniamo che fossero dieci e di un palmo quadrato di estensione, ma di varia figura ciascuna. Con questo solo noi comincieremmo a concepire una estensione maggiore della corrispondente nel corpo nostro; perocchè la superficie, in quanto appartiene al nostro sentimento fondamentale, non la possiamo moltiplicare giammai, sentendo noi che è sempre quella stessa. Un solo palmo, adunque, di estensione superficiale del corpo nostro è il campo, per così dire, dove possiamo sentire un palmo di estensione della forza esteriore, moltiplicato quanto si voglia, secondo il numero delle sensazioni di figura diversa, che si ripetono e moltiplicano successivamente. Veniamo al movimento del corpo nostro. E` certo che movendosi il nostro corpo, e ricevendo sempre nuove diverse sensazioni dei corpi circostanti, diversi di figura e d' attività, possiamo colla ritentiva razionale acquistare la notizia di uno spazio esteso più e più, senza limite assegnabile. Ma il difficile è qui lo spiegare il movimento del corpo nostro. Non abbiamo noi detto che il principio senziente ed il principio razionale sono immobili quanto a moto locale? Come adunque possiamo poi muovere il corpo nostro soggettivo? che cosa è questo movimento? Conviene riflettere che il nostro corpo noi lo percepiamo in due modi: nel modo extrasoggettivo , come ogni altro corpo, in quanto ha anch' egli la virtù sensifera, onde è visibile, tattile, ecc., e nel modo soggettivo , nel quale secondo modo è il sentito del sentimento fondamentale. Ora il corpo nostro extrasoggettivo non entra nel sentimento fondamentale, anzi non è che la virtù sensifera a lui straniera ed opposta. Supponiamo adunque di non averlo percepito extrasoggettivamente, ma solo soggettivamente; in tal caso egli non ha più moto. Infatti noi abbiamo già dimostrato nell' Ideologia che il moto nostro non è sensibile (1); ma se il nostro sentimento fondamentale non sente alcun moto, dunque il moto non cade in lui, essendo egli essenzialmente sentimento, e non cadendo nel sentimento ciò che non è sensibile. Si dirà che quando noi stessi moviamo il corpo nostro, per esempio camminando e saltando, allora noi sentiamo lo sforzo che facciamo per muoverci. Verissimo; ma lo sforzo, che noi facciamo per muoverci, non è già il moto, ma la causa del moto. Nel sentimento fondamentale adunque non cade moto di traslazione da luogo a luogo, benchè vi si trovi la forza e la causa del moto. Quindi il moto di traslazione non è che un cangiamento che si fa extra il soggetto, è un cangiamento nel corpo extra7soggettivo, una mutazione nella forza sensifera; ma non punto nel sentimento fondamentale, che si rimane immobile. Ma pure quando il corpo extrasoggettivo si trasporta per guisa che mediante l' esperienza extrasoggettiva si vede il nostro aver mutato di luogo, di che ci accorgiamo per la diversa relazione che prende coi corpi circostanti, allora il sentimento nostro fondamentale, e quindi il corpo soggettivo, è ancora presente agli stessi fenomeni extrasoggettivi, che dà il corpo nostro trasportato, sicchè il corpo nostro soggettivo non ha cangiato di relazione col corpo nostro extrasoggettivo. Se dunque il corpo nostro extrasoggettivo occupa un altro spazio, si suol dire che quest' altro spazio lo occupi anche il corpo soggettivo, e così sia stato trasportato anch' esso, si sia mosso. Questa osservazione è appunto quella che indusse Aristotele a dare all' anima quella specie di moto, ch' egli chiama per accidente , e che paragona al moto del colore, che non si muove come colore, ma come aderente ad un corpo che si muove. Ma questo, come abbiamo detto, è un errore, perchè, ritornando noi al sentito fondamentale, è evidente che il moto o dovrebbe essere sentito, e però cadere in esso sentimento, o non essere moto del sentimento; perocchè il sentimento è racchiuso in sè stesso per la sua propria essenza, e il mutarsi delle cose fuori di lui non è un muoversi che faccia egli stesso. Onde convien dire che il movimento locale è un fenomeno al tutto extrasoggettivo, cioè tale che si rivela colla sola esperienza extrasoggettiva, e non un fenomeno soggettivo, che si sperimenti come accidente del soggetto stesso o del suo sentito fondamentale. Ora i fenomeni extrasoggettivi sono prodotti dalla forza sensifera; onde si può ben dire bensì che col movimento del nostro proprio corpo si cangi il rapporto fra il nostro sentimento fondamentale e la forza sensifera sparsa nella natura, per esempio, nei corpi esterni, ma non che si cangi o muova lo stesso sentimento. Ma nel sentimento fondamentale si sentono, per l' azione del sensifero, le superfici di esso sentimento fondamentale, e queste pure si muovono. - A questa obbiezione rispondo: 1 che le superfici si sentono quando la forza sensifera attualmente è applicata al nostro corpo, e durante quest' azione non vi è movimento locale delle superfici; 2 quando poi la forza sensifera non agisce più sul nostro tatto, e il corpo nostro si trasporta da un luogo all' altro, allora la mutazione non istà in altro se non nell' essersi mutato il rapporto fra la forza sensifera e il sentimento fondamentale, come dicevamo. Ma lo stesso corpo nostro si vede quando viene trasportato. - Rispondo che l' esperienza della vista è del tutto extrasoggettiva. Ciò che si vede si è il corpo nostro in quanto cade sotto l' esperienza extrasoggettiva, e nel corpo extrasoggettivamente considerato accordammo già che si dà il moto; ma un tal corpo non è il sentito fondamentale, bensì cosa tutta diversa da esso. Ma nella superficie stessa del corpo nostro si sente il moto, qualora una sensazione particolare trascorra da un punto all' altro di essa superficie. - Rispondo che questa sensazione trascorrente è prodotta dalla virtù sensifera, e però appartiene al corpo percepito come un extrasoggettivo; e in quest' ordine di percezioni si dà il moto. Ma nel sentimento fondamentale7animale voi avete distinto un principio senziente semplice ed un termine esteso. Di più, nel termine esteso voi avete riconosciuto la condizione di sentito e ben anche quella di sensifero . Dunque sia pure accordato che al principio senziente, come ad un semplice ed incorporeo, non competa il moto, ma al termine esteso deve convenire il moto per due ragioni: 1 perchè è esteso, ed un esteso può essere trasportato da un luogo all' altro; 2 perchè in quello stesso esteso vi è il sensifero, al quale voi pure accordate il moto. Rispondo che in quanto il termine del sentimento fondamentale ha seco la virtù sensifera, in tanto egli non è termine del sentimento fondamentale, ma è quella virtù che può immutarne il termine, ossia costituirlo in altro modo da quello che è. Mi spiego. Il sentito fondamentale, come meramente sentito, è nel principio senziente allo stesso modo con cui abbiamo veduto che in lui è l' esteso, come contenuto nel contenente, e fra il principio senziente e l' esteso vi è una perfetta unione, di modo che formano un unico sentimento. All' incontro, la forza sensifera non è in questo modo nel principio senziente, ma ella non fa che operare nell' esteso, termine del sentimento e immutarlo. Onde il principio senziente non è unito stabilmente colla forza sensifera, nè da lei riceve direttamente l' azione, ma la riceve indirettamente, perchè gli si cangia il sentito da una forza diversa dalla propria. Di più, quando la forza sensifera agisce attualmente nell' esteso, termine del sentimento, allora ella non presenta in sè movimento di luogo a luogo, ma solo azione nello stesso sentito, termine del senziente. Quanto poi alla seconda obbiezione che, essendo il sentito nel sentimento fondamentale esteso, è atto a muoversi, rispondo che non ogni esteso è atto al moto. Così lo spazio stesso infinito non è atto al moto, come vedemmo, anzi è essenzialmente immobile. Acciocchè vi sia possibilità di movimento è necessario che, oltre lo spazio occupato dall' esteso, vi sia un altro spazio in cui egli si possa trasportare. Ma noi abbiamo veduto che l' esteso proprio del sentito fondamentale è un esteso in cui non cadono confini, e che solamente quando si percepiscono i confini superficiali, per poterli percepire è necessario percepire un altro spazio di là da essi. All' incontro il sentito fondamentale è di tal natura che di là da esso, cioè dal suo sentito, non si percepisce alcun' altra estensione, finisce tutta l' estensione in sè; perciò non è possibile che egli sia soggetto ad un movimento suo proprio, perchè non ha altro spazio ove recarsi che quello che egli occupa. Acciocchè dunque si concepisca una mutazione di luogo, conviene uscire da lui ed entrare nel mondo extrasoggettivo. Conosciuti da noi i fenomeni di questo mondo extrasoggettivo, allora ci sembra che il sentito fondamentale si muova; ma questo moto non consiste in altro, come dicevamo, se non nella mutazione del rapporto fra l' esteso sentito del sentimento fondamentale e il mondo extra7soggettivo. Il rapporto poi fra l' esteso fondamentale e il mondo extrasoggettivo non è rapporto di luogo a luogo, di esteso ad esteso, ma di esteso a sentimento; è dunque una relazione inestesa di sensilità che viene cangiata, e propriamente una relazione fra la causa, l' agente nel sentimento (il sensifero), ed il sentimento. All' incontro il movimento è il cangiamento del rapporto fra esteso ed esteso. Ma se tutto intero il sentito fondamentale non ha moto di traslazione, non si trasporta di luogo a luogo, almeno non si potrà negare che l' esteso del sentimento fondamentale potrà essere accresciuto e diminuito; il che importa una specie di moto per estensione o per restringimento. Rispondo che il sentito fondamentale può essere accresciuto e diminuito; ma questo non si fa per via di moto, ma per via di naturazione; il sentito comincia ad essere in un' estensione maggiore, o cessa di essere in una parte di essa. Questo non è moto locale, ma una specie di creazione o cessazione di una nuova parte estesa7sentita. Ma il sentimento fondamentale non è uniforme. Se una parte dunque di esso si sente più di un' altra o in modo diverso, ella potrà muoversi di luogo entro l' esteso sentito7fondamentale. Rispondo che se questo si vuole chiamare movimento, egli è il solo movimento che si può ammettere nel sentimento fondamentale. Ma conviene spiegarlo, e spiegandolo ben si comprenderà che vero movimento non è, quando si prescinda da ogni azione del sensifero, che vi si possa mescolare. Infatti, noi abbiamo posto che se le particelle corporee, a cui termina il sentimento fondamentale, si muovono senza perdere la loro continuità, il sentimento acquista un eccitamento, cioè una vivezza maggiore e varia. Ora dicendo movimento delle particelle corporee, si dice primieramente un fenomeno extra7soggettivo. Il fenomeno soggettivo corrispondente ad esso è la detta maggior vivezza e varietà nel sentimento. La questione adunque sta in sapere se questa mutazione nel fenomeno soggettivo si possa chiamare moto. Ma: 1 il movimento di ciascuna particella sentita non è sensibile, come abbiamo veduto, perchè il movimento del sentito non cade nel sentito, e però è del tutto extra7soggettivo; 2 il movimento di due o più particelle, che si muovono senza perdere la continuità, altra mutazione, quanto all' estensione, non produce nel sentito, se non che questo si aumenta da una parte e si diminuisce dall' altra; il che non è movimento, come abbiamo pure veduto; 3 finalmente se le particelle costituiscono un organo, e i movimenti intestini delle particelle si succedono in modo che prima si muovano quelle della prima fila, poi quelle della seconda, e così di seguito, in tal caso essendovi una successione di moti, deve esservi una successione di eccitamenti distribuiti nelle varie parti dell' organo. Allora il movimento eccitato produce il fenomeno del movimento interno, perchè pare che la stessa sensazione corra da un estremo all' altro dell' organo, che è tutto sentito pel sentimento di continuità. E questo è appunto il movimento unico che si può concepire nel sentito fondamentale, il quale è movimento soggettivo, attesa la ritentiva animale, che conserva il vestigio della sensazione precedente, e ancor più attesa la ritentiva razionale, che conserva la memoria delle sensazioni avute e le confronta. Ma si consideri non di meno che la sensazione non è numericamente la stessa, perchè cessando l' una viene l' altra, onde pare piuttosto una serie di sensazioni che rappresentano il movimento, a quella maniera appunto come l' immagine dello specchio si muove, benchè niun corpo identico si trasferisca da un luogo all' altro sullo specchio (1). E poichè qui si tratta di movimento fenomenale, cioè giacente nel sentimento, nulla ripugna che esso abbia una specie di continuità, in quanto il sentito è continuo, e la nuova sensazione può cominciare dove finisce la prima, o mescolare i loro estremi. Laonde rispetto al principio senziente, ossia all' anima sensitiva, rimane provato che ella è immune da qualsivoglia movimento. Quando poi noi al sentito fondamentale nel modo detto e al principio senziente neghiamo il moto locale , non si creda per questo che noi gli accordiamo la quiete . No, non si può assegnare la quiete a ciò in cui non può cadere il moto, perchè quella è relativa a questo; ma piuttosto è vero il dire che non v' è nè moto, nè quiete, come là dove non vi è estensione, neppure può esservi il punto, che è il termine della estensione. Dalle quali cose tutte possiamo raccogliere: Che lo spazio, non avendo atti secondi e transeunti, non richiede di spiegare il modo del suo operare. Che il corpo presenta due attività, il sentito e il sensifero . Che il sentito non ha propriamente moto locale, e che la sua azione dipende dall' essere dato al senziente e quasi posto in lui; e questa specie di azione non può venire, originalmente, se non dal Creatore autore del sentimento, onde, come già dicemmo altrove, l' animato non si forma, ma è dato in natura (1). Che non rimane più a spiegarsi se non l' azione del sensifero, causa di movimento. Ora questa, dipendendo come da causa dal principio corporeo, e il principio corporeo non cadendo sotto la nostra percezione, è impossibile a noi l' indicare come egli operi con atti secondi, sieno immanenti o sieno transeunti. Ma il solo sapere che il movimento, e quindi il conato al movimento (2), ossia la forza corporea, dipende dal principio sensitivo e da un agente sconosciuto, basta per conchiudere che il corpo non passa ai suoi atti transeunti da sè solo; che anzi egli riceve il moto e la forza dal principio sensitivo , come riceve l' esistenza dal principio corporeo , che può anch' egli esser principio di moto, qualunque poi sia la maniera occulta nella quale lo produca. Ora, poichè la forza si considera nei corpi come atto immanente e il moto come atto transeunte, gioverà che indichiamo il rapporto di questa forza corporea col moto. Abbiamo detto che nel sentito7esteso non è la cagione del movimento extra7soggettivo; o se c' era, in quanto è divenuta sentito7esteso, ella ha perduto la sua natura di forza, dominata dal principio senziente; conviene dunque considerare la forza come distinta dal sentito, determinandola dai suoi effetti. Questi effetti sono: Comunicazione del moto . - Nella percussione di un corpo nell' altro il corpo percosso e libero si muove nella direzione del primo. Questo effetto si riduce all' impenetrabilità e all' inerzia . Non potendo un corpo penetrar l' altro, ed il moto dovendosi conservare per l' inerzia, l' uno cede il posto all' altro con una velocità che sta in proporzione diretta della quantità di moto del corpo urtante, e indiretta della massa del corpo urtato. Ma questo fatto non riguarda l' incominciamento del moto, ma la comunicazione del moto che già esiste. Conservazione del moto . - Per l' inerzia un corpo in moto continua a muoversi nella stessa direzione. Questo effetto suppone che la causa del moto perseveri; ma questa causa non può essere il corpo stesso, perchè egli è indifferente alla quiete e al moto; deve essere adunque una forza incorporea diversa dal corpo che opera nel corpo. Attrazione . - Questa non è altro che un conato di muoversi d' un corpo verso l' altro, un conato permanente. La permanenza di questo conato indica una causa di moto diversa nell' operare dalla causa della conservazione del moto. Perocchè il fatto della causa che conserva il moto, è questo: due corpi di eguale massa, mossi con eguale celerità l' uno incontro all' altro nella stessa linea, quando giungono a percuotersi, si fermano distruggendosi i moti, sicchè resta la stessa quantità di moto nella stessa direzione. Questi due corpi, ridotti così alla quiete, si stanno al contatto, senza che rimanga in essi neppure il conato di muoversi nelle direzioni che precedentemente avevano, sicchè non gravitano l' uno incontro l' altro. All' incontro la causa dell' attrazione produce in essi una pressione dell' uno nell' altro tendente a penetrarsi. L' esperienza dunque dimostra che nella natura del moto concorrono tre cause di moto: Una causa che produce semplicemente il moto , cioè che fa passare il corpo dalla quiete al moto e viceversa. Una causa che presiede alla conservazione e alla comunicazione del moto da un corpo all' altro. Una causa che produce il conato costante di muoversi di un corpo verso l' altro, fenomeni dell' attrazione. La prima e la terza causa trovano, secondo noi, una spiegazione sufficiente nell' attività motrice del principio senziente annesso agli elementi della materia, e nelle leggi secondo le quali opera quell' attività. La seconda suppone un altro principio straniero ai corpi, quel principio stesso che li costituisce e, costituendoli, impone loro le leggi dell' inerzia. Secondo queste leggi il moto in una direzione rimane annullato da altrettanto moto in direzione opposta. Il conato, che hanno i corpi a penetrarsi, in tal caso cessa col cessare del movimento, perchè nasce da questo e non dalla forza causa di lui, la quale è cessata. Tutte le leggi della conservazione e della comunicazione del moto sono conseguenti a questa prima. La forza producente il moto non rimane estinta anche dopo averlo prodotto; e se questa causa è annessa ai corpi, come nell' attrazione, il conato, che per essa hanno i corpi a penetrarsi, non cessa col cessare del movimento, perchè non è prodotto da questo, ma questo stesso è un effetto di quella forza che non muta la sua natura di forza. Nella conservazione del moto semplice ad ogni tempuscolo si rinnova il moto; ma non s' aggiunge alcun nuovo conato a quello che nasce dal moto stesso. Onde il moto riesce uniforme . Nell' effetto dell' attrazione ad ogni tempuscolo si rinnova il conato al moto, che produce nuovo moto, ed il corpo già si muove per la conservazione del moto precedente, onde se ne ha un moto accelerato, come il quadrato dei tempuscoli . A produrre adunque il moto accelerato concorrono due principŒ: 1 il principio della produzione del moto; 2 il principio della sua conservazione. Ma poichè l' impenetrabilità distrugge il moto e il conato veniente dal moto, ma non il conato costante che precede il moto, ed è causa della sua produzione; quindi se due corpi eguali si muovono in direzione opposta con eguale moto, senza attrazione, venuti al contatto, cessa ogni loro moto e ogni conato che potesse venire dal moto, che è sempre un conato istantaneo, durante cioè quel solo tempuscolo che è necessario ad estinguersi il moto. Quando all' incontro due corpi si avvicinano per via di attrazione, allora al loro contatto cessa bensì tutto il loro moto (posto che sieno eguali di massa), quantunque cresciuto per via secondo il quadrato dei tempuscoli; ma non cessa il conato costante , col quale tendono di penetrarsi o almeno (il che mi pare detto con più verità) di toccarsi in tutti i loro punti, di accentrarsi. E` dunque evidente che vi sono due virtù che operano nei corpi: 1 una causa costante di moto già prodotto; 2 una causa costante di conato al moto da prodursi. Noi dicemmo che la causa del moto è certamente distinta dal corpo, perchè dall' essenza del corpo rimane escluso il moto. Ma della causa del conato al moto si potrà dire il medesimo? E` da confessarsi che la causa di questo conato, che si chiama anche attrazione o forza viva , deve operare incessantemente nei corpi, perchè tutti i corpi si attraggono (lasciando da parte i così detti imponderabili, pei quali la questione è ancora indecisa). Ma che non entri un tal conato a formare l' essenza dei corpi è facile a dimostrarsi, quando si considera che ciascun corpo ha tutta la propria essenza in sè stesso, è finito in sè stesso, niente di ciò che è fuori di lui gli appartiene. Ma l' attrazione è diretta dalla relazione di un corpo coll' altro. E` dunque necessario che la causa dell' attrazione non sia un corpo, ma un agente capace di abbracciare la relazione di più corpi fra loro. Questo sembra una nuova conferma dell' opinione che tal virtù possa essere un principio senziente, unito a tutti gli atomi corporei; perocchè questa opinione toglierebbe affatto la difficoltà. Ed essendo provato dall' esperienza che il principio senziente può essere causa di moto, l' ipotesi, se ella è tale, ha le due condizioni volute da Newton, che ella sia cosa esistente in natura, ed abbia la virtù sufficiente da produrre l' effetto. Ad ogni modo rimane dimostrato che la materia per sè stessa è inerte, ed ha bisogno di ricevere il moto senza tenere in sè facoltà di produrlo. All' incontro il principio senziente ha un' attività propria ed è causa dei suoi atti. Ma poichè niuna causa degli atti transeunti è causa piena, chè se fosse piena, ella produrrebbe atti immanenti quanto lei stessa, perciò è da cercare come possa il principio senziente porre gli atti suoi transeunti. Noi abbiamo detto che l' attività del principio senziente si suscita dai suoi termini, ma che, suscitata che sia, ella è propria di lui, diretta nel suo operare da sue proprie leggi. L' attività dunque del principio senziente ha due parti, e però da due cagioni possono sorgere in esso degli atti transeunti: Dalla mutazione del suo termine, il quale è il sentito corporeo; mutazione che non viene da lui, ma da cagioni straniere. Dove è da rammentarsi dell' opinione su accennata, che ogni particella di materia abbia seco congiunto un sentimento; il che agevola ad intendere come il termine d' un principio senziente si possa ingrandire coll' unirsi sentimento a sentimento, posta la legge che dove il sentito è continuo, il senziente è unico, a quella guisa come due punti matematici, che convengono, formano un punto solo, nè più, nè meno. E per lo stesso modo spiegasi il diminuirsi del termine sentito, collo staccarsi fra di loro gli estesi e perdere la loro continuità. Onde qui s' intende come il principio senziente sembra uscire ad un nuovo atto transeunte, quando propriamente egli rimane il medesimo, ma solamente il suo termine si amplia o si impicciolisce. E poichè nell' aggiungersi di un sentito esteso ad un altro noi non possiamo osservare che due mutazioni: 1 la mutazione soggettiva, quando i due sentiti si sono già uniti per apposizione, la quale è spiegata per ciò che è detto; 2 la mutazione extrasoggettiva del movimento dei due estesi, che erano discosti o si avvicinarono fino ad opporsi, della causa del qual movimento ragionammo innanzi; - perciò ogni mutazione, che nel detto fatto è riconoscibile, non può esigere da noi altra spiegazione. Dalla mutazione, che produce nel proprio termine l' attività stessa del principio senziente. A spiegare questa conviene considerare che il principio senziente, posto in essere, ha un atto determinato dalla sua natura; ma talora quest' atto gli è in parte impedito da cause straniere; onde quando sono tolte via queste cause impedienti, egli spiega interamente il suo atto. Questa esplicazione del suo atto naturale è ciò che si prende per un suo atto transeunte, e si stima una mutazione in lui avvenuta; ma, propriamente parlando, è lo stesso atto primo, la stessa sua natura, che prima stavasi a disagio perchè legata da agenti avversi, e che poscia si pone nell' atteggiamento suo proprio, conveniente, naturale. Così tutto l' atto transeunte nel principio senziente non si riduce propriamente ad una attività nuova, ma alla primitiva, ed il nuovo sta negli agenti impedienti rimossi da lui, che così resta quello che è, quello che deve essere per sua natura. Dichiariamo meglio questo concetto dell' atto transeunte del principio senziente. In prima abbiamo supposto che il principio senziente sia posto nell' atto suo primo ed immanente, che lo costituisce quell' ente che è. Come ciò avvenga noi l' abbiamo spiegato; dipende dal suo termine e dalle condizioni di questo; gli atti secondi e transeunti non entrano in questo per nulla, essi vengono in appresso, perchè sono atti del principio già naturato. Ma esso principio è posto in essere diversamente: 1 secondo l' estensione maggiore o minore del suo termine sentito; 2 secondo i movimenti intestini ed eccitatori del sentimento. Se è posto in essere solamente per via di un' estensione continua, senza che in essa siano movimenti eccitatori, in tal caso la sua attività si restringe a sentire l' esteso, che gli è dato per termine. Ma se è posto in essere anche per via di movimenti eccitatori, in tal caso egli ha un altro atto. Perocchè il sentimento eccitato è un atto, il quale, come ogni atto, ha durevolezza, cioè forza di conservarsi ed altresì di spiegarsi, secondo la sua propria natura, pel principio posto che « ogni attività, ogni atto primo ha uno stato naturale; ed è quello in cui esso è nel più perfetto modo e più pienamente che possa essere ». Ora il sentimento eccitato può essere contrariato alla sua piena e perfetta naturazione ed esplicazione; ed è questo che abbiamo detto innanzi, che « fra l' esser dato un termine ad un principio e l' essergli negato vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso ed il combattimento ». Quando dunque un movimento intestino ed eccitatore incomincia nel termine del sentimento, se quel movimento è consentaneo alla perfetta eccitazione, il principio senziente ha l' attività di conservarlo e di continuarlo (1); ma questa attività, che perpetua (quando non si trovino ostacoli) il movimento, non è cosa nuova, ma la stessa attività che era prima del sentimento eccitato, che ha virtù di conservarsi e durare qual è. Ma non ogni movimento intestino nell' esteso sentito è opportuno all' esplicazione dell' atto naturale del principio senziente eccitato. Perchè quest' atto: 1) Esige un movimento armonico ed uno. 2) Esige un movimento che rientri in sè a guisa di circolo, altrimenti non potrebbe perpetuarsi. 3) Esige un movimento il più frequente possibile, salve le due prime condizioni. 4) Esige che si conservi il contatto ed altresì la gravitazione dell' una verso l' altra delle molecole, ma in un determinato modo, sicchè non impedisca le tre sopra esposte condizioni. Ora l' atto primo del sentimento eccitato è una virtù, la cui energia, benchè limitata, dovendosi collocare nel suo atteggiamento più piacevole, più perfetto, più naturale, influisce a far sì che il movimento eccitatore del sentito abbia le quattro condizioni accennate. Ma a questo intento non può talora riuscire per un contrasto di forze e virtù avversarie. A ragione d' esempio: Se si accostasse al contatto dell' esteso sentito un altro esteso assai piccolo, e perciò atto a porsi sufficientemente al contatto del primo per formare una continuazione; ma tuttavia questo altro esteso che s' accosta, avendo un' organizzazione sua propria ed essendo dominato da un altro principio senziente eccitato, si agitasse per moti intestini consentanei all' azione del suo proprio senziente, ma disarmonici coi movimenti intestini dell' esteso sentito a cui si congiunge; dovrebbe di necessità nascere una guerra a morte fra i due principŒ senzienti, che cercano rapire nel proprio turbine gli atomi corporei scambievoli; e così forse accade nel fatto dei veleni e delle scomposizioni e ricomposizioni chimiche, che essi producono nel corpo vivente. Se ad un sentito, nel cui seno si perpetuano i movimenti eccitatori propri del suo principio senziente, si accosta un esteso piccolo quanto deve essere, ma dove non vi sono movimenti, o movimenti vincibili; il principio senziente eccitato deve, per assimilarlo al proprio sentito, cagionare anche in esso i movimenti eccitatori opportuni, rapendolo nel proprio vortice, dividendolo quindi nelle sue minime parti, e compartendolo come esige l' organizzazione propria del suo sentito, nella quale nascono i movimenti, e che si forma coi movimenti medesimi. In tutto ciò il principio senziente non fa dunque che spiegare il suo primo atto, atteggiarlo come deve essere per natura, e lo fa con un atto immanente e continuo, che è quello che lo costituisce in essere, dapprima impedito e raggruppato unicamente perchè gli manca occasione di stendersi, o ne ha impedimento dalla condizione del termine, a cui è legato e condizionato. La quale teoria spiega tutti i movimenti dell' istinto, che altro non sono infine che movimenti del sentimento fondamentale per costituirsi nella sua composizione ed atteggiamento più comodo e piacevole, cioè più naturale (1). Venendo ora alla spiegazione degli atti transeunti del principio razionale, questo ha più attività, come vedemmo; cioè: Ha l' attività intellettiva, la quale ha per suo atto primo immanente l' intuizione dell' essere, il cui termine è l' essere ideale. Ha l' attività percettiva, la quale sta in percepire l' ente reale. - Questa attività ha per suo atto immanente la percezione del proprio sentimento fondamentale, ed ha poi molti atti transeunti, i quali sono spiegati anch' essi col solo sapere che nascono in occasione che viene modificato il sentito fondamentale, il quale essendo naturalmente percepito, conviene di necessità che sieno percepite anche le sue modificazioni. Ha l' attività della riflessione. - La spiegazione degli atti transeunti della riflessione fu da noi data, almeno in parte. Ella muove dallo stesso principio, che « l' atto transeunte è l' attività stessa dell' atto primo, a cui viene data occasione di spiegarsi e atteggiarsi nel modo suo più naturale ». Perocchè la riflessione è mossa ai suoi atti transeunti: a ) Dall' istinto animale, gli atti del quale sono atti transeunti del sentimento fondamentale7animale, il quale essendo percepito per natura dall' uomo, sono percepiti del pari tutti i movimenti istintivi. Quando dunque l' animalità dell' uomo si agita e muove per soddisfare qualche suo bisogno, la percezione razionale accompagna tutti questi movimenti e queste azioni. Allora l' uomo, essendo un principio unico, il principio razionale, messo a parte dei bisogni della sua animalità, si sforza con tutte le forze che ha, anche colle forze razionali, di conseguire la soddisfazione desiderata (1). Ora questo lo obbliga a fissare la sua attenzione ai mezzi ed ai fini; il che è un riflettere sulle proprie percezioni. Tutta quest' opera dell' intendimento è sempre mossa dal principio accennato, che « il sentimento soggettivo si atteggia nel modo più comodo e più piacevole ». La riflessione è l' attenzione, il cui atto ferisce tutti i termini a lei proporzionati; ma l' inquietudine, il bisogno, ecc., sono termini nuovi a lei dati; ella trova così quasi nuove porte onde uscire, a quella guisa che l' acqua contenuta in un recipiente, tostochè si apre un foro, spiccia da quello non per alcuna virtù, ma per la stessa gravitazione e pressione che esercitava nel recipiente, compressa e ritenuta prima dalle pareti continue del recipiente medesimo. b ) Dall' istinto razionale in un modo simile. Piglisi l' esempio della curiosità. All' aspetto di un avvenimento insolito si susciterà spontaneamente il desiderio di conoscere perchè quella causa, che prima produceva un effetto, ora ne produce un altro, ingannando l' aspettazione. La riflessione vi si porta sopra, e non è quieta se non trova la soluzione del nodo, e ciò perchè « quando alla mente si affaccia un' apparente contraddizione, allora il suo atto razionale non è compito e quieto se non l' ha tolta via, perchè l' essere è il termine del pensiero, e l' essere è privo di contraddizione; onde il pensiero non è quieto se non toglie via la contraddizione, e così restituisce il suo termine ». Lo stesso si dica di una questione, di un nodo scientifico qualsiasi. Il presentarsi questo nuovo oggetto all' intelligenza è aprire un varco all' atto della riflessione, che lo vuole compiutamente afferrare. c ) Da un decreto della volontà, che, propostosi un fine, muove di necessità la riflessione a cercarne i mezzi, perchè altrimenti l' atto della volontà rimarrebbe rannicchiato e mozzo contro il bisogno della sua attività primitiva. L' attività volontaria e pratica si può spiegare anche in altri modi. - Ma il principio razionale passa sempre a questa specie di atti transeunti, che diconsi volontari, per gli oggetti nuovi che gli sono dati dalle altre potenze, i quali oggetti nuovi, essendo termini nuovi, chiamano e provocano l' evoluzione di attività nuove, sempre per lo stesso principio, che « l' atto primo e immanente dell' anima, qualora riceve nuovi termini, non ha più uno stato soddisfacente, ma naturalmente spiega la sua attività, prima rattenuta e solo in conato per l' ostacolo ossia la mancanza di ragione a dispiegarsi ». Finalmente vi è la libertà bilaterale, e gli atti transeunti di questa sono, come vedemmo, i più difficili a spiegarsi. - Perocchè nasce questa difficoltà: se l' atto primo e immanente dell' anima si spiega naturalmente quando riceve nuovi termini, e l' esplicazione dell' attività primitiva è questa stessa attività, che per legge di natura si ammoda allo stato suo più comodo e più conveniente; dunque gli atti transeunti sono necessari, sono determinati dalla natura dell' atto primo e immanente, e dalla qualità dei termini che loro sono applicati. Ma in tal caso non c' è più libertà bilaterale o d' indifferenza. - Quando si considera questa potenza della libertà bilaterale, pare doversi dire che ella si muova dal soggetto stesso, indipendentemente affatto dai termini che gli sono dati; e in tal caso si ricade in quella difficoltà che cerchiamo di rimuovere con sì lunghi discorsi, senza rimuovere la quale rimane inesplicato l' atto transeunte, il quale o ha la causa piena nel suo soggetto (atto immanente), ed allora deve coesistere col soggetto e non essere più atto transeunte, ma immanente anch' esso; o non ha la causa piena nel suo soggetto, ed allora dipende dai termini del soggetto stesso (perocchè ogni eccitamento dato al soggetto da un agente straniero è un termine anch' esso) e porta necessità; ovvero nasce dal soggetto senza che si possa trovare la causa piena, ed allora si urta contro il principio di causa. Questa difficoltà in apparenza gravissima è quella appunto, se ben si considera, che condusse tanti filosofi, anche fra i più perspicaci, a negare la libertà. Ma a torto; essi non investigarono abbastanza la natura di questa potenza; e quanti avranno ben meditato come noi l' abbiamo descritta nell' « Antropologia (1) », troveranno la via aperta per dileguare ogni ombra di sì terribile difficoltà; ecco in qual modo. Conviene determinare prima di tutto con precisione quale sia il termine ossia l' oggetto proprio della libertà. Questo termine noi abbiamo trovato essere « la scelta fra due volizioni contrarie »(2). Ora l' essenza della libertà non consiste nello scegliere ovvero non scegliere; ma consiste nel modo di scegliere, cioè scegliendo, nello scegliere piuttosto l' una che l' altra delle due volizioni. Quando dunque si presentano all' animo due volizioni da scegliere, se non si fa l' atto della scelta, non vi è l' atto della volontà; e se si fa, vi è quest' atto. Anche posto, dunque, che l' uomo sia determinato a fare la scelta, o sia determinato a non farla, posto anche che a fare questo atto sia mosso da una spontanea necessità; questa necessità, che lo muove a fare l' atto della scelta, non lo spoglia della sua libertà, purchè facendo questo atto, egli rimanga libero a scegliere piuttosto una volizione che l' altra. Quando adunque sono all' animo dell' uomo presenti le due volilizioni fra cui deve scegliere, sia pure che egli si muova a questo atto transeunte dal nuovo termine, che è dato alla sua attività immanente, il quale termine sono le due volizioni contrarie eleggibili e il bisogno di eleggere, e che egli si muova necessariamente a fare quest' atto (3); non si muove per questo necessariamente a farlo piuttosto in un modo che nell' altro, cioè a scegliere piuttosto l' una che l' altra delle volizioni eleggibili; egli può scegliere quella che vuole delle due, e però è libero, perfettamente libero. Questa libertà non appartiene adunque a quella parte di attività, che viene dal termine, ma a quella parte di attività, che appartiene al principio già costituito e attuato. Si dirà: qual' è la ragione sufficiente, che spiega come venga scelta l' una volizione piuttosto che l' altra? La domanda mostrerebbe non aversi ancora ben inteso la forza della definizione da noi data della libertà bilaterale. Poichè se « la libertà è la facoltà di scegliere fra due volizioni », l' atto di questa facoltà è la scelta; è appunto la facoltà di determinarsi piuttosto all' una che all' altra delle due volizioni; non è già la facoltà delle volizioni stesse, ma di eleggerne una fra loro. La ragione dunque della scelta è la stessa facoltà, la stessa attività del principio eleggente, la quale, quando viene mossa dalla presenza del suo termine, esce all' atto suo, cioè sceglie fra esse. Ella viene tratta all' atto suo necessariamente come le altre potenze, completandosi la causa mediante il nuovo termine, che le si aggiunge, che sono le due volizioni; ma è tratta necessariamente all' atto libero, che è l' atto suo proprio, e quell' atto suo proprio è appunto la detta elezione. Ridotte all' unità tutte le potenze dell' anima, cioè all' essenza dell' anima stessa, e vinte le difficoltà ontologiche, che impedivano la spiegazione dei suoi atti transeunti ossia delle sue operazioni, indagata nello stesso tempo la natura di questi atti, la loro ragione, il modo nel quale appariscono e scompariscono; lice ora a noi di entrare sicuri nell' argomento che ci siamo proposti, cioè nell' esposizione delle leggi, che tengono le diverse operazioni dell' anima. E posciachè l' anima è unica e semplice, riducendosi finalmente tutte le sue azioni al principio razionale , nel quale propriamente consiste l' essenza ultimata ed intera dell' anima stessa; perciò quando ci riuscisse di esporre convenevolmente le leggi, secondo le quali opera e patisce il principio razionale , noi avremmo sciolta la nostra promessa, ottenuto il nostro intento. Ma nell' uomo, tuttavia, cadono due principŒ di azione, l' uno dei quali è l' uomo, l' altro è nell' uomo. Quello è il principio razionale, questo il principio animale. Quando si dice l' uomo essere composto di corpo e di anima, si deve intendere di un corpo animato , e di un' anima razionale , non facendo la divisione dell' uomo col mettere la materia bruta da una parte, e l' anima sensitiva e razionale dall' altra. L' anima intellettiva è la forma di un corpo sensitivo, non d' una materia nuda (1). Il che non distrugge l' unità dell' anima, anzi la conferma, perocchè questa è anche principio supremo del sentimento, in quanto lo percepisce come entità. Il che nello stesso tempo spiega, come abbiamo già detto, perchè talora si manifesti nell' uomo un' attività sensitiva ribelle al principio razionale ed umano, giacchè la percezione fondamentale non distrugge l' attività sensitiva, benchè sia nata a dominarla. Altrimenti non potrebbe esservi contraddizione e lotta fra l' animalità e la ragione, senza che fossero due anime. Dedicheremo adunque il seguente quarto libro all' esposizione delle leggi secondo cui opera l' uomo, cioè il principio, razionale , che ha in sè anche il sentimento sotto la relazione essenziale di entità; ed il quinto libro, che viene appresso, all' esposizione delle leggi secondo le quali opera il principio animale per sè considerato, cioè sotto la relazione essenziale di sensilità; il quale non è l' uomo, ma è nell' uomo. Trattando poi del principio sensitivo, parleremo insieme, per quanto è necessario, anche dell' attività da lui diversa, che in lui si manifesta ed a lui talora contrasta, cioè della virtù sensifera. Dirittura logica e sentimento cristiano sono i due caratteri del popolo d' Italia. Laonde ogniqualvolta gli scrittori furono logici e religiosi, piacquero alla nazione; quelli che si dipartirono dal retto ragionare e dalla fede, anche se perspicacissimi d' ingegno e ricchissimi di erudizione, furono ripresi o dimentichi dalla pubblica opinione. E qui sta la vera ragione perchè l' Italia fiorisse nelle scienze naturali alla scuola dell' immortale Galileo, e paresse vecchia, oziosa e lenta all' invito di quegli efficacissimi ingegni del secolo XVI, che professarono la filosofia. Non poteva mancare la logica alle scienze matematiche, e la voce del grande Fiorentino non la lasciava più venir meno alle fisiche. Nè lo studio della natura, affidato al rigoroso raziocinio, poteva collidersi colla religione. Sciaguratamente le metafisiche investigazioni non sono di tal natura che, come le matematiche fanno, obblighino gli ingegni o a tenere la via del legittimo raziocinio, o ad essere subitamente convinti di errore. Nè il cielo donò un Galilei alla filosofia; nè le dottrine di questa sono indifferenti alle passioni ed ai vizi degli uomini; nè quelli che presero a far da filosofi nel secolo di Leone, ne andarono sufficientemente liberi, nè cansarono tampoco la maligna influenza dell' eresia settentrionale. Quindi il genio dell' Italia ripudiò i sofisti, talora trasmodando arse gli empi. Così questa terra si rimase deserta di filosofia, senza la quale non potè essere nazione. Perocchè se le altre genti d' altro sangue, d' altro ingegno, educate a più anguste tradizioni e a men sublimi sventure, poterono unirsi e conseguire spiriti nazionali quasi per un istinto, senza avanzata coltura di scienza; l' italica gente non potè, non potrà venire a tanto che colla guida d' una verace filosofia. Chè l' italica stirpe deve primieramente venire collegata da principŒ intellettuali, che, logici essendo, sono religiosi altresì; ed è vana speranza il presumere che senza questo primo, altri vincoli possano rendere unanimi i popoli della nostra penisola. Imperocchè se religione e logica sono forse i soli sentimenti rimasti comuni alla italica famiglia, è palese quanto sicura efficacia il fiorire della filosofia debba dimostrare in Italia a collegare gli Italiani condiscepoli nella scuola della verità, e a svolgere dai visceri della nazione quei due potentissimi germi di buoni ordini civili, a renderci altresì tutti consci che le menti nostre convengono nella medesima rettitudine, i nostri animi nella stessa credenza, la comune nostra ambizione nel fastigio del cristiano pontificato. Così ne uscirà la concordia degli Italiani dall' intima loro indole e natura, lo stesso vero, lo stesso Iddio intervenendo a mediatori; e quella sarà concordia di tempra saldissima e perenne, atta a progredire, a compirsi da sè medesima in ogni altra civile bisogna, incominciando questa santissima concordia colà stesso dove risiede l' uomo, dove l' uomo è signore, nella ragione, dove solo egli è nobilmente servo, nel culto del Creatore. La geometria e la fisica, coltivate dagli Italiani, di tanto amore non sono state più che un felicissimo tirocinio. E parmi che l' altissima Provvidenza tenesse così lunga pezza gli Italiani occupati esclusivamente nelle scienze matematiche e nelle fisiche, quasi in utilissimo tirocinio alle più elevate ed importanti, che sono le filosofiche e le civili, a cui pure mirabilmente apparecchiano gli ingegni quelle lettere ed arti belle, che invano c' invidiano le altre nazioni. Onde saviamente Platone ricusava le sue divine lezioni a quelli che nella geometria non gli venissero già ammaestrati; ed opportuno ornamento della filosofica scuola, corteggio della stessa filosofia, sono le grazie decenti di Socrate; le quali allora appaiono aggraziatissime e decentissime quando imparano a filosofare. Niuno dica che la logica delle scienze naturali sia una cotal arte loro propria, diversa da quella che addomandano le metafisiche, perocchè non vi è che una logica, una sola arte del pensiero, come una sola è la verità. Pel quale errore, appresso alcuni nostri valentissimi coltivatori delle scienze che chiamano rigorose, venne in dispregio la metafisica, quasi questa rifiutasse quell' esattissimo ragionare, che dalle scienze delle nude quantità non può quasi mai scompagnarsi. E non a torto la spregerebbero, se avessero ragione quei malavveduti, i quali, presumendo conoscere tutte le cose per via d' un cotale loro quasi divino afflato, mi diedero biasimo e mala voce dell' avere io desiderato che finalmente anche la filosofia italiana ubbidisse fedele nel suo procedere alle comuni leggi dell' umano pensiero, incominciando dalle osservazioni e dalla verificazione dei fatti, e di questi tessendo esattissimi raziocinŒ. Ma non posso io ricredermi perciò del metodo, direi quasi sperimentale, che io mi studiai raccomandare ai nostri, che a voler esser filosofi già incominciano, e che nelle filosofiche investigazioni, per quanto ho saputo, mantenni; nè io ne conosco un altro che metodo si possa appellare, poichè quel divino intuito dove ogni cosa, sì creata come increata, pare ad alcuni contemplare e immediatamente dalla voce stessa del nume raccogliere, io lo lascio assai volentieri ai sacerdoti degli antichi oracoli o agli ubbriachi dell' acqua di Aganippe, continuando a bramare che loro sia vietato severamente l' ingresso nel tempio della filosofia. Senza la qual legge gli Italiani non diventeranno mai filosofi, contenti di essere piuttosto naturalmente poeti. E però intitolai questo libro: « Leggi secondo le quali opera il principio razionale », pigliando anche qui ad imitare gli studiosi della natura, i quali, raccogliendo i fatti simili, notano accuratamente e sagacemente ciò che vi è d' identico in essi, e così discoprono i modi costanti dell' operare della causa spesso occulta, e li appellano leggi . Imperocchè quelle che essi chiamano leggi di natura non sono che identità e costanza di effetti, che appariscono nella reciproca azione e passione delle sostanze corporee componenti il mondo. I quali studiosi da ciò che negli effetti scorgono sempre eguali, ragionevolmente inducono il modo dell' operare; e quindi argomentando che la causa sia così formata, o naturata, o disposta, che ella non possa altramente che in quella guisa adoperare. La quale necessità di fare mai sempre allo stesso modo giustamente appellano legge, perchè « legge indica necessità determinante l' operazione », benchè quella necessità, a cui si dà tal nome, ora sia fisica ed ora morale. E prima s' impose quella parola alla necessità morale, di poi si trasportò alla fisica. Così noi dobbiamo fare nello studio delle operazioni e degli effetti dipendenti dalle cause invisibili e spirituali. La via dialettica del pensiero vuole essere la medesima: in prima diligentissimamente osservare e raccogliere le operazioni del principio razionale, di poi notarvi colla maggiore diligenza ciò che in esse apparisce identico; in appresso indurre la costante maniera dell' operare dalla causa; finalmente conchiudere che a questa immutabile costanza e uniformità di operazione deve rispondere una necessità, che obblighi la causa a conformare sempre in quella guisa le sue operazioni, la quale necessità, che legge si chiama, non può avere altrove radice che nella natura stessa della sostanza o causa operante; conciossiacchè la natura e la sostanza sono gli atti immutabili e immanenti rispetto alle azioni ed agli effetti loro passeggeri. Ma ora, posciachè le leggi che noi dobbiamo raccogliere saranno molte, affine di dare ordine al nostro lavoro ci converrà in prima considerarne i fonti principali, i principali elementi onde risultano le operazioni del principio razionale, sui quali cader deve la nostra osservazione; e questi elementi così accuratamente distinti già ci porgeranno una prima classificazione generale delle leggi, che ci proponiamo di ricercare. [...OMISSIS...] (1). Ora nella scuola jonia questo fu un gran passo, l' avere trovato Anassagora, ovvero Ermotimo, l' uno e l' altro di Clazomene, che l' intelletto doveva essere semplicissimo; ma, come osserva Aristotele, rimaneva ancora a discoprire in che modo l' intelletto conosca, rimaneva a trovare il mezzo del conoscere ed a spiegare, oltracciò, da quali cagioni l' intelletto al tutto semplice potesse essere mosso a conoscere specialmente il corporeo. Questi erano i quesiti di suprema importanza, e neppure Aristotele, nè alcuno antico potè rispondervi adeguatamente. Poichè, restringendoci al quesito che riguarda il mezzo di conoscere, Aristotele applicò allo spirito principŒ ontologici troppo angusti, non cavati dagli enti tutti, ma esclusivamente dall' ente materiale. Ora, come egli vide che nella natura materiale vi è una materia ed una forma, quella passiva e questa attiva, quella che diventa tutto, cioè tutti gli speciali enti corporei, questa che fa tutto, cioè che configurando la materia mette in essere quegli enti; credette che lo stesso dovesse valere altresì per ispiegare la costituzione dell' intelletto. [...OMISSIS...] . Così Aristotele accorda ad Anassagora che vi sia un intelletto non misto e immateriale; ma questo - dice - è la scienza stessa in atto , anteriormente al quale vi è nell' anima una cotal materia di tutte le cognizioni. E in tal guisa egli credeva aver superata la difficoltà mossa alla dottrina di Anassagora, che ammettendo un intelletto solo immateriale, non si potesse più spiegare come questo conoscesse, e onde fosse mosso a conoscere le cose materiali. Ma più osservazioni si hanno a fare sul ragionamento aristotelico: Primieramente quel ragionamento pecca contro le regole del buon metodo. Perocchè da principio suppone che nell' universa natura tutto sia composto di forma e di materia, senza dimostrare una proposizione così universale, ricorrendo all' esperienza e all' esperienza delle sole cose materiali. Di poi conchiude che così deve essere anche nell' anima, mentre avrebbe dovuto contentarsi di osservare se così è di fatto, senza imporre canoni preliminari alla natura dell' anima e leggi a priori, sempre arbitrarie e fallaci. Di poi dicendo che l' intelletto possibile diviene tutte le cose, cioè tutte le cognizioni, rende soggettive le cognizioni; le quali tutte non sarebbero più altro che l' anima stessa variamente modificata, e però sarebbero contingenti, ecc. come l' anima, meri sentimenti dell' anima, senza virtù di attestare un oggetto distinto dall' anima. Qualora poi le ultime parole si debbano tradurre con Michele Soffiano ed altri interpreti: « Idem autem est scientia, quae actu est, quod res ipsa », ne verrebbe che come tutte le notizie sono l' anima modificata e attuata, così tutte le cose sarebbero l' anima, che è il panpsichismo di molti filosofi tedeschi. Se l' intelletto agente è causa, efficienza, principio operante come opera l' arte o l' abito, in tal caso non è interamente in atto. Il nostro filosofo veniva bensì ad assegnare col suo intelletto possibile la causa materiale delle cognizioni, di cui Anassagora non aveva parlato, ma la causa efficiente7piena di esse, nè la causa istrumentale non la spiega a sufficienza col suo intelletto agente. L' abito ha bisogno di un eccitamento per uscire all' atto, specialmente se deve essere determinato a produrre dalla materia piuttosto una cosa che un' altra, per esempio, dalla pietra piuttosto la statua di Apollo che quella di Ercole. Così pure l' arte ha bisogno di strumenti per produrre la statua. Aristotele incontra sulla via la bella similitudine del lume, che avrebbe potuto raddrizzare i suoi pensieri, ma egli ne usa troppo male. Poichè i colori in potenza, che egli introduce, non sono colori, ed i colori in atto sono il lume stesso modificato e spezzato. Oltracciò, altro è l' occhio che vede, altro il lume che fa vedere; all' incontro l' intelletto, che è l' occhio, in Aristotele è confuso col lume che fa vedere, l' oggetto col soggetto . Questa grande distinzione, adunque, dell' oggetto e del soggetto è quella che mancò alla filosofia aristotelica, e quella sola che poteva compire ciò che aveva lasciato Anassagora da ricercarsi agli avvenire. Noi abbiamo dimostrato quale sia il lume della mente; abbiamo detto che questo lume è l' idea dell' essere , e questo il mezzo del conoscere . L' intelletto umano adunque, sebbene sia immisto, come lo voleva Anassagora, tuttavia ha una dualità, e così è tolta la difficoltà che Aristotele muoveva all' illustre filosofo di Clazomene, perchè gli è dato un mezzo di conoscere. Nello stesso tempo è dimostrata erronea la maniera con cui Aristotele credeva poterla vincere. E perchè si vedano le differenze fra la via da noi tenuta a superare quella difficoltà e l' aristotelica, si consideri: Che Aristotele, componendo l' anima intellettiva di una materia e di una forma a similitudine della natura materiale, la faceva risultare da due elementi, ciascuno dei quali era parte sostanziale dell' anima intellettiva, e più sostanziale ancora la forma che la materia; laddove noi non facciamo l' essere ideale parte sostanziale dell' anima, ma solamente oggetto che le si dà a vedere, e così la pone in atto ed in essere, senza confondere sè stesso con quella, lasciando solamente in quella la cognizione; onde l' anima intellettiva si rimane per noi del tutto immista, quantunque sia congiunta con altra cosa da sè diversa, che la illumina. Che Aristotele fa che l' anima risulti da una forma simile a quelle dell' essere reale, che è una realità anch' essa, è l' atto della realità; laddove noi diciamo che l' essere ideale informa bensì l' anima, ma in tutt' altro modo, conservando il suo proprio essere al tutto diverso da quello dell' anima, e solo dandosi all' anima a conoscere (1) e le forme o cause informanti di questo genere le chiamiamo oggettive ; colla loro presenza nello spirito, essendo essenzialmente lume, esse gli danno quell' atto d' intuizione che si potrebbe anche chiamare in qualche modo una forma soggettiva , nel quale aspetto le forme oggettive sono cause delle forme soggettive . Che Aristotele dà all' anima intellettiva qualche cosa, che risponde alla materia dei corpi, onde dice che diviene tutte le cose. Noi, nulla di ciò. L' anima rimane sempre principio semplicissimo. Ed ella non si compone propriamente di forma e di materia, ma di atto e di potenza; perocchè ella è atto prima di essere potenza; ed è potenza non per sè, ma pel cangiamento dei termini suoi, come abbiamo spiegato. Gli Aristotelici possono replicare: « Come in tal caso fate voi nascere le cognizioni speciali? ». Rispondiamo: l' anima razionale è quella che apprende l' ente; l' ente poi è ideale e reale . E` dato all' anima l' ente ideale per natura, e questa forma dell' ente è essenzialmente illimitata. Le è dato pure per natura un ente reale , limitato nel sentimento fondamentale animale , il quale è percepito da lei razionalmente, perchè compreso già al suo modo nell' ente ideale , che tutto comprende. Il rapporto fra l' ente reale7limitato e l' ente ideale7illimitato costituisce i concetti , ossia le idee speciali e le generiche. Ma nè l' ente ideale, nè l' ente reale dall' anima percepito per natura, è l' anima stessa; ma è cosa a lei congiunta per quella relazione sua propria, che chiamammo, per distinguerla da ogni altra, di razionalità . In tal modo le difficoltà aristoteliche affatto svaniscono, senza rompere perciò agli scogli, a cui ruppe il filosofo di Stagira. Costituita l' anima e dichiarata la possibilità del suo operare e del suo svilupparsi, abbiamo aperta la via a classificare acconciamente le leggi, che ella tiene nel suo operare. Poichè da due fonti sgorgano e quasi zampillano le attività di lei, come di ogni altro ente finito, cioè dal suo termine e dal principio; il termine poi è doppio, l' Ente ed il Mondo (il reale finito). Quindi tre radici delle leggi: l' Ente, il Mondo e l' attività propria del principio razionale. Le leggi adunque dell' operare del principio razionale rimangono da sè stesse classificate in tre nobilissimi generi, i quali sono quelli delle Leggi Ontologiche , delle Leggi Cosmologiche , e delle Leggi Psicologiche . Noi incominceremo dal ragionare delle leggi, che la natura dell' oggetto impone al principio razionale nel suo operare, cioè dalle Ontologiche, le quali non possono mancare giammai, qualunque sia l' ente intorno a cui versi come ad oggetto l' operare dell' anima. Ora poi, operando il principio razionale in due maniere, l' una speculativa che non produce effetto fuori della mente, l' altra pratica che produce effetto fuori della mente; si vogliono da noi considerare tanto le leggi ontologiche, che l' oggetto impone alla ragione speculativa, quanto quelle che egli impone alla ragione pratica. E prima è da considerare la suprema e generalissima, la quale è il principio di cognizione . Di vero tutte le altre leggi sono contenute e riassunte nel principio di cognizione, il quale si formula così: « « Il termine del pensiero è l' ente »(1) ». Il che viene a dire: « il pensiero è così fatto che ha per legge primitiva di sua natura di avere a termine l' ente, di modo che o ha l' ente a suo termine, ovvero non è ». L' ente, considerato sotto questo aspetto, è dunque la condizione a cui è legata l' esistenza del pensiero, che è l' operazione speculativa della ragione. Quindi procede che le qualità e le doti essenziali all' ente sono altrettante condizioni del pensare, e però altrettante leggi del pensiero; il che è quanto dire che ogni pensiero per esistere deve avere un termine, dotato di tutte quelle qualità e doti che ha l' ente. Ma qui si avverta che quando noi parliamo in generale di leggi del pensiero, non intendiamo che tali leggi debbano essere osservate da ogni atto speciale del pensiero, diviso da tutti gli altri suoi atti per opera di astrazione; ma consideriamo il pensiero complesso e totale, risultante dalla somma degli atti singoli e parziali, che in ciascun tempo agita l' uomo nella sua mente. A ragion d' esempio, l' uomo pensa una linea reale: questo è un atto particolare. Ma egli non può pensare una linea reale senza pensare una superficie, di cui ella sia termine. Se io dunque dicessi che è legge del pensiero, applicato all' estensione corporea, il dover pensare superfici o solidi, non mi si potrebbe opporre che egli pensa anche linee e punti, trovandoli per astrazione nelle superfici e nei solidi che percepisce; perchè l' atto speciale, col quale pensa il punto astratto o la linea astratta, non è un atto che stia da sè solo, ma è simultaneo e condizionato al pensiero della superficie o del solido, nel quale l' uomo vede la linea ed il punto; onde si avvera che nel complessivo pensiero dell' estensione corporea non manca la superficie od il solido, il che adempie la legge del pensiero. Laonde, quando noi diciamo esser legge del pensiero il cogliere l' ente colle qualità che lo costituiscono ente, non intendiamo che per astrazione non si possa pensare qualche qualità dell' ente divisa dall' altra, benchè da sè non possa stare; ma intendiamo che questo astratto non può essere pensato se non pensiamo prima l' ente, sapendo che egli appartiene all' ente ed è nell' ente; e però nel pensiero complessivo della mente umana si avvera che « l' ente è pensato colle essenziali sue condizioni », a segno tale che se all' uomo fosse dato dal senso un accidente dell' ente, per esempio, il colore e non più, l' anima per pensarlo vi deve ad ogni modo aggiungere la sostanza che non gli è data, appunto perchè l' accidente non sarebbe ente senza la detta sostanza, come abbiamo mostrato altrove (1). Questo vale a dileguare l' obbiezione contro il principio di cognizione, che potrebbe muoversi dal vedere che il pensiero astratto si ferma in accidenti, che, presi da sè soli, non hanno la proprietà dell' ente; il pensiero astratto è una parte del pensiero, non il pensiero intero; quello non istà mai solo nella mente, senza che questo in qualche modo vi sia pure. Ma noi dobbiamo ora aggiungere un' altra osservazione importantissima. Perocchè, avendo il pensiero molte specie di atti, non tutte apprendono l' ente allo stesso modo e colla stessa pienezza. A tal fine noi dobbiamo esporre più divisatamente l' efficacia del principio di cognizione nel dar forma alle umane intellezioni. Questa efficacia si può dunque risolvere nelle due seguenti proposizioni: « L' intendimento umano non può pensare cosa alcuna, che abbia proprietà contrarie a quelle che sono essenziali all' ente ». In virtù di questa legge lo spirito umano non può pensare che una cosa sia e non sia allo stesso tempo, perchè l' ente non ha in sè contraddizione. Il principio di contraddizione dunque, espresso dai greci così: [...OMISSIS...] , trae di qui l' origine. Taluno dirà: si pensa il nulla, si pensa la negazione. Ora il nulla è opposto all' ente, che dice qualche cosa; dunque non è necessario che l' ente sia sempre l' oggetto del pensiero. - Rispondo vero essere che il nulla è contrario all' ente; ma, se ben si considera, il nulla come nulla non si pensa, nè si può pensare. Quando dunque l' uomo pensa il nulla, egli veramente pensa una relazione dell' ente contingente, una relazione che l' ente ha col pensiero e con sè stesso, per la qual relazione si considera che l' ente o è, nel qual caso è pensabile, o non è, nel qual caso non è pensabile. Ora il non è altro non significa se non due atti combinati nel pensiero stesso, coll' uno dei quali si pensa l' ente, coll' altro si toglie via l' ente, e col torlo via si abolisce l' oggetto del pensiero. Ora poi che il nulla pensato non sia propriamente il nulla, ma una relazione dell' ente, ciascuno si potrà persuadere considerando i tanti ragionamenti che fanno i matematici intorno al nulla, e le diverse specie di nulla che essi stabiliscono, come dichiarò assai sottilmente Giuseppe Torelli nel suo bel libro De nihilo geometrico . Lo stesso si può rilevare dalle maniere di parlare degli ascetici, le quali sono tutt' altro che false, quando dicono, a ragion d' esempio, che l' uomo è un nulla, che tutto è nulla fuor di Dio. Una persona spirituale soleva fare questa orazione: « Mio Dio, io sono un nulla peccatore, deh fate che io diventi un nulla innocente! ». Io trovo di mirabile verità ed esattezza questa orazione, nella quale ben si vede che il nulla, di cui in essa si parla, non è il puro nulla, il quale non è capace di colpa o di innocenza, ma bensì una relazione dell' uomo, che è nulla da sè stesso senza il Creatore, perchè senza il Creatore egli cessa di essere. « L' intendimento umano benchè abbia sempre per oggetto l' ente, tuttavia non è necessitato a pensare in egual modo tutte le proprietà dell' ente, ma alcune è obbligato a pensarle attualmente, altre poi virtualmente. Queste egli è obbligato a non negarle, lasciando a sè stesso aperta la via di farne ricerca. Ciò che deve pensare attualmente è l' essenza ideale ; le proprietà poi e le relazioni, che appartengono all' ente come reale, e che sono virtualmente comprese nell' ideale, benchè necessarie alla costituzione dell' ente stesso pensato, l' intendimento umano non è obbligato per legge del suo pensiero a considerarle attualmente, ma solo a non negarle, rimanendogli esse materia a successiva investigazione ». La qual legge importantissima rende possibili le diverse maniere di intellezione proprie dell' uomo, e a ciascuna di esse assegna sue leggi speciali. Vediamo a quali leggi ontologiche ciascuna maniera d' intellezione ubbidisca. Le maniere principali delle intellezioni umane sono: 1 l' intuizione; 2 la percezione; 3 la riflessione, la quale si esercita per via di astrazione e per via d' integrazione, onde ella si divide in: a ) riflessione astraente, b ) riflessione integrante. L' intuizione avendo per oggetto l' ente ideale, vedesi che questo atto del pensiero si stende all' ente, in quanto è nella sua forma ideale, prescindendo al tutto dalle altre due forme, la realità e la moralità. Ora qui si deve considerare un principio ontologico di non lieve momento, ed è che « quantunque l' ente sia in tre modi, tuttavia in ciascuno di essi è compiuto, perchè ciascuno abbraccia tutto l' ente alla sua guisa ». Onde l' intuizione abbraccia tutto l' ente, e non può dirsi che ad un atto, che si riferisce a tutto l' ente, manchi nulla di ciò che esige il pensiero, conciossiacchè il pensiero non esige altro se non di avere per suo oggetto l' ente. Di più essendo l' ente sotto la forma ideale semplice ed impartibile, sotto questa forma egli non può essere dato all' intendimento che tutto o niente . All' incontro l' ente sotto la forma reale, essendo partibile e moltiplicabile, può essergli dato parzialmente, nel qual caso non può essere pensato solo, perchè mancante di una sua parte, non ente compiuto (1). Ma posto che l' intendimento umano abbia già tutto l' ente nella forma ideale, a lui non manca più l' oggetto compiuto ed intero, che gli è necessario, posto il quale, possono essere pensate anche le parti del reale; poichè queste non tolgono l' ente ideale, ma solo aggiungono qualche altro termine al pensiero. Il pensiero adunque è possibile tosto che è a lui dato tutto l' ente sotto la forma ideale, e perciò noi dicemmo che l' essere ideale è quello che forma il pensiero, e costituisce la potenza di pensare. A spiegare dunque la percezione , che è quell' operazione del principio razionale che apprende l' ente reale , uopo è che preceda l' intuizione dell' essere ideale, lume e mezzo di conoscere ogni reale. Questo vero non è veduto che da quelli che meditano profondamente la natura della percezione. Molti si persuadono che quando l' uomo percepisce un reale, per esempio un corpo, l' oggetto del suo percepire sia un particolare e non più; non arrivano mai a sciogliere l' oggetto percepito nei suoi elementi della possibilità e della realità , della idea , in cui si vede l' essenza conoscibile del corpo, e dell' apprensione contemporanea, colla quale se ne afferma la realità. Chi vuol vedere quanto sia vero che la mente nostra non percepisce un corpo senza recarsi col suo atto in entrambi quegli elementi, domandi a sè stesso: so io quello che ho percepito? Risponderà: io lo so; fu un corpo rotondo, di grandezza pari a una melagrana, giallo, lucido, duro, una palla d' avorio. Tale è il concetto del corpo che ho percepito. - Ma in questo concetto, badi egli bene, si acclude la sussistenza del corpo? - No, perchè fino a tanto che io penso unicamente questo concetto del corpo, quale viene espresso nella definizione che ne ho data, io non so ancora per questo solo che egli sussista - Dunque, io conchiudo, il sapere che quel corpo sussiste realmente è cosa diversa dall' averne il concetto. Ma colla percezione si acquistano entrambe queste due cognizioni, quella del concetto e quella della sussistenza reale del corpo. Dunque ogni percezione è duplice, risultante da due atti dello spirito, i quali si fanno ad un tempo, e sono l' intuizione del concetto e la persuasione della sussistenza; nè si può andare persuasi che una cosa esiste se non se ne ha il concetto, di maniera che nell' ordine logico il concetto precede alla persuasione che sussista ciò che nel concetto e pel concetto si conosce. Un' altra maniera di convincersi della stessa verità si è il considerare che di ogni cosa contingente che io percepisca, ne conosco subito la possibilità; di maniera che interrogato: « la tal cosa è ella possibile? » io tosto rispondo: « e come no? ella esiste, dunque è possibile ». Ora come so io che ciò che esiste è possibile? dove tolgo io il concetto della possibilità? Non lo derivo certo da altro che dal concetto che ho della cosa; perocchè il concetto mi dà notizia dell' essenza conoscibile della cosa, ma non mi dice che ella sussista; dunque, io concludo, la cosa contemplata nel suo concetto potrebbe tanto sussistere, quanto non sussistere; dunque per sapere se ella sussiste, mi bisogna qualche altro indizio, e nella percezione questo indizio è il senso di essa. La possibilità s' acchiude nel concetto puro della cosa, in quanto che quel concetto non la dimostra necessariamente sussistente. Ora questo concetto è l' essere ideale della cosa. Se nella percezione adunque io non pensassi l' essere ideale della cosa, non ne conoscerei la possibilità. L' origine dunque del pensiero della possibilità suppone che in ogni percezione oltre la realità della cosa percepita, io ne intuisca il concetto ideale (1). Ma che è il concetto ideale di un ente? Non altro che il concetto universale dell' essere, limitato e determinato dall' azione della cosa in noi, cioè dal sentimento che la cosa in noi produce. Perocchè, quando io dico: « il concetto di una palla d' avorio », dico nè più nè meno: « il concetto di un essere determinato dalle qualità sensibili di quella palla ». Ogni percezione adunque di un ente racchiude l' intuizione dell' essere ideale di lui, ed ogni essere ideale suppone l' intuizione dell' essere ideale indeterminato ed universale . Dunque la percezione non può spiegarsi, se non si suppone che l' anima intuisca prima di tutto l' essere ideale per sè stesso. Di che ancora si scorge come l' oggetto della percezione, benchè sia un reale limitato, tuttavia è ancora l' ente, senza che niente gli manchi di quanto gli è essenziale, come vuole il principio di cognizione. Se il reale limitato si separasse dall' ideale, egli non avrebbe più tutte le condizioni e qualità di ente, perchè da sè solo non può esistere, non ha in sè la ragione della propria esistenza, anzi dividendolo dall' ideale, lo si divide dalla propria essenza. Ma quando il reale è unito all' ideale, allora egli ha ricevuto la sua essenza ed è ente completo; perciò può essere percepito. Rimane tuttavia a chiarire come la percezione sia così limitata. Perchè non si percepisce addirittura tutta la realità? qual' è la ragione, per la quale l' intendimento nella percezione apprende questa parte della realità dell' ente, ed esclude ogni altra? - Rispondo che la porzione del reale che si percepisce, non è presa ad arbitrio dall' intendimento, ma gli è somministrata dal sentimento. I sentimenti individuali sono divisi per modo che ciò che è nell' uno, non è nell' altro, e sono fra di loro incomunicabili. Il principio razionale rimane dunque nella percezione limitato dal sentimento; il che lo diamo come un fatto innegabile, spettando alla Teosofia investigarne la ragione. Ma se anche l' ente reale per sè stesso è illimitato, percependolo limitato, mancherà sempre qualche qualità essenziale o necessaria all' ente reale; e se l' ente reale limitato non ha con sè la ragione per cui sussiste, si potrà egli concepire sussistente? - Tutto ciò che gli manca è già supposto ed ammesso virtualmente e indistintamente nell' essere ideale, che con esso lui si congiunge, e in questo trova la sua essenza; ciò che gli manca di realità per essere completo nel pensiero che si fa di lui, non viene escluso, ma lasciato indietro, quasi direi, come fanno i matematici nello scrivere una serie indefinita, che, dopo scritti alcuni termini, pongono un eccetera, col quale non esprimono ciò che manca, ma lo indicano e lo suppongono. Così nella percezione dell' ente reale limitato non sono negate, ma lasciate in cifra quelle condizioni che sono indispensabili alla sua sussistenza, quelle relazioni o essenziali o almeno necessarie, che egli ha con altri enti limitati o coll' illimitato; il che diviene poscia materia, come dicemmo, della riflessione ontologica e teosofica. Quindi si confuta l' errore di quei filosofi panideisti , i quali pretendono che l' uomo nella sua prima intellezione debba percepire tutto ciò che poscia trova colla riflessione; essi non distinguono acconciamente fra l' essere ideale e l' essere reale, li confondono insieme, e pretendono che anche Tutto il Reale cada nella prima naturale intellezione, e quindi in ogni percezione, quando il vero si è che non ci cade se non Tutto l' Ideale , al quale confrontandosi poi il reale limitato e parziale, la riflessione trova ciò che gli manca (1). Esponiamo ora dunque la legge della riflessione. La riflessione è quella facoltà che ritorna sulla percezione o sul suo oggetto, ed astrae od integra. In quanto alla riflessione astraente conviene distinguere tre accidenti: 1) Vi è un' astrazione simulata, che non è propriamente altro che percezione imperfetta, e trova il suo fondamento nell' imperfezione del senso; questo accidente ha ingannato gli Aristotelici condotti ad attribuire al senso l' universale, quasi un suo accidente. 2) Vi è un' astrazione che altro non fa se non dividere la parte ideale dalla parte reale dell' oggetto della percezione, la quale chiamasi universalizzazione , e si fa talora naturalmente senz' atto positivo, cessando l' atto dell' affermazione, e perdendosene la memoria (1). 3) Vi è finalmente un' astrazione che si esercita sull' idea della cosa, e solo di conseguente sul reale in quanto corrisponde all' idea (forma realizzata). Con essa si limita l' attenzione ad una parte dell' ente concepito e percepito, senza però abolire nella mente le altre parti, a cui soltanto non si dà attenzione. Parliamo del primo accidente. - Gli Aristotelici avevano osservato che le nozioni dei bambini e dei rozzi sono assai generali. Osservarono pure che un oggetto, presentato in distanza all' organo sensorio, occulta alcune sue differenze; per esempio, un uomo fermo in lontananza non si distingue da una colonna, non apprendendo il senso le parti minori, che differenziano l' uomo. Quindi conchiusero che il senso presentava prima le qualità più comuni e poi le proprie; e che l' intelletto seguace al senso, prima concepiva l' universale e poscia il particolare. Questa era un' illusione sensistica; ma era almeno un' illusione sottile ben più di tante altre che presero i moderni, un' illusione che caratterizza l' indole dell' ingegno aristotelico. Parmi prezzo dell' opera che io qui la esponga colle parole di un italiano filosofo, professore dell' Università Padovana nel cinquecento, il Zimara. Agitando la questione « qual sia il primo cognito », egli dice così: [...OMISSIS...] L' illusione sensistica, che qui si contiene, nasce da questo, che i sensisti tutti parlano sempre delle cose sentite7cognite e non delle meramente sentite; onde in ciò che cade sotto il senso trovano il comune ed il proprio, e non esitano a dire che gli enti sensibili hanno degli accidenti universali e comuni, più e meno. All' incontro, dove non si voglia ingannarsi, conviene prendere il sentito e spogliarlo di tutto ciò che gli ebbe aggiunto l' atto di conoscere e di percepire; ed allora non ci resta più niente di universale e di comune, parole che esprimono unicamente la relazione che ha il sentito colle idee; non ci resta più che il particolare. Onde nel senso è tanto particolare il tutto, quanto la parte, tanto l' animale, quanto l' uomo. E sia che l' occhio veda l' oggetto lontano e confuso, in cui non distingua parti, sia che lo veda vicino con distinzione di parti, altro egli non ha mai che una sensazione particolare, nel primo caso una sensazione diversa che nel secondo, ma sempre una sensazione. E` la ragione quella che confronta i due sentiti, quando li ha già appresi, quando sono divenuti cogniti, contenuti e misurati nell' idea; e in questi sentiti7cogniti si può certamente trovare la parte comune e la parte propria, e vedere che alla prima sensazione risponde il comune ed alla seconda anche il proprio. Ora che la cosa proceda così si può provare con più argomenti, oltre al principale dell' osservare e contemplare la cosa in sè stessa. Eccone alcuni in aggiunta a quelli che abbiamo dati altrove (2). Il senso in un oggetto vicino non percepisce prima il tutto e poscia le parti, ma il tutto colle sue parti ad un tempo; perocchè nella visione e nell' immagine di un uomo sono tutte le parti dell' uomo. E pure il principio razionale pone attenzione prima al tutto che alle parti, ed ha bisogno di speciale attenzione a ben percepire le parti di cui il tutto risulta. Dunque è proprietà dell' attenzione razionale di abbracciare prima il tutto, e poscia le parti. Così i bambini, che danno a tutti gli uomini il nome di padre, e a tutte le femmine quello di madre, percepiscono benissimo col senso le immagini distinte degli uomini, che loro si danno a vedere, e meglio anche degli adulti per la finezza dei loro sensi; ma tuttavia la loro attenzione razionale da prima si appiglia a ciò che hanno di comune gli uomini, trascurando il resto che pure hanno percepito col senso egualmente; onde pare che non l' abbiano sentito, quando è solo che colla mente non lo considerano. Il bambino fissa la sua attenzione alle qualità sensibili più comuni, benchè senta anche le altre, coll' aiuto dei vocaboli, che sono lo strumento della ragione e non del senso. Che se egli non acquistasse cotesto istrumento del pensiero, pel quale egli può fissare l' elemento comune trascurando il resto, non arriverebbe mai ad eseguire tale astrazione. Il che è così vero che gli stessi Aristotelici ebbero sottilmente osservato che se vi sono nei sensibili delle note comuni ed universali, che non sieno segnate con un vocabolo, il bambino non vi si ferma, e tali universali innominati non sono già per lui più noti o noti prima dei particolari. Dalla quale bella osservazione, tutta all' uopo nostro, quei filosofi non cavarono il lume che avrebbero potuto. [...OMISSIS...] ; il che si attribuisce dagli Aristotelici al fare tali generi meno impressione nel senso, ma questo non lo provano, e spesso non è; quando è d' altra parte manifesto che non furono quei generi nominati, perchè meno necessari alla vita umana, e però non essendo contrassegnati di vocabolo, difficilmente si prendono coll' intelletto. E` falso che nel bambino vi sia quell' astrazione che gli Aristotelici e i sensisti tutti suppongono; l' astrazione succede alle prime operazioni del bambino, quando prende a riflettere. L' astrarre è un dividere il comune, che si chiama astratto , dal proprio. Lungi che il bambino colla sua prima operazione divida e astragga, anzi unisce e sintetizza, cioè unisce l' universalissimo, l' idea dell' essere, al concreto che cade sotto i suoi sensi. Infatti le parole paternità, maternità, umanità, che esprimono astratti, sono inintelligibili per molto tempo al bambino. Nè le parole padre e madre significano per lui il comune, l' astratto, ma primieramente gli individui reali da lui percepiti, che udì connotare di tali nomi; ed è un errore il credere che queste parole significhino al bambino quello che a noi. Ora, a percepire tali individui egli dovette unirvi l' universale che ha in sè; onde l' oggetto significato da tali parole, benchè particolare, è associato all' universale, nel quale è veduto dalla mente. Quando poi ai sensi del bambino appariscono altri uomini, egli non si ferma colla sua mente a notare le differenze che pure esistono nella sensazione, ma o li prende per quelli stessi di prima, e perciò dà loro gli stessi nomi, i più facili a scorrergli sulle labbra; ovvero dà loro gli stessi nomi, perchè a quei nomi ha legato il pensiero di certe qualità più apparenti, che hanno fermata la sua attenzione nei primi uomini e nelle prime donne da lui conosciute; onde poniamo, per modo d' esempio, che nei primi uomini la sua attenzione abbia fissata la barba, e nelle prime donne la cuffia; quando egli vede un uomo lo chiama padre per voler dire « quell' ente che ha la barba »; e quando vede una donna, la chiama madre, per voler dire « quella donna che ha la cuffia »; e lo stesso vale, se si prende a scopo fisso dell' attenzione bimbesca, in luogo di un segno così speciale, la conformazione generale e totale del corpo dell' uomo e della donna. Egli, in questo supposto, dice padre « quell' ente che ha quella configurazione totale maschile, trascurate le minute differenze »; e dice madre « quell' ente che ha quella configurazione totale femminile, trascurate le minute differenze »; nè conosce ancora il vero significato di padre o di madre. Qui non vi è astrazione se non apparente, ma vi è sintesi, perchè: 1 vi è l' unione dell' ente ideale con quella configurazione sensibile, o con quella marca sensibile più appariscente; 2 vi è la determinazione di un individuo, di un ente mediante quella configurazione o quella marca, che serve di segno a distinguerlo dagli altri. - Ma, si dice, questa configurazione o marca sensibile è comune. - No, si risponde, a principio pel bambino non è comune, è un sentito particolare, che prende a segno e connotato dell' ente, e che perciò restringe all' attenzione e determina l' universale, non lo forma. Ora colla stessa marca si contrassegnano più individui successivamente con atti particolari dello spirito; solamente in appresso, mediante la riflessione, quando la mente indotta dal bisogno che ne ha, osserva anche le differenze più speciali, allora discopre che quella marca , che da principio le servì di mezzo a restringere e particolarizzare l' universale, e a nominare gli individui, è ella stessa comune ed universale, considerata in relazione con quelle differenze, delle quali, dopo averle percepite, si serve a restringere e particolarizzare di nuovo quegli enti che hanno tutti quella marca , venendo così cotal marca ravvisata per comune a molti individui. Onde è falsa, è apparente l' astrazione primitiva, che i sensisti attribuiscono al senso, quasi che questo percepisca il comune, e la ragione si pigli tosto bell' e fatto il comune dal senso. Veniamo al secondo accidente dell' astrazione, che è l' universalizzazione. Quella maniera di astrazione, che propriamente ha il nome di universalizzazione , non fa che scomporre la percezione intellettiva, ponendo da una parte l' essere ideale , dall' altra il sentito, ossia il reale . Dove nasce questa difficoltà: « Il reale se si considera nella sua pienezza, reale infinito, è al tutto indivisibile rispetto a sè dall' ideale, perchè l' uno e l' altro non sono che un solo essere; se poi si parla del reale finito e contingente, il reale diviso dall' ideale non è ente compiuto, e quindi è inescogitabile. Come dunque l' astrazione può dividerli? ». Si risponde che il reale infinito, non essendo dato all' uomo, quando l' uomo astrae l' ideale e lo separa dal reale infinito per via d' un giudizio, crede di fare quello che non fa, crede di dividere quello che non divide, giacchè in tal caso l' oggetto della sua riflessione astraente non è il vero reale infinito, ma è un concetto negativo ed analogico, che nella mente umana tien luogo del reale infinito. All' incontro un comprensore celeste che apprende il reale infinito, non si proverebbe giammai a separare con un giudizio astrattivo l' ideale dal reale, come un uomo non tenterebbe mai colla sua mente di fare un assurdo, se lo conoscesse per assurdo. Con che rimane confutata la dottrina dei pseudomistici, i quali pretendono che l' oggetto dell' intuito naturale dell' uomo sia Dio stesso, che contiene la realità infinita, ma poscia per via di astrazione da quel reale infinito l' uomo tragga l' essere ideale; sistema che, oltre a contraddire al senso comune, involge molti altri assurdi e conseguenze sovvertitrici del Cristianesimo. Tuttavia per non uscire qui dalla confutazione diretta, che accennavamo della predetta setta dei pseudomistici, è da considerare primieramente il fatto che l' uomo, sia per via d' astrazione, sia in altro modo, intuisce effettivamente l' ideale senza il reale (fatto neppur negato dagli avversari). Ora se l' uomo vedesse per natura il reale assoluto ed infinito, cioè Iddio, dovrebbe vedere insieme due cose: 1 che l' ideale è nel seno del reale; 2 che il considerarlo per via di un giudizio come separato dal reale è assurdo. Ma è manifesto che l' uomo, com' è al presente, non vede quest' assurdo, e però pensa all' ideale senza pensare al reale, senza trovare in ciò alcuno inconveniente; il che dimostra che egli non apprende per natura il reale assoluto, come vogliono quei pseudomistici. Vero è che l' ideale è per sè concepibile, perchè racchiude tutto l' essere, benchè sotto una sola forma; ma altra è la ragione per la quale s' intuisce l' ideale, altra è la ragione per la quale lo si pensa e giudica solo e staccato dal reale, senza trovarci assurdo; la ragione perchè si concepisce l' ideale è che esso ha tutto ciò che si esige per essere concepibile; la ragione perchè si può pensare e giudicare solo, senza accorgersi dell' assurdo che vi è nell' ammetterlo così solitario, si è che non si apprende il reale infinito, e quindi neppure il nesso necessario e d' identità che ha coll' ideale, e però l' assurdo rimane celato. Quanto poi al reale finito, all' universalizzazione che si esercita sull' oggetto finito della percezione, è da avvertirsi che, dividendosi quest' oggetto nei suoi due elementi: 1 l' ideale, 2 il reale finito; solo il primo di esso rimane concepibile perchè ente, ma il secondo rimane inconcepito, rimane un mero sentito; con tale divisione è disfatto l' oggetto reale, non rimane più che il reale senza la condizione di oggetto; ed è un' illusione il credere che il reale si concepisca a parte, perocchè se ci sforziamo di concepirlo a parte, pure col concepirlo l' abbiamo mescolato e legato coll' idea, che lo completa come ente; e quindi è falso che lo concepiamo a parte. Ma come ne parliamo adunque? come parliamo di lui unito e separato? - Noi parliamo di lui unito all' idea e lo vediamo altresì separabile, cioè annullantesi quale oggetto di cognizione, perchè intendiamo che egli non è l' idea; e questa cognizione negativa basta a poterne parlare, senza che ci sia necessario perciò di concepirlo come un oggetto della conoscenza attualmente separato. Possiamo anche intendere che separato egli non è ente compiuto, e questa è ancora una cognizione negativa, che non ha bisogno per aversi di percezione o di concezione positiva. Le quali cognizioni negative noi le prendiamo contemplando il reale nell' idea e all' idea paragonandolo, perocchè la separabilità di ciò che pensiamo unito è pensabile, come è pensabile l' annullamento di un oggetto pensato. Terzo accidente dell' astrazione - Astrazione propriamente detta. Finalmente il terzo accidente della riflessione astraente, che merita il proprio nome di astrazione, è quando noi, riflettendo sopra qualche concetto, separiamo in esso più elementi o relazioni; per esempio, quando noi dal concetto di un ente finito astraiamo la sostanza dall' accidente, o l' accidente dalla sostanza, ecc.. I prodotti di questa astrazione, l' accidente, poniamo, o la sostanza, presi in separato l' uno dall' altro, non sono enti, e però non possono essere oggetti del pensiero, ma parti di enti, ossia enti imperfetti (entità). Come dunque si pensano? Non col pensiero complesso, ma col pensiero parziale, con quella maniera di astrazione che si esercita sull' idea, tali parti od elementi non si dividono intieramente dal concetto, ma nel concetto stesso si contemplano, restringendo a ciascuno di essi una speciale attenzione dello spirito. Ma nello spirito il concetto intero, su cui si riflette, rimane; e la sua unità e semplicità è quella che rende possibile il considerare ciascuna parte; di maniera che se allo spirito fosse tolto il concetto intero, le sue parti pure sarebbero tolte, e lo spirito non potrebbe più affissare nell' una o nell' altra di esse la sua attenzione, perchè non sarebbero. L' atto dunque di questa maniera di astrazione non può trovarsi solo nello spirito; egli non è un pensiero intero e compiuto, per dirlo di nuovo, ma è parte di un pensiero, che conviene ravvisarsi nel suo tutto; l' ente è l' oggetto del pensiero complessivo, non d' una parte del pensiero o d' un atto speciale che si aggiunge necessariamente ad un altro, perchè questo atto speciale, non stando da sè, non è da sè solo pensiero. Vero è che l' uomo, quando ha posto attenzione a qualche parte elementare dell' ente, che vede nell' idea, e la ha contrassegnata con un vocabolo, allora se la cangia spesso in un vero ente; ma questo è ancora una sua illusione, un errore che egli prende, perchè ad un elemento, che non è ente, egli aggiunge arbitrariamente col suo pensiero ciò che gli manca senza pure accorgersene, come faceva, a ragion d' esempio, Hume, quando pretendeva che l' universo potesse essere composto d' accidenti; nel che era necessitato a tramutare gli accidenti in sostanze, senza volerlo nè saperlo (1). La quale illusione accade spessissimo, onde gli uomini cangiano in enti le astrazioni, le personificano, ecc.. E quindi un' altra classe di errori, quando, applicando tali astratti agli enti reali, immaginano che anche in questi enti sia diviso e separato quello che è diviso nell' astrazione. Abbiamo poi dimostrato che questa maniera di astrazione ha le sue proprie leggi venienti dall' idea dell' essere, ond' è che questa idea necessariamente precede tutte le astrazioni, perchè le dirige (2); e però ella non può essere formata coll' astrazione. E` un nuovo argomento che distrugge l' errore dei sensisti , come pure quello dei pseudomistici loro confratelli; i primi dei quali si danno a credere che l' idea dell' essere si possa cavare per astrazione dai sentiti reali; i secondi poi, con maggiore assurdo, pretendono che si cavi dall' essere reale assoluto, intuìto per natura dallo spirito umano. I quali ultimi non considerano che l' astrazione, di cui parliamo, non si esercita che sull' idea sola, e però l' idea deve aversi prima nell' ordine logico; nè considerano che l' idea dell' essere è quella che dirige l' astrazione nelle sue operazioni, senza la qual direzione ella s' andrebbe a caso contro il fatto. Che se ricorressero alla seconda maniera di astrarre, noi l' abbiamo esclusa di sopra. Ritengasi adunque: Che l' intendimento percepisce le realità finite, che non sono enti per sè sole compiuti, nell' essere ideale che dà loro il compimento. Che egli non apprende tuttavia attualmente le loro relazioni essenziali o necessarie coll' essere reale compiuto; ma senza negarle le lascia da parte come un' appendice da svolgersi poscia. E questo svolgimento è appunto l' opera, che fa la riflessione sopravveniente. Ella ritorna sul reale percepito e lo raffronta coll' essere ideale, che è il tipo di ogni realità; quindi discopre ciò che manca al reale conosciuto per via di percezione; per esempio, ella rileva che è contingente e che ha una relazione col necessario, trova che è limitato e che non potrebbe essere se non vi fosse un illimitato, ecc., e così via dicendo (1). Come dunque la riflessione astraente confronta le idee degli enti fra loro per fissare il più comune, applicando i risultati di questo confronto agli enti stessi, così la riflessione integrante confronta le idee degli enti coll' idea dell' essere in universale, e trova le relazioni ontologiche, cioè le relazioni che gli enti finiti tengono colla essenza dell' essere stesso. Nel sistema dei pseudomistici questa operazione integrante della riflessione è abolita; perocchè essi pretendono che la riflessione non iscopra mai niente di nuovo, essendo data all' uomo la pienezza dell' essere reale nel suo naturale intuito, onde per essi non può restare altra riflessione che l' astraente. Ma questo si oppone al senso comune ed alla coscienza di ciascheduno, perocchè ciascuno ben sa che colla riflessione si discoprono nuove verità, e così crescono le scienze; al che fare non è uopo, come quei filosofi falsamente pretendono, che quelle verità siano già nell' oggetto dell' intuito, ma basta che l' oggetto dell' intuito sia l' essere ideale, il quale, contenendo tutto l' essere a suo modo, è regola universale a giudicare del reale, conoscerne l' ordine e le relazioni, e trovare ciò che gli manca al compimento; perocchè da questi giudizi intorno al reale nascono le cognizioni acquisite e le scienze tutte. Questo arbitrario e stravagante sistema, che dal buon senno degli Italiani sarà, io credo, sempre ripulso, muove da due supposizioni false egualmente: 1 l' una che non possa essere oggetto della mente l' ente sotto la sola sua forma ideale; il che si oppone evidentemente al fatto, giacchè la mente che pensa ad un ente possibile , non ha una necessità al mondo di pensare insieme alla sua realità; 2 l' altra che senza che la mente apprendesse il reale assoluto, la riflessione non potrebbe trovare le verità scientifiche intorno agli esseri determinati e reali; il che pure è falso, perchè, come provammo, nell' essere ideale ella ha già la regola suprema per tutti i giudizi circa i reali sentiti, essendo anche i reali virtualmente (e però nel modo ideale) compresi nell' ideale. Ignorano altresì costoro che il reale è nel sentimento, e l' uomo non lo percepisce se non riportandolo all' idea; ed aggiungono a loro pro certi ragionamenti teologici, che ben dimostrano in teologia non veder essi più addentro che in filosofia (1). Esposta così la legge universale e suprema dell' umano pensiero, la quale dice: « l' ente è il termine essenziale del pensiero », ed applicata alle diverse maniere d' intellezioni, è uopo che ne deriviamo le leggi speciali. Il che facilmente ci verrà fatto considerando quali siano le speciali doti dell' ente, ciascuna delle quali imprime un carattere proprio alla cognizione umana per forma, che contribuisce non poco a farcene intendere l' intima natura, per quanto al bisogno nostro è richiesto. Ora le precipue qualità dell' ente (e ad esse noi ci restringiamo) sono che: 1 è oggetto, 2 è possibile; 3 è atto primo; 4 è uno; 5 è durevole; 6 è finito o infinito. Da ciascuna di queste qualità procede una legge speciale, che determina la natura dell' atto cogitativo. Cominciamo dal considerare la prima, che si enuncia così: « il termine del pensiero è l' oggetto ». Si crede comunemente che tutte le potenze abbiano un oggetto; il vero però si è che tutte hanno un termine , e il solo intendimento ha un oggetto. Ma l' uomo intende tutto e non parla se non di quello che intende; quindi egli cangia i termini delle potenze in altrettanti oggetti, pur solo col pensarli, col percepirli; i termini adunque delle potenze non intellettive si chiamano oggetti posteriormente, in quanto sono in relazione col pensiero. Vediamo che voglia dire essere oggetto . Il termine d' una potenza è oggetto, quando esso è così in sè stesso che non riceve nessuna modificazione, nè passiva nè attiva, dalla potenza a cui è termine; e l' atto della potenza lo contiene, e per questo solo ella se ne arricchisce e ne cava suo pro, senza punto, come si diceva, modificarlo (1). Di più, la potenza per avere un oggetto deve essere tale che ella possegga quel suo termine per ciò che è in sè stesso, e non per ciò che opera in lei. Sono adunque tre le condizioni dell' oggetto: 1 è immodificabile e tuttavia unito in un modo suo proprio alla potenza; 2 si unisce e comunica in modo che l' effetto di questa unione e comunicazione non è che la potenza apprenda l' azione di lui, ma apprenda lui stesso e se ne giovi; 3 la potenza che lo apprende, non apprende con lui sè stessa, ma lui solo; onde egli resta sempre separato dalla potenza in virtù dell' atto stesso dell' unione e dell' apprensione, il quale atto lo oppone anzi alla potenza, di che gli viene il nome di obiectum . Queste tre condizioni sublimissime non si riscontrano in nessuno dei termini delle altre potenze, ma solo in quello dell' intendimento, che è l' ente. Poichè i termini di tutte le altre potenze: 1 sono passivi da esse e ricevono modificazioni; 2 sono anche attivi e producono modificazioni nella potenza; onde ciò che riceve la potenza non è che l' azione di un ente, non l' ente stesso; 3 talora sono le modificazioni di essa potenza; per esempio, le sensazioni, termini del sentire, non sono altro che le modificazioni del sentimento fondamentale; 4 si uniscono colla potenza in modo da confondersi con essa, di cui diventano o una cotal continuazione, o un' attualità, ecc.; e però non rimangono separati da essa nell' atto dell' unione, nè ad essa contrapposti, ma la potenza, apprendendo il suo termine, apprende in pari tempo sè stessa modificata, e quindi non lascia sè stessa per applicarsi tutta a cosa diversa da sè. Ora se ben si considera, si vedrà che l' oggettività è condizione così essenziale dell' ente che, in quanto non è oggetto, non è ente, tutt' al più sarà un rudimento dell' ente concepito per astrazione, non possibile ad esistere tutto solo. E veramente si attenda bene che cosa contenga il concetto di ente . Il concetto di ente non contiene alcuna relazione di un ente con un altro, anzi la esclude come un soprappiù; dice la cosa in sè , non la cosa agente in un' altra . Ma la cosa è in sè , solo a condizione che sia in una mente; perocchè se si parla di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo non ha questa condizione di essere in sè qualche cosa, perchè non ha alcuna suità. Lo stesso è a dirsi di un essere meramente sensitivo, a cui manca il sè . L' essere dunque in sè non è altro che l' essere concepito assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto. E quando a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benchè non sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale. Noi supponiamo che non sieno concepite nell' atto stesso che le concepiamo e ne ragioniamo; onde parliamo senz' accorgerci di cose concepite in sè, le quali certamente esistono in sè, senza bisogno di altri atti avvertiti da parte nostra per concepirle, perchè basta che si presentino al nostro pensiero per avere adempita la condizione dell' essere in una mente. Ma non diremo mai che enti, che noi realmente non concepiamo, nè immaginiamo che alcun' altra mente li concepisca, enti insomma affatto sconosciuti da ogni mente siano enti compiuti, siano qualche cosa in sè stessi. L' oggettività dunque è una proprietà o relazione essenziale dell' ente. Di che nasce la conseguenza che il dire che l' oggettività è una relazione essenziale dell' ente riesce al medesimo che il dire che l' ente è per sua essenza conoscibile, ossia che anche l' intelligibilità è proprietà necessaria dell' ente; di maniera che quegli enti, che non si conoscono per sè stessi ed hanno bisogno per essere conosciuti di un mezzo di conoscere, neppure sono pienamente enti; ma hanno bisogno per essere tali di venire completati e ultimati dall' unione dell' ente per essenza, dell' ente per sè intelligibile, unione che, quasi in talamo, si fa nella mente. Infatti l' oggettività non si trova che negli enti, in quanto sono presenti alla mente; dunque l' oggettività e l' intelligibilità riescono ad un medesimo concetto, dicono lo stesso sotto due rispetti; sicchè quando si dice oggetto, dicesi ente in sè stesso inteso; quando si dice intelligibilità dicesi la proprietà che ha l' ente di essere inteso, divisa per astrazione. Aristotele in più luoghi viene a dire che l' ente per sè considerato è la prima cosa intesa, senza la quale non può intendersi le altre; dei quali luoghi noi accenneremo solo il quarto libro dei Metafisici. Qui egli insegna che [...OMISSIS...] . Di qui un sottile dissidio fra gli Aristotelici, i quali, convenendo tutti che l' ente era il primo intelligibile, attaccarono poi gran briga per sapere se questa intelligibilità convenisse all' ente come ente, ovvero all' ente in quanto è in atto, che a loro pareva un genere speciale di ente. Il nobile filosofo italiano che abbiamo più sopra citato, Marco Antonio Zimara (nome oscuro per un' antica vergogna e calamità dell' italica terra) così dichiara questa sentenza: [...OMISSIS...] . Un errore sta in queste ultime parole che la materia considerata in sè e solitariamente sia ente. Nè Aristotele, nè alcuno ch' io sappia degli antichi, conobbe la dottrina degli enti imperfetti (.), che sta in gran parte nella legge ontologica del sintesismo , per la quale gli enti finiti si appoggiano l' uno all' altro e si sorreggono, cosicchè divisi e separati coll' astrazione si annullano, non sono più enti propriamente parlando; e quel resto di ente, che diviene oggetto dell' astrazione, si può chiamare tutt' al più ente imperfetto , il quale è come in via ad essere ente, completandosi e rendendosi possibile realmente, quando gli si aggiunge l' altro ente a cui si appoggia. Così la materia è ente, considerata come termine del principio senziente; separata da questo, è un rudimento di ente, il quale nella realità è nulla, perchè impossibile ad esistere così; e nella mente pure è ente imperfetto , attesochè, sebbene la mente le dia un compimento senza il quale non potrebbe essere pensata, sopravviene l' astrazione che le spoglia quella veste non sua per considerare la materia nuda, senza però che resti nuda anche nel pensiero complesso. Onde quando si dice ente , si dice già atto , e non si dà ente che sia mera potenza; la quale, come abbiamo veduto innanzi, è piuttosto un che negativo, e perciò un non ente anzichè un ente. Quindi dalla legge dell' oggettività emana la legge del sintesismo; perocchè se l' oggetto si unisce al soggetto in modo che, lungi dal confondersi con esso lui, per l' atto stesso dell' unirsi a lui si divide e si pone per quello che è in sè, suscitando nel soggetto medesimo un atto, che non determina nel soggetto, ma nell' oggetto, procede quindi che il soggetto e l' oggetto sieno uniti in modo così correlativo che la loro unione riesca essenziale ad entrambi (1), li costituisca entrambi, e tuttavia in modo così distinto che l' uno è non solo separato dall' altro, ma all' altro opposto. Ignorata questa legge dagli antichi (2), essi rovinarono in speculazioni inestricabili ed in gravissimi errori. Dall' ignorazione di essa ricevette rincalzo l' «hen to on kai pan» di Parmenide, come si deduce da un luogo del dialogo, che Platone intitolò del nome di quel grandissimo italiano. Perocchè in esso s' introduce Socrate, che muove obbiezioni al sistema di Parmenide, « « tutte le cose essere un solo ente ». » Avendo dunque Socrate conceduto che la specie è una per molti individui, sosteneva tuttavia che queste specie fossero distinte dagli individui e fra loro, e però fossero enti per sè. Parmenide toglie a mostrargli gli assurdi che verrebbero da questa supposizione, «ean tis hos eide onta kath' heauta diorizetai», e dice che il massimo degli inconvenienti sarebbe che in tal caso riuscirebbe difficilissimo il provare che le specie si possano conoscere, e per esse si possano far conoscere gli individui, «all' apithanos an eie ho agnosta auta anankazon einai». A provar questo Parmenide si fa concedere da Socrate che ogni essenza che esiste per sé , «kath' hauten usian», non può essere in noi, «en hemin». Ottenuta questa concessione, egli conchiude che esse specie ci sono ignote, perocchè noi non ne siamo partecipi: «uk ara hupo ghe hemon ghignosketai ton eidon uden epeide autes epistemes u metechomen». Ora se Socrate avesse conosciuta la legge del sintesismo, non avrebbe mai accordato a Parmenide che le specie per essere qualche cosa in sè, non potevano essere in noi. Anzi avrebbe dovuto stabilire che la specie intellettiva, da non confondersi coll' immagine, è l' essere stesso sotto la forma ideale, il quale è così in sè che non può non essere in sè, nè da noi riceve nulla; e tuttavia può essere da noi intuìto appunto in sè, come è e non altrimenti, e però noi ne siamo partecipi, e in questo senso è in noi. L' argomento prova che la specie deve essere a noi unita, se dobbiamo intuirla e di essa far uso a conoscere altre cose; ma non prova l' impossibilità che sia da noi intuita, rimanendo un essere di altra natura e condizione della nostra. Il che certo ne verrebbe, qualora fosse provato che ciò che è in noi debba essere una parte o modificazione di noi stessi; ma questo è anzi gratuito e falso. Vedesi dunque che l' errore di Parmenide venne da quello stesso principio arbitrario, onde i moderni cavano il loro soggettivismo; ma il grande pensatore di Elea andava colla sua logica mente assai più in là, traendo per conseguenza che tutte le cose dovevano essere un solo ente. E che questa argomentazione, che Platone mette in bocca di Parmenide, sia veramente di questo nostro pensatore, scorgesi dai versi che di lui si sono conservati, nei quali appunto, per dare una spiegazione acconcia della cognizione, dice che il conoscere e l' essere sono la medesima cosa: [...OMISSIS...] , e ancora, secondo la traduzione del Karsten: [...OMISSIS...] i quali luoghi possono non leggermente illustrare il brano da noi toccato del Parmenide di Platone. Oltre di ciò Parmenide vuol provare a Socrate che colle specie, se loro si dà un' esistenza in sè e si distinguono fra loro, non si possono conoscere le cose anche per un altro argomento. Egli si fa accordare che ciò che esiste in sè non può essere rappresentativo delle cose, perchè l' esistere in sè non è relativo ad altro, ma è un' esistenza chiusa in sè stessa. Onde ricava che neppure Dio conoscerebbe le cose umane, nè avrebbe virtù di governarle, e l' arte stessa del disputare si annienterebbe, se si dovessero conoscere le cose con tali specie, ciascuna delle quali avesse un' essenza propria e distinta dalla cosa. I quali conseguenti vedendo, alcuni - continua Parmenide - vacillano e dubitano che le idee non sieno, perchè inetti a spiegare con esse la cognizione il che appunto è quello che avvenne modernamente alla scuola Scozzese, che negò le idee; e noi abbiamo esposto, forse anche con più efficacia, l' inutilità delle idee, qualora si pretenda che esse non facciano altro ufficio che di esseri rappresentativi, e le cose tutte si conoscano per via di rappresentazione (2). Ma perciò appunto questo è falso, perchè nell' idea non si vede già l' essenza dell' idea, ma quella dell' ente; e l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale. Onde l' idea altro non è per noi se non l' essere intuìto dalla mente (3) nella sua propria essenza, la quale è eterna; ma questa essenza ora comprende la realizzazione dell' essere, e allora è l' essere infinito, Iddio che non si vede; ora poi non comprende la sua realizzazione, e allora è l' essere ideale , al quale si rapporta la realizzazione che col sentimento apprendiamo. Onde la cosa reale conosciuta altro non è che l' essere ideale realizzato, sicchè l' oggetto del conoscere in tal caso risulta dai due elementi sopra descritti: 1 l' ideale, 2 il reale; questo compimento di quello. L' ideale adunque è rappresentativo non già come una cosa reale, per esempio, come la figura di una statua rappresenta un' altra figura, il personaggio di cui è la statua; ma come l' essenza di una cosa rappresenta la cosa realizzata; la qual cosa realizzata non si disgiunge dalla sua essenza, nel qual caso non sarebbe un ente compiuto. L' essenza dunque è l' atto pel quale l' ente è nel mondo ideale; la realizzazione è un altro atto dello stesso ente pel quale egli è nel sentimento, cioè sente o fa sentire, che gli si aggiunge nello spirito percipiente come suo finimento; dove si consideri sempre che l' esistenza nello spirito non toglie l' esistenza in sè, anzi la costituisce. Possibile in senso logico significa privo di contraddizione. Ora l' ente non ammette contraddizione alcuna. Da questa proprietà dell' ente di essere essenzialmente concorde e consentaneo seco stesso, procede il principio di contraddizione che « l' essere e il non essere insieme non è essere ». Ora se « l' essere e il non essere insieme non è essere », dunque non si può pensare, perchè l' oggetto del pensiero è l' essere. In questo senso la possibilità logica costituisce la pensabilità delle cose. Ma volendo conoscere se un ente, o reale o ideale, può avere contraddizione nel suo seno, dove riguardiamo noi? Nella sua essenza. Ora l' essenza dell' ente si vede nell' idea. Se dunque la possibilità dell' ente è ciò che lo rende pensabile, e se la possibilità, ossia immunità da contraddizione, trovasi nell' idea, viene confermato quel vero, che abbiamo di sopra stabilito, con un nuovo ed invitto argomento, cioè che niente si pensa senza l' idea; il che non vuol dire che ogni pensiero umano si faccia colla sola idea, come alcuni disattenti ci hanno attribuito. Nella percezione razionale adunque, nella quale pensiamo un reale, non è la sola realità che forma l' oggetto del nostro pensiero, ma l' idealità altresì; dunque ogni percezione ha un elemento ideale ed uno reale. Il sensismo adunque che si ferma al reale, nè altro riconosce che questo per oggetto del pensiero, è un sistema erroneo, mancante di filosofica perspicacia, tale che rende impossibile il pensiero, lo esclude pur col volerlo stabilire. Di più, se la possibilità è la pensabilità, e la pensabilità sta nell' idea, dunque se i reali si dividono dall' idea, non sono più pensabili; nè l' idea può venire da essi, appunto perchè essi non sono nell' intendimento, se non in virtù della stessa idea. Ancora, se il reale non riceve la pensabilità se non dall' idea alla quale nello spirito umano è unito, dunque il reale per sè solo, diviso dall' idea, non è oggetto della mente. Mostrano adunque di essere assai poco innanzi nelle filosofiche investigazioni coloro che, riputando l' ideale per un nulla, pretendono che la mente umana non avrebbe un vero oggetto, se non avesse per suo termine un reale! Anzi è appunto vero il contrario; la sola essenza dell' ente, che è l' essere ideale, è oggetto; non vi è oggetto fuori di essa o senza di essa; il reale deve essere oggettivato , cioè completato nell' idea, nell' essenza, acciocchè si possa pensare. Essere oggetto, essere pensabile, essere intelligibile per sè stesso, sono pressochè sinonimi; dunque l' intelligibile per sè stesso è il solo essere ideale , e l' essere reale è intelligibile per partecipazione . A questo principio vi è una sola eccezione, benchè neppure essa sia propriamente eccezione; Iddio anche nella sua realità è intelligibile per sè stesso. Ora questo accade, perchè nella sua stessa essenza ideale si comprende la sussistenza; onde non si può avverare il caso che la sussistenza, ossia realità, sia scompagnata in Dio dall' idealità. E` dunque un gravissimo e perniciosissimo errore il dire che Dio è un' idea, o anche che è l' idea , vocabolo che nella lingua degli uomini non significa realità, quando Iddio è anzi Realissimo . E perchè gli uomini usano così la parola idea? perchè inventarono questa parola ideale in opposizione di reale? Perchè non avendo essi per natura la visione dell' essere realissimo, non hanno esperienza alcuna del nesso necessario fra l' essere ideale e l' essere reale compiuto; e però non possono che argomentare un tal nesso per via di raziocinio. L' invenzione adunque della parola idea, e il suo uso costante, abbatte l' errore di quelli che accordano all' uomo l' intùito di Dio stesso nella presente vita. Ma onde poi la parola possibile? Abbiamo detto che in senso logico equivale a ciò che non involge contraddizione. Ma neppure Iddio involge contraddizione. Si dirà dunque che Iddio è possibile? L' esservi una cotal ripugnanza a dire che Iddio è possibile dimostra che nella parola possibile, oltre l' assenza della contraddizione, si associa un altro concetto. Tanto Iddio, quanto la creatura, non involge contraddizione; ma l' essenza divina è tale che, oltre non involgere contraddizione, ne è anche necessaria la realità. Nell' essenza all' incontro della creatura manca la necessità della sussistenza, onde si può concepire senza bisogno che nel concetto si racchiuda la realità. Quindi rispetto alla realità dell' essere contingente si dice che è possibile, cioè che « può essere realizzato, perchè la sua essenza non involge contraddizione ». Con questa aggiunta si compie il concetto del possibile; la possibilità logica è dunque la ragione della possibilità metafisica . Quindi avviene ancora che tutto si possa oggettivare, ossia idealizzare; perchè tutto ciò che non è necessario e che non involge contraddizione si concepisce come possibile. Non vi è dunque cosa che in questo senso non abbia un' idea a sè opposta. L' individuo si può considerare come possibile; la sussistenza del pari; questo è quanto dire considerarla in rapporto colla sua idea, coll' essenza di cui è una realizzazione. Considerare come possibile è universalizzare. Non si universalizzano però le cose tutte allo stesso modo. Perocchè, come abbiamo veduto che la parola possibile si prende in due significati, nel significato meramente logico , l' essenza di una cosa che non involge contraddizione, e nel significato metafisico , la suscettività che ha quell' essenza ad essere realizzata; così è da dirsi dell' universalizzare. Nella semplice essenza talora non vi è universalità, come accade in quelle cose che per loro essenza sono uniche: l' essenza dell' individuo, dell' uno, dell' io, del sussistente, ecc., racchiude la particolarità e l' unicità; e però l' individuo, l' uno, l' io, il sussistente non possono essere che unici. Ma se si considera la possibilità che sussistano molti io, molti uni, molti individui, molti sussistenti, ecc., tutte queste cose vengono universalizzate per via della possibilità , ma non della possibilità logica, sì della possibilità metafisica. Si opporrà: « Non corrispondono tutte queste cose moltiplicate ad una sola essenza, all' essenza dell' io, dell' individuo, ecc.? E se corrispondono ad una sola essenza, non è per l' essenza che vengono universalizzate? ». Noi neghiamo che ciascuna di queste cose rispondano ad una sola essenza. Di fatti l' essenza d' un io, d' un individuo, ecc., non è l' essenza d' un altro io, d' un altro individuo, ecc.; ma l' essenza d' un io non ha nulla che appartenga all' essenza d' un altro io, consistendo appunto in questo l' indole del sussistente di non aver nulla di comune con un altro sussistente. Ciò che fa parere il contrario si è che si confonde la natura , di cui il sussistente partecipa, collo stesso sussistente . La natura è comune , ma la stessa sussistenza è singolare . Ora si replica: se molti io convengono nell' essere io, nell' avere la suità , dunque hanno qualche cosa di comune. - E bene, replichiamo anche noi, che la suità è un' essenza comune, ma non è l' essenza di nessun io, ecc.. - In tal caso l' io non ha essenza. - Appunto l' io come io non ha essenza ideale, perchè egli è un reale, un sussistente. Quindi l' universalizzazione, che interviene quando si concepiscono molti io, dipende dall' astrazione, che costituisce un' essenza generica , mancando la specifica . Quando adunque si ha una universalizzazione fondata nella possibilità metafisica , la quale dipende dall' esistenza di una volontà, causa efficiente, e non da un' idea, causa esemplare; allora l' universalizzazione si riferisce ad un' essenza generica , che non rappresenta compiutamente l' ente di cui si tratta, ma solo una parte di lui, venendo l' altra parte prodotta immediatamente dall' efficacia della volontà. Così l' idea generica dell' io è l' idea della natura umana, in quanto la causa efficiente può farla sussistere in più individui, senza che rappresenti l' individuo stesso, che ella fa realmente sussistere. E qui nasce la questione: « Come si possa conoscere se una data essenza possa essere realizzata in più individui, ovvero in uno solo ». A cui si risponde che questo quesito non si può risolvere, se non considerando l' essenza stessa di cui si tratta. Perocchè è l' essenza della cosa quella che o esclude, o ammette la molteplicità maggiore o minore degli individui. Così l' essenza di Dio, come pure l' essenza della materia, esclude la molteplicità degli individui: l' essenza di Dio, perchè è l' essere stesso, e l' essere è uno e semplicissimo; l' essenza della materia, perchè essendo il termine esteso del sentimento, ella non ha altra essenza ideale che generica, che la esprime tutta e non in parte; onde rimane escluso da essa l' individuo. Così quando si dice acqua , si esprime tutta la natura dell' acqua; la qual natura perciò è semplice, come la stessa essenza reale, alla quale il suo concetto viene ristretto. Allo stesso modo vi potrebbero essere delle essenze che determinassero un certo numero d' individui; benchè tutti gli enti a noi conosciuti per essenza specifica non ammettano limiti nel numero metafisicamente possibile dei loro individui, non si può tuttavia dimostrare assurdo che qualche essenza a noi sconosciuta ne ammettesse, come ne ammette l' essenza di un ordine qualsiasi risultante da più cose finite. Noi parliamo sempre del pensiero umano, intero, complesso. Quindi la indicata legge viene a dire che « il pensiero non può avere a suo termine solamente atti secondi, senza che questi sieno accompagnati dal pensiero degli atti primi onde provengono ». Coll' astrazione si possono pensare gli atti secondi separandoli dai primi; ma l' astrazione non è il pensiero complesso, anzi non è possibile l' astrazione, se prima non è nella mente ciò su cui l' astrazione si esercita, nè l' astrazione caccia via il pensiero onde nacque; se io dunque divido coll' astrazione gli atti secondi dagli atti primi, anche gli atti primi rimangono tuttavia nella mente, entrano nel complesso del pensiero anche se ad essi io non ponga quella viva attenzione che dò all' astratto; è l' attenzione che si restringe a una parte del pensiero, non è il pensiero stesso che cessi. La ragione per la quale non si può pensare nulla se prima non si pensa un atto primo, si è perchè il termine del pensiero è l' ente, e l' ente è costituito sempre da un atto primo. Se si osserva e si guarda direttamente negli enti per vedere come essi sono internamenti costituiti, si trova che certi enti hanno l' essenza anteriore e distinta dalla loro sussistenza, certi hanno la sussistenza per atto primo ed originale; e come quelli sono molti e contingenti, così di questi non ve ne è che uno e necessario. Ma dove la sussistenza medesima è l' atto primo, è chiaro che quell' ente non si può concepire se non si percepisce la sussistenza, nè pensare senza di questa. Indi è che Iddio non si può pensare solo idealmente e come possibile, come si possono pensare le cose contingenti; ma o egli si pensa sussistente, o non è Dio quel che si pensa. Laonde chi dicesse l' essere ideale , che informa la ragione nostra, essere Dio, cadrebbe in gravissimo errore, conducente al razionalismo, al pseudomisticismo e a molte altre assurdità mostruose. Quanto agli enti contingenti, avendo essi la loro essenza separata, che nell' idea si manifesta, e non potendosi pensare cosa alcuna scompagnata dalla sua essenza; quindi una nuova dimostrazione della verità spesso da noi annunciata e ancora sì poco intesa, che l' ente reale contingente non si può percepire dall' intendimento se non mediante l' idea e nell' idea; la quale idea non può essere data dalla sensazione, perchè la sensazione è appunto quella entità reale che si tratta di percepire e di conoscere. Dopo di ciò, colla sola idea non si percepisce il reale, perchè l' idea contenendo la pura essenza dell' ente, e questa rimanendo così separata dalla realità o sussistenza, nulla è ancora inteso di questa finchè altro non s' intuisce che l' essenza nell' idea. Ora la sussistenza si apprende, nel modo detto, col sentimento, l' apprensione razionale e l' affermazione. Ma come anche qui ha luogo il principio che nulla si può conoscere, se non si conosce l' atto primo della cosa conosciuta? Nella realità propriamente non è l' atto primo , perchè, come vedemmo, questo atto appartiene all' essenza. Quindi accade che lo spirito nella percezione e nell' universalizzazione assuma come atto primo quello che contrassegna con un vocabolo, e a cui si ferma l' attenzione; e consideri come atti secondi quelli che accadono alla cosa contrassegnata col vocabolo e presa come subbietto della definizione e scopo dell' attenzione, e che sono fuori degli elementi raccolti nel vocabolo, o nella definizione, o nell' oggetto dell' attenzione astraente. E così lo spirito si forma la cognizione delle cose reali e delle loro essenze conoscibili, determinandole e limitandole, come dicevo, da ciò che prima percepisce col sentimento (1). Ma oltre di ciò nel sentimento stesso lo spirito intelligente trova un ordine, giacchè: 1 egli non può percepire certe qualità sensibili senza altre; per esempio, non può percepire il colore o la forma senza l' estensione; 2 alcune di queste sono precedenti, e come condizioni rimanendo immutate, ed altre condizionate mutandosi; per esempio, l' estensione è precedente, e il colore che può mutarsi, rimanendo quella immutata, susseguente. Allorquando le cose si vedono così connesse e dipendenti, si prende la prima condizione o qualità, quella che è logicamente anteriore alle altre, e lei si considera come atto primo, e in relazione colle altre, già unita all' essenza, si chiama sostanza. Nei corpi la forza sensibile o sensifera è questo atto primo, senza il quale le altre qualità corporee non si possono sentire. Onde anche nella sfera della realità vi è il suo atto primo; ma questo è un atto ipotetico, perchè relativo alla sensitività stessa, come abbiamo già detto parlando della percezione. Ora quando l' intendimento concepisce l' essenza d' un ente atto ad essere percepito, cioè che ha tutte le condizioni per essere termine della percezione di cui abbiamo parlato, allora coll' astrazione questo ente si spezza e si trova l' atto primo che si chiama sostanza, senza il quale non si può percepire il resto. Ma questo stesso ordine che è nella realità, si riflette nell' essenza ideale, che da questa relazione col reale si attua agli occhi dello spirito nostro e determina; ed è in questa che si conosce. A percepire adunque un reale contingente è necessario: Che non manchi l' essenza, la quale s' intuisce nell' idea, perchè l' essenza è atto primo rispetto alla realizzazione. Che non manchi l' atto primo della realità stessa, perchè senza questo atto la realità non può cadere nel sentimento e acquistare un nome; avvertendosi però che l' atto primo della realità, a cui è condizionato il sentimento, è ipotetico, cioè viene considerato da noi come tale; ed è anche tale, ma solo in relazione al sentito, non in relazione a tutto l' essere. Un' altra proprietà dell' ente è di essere uno. Se non fosse uno, non sarebbe ente; quindi l' uno è necessario che sia sempre nell' oggetto del pensiero, poichè altrimenti non vi sarebbe l' ente; quindi l' ente è sempre un individuo, e non si può pensare l' ente col pensare intero e complesso senza attribuirgli una individualità. Infatti onde l' idea di uno o di unità? Ella è data coll' idea di ente, e dall' ente si cava per via di astrazione (1); senza l' ente niuna idea possibile, coll' ente l' idea di uno è tosto nella mente. Quindi gli Scolastici dissero che l' uno e l' ente si convertono (1); e gli antichi filosofi, massime i Pitagorici, presero l' uno a significare l' ente in astratto, senza determinare in esso altra cosa; e peccarono in questo, che dissero molte cose dell' astratto, che è ente incompleto, le quali non si potevano dire che dell' ente completo. Questo è il vero fonte degli errori del pitagorismo. Gli Scolastici dissero ancora: [...OMISSIS...] . Proposero inoltre la questione: « se la mente poteva intendere più cose insieme », e risposero di sì, ma a condizione che essa le pensi per modum unius , riconoscendo la necessità che l' uno entri sempre nell' oggetto del pensiero. Gli antichissimi filosofi poi, onde trasse Platone, non sapendo trovare nel corpo unità, perchè questa unità la volevano cercare nella materia, cioè nel corpo disunito dal principio senziente, e quindi divisibile all' infinito, senza poter mai venire ad un primo esteso, che avesse l' unità e non la potesse più perdere per ulteriore divisione, negarono al corpo l' essere un ente e il poter essere oggetto di scienza; lo cangiarono così in un fenomeno, che il volgo prende per un ente, ma che la filosofia prende per una larva; insomma caddero nell' idealismo, o per dir meglio posero quei principŒ ontologici, onde poi venne l' idealismo platonico. Ma noi abbiamo trovata l' unità del corpo nella relazione essenziale , che esso ha col principio senziente; e convenendo anche noi che, diviso da questo principio, il sentito ed il sensifero più non si concepisce, dicemmo però che questa necessità che ha di essere in relazione col principio senziente non toglie punto la sua realità; ma dimostra solamente che per sua natura esso deve essere unito al detto principio senziente, del quale riceve la perfetta continuità, e quindi l' unità che gli bisogna per essere ente (1). Dall' essere uno l' ente ne viene: Che egli sia intra sè armonico e consentaneo, escludendo ogni contraddizione o pugna; il che lo rende possibile logicamente, come dicevamo, onde altro non esprime il principio di contraddizione che l' unità e la consentaneità dell' ente seco medesimo. La quale immunità da ogni contraddizione e pugna intrinseca nell' ente fu contemplata dagli antichi, e Parmenide l' espresse in quel verso conservatoci da Clemente Alessandrino: [...OMISSIS...] . Che l' ente sia semplice per modo tale che se gli manca qualche cosa di ciò che lo costituisce ente, egli già per questo solo non è più. Il che pure vide Parmenide, ed è espresso in quel verso riportato da Teodoreto [...OMISSIS...] . Ed è per questo appunto che noi traendo fuori le principali proprietà dell' ente, ne induciamo altrettante condizioni e leggi del pensiero. Ma ciò che non vide il nostro antenato Parmenide si fu che vi è qualche cosa che può dirsi ente in via , quando si stacca dalle sue relazioni essenziali , come abbiamo detto, della materia, ecc.. Che essendo l' ente semplice, egli è immune dallo spazio e dal tempo, e costituisce quello che io chiamo il mondo metafisico ; il che pure vide Parmenide, e l' accennò in quel verso che si trova negli Stromi di Clemente, e che dice: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già veduto che l' istante altro non è che il principio od il termine di ciò che dura (sia poi un ente o atto di un ente). Dunque l' istante non si dà, se non si dà la durata; l' istante non si concepisce se non come il limite di questa, e però in questa; a quella guisa che il punto matematico è il termine di una linea, e però si concepisce solo nella linea e per la linea. Il credere che possa darsi un ente che esista per un solo istante, è un' illusione volgare di quelli che non si sono formati il giusto concetto dell' istante. L' istante non avendo alcuna durata affatto, l' ente supposto sarebbe un ente che nulla affatto durerebbe; e ciò che nulla affatto dura, non è ente. Questa è una rilevantissima verità, osservata dalle scuole italiane della Magna Grecia e dedotta dal principio di cognizione. Vediamo come e a quai litigi essa abbia dato cagione. Parmenide espresse distintamente « il principio di cognizione »in questo verso, conservatoci da Simplicio e da Proclo: [...OMISSIS...] e in quell' altro frammento, conservatoci pure da Simplicio: [...OMISSIS...] Il quale è un principio così evidente, così patentemente consentito dal senso comune che non si poteva impugnare se non da una scolastica corrottissima. Adunque i primi e più celebri nostri filosofi nazionali posero a salda base della loro filosofia il principio di cognizione . Ma quando vennero all' applicazione, scontrarono dei nodi difficilissimi. Intesero che se l' ente è la sola cosa pensabile, conveniva investigare la qualità e le condizioni dell' ente per sapere se una cosa espressa in una proposizione era pensabile o no; il che è quanto dire se ella era o non era, se la proposizione diceva qualche cosa ovvero nulla, se fosse un' apparenza ciò che si credeva di pensare o una verità. Ora, fra le prime proprietà dell' ente ben videro che vi erano queste due, l' unità e la durata; onde conchiusero che ciò che non è uno e che non dura , era nulla, nè poteva essere oggetto del pensiero. Ma restringendoci ora alla durata , avendo dell' uno brevemente parlato più sopra, si trovavano tosto uscire ad una conseguenza ripugnante al senso comune. Perocchè non era ancora stabilito il concetto filosofico del moto, quale noi l' abbiamo dato, e però veniva ammesso, e dal volgo passava senza esame nelle scuole, il concetto volgare di esso, che suppone il moto farsi senza interruzione e per continua mutazione, a cagione che le interruzioni brevissime, che lo rendono intermittente, sfuggono, almeno fino ad ora, ad ogni osservazione sensibile, e però non potevano venire neppure in sospetto al volgo, che si attiene all' apparenza dei sensi, nè tampoco cadeva in sospetto ai filosofi, che non avevano ancora per virtù di riflessione trovato cagione di sospettarne. Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente, non il moto stesso secondo il suo vero concetto. Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna, non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa, quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono. Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà, onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza. Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] . Ma dai primi Ionici ai loro seguaci è da fare gran divario; perocchè i seguenti, per esempio Eraclito, compatriotta di Talete, aveva già udita l' opposizione che al moto continuo facevano i metafisici italiani; onde vedendo da una parte la difficoltà di ammettere che ciò che si muove sia un ente, e non sapendo rinunziare all' opinione ionia che tutto si muova, divenne oscurissimo nei suoi parlari a segno di venire soprannominato «skoteinos». Egli ammise, adunque, che tutte le cose erano nel confine dell' ente e del non ente, si facevano e si disfacevano continuamente, come apparisce da queste due sentenze di lui, conservateci nel libro Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] : il che sembra voler dire che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini, acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ; il che allude al trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»). Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione, il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente, facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema, se sistema si vuol nominare, nei tempi nostri non disacconciamente fu posto nome di Nullismo (1). Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall' opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo. Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo; 2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso, e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna. Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa , ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano, che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze, e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ su cui si appoggia. Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2). Ma per tornare alle disputazioni degli antichi filosofi, essi navigavano fra due scogli. Il dire che le cose fossero in mutazione continua era sentenza che, sospinta dalla logica invincibile di Parmenide quasi da vento impetuoso, rompevasi allo scoglio di un manifestissimo assurdo, qual era quello che niente esistesse di tutto ciò che così si muoveva, perchè incalzava quel grande dialettico l' avversario con quel principio che ciò che nulla dura non è. All' opposto, il negare il moto, del quale altra idea non si aveva che quella che involgeva l' idea di continuità, e quindi il negare la continua generazione e distruzione degli esseri che cadevano sotto i sensi, era lo stesso che un rompere contro ad un altro scoglio, quello di rinunziare al senso comune, giudice autorevolissimo, se pure non si scambia in quello che non è senso comune, divenendo allora giudice piuttosto crudele che severo, che punisce i suoi refrattari con derisione, infamia implacabile e sovente calunniosa persecuzione, senza forma di legale processo. I primi filosofi di Mileto, adunque, ammisero la mutazione continua, seguitando senza alcun sospetto l' apparenza dei sensi, siccome il volgo. Venne Parmenide, e stabilendo il principio somministratogli dall' idea dell' ente, che « « ciò che non ha alcuna durata non ha esistenza » », sgridò quelli che pigliavano i fenomeni sensibili per altrettante verità, affermando che la ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo», essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero: [...OMISSIS...] . Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto, e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva era impossibile ammettere che ciò che muta sempre, fosse ente; onde non vedendosi coi sensi che cose soggette a continua mutazione, si scelse piuttosto di negare l' esistenza di tutte le cose che di ammettere che il senso s' ingannava, deponendo egli il continuo loro rimutare. Così Socrate presso Platone espone il sistema di Protagora e di molti altri: [...OMISSIS...] (1), [...OMISSIS...] . Il qual luogo di Platone è notabile, perchè da esso si può rilevare: Che Parmenide, stabilita la sentenza che a ciò che esiste spetta l' immobilità e la durata come proprietà essenziali dell' ente, negò la generazione ed il movimento (4). Che egli rimase solo in questa sentenza, eccettuati i pochi suoi primi discepoli (1). Che i seguenti filosofi, non potendo da una parte negare che la durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo. Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1). Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo venga dalla semplicità ed unità del principio senziente, ciò non mi consta. Per altro che Parmenide, nei frammenti che di lui ci rimasero, nulla dica della dottrina delle idee , e che questa perciò sia dovuta a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi: 1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente, cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio del suo poema: [...OMISSIS...] . Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere il non7ente insieme coll' ente; onde dice: [...OMISSIS...] ; così descrivendo il senso comune e volgare, che, ammettendo a un tempo ciò che dura e ciò che non dura, crede ai sensi, e non fa distinzione fra ciò che veramente è, e ciò che essendo di continuo fluente, pare solamente che sia. Ma la dottrina eleatica non viene da un principio solo, ma da due, i quali sono: 1 ciò che continuamente si muta e non dura, non è ente, 2 dal niente non può uscire l' ente. Noi abbiamo parlato fin qui di tutta quella dottrina che il filosofo di Elea dedusse dal primo di questi principŒ, la quale dimostra che il mondo sensibile, perchè continuamente mutabile , come da tutti egualmente si supponeva, era apparenza, non7ente. Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente, cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui non poteva essere cosa alcuna), l' universo , [...OMISSIS...] e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane. La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone e Gorgia di Aristotele. E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di fatto esistono più enti, è uopo provare che le cose sensibili abbiano durata; conviene dunque abbattere il pregiudizio sì inveterato della continuità del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo procurato di fare (1). Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore. Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può pensare cosa maggiore. Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore, non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime un ente, ma un' idea astratta; per esempio l' idea generica del numero , che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito, un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede. Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale. Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione: « « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero si chiama specie »(1) ». Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere, mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo: « « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti gli esseri sussistenti »(2) ». E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti. Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta. Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore, senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare? Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò, si noti bene, non lo induco solamente dall' esperienza, ma dall' intima natura dell' idea astratta di colore, di suono, di sapore, ecc.. Perocchè, che significa l' astratto colore, l' astratto suono, l' astratto sapore? Non altro che ciò che hanno di comune le sensazioni particolari colorate, sonore, sapide, ecc.. Ora ciò che è comune, semplicemente comune a più cose e non proprio di ciascuna, non si può pensare, se non si riferisce in qualche modo ai particolari in cui si riscontra. Ora avviene forse il medesimo dell' essere in universale? - A primo aspetto pare, perchè è comunissimo a tutti i particolari e i reali; ma se più addentro si considera, la cosa non va così; perchè non è semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia, in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti, non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti; all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa solo virtualmente contenuto. Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha, nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato, il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale, ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo quando che sia. Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che costituisce l' ente, perchè è appunto l' idea dell' ente, e però può essere concepito da sè solo; a questi mancano più cose necessarie all' ente a cui si riferiscono, cose che escludono; quindi non possono essere da sè soli oggetto del pensiero complesso, ma solo del parziale, della riflessione astraente. E qui si vede quale parte di vero e quale di falso contenga quella dottrina di Stewart e di altri nominali, i quali sostengono che gli astratti non sieno che vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i loro calcoli. Questi filosofi errano: In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali, e che particolare non si può denominare, se non in quanto si considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale, o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli non sono punto necessari (1). Le idee astratte non si possono pensare dalla mente, se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono; ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro, come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione, è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai nominali, di cui parliamo; da questo fatto però, che l' astratto non si può pensare nella mente senza l' idea7piena (confusa da essi coll' idea particolare), indussero falsamente che dunque l' astratto fosse nulla nella mente, e solo un segno fuori della mente. Al che li condusse anche questo: Altra è la questione « che cosa si richieda acciocchè un' idea si possa pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela, di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie. Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto, un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali, li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio. Finalmente l' esempio che adducono a conferma di loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto, lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista, altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che corre fra due quantità qualunque, segnate dalle due lettere d e c . Ora quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e, avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni, ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile, se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione « che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità. Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito, non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè solo essere oggetto al pensiero. Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli può essere finito o infinito. Ora, ciò che vogliamo con questa legge attentamente osservato si è che la finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda l' identità. Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi, non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito. Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non si pensa più quell' ente. Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato , ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente, virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere. Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo. A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura; 2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque: Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come sopra: perchè è semplicissimo ed uno. Come si può pensare l' ente reale infinito? - Risposta: il reale infinito è lo stesso ente, che si vede nell' idea sotto la forma di realità. Ora per la stessa ragione che si vede l' ideale, benchè infinito, per quella stessa non è assurdo che si possa vedere il reale infinito, perchè è quell' uno semplicissimo che nell' ideale s' intuisce. Ma quantunque tali risposte sieno sufficienti a chi ne intende il fondo, tuttavia non crediamo inutile dar loro una più ampia esposizione. Perocchè le percezioni che più chiamano a sè l' attenzione sono quelle dei corpi e delle altre cose contingenti; ond' è che l' uomo suol ragionare della percezione del reale sull' esempio di quelle, quasi non vi potesse essere altra maniera di percepire; e pur coll' esempio di esse non si spiegherà mai la percezione dell' infinito, che appartiene ad un ordine soprannaturale; questo è ciò che rende difficile intendere la possibilità della percezione di un tal essere. I corpi si percepiscono per una vera azione che esercitano in noi; indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero, ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento. Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo. Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione prodotta. Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice, tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione, non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità. L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra. L' infinito ente è essenzialmente oggetto; dunque nella percezione dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto, non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente, ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2). Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario, come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa, che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe impossibile. Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la sua fonte infinita. Ma questo sentimento è un effetto della percezione oggettiva; benchè strettamente unito con lei, non è lei, e con lei non si può mai confondere. Il qual sentimento è finito; ma posciachè è indivisibile dalla percezione oggettiva, perciò pare che sia infinito anch' esso, in quanto che nell' unità dell' uomo la percezione oggettiva è così congiunta con esso che ne forma, siccome a dire, il compimento e la sommità. Onde presa la percezione oggettiva in unione col sentimento, che nel soggetto ella produce, presa tutta assieme questa comunicazione dell' infinito al finito, se ne ha che la cognizione dell' infinito riesce da una parte infinita, dall' altra finita. Ella è infinita quanto all' oggetto intuìto e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto. Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono. Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono, si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo. Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero. Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce, e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto, quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che non istà nel produrre una semplice modificazione o passione? Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata, e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità; solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente, non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto, e non suppone già l' agente sussistente in cui operi. La ragione di ciò si è che Iddio è causa di tutto l' ente, e facendo Iddio ogni cosa con un atto solo e semplicissimo, forza è che con quell' atto stesso con cui pone la sostanza, ponga anche gli accidenti di lei, qualunque durata essi abbiano, e non produca gli accidenti con un atto diverso. Ciò ripugnerebbe non solo all' unicità e semplicità dell' atto col quale Iddio fa tutto quello che fa, ma ripugnerebbe ancora alla somma semplicità della sua sostanza (1); perocché la sostanza di Dio e la sua azione sono il medesimo, laddove nelle creature altro è la sostanza, altro gli atti della sostanza. Infatti noi vedemmo che nelle sostanze create possono cadere atti transeunti, laddove Iddio può essere causa di atti transeunti, ma questi non possono mai cadere in lui, sì bene da lui debbono restare distinti. Essendo adunque nelle creature create distinte le attività dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse, ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni, perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non può essere mai ricevuta in un ente come paziente. Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce. Perocchè in questo fatto avvengono due cose: Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione. Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio, gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione. Quindi il godimento è limitato, perchè è un atto del soggetto (il quale atto però è creato da Dio col soggetto), ma l' oggetto del godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto , e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura, e gli atti di queste forze sono limitati. Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio, è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell' atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito; ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi, impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente sarebbe un altro. Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire, sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice. Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale, qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti, sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra di potere rispondere quanto segue. In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio. Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere, separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza, quell' essenza non si può dire l' essenza di Dio; e però l' uomo per natura non intuisce Iddio; il qual vero egualmente è provato dall' esperienza, dalla ragione e dalla fede cristiana. E di vero per accertarsi che non vi sia per natura nell' intelletto umano la divina sussistenza, che vi sia una pura idea dell' essere, basta che l' uomo rifletta sopra sè stesso. Una gran parte degli uomini non solo non troveranno di avere per oggetto naturale del loro intendimento la sussistenza stessa dell' essere, ma non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio ai celesti. Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio, forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua sussistenza si nasconde (1). Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell' essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell' essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est , cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur . Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature », è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato (2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il come ci è un mistero, perchè nessuno esempio di ciò troviamo nella natura. Sicchè con diversi concetti potremo anche allora esprimere a noi stessi l' essere divino; ma in ciascuno di essi vedremo lo stesso essere, e però quella molteplicità non ci porrà impedimento di sorte a vedere Iddio siccome egli è, perchè ad un tempo vedremo e come in molte relazioni la perfezione divina si espanda, e come in tutte sia una sola ed identica, primordiale ed essenziale perfezione. Di più, noi al presente quando pensiamo ad una perfezione, per esempio alla sapienza, la vediamo limitata, e solo ragionando per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente come ella possa essere tale. Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito. Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta. Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle che presiedono all' operare della ragione pratica. La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è ancora speculativa. La ragione pratica è il principio razionale7operante (1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche, di cui parliamo. Quali sono queste leggi? Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere le leggi del suo operare. Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione, richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali, le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai. La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole; il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana. Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata la legge suprema della ragione pratica. Dobbiamo dimostrare che il principio di cognizione, che costituisce la legge suprema secondo cui opera la ragione teoretica, presta pure alla ragione pratica la legge suprema secondo cui deve operare; di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve essere l' oggetto del conoscere pratico ». Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione, perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo, giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire alla ragione pratica. Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni. L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere una pera; ed ecco ella è rosa dai vermini; dunque è mala ». Sì, se fosse vero che dovesse essere una pera perfetta ed avere ciò che si contiene nell' idea di pera; ma questo debito non c' è nella pera; misuratela coll' idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma, qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente termine . L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di male e di bene. Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono, nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male. Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che, secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così, ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre, perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento. Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare. La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ, e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta l' attività sua propria. Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente . Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo, che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del proprio istinto; l' attività razionale poi è sede del bene del principio razionale, quando aderisce, senza contrasto e lotta, all' ente termine suo. Di qui la prima legge della ragione: « aderisci all' ente ». Infatti il principio razionale non può cessar mai di essere razionale, e però non può cessare di avere per suo termine l' ente. Dunque se il principio razionale ha un' attività propria, anche questa deve avere per termine l' ente. Ma il principio razionale ha veramente una sua propria attività, e non è meramente ricettivo. Dunque la legge di quest' attività gli deve venire dall' ente, secondo il principio che ogni soggetto suscettivo di bene e di male ha il bene, quando aderisce perfettamente al suo termine, ed ha il male, quando non aderisce al suo termine in quel modo che la sua essenza esige. Il principio razionale adunque, tanto allorchè è meramente ricettivo e prende il nome di ragione teoretica , quanto allorchè è attivo e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare. Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera; da quella necessità che lo costituisce quello che è. All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa; egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione . Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra, a dare piena ragione del perchè un principio possa deviare dalla sua propria legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca, come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono; cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore. Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica. Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve il concetto di bene . Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere pratico . E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà . La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine: la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività , e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata di adesione . Quello dunque che abbiamo detto della legge suprema della ragione teoretica, applichiamolo alla ragione pratica. E prima abbiamo distinto il pensare intero dal pensare astratto , e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo « l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere, se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente, benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato da alcuna attuale attenzione. Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema regola della prudenza ». Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica, e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano operare. Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo , o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale . Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo, esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ». Solamente qui è da por mente che l' operare secondo la norma del pensare intero e complessivo può essere di due maniere, più o meno perfetto. Se il pensare è intero, ma non analizzato, privo delle astrazioni, l' operare sarà sostanzialmente prudente; ma gli mancherà qualche cosa di accessorio, e però riuscirà imperfetto negli accidenti. Laonde vi sono due gradi di prudenza; l' uno è di quelli che operano secondo il pensare intero e complessivo, ma senza analisi ed astrazioni, l' altro il più perfetto, di quelli che operano secondo il pensare intero e nello stesso tempo secondo il pensare astratto, non pigliando questo da sè, ma unito col primo, cioè considerando le astrazioni siccome congiunte cogli oggetti su cui vennero formate. Benchè questa dottrina sia importantissima, io mi astengo dall' aggiungerle qui un maggiore sviluppo, potendo il lettore trovare un luminosissimo esempio della sua efficacia nell' applicazione, che ne abbiamo fatto, alla prudenza politica nell' opera intitolata La società ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre l' altra. Dalla qual regola generale procede quella più speciale, che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta (2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3). Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi, ossia avere le loro corrispettive, nella ragione pratica ; il che ora dobbiamo noi svolgere. L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza, ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato, quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione. Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non pratica. L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi. Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione . Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza, così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è « la fruizione dell' oggetto ». In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi, quando dicono che: [...OMISSIS...] . L' essere ideale adunque, oggetto dell' intuizione, produce nell' uomo per sè stesso solo inclinazioni e propensioni, e non atti, che vengono poi in appresso, ricevutine gli stimoli opportuni; le quali inclinazioni si possono ridurre a due: 1 inclinazione alla contemplazione; 2 inclinazione ad ogni bene reale conoscibile (2). Veniamo alla percezione, e vediamo che cosa dalle leggi, a cui soggiace la percezione, provenga nella ragione pratica. La legge della percezione è questa, che « l' ente limitato, percepito nel sentimento, si riporti all' essere ideale e in esso si vegga », di modo che nella percezione vi è: 1 il sentimento o realità; 2 l' ente ideale; 3 il rapporto d' identità (imperfetto) fra quello e questo. L' ente ideale è infinito e per sè completo. Dunque se l' ente reale si percepisce razionalmente riferendolo a lui, si percepisce insieme con esso la sua misura; perchè riportandolo al totale dell' essere, si vede fra gli enti reali qual più e qual meno prenda dell' essere, lo realizzi in sè stesso. Ora essendo il termine della ragione pratica l' ente quale è dato dalla ragione teoretica e da tutte le sue funzioni, è termine altresì di quella l' ente percepito. E perchè l' atto della ragione pratica consiste nell' aderire al suo termine, perciò ella deve aderire all' ente percepito in quella guisa che è percepito. Ma è percepito misurato dall' essere ideale, sicchè l' un ente percepito è percepito come maggior ente, e l' altro come minor ente. Dunque è legge della ragione pratica che ella aderisca agli enti secondo la loro misura. Ed anche quando il soggetto non percepisce che un solo ente reale, egli pur vede al confronto dell' ideale se sia limitato o illimitato; e deve aderirvi tale quale egli è, cioè con affezione misurata ad esso e proporzionata. Ora questo è il principio morale, « la legge dell' ordine morale », che prescrive che il riconoscimento affettivo sia compartito agli enti reali conosciuti, proporzionalmente alla loro misura, considerata sì rispetto all' ente completo ideale, e sì comparati fra loro, se sono più (1). Di qui un' altra nobilissima conseguenza, che il bene morale è di natura infinita, in quanto ha sempre per oggetto l' ente infinito. Perocchè l' ente limitato non è mai presentato dalla percezione solo e rispetto a sè, ma sempre unito all' ideale, che è completo ed infinito; e da questo misurato. Onde l' oggetto della ragione pratica non si ferma mai all' ente reale7finito, ma lo congiunge coll' ideale infinito e con questo insieme lo costituisce suo bene, aderendo a lui solo in quel tanto che l' essere ideale7universale gli prescrive. Onde l' atto dell' adesione ubbidisce a questo essere ideale7universale come sua suprema norma e regola; e lo tiene per conseguenza in maggior riverenza di ogni reale finito. E in questo sta appunto il carattere essenziale di ciò che è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito. L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo. Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta. Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale. Ma benchè in questo caso la moralità sia infinitamente maggiore che nel primo, perchè ella acquista un prezzo infinitamente infinito, tuttavia anche nel primo caso vi è una infinità di prezzo; chè, come abbiamo veduto, l' infinito è una proprietà ontologica, che non si può perdere in parte, ma o si perde tutta ovvero rimane tutta, cioè rimane l' infinità, tale essendo per natura e non per addizione o secondo la quantità. Riconoscere praticamente ciò che prima si conosceva teoreticamente è l' atto proprio della ragione pratica, in cui consiste la moralità. Il primo atto dunque della moralità si fa per via di riflessione. Ma la riflessione è doppia, astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione. Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione. Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza, dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono. Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine, vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1). Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto, è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e in ogni atto vizioso vi è qualche ignoranza e qualche cecità, la quale produce anche le coscienze erronee, di cui riesce poi cotanto difficile all' uomo interamente spogliarsi e pur solo avvertirle (1). Quanto poi alla riflessione integrante come funzione della ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell' uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase solo disegnato in sulla carta dall' architetto. Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione pratica: la prima è quella dell' oggettività. Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione: 1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica; perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è, e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica, che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale . Essendo dunque legge morale alla ragione pratica quello stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che: Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo, di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente. Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti, si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere. Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell' ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente; l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto . Come è legge essenziale della ragione apprendere l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi, come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità , del sacrificio . Veniamo alla legge del sintesismo della ragione. Quale è la conseguenza, che questa legge adduce nella ragione pratica? La conseguenza si è che come il principio razionale ha una dualità, perchè esce di sè e si affissa e quasi dimora in cosa diversa ed opposta a sè soggetto, cioè nell' oggetto, così, qualora la ragione pratica opera consentaneamente alla propria legge della ragione, non solo ella è ordinata e soddisfatta in sè stessa (bene morale7psicologico), ma ella diede altresì all' ente suo oggetto ciò che a lui si aspetta, l' esigenza dell' ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico). Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione, ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico); 2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico). Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica, il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione, e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale a favore dell' ente che fu oltraggiato. Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico, che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico. Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu rispettata l' esigenza. Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la stima accresciuta di sè medesimo (testimonianza della coscienza, che è cosa diversa dal sentimento dell' armonia psicologico7morale). Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda i suoi simili, il premio ontologico, a cui ha diritto, è nell' amore e gratitudine dei suoi simili; e l' Ente supremo che presiede all' ordine ontologico lo deve compensare, se gli vien negato; come pure deve punire questa ingiusta negazione nei suoi simili, che glielo ricusano. Se finalmente l' uomo retto operò quel bene che riguarda Iddio, questi gli riserva premi degni di lui e della virtù morale verso di lui esercitata. Il quale discorso vale egualmente rispetto al male. Ma giova che noi vediamo più distintamente come il bene ed il male morale sia sempre duplice, psicologico ed ontologico ad un tempo, confrontando questo bene, proprio dell' attività del principio razionale, col bene proprio dell' attività del principio sensitivo. Il termine del principio sensitivo è da lui indiviso, ha con lui un' unione od una relazione di attività reciproca; il termine del principio razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo, l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente; e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti, e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione; 2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1). Applichiamo ora la seconda legge della ragione, che dice: « il termine del pensiero è il possibile », alla ragione pratica. Tosto ne avremo due nobilissime conseguenze. La prima si è che la ragione pratica ha per suo termine l' essenza degli enti in relazione al realizzamento di lei. Abbiamo veduto, parlando della legge della percezione, che la ragione pratica deve aderire all' ente reale secondo la misura di lui, e che la misura di lui è determinata dall' essere ideale7universale. Questa misura è l' idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo di quell' ente reale. Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta, misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore, deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica, avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque del rispetto morale è l' idea, e l' ente non è apprezzato se non in quanto lo prescrive l' idea . Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza. Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione. Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza possibile della cosa in relazione col suo realizzamento. Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato. Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale); 2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1). Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella formazione e nel governo del mondo (2). Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto. Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto è oggetto reale della stessa ragione pratica. La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge sua propria l' armonia nell' oggetto. L' essenza, che non abbia in sè la sussistenza dell' ente, si dice possibile, considerata in relazione al suo realizzamento. Possibile logicamente è tutto ciò che non involge contraddizione; onde dicemmo che l' oggetto della ragione, l' ente, è immune da ogni contraddizione, consentaneo seco stesso, pienamente armonico. Dunque la ragione pratica, essendo anch' essa ragione, forza è che per operare secondo la sua natura abbia un termine armonico, immune da contraddizione. All' incontro l' uomo vizioso, se ben si considera, ha sempre per termine del suo operare una contraddizione; egli si sforza di fare l' impossibile. Infatti è impossibile distruggere l' ordine intrinseco dell' essere universale, fare che l' ente considerato secondo la sua essenza sia diverso da quello che è, perchè le essenze sono immutabili. Ora quando un uomo, invece di riconoscere, secondo la sua misura, l' ente concepito, vuole riconoscerlo secondo un' altra misura arbitraria, egli rappresenta a sè stesso l' essenza dell' ente mutata quanto alla sua misura, e quindi di maggiore o minore prezzo del vero. Egli si rappresenta dunque il falso per oggetto di sua attività; ma egli non lo si presenta già come falso, ma come vero. Perocchè niuno può pienamente e assolutamente volere ingannarsi, e ogni vizioso tende necessariamente a persuadere a sè stesso che il bene da lui voluto è vero bene; e se si potesse a pieno convincere che neppure hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare che sia bene quello che è male, egli tenta con questa sua attività di snaturare e distruggere la verità, di fare che quello che è in un modo sia a lui in un altro, tenta di mutare l' ordine dell' ente. Ora l' ente in tal caso entrerebbe in contraddizione seco medesimo. Perocchè alla ragione teoretica sarebbe una cosa, avrebbe una misura; alla ragione pratica sarebbe un' altra cosa, avrebbe un' altra misura. Quindi la ragione pratica, tendendo con un vizioso operare di mettere l' ente in contraddizione seco stesso, tende di fare l' impossibile. Dove si appalesa l' origine della lotta incessante e della implacabile battaglia, che ogni vizioso agita nel proprio seno, e della pace e concordia seco stesso dell' uomo giusto (1). Le quattro leggi seguenti della ragione non fanno che definire ciò che non può costituire il suo termine; e rispetto alla ragione pratica hanno la stessa efficacia negativa. Per essa appare che non vi può essere il termine proprio della ragione pratica, qualora il termine che ella prende di mira manchi o dell' atto primo, o dell' unità, o della durevolezza, o della determinazione. Tutto ciò viene a dire che il termine della ragione pratica deve essere qualche sostanza. Quindi ciò che è accidente non può costituire un termine proprio alla ragione pratica, la quale deve riferire ciò che è accidentale a ciò che è sostanziale. Noi l' abbiamo veduto parlando della legge della prudenza. Di più, ciò che è corporeo, non avendo unità propria, ma mutuandola dal principio senziente (nel quale solo ha la continuità), non può essere vero termine alla ragione pratica. Neppure il principio meramente senziente7animale costituisce il termine finale della ragione pratica, come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente; è in via ad essere ente. Oltre di che, dovendo questa sempre spingersi all' infinito, il che la rende morale, e il principio animale niente avendo in sè dell' infinito, egli non può essere in alcun modo ultimo termine alla ragione pratica. L' essere intelligente all' incontro, essendo quello che ha sua sede nell' infinito, nell' essere ideale, nell' essenza dell' ente in universale, in quanto che in questa si affissa e riposa; partecipa della dignità di questo, perchè è a questo ordinato, e quindi ha ragione di fine e di termine della ragione pratica. Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto. E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche. Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell' anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono alle leggi cosmologiche. Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo a parlare dell' altra classe più innanzi. Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di esse. La legge ontologica generale, che riassume tutte le altre, si è: « il termine del principio razionale è l' ente »; e però se manca qualche condizione essenziale dell' ente, non c' è più il termine del principio razionale; all' incontro, se non manca niuna condizione, quel principio, avendo il suo termine, esercita in esso la sua attività. Per applicare debitamente questa legge all' uomo ci convenne osservare quali sieno le condizioni essenziali dell' ente. E primieramente osservammo: Che l' ente ha tre forme, e che sotto ciascuna è compiuto; quindi che può essere dato ad un soggetto l' ente sotto la forma ideale, senza che gli sia dato sotto le altre due forme. Che non potrebbe tuttavia essere dato l' ente sotto la forma reale e morale senza la forma ideale, perchè l' ente ideale è quello che manifesta l' essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1). Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio razionale che ne è informato, non può avere altro termine che sotto la forma di oggetto. Da queste verità si raccoglie: Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo, non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale. Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale termine. Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto, se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto. In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche, che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare l' ultima. L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che, se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete, nulla opera al di là dello stesso atto intuitivo pel quale è unito al suo termine. Infatti chi ricerca le leggi soggettive secondo le quali opera il principio razionale, può intendere di fare due cose, cioè può intendere di risolvere due questioni. Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi. Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso, egli eseguisca il suo movimento. In quanto alla prima questione, è da rispondere che il principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche cosa di reale. Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1). Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito, ogni comunicazione del reale finito non può suscitare che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive, benchè col solo ente ideale o infinito7reale non vi possa essere che quell' atto semplice, che termina in esso ed ivi si quieta. Questo bisogno dunque, che ha il principio razionale di nuovi oggetti per fare nuovi atti, è quello che chiamiamo legge psicologica d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1). Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale, non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo? Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare? Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è, ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi andiamo investigando. E primieramente l' unirsi all' oggetto si fa in due modi, come già indicammo, l' uno speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica (1). Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse si crea. All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei, ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che che deve fare per essere perfetta. La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche; e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle prime prendiamo ora ad esporle. Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine; di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due maniere di legge distintissime. L' attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno, e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato. Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione, gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico , raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo la loro ragione sufficiente. Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto a cui si possa unire. Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento, il quale è giunto al suo compiuto termine. Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme: a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale, concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente unito. Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci. Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi di unione dell' anima coll' oggetto. Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1). Ma talora non basta alla volontà di contemplare l' oggetto conosciuto; ella appetisce la sua fruizione sentimentale, l' appetisce come reale, come termine del sentimento, non come termine semplicemente della cognizione. E rispetto a questa unione reale possono aver luogo due specie di volizioni: le affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione. Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento, è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii si uniscono al loro termine. Quindi: Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla. Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani; per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano, per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero. Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e mangiare quella frutta. E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene, in quel vario modo che la natura del sensorio esige. Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici. In questo ultimo caso la ragione pratica già muove la ragione teoretica a trovare i detti mezzi . E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo tutto, inteso nel tutto e pel tutto. Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato. Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano, che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono da tale stimolo tratti a succedersi. La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi. Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi, ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi. Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante , della quale ci gioviamo a spiegare i fenomeni dei sogni, delle distrazioni, ecc.. E qui si rifletta che questa abitudine ragionante , che incomincia già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che siamo per descrivere. L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto, insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca, anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora. Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono essi nomi propri o comuni? La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto (altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1). Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da quel legame estrinseco. E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio, è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice dei nomi. I suoi tre elementi sono: 1 l' idea (l' essere ideale illimitato); 2 il concetto (essere ideale limitato dal rapporto che la percezione sensitiva ha con esso); 3 l' atto dello spirito affermante la sussistenza, ossia la realizzazione del concetto. Dapprima dunque il nome imposto segna questo triplice oggetto della percezione. Tosto appresso lo spirito abbandona la sussistenza , perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune. Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista nella percezione? Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1). E questa non è ancora tuttavia astrazione pura; perocchè ognuno di quei suoni indica una sostanza reale, quale è data dal relativo sensorio, è un nome sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano. Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore. I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso; ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio, ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono, è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli, a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze diverse e per diversissimi oggetti reali, finirà collo stabilire un nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1). I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi, perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori, di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile, sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi accidenti. Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde, il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo a significare in generale « ciò che è verde ». Di qui si trae che il pensare generi e specie, e il produrre nomi comuni è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato, e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1) quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo: [...OMISSIS...] Leibnizio tuttavia non tocca in questo passo la cagione per la quale l' uomo sia inclinato a formare nomi comuni , e ne abbia tanta facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più tenero. Questa cagione si è sempre: La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili. La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti hanno a cagionare quei medesimi sentimenti. Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo a fare checchessia, ecc.. E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna, che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello, questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario; perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda. E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe come un solo organo sensorio presiedesse a tutte le diverse sensazioni. Di più, se oltre i sensorii speciali vi fosse un sensorio comune, il quale risiedesse in un organo diverso da quelli, tutte le sensazioni speciali dovrebbero essere doppie, manifestandosi prima separate nei sensorii speciali e poscia unite nel sensorio comune; il che va contro il fatto. A cui si aggiunga quanto fu ragionato nel Rinnovamento contro l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà, che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3). Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia . E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale, che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può essere posto un nome; e le sensazioni sono lati diversi, per così dire, e atteggiamenti di questo sentimento, a cui del pari può essere posto un nome. E poichè il termine si distingue dal principio, e il termine si confonde collo stimolo, quando lo stimolo è applicato al sensorio, perciò anche l' oggetto stimolante riceve il nome, in quanto è stimolante; e questo è il nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome comune inventato sarà il sensibile . Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi, in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra; perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime. A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel Deuteronomio: [...OMISSIS...] ; ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] . E questo fecero pure i Greci, massime gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). » « « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune. Il nome imposto alla percezione, quindi trasferito a significare la specie piena, che si può definire anche la percezione del fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico, allegorico, ecc.. Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere , che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice: « « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell' Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3), la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole. Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi: « « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari. Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi: [...OMISSIS...] La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura a significare una immane crudeltà. E di somiglianti frasi la Scrittura è pienissima, ma più l' Antico Testamento del Nuovo; e i libri più antichi non hanno quasi altro linguaggio. Dopo la Scrittura, Omero ne abbonda. E se non si trovano egualmente frequenti cotali maniere nei libri sacri Indiani e Cinesi, è questa una nuova prova per me che non debbono essere così antichi come si vuole, o che furono alterati e tradotti; benchè abbia potuto contribuire a quel loro stile meno figurato la celerità, con cui progredì in antico presso quei popoli lo sviluppo del pensiero, che poi s' arrestò. Il carattere adunque dei vocaboli e delle maniere di dire antiche, di cui parliamo, si è questo, che esse « esprimono il concetto quale è dato dalla percezione »; e che poi l' espressione, rimanendo così speciale, viene trasferita tuttavia a significare un concetto, o una sentenza più e più comune e generale. Di qui, come dicevo, tutto il parlare figurato, di qui tutte le figure grammaticali. Per questo lo stile degli antichi è più poetico di quel dei moderni; perchè egli dipinge le cose ai sensi. Il naturale sviluppo del pensiero e dell' imposizione dei vocaboli ai pensieri spiega questo fatto senza bisogno d' altro; essendo gli antichi costretti a formarsi quella lingua che ancora non avevano, essi dovevano nominare i concetti legati alle percezioni, poi i concetti stessi divisi dalle percezioni. Ma nelle percezioni non nominavano tutto, ma ciò che più colpiva e attirava l' attenzione; questo elemento si prendeva ad indizio e segno di tutta intera la percezione; e il nome esprimeva la percezione, riferendosi a quell' indizio o segno naturale; e il vocabolo significava sempre: « ciò che produce quel sentimento »; per esempio « il bello »: ciò che produce il sentimento della bellezza; il sano: « ciò che produce la sanità », ecc.. Ma quell' indizio trovavasi poi in altri oggetti, e quindi la parola era atta a significarli anch' essi. Trovavasi, dico, in altri oggetti anche disparati, per la medesimezza del sentimento da loro prodotto; perchè è il sentimento, per dirlo ancora, a cui si riferiva la significazione del vocabolo. Onde « l' unità del sentimento è l' istrumento primitivo della formazione dei generi e delle specie significate dai vocaboli », perocchè esso è un effetto prodotto egualmente da più cause, e però un segno naturale comune ad esse. Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa significata, ecc.; perciò il vocabolo, che esprime uno di questi elementi, si trasporta a significarli tutti, ovvero a significare un altro di essi, appunto perchè egli è atto a risvegliare gli altri sentimenti per via di associazione. « Io non ho veduto la sua faccia »per dire: « non ho veduto quell' uomo »; la parte che più tira l' attenzione è la faccia, e però il vocabolo è atto a risvegliare il pensiero del tutto. « Impugnò il ferro »per dire: « impugnò la spada »; la materia per tutto l' istrumento, materia e forma. « Tutta la terra esultò »per dire: « gli abitatori della terra »; il il contenente pel contenuto. E così di tutte le altre metonimie. E` anche da osservarsi che questo passaggio di significato non ha mai fine, onde una ragione del rimutare delle lingue, appunto perchè l' associazione dei pensieri e dei sentimenti non ha mai fine, nè mai ristà, ma si spiega in una serie continua, che talora si aggruppa e variamente ravvolge; e questo è il progresso continuo, che fa la mente umana e con essa l' uso dei segni, che da nomi comuni talora diventano individuali, e da individuali ritornano comuni e comunissimi, da traslati diventano propri, e da propri di nuovo traslati; per esempio, la parola Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere più ristretto, cioè con quello degli uomini. Fin qui si vede come gli uomini in società potevano pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero. Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità . E` indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l' umano intendimento. Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà , ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono, «peri hedones, peri agathu», ecc.. » Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi? Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale, che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli. Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è, e come venga data all' uomo. Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell' altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti. Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia, braccio, mano, ecc.. Ma ognuna di queste parti ha poi sue speciali doti e proprietà, le quali si percepiscono insieme con quella parte a cui appartengono. A ragion d' esempio, una di queste proprietà sia la fortezza. Questa potrà denominarsi in due modi, o mediante un nome comune neutro, che venga a significare « ciò che è forte »; ovvero col nome della parte, nella quale si ravvisa più frequentemente e in modo interessante, per esempio nella mano, o nel braccio, o nel corno, ecc.. In qual maniera si nominerà ella? Nella maniera più facile. Ora è più facile adoperare la parola mano, braccio, corno, ecc. per indicare la potenza, ovvero inventare per essa un nome nuovo, un nome comune neutro? Posciachè i nomi di quelle parti robuste del corpo sono già inventati, è manifestamente più facile adoperare quei nomi che già si hanno, dando loro un significato metonimico. Perocchè è regola generale che « l' estendere o il trasferire il significato di un vocabolo, che già si ha, è più agevole che ritrovarne un altro del tutto nuovo ». Ora i nomi delle dette parti, significando oggetti di percezioni, sono dei primi che s' inventano. Dunque la mano, o il braccio, o il corno si prenderanno a significare la potenza, e questo è quello appunto che noi vediamo nelle lingue antiche « manus Domini (1) » o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide (3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.; e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima. Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci e nei latini scrittori, per significare qualunque fatto, avvenimento, e fin anche pel generalissimo cosa , come si può vedere nei lessicografi? [...OMISSIS...] ; e questo parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo , venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare altresì la seconda delle Persone divine. Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come fecero le lingue antiche. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato. Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio. E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione o no. L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche sopra descritte. Qui nasce una difficoltà, che domanda scioglimento. Come un oggetto ideale ovvero spirituale, che è semplicissimo, si può analizzare e quasi dividere in parti dall' uso dell' attenzione umana? E queste parti sono esse vere, oppure sono apparenti e ingannevoli? Per rispondere è necessario prima di tutto osservare: Che una cosa semplice molte volte si moltiplica dallo spirito, che la considera in relazione con molte; per esempio quando si dice: « l' essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero. Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente, avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc., poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava, finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere. Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione dell' estensione. Ma gli enti semplici non consistono in una sola negazione, anzi sono positivi, più positivi ancora degli enti estesi. E` semplice adunque ciò da cui non si può levare cosa alcuna senza distruggerlo. Secondo questa definizione non è già contrario alla semplicità che un ente molte e varie cose in sè contenga; ma è uopo che tutte le cose che contiene sieno così unificate che il rimuoverne solo una basti a distruggere l' ente. Quindi varie classi di enti semplici. Il punto matematico non è un ente , come dicevamo, ma una negazione , non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro spirito sopra un oggetto (l' estensione). L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo, si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa deve confrontarsi coll' ente reale. L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di meno vuole intendersi in più modi. Poichè: Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio animale; ma neppure questo è dividersi in più. Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente, benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò, egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma dall' arbitrio, fonte degli errori. Niente si conosce se non l' oggetto del pensiero (idea), o ciò che dice lo spirito intorno all' oggetto del pensiero (verbo). Quando l' oggetto del pensiero siamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi, allora conosciamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi. Una tale cognizione dicesi coscienza . La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro. Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione (1). L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza. Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina Io) attiri la propria attenzione a sè. Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno? « Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ». Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la coscienza. Date poi le condizioni, alle quali l' uomo si forma la coscienza, egli può anche separare sè stesso positivamente dall' oggetto ideale, e conoscersi come soggetto contrapposto ad esso. Vi è dunque questa differenza fra il primitivo stato dell' uomo anteriore ad ogni suo sviluppo e lo stato in cui ha coscienza di sè; vi è questa differenza, dico, circa il distinguere l' essere ideale da sè, che: Nel primitivo stato egli conosce il solo essere ideale e non sè stesso; perciò non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce, non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe. Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto positivo. Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare. Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè quella parola interiore colla quale afferma o nega. Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento, chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato, quasi a sua materia. Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica visione. Affinchè questo atto della parola interiore sia fatto dallo spirito, conviene che lo spirito nell' oggetto possa trovare una dualità, che poi diviene predicato e soggetto. E posciachè l' ente ideale infinito , diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche essere reale, fonte della pluralità. Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto nuovo? La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto. Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa, tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto, a questo accordandosi ed adattandosi. Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa, è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2). Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito e non all' oggetto. Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi, che argomentavano: [...OMISSIS...] (3). A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità; ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così: « Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare o negare qualche cosa, non ha per oggetto l' ente, ma il nesso, cioè la predicazione stessa. Ora intorno all' ente si può pronunciare il falso e il vero; nel qual caso non è che l' ente diventi falso, ma il falso giace nel pronunciato, che è operazione soggettiva dello spirito. Di questa importantissima distinzione, per quanto io so, i filosofi non hanno ben sentita la forza, nè abbastanza conosciuta e descritta la natura della cognizione soggettiva, per via di pronunciamento, giudizio, o verbo dello spirito. In che consiste adunque la natura di questa maniera di conoscere? Non consiste nell' acquisto che lo spirito faccia per essa d' un oggetto nuovo, come abbiamo detto di sopra, ma consiste « in potere lo spirito disporre sè stesso in un certo modo, relativamente all' oggetto che ha dinanzi ». Se lo spirito afferma, dispone sè stesso in un certo modo relativamente all' oggetto; se lo spirito nega, dispone sè stesso in un altro modo. L' oggetto resta il medesimo; perocchè che cosa è l' oggetto? per dirlo ancora « è l' essenza della cosa veduta nell' idea ». Dunque nell' oggetto non è affermazione, nè negazione; questa è tutta opera dello spirito; l' essenza rimane la stessa dinanzi alla mente, tanto se si afferma qualche cosa di quella essenza, quanto se si nega. Nego che in questo giardino sia un pero o un fico: l' essenza del pero o del fico, che è l' oggetto della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione di sorte. Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito? Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione , onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole e vacillante. Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero insorgere. Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui. Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può cadere errore (1). Nell' atto del predicamento che fa lo spirito può cadere errore, perchè può essere fatto in modo conforme all' oggetto e in modo da lui difforme. Qui facilmente sorge difficoltà nelle menti, che potrebbero ragionare così: « Se io predico qualche cosa dell' oggetto, questo qualche cosa predicabile non è anch' egli un oggetto? Se sì, dunque anche la scienza di predicazione ha per suo termine l' oggetto, un oggetto nuovo ». Alla quale difficoltà si risponde che il termine della scienza di predicazione non è alcun oggetto, cioè non è nè il soggetto, nè il predicabile, ma è la loro congiunzione; io conosco per la predicazione, che fa il mio spirito, la loro congiunzione in un medesimo oggetto. Replicasi che, dunque, la congiunzione del soggetto col predicato è l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito. Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare, perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è questa. La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto; ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo; non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare. Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando pronuncia che quella è. Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia di una delle relazioni possibili, contradittorie? ». Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera della possibilità, come accade nelle affermazioni logiche e matematiche, per esempio « la conseguenza è contenuta nel principio », ovvero « la somma dei tre angoli del triangolo è uguale a due retti »; quell' è copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell' è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale. Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste », dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza dell' ente. Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento, significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade. L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione, vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto, ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione, dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive, conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo, perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo. Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce, dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito; cangia solamente il modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto, appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso, secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda. Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico: « questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile. Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento, almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento (reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme. Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto, ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa, ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce la cognizione soggettiva . Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall' unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa, non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella quale cade il vero ed il falso. Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto nuovo? La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato, un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico « il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente oggetto, ma il predicato non è oggetto, anzi è piuttosto termine dell' affermazione, termine soggettivo, perchè giacente nel sentimento del pane; sicchè quella proposizione equivale a quest' altra: « il pane, oggetto della mia mente, ha un modo di essere fuori della mia mente, e questo modo di essere è a me sensibile così e così ». Si noti bene che se l' essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione; non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione: 1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili, essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio, non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene persuasione, cognizione soggettiva. Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro che un nuovo modo di unire a lui sè stesso. E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante, che procede dall' esposta dottrina. L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva , perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente dall' oggetto e l' altra propria del soggetto. All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto, risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle leggi psicologiche. La prima di queste due maniere di cognizione ha per suo termine l' oggetto intuìto (il possibile), e rispetto ad essa si avvera la proposizione che scientia est de necessariis (1). La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis , potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente, anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente. La quale distinzione basta a distruggere il panteismo idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo » induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si fa per via di predicazione. La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico , escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive, ecc.. Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione . La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione , e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non va immune neppure la filosofia scozzese (2). Che se alla parola fatto si dà un senso estesissimo, benchè improprio, in tal caso conviene distinguere: 1 i fatti reali; 2 i fatti ideali; 3 i rapporti di questi con quelli, ossia le ragioni che spiegano i fatti reali. E solo in questo senso improprio si può dire che tutte le cognizioni umane si riducono ad avere per loro materia dei fatti. Noi non abbiamo potuto esporre le leggi psicologiche del principio razionale se non mescolandole a ciò che somministra allo spirito il mondo, perchè il movimento degli atti secondi non è dato allo spirito se non dall' azione del mondo. Quindi sono da distinguersi le leggi, che presiedono a produrre il movimento del principio razionale già costituito, che chiameremo leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto . Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono. Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in parte psicologiche. Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi, determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore, acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua attività. Nel sensismo di Fichte (l' idealismo di questo filosofo è puramente sensismo) lo spirito pone sè stesso con quell' atto con cui pone il mondo. Egli afferma ad un tempo l' io e il non io come contrapposti correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli atti seguenti: Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo, senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè del suo atto; egli vive ed è nell' essere. Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale, e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente , nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento, senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine in cui si giace. La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera da noi spiegata. Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento, che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti correlativi di principio e di termine. Ora la mutazione, che nasce nel sentimento, è la condizione della mozione che riceve il principio razionale ai suoi atti secondi; e perchè quella mutazione accade naturalmente per l' azione degli agenti, che compongono il mondo, perciò lo spirito si dice soggetto a questa legge di dipendenza nel suo sviluppo dal mondo, legge cosmologica. Questa legge adunque si riduce a quello che abbiamo già indicato, cioè che il reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale sua propria. Ma in questa legge sono da considerarsi due cose: La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi, uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ». La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così: « Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale, in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e cessano prestamente ». Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge. Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova fare le seguenti osservazioni: Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni reali attirano a sè unicamente l' attenzione che nella percezione s' acqueta, altri all' incontro muovono il ragionamento . I reali, che muovono il ragionamento e non la sola percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento; il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine; dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa in atti molteplici. I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che, data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento, a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi. Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi, e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre il pensiero e l' azione. Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace, è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino, egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull' altrui. Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo, aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte della legge che noi esponiamo. Niuno di quelli che sogliono osservare la maniera di operare dell' uomo negherà questo fatto. Ma qui si presenta una curiosa ricerca. Noi abbiamo veduto: 1 che il movimento non è continuo, ma che si fa per mutazioni istantanee di stato a stato, ciascuno dei quali stati dura un tempuscolo; 2 che ai sentimenti eccitati precedono o certo corrispondono dei movimenti extra7soggettivi nella fibra. Ora altro è il sentimento, altro la mutazione di un sentimento ad un altro; questa può farsi in un istante, quello deve avere qualche durata. Il sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre) non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso principio senziente che dura. In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano, e non il movimento (1). In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee, perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento; 2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante, ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante, ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi, fra l' uno e l' altro dei quali rimarrebbero degli intervalli senza sentimento; il che è al tutto opposto al fatto dell' esperienza. Nè si può dire che tale moltiplicità e tali intervalli sieno in ogni sentimento senza che noi li avvertiamo, perocchè, qualora la cosa così avvenisse, noi dovremmo assai più facilmente accorgerci degli intervalli di un sentimento all' altro che avrebbero durata, che non sia degli stessi sentimenti che non ne avrebbero alcuna; sicchè tutti quei sentimenti, presi insieme, durerebbero meno di un solo intervallo, come la niuna durata è meno di qualsiasi minima durata. Oltracciò la ragione per la quale non avvertiamo certe cose, che passano in noi, si è perchè noi siamo occupati e distratti da altre più sensibili, che attirano e legano la nostra attenzione razionale. Ora nel detto caso la cessazione del sentimento che durerebbe si dovrebbe poter avvertire, anzi sarebbe più atta a tirare e tenere a sè la nostra attenzione che i sentimenti che nulla durerebbero. Perocchè è da stabilire che « tutto ciò che l' uomo sente e tutti i passaggi di un sentimento ad un altro sono per sè avvertibili », ed è solamente accidentale che non s' avvertano per la ragione detta. Finalmente altro è non avvertire ciò che vi è, altro avvertire ciò che non vi è. Al primo siamo soggetti per distrazione, al secondo no. Laonde rimarrebbe inesplicato come noi avvertiamo la durata dei nostri sentimenti, se questa durata non fosse. Anzi dobbiamo dire: « noi l' avvertiamo, tutti gli uomini l' avvertono, dunque vi è »; se ella non fosse, non la potremmo avvertire. E` dunque da conchiudere con questa bella ed importante proposizione, che dichiara non poco la natura del sentimento animale: « Le sensazioni e gli altri sentimenti eccitati non hanno per loro termine il movimento della fibra, cioè la mutazione di luogo o di stato delle parti che compongono il sentito esteso, ma hanno per termine lo stesso sentito esteso; dal movimento però delle parti dell' esteso, e dalla pressione e confricazione reciproca di esse, consegue che l' esteso sia sentito in altro modo e con maggiore vivacità »(1). Ora poi una cosa prova l' altra: il fatto della durata del sentimento eccitato prova l' impossibilità del moto continuo, come suo termine; il moto continuo non ha alcuno stato o luogo durevole, dunque non può essere termine del sentimento. Laonde è a dire che le mutazioni, che accadono nel moto della fibra, possono essere eccitatrici (a loro modo) del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione della fibra) non duri. Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura. Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale, tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero, cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale, da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci. I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono principalmente i seguenti; ella spiega: Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare soggettivamente (1). Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo. Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento, ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine , ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell' ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine eccitatore. Non essendovi dunque in noi percezione di alcuna sostanza incorporea se non della nostra propria, la quale non si rende termine eccitante la nostra attenzione se non in quanto è unita al corpo, indi avviene che siamo inclinati a concepire ed immaginare le altre sostanze di quella natura che è il termine della nostra, cioè di natura corporea. Perchè le astrazioni hanno bisogno di segni, o naturali o artificiali, per pensarsi e per ragionare con esse o sopra di esse. Perchè le sostanze spirituali e gli astratti nelle lingue più antiche sono sempre significati con vocaboli tratti da cose corporee. Così anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas , che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare la forza della legge. E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni, siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della mente (2). Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero, tanto per sintesizzare, quanto per analizzare. Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica, quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli; ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè l' avvenimento e il luogo non hanno connessione naturale ed essenziale, e però si trova un segno unico commemorativo di entrambi. Questo istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare): « questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim , cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5); ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini con sapienza scrisse: [...OMISSIS...] Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi, giacchè assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi dei sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri, che difficilmente si osservano se non dai più sagaci osservatori, qual' è un Tommaseo, e pure si sentono dal comune degli uomini, i quali si accorgono unanimi se nell' uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà del parlare; nè però sanno dire con distinzione che cosa manchi, e se vogliono dirlo, talora sbagliano, e se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano fra gli altri quest' ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti, la quale pluralità , non essendo un reale, ha bisogno di un segno reale per essere ritenuta e marcata. Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo: a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati, come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione. Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può avere di continuo presenti. E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti, in quanto che non operano come reali immediatamente sopra di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano le leggi della natura. Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità , già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione, acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad un tempo ed analitico. Coll' invenzione adunque della lingua l' uomo: 1) - Soddisfa ad un bisogno proprio del suo pensiero; e perciò la lingua non s' inventa solamente per comunicare altrui i propri pensieri, ma per fissare il pensiero proprio, dirigere, fermare e concentrare la propria attenzione. 2) - Soddisfa altresì al bisogno di comunicare i propri pensieri ai suoi simili, fornendo loro quello stesso facile mezzo di pensare, cioè di dirigere e concentrare la propria attenzione, che adopera per aiutare a ciò sè stesso. Nel che è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell' uomo l' istinto, come diremo parlando di quella specie di leggi psicologiche del pensiero, che rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati positivamente i primi elementi. Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria, nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione: La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente; perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima. Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza, si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere ideale. La seconda cosa a spiegare circa i fatti della memoria si è perchè alcune cognizioni o notizie ci riappariscano da sè stesse al pensiero, senza ed anche contro nostra volontà, e così talora diano luogo a quelle che diciamo poi distrazioni, tentazioni, ecc.. La ragione ne è la medesima: posto il principio che le notizie e cognizioni che in noi stanno, richiamano e tengono la nostra attenzione ogniqualvolta sono segnate, ossia legate a qualche reale, siccome immagini, sentimenti, corpi esterni, ecc., e posto d' altra parte che i reali, a cui sono legate, si presentano a noi senza ed anche contro volontà nostra, come quelli che dipendono dal gioco dell' animalità e delle animali potenze; è manifesto che molte notizie obliterate ci devono da sè ritornare al pensiero, e attirare a sè l' attenzione nostra cogitativa secondo le leggi dell' istinto e delle abitudini, e talora anche farci violenza, quand' elle sieno più forti a trarre e tenere l' attenzione che non sia la volontà nostra a ritrarnela. E quale sia la forza e l' indipendenza delle immaginazioni e dei sentimenti animali, ogni giorno si prova per esperienza; il che è una grande umiliazione dell' uomo, che risiede nel principio razionale, perocchè questo principio, che è l' uomo, vedesi così sgagliardito che, dovendo egli per ogni buona ragione precedere e imperare, in quella vece segue siccome schiavo incatenato ed ubbidisce, renitente indarno e contendente. La terza cosa a domandare si è perchè alcune notizie si richiamano con facilità al pensiero, ed altre difficilmente. - Veduto che la presenza dei sentimenti reali , onde si segnano le notizie, non dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto. Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi del tutto impossibile. Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza, noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti (pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno attualmente presenti in atto; 2 debbono poi altresì avere una connessione più o meno felice e di spontaneo passaggio, secondo la qual condizione il principio razionale più o meno facilmente riesce a ridurre in pristino i movimenti animali e i sentimenti annessi che cerca, siccome segni delle notizie che gli bisogna rammemorare. Per legge cosmologica dell' operare del principio razionale intendemmo quella che gli viene imposta dall' azione delle cose create, dal mondo o, come direbbe Fichte, dal non7io . Nel quale concetto del mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto, benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere, è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale, è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti. Ma qui ci si domanda se l' animalità appartenga all' anima conoscente, a cui somministra l' immediata materia. La quale questione deve sciogliersi prima di entrare a parlare della legge dell' armonia, acciocchè si sappia se questa legge, in quanto è cosmica, debbasi derivare non solo dall' ordine delle cose esteriori, ma ancora dall' ordine intrinseco all' animalità, come formante parte di quel mondo che si considera contrapposto al principio razionale. Rispondiamo che l' animalità, come tale, non appartiene all' anima conoscente, la quale significa principio, quando quella non è rispettivamente che termine, in quanto cade nella percezione fondamentale. Laonde l' armonia, che il principio razionale trova nel suo termine e ond' egli stesso partecipa, gli viene non solo dall' armonia che vi è nelle cose esterne diverse dai sentimenti animali, ma dall' armonia che sta nella stessa animalità. Gli antichi pensatori della scuola italica avevano conosciuto l' esistenza della legge dell' armonia nelle operazioni del principio razionale, ma l' avevano creduta piuttosto una legge unicamente psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva, neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva, ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale. Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine , che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione delle parole da noi esposte. Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] . Ora poi, dall' essere conosciuto che l' armonia, che dirige segretamente il principio razionale come pure il principio senziente, viene a questo dal termine e non l' ha in sè, rimane abbattuto questo errore degli antichi, i quali attribuivano unicamente all' anima, che è il principio, l' origine dell' armonia; il quale errore sospinsero così innanzi che molti pronunciarono nell' armonia stessa consistere la natura dell' anima (2). L' animalità, adunque, non è il principio razionale, rispetto al quale ha ragione di termine, e però appartiene al mondo in contrapposto dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia, che nell' animalità si contiene. Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova, proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale, e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale, e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica, appunto perchè la stessa anima sensitiva, che è il principio rispetto all' esteso, termine suo proprio, è termine rispetto al principio razionale, che percepisce il senziente nel sentito; e però appartiene anch' essa al mondo contrapposto al principio razionale. Vediamo dunque come l' anima sensitiva sia in parte fonte dell' armonia che trovasi nell' animalità, benchè di questo stesso argomento dovremo parlare più a lungo in appresso. In primo luogo l' esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll' unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1). In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo giaccia l' unità del tempo. Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell' animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria all' armonia, nel tempo il numero . E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero, se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale) la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi. Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità , l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico; quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell' anima col mondo. Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura cosmologica. Ma come accade che nel sentito sia la pluralità ridotta ad unità? ond' ella viene? qual parte tiene in formarla il principio, quale il termine? Il termine del sentimento corporeo è un solo esteso continuo, e non più; poichè se l' esteso corporeo si dividesse in più continui, già si moltiplicherebbero i principŒ senzienti. Qui abbiamo intanto una unità di continuo. Ma posciachè il continuo ha dei limiti che costituiscono una specie di pluralità, indi la domanda: onde i limiti (1) che determinano la grandezza e la forma di questo unico continuo? - E la risposta si è che questi limiti non vengono dal principio senziente, indifferente per sè ad ogni estensione e figura di sentito; dunque essi vengono dalla virtù esteriore cosmica. Noi abbiamo già detto che vi è un' estensione (di cui sono condizioni o limiti la grandezza e la forma), come pure una virtù sensifera extra7soggettiva (2), il cui principio deve certamente essere inesteso (principio corporeo). Oltre la moltiplicità della grandezza , della forma , dei limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione: come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione. E dicemmo da questo, che lo stesso sentimento fondamentale esteso non è al tutto uniforme nella qualità, ma variato e per così dire screziato; il che si può congetturare dover essere (benchè non credo che l' avvertenza dell' animo possa discernerlo, a cagione dell' indole del sentimento fondamentale, poco e quasi nulla atto a tirare e tenere la nostra attenzione intellettiva) (1) dal diverso grado di sensitività eccitata, di cui sono fornite le diverse membra del corpo e i diversi organi sensorii. Perocchè, essendo una parte più sensitiva o diversamente sensitiva all' eccitamento, pare che vi debba essere un primitivo sentimento diverso, nel quale ogni parte si senta in vario grado e in diverso modo. A ragion d' esempio, io credo che il nervo ottico abbia un sentimento fondamentale diverso, voglio dire di tutt' altro tocco delle altre parti sensibili del corpo, il quale sia appunto il sentimento del nero ; perocchè definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero. Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi, le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione, s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche. All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo sentito, il quale può avere maggiori o minori intervalli, risultare da molecole di diversa forma, una molecola attenersi e premere sull' altra con forza maggiore, le molecole specifiche essere più o meno involute, e da altre sì fatte condizioni dei tessuti, onde anche risultano i vari organi. La moltiplicità, che si scorge nel sentimento di eccitazione, ci porge una terza domanda, cioè: Onde nasce la varietà delle diverse parti del sentimento eccitato, la quale varietà è evidente, costituendo essa anche la varietà delle sensazioni figurate, diverse d' indole e d' intensità? nasce dall' anima o dal mondo? - Fu veduto che tali varietà eccitate nel sentito rispondono al movimento delle molecole componenti il sentito; il qual movimento parte viene determinato da stimoli esterni, parte dall' attività del principio stesso sensitivo; onde la causa di questo vario movimento deve appellarsi parte cosmologica , parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito, psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo spirito stesso è fornito (1). Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura, che è o sedata e primitiva, o eccitata. A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine , essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima. La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera, è ancora azione cosmologica. Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto psicologica (2). L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente l' atto del sentire, è atto del principio senziente, il quale è il soggetto unico di tutte le sensazioni. La sensazione pura, adunque, dipende dal mondo esterno come da suo termine, ma non è atto del mondo esterno, sì dell' anima. Ora la sensazione pura, che chiamerò il tocco della sensazione per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione, cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore, ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora, quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado, per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo. Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime, sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti, i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno; i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe. Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva, come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di questi. Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale, le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà. Il principio razionale converte in ente il sensifero e lo stacca dal senso; senza l' opera di tal principio, il sensifero sarebbe un mero agente dimorante nel senziente, l' azione di un ente, non un ente. Ma poichè il principio razionale cangia in enti i termini sensiferi delle percezioni sensitive, perciò accade che ogni organo sensorio spazii in un mondo suo proprio. Ciascuno di questi mondi è affatto diviso, prescindendo dall' estensione, e neppure simile in quanto al tocco specifico del sentimento, da ciascun altro mondo proprio di un altro sensorio. Che se il principio razionale confronta questi diversi mondi e se ne fabbrica uno di tutti, ciò egli fa per via di analogia e non per vera similitudine che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell' identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva (esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene (percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo: che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo; e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo, cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per esempio dell' occhio, colla sensazione di un altro sensorio, per esempio del tatto. Allora si paragonano due universi, non le parti dello stesso universo; si paragona l' universo veduto coll' universo toccato, poichè nella sensazione totale dell' occhio, che noi chiamiamo specchio visivo, vi è tutto l' universo ottico, cioè tutto ciò che può vedere l' occhio con uno sguardo, e la ritentiva e l' immaginazione con più sguardi. In questo universo ottico vi è la mano che tocca e l' oggetto toccato; e l' una e l' altro colle loro proporzioni, sicchè se l' oggetto toccato è più piccolo della mano, anche nello specchio visivo compare più piccolo, e se è più grande, compare più grande. Di più, la mano e l' esteso toccato tengono la proporzione debita a tutti gli altri oggetti circostanti, che nello specchio visivo si trovano; e però l' occhio fa discernere al principio razionale tutte queste proporzioni, e il principio razionale sa conseguentemente dire a sè stesso quanto è più grande quella colonna, cui la mano tocca, della mano stessa, e quanto il tempio della colonna, e quanto il monte, che gli sta accanto, del tempio, ecc.. Il perchè, se la mano è toccata tutta da un corpo, il principio razionale, guidato dall' occhio, sa dire che « quel corpo è così esteso come è estesa la sensazione di tutta la mano »; poichè tutte queste proporzioni sono segnate nei colori sentiti nella retina come sopra carta geografica. Ma al di là di tutto questo, al di là dello specchio visivo, di questa carta geografica, l' occhio non vede altro; vede dunque la sola carta geografica, questa è il suo universo, e però egli non può paragonare questa carta geografica con altra cosa maggiore di lei, nè trovar cosa che sia maggiore di lei, perchè altra non ne vede. Quanto è dunque grande lo specchio visivo? Altrettanto quanto è grande l' universo, cioè l' universo visivo, perchè parlando del detto specchio non vi sono altri universi. Quando dunque l' anima dirige la mano ed il piede colla scorta dell' occhio, allora la mano e l' esteso che vuol prendere, e il piede e la via che vuol percorrere, e gli spazi circostanti sono tutti disegnati nell' universo visivo, nello specchio ottico; e questi disegni sono il principio dei movimenti regolati, che fa la mano od il piede ad impero dell' anima. Quei segni adunque, che occupano una parte piccolissima della retina e che rispondono distintissimamente alle proporzioni della mano, del piede, ecc., contengono sì fattamente il principio dei movimenti della mano e del piede che basta che l' anima voglia, ella con solo quei segni accosta realmente la mano all' oggetto che vuol prendere, e rivolge i passi per la direzione che brama. Si consideri bene che nè la strada, nè l' oggetto, nè la mano, nè il piede è nell' occhio; ma che la mano ed il piede, che si deve muovere, comunica per via dei nervi sensorii o motori col cervello; e che nel cervello termina pure il sensorio ottico, che rappresenta la mano ed il piede; si consideri che il principio animale unifica in sè la mano ed il piede veduto col sensorio ottico, sentimento passivo, ed il sentimento attivo dei nervi motori; si consideri che i movimenti della mano e del piede incominciano da movimenti piccolissimi del cervello per imperio dell' anima, i quali minimi movimenti si propagano, per la legge di spontaneità, ai nervi ed ai muscoli. Se dunque vogliamo dire che la sensazione visiva occupa un minimo spazio del cervello, potremo dire egualmente che l' anima, diretta o anche eccitata da quella sensazione, basta che ecciti un minimo movimento nel cervello, perchè si muova la mano od il piede, che nel sentimento soggettivo sono intimamente uniti con esso. Ora non è difficile concepire come una sensazione occupante uno spazietto minimo (nel sensorio ottico), quale sentimento passivo, dia principio al suo corrispondente sentimento attivo in un altro spazietto minimo (nelle radici dei nervi motori); nel quale spazietto minimo iniziandosi i movimenti, questi poi, per la legge che « l' animale tende a conservare ed accrescere i moti a lui grati », si vadano aumentando fino a muovere la mano ed il piede nella direzione determinata dalla sensazione visiva. Questo altro non dimostra se non l' ammirabile armonia, che pose il Creatore nella composizione dell' animale. Ma come accade, si dirà, che noi pur ci accorgiamo che l' universo visivo, essendo limitato all' estensione della retina, sia minimo rispetto all' universo reale? - Questo non può accadere mediante il paragone fra le grandezze date dal tatto e quelle date dall' occhio, perchè le grandezze date dal tatto vanno sempre d' accordo con quelle date dall' occhio, e quelle date dall' occhio vanno in perfetto accordo con quelle date dal tatto, sicchè le une commisurano le altre. In questo confronto si può bensì rilevare a che misura data dal tatto corrisponda la misura data dall' occhio, o a che misura data dall' occhio corrisponda la misura data dal tatto; ma non si arriverebbe mai a conoscere se una sensazione fosse più estesa assolutamente dell' altra. Per esempio, l' occhio mi dimostra una statuetta nel tempo che la mano la tasta. L' uomo dalla contemporaneità di queste due sensazioni altro non può indurne se non che l' oggetto, veduto dall' occhio, è così grande che produce tale ampiezza di sensazione nella mano; o viceversa l' esteso, tastato dalla mano, è così grande che adduce tale ampiezza di estensione visiva. Le sensazioni dunque dell' occhio e della mano, divenendo misura l' una dell' altra, non possono mai dare misure discordi, ma debbono dare misure scambievolmente commisurate, che sono misure di proporzione, non misure assolute. Come è dunque, per ripetere la domanda, che noi pure ci accorgiamo che la sensazione visiva di un esteso occupa meno spazio della sensazione tattile del medesimo esteso? Qui si tratta di trovare la ragione fra lo spazio, che occupa la sensazione di un sensorio, e lo spazio, che occupa la sensazione corrispondente di un altro sensorio. Ora questa proporzione non esiste fra i due sensorii, perchè nè l' uno nè l' altro somministra una misura comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico; ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo. La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo, tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare, tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina, non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei. Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente, soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio, ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui in questa relazione con noi non è rappresentante, ma rappresentata; è rappresentata nella retina nostra, ella occupa nella retina nostra uno spazietto piccolissimo e diventa una minima parte del nostro specchio visivo, del nostro visivo universo, diventa un' estensione assai più piccola dell' occhio altrui che io considero, più piccola ancora del capo o del corpo altrui, e via più piccola dell' interno universo visivo, che io sento nella mia retina. La mia retina, adunque, sentita soggettivamente è ampia come lo spazio dell' universo, e la retina altrui, da me sentita extra7soggettivamente, non è più ampia che una piccolissima particella dell' universo. Ma accade il somigliante rispetto a colui, la cui retina io miravo; la retina di lui, come sensorio in atto, è lo spazio universo, e la retina mia è una minima particella di questo spazio. Ciascuno può anche guardare la retina sua propria in uno specchio, e in tal caso la stessa retina acquista verso del riguardante le due relazioni: come sentita soggettivamente è l' universo visivo, come veduta, ossia sentita extra7soggettivamente, è un minimo spazietto dell' universo medesimo. Io conosco poi che la retina sentita soggettivamente come sensorio in atto, e la retina veduta, cioè sentita extra7soggettivamente come termine esterno, è identica, osservando che, coprendo quella retina che vedo come oggetto esterno, cessa la visione, cioè cessa la retina di essere sensorio in atto. Che se io voglio misurare la grandezza degli oggetti col tatto, fra questi oggetti trovo ancora la retina; ed allora il paragone delle sensazioni del tatto stesso mi dice che la retina occupa un piccolissimo spazietto nell' universo tattile. Provo poi che la retina toccata è quella stessa che fa l' ufficio di sensorio, accorgendomi che al sovrapporle la mano ella cessa di vedere. Ora questi fatti confermano quanto abbiamo detto più sopra, cioè che lo spazio continuo è nel principio senziente; e l' uomo non misura la grandezza degli oggetti esteriori se non applicando loro lo spazio che ha in sè, cioè lo spazio in cui termina il proprio sentimento; onde dai diversi modi, nei quali quei corpi si commisurano allo spazio soggettivo e fondamentale, ricevono diverse misure. Ma poichè i corpi veduti non toccano propriamente l' occhio, ma sono disegnati in esso dalla luce che vibrano, quindi la percezione degli occhi è percezione di segni corrispondenti ai corpi e non dei corpi stessi. Ma la grandezza di questi segni, benchè sì piccoli, sembra eguale alla grandezza dei corpi percepiti col tatto, perchè queste due maniere di sentire, come dicevamo, non hanno una misura comune alle loro grandezze rispettive, ma ciò che hanno di comune è la proporzione delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio razionale paragona. Rimane tuttavia a cercare come lo spazio occupato dalle sensazioni ottiche appaia così separato dallo spazio totale del sentimento fondamentale. Chè se non apparisse separato, già vi sarebbe la misura comune, nè lo spazietto della retina, dove sta il sentito, darebbe un mondo a parte, ma altro non sarebbe che una particella dello spazio totale del sentimento fondamentale. Ora questo avviene per più cagioni: Lo spazio, termine del sentimento fondamentale, non è misurato nel sentimento stesso, ma solo viene misurato poscia dalle sensazioni esterne, figurative e superficiali, appartenenti ad organi speciali; i confini non formano parte del sentimento fondamentale, e la sua continuità non ha traccia di linee o figure di sorte. Ma quei confini sono le stesse sensazioni superficiali, che appartengono al sentimento eccitato in organi speciali. Quindi accade che se vi è una sensazione superficiale, che stabilisca un confine limitato al sentimento superficiale, l' estensione di questa sensazione è unicamente quella che si sente; ella non si può paragonare coll' estensione totale del sentimento fondamentale, perchè questa estensione totale non si sente a quel modo, non esiste per noi facienti uso di quegli organi, che soli dànno i confini e però le misure determinate. Così quando l' uomo sente il piccolo spazio della retina dove la luce ha eccitato il sentimento, quel piccolo spazio è sentito del tutto isolato dal rimanente spazio superficiale del corpo umano, perchè in quel solo spazietto è l' eccitamento e non nel resto. Di più, quand' anche avvenisse che nello stesso tempo che la retina è eccitata dai colori, le parti circostanti fossero eccitate da stimoli loro propri, sicchè dessero anch' esse una sensazione superficiale; non avverrebbe ancora tuttavia che l' uomo sentisse quelle sensazioni disposte in una sola superficie continua, perchè vi è intervallo e separazione fra il nervo ottico e i nervi circostanti, che, venendo eccitati, ci fanno sentire; onde la sensazione superficiale riterrebbe delle lacune, che la separerebbero in più sensazioni, ognuna delle quali misurerebbe sè stessa, ma non l' altra, perchè niuna di esse sarebbe parte di una sensazione superficiale maggiore, la quale è condizione per essere misurata, giacchè nel caso nostro le parti non si misurano altrimenti che mediante il loro rapporto col tutto. Ancora, il tocco della sensazione riuscendo diversissimo, e al sommo vivo e distinto quello della luce, la retina richiamerebbe tuttavia a sè l' attenzione, e darebbe una superficie diversa da quella che le sarebbe contigua. Finalmente, e questo nasce principalmente dall' ingerenza del principio razionale, l' attenzione dell' uomo non si ferma alla sensazione soggettiva della retina, e neppure alla sensazione extrasoggettiva, ma va direttamente agli oggetti esterni rappresentati nello specchio visivo, e crede di percepirli immediatamente. Onde cessa la possibilità di paragonare la sensazione superficiale della retina colla superficie totale del corpo umano, perchè a quella non si attende, ma si attende agli oggetti, di cui ella presenta i segni, che ne formano la espressione. La seconda e la terza delle ragioni da noi date meritano qualche maggior considerazione. E` da riflettersi che la diversa organizzazione delle parti sensitive del corpo umano fa sì che una di esse sia suscettiva di un eccitamento, e un' altra di un altro diversissimo, onde se ne hanno sensazioni di un tocco così diverso come è quello proprio di ciascuna specie delle sensazioni dei cinque organi, le quali, rispetto al tocco, in nulla si assomigliano, giacchè niuno potrebbe trovare similitudine fra il colore, l' odore, il sapore, ecc.. Di che tali organi si chiamano altrettanti sensorii differenti. Ma la natura volle di più separarli in modo che le sensazioni degli uni non si continuassero alle sensazioni degli altri, le sensazioni dell' uno di essi occupassero uno spazietto discontinuo alle sensazioni di un altro; ed essendo discontinuo, non vi è uno spazio unico in cui cadano le dette sensazioni, mediante il quale si possa vedere quale parte di spazio occupa ciascuna di esse. Quindi la estremità del nervo acustico, che riceve l' impressione dell' aria vibrata, è in un luogo tutto differente da quello occupato dall' estremità del nervo ottico, che riceve l' impressione della luce; e così si dica degli altri sensorii speciali. Neppure si può dire che tali nervi o sensorii si continuino con parti che appartengono al senso del tatto, perocchè ciascuno è protetto e vestito di parti insensate; e quand' anche fossero sensate, elle o non sarebbero eccitate tutte contemporaneamente, o l' eccitamento darebbe una sensazione così debole che non si osserverebbe all' atto della sensazione vivacissima del sensorio con cui confina; onde ancora lo spazio occupato dalla sensazione di questo sensorio sarebbe isolato e non appartenente, come parte, a tutto lo spazio superficiale del corpo umano. Senonchè vi è discontinuità anche negli spazietti eccitati in uno stesso sensorio. Quando io considero come l' orecchio senta distintamente diversi suoni venienti da diversi punti, per esempio i suoni dei vari strumenti di un' orchestra, allora debbo credere che i raggi sonori vadano a colpire ed eccitare diverse parti del nervo acustico. E converrebbe forse studiare i diversi ingegni di cui si compone l' orecchio, di cui l' uso appieno non si conosce sotto questo aspetto, cercando se uno dei loro fini sia quello di tenere separati i suoni, facendo che i raggi sonori eccitino il nervo in parti diverse (1). I fisici spiegano benissimo come le onde sonore non si confondano fra loro pel principio da loro detto della « sovrapposizione dei piccoli movimenti »; ma questa non basta a spiegare il fenomeno delle sensazioni distinte, che non avviene nelle onde aeree, ma nel sensorio. Supposto poi che le onde sonifere, restringendosi ed appuntandosi, quasi come fa la luce col rifrangersi o riflettersi nelle lenti, vadano ad eccitare punti diversi della membrana acustica, è chiaro che non tutta la detta membrana è eccitata, ma solo quei punti di essa che vengono percossi; e ciò perchè l' onda non parte da ogni punto del corpo sonoro, ma il corpo sonoro che vibra produce un' onda sola, di cui approdano all' orecchio alcuni raggi, che finiscono in un solo punto, a differenza di ciò che fa la luce, la quale è mandata da ogni punto del corpo luminoso come da centro diverso. Onde la retina è tutta eccitata, e il suo eccitamento è vario come sono vari i punti dei corpi, che le riflettono la luce; il che fa la sensazione visiva, attissima a rappresentare in sè i corpi disegnati con proporzioni, o piane o prospettiche, accuratissime; laddove tutt' altro avviene nell' orecchio, che riceve suoni isolati, perchè non tutta la membrana acustica è colta, ma solo quei punti dove urta il raggio sonifero, rimanendo nella stessa membrana diversi spazietti non eccitati, e però privi della sensazione sonora (2). La spiegazione della diversità del tocco delle sensazioni eccitate non sarebbe perfetta, se non aggiungessimo qualche cosa intorno alla relazione che passa fra quel tocco e i movimenti extra7soggettivi e vibratorii delle molecole, di cui constano le fibre nervose. In primo luogo si ricordi che la causa efficiente delle sensazioni non sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato, rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è. In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione, ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che, senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi con più o meno di pressione alle loro superficie. Ciò posto, è chiaro: Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall' anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale, ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell' unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo, tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione delle parti ed i loro confini. Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali, che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1); al qual numero di vibrazioni deve rispondere un pari numero di scosse, ossia di vibrazioni nelle molecole elastiche dell' organo sensorio, che da esse è urtato. Ma la ragione perchè supponendo che 24 vibrazioni di un corpo sonoro producano il tono do , ce ne vogliano 27 a produrre il re , non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica. Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1). Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento, diciamo che questi elementi psicologici sono: 1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità; 4 il tocco del sentimento. Ma noi dobbiamo investigare più addentro come sorga l' armonia nell' animalità; perocchè, quantunque fin qui ne abbiamo indicati gli elementi, e l' origine o psicologica o cosmologica di ciascheduno, tuttavia non abbiamo ancora esposto il modo come ella sorge ed è formata. Il tempo e lo spazio è quasi la sede della moltiplicità, che è nel senso animale; a questa l' anima dà unità. Ma non ci sarebbe armonia, se non ci fosse diletto, e questo senso dilettevole è da cercarsi nel tocco del sentimento. Ciò non basta ancora a compire il concetto dell' armonia sensibile, perocchè ogni sentimento singolare ha il suo tocco proprio, ma l' armonia non può risultare che da più sentimenti. Dall' anima viene anche l' unità dilettevole di questi vari sentimenti. Acciocchè dunque vi sia armonia non basta che l' anima dia la sua unità allo spazio che è la continuità, non basta che la dia al tempo che è la durata; ma deve di più dare unità alla moltiplicità dei sentimenti; l' anima gliela dà, sieno essi di vario o del medesimo tocco (1), i quali sorgono nel seno del sentimento sedato fondamentale. Nè qui è ancor tutto; l' anima a fare che insorga l' armonia, deve dare a più sentimenti non una unità qualsiasi (perocchè ella dà sempre e necessariamente qualche unità ai sentimenti dei quali ella è l' identico soggetto), ma una unità dilettevole ; ed è questa che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non manca mai per l' identità del soggetto senziente. Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo ed al razionale. Esse sono le seguenti. La prima si annunzia così: « L' ente ama quell' atto, a cui egli è avviato, e riceve molestia, se incontra qualche impedimento che glielo mozzi per via; trova all' opposto diletto, se può spiegare tutto il suo atto fino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe ». Diciamo « l' ente ama quell' atto a cui egli è avviato », perocchè se non avesse preso già l' avviamento ad un atto, egli non riceverebbe molestia dall' andarne privo; solo gli mancherebbe il diletto, che ogni atto d' un ente sensitivo racchiude per propria essenza. Diciamo « sino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe », perchè quando un ente è in via ad un atto, il suo moto è limitato di specie e di grado dalla propria virtualità, e quindi ha un fine naturale dove il moto si quieta. Applicando questa legge al principio sensitivo, cade sotto di essa la spiegazione che noi davamo del dolore; il principio animale volto all' atto di porre il sentimento fondamentale nel modo più pieno che gli sia possibile (istinto vitale), sta male se di ciò far pienamente gli è conteso, e questo suo star male è il dolore. La seconda legge riceve questa espressione: « L' atto, a cui un ente è avviato, talora è molteplice per successione, cioè risulta da una serie di anelli, i quali si possono considerare come un atto solo per l' unità dell' ente, che spiega la sua attività in più potenze comunicanti. In tal caso l' ente tende a percorrere tutta la serie di quegli anelli fino all' ultimo, e il venire arrestato per via gli è molesto ». Diamo un esempio di questa legge, togliendolo dall' operare del principio razionale, a cui è connesso e subordinato il principio sensitivo. Il principio razionale ha un atto composto di tre anelli: 1 giudizio, 2 affetti, 3 movimenti esterni; e talora di quattro: 1 giudizio, 2 affetti, 3 decreti, 4 atti esterni. L' attività di quel principio non suole dunque fermarsi al semplice giudizio, ma a tenore del giudizio (primo anello) produce gli affetti (secondo anello) verso la cosa giudicata buona o mala, ecc.; nè si ferma qui; ma o interpone decreti ed operazioni esterne conseguenti, o gli affetti producono istintivamente i movimenti nel corpo corrispondenti (terzo anello). Fra i movimenti corporei vi sono quelli dei suoni vocali; ed è perciò che l' uomo è inclinato a far seguire a un vivo sentire l' emissione della voce, naturale finimento della sua attività sensitiva tratta in movimento. Questi suoni poi, legati intimamente come ultimi effetti col pensiero e coll' affetto, diventano segni naturali esterni, dai quali si può dagli altri uomini, che esperimentano lo stesso, conoscere ciò che l' uomo pensa e sente dentro di sè. Ma prima che passino a servire a questo ufficio, essi sono lo spontaneo e naturale finimento dell' atto sensitivo e razionale dell' uomo, il quale vuole completarsi, vuole andare fin dove egli può. Il che si vede manifesto principalmente quando l' uomo, mosso dentro da un grande sentimento, manda fuori qualche grande suono od anche qualche grande espressione, che non ha propriamente legame col suo pensiero o col suo sentimento, se non perchè quello sfogo è l' ultimo termine dello stesso; per esempio, nella collera uscirà in una bestemmia, in una imprecazione a tutt' altro che a ciò con cui si adira, o pronuncierà una parola sconcia o sonante anche priva di significato, come «babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione, come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.; onde fu bisogno una legge positiva, colla quale si vietasse agli uomini di nominare invano un nome sì augusto, affine di raffrenare l' umano istinto, che non poteva quasi a meno di pronunciarlo. E così si fa servire allo stesso sfogo il pronunciare di una cosa grande qualsiasi, come in italiano diciamo « Poffare il cielo, poffare il mondo! potenza in terra! » ecc.. Ed il giurare pel capo di alcuno o per altra creatura è come un divinizzarla, onde anche per questo fu vietato. I quali sfoghi, che terminano in una voce, conviene osservare che appartengono al principio razionale, a cui il sensitivo si continua; ed è perciò che, qualunque sia la voce o l' espressione che si pronuncia, intende sempre chi la emette di dire qualche cosa, non semplicemente di fare uno scoppio sonoro, intende di dire e segnare una cosa grande oltremodo, anche ove per sè la voce nulla significasse; nel qual caso è voce nuova, inventata a bella posta per ultimare l' atto di quel pensiero, il quale non può stare chiuso, ma vuol rendersi sensibile, legarsi ad un reale, che lo renda più vivo e più consistente a lui stesso che l' ha; ufficio che, come abbiamo veduto, sogliono prestare i reali immaginari o in generale sensibili, rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio » sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia. L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare. E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango, e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra, e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo; ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi mali col farne degli altri a sè stesso, coll' aggiungersene di nuovi? Non è questa la causa del suo incrudelire seco medesimo; ma si è quell' atto interno di dolore veementissimo, che non può tenersi e fermarsi al primo passo, ma vuole trascorrere la sua via e spiegarsi in tutta la naturale sua protensione; vuole ingrandirsi, ed ultimarsi, e segnarsi, e quasi lasciare di fuori nella straziata persona di sè un monumento; onde i mali, che fa l' uomo in tale condizione a sè stesso, gli sono più agevoli a tollerare che agevole non gli sia il rattenere quell' istinto, lasciando dimezzato l' atto del suo dolore cominciante nel pensiero e finiente nel corpo, per l' unità del soggetto intellettivo7animale, per quel nesso dinamico che lega insieme le varie potenze, e il moto dell' una fa trascorrere e continuarsi nell' altra. Laonde, anche quando l' animo esultante di gioia induce l' uomo a gongolare e trionfare nei suoi gesti esteriori, e lisciarsi, e azzimarsi, e coronarsi di rose, e banchettare, e inebbriarsi, e magnificamente e copiosamente parlare, non è a credere che egli faccia tutto ciò unicamente per trovare in cotali cose maggiore diletto; ma vi tiene gran parte l' istinto di far sì che l' atto della sua gioia interna percorra e rivolga, a così dire, tutta la naturale sua orbita, e se ne sfoghi ed esaurisca l' attività. Vero è che, come dice Seneca, parvae et lenes curae loquuntur, ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando parte che la veemenza della passione animale offende gli organi, a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo, parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione, sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado, e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra. La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa, dallo stesso istinto, che tende a far sì che l' atto stesso del dolore, già avviato, si compia e si perfezioni con quanta attività egli s' abbia maggiore; sicchè non rimangasi rannicchiato in germe, anzi ciò che è nel seme acquisti suo corpo e cresca adulto quanto mai egli può. Ed alla stessa legge deve riputarsi la causa perchè le lagrime sollevano l' infelice, a cui non è forse cosa più cara del pianto. E` l' ultimo sfogo dell' atto, senza il quale l' atto, non consumato ancora, rimane pieno di virtù e in conato di germinare. L' origine dei sacrifizi alla divinità e specialmente dei sacrifizi umani (ai quali furono surrogati quelli in cui s' immolavano a Dio le cose più care dell' uomo invece dell' uomo) deve pure a questa legge riferirsi. Il sentimento della somma umiliazione, di un Signore supremo di tutte le cose, e specialmente del riconoscersi rei di peccato in faccia a quel potentissimo, a quel Sovrano infinito, addimanda più che un atto sterile e freddo di solo pensiero; vuole spiegarsi in un atto realissimo, che, trascorrendo tutto l' uomo, lo penetri e domini; il quale atto di natura infinito, perchè rispondente al concetto di un ente infinito, l' uomo non trova come completarlo se non colla distruzione di sè, e più imperfettamente colla distruzione delle cose sue. Perocchè l' essenza del sacrificio, sia esso olocausto, o sia per il peccato, esige propriamente che l' uomo stesso ne sia vittima; gli altri sacrifizi non sono più che un surrogato a quello perfetto. Infatti nell' olocausto l' atto del sentimento muove da questo pensiero: « in paragone del Creatore la creatura è nulla, il Creatore solo è ente ». Il sentimento del nulla non si esprime sensibilmente e, per così dire, monumentalmente se non colla distruzione. Nel sacrificio per il peccato l' atto del sentimento muove da quest' altro pensiero: « la creatura, che ha offeso il Creatore, non deve esistere ». Il pensiero dell' indebita esistenza non riceve l' ultima sua attuazione se non realizzando la non esistenza, e così ancora colla distruzione. Finalmente, anche espressione di un sommo amore è il sacrifizio, perchè non essendovi atto in cui l' amore sia più intenso ed operativo che nel soffrire per la persona amata, l' amatore grande cerca questo atto come l' ultimo sforzo amoroso che di far gli sia dato; a cui massimamente è invitato, quando disperato dolore dell' amata persona perduta lo determina e già lo avvia agli atti crudeli. Quindi alla morte di Patroclo i soldati di Achille si rasero i capelli e ne copersero il cadavere; quindi le crudeltà in uso presso tutti i popoli antichi nei funerali o nelle feste pei trapassati (1). La terza legge dell' armonia, ossia della conveniente azione degli enti, si formula: « L' atto semplice o molteplice, continuato pel nesso di più potenze che lo si comunicano, dopo compiuto, non cessa sempre d' un tratto, ma rimettendo con una certa legge, per la quale quell' atto passa a stati diversi ordinati in serie successive; il qual passaggio graduato fino alla totale estinzione dell' atto, è grato al soggetto che lo fa, perchè a lui naturale, e se gli è impedito, ne riceve molestia ». A provar questa legge nell' « Antropologia » abbiamo recato l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche cosa. Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere, che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo, adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell' anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire al di fuori di esso nel detto fluido. Secondo questo concetto il nervo ottico sarebbe un fascicolo di filamenti nervosi, pieno di una sostanza sommamente elastica (e forse fluida), le molecole della quale riceverebbero l' impressione delle ondulazioni eteree, e vibrerebbero longitudinalmente; queste vibrazioni riuscirebbero simili alle vibrazioni longitudinali di una corda di violino. L' ampiezza di queste onde, la loro celerità, il loro numero, i loro incontri diversi spiegherebbero i fenomeni della visione. Primieramente i diversi colori risulterebbero dal diverso numero di vibrazioni, che opererebbero le molecole nel filamento nervoso; il qual numero sarebbe corrispondente al numero delle vibrazioni eteree. Si può avere per dimostrato che il numero delle vibrazioni eteree varia secondo i vari colori; per esempio, le vibrazioni della luce gialla sono in maggior numero delle vibrazioni di quella che eccita il colore rosso. Quanto le onde sono in maggior numero, tanto elle sono più veloci e meno ampie. Simili vibrazioni, con questa diversa velocità, ampiezza e numero, debbono sorgere nelle molecole della sostanza nervosa, e così produrre eccitamenti diversi, e così dare colori diversi; il che spiega come ciascun filamento nervoso possa esser atto a dare la sensazione di tutti i colori, pel diverso eccitamento che riceve dai diversi raggi luminosi (1). Di più, le vibrazioni poi propagate lungo il filamento nervoso dovrebbero, giunte all' estremo, riflettersi e tornare indietro secondo certa legge; e questo ritorno delle vibrazioni spiegherebbe i colori immaginari e complementari, di cui si ha l' immagine (2), al venir meno di una sensazione esterna. Infatti la vibrazione che s' infrange, urtando in un ostacolo prima di esser compiuta, ne produce una riflessa, la cui velocità deve variare dalla prima secondo una legge complementaria. Quindi ancora s' intenderebbe perchè i colori accidentali complementari sieno opposti e si annullino, cioè producano del nero invece che del bianco. Se nel filamento nervoso ritorna una vibrazione riflessa complementaria, e contemporaneamente l' occhio sia impressionato dallo stesso colore, si deve produrre una vibrazione in senso opposto, che rimetta in quiete la pupilla. Rammentiamo un esperimento noto ai fisici. Sieno collocati sopra un fondo nero due piccoli quadrati, colorati l' uno in violetto e l' altro in aranciato, i cui centri sieno punti neri. Fissati alternativamente di secondo in secondo questi due punti, e poi chiusi gli occhi, sembrerà di vedere tre quadrati, l' uno dei quali di color giallo, che è complementario del violetto, l' altro bleu, che è complementario dell' aranciato, il terzo in mezzo di colore verde, che è il colore risultante dalla composizione del giallo e del bleu. All' incontro, se i due quadrati sono colorati essi stessi di colori complementari fra loro, per esempio di violetto e di giallo ovvero di aranciato e di bleu, il quadrato di mezzo non si vede più, cioè si fa nero. Questi fenomeni sembrano potersi spiegare così: Gli assi ottici non hanno la stessa direzione quando guardano successivamente i due quadrati colorati; indi avviene che i due quadrati colorati colpiscono la retina in ispazietti diversi, sicchè ciascun occhio ha l' impressione di due quadrati, quattro impressioni. Ma due di queste impressioni battono nello stesso spazietto delle due retine, e l' una di queste due impressioni è d' un quadrato, l' altra dell' altro, perchè l' asse ottico di un occhio è diretto ad un colore nella stessa direzione nella quale l' asse ottico dell' altro occhio è diretto all' altro colore; sicchè le impressioni dei due colori vengono a battere nello stesso spazietto della retina di entrambi gli occhi. Tuttavia i due occhi, finchè fissano i quadrati, non ne veggono che due, sia perchè le impressioni non hanno tempo di comporsi, sia perchè la spontaneità dell' anima non concorre allora a produrre immagini fantastiche, sia perchè l' attenzione non è volta che a vedere i due quadrati ed ad altro non bada. Ma non così accade dei colori immaginari, che succedono appresso. Essendo impressionati tre spazietti diversi nelle due retine, questi debbono dare tre serie di vibrazioni longitudinali nei filamenti nervosi. I due spazietti impressionati di un colore solo debbono dare ciascuno per colore immaginario o riflesso il colore complementario, perchè la vibrazione riflessa deve essere complementaria di quella che s' infranse. Lo spazietto di mezzo, impressionato dai due colori contemporaneamente, deve dare due vibrazioni riflesse complementarie dei singoli colori, le quali, essendo di ampiezza e celerità diversa, ritornano senza confondersi; e perchè un filamento nervoso non può che dare una sensazione sola alla volta, proporzionata al numero delle vibrazioni delle sue molecole, perciò ne viene un colore composto dai due complementari. Ma se i due colori dei quadrati sono complementari essi stessi, allora, mentre è in corso la vibrazione suscitata da uno di essi per recarsi dal di fuori al di dentro, è chiaro che gli deve venire incontro dal di dentro all' infuori la vibrazione riflessa dell' altro colore eguale perfettamente ad essa, ma in senso contrario; e così le due serie di vibrazioni si elidono reciprocamente, e quelle che vanno distruggono alternativamente le altre due serie che ritornano riflesse. Colla stessa ipotesi sarebbe spiegato altresì perchè un colore, prima di morire nell' occhio, lasci dopo di sè altri colori; per esempio, il bianco si converta in giallo e poi in rosso, e poi in indaco, e poi in azzurro e finalmente in verde, col quale svanisce. Quando si considera che la vibrazione molecolare, che ritorna indietro dall' estremità interna del filamento nervoso, è complementaria del colore di cui la retina fu impressionata, si può concepire che di nuovo quella vibrazione riflessa complementaria s' infranga, venuta che sia all' estremità esterna del filamento nervoso; nel qual caso deve ritornare di nuovo dal di fuori al di dentro con una celerità differenziata. E questo andare e venire di onde sempre diverse deve dare i diversi colori immaginari, fino a che l' eccitamento si acqueta del tutto, o diviene la vibrazione sì piccola che non è sufficiente a produrre un colore distinto (1). Dei ragionamenti simili a questi si potrebbero fare a spiegare le leggi del meccanismo, con cui il nervo acustico ammette l' eccitamento che dà il suono. Ed io penso dover essere assai probabile che le sensazioni di tutti gli altri sensorii nascano per somiglianti vibrazioni, ed ubbidiscano a leggi analoghe. Ora, se ad ogni soggetto è dilettevole l' atto suo, e conseguentemente gli è molesto l' impedimento che ritrova per via al suo atto, o il turbamento che s' ingerisce in esso, sforzandolo ad interrompere un atto a mezzo per farne un altro, ne avverrà che all' anima sensitiva dovranno essere grate quelle vibrazioni delle molecole sensorie, che producono in essa un maggior sentimento; e però quelle vibrazioni, che procedono accordate fra loro in modo che non s' impediscano l' una coll' altra, nè si turbino o confondano fra loro, ma sì anzi quelle che vanno tutte insieme ad accrescere il maggiore eccitamento possibile. Ora questo spiega perchè alcuni colori ed alcuni toni sono armonici e grati a vedersi o ad udirsi insieme, ed altri più o meno ingrati. Deve dirsi, come abbiamo già toccato nell' Antropologia , che i colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee, il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari; quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati, costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge. Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli accordi dei suoni. Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero. Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso. Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra. L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima, che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che sente un sentimento solo risultante da più suoni successivi, il qual sentimento è quello della melodia; il che prova di nuovo la semplicità e identità in tempi diversi del principio sensitivo. Infatti l' atto del sentimento fondamentale ha una durata costante, e i suoni successivi sono modificazioni di quel sentimento identico; in questo sentimento adunque che rimane essi trovano il loro confronto, e lasciano il dilettevole armonico, che si chiama melodia. Qui di nuovo si vede come l' unità dell' armonia è di origine al tutto psicologica. Ma, secondo la legge da noi posta, questo diletto nasce all' anima essenzialmente sensitiva per la ragione che i due o più suoni successivi le sono naturali e spontanei, cioè sono tali che in essi ella spiega la sua attività facilmente, e produce atti sensitivi senza essere storpiata, impedita, costretta a mutarli prima di averli perfezionati. Perocchè: 1 vi è un diletto che viene all' anima da ciascuno dei suoi atti, essendole il sentire sempre dilettevole; e questo non è armonia, ma semplice diletto, che viene offeso quando i singoli atti le si storpiano a mezzo; 2 vi è un diletto che viene all' anima da più atti, quando l' uno di essi non disturba l' altro, anzi l' aiuta; e questo è il diletto dell' accordo, ossia dell' armonia. Infatti l' anima trova diletto, allorquando ella fa il suo atto colla maggiore facilità possibile e colla minore fatica possibile; e questo le accade quando non è costretta a mutarlo. Ond' è che la regolarità dei suoi atti le sia piacevole, perchè non le impone il bisogno di mutare stampo alla sua operazione, ma conserva quel metro o quella forma di operare, senza novità e cangiamenti. Quindi anche si trova che i suoni armonici, che fanno accordo fra loro, sono quelli che vengono prodotti da tali numeri di vibrazioni, il rapporto dei quali sia quello dei numeri naturali 1, 2, 3, ecc., senza frazioni; di che avviene che l' ampiezza delle vibrazioni sia pure come quei numeri, sicchè due o tre o quattro, ecc. vibrazioni di un suono siano eguali appunto ad una vibrazione d' un altro suono. Così la velocità delle vibrazioni d' un suono riesce appunto doppia, o tripla, o quadrupla, ecc. dell' altro suono, senza che avanzi nulla. In questo modo distribuite le vibrazioni: 1 non si confondono mai, nè impediscono; 2 hanno rapporti facilmente percettibili; 3 questi rapporti sono sempre gli stessi, sicchè l' eccitamento ha un metro costante. Quindi l' anima, dovendo concorrere colla sua attività alla produzione di tali sensazioni, trova subito la legge secondo cui produrle, cioè la sua azione è regolare; e questo stampo regolare è ciò che produce l' abitudine, l' operare secondo la quale le è spontaneo e facilissimo. Basterà dunque osservare quali suoni si producono con vibrazioni eteree, che abbiano i rapporti dei numeri naturali, per conoscere quali sieno i suoni che meglio s' accordino insieme. Si trova corrispondere a questa condizione l' accordo di ottava, le cui vibrazioni sono come 1 a 2; l' accordo di quinta, le cui vibrazioni sono come 2 a 3; l' accordo di quarta, le cui vibrazioni sono come 3 a 4 (1), l' accordo di terza, le cui vibrazioni sono come 4 a 5; gli accordi che si dicono perfetti: fa, la, do; do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come 4, 5, 6. Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi. Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli appunto che formano fra loro armonia (2). Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima. Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo, cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli esteriori che mutano il suo termine. Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima. Dalle quali cose possiamo conchiudere: Che il mondo corporeo ricevette dalla sapienza creatrice un ordine ammirabile, acciocchè egli somministri ordine e armonia al sentimento e al principio razionale. Che quest' ordine non giace solamente nelle cose esterne all' uomo, ma altresì nella sua organizzazione (su di che torneremo ancora), nella fabbrica squisita dei suoi sensorii, i quali sono architettati e condotti con tale arte e maestria di proporzioni che mirabilmente rispondono e s' accordano alle proporzioni del mondo esterno e materiale. Che lo stesso principio sensitivo raccoglie il mirabile ordine del mondo esterno e del suo proprio termine (i sensorii), ed è quello che colla sua attività vi pone la forma , e fa sì che il mondo esterno, che non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia, benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica , perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.

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