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PRIN 2012 - Accademia della Crusca
analitico , perchè ella intende a spezzare, quasi direbbesi, l' essenza dell' anima
in tutte le sue diverse attività, ove ella si rifonde; la seconda
poi esige una via sintetica , perocchè ella vuole adunare sotto certe leggi
universali le maniere del diverso operare, in cui l' anima continuamente
si espande, riducendo così la moltitudine infinita degli atti suoi alla semplicità
delle norme prescritte loro da natura, dalle quali essi mai non
deviano.
Di che si scorge che tutta la materia che noi abbiamo alle mani,
si distribuisce da sè stessa in due sezioni, la prima delle quali, movendo
dall' essenza dell' anima, procede alle sue svariatissime operazioni, quando
la seconda muove anzi dalle operazioni di lei per ricondurle tutte nella
fine a quell' unità medesima di essenza, ond' elle uscirono, ed in cui riposando
si giacciono.
Poniamo mano alla prima ricerca delle attività dell' anima
umana.
Noi ci proponiamo in essa non pure di annoverare quasi storicamente
coteste attività, ma più ancora di dedurle, di farle scaturire dalla
essenza del soggetto, a cui elle appartengono. Laonde il nostro lavoro
di nuovo si biparte in due questioni: « qual sia il modo nel quale le
diverse attività sono contenute nell' essenza dell' anima, e da lei si distinguono »;
e « quali elle sieno, come queste attività si possano enumerare
e classificare ».
primo principio di
sue operazioni; e di più, che un principio reale può avere
un' unica attività idonea a produrre più effetti.
Ma noi sappiamo ancora che un ente, un' entità o più entità, possono
inesistere in un altro ente, qualora questo secondo sia di natura spirituale,
al contrario di quanto accade nelle reciproche relazioni dei corpi, la
cui natura è di essere impenetrabili. Abbiamo trovato questa verità ontologica
importantissima, considerando immediatamente il fatto con quella
osservazione intellettiva, che sola somministra i primi dati della scienza.
essere ideale , unito a lei per via d' intuizione;
2 l' animalità , a lei copulata per una fondamentale ed immanente percezione.
Nell' animalità medesima distinguemmo più elementi: 1 un principio
sensitivo , che contiene anch' esso altre entità straniere, a cui egli
si lega con sue proprie relazioni; 2 l' esteso corporeo , contenuto
nel detto principio colla relazione immanente di sensilità; 3 la materia ,
ossia una virtù che non agisce immediatamente sul principio sensitivo,
ma sull' esteso corporeo, e violentemente lo immuta, onde mediatamente
si fa sentire allo stesso principio sensitivo. Ed ecco qui nel seno
dell' essenza dell' anima tutte le radici della umana attività; ecco la ragione
di tutte le varie potenze e facoltà; le quali per quelle loro radici sono
distinte e determinate a dover essere piuttosto queste che quelle, tante,
e non una di più, non una di meno. Tale è la deduzione delle potenze
umane dalla stessa essenza dell' anima; l' essenza perscrutata a fondo
somministra dunque il principio della loro legittima deduzione.
Ma qui, prima d' innoltrarci più avanti, posciachè lo sviluppo
dell' anima è un cotal movimento che la conduce da uno stato ad un
altro, ciò che in essa si giace in potenza uscendo al suo atto, appare dover
essere necessario ed utile il chiarire le stesse nozioni di potenza e di atto ,
e ancor prima quelle di materia e di forma , provvedendo altresì che l' imperfezione
del linguaggio filosofico non c' impedisca il passo, siccome
sterpo che trova il piè tra via, o non trattenga la mente di chi prende con
noi il faticoso e pure ameno viaggio di queste investigazioni, dal tenere
la diritta via, senza che, trasviata dagli equivoci, si smarrisca per avventura
a destra od a sinistra.
atto significa ogni entità; e sotto questo aspetto
ella non si può definire, ma si deve supporre conosciuta (1); però non
significa l' entità mera, ma con di più la relazione mentale alla potenza .
Ora, la mente è condotta a questa distinzione fra atto e potenza dall' esperienza
che ella prende delle cose contingenti, colle quali trovasi in comunicazione.
Toglie dunque questa distinzione dalle realità finite, che
cadono sotto ai sentimenti, la trova nel sentimento stesso, il quale è realità.
Di che apparisce che l' uomo non potrebbe mai dedurre a priori cotale
distinzione dall' « essere ideale », che egli intuisce per natura senz'
altro aiuto; perocchè l' essere ideale, dall' uomo intuìto, fa conoscere
l' essere puro , non per sè solo il modo dell' essere, non l' ordine che l' essere
interiormente contiene; il quale ordine appartiene del tutto alla
realità , che si esperimenta nel sentimento (2).
Di qui è che l' ordine interiore dell' essere non si rivela mai
tutto all' uomo; perocchè l' uomo, essendo un reale limitato, non comunica
se non con una parte della realità, e con essa in modo limitato (3). E
questo è ciò che limita essenzialmente la cognizione umana, e che impone
al filosofo di proporre le dottrine ontologiche, che meditando raccoglie,
colla modestia che si addice all' essere umano, « cioè non pretendendo
di descrivere a fondo tutto l' essere e tutto l' ordine dell' essere, ma sapendo
e confessando di non abbracciare col suo pensiero più di una particella
di quest' ordine immenso, quella che fu data a conoscere alla umana
intelligenza ». La quale modestia è religioso dovere di ogni uomo, come
uomo; quanto più dell' individuo umano, per quanto si voglia fornito di
eccellente intelletto, il quale deve pur credere, se non folleggia, di rimanersi
ancora colle sue investigazioni molto al di qua dal segno, a cui
può giungere l' intendimento della sua specie?
realità , che ci è data quaggiù a percepire e sperimentare,
e anche ciò quanto le forze della nostra individuale intelligenza
lo consentono; dobbiamo di questi, quasi frammenti di dottrina,
comporre quella ontologia imperfetta, che sola all' uomo e a noi particolarmente
è conceduta.
Ora, la realità comunicataci sta compresa nel sentimento
nostro; dove, come dicemmo altrove (1), quasi sopra scena apertale
innanzi, può la mente cogliere gli esseri reali; e tutti quelli che su questa
scena del sentimento non si rappresentano, ella non può in modo alcuno
percepire, nè riconoscere come sieno fatti. Conviene dunque che ci domandiamo:
quali sono quelle realtà che si comunicano a noi nella realtà
nostra?
Già noi trovammo che esse si riducono a tre, le quali sono
i corpi, l' anima in quanto è sensitiva in modo corporeo, e la stessa
anima nostra in quanto è intellettiva. Ecco le uniche realità a noi percettibili .
Oltre di queste tuttavia noi abbiamo ancora l' idealità che è intuibile,
ed è il mezzo col quale conosciamo per via di percezione le dette
realità .
Come dunque tutte le nozioni ontologiche che riguardano
l' ordine dell' essere , così medesimamente le nozioni di materia e di forma ,
di potenza e di atto , noi dobbiamo cavarle dall' esperienza che abbiamo
della materia, del sentimento animale e del sentimento intellettivo;
le quali realità, essendo tutte finite e contingenti, dar non ci possono
che nozioni appartenenti all' ordine dell' essere finito e contingente; che
di conseguenza non si adeguano all' essere infinito se non per un cotal
modo di analogia, che altrove più chiaramente dichiareremo.
Antropologia , dove ampiamente se ne ragiona.
Ma primieramente s' avverta che noi dobbiamo considerare il corpo
tale quale a noi immediatamente si rappresenta; perocchè questo solo
significa il vocabolo corpo , e non altro. Che se pur vogliamo col raziocinio
argomentare che ciò che noi percepiamo supponga qualche altra
virtù antecedente o entità, causa del percepito, conviene ricordare che
noi abbiamo riserbato a questo immediato principio del corpo, che non
cade nella percezione, ma sembra nascondersi quasi giocolatore dietro
alla parete, la denominazione di principio corporeo (1). Non dunque
da questo essere occulto, ma dal corpo percettibile noi dobbiamo cavare
le nozioni ontologiche, che andiamo cercando.
Nell' Antropologia fu distinto il sensifero , che è la causa
prossima delle sensioni corporee, dal sentito o sensibile, che
è il termine esteso e proprio del sentimento. Ma ivi si raccolse sotto la
denominazione di sensifero tanto quella virtù, che produce immediatamente
il sentito nel sentimento fondamentale, quanto quella virtù che,
operando nel sentito fondamentale, lo immuta e così occasiona la sensazione.
Dovendo ora noi spingere l' analisi più innanzi, ci è necessario
distinguere queste due virtù (che pur si riducono alla stessa attività che
opera in due modi, come vedremo) mediante due vocaboli, e però riserbando
sensifero alla virtù che soggiace al sentito
del sentimento fondamentale, chiameremo forza esterna quella che altera
il sentimento fondamentale medesimo, provocandovi la sensazione passeggera.
Ora, dichiarata così la maniera di parlare che seguiremo
in appresso, diciamo che la percezione del corpo ci somministra tre entità
strettamente connesse: 1 un sentito esteso; 2 un' attività, che concorre
a produrre immediatamente quell' esteso sentito nell' anima, ossia il sensifero;
3 una forza straniera, che con violenza immuta il sentito esteso.
Il concetto di sentito esteso, unito a quello di sensifero,
è propriamente il concetto di corporeità , laddove il concetto di agente,
che immuta il sentito, è il concetto di materialità .
Il sentito esteso si percepisce come una cotal proprietà del
sensifero, e con esso forma il nostro proprio corpo; se non che noi non
gli imponiamo il vocabolo di corpo, se non quando siamo giunti a conoscere
la sua solidità; e non ne conosciamo la solidità, se non aggiungendo
all' esperienza soggettiva del sentito esteso i dati dell' esperienza extra7soggettiva ,
per la quale percepiamo i confini del nostro proprio corpo
mediante le sensazioni superficiali (1). Ma in ogni esperienza extra7soggettiva ,
oltre percepire il nostro corpo, noi percepiamo anche la forza
straniera, ossia la materia; perocchè sentiamo un impulso che muta il
nostro sentimento corporeo, di maniera che nello stesso luogo dove nasce
la nuova sensazione, ivi appunto percepiamo un agente estraneo al nostro
sentire, il quale non si fa conoscere per alcun' altra proprietà che per
questa virtù d' immutare il nostro sentito.
Di più, ben presto ci accorgiamo che il sensifero, immediata
causa del sentito in noi, ha la virtù di immutare con violenza
qualche altra parte del sensifero, e così qualche altra parte del nostro
sentito medesimo; di che concludiamo che il nostro proprio corpo è materiale ,
ossia che ha la stessa proprietà della forza straniera di operare
con violenza.
Ma pur questa non parrà una rigorosa dimostrazione della
identità della forza straniera e del sensifero, potendo concepirsi nello
stesso luogo due entità diverse, il sensifero e la forza straniera, e spettare
al primo la produzione del sentito, alla seconda l' immutazione violenta
anima , che al suo modo è passiva; il sentito , che è prodotto
nell' anima; il sensifero , che lo produce; una forza straniera , che immuta
il sensifero, la quale si manifesta ora nel luogo stesso dov' è il sentito
e il sensifero, ora in luogo diverso. Dai quali quattro elementi noi certo
raccogliamo ogni concetto di corpo e di materia, che abbiano gli uomini.
Cerchiamo, adunque, se fra il sensifero e la forza straniera vi sia
o no quella identità di sostanza che parrebbe, considerando l' identità del
luogo che occupano, e non parrebbe, considerando la diversità dell' effetto.
Acciocchè la ricerca proceda con ordine, nè lasci indietro
difficoltà atte a intralciare il ragionamento, o turbare l' attenzione di chi
con noi ragiona, cominciamo a ben notare la differenza fra l' anima ed
il sensifero.
Primieramente l' azione dell' anima, movente il proprio corpo, deve
essere immediata almeno su qualche parte di esso, perocchè si deve
trovare un luogo nel corpo nostro, dove il primo moto venga comunicato.
Infatti, supponendo anche che noi moviamo la mano mediante il
movimento dei nervi, che per essa si allungano, e che il movimento
impresso a questi nervi si comunichi longitudinalmente, conviene in
fine ricorrere ad una o più estremità nervose, alle quali da prima il moto
sia comunicato dalla stessa anima.
In secondo luogo, si consideri che l' azione dell' anima sul
corpo non ha per suo termine immediato il sentito , ma il sensifero , ossia
la forza che produce il sentito. Poichè il sentito stesso non si cangia, se
non cangiandosi, ossia movendosi, la virtù o forza che immediatamente
lo produce; giacchè il sentito , essendo passivo, suppone un sensifero
che con azione immanente o transeunte lo produca.
Ma il sensifero si dà a noi a percepire in tre modi:
istinto vitale (1).
Quale ricevente l' azione dell' anima, che lo immuta. Infatti,
quando l' anima, a ragion d' esempio, colla fantasia produce a sè stessa
un' interna sensione, ossia immagine, allora essa opera sul sensifero e lo
modifica in modo che le produca quell' immagine, o che cessando di produrre
un' immagine ne produca un' altra; e in tutte quelle azioni, colle
quali l' anima produce a sè stessa nuovi sentimenti corporei, o li cangia
(il che ella fa col movimento del proprio corpo), l' anima, immutando
il sensifero, immuta il sentito dal sensifero immediatamente in essa prodotto
(2). Il quale fatto pure accade senza violenza rispetto a ciò che
riguarda l' azione immediata dell' anima, perocchè il mutamento, che
avviene nel sensifero, lungi d' essere opposto all' azione spontanea dell'
anima, è ad essa conforme. Ora che questo sensifero, immutato dalla
azione immediata dell' anima, sia identico al primo è manifesto; perocchè
egli è quello appunto che produce immediatamente i sentiti dall' anima.
O quale ricevente l' impulso d' una forza esterna, che lo
immuta con violenza, senza che l' anima da principio vi concorra colla
sua spontaneità; la quale, essendo sempre attiva, se non concorre alla
azione, già per questo solo le è opposta (3).
Ora qui, in questi due ultimi casi, già noi scorgiamo la
differenza che passa fra l' anima ed il sensifero , essendo quella attiva,
e questo passivo. Vediamo ancora la differenza che passa fra l' anima e la
forza straniera; poichè, quantunque tanto l' anima, quanto la forza straniera
abbiano virtù d' immutare il sensifero, tuttavia questa è azione
violenta , e quella spontanea; il che è quanto dire che l' anima umana
nel primo caso ha la coscienza di essere ella che opera; nel secondo ha
la coscienza di essere passiva da un agente diverso al tutto da lei.
sentito , il
quale rimane da lei mutato. Percependo adunque questa forza nel suo effetto,
che è l' immutazione del sensifero, causa immediata del sentito, non
possiamo determinare la natura del suo principio stando alla sola percezione
che noi ne abbiamo; cioè non possiamo affermare che ella sia
spirituale, ma possiamo bensì affermare che non ripugna che sia.
Lasciando dunque da parte per ora la questione: « che cosa
sia in sè stesso il principio di questa forza immutante il sensifero, causa
immediata del sentito », passiamo all' altra: « se si possa provare l' identità
di questa forza straniera colla forza immediatamente sensifera ».
Noi abbiamo osservato che ciò che è immediatamente sensifero,
in quanto egli è tale e non in quello che può essere in sè stesso, presenta
l' estensione commisurata perfettamente a quella del sentito, che produce
nell' anima (2); il che di nuovo prova che il sensifero, come precisamente
tale, non è l' anima, la quale è semplice. Ora lo stesso argomento
prova altresì che anche la forza esterna, che immuta ciò che è immediatamente
forza straniera od esterna. Perocchè se l' anima coll' immutare
il sensifero immuta anche la forza straniera, converrà dire
che il sensifero e la forza straniera sono identici, cioè sono attività d' un
medesimo subbietto. Ora così appunto avviene; perocchè l' anima non
muta mai il proprio sentito, se non per via di movimento prodotto nelle
parti del corpo. Ma il movimento è un fenomeno appartenente alla
forza straniera. Se dunque l' effetto dell' anima non può eccedere il sensifero,
e tuttavia ella immuta la forza straniera, convien dire che la forza
straniera e il sensifero sieno identici, ossia appartengano allo stesso subbietto
sostanziale. Questa prova è fondata sul principio che, « se l' effetto
di un' azione, determinato e limitato ad una entità, apparisce anche in
un' altra entità, conviene dire che le due entità sono identiche di sostanza »
(1).
Un altro argomento, appoggiato allo stesso principio, si
trae dal considerare che s' intende bensì come la forza esterna, nella
quale non si conosce né sentito, nè sensifero, possa produrre il movimento,
che non è che uno spostamento della stessa forza esterna, ma
non s' intende poi come ella possa agire sul sensifero, senza supporre
che il sensifero formi una stessa sostanza colla forza straniera. Infatti,
l' immaginare che la forza straniera produca due azioni così diverse come
sono: I spostare un' altra forza esterna (moto); II e immutare il sensifero;
sarebbe confondere in uno due concetti di forze affatto diverse,
e quindi un mutare il concetto della mera forza straniera, e moltiplicare
questa in due forze, le quali si debbono escludere anche pel principio
che vieta moltiplicare gli enti senza necessità. Conviene dunque
dire che la forza esterna in questi due effetti così diversi operi sopra una
stessa sostanza, e però il sensifero e la forza esterna siano identici di
natura.
Un terzo argomento ci è somministrato dalla vita dei primi
elementi, che noi crediamo di aver munita di sufficientissime prove.
La quale ammessa, toglie via dalla radice la difficoltà;
perocchè non vi è più una forza meramente straniera, ma ogni forza
straniera è divenuta sensifera. E questa stessa conseguenza sembra una
nuova prova di quella nostra sentenza. Ma supponendo il contrario,
supponendo che una parte della materia non sia animata, è ancora argomento,
atto a provare l' identità del sensifero e della forza straniera,
hoc post hoc, ergo propter hoc , non è valido argomento;
ma se si unisce questo argomento al primo, e si considera che
la forza bruta diviene così in potere dell' anima, la dimostrazione riesce
rigorosa.
Un quarto argomento si può trarre dalla natura del contatto .
Se due forze estese fossero semplicemente di posizione contigue,
non si potrebbe ancor dire esservi fra esse contatto. Il concetto del contatto
suppone un' azione reciproca delle due forze, la quale, trattandosi
di forze brute, si manifesta col fenomeno della coesione. Ma se si applica
una forza bruta ad un nervo, l' effetto di questa coesione, od anche
impulso, è la sensazione . Sia pure che la sensazione nasca per un
movimento intestino dell' organo sensorio, ma questo movimento non potrebbe
nascere, se il movimento della forza bruta non fosse passato nel
sensifero, il quale così produce l' alterazione nel sentito. Se dunque il
sensifero comunica colla forza bruta per via di moto, e ne riceve l' azione,
uopo è che sia anch' egli un esteso capace di moto e di impulsione;
al che si riduce appunto il concetto della forza bruta, ossia straniera.
Questi argomenti provano l' identità di sostanza fra la forza
straniera (materia) e il sensifero, il quale ha concetto di corpo animato,
laddove la forza bruta non presenta che il concetto di corpo inanimato.
Ora qui, dopo aver veduto il rapporto d' identità che ha quello che
è immediatamente sensifero, con quello che da prima si presenta alla
nostra esperienza come pura forza straniera o bruta, vediamo come tanto
il sensifero , quanto la forza bruta , siano, quasi direi, vestiti del sentito;
sicchè il sentito si mescoli col sensifero, e se ne abbia il concetto
di corpo, e colla forza bruta, e se ne abbia il concetto di materia .
in potenza . Ora, come li immaginiamo noi separati? Che
cosa vuol dire separati dal nostro sentito?
Vuol dire esistenti in altro luogo diverso da quello in cui esiste il
nostro sentito; il che accade per cagione del movimento, come abbiamo
dichiarato nell' Ideologia e nell' Antropologia. E tuttavia, quantunque
noi li pensiamo esistenti non più nel luogo del sentito , ma in altro spazio,
immaginiamo però che abbiano portato seco il nostro medesimo sentito,
per la ragione detta, che nel primo percepirli occupavano lo stesso
luogo del sentito, e ne abbiamo percepita la forza insieme con questo,
con un atto solo di percezione. Ma perocchè il considerarli in potenza
ad agire su di noi, e il considerarli vestiti e accompagnati dal sentito è
cosa contradittoria, perciò i filosofi col ragionamento spogliano giustamente
i corpi7materiali delle qualità sensibili in atto, e non le lasciano
loro che in potenza; concepiscono cioè i corpi come agenti, atti a modificare
il nostro sentimento in modo da produrre le sensazioni, ma non
già aventi seco il colore giallo o verde, il sapore agro o dolce, il suono
acuto o grave, ecc.. E tuttavia è difficilissimo a fare questa separazione
colla mente nostra; perocchè la potenza non è determinata e conosciuta
se non dall' atto che essa produce, onde è necessario che noi riferiamo
sempre la potenza materiale alla sensazione, ossia al sentito, se vogliamo
pure formarcene un concetto determinato; riferir poi la potenza di
modificare il sentito al sentito medesimo non possiamo, se non pensando
la potenza congiunta a questo nell' atto di modificarlo, e però in quel
modo stesso nel quale noi l' abbiamo da principio percepita e conosciuta
come tale; il qual modo importa che la potenza sia in atto, unita individualmente
al sentito per l' identità del luogo. Quindi ci tornano sempre
i corpi a riuscire colorati, sonori, saporosi e delle altre maniere di
sentito rivestiti od accompagnati, anche quando noi ce li immaginiamo
chiusi in un armadio, dove non entra raggio di luce, né da essi può venire
a noi alcuna sensazione; e il filosofo stesso difficilmente si libera
da una cotale immaginazione.
Ma in appresso, facendoci la riflessione conoscere che queste qualità
non possono essere annesse ai corpi separati dal nostro sentito, si ritorna
colla ragione a concepirli da esso divisi, e così l' uomo si forma finalmente
il concetto d' una materia7bruta, inanimata, priva di sentito (1).
Nè basta; il sentito è opposto al senziente, ma si trova nel
senziente, altrimenti non sarebbe sentito. Ma la forza corporea esterna
che modifica il sentito, quando è separata da questo, è meramente in potenza
d' agire, non è nè sentito, nè senziente; ella rimane dunque una
potenza . Quindi se si osserva attentamente il ragionare degli uomini
intorno ai corpi, facilmente si scorge che essi usano alternativamente di
due concetti di essi, senza accorgersene; talora parlano della materia come
di cosa inanimata, a cui non danno punto di ciò che appartiene a sensazione;
altre volte attribuiscono al corpo sensibili qualità, come fosse
sentito in atto, senza pensare che il sentito è nel senziente, e che se si dà
ad un ente il sentito, forza è dargli ancora un principio senziente.
Ma la mera potenza è un concetto, che non racchiude alcuna
relazione se non all' atto o effetto che ella produce, relazione esterna a lei;
dunque la potenza da sè sola non racchiude l' atto del proprio sussistere .
Ora niuna cosa si può concepire dall' intelletto, se non si concepisce l' atto
pel quale ella sussiste, pel principio di cognizione . Dovendo dunque l' intendimento
concepire una potenza di modificare il sentito, e non potendo
egli dare a questa potenza nè l' atto onde sussiste il sentito, perchè separata
da questo, nè l' atto onde sussiste il senziente, perchè aliena affatto
dall' attività senziente; trovasi obbligato di supporre nella potenza di modificare
il sentito un atto suo proprio, altrimenti non la potrebbe concepire.
Ma questo atto non si conosce punto, nè egli è termine di alcuna
percezione, altrimenti non si avrebbe più il concetto della potenza, ma
d' un atto; dunque l' atto è meramente supposto in virtù della legge dello
stesso intelletto; nè questa supposizione è tuttavia senza ragione o meramente
soggettiva; anzi si fa per logica necessità, cioè pel principio di cognizione ,
come dicevamo (1); pure quell' atto di sussistere rimane una
cosa del tutto incognita, di cui non si sa altro che l' esistenza. Ebbene, questo
atto così concepito per via di supposizione, è la sostanza materiale , la
cui esistenza riesce certa per logica necessità, ma la sua natura rimane
occulta. Tuttavia l' uomo determina questo occulto da lui scoperto, in modo
da non poterlo confondere con altra entità, mediante la sua relazione;
perocchè egli sa che una tale sostanza, o atto di sussistenza, è il soggetto
di quella potenza che immuta il sentito come sensifero, e che immuta
il sensifero come forza straniera; essendo il sensifero e la forza straniera
potenze, che convengono nella medesima sostanza, come fu dimostrato.
Il principio di sostanza può prendere anche questa enunciazione,
percezione , ella abbraccia contemporaneamente tutti questi termini,
e comincia a conoscerli ed a conoscere il corpo, solo quando li ha
abbracciati tutti e non prima, siccome abbiamo dichiarato nel Nuovo Saggio ,
ed altrove (1).
La sostanza materiale, ossia l' atto primo, è adunque un quid
incognito, di cui non si conoscono che gli atti secondi (il sentito, il sensifero,
e la forza straniera).
Ma l' atto primo, l' ente materiale supposto a tutta ragione dalla
mente, non essendo per noi determinato che dai suoi atti secondi, noi lo
pensiamo individualmente con questi unito. E poichè l' effetto di questi
atti secondi sono i sentiti, il cui modo è l' estensione, perciò noi uniamo
individualmente questi effetti, benchè prodotti in un altro ente, cioè nel
senziente ossia anima, agli atti secondi, e quindi anche alla sostanza materiale;
la quale ci riesce così estesa e fornita di tutte le qualità sensibili.
estensione e
le sensazioni . Noi abbiamo definita l' estensione « « il modo del sentimento
corporeo »(1) »; tale infatti ce la presenta l' osservazione, che ne coglie il
concetto alla sua origine, « « giacchè la vera natura degli oggetti del nostro
pensiero non si rileva, se non risalendo alla prima origine della formazione
dei loro concetti » ». Quindi anche l' estensione misurata appartiene al
sentimento, e da questo non si divide che per astrazione. Come dunque
l' abbiamo noi posta fra le qualità primarie del corpo, cioè fra quelle che
ce ne somministrano l' essenziale concetto? (2).
E` da confessare che se noi spogliassimo il concetto di corpo da ogni
sentito, noi con questo stesso lo spoglieremmo anche della sua estensione;
perocchè la sua estensione non si pensa che come il modo del sentito, e però
come sentita. Ma in tal caso ci svanirebbe affatto di mano il concetto di
corpo e di materia, quale tutti gli uomini lo si formano ed esprimono con
quei vocaboli. Noi all' incontro ci proponemmo sempre « di parlare delle
cose, quali l' uomo le percepisce e le esprime »; giacchè, dovendo usare i
vocaboli comuni, e quelli esprimendo le cose concepite dal senso comune
degli uomini, che si fonda sulla percezione, qualora noi volessimo adoperare
quei vocaboli a significare altro, ne falseremmo il significato, e
introdurremmo equivoci senza fine, e questioni in cui non ci sarebbe più
possibilità d' intenderci. Quindi noi già definimmo il corpo « « la causa prossima
delle sensazioni e il subbietto delle qualità sensibili »(3) ». Secondo
questa definizione il corpo è il sensifero, identico, come abbiamo veduto,
alla forza straniera. Ora al sensifero, come causa prossima delle nostre
sensazioni, benchè si spogli delle qualità sensibili, forza è attribuire la
estensione; perocchè noi lo consideriamo per tutto là, dove è il sentito;
ma il sentito è esteso, dunque la sua causa prossima deve essere « una virtù
che, quanto al suo atto, si diffonde nella estensione medesima del sentito,
essendo l' attivo dov' è il passivo ». Questa è la dimostrazione da noi
data dell' estensione del corpo (4). Si opporrà che il sensifero, non essendo
proprio la sostanza, ma un atto della sostanza, che si conosce a cagione
del suo termine, e corpo essendo un nome sostantivo, cioè esprimente sostanza,
ente . Ci rimane
dunque il concetto di corpo, quale ce lo dà la percezione e quale viene
nominato dalla parola, tutto racchiuso nel sensifero; al quale, come vedemmo,
appartiene il concetto di « forza operante nella estensione, e
però estesa ».
Ma se dopo di ciò noi colla riflessione vogliamo salire più su, troveremo
benissimo che l' ente subbietto della virtù sensifera, considerato
in sè stesso e non come lo percepiamo, potrebbe essere un ente inesteso;
e ciò anzi s' induce al vedere che l' estensione appartiene originariamente
al sentito e al senziente, e però all' inesteso (1). Ma in tal caso noi non
avremmo già più in mano il concetto di corpo, ma di altra cosa che non
percepiamo, e che nominammo principio corporeo .
Fin qui abbiamo sufficientemente dichiarato che cosa sia
corpo , tale quale la percezione ce lo somministra, come sensifero e come
forza straniera. Abbiamo veduto come questa forza, o si manifesti come
sensifera o come straniera, si dà a percepire a noi per estesa nel termine
della sua operazione; e come è per questa estensione che chiamasi corpo
(sensifero), o materia bruta (forza straniera). Abbiamo veduto come
questa forza estesa venga rivestita delle qualità sensibili, e propriamente
del sentito. Abbiamo veduto finalmente come la meditazione filosofica
salga dal corpo ad un principio corporeo , che è la cagione incognita producente
il corpo, quale da noi si percepisce. Possiamo dopo di tutto ciò
passare a dichiarare come nascano i concetti opposti di forma e di materia ,
i quali non sono alieni dal senso comune, e di cui i più antichi
filosofi, generalizzandoli, fecero sì grande uso nelle loro filosofie.
A far questo convenevolmente ci bisogna primieramente osservare
in che modo diverso noi vestiamo il corpo (secondo il concetto datoci
dalla percezione) di estensione e di sentito .
principio corporeo non è
la sostanza corporea, di cui tutti gli uomini parlano pronunciando il
nome sostantivo corpo , ma è un principio incognito al di là di questa
sostanza.
Conviene adunque qui, prima d' inoltrarci, considerare attentamente
in che modo l' uomo si formi il concetto delle varie sostanze,
che egli percepisce. Essendo la percezione un' azione, che viene esercitata
in noi esseri suscettivi di riceverla, cioè di sentirla e d' intenderla, questa
azione in noi è la prima cosa che conosciamo dell' agente, e perciò in
quella ci fermiamo colla mente, perchè anteriormente ad essa nulla
materia prima . Il sensifero e la
forza straniera appariscono a noi vestiti: 1 di estensione limitata; 2 di
limiti a questa estensione, ossia di figura; 3 di quelle qualità sensibili,
che dicemmo secondarie. Queste qualità sensibili non si percepiscono
mai che in una figura; la figura non si percepisce mai che nell' estensione;
l' estensione limitata poi ci si presenta siccome indivisibile dal sensifero
e dalla forza straniera, in modo che noi non possiamo in alcuna maniera
nè percepire, nè pensare il sensifero o la forza straniera senza una qualche
estensione, per guisa che nella stessa immediata percezione vi è sempre
ed invariabilmente l' estensione; mentre può variare la figura e le
altre qualità sensibili. Appartenendo dunque l' estensione limitata (in
generale) invariabilmente a ciò che di primo pensiamo e percepiamo,
ed essendo l' essenza sostanziale appunto « ciò che di primo pensiamo »,
noi, come si è detto, dichiariamo il sensifero e la forza estesa
un' essenza sostanziale, di cui la figura e le altre qualità sensibili siano
accidenti, e quell' essenza sostanziale la chiamiamo corpo.
Ma quantunque questi accidenti sieno variabili, alcuni di essi accompagnano
sempre il corpo. Ond' è che l' essenza sostanziale del corpo non
esiste mai sola; e acciocchè possiamo pensarla da sè, dobbiamo farla
può essere divisa in parti indefinite, ciascuna delle
quali è materia nel concetto eguale, in realtà diversa; e ciò a cagione
della qualità estesa, che è il suo modo di essere; il qual modo è in potenza
a qualunque dimensione (1), figura, forma e moltiplicità (2).
Dal che concludiamo:
Che il concetto della materia prima è un concetto astratto, che
nondimeno dimostra alla mente un primo elemento dei corpi ancora
indeterminato, appartenente alla loro realità, ma che non può sussistere
se non aggiungendovi le determinazioni.
Dove si noti che l' astrazione fa due uffici: I) fa pensare
qualche elemento realizzabile, ma privo delle sue determinazioni ( astrazione
tetica ); II) fa pensare altresì un quid non realizzabile, come
allorquando separa di quelle cose, le quali non si possono al tutto separare,
senza che ciò che rimane sia del tutto inconcepibile, come sarebbe
il centro del circolo senza la circonferenza, la forza corporea senza
alcuna estensione neppur generica, ecc. ( astrazione ipotetica ).
Questa seconda specie di astratti, se vogliamo ridurla ad
una formula generale, si può definire così: « astratti, nei quali l' astrazione
ha tolto via anche la potenza di ricevere le determinazioni necessarie
a divenire reali ».
Ora, il concetto della materia prima non si ha coll' uso di questa seconda
astrazione, ma della prima. Quindi:
materia prima è una forza estesa, la quale è in potenza:
1) ad avere una quantità determinata di estensione;
2) ad avere una determinata figura;
3) ad essere divisa in parti, ciascuna delle quali ha la sua quantità
determinata e la sua figura;
4) ad avere un determinato sensibile.
Ancora, la materia prima è la sostanza dei corpi , e in
questo senso ha ragione Aristotele attribuendole il nome di sostanza; e
le determinazioni della quantità, figura, numerosità quantitativa e sensibilità,
sono altrettante condizioni, alle quali ella può avere l' atto del
sussistere. Le quali condizioni, insieme prese, costituiscono la forma del
corpo.
Ora queste determinazioni possono variare, ma ad ogni
modo le une o le altre sono necessarie.
In quanto sono necessarie, costituiscono la forma sostanziale del
corpo unitamente all' atto della sostanza. Cioè l' estensione determinata
o quantità, la figura e il sensibile, in quanto terminano e perfezionano
l' atto che le fa sussistere, che è l' atto della sostanza materiale dal quale
ricevono unità, in tanto si dicono forma sostanziale dei corpi (1).
In quanto poi sono variabili, in tanto costituiscono altrettante
forme accidentali o accidenti; e come tali, non si considerano nell' unità
della sostanza che le fa sussistere, ma separate le une dalle altre
coll' astrazione (2).
figura; la figura
adunque è nell' estensione, come i limiti sono nel limitato; 3 la figura
non si presenta a noi senza qualche sentito, e quantunque coll' astrazione
si possa prescindere da ogni sentito, tuttavia non si può prescindere da
un sentito in genere; sicchè la figura astratta non è già una figura senza
sentito, ma una figura che « si pensa come possibile a sentirsi, senza determinare
qual sia questo sentito che racchiude, poichè può racchiuderne
separatamente diversi ».
Quando dunque si pensa l' astratto della forza, si pensa insieme
l' estensione, ma questa si lascia indeterminata; e questo è il concetto
di materia prima dei corpi.
Quando si pensa l' astratto minore della forza con una
estensione o quantità estensiva determinata, si pensa insieme la figura,
ma questa si lascia indeterminata; e questa è la materia con una sua
dimensione (materia non prima).
Quando si pensa l' astratto ancor minore della materia con
specie piena , l' idea universale, ma non astratta del
corpo (1).
Il corpo stesso poi reale si percepisce intellettivamente,
quando si unisce la percezione sensitiva all' idea che a lei corrisponde,
cioè alla specie piena.
Ciò che si pensa anteriormente alle sue determinazioni si
dice il subbietto delle determinazioni; quindi la materia prima è il primo
subbietto di tutte le determinazioni corporee; la quantità estensiva si
prende come subbietto dialettico della figura; la figura come subbietto
dialettico delle qualità sensibili.
Ma si osservi bene che il ragionamento umano percorre
due vie opposte, o per meglio dire, percorre la stessa via in due direzioni,
va e viene. Quando va, procede per l' ordine naturale e comune, e questa
è una direzione analitica dal tutto alle parti; quando ritorna, procede
coll' ordine scientifico o dotto, e questa è una direzione sintetica dalle
forma .
Ma poichè alcune sono variabili, perciò in quanto esse
sono al tutto necessarie a poter pensare la materia realizzata, esse si chiamano
forma sostanziale del corpo, perchè anch' esse concorrono a costituire
quell' atto, pel quale il corpo si può concepire come idoneo ad
essere realizzato; e in questo senso si dice che la forma è anch' essa sostanza,
cioè entra a formare parte della sostanza.
forme accidentali .
Ma posciachè si possono concepire dei corpi forniti di tutte
le qualità sì sostanziali e sì accidentali, a cui nulla manchi acciocchè
sieno realizzati, e tuttavia possono essere realizzati con grandezze maggiori
e minori, e anche può ripetersi la stessa grandezza un numero
qualunque di volte; perciò dicesi che la quantità continua o discreta della
materia non è determinata nè dal concetto di materia , nè da quello di
forma , ma da quello di realizzazione; la quale dipende dall' arbitrio dell'
Autore, che realizza i corpi.
La ragione prima adunque, onde tutto ciò che v' è in un
corpo si concepisce come sussistente, si è la materia, che perciò riceve
per la prima il nome di sostanza e di primo subbietto; quindi essa è
anche il subbietto della forma sostanziale, come questa è il subbietto
degli accidenti. La realizzazione poi non ha la sua ragione nel corpo, ma
nella causa creatrice; e non è subbietto del corpo, ma quella che fa
sussistere il subbietto.
Ora che abbiamo svolto il concetto di materia prima , e
veduto che questa si trova nei corpi, nei quali la perfezione di questa
materia e gli ultimi atti di essa si chiamano forma , possiamo dimostrare
(avvegnachè ciò risulta anche dalle cose dette nella prima parte) che
nell' anima una tale materia non si rinviene. Ma per evitare le questioni
di parole, e porgere altresì una chiave per intendere i maggiori filosofi
sanamente, gioverà che prima accenniamo come quei filosofi non sempre
parlano della materia prima con precisione, nè fissarono accuratamente
il suo concetto, come noi abbiamo tentato di fare, adoperando il vocabolo
di materia o di materia prima in varie significazioni; onde avvenne che
incorsero in apparenti contraddizioni, ed agitarono fra loro caldissime
ed inutili questioni.
materia prima
colla realità sussistente , da cui noi l' abbiamo distinta.
Così accadde a Platone, facendo che il quanto sia una dipendenza
o conseguenza della materia, laddove il quanto non si trova punto inchiuso
nel concetto di materia, ma è posto dalla realizzazione di essa,
ed è determinato dall' arbitrio del realizzatore.
Così pure accadde ad Aristotele, il quale pose la materia
essere il principio dell' individuazione; il qual principio noi dimostrammo
doversi anzi porre nella realità sussistente (1), che è sempre pienamente
determinata.
materia prima , che è « la
forza che opera nell' estensione », la quale è in potenza: 1 all' estensione
determinata o quantità, che può essere una o più, e quindi ancora numerizzabile;
2 alla figura; 3 alle qualità sensibili.
Che cosa sono le specie matematiche? Sono le figure e i loro termini,
la superficie, la linea, il punto.
Le specie matematiche non sono adunque la materia prima , ma una
materia già ridotta all' atto della quantità e della figura, e però in parte
informata; solamente che si prescinde dal considerare le qualità sensibili,
alle quali è in potenza; ed appunto perchè è in potenza, si chiama
ancora materia . Questa è la materia matematica degli Scolastici. Quando
dicono adunque che nel concetto della materia matematica si astrae
materia intelligibile individuale , intendono per materia intelligibile
individuale la quantità determinata e figura (con ciò che appartiene alla
figura) realizzata; ma questo dicono in modo improprio, poichè gli Scolastici
stessi già posero che l' individuo non si concepisce dall' intelletto,
onde incoerentemente alla propria dottrina ponevano una materia, che
fosse intelligibile insieme ed individuale .
Ma essi davano il nome d' intelligibile a questa materia, perchè la
quantità e la figura, astratta dal sensibile, è puramente oggetto dell' intelletto;
non vedendo poi che, come tale, non è mai individuale, se non
si fissa arbitrariamente ad un luogo dello spazio. Tuttavia, perchè ciò
che è nell' intelletto possiamo riscontrarlo nella realità, non è del tutto
vana una tale denominazione. Dicendo poi che il concetto di materia
matematica non astrae dalla materia intelligibile7comune, vengono a dire
che la quantità e la figura è considerata dai matematici non solo astrattamente
dalle qualità sensibili, ma ben anche senza riferirla a un corpo
reale, come possibile a realizzarsi. Ora vediamo quel che segue: [...OMISSIS...] .
Ed ecco qui come, se si prescinde dalla estensione e da ogni quantità
continua, già siamo fuori da ogni materia; il concetto di materia ci
svanisce al tutto dalle mani, ed altro non ci rimane che alcuni astratti
ultimi, i quali possono essere realizzati nella materia o fuori di essa. Vi
è dunque qualche cosa di anteriore alla materia, vi è qualche cosa di
atto e di potenza attiva (2). Il concetto dunque della materia non comincia
nella nostra mente, se non allora che si pensa ad « una potenza sensifera
nell' estensione ».
Ma questo concetto non fu ritenuto sempre, come dicevamo.
Onde, quando alcuni Scolastici dicono della materia che « talis potentia
non est ad operationem, sed ad esse (3) », invece di dire ad formam , allora
ad esse , il che equivale a dire: potenza di ricevere
la sussistenza. Secondo questo principio inteso letteralmente, la
materia si converte nella « cosa possibile », che è l' idea; il che non conviene
di fare, poichè si ha idea non meno delle forme che della materia,
come abbiamo detto di sopra.
Di che alcuni Scolastici fecero che tutte le cose, tanto visibili,
quanto invisibili, tanto mobili, quanto immobili, tanto corporee,
quanto incorporee, sieno composte di materia e di forma; ma, come assai
bene osserva S. Tommaso, questo è un prendere la parola materia in due
significazioni, e non nella sua propria e vera significazione (1).
Quelli che prendono la materia come sinonimo di « ciò
che è in potenza », escludendo dal suo concetto ogni relazione coll' estensione,
ne fanno di necessità un ente, da cui è già astratta la stessa materia,
e perciò rimane indivisibile, come osserva lo stesso S. Tommaso, il quale
scrive: [...OMISSIS...] ,
dove per quantità conviene
intendere non una particolare quantità determinata, ma qualunque sia.
I filosofi accennati non si accorsero che il concetto di materia
dimostra all' intelletto tal cosa, che ha relazione coll' estensione;
e però con una soverchia astrazione, togliendo via questa relazione, distrussero
il concetto di materia, non restando loro in mano che il concetto
di cosa immateriale ed indivisibile, che precede a quello della
materia.
Vi furono altri, i quali non abolirono intieramente la relazione coll'
estensione, accordando alla materia di poter essere mossa nello spazio;
ma le tolsero la facoltà di muovere e la dissero inerte. Ebbero questi
ragione?
mole materiale ,
la quale si presenta a noi come un mobile, un' entità ben diversa dal
sensifero.
Ora, essendo la mole materiale talora in moto, talora in quiete,
dedussero rettamente che dunque il moto non le è essenziale, che esso
non entra nel suo concetto, che la materia riceve il moto da un altro
principio attivo da essa diverso. E certo è indubitato che niun corpo
muove sè medesimo, onde il principio del moto si deve trovare altrove.
Ma i fenomeni extrasoggettivi del moto non sono i primi
che ci si presentino nel concetto di corpo; come vedemmo, il primo
fenomeno è il sentito, dove abbiamo la percezione intellettiva del sensifero,
il concetto del quale è quello di un' attività sull' anima nostra, che
si espande nell' estensione del sentito. Questa attività dunque, che produce
il sentito, è indubitabile, ed è prima nel concetto del corpo; perciò
è quella che costituisce l' essenza conoscibile e nominabile di lui. Ora
questa attività medesima è anche il subbietto del moto, il quale moto altro
non è se non « la manifestazione del sensifero in un sentito, che occupa
una estensione successivamente diversa ». Sotto questo aspetto è
dunque vero che il sensifero è passivo, cioè atto a ricevere il moto ed a
trasmetterlo, non a darlo.
Dove dunque troveremo noi il principio del moto?
Primieramente noi lo troviamo nell' anima, la quale muta di luogo
il sensifero.
Noi intendiamo altresì che fuori dell' anima umana deve esservi
qualche altro principio che lo produca; ce lo dimostra il fenomeno
dell' attrazione.
Noi intendiamo in terzo luogo che questo principio del moto, fuori
dell' anima umana, non può essere la mole, nè la forza straniera; perocchè
se questa non riceve il moto, non lo può trasmettere ad un' altra
forza; ella deve dunque aver ricevuto già in sè stessa il moto, e non produrlo,
non esserne il principio.
Sarà dunque principio del moto quello che noi abbiamo
denominato principio corporeo?
Per rispondere a ciò dobbiamo esaminare quale è il concetto di
principio corporeo. Noi abbiamo dedotto questo concetto dal vedere che
il sentito , come pure la forza sensifera che in esso noi percepiamo, non
è che il termine di un' azione, che viene fatta nell' anima nostra, e l' agente
è incognito quale è in sè stesso, cioè nel suo principio, non conoscendolo
principio
corporeo . Ora secondo questo concetto, noi sappiamo che il principio
corporeo è il principio di quell' azione, che chiamammo sensifero , denominandola
come un ente pel bisogno di concepirla intellettivamente.
Ma questa azione sull' anima non è ancora il moto, la cui natura consiste
nello spostare il sensifero. Dunque non possiamo neppure affermare che
sia il principio corporeo .
Noi non vogliamo qui parlare della facoltà di trasmettere
il moto, che costituisce propriamente la forza straniera e la mole; la
quale facoltà si deve indubitatamente attribuire al principio corporeo,
come a suo subbietto. Ciò che qui cerchiamo unicamente si è il principio
del moto.
Ora l' opinione che abbiamo esposta nella prima parte, che
ogni elemento materiale sia termine di un principio senziente, colloca
un principio di moto nella natura; spiega i movimenti naturali dei corpi,
senza bisogno di fare intervenire Iddio quasi causa seconda; e concilia
la grande questione agitata sempre sull' inerzia e sull' attività della
materia.
Perocchè alcuni filosofi, ponendo mente al concetto di materia, trovarono
ripugnante con essa l' essere causa di moto; e questi, secondo noi,
hanno piena ragione; altri, vedendo che tutta la natura si muove, e che
non solo ci si presentano i fenomeni dell' urto meccanico dei corpi, ma
quelli delle attrazioni, dell' espansione, dell' elasticità, ecc., ripugnanti
di ricorrere ad un' azione immediata di Dio per ispiegarli, nè sapendo a
quale altra causa appigliarsi, fecero la materia attiva; senza avvedersi
che l' attribuirle tale attività cozza col concetto, che di essa ci porge la
percezione; e tuttavia avevano ragione in questo, che riconoscevano sparso
in tutta la natura un principio di spontaneo moto. Il che conferma
l' opinione indicata dell' animazione della materia, come quella che spiega
con somma facilità e senza assurdo tutti i fenomeni naturali (1).
sostanze relative e non assolute; in tal senso anche
la materia è sostanza.
Finalmente la distinzione dei due concetti, cioè del concetto
di materia e del concetto trascendente, a quello corrispondente,
giova oltremodo a spiegare come nacquero le diverse sentenze dei filosofi
sulla materia, ed a conciliarle insieme.
termine , e non nel suo
principio;
2) ci presenta un' estensione, una mole, come modo di questa attività
in atto nel suo termine;
3) ci presenta mobilità, cioé attitudine a ricevere il moto e a trasmetterlo,
non attitudine a produrlo; perchè il ricevere e trasmettere
il moto appartiene al termine; il produrlo, al principio dell' attività. Ora
tutte queste cose ripugnano all' anima.
E veramente l' anima, come noi l' abbiamo definita, « è il
principio senziente, razionale e attivo, secondo il sentimento e la razionalità ».
Ora questa definizione pone non solo una differenza, ma una vera
opposizione fra il concetto dell' anima e quello della materia. L' anima
è il principio dell' atto, e la materia non ha ragione che di termine .
L' anima come principio è inestesa, e la materia ha per sua propria
ed essenziale condizione l' estensione, la mole.
L' anima come principio è movente, ma non è mobile; è principio
di moto, ma ella stessa è immobile.
Dunque l' anima esclude da sè tutti gli elementi, che entrano a costituire
il concetto della materia.
Forse a primo aspetto non s' intenderà come l' anima sia
immobile .
Ma per intenderlo basta considerare attentamente che ogni cosa
mossa ha ragione di termine , perchè il movimento è il termine dell' azione
movente.
contenente il continuo, e non da lui contenuta (1). Onde come
il continuo solido è nell' anima senza che esso sia l' anima, essendo anzi
in opposizione con essa, come il termine è in opposizione col principio,
e l' obbietto col soggetto (e ciò per quella connessione e comunicazione
di sostanze, che costituisce il sintesismo della natura); così si può ben
dire che il moto avvenga in quel continuo che è nell' anima, ma non mai
nell' anima stessa, che ha in sè il continuo, suo termine.
Si opporrà che, trasportando il corpo da un luogo nell' altro,
si trasporta anche l' anima. Ma ciò non è vero; l' anima non si trasporta;
altro non nasce che una nuova sua relazione fra il suo corpo e
il luogo dal corpo occupato; perchè è questo che si cangia e non l' anima.
Ma trovandosi il corpo dell' anima in relazioni con altri oggetti esteriori
e con altro spazio, sembra che l' anima sia trasportata insieme col
suo corpo, mentre non si è mosso altro che il sentito dell' anima, e non
il principio senziente. Perocchè tutto il sentito, che sopravviene all' anima
pel movimento, è nell' anima come il sentito che è passato via; dove
per sentito si avverta bene che s' intende anche il luogo del proprio
corpo, e che l' anima d' altra parte è presente a tutto lo spazio
(2).
termine dell' azione e
ciò che viene fatto e non ciò che fa , quindi la materia ha in sè il concetto
di potenza passiva e non di potenza attiva (1).
Ma il concetto di materia non importa solo l' attività giacente
nel suo termine, ma questo termine considerato come ente, un ente
termine. Poichè l' intendimento non concepisce nulla se non come ente,
pel principio di cognizione. E l' ente si aggiunge a ciò che primo di una
entità si percepisce. Se si percepisce dunque un' entità termine, e niente
di anteriore, il concetto nostro ha per oggetto un ente7termine; e in questo
ente7termine ciò che si concepisce come primo atto dell' ente, contenente
tutto il resto che in quello si può distinguere, dicesi atto, o sostanza,
o subbietto.
In due modi adunque noi percepiamo gli enti: come principio
e come termine.
Noi percepiamo gli enti come termine, quando noi siamo passivi
e riceviamo nel nostro sentimento la loro attività; allora noi percepiamo
l' attività in noi come nel termine dell' azione, e desumiamo la natura
dell' ente percepito dalla natura del termine dell' azione di lui, unica
cosa da noi percepita. Questo è ciò che avviene nella percezione dei
corpi.
L' ente poi, che percepiamo come principio di attività, altro
non è che noi stessi, l' anima; essa si percepisce come un proprio sentimento,
nel quale ciò che pensiamo come primo atto, in cui sussiste tutto
il resto che in esso si distingue, è la sostanza, il subbietto. L' anima umana,
dunque, è un ente7principio.
ordine intrinseco dell' essere nell' entità corporea.
Noi vediamo che in tale entità, che corpo e materia si dice, vi è un
atto anteriore agli altri, sul quale si fondano gli altri, un atto senza di
cui non ci è possibile pensare gli altri; e il quale noi possiamo ben pensare
senza gli altri, benchè dobbiamo insieme sottintendere che, venendo
realizzato, egli s' accompagni con altri, e questi in parte variabili.
Ora questo atto primo concepito è la sostanza, e gli altri, che hanno
quel primo come loro subbietto, noi li pensiamo di poi e li chiamiamo
sostanziali , in quanto sono al tutto necessari alla sussistenza di quel primo,
benchè non al concetto di lui (e questi atti nella loro unità diconsi
forma sostanziale ); li chiamiamo poi accidentali in quanto non sono
necessari, in quella parte cioè nella quale essi possono variare, senza
che venga meno la sostanza, nè gli atti sostanziali; e sono le forme accidentali
o accidenti . A cui s' aggiungono certe determinazioni estrinseche
venienti dalla realità e non dall' idea dell' ente.
Tale è dunque l' ordine intrinseco dell' ente materiale, che in
esso si distinguono coll' intendimento:
Un atto primo, sostanza, senza del quale non s' intendono gli altri
atti, e al quale si riferisce la denominazione di ente .
Atti o forme sostanziali, che hanno per subbietto che li regge
la sostanza, ma che sono necessari al concetto compiuto dell' ente.
realità .
Il primo atto adunque, che si concepisce nell' oggetto della
percezione, è la sostanza.
Ma questo primo atto talora ha ragione di principio , talora ha ragione
di termine .
Di più talora quel primo atto (s' intenda sempre primo, rispetto
all' ordine intrinseco dell' entità percepita, o concepita) ci si presenta
come essenzialmente e unicamente principio; talora ci si presenta come
essenzialmente ed unicamente termine dell' atto medesimo, di cui ci rimane
occulto il principio; talora come avente in sè i due rispetti di termine
d' un atto e di principio di un altro atto.
Quindi tre specie di sostanze, l' una delle quali è l' atto primo
(nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di principio;
l' altra è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde
mai la natura di termine; la terza è atto primo (nell' oggetto concepito),
che ha ragione di termine rispetto ad un atto precedente a sè (che è
perciò una sostanza diversa da sè), ed ha ragione di principio rispetto
all' atto proprio e agli atti susseguenti, dei quali soli essa è atto primo ed
atto7principio.
L' essere atto, essenzialmente ed unicamente principio, appartiene
a Dio solo; l' essere atto primo, essenzialmente ed unicamente
termine, appartiene alla sostanza materiale; l' essere atto primo, termine
rispetto ad un' attività precedente a sè e principio rispetto all' atto del
proprio sussistere e agli atti secondi, appartiene alle creature spirituali,
e quindi all' anima umana.
E` bene notare che questa è classificazione di sostanze, ossia
di atti primi (intendendo per primo quello che nel concetto di un
termine; onde abbiamo provata già innanzi l' inerzia
della materia. Le mutazioni dei corpi adunque non sono operazioni della
sostanza corporea, ma modificazioni di essa; onde l' attività si percepisce
sempre nel suo termine, e mai nel suo principio.
Noi abbiamo detto che l' anima si può considerare come termine
di un' azione precedente a sè (del Creatore); ciò ha bisogno di
spiegazione.
Altro è il dire che l' anima sia termine di un' azione precedente a sè,
altro è il dire che questa azione, giacente e operante nel suo termine,
sia l' anima. Il dir questo sarebbe errore manifestissimo. Il che non solo
si scorge dall' assurdo che ne verrebbe, giacchè in tal caso l' azione creatrice
sarebbe l' anima; ma si prova anche direttamente, com' è dovere
del filosofo, dalla percezione dell' anima, confrontata colla percezione
che abbiamo della materia.
I corpi si percepiscono come effetti immediati di un' azione straniera
nell' anima; il concetto di essi adunque risulta dalla loro azione
in un altro ente che si percepisce; quindi è che si percepiscono, in quanto
l' attività loro è nel suo termine, nelle passività dell' anima. Ma questa
attività dei corpi nell' anima, come in loro termine, non è il principio
che li fa sussistere come enti in sè stessi, il quale principio noi non
percepiamo. All' incontro l' anima non si percepisce come agente in un
altro ente diverso da sè, ma come essente in sè; si percepisce adunque
tutta intera fino nel principio della sua attività. L' azione dunque, di
cui ella è termine, è cosa straniera a quel principio che si chiama anima,
ed a questo anteriore. Ciò che è principio di un atto non può essere
termine dello stesso atto, ma di un atto precedente.
Dunque il concetto dell' anima è quello di essere principio; e non
è termine rispetto allo stesso suo atto primo (sostanziale), ma è termine
rispetto ad un altro atto diverso da lei, che non si percepisce.
ordine intrinseco dell' ente che
si chiama corpo. In quest' ordine abbiamo distinto: 1 la materia, primo
subbietto delle altre qualità, o sostanza; 2 la forma sostanziale
ecc.. Ma nell' anima umana non v' è materia. Non vi sarà dunque alcuna
distinzione fra la sostanza e la forma sostanziale dell' anima?
Come in ogni questione, così in questa conviene prima ben intendersi
sul valore delle parole, cioè conviene definirle accuratamente, e
quindi procedere conseguenti alla data definizione. Che cosa dunque si
intende per forma sostanziale?
Per forma sostanziale noi intendiamo « un atto perfezionante
un altro atto, per modo che da questa perfezione, che il nuovo
atto riceve, viene denominato con un nome sostantivo ». Così la
materia non si chiama col vocabolo sostantivo corpo , se non concepita
con quelle determinazioni che si concepiscono necessariamente nei corpi,
come sarebbe una data grandezza, una data figura, ecc..
Ciò posto, è da notarsi che « l' atto perfezionante un altro
atto »può concepirsi in due modi; cioè in modo che « l' atto perfezionante
dia perfezione e finimento ad un atto, nel quale e pel quale egli
stesso esiste », come accade pure della materia, nella quale, come in
subbietto, e per la quale sussiste la sua determinazione, cioè la sua grandezza,
la sua figura, che la compie e perfeziona. Ovvero l' atto perfezionante
può intendersi in modo che dia perfezione ad un altro atto,
pel quale e nel quale egli non esiste, ma sia un atto diverso da quello,
in cui e per cui esso esiste; e così l' anima si concepisce essere forma
del corpo extrasoggettivo, in quanto che il corpo animato presenta all' osservazione
esterna i fenomeni della vita, che si hanno come una sua
perfezione (relativa a noi). Considerato poi il corpo soggettivamente, esso
risulta: 1 da un' azione di un agente nell' anima; 2 dalla natura
dell' effetto che questo produce nell' anima, che è il sentito ed il suo
modo, cioè l' estensione. E poichè questi effetti avvengono nell' anima e
per la natura essenzialmente sentimentale dell' anima, quindi ancora
l' anima è quella che si modifica, in modo da presentare in sè stessa tali
sentimenti. Quando dunque il pensiero dell' uomo prende questi sentimenti
sostanza senza più (1).
Si dirà che l' anima ha per sua essenza di essere forma o
entelechia del corpo. Sebbene noi abbiamo già dichiarato come ciò si
debba intendere nella prima parte, tuttavia conviene che, a dissipare
l' obbiezione, qui si aggiunga qualche cosa. Se per corpo s' intende un
ente diverso dall' anima, in tal caso non si può dire che l' essenza dell'
anima consista nell' essere forma del corpo, perchè l' azione o la relazione
di due enti non costituisce mai l' essenza, nè la sostanza di niuno
di essi. Questa relazione può bensì conseguire necessariamente alla sostanza
di uno d' entrambi questi enti; ma ciò che consegue alla sostanza,
non è sostanza. Dico che consegue alla sostanza, perocchè le sostanze
sono così fra loro unite e quasi costipate nella natura dell' universo che
le une colle altre si sostengono e producono, sicchè diventano condizioni
reciproche della loro esistenza; e queste conseguenze noi le chiamiamo
conseguenti sintetici delle sostanze .
Ma se noi consideriamo la sostanza dell' anima in sè e non
in questi suoi conseguenti sintetici , in tal caso noi dobbiamo primieramente
distinguere fra l' anima meramente sensitiva dei bruti e l' anima
umana. E in quanto all' anima sensitiva, ella deve avere certamente, oltre
il principio, anche il termine (sentito7esteso) del suo atto; ma la sua sostanza
non istà in questo termine, ma nel principio; e questo termine non
è che condizione di sua esistenza e ragione della sua individuazione. Che
se questo termine si vuole tuttavia chiamare forma dell' anima, in quanto
perfeziona l' atto pel quale ella è e lo individua, non ne viene però che
forma , cioè del
sentito fondamentale che individua l' anima, e che è dove si svolge e dimora
il principio senziente. Il sentito adunque può dirsi forma sostanziale
dell' anima, ma non la materia; perocchè egli non riceve la perfezione sua
dal principio, ma piuttosto la dà al principio, al contrario di ciò che fa la
materia, che è quanto d' imperfettissimo e di sommamente indeterminato
(1) si può pensare nei corpi. Onde in ogni modo la nozione di materia
non può convenire all' anima. Tanto più ciò s' intenderà, quando si considera
che lo stesso termine dell' anima è in essa come in suo principio,
come dichiareremo più ampiamente in appresso. Onde nell' anima dei
bruti vi è sostanza e forma sostanziale indivise, in modo che non si può
pensare l' una senza l' altra, ma non vi è materia.
Se poi si parla dell' anima umana sensitiva ed intellettiva ad
un tempo, noi vedemmo che la sua essenza sta nell' essere un principio razionale,
e che lo stesso principio sensitivo riceve natura di termine a tal
principio, in quanto è unito al principio razionale con naturale e continua
percezione. Onde rispetto all' anima razionale si possono
fare tutte le riflessioni, che facemmo rispetto all' anima meramente
sensitiva per escludere da essa la materia; oltre agli argomenti particolari,
che provano l' intelletto essere immune da ogni materia, per la ripugnanza
che passa fra i caratteri essenziali di questa e i caratteri essenziali di
quello.
Per le quali cose convien dire che se nell' anima si distingue
la sostanza dalla forma sostanziale, ad ogni modo la sostanza dell' anima
non ha ragione di materia, ma di atto7principio, benchè in questo atto7principio
si possa distinguere qualche cosa che lo perfezioni e individui,
e che ha ragione di termine, rimanendo però l' anima anche in questo
suo termine essenzialmente principio; e questa perfezione e termine si
può chiamare forma sostanziale.
atto noi intendiamo qualsivoglia entità .
Tuttavia la parola atto esprime l' entità con di più una relazione,
cioè colla relazione a potenza , onde è necessario ricorrere al concetto di
potenza acciocchè sia dichiarata pienamente la nozione di atto.
E` nondimeno da osservarsi che la nozione di atto involge
la relazione con quella di potenza, talora in un modo positivo, e talora
in un modo negativo.
La involge in un modo positivo , contrapponendosi la potenza all' atto ,
quasi che la potenza non sia ella stessa un atto.
La involge poi in un modo negativo , escludendo la potenza dall'
atto, come quando si parla di un atto, a cui non risponde alcuna
potenza.
Noi abbiamo detto che l' ordine intrinseco dell' ente non
si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' esperienza di quegli
enti, che cadono nel nostro sentimento, i quali sono i corpi e l' anima
propria.
Abbiamo quindi posta la nostra attenzione su questi enti per conoscerne
l' intrinseco loro ordine, ovvero come essi siano internamente costruiti
e quasi organati.
Noi rilevammo, da questa attenta osservazione, che ogni ente ci
presenta una unità, ma che la mente in questo uno discerne più elementi
con tale ordine fra loro, che taluno si concepisce anteriormente a tal
altro, di modo che questo non si può pensare esistente se non insieme
con quello che nell' ordine logico lo precede; onde questo secondo si
dice che esiste nel primo e pel primo. Il primo poi di tutti, che si può
concepire da sè innanzi agli altri, si dice che contiene gli altri, li sorregge
e li fa esistere; e a lui si dà il nome di sostanza .
forme accidentali o
accidenti .
Gli accidenti dunque sono certe attualità o entità non necessarie
al concetto dell' ente, le quali però lo perfezionano; ovvero sono le privazioni
di tali attualità o entità, che soggiacciono a variazioni.
Ma anche queste attualità accidentali non si possono concepire senza
la sostanza e la forma sostanziale dell' ente, onde si dice che esistono
nella sostanza e per la sostanza.
Di qui avviene che si possa concepire l' ente, ora fornito
di queste attualità, ed ora privo di esse. Quando noi concepiamo l' ente
privo di tali attualità, allora noi vediamo ad un tempo che egli può
averle, e che, avendole, rimane lo stesso ente; e questo è considerare
l' ente come una potenza . Diciamo ancora che quelle attualità esistono
nell' ente in potenza e non in atto, volendo con ciò significare che quell'
ente è suscettivo di tali attualità, benchè non le abbia.
La potenza adunque è quella relazione, che la mente concepisce in
un ente colle sue attualità accidentali, o colle variazioni e privazioni
di esse.
Dal quale concetto scaturiscono più conseguenze.
E in primo luogo si scorge che non vi può essere potenza, la quale
sia mera potenza senza alcun atto, poichè la potenzialità d' un ente suppone
sempre l' ente, e quindi l' atto ond' egli esiste come sostanza e come
forma sostanziale.
In secondo luogo si vede che l' atto precede, assolutamente parlando,
alla potenza, giacchè la sostanza è un primo atto, e la forma sostanziale
ne è la sua perfezione necessaria a costituirlo; e la potenza non è, come
dicevamo, se non la relazione che concepisce la mente fra quel primo
atto e gli atti accidentali, e loro variazioni e privazioni.
In terzo luogo è manifesto che ogni potenza è congiunta
ad un atto, e che non forma un ente diverso da quello dell' atto a cui
aderisce. All' incontro gli atti possono dipendere e ricevere la loro esistenza
da altri atti a loro precedenti, in modo che questi atti precedenti
costituiscano enti diversi. Di che si scorge perchè S. Tommaso con molta
acutezza insegni che [...OMISSIS...]
potenze recettive (2).
potenze passive (1).
Finalmente l' ente stesso può porre degli atti che gli sono accidentali,
e così gli si attribuisce quella relazione, che noi chiamiamo potenze attive .
Ben si noti che tutto ciò che si dice degli atti in potenza,
si dice, in senso contrario, anche della loro privazione, onde il poter
essere privato di tali attualità prende forma di potenze negative .
Dappertutto dove vi è una sostanza (unita all' idea), vi
è un ente, perchè la sostanza è il primo atto che concepiamo, il quale
fa sussistere gli altri nel modo detto.
Ora le sostanze, e conseguentemente gli enti, furono da noi distinti
in due classi, chiamate degli enti7principio e degli enti termine .
Gli enti7termine sono quelli che non si concepiscono come senzienti;
tale è la materia.
Gli enti7principio sono quelli che si concepiscono come senzienti;
tale è l' anima e tutte le intelligenze.
Tanto gli enti7principio, quanto gli enti7termine sono sostanze, perchè
si concepisce in essi un primo atto, pel quale esistono tutti gli altri
atti (attivi e passivi) in essi discernibili col pensiero.
Questi atti distinti (attivi e passivi) dalla sostanza, altri sono necessari
(forme sostanziali), altri accidentali (forme accidentali).
Essendovi dunque tanto negli enti7principio, quanto negli
enti7termine atti accidentali, si distingue in essi la potenza dall' atto .
Di più possono cadere, tanto in enti che appartengono alla classe
degli enti7principio, quanto in enti che appartengono alla classe di enti7termine,
delle potenze ricettive, attive e passive; e quindi possono soggiacere
atto , vi sia la potenza . Anzi, dandosi in essa molti atti
accidentali, conviene che molte sieno le potenze, che ad essi si riferiscono.
Le quali potenze dovendo noi trar fuori e diligentemente descrivere,
come ci siamo proposti a principio, ci conviene prima d' ogni altra cosa
investigare in che modo nell' anima sì gli atti che le potenze possano
essere contenute.
Gravissima e difficile questione, come sono tutte quelle
che considerano l' interna costruzione dell' ente, si trova esser questa:
« come gli atti accidentali sieno contenuti potenzialmente nell' ente ».
Conviene anche qui che noi cominciamo dalla lunga.
In prima, si rammenti che, quando noi parliamo di un ente
per riconoscerne la natura e l' interna costituzione, l' ente, di cui parliamo,
è quello che esiste innanzi alla mente nostra, e non alcun altro;
poichè se non l' avessimo concepito, non potremmo riflettere su di lui,
sintesismo della natura.
A ragion d' esempio, la natura dell' anima sensitiva non si può concepire
senza ammettervi un esteso, che è il sentito o il sensifero, onde
ci viene il concetto di corpo. Eppure l' anima è sostanza al tutto diversa
dall' esteso e dal corpo. Alla sua volta il sentito esteso non si può intendere,
nè concepire, se non si suppone che egli esista nel semplice, onde
riceve l' unità; eppure di nuovo l' esteso corporeo è sostanza al tutto diversa
dall' anima. Sono dunque due sostanze, l' una delle quali sorregge
e fa esistere l' altra, niuna delle quali si concepisce senza l' altra; eppure
l' una è dall' altra differentissima.
Se noi parliamo dell' anima razionale troviamo la stessa legge. E`
sè , e però neppure propriamente il suo , nè loro si addice in proprio
alcun pronome personale. Ma l' uomo pensa e parla di loro, come avessero
un' esistenza in sè, e loro applica i pronomi personali. Il che egli fa
di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle; non vuole con
ciò attribuir loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo
di essere, senza il quale egli nulla concepisce. Perocchè questo modo
suppone che « l' ente abbia un atto suo proprio, sia in sè stesso qualche
cosa, e però abbia un sè , una personalità ». Infatti non si dà essere
completo, se non è persona; la persona è condizione ontologica dell' essere.
Onde le anime meramente sensitive sono soggetti, ma soggetti incompiuti;
e però non hanno tutta quella realità, che è necessaria a costituire
un ente reale.
sè , e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un' esistenza
in sè; queste sono le sostanze intellettive, le quali sono enti7principio
e non dipendono da niuna sostanza contingente, nè antecedente,
nè conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall' essere eterno
e divino. Queste sole hanno la suità, e possono dire Io a quel modo che
abbiamo spiegato; ed esistendo un Io, esiste una vera causa,
onde sono veri agenti, dotati di libertà. L' atto, con cui queste sostanze
esistono, è indipendente da ogni sostanza creata; esse possono quindi sovrastare
a tutte, ed operare in modo da non essere necessitate dall' azione
di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono pure intelligenze,
e non legate all' essere sensitivo o corporeo, come accade dell' uomo,
essere misto di sensitività corporea e d' intelligenza.
Classificate così le sostanze secondo l' intrinseco loro ordine,
giusta il quale sono costruite, noi possiamo finalmente riprendere
la questione propostaci: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell'
essenza dell' anima umana », la quale dipende dall' altra più generale:
« come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza delle sostanze ».
E la risposta generale a questa questione nasce dalle cose dette, e
si può esprimere così:
« Posciachè le diverse sostanze contingenti sono reciprocamente
così unite che l' una sorregge l' altra e la fa esistere, basta concepire una
mutazione in questa unione ontologica, acciocchè si concepisca altresì
come le sostanze debbano riuscire variamente modificate, e queste modificazioni
sono gli atti accidentali di esse ».
Gli atti accidentali adunque delle sostanze dipendono dalle
connessioni ontologiche , che esse hanno fra loro, e quindi si può dire
che siano ad esse estrinseci.
In questo modo l' unità della sostanza è mantenuta nella
moltiplicità e varietà dei suoi atti, e così è sciolto uno dei più difficili
problemi dell' Ontologia. Perocchè tale è la natura di quell' atto, che si
chiama sostanza contingente , che egli si congiunge ad un' altra sostanza,
e per questa congiunzione sussiste. Onde, quantunque non si ponga alcuna
varietà costitutive , e le seconde consecutive o passeggiere,
che sono accidenti rispetto alle prime.
Se ad un animale si aggiungesse un senso nuovo (il che è possibile
a concepirsi negli animali imperfetti, benchè non credo che si possa
affermare possibile nei perfetti, se parlasi di sensi corporei), in tal caso
seguirebbe in lui una mutazione costitutiva e stabile a cagione dell' unione
d' un nuovo sentito, il quale differirebbe dai precedenti non pure
per la quantità, ma ben anche per la qualità della congiunzione.
Dalla quantità e dalla qualità, che può variare nelle sostanze
congiunte ontologicamente ad altre, nasce altresì il concetto di
quelle che si chiamano parti integrali d' un tutto; poichè l' uomo, a cui
fu recisa una gamba, sofferse un cangiamento costitutivo e stabile, in
quanto che non gli aderisce più una parte di quella sostanza, che a lui
doveva aderire secondo il suo tipo ideale; eppure l' essenza dell' uomo
rimase intatta, poichè non si cangiò nulla di ciò che cade nell' idea prima
di uomo, cangiò bensì la congiunzione ontologica per la quale l' uomo
sussiste.
Finalmente la congiunzione ontologica talora non
muta in modo che l' una delle due sostanze si cangi stabilmente, ma muta
solo in questo, che l' una si unisce più o meno, o in diversa guisa alla
sua compagna, e ciò per modo passeggiero e variabile, onde nascono
quei cangiamenti accidentali, che sono gli accidenti comuni, a cui le sostanze
create soggiacciono.
accidenti
costitutivi secondo natura , come il sesso;
2) parte sono mutazioni di parti integrali , come accade nei mostri,
a cui manca qualche parte o qualche parte si è aggiunta; e questa
è un' altra classe di varietà o accidenti costitutivi contro natura;
3) parte non sono che di qualità , come la maggiore o minore robustezza,
o il colore nero o bianco della carnagione.
Ora poi, essendo la costituzione animale una predisposizione
necessaria alla razionalità, in quanto che l' uomo riceve dall' animalità
la materia della cognizione e le segnature secondo le quali ragiona,
e quindi anche l' attitudine a ragionare con più o meno di perfezione,
dipendente dalla facilità di avere, richiamare, mantenere, o
mescolare a sua voglia le segnature sensibili delle cose; risultano nella
facoltà ragionatrice ed affettrice altrettante varietà, quante sono le varietà
indicate spettanti all' animalità umana.
Che se poi l' essere, dall' uomo intuìto, acquistasse una realità,
il suo stato intellettivo si cangerebbe sostanzialmente; ed è il passaggio
che fa l' uomo dallo stato naturale allo stato soprannaturale; il
quale argomento appartiene alla Teologia. A questo cangiamento però,
risguardante la forma soprasostanziale dell' uomo, seguita un cangiamento
relativo nella sua facoltà ragionante e nello stesso suo corpo, per
stato , e non sono atti transeunti , dei quali noi dobbiamo parlare.
La materia corporea, avendo ragione di termine, è necessariamente
inerte; perciò non si avvera rispetto a lei che
vi sia passaggio dalla potenza all' atto; ma tutte le mutazioni di lei procedono
dal di fuori; ella è meramente passiva; onde non ha che atti
passivi, che non sono propriamente atti, ma passioni. Le passioni poi
dell' ente corporeo riguardano sempre la quantità, e quindi cagionano
mutamento nella pluralità, nelle forme, nelle località dei corpi, ecc..
L' essere sensitivo pare che abbia degli atti accidentali, e così si
possono chiamare. Ma se si considera attentamente come egli è costituito,
si scorge che questi atti non hanno la loro ragione sufficiente in
lui, ma nella sostanza che lo sorregge e lo attua, che è la sostanza corporea.
L' essere egli adunque sorretto ed attuato diversamente, è ciò che
cangia il modo accidentale della sua attività. Poichè egli è un' attività,
giacchè, come vedemmo, è un ente7principio. Ma questa attività è sostenuta,
informata ed attuata dal suo termine, cioè dal sentito; onde al
cangiarsi di questo, quell' attività diventa maggiore o minore, e spiegasi
in diverse guise, ma senza che muti la legge o il tema della medesima.
A ragion d' esempio, se noi teniamo aperti gli occhi sopra una superficie,
sulla quale trapassino diverse figure variamente colorate e disposte,
la ragione della mutazione successiva giace al tutto fuori dell' occhio;
l' attività dell' occhio inteso a riguardare rimane la medesima, benchè
cangino quelle rappresentazioni; l' occhio vede sempre colla stessa virtù,
collo stesso atto; pur egli pare che cangi l' atto visivo, ma non cangia
da parte sua, sì bene è il termine che cangia. E tuttavia questo termine
dell' atto dello sguardo è necessario al vedere, ed è ciò che fa che l' occhio
veda attuando la visione. Onde secondo il cangiare della superficie
veduta, cangia di conseguente anche l' atto dell' occhio, ma restando
immutabile il suo tema, cioè il principio veggente e la legge del vederla.
Ora è indubitato che se sulla superficie rimirata dall' occhio diminuisce
il numero delle figure e s' impiccioliscono, l' occhio vede meno cose di
prima, e se cessano affatto quelle rappresentazioni, l' occhio non vede
più che una superficie uniforme. Ma se questa superficie visibile all' occhio
andasse restringendosi, anche l' atto del vedere diminuirebbe, e se
la superficie visibile sparisse del tutto, l' atto del vedere insieme con lei
sensitivi ed intellettivi .
E in quanto sono sensitivi, si spiegano al modo detto. In quanto poi sono
intellettivi, non si possono spiegare se non ricorrendo al termine loro
proprio, che è l' idea che attua l' attività intellettiva, l' oggetto, l' essere in
universale. L' essere in universale è semplicissimo e per sè stesso immutabile;
onde l' intelletto, come tale, è pure immutabile nell' ordine della
natura, e non suscettibile che di una mutazione soprannaturale, quando
l' essere ideale gli si realizza dinnanzi; il che non accade che nell' ordine
della grazia e della gloria, fatto superiore all' umana filosofia. E` vero
che si può dubitare se lo stesso essere ideale risplenda di egual luce a
tutti gli intelletti umani; ad ogni modo io inclinerei a dedurre la primitiva
diversità degli ingegni dall' ordine razionale, anzichè dal solo ordine
intellettivo.
atti delle percezioni dipendono adunque dalle
realità, che cadono nel suo sentimento; e quindi si spiegano anch' essi
ricorrendo alla varietà del termine della percezione e all' attività razionale
primitiva, per la quale l' anima è sempre tesa e per così dire inarcata
verso il termine percettibile, che gli si presenta nel sentimento, senza
bisogno di riporre alcuna mutazione spontanea cominciante in questa
stessa attività primitiva. I bisogni poi determinano la riflessione dell' uomo,
e questi atti riflessi rimangono spiegati allo stesso modo, perocchè i
bisogni si fanno sentire dapprima nell' animalità. Solamente quando l' uomo
è giunto all' uso della propria libertà (1), si presenta in lui un genere
di atti affatto nuovo, la cui spiegazione sembra richiedere che l' agente
si muova siffattamente da sè, che il passare dalla potenza all' atto non
dipenda dal termine, ma dal principio operante.
E qui sta appunto la difficoltà maggiore, nello spiegare cioè
come quegli atti accidentali non tolgano l' unità del principio agente. La
quale difficoltà è tanta che colui, che pur giunge ad intendere lo scioglimento
di questa specie di mistero filosofico, trova somma difficoltà ad
aprire il suo pensiero in parole per modo da farsi altrui ben intendere.
Il che tuttavia noi tenteremo di fare.
In prima si ricordi che la libertà (parliamo di libertà bilaterale) è
la facoltà di eleggere fra due volizioni (2).
Di poi si consideri come non vi ha luogo a vera libertà bilaterale se
non nell' ordine morale, quando si tratta di eleggere fra una volizione
consentanea alla legge e la sua contraria; perocchè fuori di questo caso
non vi è ragione che possa indurre l' uomo a posporre il bene al male soggettivo,
o il maggior bene al minore bene soggettivo (3). Ma qualora si
tratta di porre a confronto l' ordine soggettivo coll' ordine oggettivo7morale,
allora s' intende come possa essere che l' uomo anteponga il minor
bene oggettivo7morale al maggiore fra i beni soggettivi; ovvero anche faccia
il contrario, anteponendo il bene soggettivo a qualsivoglia gran bene
oggettivo7morale. La ragione di ciò si è che l' ordine soggettivo e l' ordine
oggettivo7morale non appartengono alla stessa categoria, nè i gradi loro
si possono confrontare o commisurare insieme; onde niente hanno di
comune, nè la specie, nè il genere, e però neppure vera somiglianza, nè
manco vera analogia. Quindi se si considera il bene morale puramente
tale (il quale si scorge nella necessità dell' obbligazione morale), egli non
reale, ideale e morale .
Nell' essere dunque, nell' unità dell' essere convengono le tre categorie,
benchè distinte fra loro assai più che genere da genere, ed incomunicabili.
Trovato il nesso, ossia la sede unica delle categorie, dove vi
è un' unità semplicissima con una trinità distintissima, si potrà intendere
ancora come l' essere, che si comunica all' anima sotto la categoria
reale e sotto la morale, possa mantenere nell' anima l' unità e non distruggerla,
solo che si concepisca nell' anima anteriormente all' attività reale
ed all' attività morale, e contemporaneamente una attività che riguarda
l' essere nella sua unità; e questa attività si prova di fatto essere nell' anima,
solo considerandosi l' intelligenza che ha per termine l' essere. Poichè,
quantunque questa facoltà abbia per termine l' essere sotto la forma
ideale, tuttavia ella ha prima ancora per oggetto l' essere puro , non potendosi
comunicare colla forma ideale dell' essere senza comunicare coll'
essere stesso, che in questa forma si manifesta. Onde anche nell' anima
vi è unità e trinità di efficienza, vestigio manifestissimo della divina Trinità.
vedere la necessità morale ,
questo speciale termine della sua intelligenza, è il fonte della sua libertà,
perchè sa per esso di potere e di dovere, benchè non sia determinata a
volere.
L' intelligenza adunque è il fonte della libertà, poichè l' intelligenza
rappresenta all' anima l' ordine morale e la sua necessità suprema; le rappresenta
che da quest' ordine le può venire quella forza che non ha, e che
dipende da lei l' avere. Come dunque le altre attività dell' anima si determinano
ai loro atti dagli oggetti o termini loro, che le attuano e le sorreggono,
perchè tali oggetti sono determinati, così la libertà è determinata
dal suo oggetto; ma questo oggetto, che è quello dell' intelligenza,
potenzialità generale dell' anima
e le potenze speciali . Ora noi dobbiamo parlare della potenzialità dell'
anima in genere, e cercare come ella si distingua dall' essenza dell' anima;
perocchè della distinzione delle potenze fra loro parleremo nei
libri seguenti.
variabile . - Ora questa
variabilità, che è la causa delle potenzialità, spetta al termine dell' anima
e non al principio, che è l' anima stessa, la quale dal suo termine
viene diversamente attuata. Onde questa, che è la vera potenzialità, rimane
distinta dall' essenza dell' anima, la quale si potrebbe concepire
anche se il termine non variasse giammai. A ragion d' esempio, non si
può concepire anima sensitiva senza un sentito , ma questo sentito può
essere vario in mille modi, e variare da un modo all' altro. Quindi ciò
che si esige a concepire l' anima (a pensare la sua essenza) è un esteso
sentito, ma senza bisogno di determinare la qualità di questo sentito
esteso. Nel concetto dell' anima adunque, in cui si pensa l' essenza e non
più, rimane indeterminato il sentito.
In quanto adunque l' anima ha un sentito esteso qualunque,
ella si concepisce nella sua essenza; in quanto l' anima può avere
l' uno o l' altro sentito, si concepisce nella sua potenzialità . La potenzialità
dunque è diversa dall' essenza dell' anima.
Lo stesso ragionamento si può fare dell' oggetto, che è termine dell'
anima intellettiva, solamente che l' anima intellettiva ha un oggetto
determinato, che è l' essere in universale; e la variabilità non cade in
lui propriamente, come quello che è immutabile, ma nelle realità, che
in lui e per lui si conoscono (2).
principio , il quale viene
attuato dal suo termine, è chiaro che è il principio , cioè l' anima , che,
attuata diversamente dai diversi termini, fa tutti quei diversi generi di
atti, a cui si riferiscono le potenze; onde l' anima è dichiarata dal sommo
filosofo italiano il principio degli atti, ma il principio remoto, laddove
le potenze il principio prossimo (2).
abito , in generale, è una certa disposizione acquisita ed
accidentale dell' anima, per la quale ella è posta in uno stato migliore
o peggiore, ed è più atta ad operare in un dato modo (1).
Quindi la parola abito riceve due significati principali:
o si considera relativamente all' essenza dell' anima, o relativamente alle
sue potenze.
Se l' abito si considera relativamente all' essenza dell' anima,
egli è quello che aggiunge qualche cosa in meglio od in peggio allo
stato naturale di lei, e perciò pone l' anima in uno stato migliore o
peggiore di quel che ella avrebbe priva di lui.
Se poi si considera relativamente alle potenze dell' anima,
l' abito è una disposizione che dà loro maggior facilità di operare in un
dato modo, ordinato o disordinato, buono o cattivo.
istinto sensuale ,
ente appartenendo unicamente
all' intelligenza, ella ne ritiene il concetto (ideale), anche passato l' atto
del percepirlo.
Ma due cose qui rimangono da investigare:
Se il concetto ideale possa rimanere, senza che vi sia alcun vestigio
sensibile a cui riferirlo.
Se possa rimanere la percezione dell' esistenza reale dell' ente
concepito.
Quanto al primo, noi teniamo che il concetto determinato di un
ente non si possa pensare attualmente, senza che egli si riferisca a qualche
vestigio della realità. Tuttavia, durante questo vestigio è certo che
l' attività intellettiva acquista degli abiti rispetto a lui. Contro la prima
parte di questa nostra posizione nulla prova il fatto degli astratti , i quali
non sembrano riferirsi a nessun vestigio di realità; poichè, se ben si
considera, essi si appoggiano e si riferiscono pure a qualche elemento
di vestigio, benchè non all' intero vestigio. Laonde pare che la mente
possa pensare attualmente gli astratti, solo allora che ella venga a ciò
aiutata da qualche vestigio di loro realità.
Quanto poi alla persuasione della loro sussistenza esperimentata
in passato, si richiede qualche prova a convincersi che un ente,
di cui si esperimentò la sussistenza in passato, sussista anche in presente,
ed ogni prova involge qualche percezione di realità. Del pari ad
essere persuaso di avere percepito in passato un sussistente (cioè ad
averne memoria), sembra indispensabile l' aiuto di qualche sensibile
vestigio, giacchè il sensibile talora è la materia propria della cognizione
razionale, talora è lo stimolo al suo atto, come si dirà a suo luogo.
Quindi è che gli abiti delle singole potenze razionali dovrebbero
interamente cessare, se venisse tolto all' anima ogni sentito
corporeo, e non gliene fosse dato alcun altro, che avesse con quello alcuna
relazione.
Non procede però da questo che cessino interamente gli
abiti remoti del principio razionale, perocchè l' anima separata conserva,
come abbiamo detto, il principio dello spazio, che
è il principio remoto del corpo, e questo principio può essere subbietto
di abiti remoti, reliquie degli atti del vivente.
principio di tutte le
sue operazioni e di tutte le potenze; ma alcuni dicono che il subbietto
delle potenze, che hanno bisogno di organo corporale, è il composto, e
non l' anima sola (1).
Il che è vero sotto un aspetto, cioè in quanto che l' anima non potrebbe
avere una speciale sensazione, se non fosse fornita del corpo organico;
le sensazioni speciali adunque (e lo stesso dicasi d' ogni altro
atto, a cui abbisognano organi corporei) non si hanno dall' anima per
un' attività sua propria, e non in lei suscitata.
Ma noi abbiamo dimostrato che gli atti, le potenze e gli
abiti, dipendono dalla stessa legge, cioè « sono attività suscitate nell' anima
principio , e questa è ella
stessa; l' altra termine , il quale non è dessa, ma sì è suscitatrice di sua
attività, condizione senza la quale ella stessa non è.
Quindi se il principio si stacca da ogni suo termine, ci svanisce in
nulla; ma unito al suo termine, egli è qualche cosa di ben distinto da
questo; ha un' attività sua propria, benchè ella sia suscitata dal termine
quasi causa della forma.
Altra è dunque l' attività suscitata dal termine, che pone
in essere il principio; altra è l' attività di questo principio già posto in
essere.
Le potenze sono determinate dal termine, e variano secondo
il variare di esso; gli abiti procedono, come da loro fonte, dall' attività
propria del principio già costituito.
Ora quali sieno le leggi, secondo le quali l' attività propria
del principio cresca, diminuisca, si modifichi indipendentemente dal
termine, questo, noi dicemmo, non si può dedurre a priori, ma si deve
rilevare dall' attenta osservazione.
L' osservazione poi ci attesta che il principio ha tal virtù, per la
quale egli si sforza di tenere a sè unito il termine suo, e di conservarlo
in quell' atteggiamento e in quella disposizione che più gli piace, od anche
di modificarlo alquanto per atteggiarlo così, ed anche stringerlo a sè con
più intenso legame; i quali sono quattro modi diversi, in cui il principio,
ossia l' essenza dell' anima, spiega la sua attività.
E da questi modi nascono gli abiti, pei quali le potenze
operano più facilmente , più prontamente , più efficacemente e più dilettosamente .
Poichè, quando l' anima esercita qualche sua attività, sente diletto;
chè ogni attività è in lei essenzialmente sensibile e dilettevole, in quanto
a ) un esteso sentito,
dove vi è continuo cangiamento di parti, causa del sentimento di eccitazione,
e vi è organismo determinato; b ) l' essere ideale indeterminato.
Che il termine dell' anima in parte è variabile.
La quale variabilità consiste: a ) rispetto al corpo, nel cangiamento
dell' estensione, del movimento intestino, causa dell' eccitamento, e dell' organismo,
causa della perpetuità della vita; b ) rispetto all' essere ideale,
la mutazione è soltanto dalla parte dell' anima, in quanto questa vede
in lui i reali percepiti nel senso, e ne cava la dottrina della realità,
onde così si arricchisce il suo oggetto, non cangiandosi in sè stesso, perocchè
è l' anima che vede in esso ciò che prima non ci vedeva.
Ora tutti questi cangiamenti danno luogo agli atti accidentali, i
quali, cessando, lasciano gli abiti nell' anima.
Gli atti accidentali adunque nascono pei cangiamenti che
avvengono nei termini dell' anima, senza che si mutino questi termini
atti attivi , o avvengono in virtù
d' una causa straniera all' anima, nel qual caso sono atti passivi .
Gli abiti nascono da quel rimasuglio di attività, che resta nell' anima
al cessare degli atti accidentali.
Le potenze , finalmente, nascono dalla specifica diversità dei termini,
accoppiata all' attività dell' anima stessa.
Alla sentenza che l' attività dell' anima sorge in virtù dell' azione
del termine, consegue che nell' ordine logico si concepisce prima
nell' anima la passività e la ricettività , poscia l' attività .
Dico nell' ordine logico , poichè non sempre nell' ordine cronologico
è posteriore l' attività alla passività. Si distinguano dunque gli
atti secondi e accidentali dall' atto primo, che mette in essere l' anima
stessa.
Negli atti secondi l' osservazione dimostra che la passività precede
nell' anima l' attività, non solo nell' ordine logico, ma anche nel cronologico;
giacchè prima l' anima sente e riceve, e poscia si muove ed opera.
Ma questo non è possibile che avvenga rispetto all' atto primo, che è
quello pel quale l' anima esiste, giacchè prima d' esistere ella non può
essere passiva; ond' è forza che rispetto all' atto primo la passività e l' attività
sieno contemporanee.
Ma posciachè si vede che la relazione, che hanno fra loro la passività
e l' attività nell' atto primo, è simile a quella di causa ed effetto,
sicchè l' atto primo sorge in virtù dell' azione del termine; quindi si dice
che nell' ordine logico precede la passività e l' attività sussegue, quantunque
fino a che non vi è l' attività, non vi è l' ente.
Nascendo dunque l' attività dalla passività, rimane a cercarsi
se le potenze passive si possano dire specificamente distinte dalle
attive.
Stando a quello che abbiamo detto, che le potenze si distinguono
secondo la distinzione specifica dei termini, propriamente parlando, la
passività e l' attività non costituiscono potenze diverse, ma piuttosto diverse
facoltà o funzioni della stessa potenza; perocchè l' attività è una
passività il cominciamento dell' attività dell'
anima, onde nasce lo spontaneo o libero movimento del principio attivo
costituente l' anima, la facoltà passiva e l' attiva, che le corrisponde,
costituiscono una sola potenza, avente un solo termine, distinta però in
due facoltà pel diverso modo ond' ella si esercita.
Dove conviene aver presente che nell' intelletto in luogo di
passività vi è ricettività , poichè il termine non è nè in tutto, nè in parte
prodotto dall' attività del principio; che egli è di natura sua immutabile,
inalterabile, onde fra lui e l' anima non v' è propriamente relazione
di azione e passione, ma di presenza e d' intuizione. Tale è l' essere ideale;
laddove il sentito riceve natura di sentito dallo stesso principio senziente,
come abbiamo dichiarato, e però dal principio stesso egli è posto
e costituito come tale, cioè come sentito.
Si distinguono adunque le potenze come si distinguono i
termini dell' anima umana, con questa sola avvertenza che i termini primieramente
informano l' anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi,
modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano
gli atti secondi. Ora l' attività dell' anima, considerata rispettivamente
a questi atti secondi, si chiama potenza .
Di che deriva ciò che abbiamo altrove detto, cioè che v' è
nell' anima un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alla sua natura,
perchè ne mette in atto l' essenza; e vi è un sensibile ed un intelligibile,
sentimento , oppure cosa che cade nel sentimento, per esempio la forza
che immuta il sentimento; 2 o ella è idea; 3 o ella è ordine fra il sentimento
e l' idea. In ciascuna delle quali categorie noi troviamo l' essere
identico; e in quanto egli appartiene al sentimento, lo chiamiamo essere
reale; in quanto appartiene all' idea lo chiamiamo essere ideale; in quanto
appartiene all' ordine completo fra l' essere reale e l' ideale, lo chiamiamo
essere morale .
Riducendosi adunque a tre categorie tutte le entità possibili, forza
è che anche i termini dell' anima, che sono entità, si riducano prima di
tutto a questi tre modi dell' essere. Di che potremmo agevolmente scorgere
che la trinità dell' anima deve apparire sì nella sua essenza , e sì nelle
sue potenze; e ciò senza impedimento dell' unità, poichè in tutti questi
tre modi vi è l' essere uno ed identico, non partito, ma intero.
Solamente è degno di considerarsi che l' essere morale, risultando
dall' unione dei due primi, nell' ordine logico sembra ai due primi
posteriore. Ma è da distinguere l' ente finito dall' ente assoluto.
In questo l' essere morale non è posteriore, perocchè il completamento
e la perfezione è essenziale all' ente assoluto.
Ogni ente finito e intelligente all' apposto è costituito dall' essere sotto
forma di realità, e dall' essere sotto la forma di idealità; ma non è necessario
che vi concorra attualmente l' essere sotto la forma di moralità.
Tuttavia, laddove si trovano unite le due forme di realità
e di idealità, non può mancare una ordinazione fra loro; perocchè l' essere
sotto questi due modi tende necessariamente a completarsi e congiungersi
seco stesso, facendone risultare la terza forma, che è la forma
bene morale ,
non può tuttavia mancare la potenza di conseguirlo, ed anche la tendenza ,
e finalmente la necessità , acciocchè sia perfetto.
Dico che non può mancare la potenza, perchè questa è annessa alla
compresenza dell' essere reale ed ideale; poichè l' essere reale e ideale,
come termini dell' anima, suscitano in lei due potenze. Ora queste, congiunte
insieme nell' unità dell' anima, fanno luogo prima ad una terza
potenza, cioè alla ragione , e poi questa alla potenza morale. Perocchè
la ragione congiunge l' ideale col reale, appercependo questo nel lume di
quello; e quindi ella vede quale sia l' ordine dell' essere, a cui l' anima,
aderendo con tutta la sua razionale attività, si fa moralmente buona, o
a quell' ordine contrastando, si fa malvagia.
Ma l' anima non possiede a principio questa potenza se non virtualmente,
perchè ella non ha l' ordine dell' essere presente per natura,
ma soltanto ha l' essere nella sua forma ideale e in parte nella sua forma
reale altresì. Onde nell' anima la potenza morale è posteriore e solamente
virtuale.
Conviene dopo di ciò considerare in che maniera l' essere
reale e l' essere ideale concorrano a costituire l' anima; perocchè non vi
concorrono al modo stesso. La differenza sta qui, che l' essere reale è
principio e termine dell' anima; e in quanto è principio, egli costituisce
l' essenza stessa dell' anima; all' incontro l' essere ideale non è principio,
ma soltanto termine; ond' egli non costituisce l' essenza dell' anima, ma
concorre a produrla siccome causa formale, o, se più piace, causa della
forma, in quanto suscita in essa l' atto dell' intelligenza.
Dal sapere poi che l' essere reale rispetto all' anima è di due
guise, cioè principio e termine, si chiarisce via meglio come si generi
l' atto dell' essere morale, perocchè l' essere morale si radica nell' essere
reale in quanto egli è principio, e non in quanto egli è termine; chè la
moralità ha propriamente ragione di principio e non di termine, consistendo
nel compiacersi che fa un intelligente dell' essere conosciuto, in
quanto è essere; nel quale compiacimento consiste l' ordine compiuto fra
il reale e l' ideale. Ma quest' ordine deve essere prima presentato all' uomo
dalla ragione, quale oggetto della sua attività razionale, cioè della
volontà, e così costituisce il termine della potenza morale.
Ora l' ordine morale nasce così: L' essere reale intelligente conosce
nell' ideale l' essere sotto tutte le forme, e proporzionatamente se ne compiace.
Perchè se ne compiace? Perchè lo conosce, o, che è il medesimo,
lo trova nell' ideale; onde per mezzo dell' ideale si compiace dell' essere,
in quanto è essere sotto tutte le forme. Questo compiacersi è l' ordine
morale nell' anima, è il bene.
attuali e le virtuali , intendendosi per attuali quelle, di cui
l' anima reca seco il termine nella propria natura; e per virtuali quelle,
di cui l' anima non reca seco stessa il termine, ma lo produce ella medesima
operando.
Vero è che anche le potenze che chiamiamo attuali, fino a che si
stanno immerse nell' essenza dell' anima non si distinguono, unificandosi
nell' unità del principio, in cui si giacciono come quiescenti; o certo almeno
non si possono distinguere come potenze, il cui concetto involge
una relazione a diversi generi di atti accidentali, che sono ordinate a
produrre. Ma quando gli atti accidentali nascono, quando s' immuta quel
termine che è già nell' anima senza cangiare la specifica sua natura, allora
appariscono le potenze, che si dicono attuali.
Ora, come due sono i termini propri dell' anima umana, il
sentito e l' inteso , così due sono le potenze attuali e primitive, il senso intelletto , dotata ciascuna di facoltà passiva ed attiva; il senso della
facoltà attiva dell' istinto, l' intelletto della facoltà attiva della volontà.
Ma posti nell' anima il sentito e l' inteso, in cui terminano
le due potenze del senso e dell' intelletto, sorge il termine di una nuova
potenza, il quale si è l' accoppiamento del sentito e dell' inteso; pel quale
accoppiamento « il sentito si conosce nell' inteso », cioè nell' idea, e conseguentemente
si può volere ed amare, in quanto è conosciuto; quindi
una potenza derivata, che è la ragione , il cui officio è quello di apprendere
l' unità dell' ente, ossia l' identità del medesimo ente nel sentito
e nell' inteso, ossia nella realità e nell' idea, come pure nell' ordine suo.
Ora questa potenza, benchè sia conseguente alle due prime, e perciò
si possa chiamare derivata , non è tuttavia nella natura dell' uomo solamente
in virtù, ma è in atto; perocchè, come abbiamo veduto, nell' anima
umana vi è una prima percezione fondamentale della propria animalità,
in cui consiste l' unione dell' anima intellettiva col corpo, onde
risulta il composto umano; e questa prima e fondamentale percezione
è l' atto primo, pel quale la ragione esiste.
Ma non basta avere nell' anima il reale e l' ideale, termini
del senso e dell' intelletto; non basta neppure avere il loro accoppiamento
logico, termine della ragione, a far sì che sia posta in atto la potenza
morale . All' esistenza di questa è uopo che almeno esista la percezione
di un essere intellettivo, a cui si possa porre tanto affetto, quanto
egli si merita; il che viene a dire che lo si possa stimare ed amare per
sè, non quale semplice mezzo a noi stessi, il che niente vieta di fare cogli
esseri bruti. Ora in questa misura giusta della nostra stima comincia
la moralità.
La natura poi della moralità inchiude certa relazione a tutto
l' essere, perocchè ella è quell' atto che lo compie e perfeziona, e quindi
non può avere per oggetto se non l' essere intelligente che ha ragione
di fine, ed ha ragione di fine perchè attinge l' infinito (1). L' uomo adunque,
benchè senta, non percepisce però, nè conosce per natura alcun essere
intelligente, e neppure sè stesso; giacchè la propria animalità, di
cui ha la naturale percezione, non è sè stesso. Il perchè gli manca il termine
della potenza morale, e se lo deve procacciare coll' uso di sua ragione.
Onde la potenza morale giustamente da noi si chiama non pure
conseguente e derivata , ma ben anche virtuale , non trovandosi nell' umana
natura se non la virtù di produrre il termine di questa potenza, e
così metterla in essere. Lo stesso è a dirsi della libertà bilaterale, che
riflessione , che suppone dinnanzi la percezione, ed è una funzione della
ragione.
Dal che si raccoglie che le potenze, come pure le facoltà e
le funzioni, nascono l' una dall' altra, allorquando le potenze, e facoltà,
e funzioni precedenti cogli atti loro accidentali danno un prodotto,
che diviene termine anch' esso dell' attività dell' anima; e termine variabile,
onde l' attività, che a questo suo variare si riferisce, acquista ragione
di potenza, di facoltà o di funzione.
E qui stimiamo opportuno, prima di dire alcuna cosa delle
potenze speciali, di porre sotto gli occhi del lettore una tavola sinottica
delle potenze attuali, derivate e virtuali, acciocchè egli, considerandola,
se ne rappresenti il complesso, e possa più comodamente seguirci nel
viaggio che siamo per fare.
Uno dei termini dell' anima umana, noi abbiamo detto, è
il sentito esteso. A questo termine si riferisce la sensitività corporea.
Ma non è a credersi che ogni sensitività dell' umana natura finisca
qui; la sensitività corporea non è che una sensitività speciale.
Si richiami alla mente che l' anima ha natura di principio,
il quale non si può concepire senza concepire insieme il suo termine
correlativo, di maniera che un principio senza termine è un assurdo,
perciò nulla.
Ma se noi concepiamo il principio unito al suo termine, abbiamo
tosto il concetto di cosa, che ha la sua propria esistenza distinta essenzialmente
dal termine a cui va unita, e quindi che è fornita di attività
sua propria.
La natura di questa attività è quella di essere sentimento, onde noi
abbiamo anche definita l' anima umana un sentimento sostanziale .
Ora un sentimento non si può concepire senza quei due quasi poli,
senziente e sentito . Se dunque l' anima umana
da una parte è essenzialmente sentimento, e dall' altra ha natura
di principio e non di termine, conviene dire che è essenzialmente sentita
come principio, e non come avente natura di termine. Ma poichè il sentito,
come tale, ha natura di termine, perciò nel principio sentito s' identificano
il principio ed il termine; il che viene a dire che quell' anima
stessa che sente è quella che è sentita nel suo termine, sicchè il principio,
nel termine sentito, diventa sentito anch' egli, il che è quanto dire,
s' individua.
Si debbono adunque distinguere due maniere di sentire,
quella che spetta al principio del sentimento, e quella che spetta al termine.
Il principio è sensibile in altra maniera da quella in cui è sensibile
il termine. Ciò che si sente è propriamente il termine, ma nel termine
si trova il principio; sicchè questo viene ad essere sentito unicamente
perchè aderisce e giace nel termine, la cui essenza è di essere
sentito. Quindi l' anima, cioè il principio, non ha già una sensibilità
propria, ma mutuata dal suo termine. Eppure il suo termine, in quanto
è suo termine proprio e non straniero, è prodotto da lei stessa, appunto
perchè ella ne è il principio. Ma se si considera l' anima in quel momento,
nel quale ella non ha ancora prodotto il suo termine, ella è cosa
del tutto insensibile, e non è anima. E quantunque quel momento si
possa e si debba concepire colla mente, perchè infatti appartiene all' ordine
dell' essere, tuttavia sarebbe un errore il credere che quel momento
fosse un istante di tempo diverso da quello, in cui l' anima è naturata
e individuata per avere prodotto il suo termine. Perocchè l' anima
si natura in un solo istante, di guisa che l' anima, che produce il termine,
e l' anima, che ha prodotto il termine, non si dividono per alcuna
mora di tempo; ma in quel medesimo istante in cui il termine è prodotto,
in quello l' anima è producente; sicchè nel prodotto si sente l' anima
producente. Il principio adunque dell' atto che produce, e il compimento
dello stesso atto, cadono nel medesimo istante senza pausa di
sorte alcuna; e tuttavia questi sono due momenti ontologici distinguibili
alla mente, la quale negli enti vede un' azione intrinseca, e in questa
azione un ordine, e in questo ordine un prima e un poi diverso affatto
dal prima e dal poi del tempo, non cronologico in una parola, ma
ontologico.
Tornando dunque al nostro proposito, quando l' anima è
già formata, ella sente il principio ed il termine; ma la maniera, con
cui è sensibile il principio senziente, differisce oltremodo dalla maniera,
in cui è sensibile il termine sentito. Poichè:
senso universale; laddove vari sono i sentiti che si escludono
a vicenda, la cui sensibilità può dirsi senso speciale .
Il senziente come tale è sempre identico, quantunque varii
il sentito; perchè, avendo natura di principio, egli è come il vertice di
un angolo uno e semplice, quantunque le due linee che lo formano
sieno più o meno divergenti, e più o meno lunghe. E tuttavia il senziente
si sente coi suoi nessi ai diversi sentiti, e così l' anima sente le sue potenze,
funzioni, facoltà, atti, ecc..
A questa maniera, con cui l' anima sente sè stessa e tutto ciò
che ella fa, noi diamo il nome di sensitività psichica .
Rimane che noi diciamo qualche cosa delle sensitività speciali.
Nell' anima umana noi possiamo concepirne quattro, almeno come
possibili, che chiameremo corporea, pneumatica, ideologica, teorica .
La sensitività corporea e l' ideologica non ammettono alcun dubbio;
la pneumatica e la teorica non sono egualmente evidenti a tutti.
La natura della sensitività speciale esige che il sentito sia
un' entità diversa da quella del senziente. Quindi in ogni sensitività speciale
vi è un' alterità , cioè l' anima sente un diverso da sè. Quest' alterità
è carattere comune a tutte le sensitività speciali possibili.
Ma ella si manifesta in due modi, come passività e come
mera ricettività .
La passività si riscontra nella sensitività corporea e nella pneumatica;
la ricettività nella sensitività ideologica e nella teorica .
Conviene accuratamente distinguere la passività e la ricettività ,
che sono i due modi pei quali l' anima sente e percepisce l' alterità,
cioè un' entità diversa dalla propria. Ecco il doppio carattere che
le distingue:
ricettività la cosa ricevuta non soffre alcuna modificazione
dall' anima che la riceve, perchè è immutabile; come una moneta
d' oro, che si mette in una borsa, non cangia natura, nè cessa di essere
quella di prima perchè fu ivi collocata. Così l' essere ideale è nell' anima
umana (1). All' incontro nella passività l' entità, che agisce nell' anima,
prende qualche cosa dalla natura e dall' attività del paziente, cioè dell'
anima stessa, che contribuisce a dare a quell' entità il suo essere. Così
l' esteso sentito riceve dall' anima l' estensione (2) e la forza straniera che
lo cangia, benchè, contro la tendenza dell' anima, produce l' effetto coll'
aiuto di questa, che è suscitata a terminare spontaneamente il suo atto
in un' altra estensione.
Nella ricettività l' anima non è, propriamente parlando, modificata,
solo acquista ciò che non aveva prima. Così la borsa, in cui si
mette la moneta d' oro, non cangia natura, ma la borsa vale più piena
che vuota. E se pigliamo un' asta e vi attacchiamo un ferro a forma di
dardo, l' asta primitiva non è cangiata, nè modificata; ma ne è uscito
uno strumento nuovo, a cui si dà nuovo nome ed ha nuova virtù. E così
coll' aggiungersi l' essere ideale ad un principio senziente, il principio
propriamente non s' è modificato; ma acquistò quel che non aveva prima,
e da anima sensitiva divenne anima razionale. All' incontro la passività
modifica propriamente l' anima, come accade nel senso corporeo.
Intanto, se il sentito è posto in atto dall' anima stessa, ella fa più che ricevere,
opera; e l' operazione di lei si riduce al concetto generale della
modificazione. Di poi quando le viene cangiato il sentito, ella ha nuovamente
bisogno di concorrere a ciò, e per un poco può ripugnare; ora
il ripugnare, e poi l' essere indotta ad una operazione, è già una modificazione
del soggetto operante.
All' essere ideale l' anima non può opporre resistenza di sorte alcuna;
neppure può cooperare a formarlo; deve dunque unicamente ricevere
senza più, poichè rispetto a lui, ella non è prima che egli sia venuto
in essa, e però non può opporsi a lui, perchè prima di essere non
può operare. Dunque niente in questo fatto interviene nell' anima che
abbia natura di modificazione; ma soltanto di nuovo acquisto da parte
dell' anima, e di creazione da parte di quella virtù, che pone in lei l' essere
ideale.
Alla passione risponde dunque il fare; alla ricezione risponde il
dare . Gli Scolastici confusero talora questi due modi, il che introdusse
nelle loro dottrine qualche vena di sensismo , venendo tratti a parlare
dell' intelletto come fosse una potenza interamente passiva, quando è
ricettiva, e quindi ad assomigliarlo troppo al senso.
esteso e le sue
passioni e modificazioni, cioè il movimento intestino dell' esteso sentito
e l' organizzazione, ossia un dato collocamento delle parti, e quindi l' armonia
dei movimenti sensibili.
L' esteso sentito suppone il continuo , ed un solo continuo (1); perocchè
se fossero due, i due sentiti non avrebbero alcuna attinenza, nè
comunicazione fra loro. E poichè dove è il sentito, ivi è il senziente,
perciò anche i senzienti sarebbero due, pari ai continui, senza attinenza,
nè comunicazione fra loro.
Ma se le parti del continuo si muovono con certa legge, senza cessare
d' essere continue, nasce l' eccitamento del senziente, e la sensazione
viva rispondente al moto intestino delle parti sentite. I quali moti e le
corrispondenti sensioni possono essere molti in uno stesso tempo e in
luoghi diversi; e la ragione si è che essi sono congiunti dal continuo
sentito unico, in cui nascono, e quindi dall' unicità e semplicità del principio
senziente.
L' attenzione attuale e riflessa dell' uomo si reca assai più facilmente
sulle sensioni eccitate, che rispondono ai movimenti intestini locali,
che non sia al sentimento universale ed uniforme di tutto il continuo;
indi a noi pare di sentire contemporaneamente in più luoghi separati,
quando il vero si è che sentiamo un unico esteso continuo in
modo non uniforme, in certe parti di esso più vivamente e variamente,
a cagione dei minimi moti, come dicevamo, che ivi si suscitano.
Il sentito esteso fondamentale è limitato , ma per sè solo
non è figurato , giacchè a percepire la figura è necessario distinguere le
linee o le superfici, che la circondano e formano; e queste non sono distinte
nel sentimento fondamentale, nè possono distinguersi se non colla
percezione di qualche cosa al di là dei suoi confini (2). Ora il sentimento
fondamentale non va al di là dei confini del suo esteso, e perciò
neppure distingue i confini dell' esteso, oltre i quali cessa il sentimento.
percepita , dai confini determinati dalla cessazione del
sentimento, si può recare un esempio tolto dalla visione. Se io guardo
la tavola quadrata alla quale sto scrivendo, distinguo le linee con cui la
tavola finisce; e le distinguo perchè coll' occhio abbraccio anche ciò che va
al di là di quelle linee, un resto della stanza. Ma se io, tenendo gli occhi
aperti, voglio vedere i confini della mia visione, cioè dello specchio visivo,
io non posso vederli nè precisarli, molto meno confrontare lo specchio
visivo con altro spazio maggiore, perchè oltre lo specchio visivo
non si estende la visione, ma cessa; onde mi è impossibile il dire che
lo specchio, a cui si stende la mia visione, sia piuttosto rotondo che quadrato,
o d' altra figura, se pretendo desumere questa figura dalla sola
visione e non dal raziocinio.
Ora poi, come le sensioni speciali nascano dall' eccitamento
del sentimento fondamentale fu da noi altrove ragionato.
Ma è da confessare che la filosofia non è ancora giunta a conoscere
la ragione di tutte le varietà singolarissime delle sensioni, e neppure a
classificarle ed enumerarle compiutamente.
Noi le abbiamo distinte in figurate e non figurate . Le figurate le
abbiamo anche chiamate superficiali , perchè costituiscono la superficie
o parte della superficie del corpo nostro e dei corpi al nostro esteriori,
quali sono quelle del tatto, della visione, ecc.. Le non figurate furono
quasi dimenticate dai psicologi, con più attenzione le considerarono
i fisiologi.
E` necessario osservare che il sentito figurato non si sente
in noi, cioè non si sente riferendolo a noi, ma si sente in sè stesso come
una superficie; la quale certo non è in noi come una superficie piccola
sarebbe in una grande, anzi per sè non ha luogo, o, se si vuole, ella
stessa è il suo luogo. Così lo specchio visivo non è già in un altro spazio
più grande di lui, poichè egli è tutto lo spazio che si vede, nè più nè
meno. Il luogo, in cui sono le sensazioni, si viene adunque formando,
quando si considera una parte della sensazione superficiale in relazione
a tutta intera la superficie sentita; ovvero quando più superfici sentite
si pongono insieme colla immaginativa, formandosene una superficie
sola, se non sentita, almeno immaginata o intesa, a quel modo che
abbiamo detto formarsi da noi per via di moto il concetto dello spazio
illimitato (1). Ma della località delle sensioni abbiamo ragionato nell' Antropologia .
sentito non è già il cervello, quale anatomicamente lo conosciamo,
ma è ciò che ci apparisce; e non apparisce già nel cervello che
non si vede, anzi non ha altra località che quella, che nell' immagine
stessa o nella visione apparisce.
Come dunque, si dirà, percepiamo noi la superficie del
corpo nostro? Come sappiamo che la superficie del corpo umano, che
ci apparisce, è la superficie del corpo nostro e non dell' altrui? - Certo,
la sola sensione superficiale non ce lo dice; ma lo sappiamo dalla
sensione superficiale in rapporto con altre sensioni; per esempio, se io
sono toccato da un corpo straniero ho una sensione sola, ma se io tocco
me stesso ho due sensioni, che riferisco allo stesso luogo; di che conchiudo
che io non sono solamente il toccato, ma anche il toccante. Così
se io vedo un corpo, e quando questo corpo è toccato da un altro corpo
qualunque in un punto da me veduto, provo una sensazione tattile, conchiudo
che il corpo che vedo è il mio. Ma anche di ciò più a lungo fu
ragionato nell' Antropologia .
Ora la ragione delle diverse maniere di sensione, come dicevo,
non fu ancora investigata. Il principio generale da cui dedurla, si
può nondimeno raccogliere da tutta la nostra teoria dei sentimenti corporei,
ed annunziare così:
« Essendo il movimento intestino che avviene nel continuo sentito,
se non la causa, almeno il fenomeno extrasoggettivo correlativo alle
sensioni, alla varietà nelle sensioni deve rispondere altrettanta varietà
in esso movimento; e questa varietà del movimento se non è, può almeno
rappresentare la ragione di quella varietà delle sensioni ».
Per applicare un tal principio conviene enumerare tutte le varietà,
che si possono concepire nell' intestino movimento del continuo
sentito e dei vari organi; e di poi, coll' aiuto dell' esperienza, ricercare
quale sia la varietà di sensione, che corrisponde a ciascuna di quelle varietà.
Quest' opera appartiene ai futuri progressi della filosofia; noi, che
siamo ben lontani dal poterla intraprendere, ci contenteremo di soggiungere
sensitività pneumatica .
Intendiamo per questa specie la facoltà di sentire gli spiriti altrui,
o di ricevere da essi un sentimento, che ce li rappresenti.
Frenologia ,
e quindi appariscono gli errori che vi hanno mescolato Gall,
Spurzheim ed altri frenologi; i quali errori sono principalmente i seguenti:
I errore . - Essi confondono l' ordine della sensitività coll' ordine
dell' intelligenza.
Le funzioni dei diversi organi, di cui si compone il cervello, possono
riguardarsi come altrettante facoltà della sensitività, non mai dell' intelligenza.
Ciò che produsse questa confusione si fu che, prestando
la sensitività materia all' intelligenza, per ogni ramo nuovo di sensitività
si spiega in un modo nuovo l' intelligenza, ricevendo nuova materia.
II errore . - Essi non avvertono, o per dir meglio, taluno d' essi
non avverte che, anche stando nell' ordine della sensitività, questa potenza
non è produzione del mero organo, il quale non è altro che il termine
del principio senziente, che si chiama anima; e la potenza
di sentire nasce dall' unione del principio e del termine, dell' anima
e dell' organo, e non da quest' ultimo solamente; anzi la potenza è del
principio e non del termine, dell' anima, non dell' organo; perocchè il
principio è il soggetto di tutti gli atti della potenza, e però della potenza
stessa.
III errore . - Da questa seconda confusione dell' organo col principio
senziente, associata coll' altra confusione dell' ordine della sensitività
coll' ordine dell' intelligenza, scaturì il falso concetto che si fecero
alcuni frenologi dell' intendimento umano.
Essi pretesero che come il cervello è un aggregato di organi, così
l' intendimento umano fosse il complesso di una moltitudine di atti differentissimi.
errore . - Quindi può conoscersi quanto sia insulso il vanto
che cotesti fisiologi si danno, di avere notomizzata l' intelligenza, parendo
loro che col portare il coltello sulla massa encefalica, l' abbiano proprio
inserito nell' intelligenza stessa! E` poi chiaro che tali fisiologi, i quali confondono
le cose più disparate, non possono essere atti a formare una
retta classificazione delle facoltà dello spirito umano. Onde quando Spurzheim,
per esempio, divide le facoltà dell' anima e dello spirito in affettive
ed intellettive , egli non s' accorge che vi sono delle facoltà affettive,
che sono intellettive; perocchè il soggetto intelligente ha degli affetti,
che gli vengono dall' intelligenza. Quando poi, dopo aver diviso le facoltà
affettive in inclinazioni ed in sentimenti , riduce le inclinazioni al numero
preciso di nove, che, con vocaboli da fare spiritare i cani, chiama
l' abitavità , l' affezionività , la combattività , la distruttività , la construttività ,
la mangiatività , e la secretività , e vuol dire l' inclinazione ad abitare,
ad affezionarsi, a combattere, a distruggere, a costruire, a cibare, a
segregare umori; egli dimentica tutte le inclinazioni intellettive e morali.
Di più, egli non annovera le inclinazioni primitive dell' anima, ma solamente
alcuni effetti , che vengono prodotti nell' animale dal concorso di
molte inclinazioni e facoltà primitive. A ragion d' esempio, l' inclinazione
ad avere un' abitazione e a fabbricarsela non è una facoltà primitiva, ma
è il risultato di vari bisogni che sente l' animale, ai quali si muove istintivamente
a soddisfare; e così può dirsi di ognuna di quelle inclinazioni.
Venendo ai sentimenti dell' anima, Spurzheim pretende che sieno dodici
in punto, quattro dei quali comuni all' uomo e alle bestie, e sono quelli
dell' amor proprio , dell' approvazione , della circospezione e della benevolenza .
Ma egli non s' avvede che in questi quattro sentimenti ha luogo
l' intelligenza, e però al solo uomo convengono; laddove nelle bestie
vi sono bensì delle affezioni corrispondenti, che simulano questi affetti,
ma sono veramente tutt' altro. Ora appartiene pure alla sagacità del filosofo
rilevarne la profonda ed essenziale distinzione, senza lasciarsi così
grossamente illudere dall' apparente somiglianza fenomenale. Gli otto
sentimenti propri dell' uomo, secondo il medesimo autore, sono quelli
della venerazione , della speranza , della soprannaturalità , della giustizia;
dai quali egli fa derivare le nozioni religiose e morali della perseveranza ,
dell' arguzia , ossia del motteggio, dell' idealità e dell' imitazione.
imitazione , è un istinto manifestamente comune agli animali bruti, e
più che in ogni altro essere manifesta la sua forza nelle scimmie (1).
La stessa imperfezione si scorge nella classificazione delle facoltà
intellettive, che lo Spurzheim divide in tre ordini: 1 le funzioni dei
sensi esterni; 2 le facoltà percettive; 3 le facoltà riflessive . Ora le
prime non appartengono all' intelligenza, ma alla sensitività corporea,
che è tutt' altro. Egli divide le facoltà percettive in due gruppi, nel primo
dei quali colloca quelle che riguardano la percezione degli individui , nel
secondo quelle che riguardano la percezione delle relazioni degli oggetti
e loro fenomeni. Mette dunque nel primo gruppo le facoltà dell' individualità ,
della configurazione , dell' estensione , del peso e del colorito .
Ma queste cose, separate le une dalle altre appartengono all' astrazione e
non alla percezione, la quale si riferisce sempre all' oggetto fornito di
tutte le sue proprietà percettibili, secondo la natura delle diverse percezioni.
Nel secondo gruppo egli colloca le facoltà del luogo , del numero ,
dell' ordine , dei fenomeni , del tempo , della melodia e del linguaggio
artificiale; le quali, lungi dall' appartenere alla mera percezione, sono
anch' esse altrettante funzioni dell' astrazione e del ragionamento, effetti
di più facoltà primitive e secondarie, che operano e cospirano insieme
a produrli. A ragion d' esempio, la facoltà del linguaggio, lungi dall' essere
una facoltà primitiva, è un effetto oltremodo complesso di quasi
tutte le facoltà umane, sieno quelle dei sensi esterni o quelle dell' istinto
animale, sieno quelle del giudizio, del raziocinio, ecc.. Il terzo ordine
delle facoltà intellettive, che è quello della riflessione, viene diviso da
Spurzheim nelle sole facoltà del paragone e della causalità . Ogni filosofo,
che abbia un po' meditato sullo spirito umano, può conoscere agevolmente
l' insufficienza d' una tale classificazione. Oltre a ciò non esiste
una facoltà primitiva della causalità, ma solo una legge ontologica, a cui
ubbidisce l' intelletto, che cerca la causa di ogni contingente.
Conviene adunque conchiudere:
Che il cervello è un aggregato di vari organi, ma insieme armonicamente
connessi in un solo continuo.
Che ciascuno di essi ha delle funzioni speciali, ma solo nell' ordine
della sensitività.
sensitività
psichica; e si può veramente concepire come un ramo di questa.
Perocchè nell' una e nell' altra l' anima sente come principio; ma in quella
che abbiamo chiamata psichica, l' anima sente come principio nel termine
esteso , nell' ideologica sente nell' idea; giacchè i due termini dell' anima
sono l' esteso e l' idea, e il principio sente nel termine. Laonde i termini
essendo due, di natura disgiuntissima, il principio medesimo ha un doppio
sentimento. Dove è da notarsi che il sentimento che ha l' anima, in
quanto termina nell' idea, è un sentimento oggettivato, sicchè l' anima,
che pure è soggetto, sente sè stessa oggettivamente, quasi perdendo nella
pura intuizione la sua propria individualità. Dove giace il misterioso
punto di congiunzione fra l' ordine soggettivo e l' oggettivo, fra il senso e
l' intelligenza; di che ci promettiamo di poter parlare più compiutamente
nella Teosofia .
L' idea stessa non è tuttavia il proprio termine della sensitività ideologica,
poichè ella è solo il termine dell' intuizione . La differenza fra il
termine proprio del sentimento e dell' intuizione è capitale. Il termine
proprio del sentimento deve essere qualche cosa che appartiene al senziente;
il termine dell' intuizione è qualche cosa che s' intuisce come un
diverso dal senziente, qualche cosa che è puramente in sè. Ora l' anima,
che vede l' idea, sente sè stessa nell' essere ideale; e questa è la speciale
sensitività ideologica, di cui parliamo. L' anima poi col sentirsi in possesso
dell' idea si sente intelligente, nobilitata, e piglia un istinto intellettuale
e razionale , che è la parte attiva della sensitività ideologica.
Finalmente io chiamo sensitività teorica quella che Iddio
produce nell' anima col darlesi a percepire.
Iddio non si concede ad altra potenza che a quella dell' intelletto,
qualora questa potenza si definisca in generale « la potenza dell' essere ».
ragione . Ed
appunto perchè il contingente reale non è conoscibile per sè stesso, ma
ha bisogno che gli sia applicato l' essere ideale da un atto intelligente,
perciò l' apprensione dell' essere reale contingente non si attribuisce alla
semplice potenza dell' intelletto, ma a quella della ragione.
All' incontro, se l' essere ideale infinito si manifesta realizzato,
allora l' intelletto apprende lo stesso essere infinito anche come
reale, indivisibile per sua natura dall' ideale, e se ne ha la percezione di
Dio, che non si può avere per natura, come sognando asseriscono gli antichi
e i moderni platonici. Ora questo, considerato rispettivamente alla
realità, è un senso intellettuale7soprannaturale.
Si dirà: come si possono avverare rispetto a Dio le due
condizioni del senso, che l' agente resta mutato e che l' anima pure s' immuti?
Rispondo: Iddio non è mutabile, in sè stesso niente egli patisce
dall' anima a cui si comunica. Non di meno è da considerarsi che l' anima
non comprende totalmente Iddio; perciò altro è Dio in sè stesso, illimitato,
incomprensibile, altro è quella misura o grado qualitativo, nel
quale la realità di Dio si comunica all' anima. Questo grado qualitativo
è determinato dall' anima stessa, che colla sua limitazione lo forma; la
limitazione poi viene dalla misura limitata nella quale Iddio si comunica.
Onde si può dire che Iddio in quanto è limitatamente percepito
lume
di grazia e di gloria . Poichè, come ogni termine specificatamente diverso
suscita una nuova potenza, così è uopo che ne susciti una nuovissima
quell' oggetto, che differisce da tutti gli altri non solo di specie,
di genere, di categoria, ma addirittura di essere. L' intelletto umano,
adunque, colla percezione della divina sostanza mantiene bensì la stessa
radice, ma riceve una nuova attività, più diversa da quella che aveva
prima, che non sia una potenza qualunque da qualunque altra.
E qui non è tanto difficile lo spiegare come l' anima possa
ricevere l' azione della divina essenza, quanto come la divina essenza
possa agire nell' anima. Ma a noi basterà dire in generale che Iddio agisce
nelle creature a quel modo che le creature sono in lui; perocchè è scritto
che [...OMISSIS...] . Onde per agire nelle creature
egli non ha bisogno di uscire colla sua azione da sè stesso. Perocchè
quell' azione, che in Dio è la divina essenza, niente vieta che fuori di
Dio rechi un effetto limitato. Conciossiachè le nature contingenti hanno
un' esistenza relativa a sè stesse, nè Iddio, creandole od operando in esse,
toglie la loro soggettività ed individualità, anzi la forma. Ora quell' atto
che non distrugge i soggetti e gli individui, ma che dopo averli
creati dà loro ciò che vuole, non ha mestieri d' essere limitato in sè stesso,
come è limitato nel suo termine relativo.
Ma questo è argomento, che appartiene alla Teologia; e noi avremo
occasione di parlarne, a Dio piacendo, nella Teosofia .
Ora, dopo aver noi parlato del senso dell' anima come potenza passiva,
dovremmo parlare di lui come potenza attiva, cioè dell' istinto; ma
ci vien meglio rimettere questa trattazione a quel libro, che espone le
leggi che presiedono all' attività dell' anima, per non ripetere più volte
le stesse cose.
Ideologia .
In quanto poi gli è dato l' essere nella sua forma reale, è divenuto
potenza soprannaturale, di cui tratta l' Antropologia soprannaturale .
Che se si considera che nell' intelletto, a cui l' essere sia
comunicato anche sotto la forma reale, deve trovarsi quella perfetta armonia
e reciproca convenienza fra l' essere ideale e il reale, che costituisce
l' essere morale, avente ragione di compimento, di perfezione, di
bene; nasce un terzo rispetto, sotto cui si può considerare l' umano intelletto
od ogni altro quale si voglia; la cui trattazione compiuta spetta
all' Agatologia .
Noi qui toccheremo una questione importante.
Abbiamo detto, in qualche luogo, non essere assurdo che si concepisca
un soggetto meramente intellettivo, non affettivo o volitivo; il
che è vero, se si considera la cosa da parte del soggetto. Si avrà nondimeno
una conclusione contraria, se la si riguarda da parte dell' oggetto.
Di vero l' essere ha questo di essenziale, di essere bene; perciò egli non
può essere conosciuto se non come bene. Il conoscerlo poi come bene
importa un affetto o inclinazione a lui. Come dunque l' essere nella sua
condizione di lume crea l' intelletto, quasi causa formale dell' anima (o,
se meglio si vuole, causa della causa formale, causa dell' illuminazione
dell' anima), così lo stesso essere nella sua condizione essenziale di bene
crea la volontà primitiva, come causa finale che attua il primo affetto,
la prima volizione volta all' essere in universale.
E come l' intelletto è la potenza ricettiva, così la volontà è la potenza
attiva che gli corrisponde.
Ora, posciachè l' intelletto ha per oggetto essenziale l' essere
ideale, il quale è in sè stesso immutabile, perciò esso non è suscettivo
di alcuno sviluppo; ed ha natura piuttosto di atto immanente che
potenza . Solamente può essere perfezionato, accresciuto, sublimato
coll' ordine soprannaturale, a quel modo che dicemmo, svelandosi l' essere
essenziale nella sua realità.
Vero è che l' essere ideale s' intuisce anche variamente determinato
e limitato; e perciò gli Scolastici attribuiscono all' intelletto
l' intuizione di queste idee, e così gli danno uno sviluppo. E dove la cosa
sia prima chiara, niente vieta che si adoperi la parola intelletto a significare
in generale « la potenza di intuire le idee ». Qualora però si consideri
che la determinazione e la limitazione dell' essere ideale non si
può avere senza la percezione delle realità contingenti e i vestigi di lei
che rimangono nell' anima, si vedrà esser più esatto l' attribuire alla ragione
anche l' intuizione delle idee determinate, come quella che non
è intuizione semplice, ma contiene nel suo seno l' applicazione dell' essere
ideale alla realità, opera della ragione.
Allo stesso modo si può dire che la volontà primitiva ed
universale non ha ragione di potenza, ma di atto immanente, principio
e base della potenza; onde meglio che volontà primitiva a noi pare di
doverla chiamare volizione primitiva. Per queste ragioni non aggiungiamo
qui la tavola sinottica della potenza dell' intelletto.
La potenza della ragione risulta nell' anima, principio
comune del senso e dell' intelletto, quale conseguenza del sentito e dell' inteso,
poichè lo stesso principio comune li unisce nell' unione percettiva ,
che è quella per la quale esso principio comune apprende il reale
nell' ideale come nella sua essenza.
Di che si trae che la potenza della ragione piuttosto che soggettiva
è il soggetto stesso operante, al quale però l' idea prescrive la legge.
Si trae ancora che la ragione, quanto all' ordine logico,
è una potenza posteriore alle due potenze del senso e dell' intelletto, da
cui risulta; non però quanto all' ordine cronologico, perocchè tosto che
è l' uomo, è la ragione; il che si prova così.
L' uomo è un soggetto unico composto di anima intellettiva e di corpo
animale. Ma l' unione dell' anima intellettiva col corpo animale si fa per
via d' una prima ed immanente percezione. Ora la prima
atto primo della ragione, quell' atto pel quale
la ragione esiste. Dunque l' esistenza dell' uomo e l' esistenza della ragione
sono contemporanee. Che se la ragione è tostochè esiste l' uomo, e se
prima che esista l' uomo, non esiste nè il senso corporeo, nè l' intelligenza,
dunque queste facoltà primitive non sono nell' uomo anteriori di tempo
all' esistenza della ragione, benchè questa risulti da quelle quasi come
una conseguenza dai suoi principŒ.
Vero è che il senso, o, per dir meglio, l' animale può esistere innanzi
all' uomo; ma perciò appunto noi parliamo del senso e dell' intelligenza,
in quanto sono propri dell' uomo.
Come poi si dia priorità nell' ordine logico, senza che ne
consegua necessariamente priorità di tempo, merita d' essere considerato
dal filosofo. Ne abbiamo più esempi: per addurne uno dei più degni
d' attenzione, accenneremo quello del sillogismo, dove l' unione dei due
primi termini, ossia la conseguenza, non è posteriore ad essi di tempo
nell' umana mente, benchè risulti da essi. Infatti, finchè la mente non
vide il rapporto dei due termini, non c' è ancora sillogismo, nè il primo
termine si può chiamar primo, nè il secondo secondo, nè c' è maggiore
o minore; e tostochè ella vide la conseguenza, trovò altresì incontanente
che una nozione è primo termine e un' altra è secondo; e così trovò
la maggiore e la minore. Lo stesso accade, se vogliamo discendere a un
caso particolare, nella percezione dei corpi, la quale, benchè paia fatta
per un cotal ragionamento, pure è del tutto immediata (1), perchè ella
stessa forma il suo oggetto (2).
Dal qual vero importante, che « in un medesimo ente vi
sono elementi che tengono fra loro una relazione di priorità e di posteriorità,
e non tuttavia alcuna priorità e posteriorità di tempo », nasce un
bellissimo principio ontologico, cioè che « nel seno dell' ente vi è un' azione
continua, immanente »; col quale principio si riforma e corregge il
concetto volgare dell' ente; poichè l' uomo, pigliandone sempre l' esempio
dalla materia, suol concepire l' ente come cosa immobile e morta, non
sapendo egli immaginarsi altra azione che quella del movimento locale
e dell' atto transeunte.
Ora qui non trattasi di azione che passa e che si fa per
parti, benchè una parte sia passata e l' altra debba avvenire; ma v' è nel
seno all' ente un' azione che si fa tutta continuamente, per la quale si
mette in essere lo stesso ente e lo si fa permanere; onde, se non fosse
evo .
Dal qual fatto deve prendersi anche la spiegazione della
memoria, che suppone che ciò che è successivo in sè stesso diventi contemporaneo,
rimanendo presente tutta la successione, nella quale stava
il tempo. E la memoria è facoltà della ragione, perchè non potrebbe
esistere senza che qualche sentimento non segnasse nell' essere ideale le
entità particolari successive. Ma sulla memoria dovremo tornare in appresso,
quando parleremo dell' unità dell' uomo, e del modo onde da
quella unità escono le sue attività molteplici.
Il fine adunque, a cui è ordinata la potenza della ragione,
si è quello di mettere l' essere intelligente in comunicazione colla realità
delle cose.
Infatti l' uomo, in quanto è intelligente, per natura sua non comunica
che coll' idealità, che costituisce il lume dell' intelligenza. La
realità poi o è infinita e necessaria, o è finita e contingente. Nella pura
idealità non si trova nè la realità infinita, nè la realità finita; perciò
l' intelligente, che intuisce l' idealità pura, non comunica per sua natura
con niuna realità. La realità dunque deve essere data all' intelligenza
umana, perchè non è a questa essenziale. Ma come le può esser data?
La realità infinita, Iddio, non le può venire che da una graziosa comunicazione
di Dio stesso; e se le vien data, ella è intelligibile per sè stessa,
giacchè è la stessa essenza dell' essere ideale7reale. Dunque ella non
ha bisogno d' altra potenza per essere intesa che del solo intelletto, che intuisce
l' idealità; solamente che questo viene perfezionato e sublimato,
reso percettore dell' assoluta realità.
La realità finita e contingente non è intelligibile per sè stessa, perchè
è priva dell' essenza dell' essere. Affinchè adunque la realità finita
si comunichi all' intelligenza, conviene che l' intelligenza stessa la renda
intelligibile. Ora con questa operazione, che fa l' intelligenza, si costituisce
una potenza nuova diversa dall' intelletto, la quale si chiama
ragione .
Di vero, altro è intuire ciò che è intelligibile, e altro rendere
intelligibile ciò che intelligibile non è. Queste sono due maniere
di atti specificamente diversi, di cui sono specificamente diversi gli oggetti
formali. Ora le potenze si distinguono secondo la distinzione
degli atti e dei termini formali. Dunque la ragione è potenza
diversa dall' intelletto.
coscienza . Questa non è, a dir vero, la prima percezione intellettiva
del proprio sentimento, ma è la riflessione su questa e sulle altre percezioni.
Ora, se colla prima e naturale percezione l' uomo conosce la propria
animalità, colla percezione della percezione, ossia colla percezione
del percipiente che è la prima riflessione, l' uomo rende intelligibile e
percepisce sè stesso come intelligente, fino a formarsi l' io nel modo che
abbiamo descritto. Ma se la prima percezione non fosse naturale,
e in essa non si fondassero le altre percezioni, che l' uomo acquista
successivamente di sè modificato, le deposizioni della coscienza non
avrebbero quell' autorità che hanno in tutti gli uomini; i quali sono
persuasi che esse sieno infallibili ed evidenti. E tale persuasione nasce,
perchè la prima congiunzione del sentimento e dell' idea è un fatto della
natura stessa; nel qual fatto l' uomo percepisce abitualmente il proprio
sentimento; e la percezione non dubita mai di sè stessa, anzi la persuasione
ne è il suo naturale finimento: tale è il testimonio della coscienza,
che è sempre una percezione della percezione.
In terzo luogo possiamo qui chiarire facilmente come nasca,
e di che natura sia la riflessione . Questa nasce evidentemente dall' attività
del soggetto razionale . Ora noi abbiamo veduto come il soggetto
razionale sia posto in essere. Egli è posto in essere colla percezione
intellettiva fondamentale , per la quale l' ente intelligente è individualmente
unito al sentimento animale, nella quale unione l' uomo è costituito.
Senza di ciò il soggetto, ossia principio razionale, non esisterebbe.
Ma posto che egli esiste, ha un' attività sua propria, indipendente, in
quanto al modo, dal termine; giacchè, come abbiamo veduto, l' attività
di ogni principio esiste bensì pel termine, ma opera alla sua maniera,
la qual maniera noi dobbiamo dedurre dall' osservazione.
Ora l' attività del principio razionale si può chiamare generalmente
attenzione , benchè questa parola non si usi con tanta generalità di significato,
attenzione intellettiva a significare in generale « la virtù dello
spirito, che si applica anche senza una speciale concentrazione, anche
istintivamente, ad un oggetto qualsiasi ».
Così presa, diviene un primo atto di attenzione anche
l' intuizione dell' essere; un atto di attenzione si acchiude anche nella
percezione. Ma dopo di ciò l' attenzione seguita a dirigersi e concentrarsi
con varie leggi, ora secondo l' istinto guidato dai bisogni, ora per elezione
spontanea, ora anche per elezione libera fra oggetti che sono presenti
allo spirito. E questa è la propria virtù del principio di poter concentrarsi
sopra più oggetti, o sopra uno o una sola parte di esso, ritraendosi
alquanto dagli altri o anche interamente. Si ritenga qui, adunque,
che questa è legge propria dell' attività del principio o soggetto razionale
di concentrarsi in un oggetto, o parte di oggetto qualsiasi, fra quelli
che stanno presenti allo spirito.
Come dunque accade che lo spirito possa riflettere sulle sue proprie
operazioni?
Stabilito che tutte le operazioni passive od attive dello spirito sono
sentimento, e che ogni sentimento dell' uomo è oggetto d' una percezione
naturale, si manifesta incontanente come nasca la riflessione. Poichè
questa non è, come abbiamo detto, che una percezione delle percezioni
e degli atti precedenti; percezioni ed atti che sono sentimento, e però
capaci d' essere percepiti.
Che se rimane così spiegato come l' uomo possa riflettere
sugli atti del proprio spirito, ancor più facilmente si spiega com' egli
possa riflettere sugli oggetti di questi atti; giacchè tali oggetti sono uniti
alle percezioni e ne costituiscono il termine, di cui gli atti sono i principŒ.
E` dunque percettibile il termine, come il principio degli atti intellettivi,
i quali non sono senza quei due estremi; e per la forza di concentrazione
lo spirito può applicare la sua attenzione agli uni o agli altri,
ai principŒ o ai termini esclusivamente (1).
percezione e della riflessione , che sono le due facoltà della ragione.
Gioverà che aggiungiamo una breve analisi dell' una e dell' altra.
La percezione ha tre gradi, che noi chiameremo apprensione, affermazione
e persuasione .
Nell' apprensione (intellettiva) della realità si contengono
virtualmente l' affermazione e la persuasione; e a questo primo grado
si ferma la percezione fondamentale della nostra animalità. Infatti
l' uomo nei primi istanti di sua esistenza non afferma espressamente la
propria animalità, ma molto tempo dopo, quando incomincia a far uso
di un qualche linguaggio; e così si concilia colla dottrina della percezione
fondamentale l' altra opinione per noi espressa, che l' uomo percepisca
prima le cose esterne, e molto dopo, sè stesso colle cose sue. Noi
dicevamo questo, riferendo il nostro pensiero all' affermazione espressa ,
che è il secondo grado della percezione, quello che la compie e trae dietro
sè la persuasione distinta .
Dobbiamo anche dire che la sola affermazione forma il
nerbo della mente, il quale però nell' apprensione si trova in un cotal
modo implicito e virtuale.
La persuasione poi, anzichè un atto, è un abito dello spirito,
ed è distinta ed attuale quando è prodotta dall' affermazione; allora
ella è l' affermazione stessa, che abitualmente rimane nello spirito.
universalizzazione ,
ossia delle idee specifiche7piene , intorno alla quale ragionammo
abbastanza nel « Nuovo Saggio (1) ».
Venendo ora alla riflessione, noi abbiamo già posto il
principio dell' analisi che si deve fare di essa. Il qual principio si è che
lo spirito razionale ha virtù di dirigere la sua attenzione su gli oggetti
percepiti, di restringerla a pochi e di estenderla a molti, o a tutti, o ad
una parte di essi anche realmente non divisibile, e di concentrarla in
un solo punto, per così dire, accrescendone l' intensione.
Prima però di venire all' analisi è da rammentare che la riflessione,
essendo sempre percezione di percezione, ha per sua legge di raffrontare
l' oggetto, su cui riflette, coll' essere universale (2), ond' ella cava
i principŒ trascendenti. Dal che avviene che la facoltà della riflessione
non operi già per modo di semplice riflessione. In questo caso
ella non aumenterebbe gli oggetti del conoscere; altro non farebbe che
rivederli, riguardarli di nuovo. Ora il semplice riguardarli di nuovo non
è ciò che si chiama filosoficamente riflettere; non è altro che un attuare
nuovamente l' attenzione, dopo che questa rimise dall' atto suo e divenne
abituale. Questo atto nuovo dell' attenzione, se si tratta di cose abitualmente
conosciute, non è dunque la riflessione , ma la reminiscenza .
Se poi si ripete la stessa percezione esterna avuta altre volte, neppur
questa è riflessione, ma solo ripetizione della percezione. La riflessione
si deve dunque distinguere accuratamente dalla memoria , che è il
deposito delle cognizioni abituali, dalla reminiscenza , che è l' attuale
avvertenza di quelle, e dalla percezione ripetuta . E la distinzione principale
sta in questo, che nè la memoria, nè la reminiscenza, nè la percezione
ripetuta aumenta il sapere dell' uomo; laddove la riflessione sì.
E lo aumenta, perchè, come dicevamo, la riflessione nel percepire la
percezione la rapporta sempre e confronta all' essere ideale, e ne discopre
le relazioni, che si cangiano in altrettanti principŒ.
parziale
e totale .
Chiamo parziale quella riflessione, che tende a discoprire i rapporti
che dividono od uniscono gli oggetti, sui quali ella cade, senza però
ch' ella tenda ad avere per risultamento del suo operare i rapporti
degli oggetti collo stesso essere universale ed essenziale.
Chiamo totale quella riflessione, che discopre e pronuncia i rapporti
dei suoi oggetti coll' essere universale ed essenziale.
La riflessione ricorre sempre all' essere universale, essenziale, ideale,
senza di che non potrebbe scoprire niuna cosa nuova; ma talora
raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che hanno fra
di loro, e si dice parziale; talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per
trovare i rapporti che questi hanno coll' essere stesso, e si dice totale .
La ragione di queste denominazioni non si trae dal diverso mezzo di
conoscere, poichè la riflessione usa sempre dello stesso mezzo, che è
l' essere ideale; ma si trae dal diverso risultato che se ne ha; il quale è
parziale, se si ferma ai rapporti degli oggetti parziali fra loro, ed è totale,
se finisce collo stabilire i rapporti che ha l' essere stesso, l' essere
universale, cogli oggetti, benchè parziali.
I rapporti dell' essere universale sono sempre universali,
e però abbracciano in qualche modo tutto lo scibile; all' incontro i rapporti
degli oggetti parziali fra loro sono parziali, e non costituiscono che
una parte dello scibile.
Dalla natura della riflessione parziale si traggono i diversi
ordini della riflessione, cioè si trae la ragione che spiega perchè, dopo
aver io riflettuto sulla percezione, posso riflettere sulla mia riflessione,
facendo un secondo atto di riflessione, e con una terza riflessione
posso ripiegarmi sulla seconda, e con una quarta sulla terza, e così
via, ricavando sempre qualche cognizione nuova, ogniqualvolta mi elevo
ad un ordine maggiore di riflessione. Ora, che la possibilità di questi
diversi ordini di riflessione proceda dall' essere parziale la riflessione,
si vede da questo, che se io colla prima riflessione esaurissi lo scibile,
non potrei più conoscere nulla di nuovo colla seconda e colle susseguenti,
e dovrei limitarmi a ripetere l' atto della prima.
E quanto importantissima cosa sia lo studio di questi diversi
ordini di riflessioni, solo può intenderla colui, il quale abbia saputo
scorgere che indi si trae il principio supremo del metodo (1); il
totale , cessano
gli ordini molteplici, poichè, giunta alle somme e più complesse verità,
quella via resta chiusa a nuovi discoprimenti. Così se io sono pervenuto
a intuire colla mente qualche supremo principio, posso bensì
riflettendo trovarne le applicazioni, il che è un ricadere alla riflessione
parziale, ma non posso sollevarmi più su colla riflessione totale, alla
quale non rimane che di replicare l' atto, onde contempla quel principio
già rinvenuto; quindi la contemplazione .
Ma qualunque sia l' ordine della riflessione, i modi coi
quali ella opera, riescono i medesimi. E posciachè ella si volge a trovare
i rapporti , e questi ora sono tali che dividono fra di loro le cose, quali
sono le differenze, le opposizioni, ecc.; ora sono tali, che le uniscono e
legano insieme, quali sono le eguaglianze, le similitudini, le correlazioni,
le analogie, ecc.; perciò i due modi, nei quali opera la riflessione parziale,
sono primieramente l' analisi e la sintesi .
L' analisi divide, e la sintesi unisce; ma qui si tratta sempre
di oggetti conosciuti. La riflessione parziale talora non solo trova il
rapporto fra gli oggetti conosciuti, ma nello stesso tempo produce ella
stessa colla sua attività uno dei termini del rapporto. E questo ella suol
farlo sempre coll' uso e coll' applicazione dell' idea dell' essere, ma in due
modi diversi, o deducendolo o fingendolo; ai quali due modi noi diamo
il titolo di fede razionale e di creazione razionale .
Onde analisi, sintesi, fede e creazione razionale sono i quattro modi
nei quali opera la riflessione; di ciascuno dei quali faremo qualche
cenno.
L' analisi, che spezza e divide gli oggetti conosciuti, è
materiale o formale .
Si dice analisi materiale quella, per la quale le parti dell' oggetto
diviso riescono tutte della medesima natura e condizione logica, pigliandosi
la similitudine dalla divisione, di cui è suscettibile la materia, che
si suppone uniforme, le cui parti perciò non differiscono di natura, ma
solo di grandezza; tale è l' analisi chimica, la divisione numerica, ecc..
Si dice all' opposto analisi formale quella, in cui le parti che si hanno
coll' oggetto dalla mente diviso, variano di natura, come se si dividesse
un genere in molte specie, dove il genere ha una natura logica diversa
da quella della specie, e ciascuna specie ha diversa natura dalle
materiale o formale , secondochè si uniscono parti della
stessa natura, come accade nella somma o moltiplicazione numerica, o
in un tutto formato per giusta posizione; ovvero si uniscono parti di diversa
natura, come accade nel giudizio, in cui la mente unisce il predicato
col soggetto.
Il subbietto dunque dell' analisi e della sintesi materiale è
la quantità; il subbietto dell' analisi e della sintesi formale è la qualità,
la modalità, o la relazione.
Ma rispetto alla sintesi formale, la cui forma generale è
il giudizio , è da riflettersi che si modifica non poco, aumentandosi gli
ordini della riflessione. Poichè, se dopo aver io fatto diversi giudizi con
una sintesi appartenente al primo ordine di riflessione, io m' innalzo
ad un' altra sintesi appartenente ad un ordine superiore di riflessione,
trovando il nesso dei due giudizi fra loro, mi vien data tosto la forma
del sillogismo; nella qual forma apparisce come la riflessione sia produttiva
di nuova cognizione, giacchè i giudizi che unisco sono due, e
il sillogismo, che me ne risulta, ne ha tre; il che è quanto dire che colla
riflessione io ho guadagnato un giudizio di più, che è la conclusione del
sillogismo stesso. E` manifesto che se io m' innalzo ancora ad altri ordini
di riflessione sintesizzando, posso confrontare i sillogismi stessi
coi giudizi, e i sillogismi fra loro, e cavarne altre conclusioni; il che mi
produce il ragionamento .
Ma qui non si deve tralasciare una osservazione, ed è che
in ogni analisi interviene sempre qualche specie di sintesi; perocchè per
trovare le differenze e le opposizioni, mediante le quali separiamo una
cosa dall' altra, dobbiamo prima di tutto confrontare e paragonare le cose,
che poscia distinguiamo e separiamo; e il confronto è una specie di
sintesi, un primo grado di sintesi. Quindi è che la distinzione dell' analisi
dalla sintesi ha luogo piuttosto nel risultato della riflessione che non
nella stessa operazione del riflettere , la cui forma propria è sempre
sintetica.
E questa è la ragione, per la quale noi abbiamo collocato
il giudizio e il raziocinio nella classe delle sintesi anzichè delle analisi,
quantunque il risultato non sempre sintesizzi, ma riesca talora analitico.
Infatti, quando i giudizi sono negativi, o quando è negativa la conclusione
risultato suol essere analitico e dividente;
ma la forma è sempre sintetica. Il che apparirà vie più chiaro a coloro,
i quali sanno che la mente umana concepisce ciò che è negativo sotto
una forma positiva, il nulla come un qualche cosa, e che la negazione
è un' affermazione in quanto alla forma. Onde il predicato negativo fa
sintesi col soggetto, quando si vuole separare e distinguere; la qual legge
del pensiero condusse gli algebristi a sommare tanto le quantità positive,
quanto le negative, con una stessa operazione, che chiamarono
appunto somma , equivalente a unione o sintesi.
Ma passiamo a quelle operazioni della riflessione, nelle
quali questa facoltà discopre o finge uno dei due termini della sua analisi
o della sua sintesi; le quali operazioni abbiamo detto essere due, la
fede razionale e la creazione razionale .
Allorquando la mente umana riflette sopra un oggetto percepito,
raffrontandolo all' essenza dell' essere, e, mediante questo raffronto, trova
che l' esistenza sua è condizionata ad un altro ente, che ella non ha
mai percepito, di maniera che ripugna all' essenza dell' essere che l' oggetto
percepito esista solo, mentre pure esiste; allora nasce in lei la fede
razionale, che è quanto dire « la persuasione ragionevole che esista quell' altro
termine, benchè non l' abbia mai percepito, nè conosca punto nè
poco il suo modo di essere ». Questa è quella funzione, che abbiamo
chiamata integrazione .
A ragion d' esempio, Leibnizio, raffrontando gli esseri reali creati
coll' essenza dell' essere, trova che nell' ordine dell' essere stesso giace la
legge di continuità . Di poi vede nelle cose naturali, conosciute al suo
tempo, mancante un anello della catena. Egli crede all' esistenza di questo
anello ancora incognito, e così predice la scoperta dei zoofiti , che
ebbe luogo posteriormente.
Pur ora Le7Verrier scoperse in modo simile, quasi direi a priori,
l' esistenza del suo pianeta, che vide, come acconciamente disse Arago,
non nella lente del suo telescopio, ma sulla punta della sua penna. Dal
confronto degli enti reali coll' essenza dell' essere erano già conosciuti i
due principŒ di causa e di analogia . Questi produssero quella scoperta.
Le7Verrier ragionò seco stesso che alcune irregolarità nel movimento
dei pianeti conosciuti dovevano avere una causa, pel principio di causa.
Notò che altre irregolarità e perturbazioni venivano spiegate per la
mutua attrazione di tali astri. Conchiuse che le irregolarità, che rimanevano
senza causa, dovevano per analogia essere prodotte dall' attrazione
d' un pianeta incognito. Applicò il calcolo a trovarne la posizione,
e il calcolo gliela diede. Il pianeta fu scoperto nel luogo indicato.
Un ragionamento pari conduce dall' essere contingente al necessario,
che non si percepisce. L' essere contingente ripugna che esista solo,
integrazione , vale a dire perchè ciò che si percepisce non
potrebbe essere, se non fosse altresì ciò che quest' uomo annunzia e che
non si percepisce.
Con un argomento della stessa natura il cieco crede all' esistenza
dei colori. Questi colori che io non percepisco, egli dice, esistono, perchè
vi è uno degno di fede, che io percepisco. Se i colori non esistessero, non
potrebbe esistere quest' uomo degno di fede. Ma quest' uomo degno di
fede esiste; dunque anche i colori esistono.
Dai quali esempi si scorge:
Che l' argomento dell' integrazione è fondato nell' ordine intrinseco
e necessario dell' essere , che si suole esprimere in forme di principŒ
ontologici; il quale ordine nella contemplazione naturale dell' essere si
rinviene, e per esso s' intende che una data parte dell' essere, che si percepisce,
non sarebbe come è, se non ve ne fosse un' altra, che non si
percepisce.
Che la fede razionale, di cui parliamo, riguarda le entità che
noi non abbiamo mai percepite, ossia che non ci furono mai comunicate
nella loro realizzazione, e di cui perciò non conosciamo positivamente
la natura, la quale solo per via di percezione o di similitudine
coi percepiti a noi si fa nota (1).
fede , che noi prestiamo
ad un uomo, il quale ci attesta l' esistenza d' una cosa, di cui abbiamo
altre volte percepita l' essenza realizzata? Appartiene una tale credenza
alla fede razionale ? Per esempio, se noi prestiamo fede ai viaggiatori,
che ci dicono avere scoperto nell' interno dell' Africa un nuovo fiume,
è questa l' operazione che noi chiamiamo fede razionale ?
Conviene, a farvi risposta, osservare che le conoscenze umane si
partono in due grandi classi: quella delle essenze delle cose e quella
delle sussistenze , che sono il realizzamento delle essenze. Ora, quando
viaggiatori degni di fede ci dicono avere scoperto quel nuovo fiume,
rispetto all' essenza del fiume nulla di nuovo ci attestano; perchè noi
sapevamo già che cosa è un fiume, avendone tanti percepiti coi sensi
nostri. In quanto all' essenza dunque essi non sono testimoni , ma semplici
monitori o eccitatori della nostra attenzione, che tosto pensa a un
fiume, cioè all' essenza d' una cosa a noi nota. Quanto poi alla sussistenza
di quel fiume nell' interno dell' Africa, essi sono veri testimoni, e noi
prestiamo loro una fede razionale . Ma in questa fede razionale, che riguarda
la sussistenza e non l' essenza delle cose narrate, non interviene
integrazione; perchè l' operazione dell' integrare è volta a contemplare
l' essenza dell' essere , senza riguardo alla sussistenza. Gli esempi addotti
delle scoperte di Leibnizio e di Le7Verrier riguardano la sussistenza;
ma il modo di ragionare è il medesimo, e per dichiarare questo modo
furono addotti.
L' integrazione adunque è una specie della fede razionale; ma questa
abbraccia altre specie ancora.
fede razionale si diparte la creazione razionale . Come
la fede dal condizionato percepito argomenta alla condizione, così
la creazione assume o finge qualche cosa, di cui ha percepita altre volte
l' essenza, ma di cui non crede veramente alla sussistenza. La quale assunzione
o finzione si fa dall' attività dell' umana intelligenza per cagioni
diverse, non sempre razionali. Quindi ella riceve tre forme, divenendo
ora facoltà delle ipotesi , ora facoltà delle personificazioni , ora
facoltà dell' errore .
L' ipotesi, se è ben fatta, ha del razionale e si avvicina
molto all' integrazione, ma se ne distingue per queste differenze:
Nell' integrazione si trova un termine, la cui essenza non fu
da noi percepita; laddove ciò che si assume per ipotesi è sempre cosa,
la cui essenza fu percepita.
Nell' integrazione l' argomento induce necessità, laddove nell' ipotesi
esso è congetturale.
Nell' integrazione il termine non percepito è unico ed esclude
tutti gli altri, laddove nell' ipotesi il termine, che si assume per spiegare
i fatti, non esclude gli altri, giacchè i fatti, che si prendono a spiegare,
possono di solito essere spiegati con più ipotesi.
La personificazione non è razionale; ha un' origine istintiva,
e l' uomo se ne serve quasi di simbolo per eccitare in sè stesso il
sentimento, anzichè per accrescere il proprio sapere.
La facoltà dell' errore , finalmente, è un' affermazione arbitraria
che nega la verità, e però non è punto razionale, anzi ha una
relazione di contrarietà alla ragione.
E` manifesto che l' attività dell' anima nella creazione razionale
appartiene a quella soprabbondanza di attività, che spiega il
principio (il soggetto, l' anima), quando egli è posto in essere dal termine,
e che non viene precisamente dal termine stesso.
Ci rimane a parlare della riflessione totale , che è quella,
come vedemmo, che cerca i rapporti dell' essere universale, e non si ferma
a quelli degli enti particolari. Ora la riflessione totale abbraccia un
gruppo di quattro facoltà, che noi denomineremo: 1 facoltà dei principŒ ,
2 facoltà degli archetipi , 3 facoltà del metodo , 4 facoltà della
cognizione assoluta o trascendentale .
ragione teorica che alla ragione
pratica , e all' una e all' altra somministra i principŒ direttivi.
Se l' essere non fosse essenzialmente ordinato e quasi organato,
egli non potrebbe produrre in sè i principŒ dell' umano ragionamento,
i quali tutti esprimono il suo ordine. Perocchè, se ben si considera
l' officio che prestano i principii alla mente, si scorge che « ogni
principio altro non fa che mostrare alla mente come l' ente debba essere,
acciocchè sia ente »; per esempio, il principio di cognizione dice: « Il
pensiero non è, se non ha per oggetto l' ente »; il che viene a dire che
l' entità, che si chiama pensiero, non sarebbe un' entità o semplicemente
non sarebbe, se non avesse l' ente per oggetto. Descrive dunque come
deve essere l' entità pensiero , ossia descrive l' ordine di questa entità.
Il principio di sostanza dice: « Non è l' accidente senza la sostanza ».
Descrive adunque il modo o l' ordine dell' entità accidente, acciocchè
egli sia entità. Il principio di causa dice: « Ogni avvenimento deve
avere una causa ». Descrive dunque come possa essere un avvenimento,
ossia quale debba essere l' ordine necessario dell' entità significata colla
parola avvenimento. E così si può procedere trascorrendo gli altri principii;
ciascuno esprime come debba essere l' ente, acciocchè sia; e questo
è un esprimere il suo ordine intrinseco e necessario.
L' ordine suppone sempre una moltiplicità unificata; quindi
si può considerare l' unità nella moltiplicità, come pure la moltiplicità
nell' unità. Da questi due aspetti si deducono due serie di principŒ della
ragione teoretica, i primi dei quali indicano come l' unità si possa moltiplicare,
i secondi come la moltiplicità si possa unificare.
Ai primi, oltre i tre enumerati di cognizione, di sostanza
e di causa, si riducono i principii d' individuo sostanziale , di soggetto , di
persona , di assoluto , i quali dicono: « l' ente non sarebbe, se non vi fossero
individui sostanziali; l' ente non sarebbe, se non vi fossero soggetti;
l' ente non sarebbe, se non vi fossero persone; l' ente non sarebbe, se non
vi fosse l' assoluto ». I quali principii si possono anche tradurre in queste
principio di individui
sostanziali . « Se vi sono individui sostanziali, dunque si sono individui
soggetti (senzienti) »; questo è quello che chiamo principio di soggetto .
« Se vi sono soggetti, dunque vi sono persone »; questo è quello che
chiamo principio di persona . « Se vi è un ente, dunque vi è l' ente assoluto »;
questo è quello che chiamo principio dell' assoluto , dal quale si
trae la cognizione trascendentale ed assoluta.
Dal considerarsi poi i rapporti della moltiplicità coll' unità
nascono altri principii della ragione teoretica, come sarebbe: « Il
tutto è maggiore della sua parte »; « Due cose eguali ad una terza sono
eguali tra di loro », ecc..
E per toccare anche di quei principii, che presiedono e
dirigono la ragione pratica, diremo che questa ha i due atti della contemplazione
e dell' azione . Alla contemplazione presiede il principio
della bellezza; all' azione poi quello della legge morale.
La facoltà degli archetipi è quella che spinge col pensiero
qualunque essenza conosciuta all' ultima sua perfezione possibile, determinando
come ella deve essere, acciocchè sia perfettissima; questo
è il fonte delle scienze deontologiche (1). E` questa un' opera nobilissima
della riflessione, che, paragonando le specie imperfette delle cose, date
all' uomo dalla percezione, coll' essere, trova quanto le loro essenze possono
ricevere in sè dell' ordine dell' essere stesso. Questa facoltà rende
sublimi gl' ingegni, fu meravigliosa in Platone, e gli procacciò il titolo
di divino. Niuno può essere uomo grande che non la possegga in alto grado,
perocchè le magnanime azioni dei grandi si realizzano sempre, copiando
l' eccelso ideale, che nella mente loro vivo contemplano.
La facoltà del metodo nasce dalla riflessione, allorquando
ella si eleva su tutti gli ordini speciali di riflessione per ordinarli convenientemente
fra loro; e però è una cotal riflessione universale, che
abbraccia con uno sguardo tutte le possibili riflessioni, cioè un numero
di riflessioni indefinito.
Finalmente la facoltà della cognizione assoluta o trascendentale
è pur ella frutto della riflessione totale, quando, prendendo
quante cognizioni ella vuole e raffrontandole all' essenza dell' essere, distingue
ciò che vi è in esse di soggettivo e di fenomenale da ciò che è
Moschini .
Dopo aver noi considerata l' anima rispetto a ciò che patisce
e che riceve, e indi dedotte quelle potenze che chiamammo passive
e ricettive, dobbiamo considerarla rispetto a ciò che ella agisce, e indi
dedurre le sue potenze attive.
Conviene non dimenticare giammai ciò che abbiamo detto dell' interna
costituzione dell' anima. L' anima, noi dicemmo, ha natura di principio;
ma questo principio non è concepibile se non a condizione che
abbia i suoi termini, chè principii e termini sono correlativi e sintesizzanti.
Ora, in quanto il principio è affetto dal suo termine, è ricevente
o passivo . Ma questa ricettività e passività involge un grado d' attività
propria dello stesso principio; e così l' attività nei soggetti creati viene
in parte dalla ricettività e passività, e in parte è anch' essa condizione
di questa.
Dato dunque che una volta sia posto in essere il principio (l' essere
del quale sta, come dicevamo, nell' unione col suo termine), l' attività
del principio non si limita a ricevere ed a patire, ma è tale che opera
sul suo termine stesso, se pure il termine è atto a ricevere la sua
azione ed a restarne immutato. Perocchè, se la natura del termine fosse
di essere puro atto, ogni passività o ricettività sarebbe esclusa per la
sua essenza; il che s' avvera di Dio e delle cose divine. Allora l' attività
del soggetto si spiega nel soggetto stesso, allontanandosi o avvicinandosi
al termine, modificando la propria unione con esso.
Ora, posciachè i termini primitivi dell' anima umana sono
due, il sentito e l' inteso, verso all' uno dei quali ella è passiva, verso all' altro
istinto , ed è quella che nasce dalla sensitività, l' altra
chiamasi volontà , ed è quella che nasce dall' intelligenza.
Il termine dell' istinto è mutabile, e però l' attività istintiva, operando
su di lui, lo immuta; ma il termine della volontà, in quanto è lo
stesso di quello della pura intelligenza, è immutabile, perchè è cosa divina
(le idee); e però l' attività, che nasce da questa, limitasi ad essere
più o meno ricettiva, ovvero ripiegasi sull' anima stessa, mutando questa
anzichè il termine oggetto dell' intelligenza.
L' istinto adunque è il movimento della sensitività. E poichè
la sensitività accompagna tutte le potenze e le operazioni anche razionali
dell' anima, perciò l' istinto si stende amplissimamente, accompagnandosi
a tutte le parti dell' uomo. Onde colui che volesse compiutamente
descriverne la diramazione, dovrebbe derivare le speciali attività
di questa potenza, classificando e diramando tutte le altre, e dimostrando
che ciascuna ha il suo proprio e speciale istinto.
L' istinto di sua natura è potenza cieca. Ma poichè anche
le potenze razionali e morali hanno i loro istinti, perciò conviene distinguere
quell' istinto, che è cieco interamente nel suo moto e nel suo termine,
da quello che è cieco solamente nel suo conato e nel suo moto, ma
non nel suo termine, ovvero che è cieco solamente nel suo moto, ma
non nel conato e nel suo termine. Infatti, se si considera il moto istintivo
della volontà, vedesi che parte da un lume e termina in un oggetto conosciuto.
Ma in quanto il moto della volontà si fa per inclinazione naturale
e spontanea, senza deliberazione o decreto, come talora avviene, in
tanto quel moto è cieco, e solo per questo dicesi che quel movimento è
istintivo. E per dare un esempio anche di quell' istinto, che è cieco nel
suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, indicheremo gli
atti onde acquistiamo le prime nostre cognizioni, i quali tendono ad acquistare
quel lume di cognizione, che dapprima non hanno. Poichè
quando si muove il soggetto all' acquisto delle sue prime cognizioni, egli
non le ha ancora, e però non può muoversi ad esse se non ciecamente, trattovi
dal sentimento e dall' attività sua nativa, onde il principio di tal
moto è cieco, benchè il termine sia la cognizione dove è luce.
istinto
animale (che anche nell' uomo si ha, perchè anche l' uomo è animale);
e l' istinto cieco bensì nel suo moto, ma tale che si associa a qualche cognizione,
onde prende le mosse, o dove finisce, e questo è l' istinto umano .
Se noi poniamo mente alle varie operazioni dell' istinto
animale, potremo forse ridurle acconciamente a sei classi.
Lasciando quel primo atto, col quale l' anima unendosi al suo termine
pone sè stessa, in cui risiede virtualmente tutta l' attività istintiva,
il principio dell' istinto , e non enumerando se non le conseguenti sue
operazioni:
L' istinto concorre alla produzione dei sentimenti animali accidentali.
L' istinto ha virtù di riprodurre i sentimenti, quando questi
hanno perduta la loro attualità e lasciate nello spirito solo le vestigie,
le inclinazioni abituali; la quale operazione non si suol fare se non coll' aiuto
delle facoltà istintive seguenti.
L' istinto ha virtù di associare i sentimenti e unificarli a cagione
dell' unità dell' anima; e questa è quella che chiamammo forza
sintetica dell' animale, cagione di tante meraviglie, simulatrice della ragione,
di che abbiamo lungamente parlato nell' Antropologia (1).
Dall' associazione di più sentimenti nell' unità dell' anima ridondano
in questa certe modificazioni generali, che chiamiamo affezioni ,
le quali sono quasi sentimenti di mezzo fra i sentimenti singolari e le
passioni . Sono dunque queste affezioni i principŒ generatori delle passioni,
poichè quando quelle si completano e lasciano nell' anima un' abituale
inclinazione a riprodursi , allora ricevono questo nome di passioni.
E le passioni sono la quinta manifestazione della potenza
istintiva.
passioni e gli atteggiamenti spontanei che prende l' istinto.
Le passioni non sono meramente animali. Anzi nell' uomo
si debbono diligentemente separare le animali dalle razionali.
E le une e le altre ricevono acconciamente quella divisione,
che troviamo in Platone, di passioni cioè proprie del concupiscibile ,
e di passioni proprie dell' irascibile . Intendesi per concupiscibile
l' inclinazione, che trae verso il bene, e che ritrae dal male. Per irascibile
poi quella subita vigoria, che si condensa e quasi s' aggruppa nell' anima,
quando questa trova un esterno impedimento alla sua tendenza
(1), colla quale pugna ed urta per rimuoverlo e vincerlo, e sfogare la
sua tendenza concupiscibile.
Ma restringendoci ora alle passioni animali, quelle del
concupiscibile tendono ad avere il gradevole ed evitare il disgradevole,
chè nè altro bene ha l' animale, nè altro male; e quelle dell' irascibile
sono ordinate a sforzare e superare la difficoltà, che incontrano le
tendenze del concupiscibile a spiegarsi compiutamente. Onde propriamente
l' irascibile non è che una attività dello stesso concupiscibile , il
quale s' adonta e s' arma contro gli impedimenti stranieri, che non lo distruggono
o snervano, ma solo si oppongono per arrestarlo.
Non conviene adunque accomunare cogli animali l' amore ,
che è passione razionale e nobile, in luogo di cui è nei bruti l' affezione
unitiva , che si suddivide nella tendenza generativa , e in quel gruppo
di passioni che si raccolgono nella tendenza all' aggregazione , la quale
abbraccia l' istinto, che fa stare e andare insieme i bruti della stessa
specie, che pone fra le specie diverse simpatie o antipatie, che aggiunge
odio , che esprime propriamente una
passione razionale, a cui risponde nell' animalità l' avversione , l' antipatia ,
ecc..
Anche il desiderio e l' abborrimento non sono passioni animali,
ma razionali; nell' animalità in quella vece si manifestano varie
tendenze specificate da vari loro termini, come la voracità , la fame , ecc..
Il gaudio pure è proprio dell' intelligenza, a cui risponde
nell' animalità qualche sentimento, che non ha nome proprio e ben definito;
perocchè non tutte le passioni animali trovano nel linguaggio
una propria espressione. Di che avviene che lo stesso vocabolo si usi sovente
in diverso significato, ora a indicare una passione meramente animale,
ed ora a indicare la passione corrispondente, che si manifesta
nell' essere razionale, come è delle due parole tristezza ed allegrezza , ecc..
E questa scarsezza e povertà di linguaggio è anch' essa cagione,
che inclina la mente poco vigile a confondere l' ordine sensitivo
coll' ordine razionale.
Fra le passioni animali si può annoverare altresì la proprietà ,
che è quella che affeziona l' animale a certe cose inanimate; ed
apparisce identica nell' uomo, se non che l' uomo gode anche della cognizione
della sua proprietà, e questo godimento aggiunge un elemento
razionale al sentimento della proprietà. Di più, l' uomo, attesa la sua
facoltà morale, innalza il sentimento della proprietà all' ordine del diritto,
del quale il sentimento di proprietà non è altro che la materia (1).
Benchè le parole ira, ferocia, paura, aspettazione , ecc., si
applichino sovente tanto ai bruti quanto all' uomo, tuttavia sembrano più
proprie dei primi che del secondo; all' incontro le parole sdegno, timore,
audacia, speranza, disperazione esprimono manifestamente affetti e passioni
razionali; e se si trovano applicate ai bruti dagli scrittori, si fa per
un cotal traslato e per quella inclinazione, che gli uomini hanno, di
accomunare la vita intellettiva e la ragione, che possiedono essi, a tutti
gli enti che percepiscono, massime se questi appalesano di quei fenomeni
che si producono anche dall' intelligenza, benchè possano essere prodotti
da altra cagione.
passioni simpatiche , come la compassione, ecc.; dico solo che se
nei bruti si manifesta qualche cosa che rassomiglia ad esse, questa cosa
si può sempre ridurre a passioni e sentimenti individuali; perchè il bruto
non si muove, finalmente, se non in virtù delle sue proprie sensioni,
l' opposto dell' uomo, che partecipa delle passioni altrui col solo conoscerle,
poichè, conosciute, egli può rappresentarle a sè stesso nell' immaginazione,
e così entrarne a parte; onde la compassione è certamente
passione razionale nella sua causa ed anche in sè stessa. Che se si ravvisa
qualche cosa somigliante nei bruti, ciò può ridursi all' affezione unitiva ,
a quella che riguarda l' aggregazione , ecc..
I fonti delle passioni comuni ai bruti sono l' aggradevole ed il difficile;
nell' uomo a cagione della razionalità si trovano due altri fonti,
e sono il rapido moto dell' animo e il grande ; poichè l' animo, che passa
rapidamente da uno stato intellettivo ad un altro opposto, non solo accresce
la vivezza dell' atto sensitivo colla rapidità, il che accade anche
nel senso animale, ma produce nuovi ed improvvisi sentimenti, quali
sono il riso , la sorpresa , ecc..
Ancora, solo l' uomo colla sua ragione rendesi suscettibile del sentimento
del grande, il quale produce vari effetti, come la meraviglia ,
lo stupore , l' estasi , ecc.; passioni tutte umane, di cui le bestie interamente
son prive.
Veniamo ora a ragionare brevemente della sesta manifestazione
dell' istinto animale, che fu da noi collocata nella virtù che ha
il sentimento di atteggiare sè stesso , modificando il sensifero.
Per intendere che cosa noi vogliamo dire con questa virtù del sentimento,
conviene richiamarsi alla mente che noi conosciamo il sentimento
in due modi, mediante il sentimento stesso immediatamente, di
cui siamo consapevoli (soggettivamente), e mediante fenomeni da lui
prodotti e da noi sentiti, ma che non sono lui stesso (extra7soggettivamente).
Antropologia ,
a cui deve ricorrere il lettore, che ama di seguire i nostri
ragionamenti.
Supposto dunque che sia stata ben distinta la parte soggettiva del
sentimento dall' extra7soggettiva, tosto sarà inteso come il sentimento
soggettivo sia cosa immune affatto dallo spazio e però semplicissima,
giacchè nel concetto del piacere, del dolore e di ogni altro sentimento
puramente soggettivo, niuno può trovare il concetto di alcuna estensione,
la quale non è che il termine di alcuni sentimenti, non il sentimento
stesso. Ciò non di meno i fenomeni extra7soggettivi hanno una
simultaneità e una correlazione coi soggettivi. Noi abbiamo detto che
fra gli uni e gli altri non passa la relazione di causa immediata e di
effetto immediato, perchè sono al tutto dissimili. Tuttavia al cangiarsi
del fenomeno soggettivo cangiansi i fenomeni extra7soggettivi; il che
fa credere che il cangiarsi del fenomeno soggettivo, se non è causa immediata,
possa almeno essere causa mediata di tali cangiamenti. E considerata
la cosa solamente rispetto alla dissimilitudine delle due serie di
fenomeni, rimane tuttavia incerto; diviene certo, allorchè si considera
che il sentimento soggettivo termina nell' esteso, come abbiamo detto, e
che l' esteso è già egli stesso, in un senso, extra7soggettivo, benchè individualmente
unito al soggetto, ed appartiene anche al fenomeno extra7soggettivo
del sensifero, con esso identico di sostanza. Laonde, quantunque
il sentimento (soggettivo) non sia causa immediata e prossima dei
fenomeni extra7soggettivi del sensifero, tuttavia egli è causa della mutazione
del proprio termine immediato (l' esteso), il quale termine è poi
anche subbietto dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero. Rimane
adunque che il sentimento (il soggettivo) sia causa rimota e mediata
della modificazione dei fenomeni extra7soggettivi, ossia causa della causa
di questa modificazione. Ben fermato tutto ciò, dico che « il soggetto,
che è il principio del sentimento, ha per sua propria legge di adoperare
ed atteggiare il sentimento in modo da trovarsi il meglio possibile, e
quindi anche il meno male possibile ». Ora questa virtù e attività del
principio senziente, che atteggia e modifica il sentimento, è cagione che
succedano delle modificazioni nei fenomeni extra7soggettivi. Le facoltà,
che si riferiscono a queste modificazioni, sono quattro principali:
facoltà locomotrice . Per questa l' animale cammina e fa vario
uso di tutti i suoi organi.
La facoltà formatrice o plastica. Per questa l' animale si natura,
si nutrisce, ecc.. Noi dichiareremo meglio come ciò avvenga e secondo
quali leggi nel quinto libro.
La facoltà delle abitudini sensitive . Questa facoltà è la stessa
virtù di atteggiarsi piuttosto in un modo che in un altro, la quale esercitandosi
si sviluppa, si modifica, riceve nuove disposizioni, nuove condizioni
del suo operare, e quindi nuove spontaneità.
La facoltà che ha l' istinto animale di alterarsi e guastarsi .
Questa facoltà, a cui appartengono i fenomeni morbosi, è sempre, come
le altre tre precedenti, la stessa facoltà o virtù generale che ha il
sentimento di atteggiarsi variamente, secondo le varie condizioni che
gli sono poste dagli stimoli che agiscono su di lui, dalle abitudini, ecc..
Onde, qualora questi stimoli lo pongono in certe condizioni, egli è necessitato,
sempre dalla medesima legge della sua spontaneità, a produrre
i mentovati fenomeni morbosi, di cui parleremo in appresso.
Continuiamo ora a parlare dell' istinto umano, il quale,
sebbene sia cieco come istinto, tuttavia si associa a qualche cognizione,
onde procede od in cui finisce.
L' istinto umano si manifesta anch' egli con affezioni razionali, le
quali producono una condizione passiva dello spirito, che si chiama passione
razionale , e una condizione attiva , che costituisce gli abiti .
Delle passioni razionali basta il poco che ne abbiamo
detto.
Quanto agli abiti , essendo l' abito « una disposizione della potenza
ad agire in un dato modo », essi si dividono, primieramente, come si dividono
le potenze o facoltà che modificano ed attuano.
Le potenze e facoltà umane e intellettive, se si vogliono classificare
dai loro effetti, si possono ridurre a due gruppi: il gruppo di quelle che
producono effetti entro il soggetto, migliorandolo o deteriorandolo, e il
gruppo di quelle che producono effetti fuori del soggetto (extra7soggettivi),
quali sono quelle che cagionano i movimenti dei corpi.
potenza morale , e qui si hanno gli abiti morali , che sono
le virtù ed i vizi; e alla potenza razionale in quanto opera nel soggetto,
e quindi gli abiti razionali della memoria , delle scienze , della prudenza ,
ecc..
Ma in quanto la potenza razionale muove i corpi, e quindi
produce effetti extra7soggettivi, ella dà luogo al secondo gruppo di facoltà,
onde nascono gli abiti delle arti meccaniche e liberali , quelli dei
movimenti viziosi del proprio corpo , ecc..
Fin qui noi abbiamo toccate le principali diramazioni dell' istinto
razionale, classificandole secondo i modi del suo operare .
Un' altra classificazione ce ne riesce, qualora noi cerchiamo i suoi
molteplici rami, pigliando a considerare i diversi oggetti , a cui l' istinto
si riferisce.
Ora, per intendere la natura di ogni istinto conviene investigare
quale sia il suo principio, quale il principio comune di tutte
le tante sue diramazioni. Se l' istinto non avesse un principio unico, il
quale, restando sempre il medesimo, prendesse diverse forme di operare,
non si potrebbero significare coll' epiteto generico d' istintive le funzioni
animali e razionali, da noi enumerate e classificate.
Quale è adunque il principio dell' istinto? quale l' intima e immutabile
sua natura?
L' istinto indica un modo di operare del soggetto, ossia
piacere; quanto questa attività si fa più attuale, si spiega di più, tanto
il piacere è maggiore; l' essenza dunque del sentimento è il piacere, e il
dolore non è che ciò che diminuisce con forza e violenza il sentimento,
lo comprime, lo limita.
Se dunque il principio senziente ha per suo proprio atto
naturale di spiegare il sentimento maggiore possibile, data la condizione
modo di operare di
diverse facoltà che una facoltà determinata; è una legge, come abbiamo
detto, che governa l' attività del soggetto e che lo costituisce. La volontà è
la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire « quella virtù,
che ha il soggetto, di aderire ad una entità conosciuta ».
Questa adesione si fa per via d' interno riconoscimento .
Ma dobbiamo dichiarare che cosa intendiamo per questa parola
riconoscimento volontario . In senso rigoroso riconoscere suppone il conoscere
precedente, e un conoscere che faccia equazione, dirò così, col
riconoscere, sicchè l' oggetto della ricognizione rimanga tale quale nella
cognizione si trova. Questo accade talvolta, e allora la ricognizione volontaria
è vera, giusta, morale, perchè la volontà, riconoscendo l' entità
conosciuta, non ne altera il pregio, ma se ne compiace in quella sola misura,
che la cognizione diretta le prescrive. All' incontro, avviene altre
volte che la volontà, invece di aderire semplicemente all' entità conosciuta,
cresce a sè stessa o diminuisce ad arbitrio i gradi dell' essere, che
ha quella entità; e però la stima più o meno di quel che vale, la riconosce
per quel che non è, non per quello che è; ella suppone che quella
entità sia diversa da quello che pur è nella cognizione diretta, e però
all' entità, propostale dalla cognizione diretta, un' altra ne sostituisce, fingendola
e creandola per l' energia di arbitrio, che ella possiede. Questo
non è certamente puro e semplice riconoscere, ma è prima di tutto un
contraffare e immaginare ciò che poscia si vuol riconoscere. Il riconoscere
adunque, rigorosamente parlando, esprime l' atto della volontà,
quando è retto e verace; quando poi è torto e menzognero, allora l' atto
della volontà è prima un fingere, e poscia un riconoscere ciò che fu finto.
Ma per cagione di brevità talora noi pigliamo la parola riconoscere
per indicare la prima attività volontaria, sia ella retta o torta. Riconoscere
adunque semplicemente e riconoscere fingendo , sono i due modi
nei quali si manifesta l' attività volitiva.
decreti della volontà
e gli affetti (1).
affezione sensibile , che
si muove spontanea, e che non è altro se non aumento e perfezione di
quel piacere, che già contiene il riconoscimento del bene posseduto. A
questi affetti spontanei tengono dietro dei movimenti corporei che li aiutano,
i quali si manifestano extra7soggettivamente agli spettatori; e sono
quei gesti esterni e quelle esterne azioni, che naturalmente dimostrano
la gioia o il dolore, o gli altri affetti internamente concepiti.
Quantunque poi il riconoscimento di un bene conosciuto,
più o meno abituale, più o meno attuale, si continui in forma di affetto
istintivamente, tuttavia può intervenire anche il decreto, che fa la volontà,
di suscitare tali affetti; col quale decreto l' uomo può rendere il
riconoscimento attuale, o può dargli maggiore attualità che istintivamente
esso non avrebbe.
Così i movimenti, che avvengono nel corpo, possono procedere
dalla volontà per due vie, per quella del decreto e per quella
dell' affetto .
Si possono adunque distinguere tre specie di atti della volontà:
1 gli atti istintivi , che sono gli affetti spontanei, compresa in essi
la ricognizione spontanea che ne è il principio, e i movimenti conseguenti
del corpo; 2 i decreti che determinano l' acquisto di un bene che
non si ha, e l' uso dei mezzi per acquistarlo; ovvero determinano gli atti
atti eliciti; 3 e finalmente i movimenti delle
potenze stabiliti coi decreti, i quali atti si sogliono chiamare atti imperati .
Gli atti eliciti e gli atti imperati sono sempre assentiti dalla
volontà; ma gli atti istintivi sono assentiti solo allora che la volontà,
potendo impedirli, fa il decreto di non impedirli; sicchè l' assenso suppone
sempre il decreto. Tuttavia il decreto di non impedire gli atti spontanei
può essere prossimo o remoto; è prossimo, se si decreta di non
volere impedire quegli atti; è remoto, se si decreta di non volere impedire
la causa di quegli atti, riputandosi che chi vuole la causa, voglia
l' effetto.
Tutti gli atti della volontà si chiamano volizioni. Gli atti
istintivi, non mossi da alcun decreto, sono volizioni senza scelta.
La scelta cade sempre nell' ordine dei decreti, perocchè quando si
pronuncia internamente un decreto, allora si sceglie sempre fra il volere
e non volere la cosa. Questa scelta talora è così libera che viene determinata
dall' energia stessa della volontà e non dagli oggetti, ed allora v' è
quella che si chiama libertà bilaterale , e che è necessaria al merito morale
proprio degli uomini viatori. Quali sieno le condizioni della libertà
bilaterale nel suo esercizio, fu da noi ragionato nell' Antropologia ed altrove.
percezione , che è tutto il loro fondamento.
Il quale esercizio d' analisi giova sommamente ad addestrare
l' ingegno, e a renderlo più spedito in opera di scienze. Ma poichè
l' uomo è limitato, qualora s' appiglia ad un metodo parziale e se ne invaghisce,
dimentica facilmente e non più apprezza gli altri, pur buoni
anch' essi e necessari alla perfezione del sapere. Oltre di che, l' uomo
propende agli estremi; e però, datosi al ragionare analitico e colti dei
bei frutti, tosto immagina e si persuade che quel solo metodo basti a
tutto, e che l' analisi sia l' unico fonte di ogni sapienza. E tuttavia questo
eccesso di confidenza che gli uomini mettono nell' analisi, in quei secoli
nei quali le scienze naturali pigliano il sopravvento, non è senza qualche
vantaggio all' educazione dello spirito, che non può mai accingersi
felicemente alla sintesi scientifica, se l' analisi prima non sia perfezionata
e, se fosse possibile, esaurita. Ora l' analisi non si spingerebbe
forse mai tanto innanzi, qualora la mente si applicasse a due lavori ad
un tempo, volesse percorrere due vie, e parte ragionare analizzando,
parte sintesizzando.
aggregazione di facoltà
quasi iuxta positae : si parla di principŒ d' azione, di fatti di prim' ordine;
del principio ond' escono le facoltà e in cui rientrano, del principio7sostanza,
o non se ne parla, o assai leggermente, quasi fosse un' accessorio,
o un non so che di appiccicato, quand' egli, ed egli solo, è pure lo
spirito.
Se questi filosofi, così procedendo, decapitarono, per così
dire, le scienze psicologiche, si fu perchè fecero un uso esclusivo dell'
analisi, avendo il loro spirito perduto quasi l' uso della sintesi. Ma i
Frenologi, che ad essi successero, produssero dei lavori guasti di gravissimi
errori, a cagione che non solo applicarono allo spirito il solo metodo
analitico, escluso il sintetico, ma vi applicarono quel metodo analitico
materiale, che ai soli corpi conviene, quasi pretendendo che l' aggregazione
delle facoltà, di cui i precedenti filosofi avevano fatta constare
l' anima, altro non fosse che l' aggregazione degli organi ben distinti,
di cui si compone il cervello.
Per questo, non senza ragione, un autore recente mise a
confronto gli autori della scuola scozzese coi Frenologi, e trovò gli uni
e gli altri peccare in questo, d' aver messo in obblìo l' unità del soggetto,
sintetici ai tre libri seguenti, che trattano
delle leggi secondo le quali operano le potenze dello spirito umano, perocchè
queste leggi derivano dalla natura intima dello spirito, e sono
sequele a quell' atto primo e sostanziale, pel quale e nel quale lo spirito
è quello che è, o, meglio ancora, a quell' atto che è lo stesso spirito.
Oltre di che la dottrina delle leggi, che governano l' attività dello spirito,
deve dirsi sintetica anche per questo, che ogni legge che si stabilisca,
altro non è finalmente che una grande sintesi, a cui si conducono innumerevoli
atti, che si fanno allo stesso modo; il qual modo identico, che
essi tengono, è appunto il segno e la sostanza della legge.
Come poi nel precedente libro, dove fu nostro intendimento
enumerare e descrivere le speciali potenze dell' anima, lo abbiamo
fatto incominciando a derivarle e raccoglierle dall' essenza stessa
di lei, così ora ci è uopo di additare, prima d' ogni altra cosa, la sorgente
unica di tutte le leggi che segue lo spirito e le sue attività, negli
atti in cui si svolgono, la quale è pure l' essenza medesima dell' anima;
al che poniamo tosto mano.
primitiva , laddove la
ragione è potenza risultante , come abbiamo veduto. Per questo noi
preferimmo dire che l' uomo è un soggetto intellettivo piuttosto che un
soggetto ragionevole. Che se in quella prima definizione avessimo posto
ragionevole o razionale in luogo d' intellettivo, non ci era più permesso
di far entrare nella definizione l' animalità, come quella che sarebbe
stata già compresa nella razionalità; e così non avremmo ottenuto l' intento
di dare una definizione, in cui fossero distintamente accennate le
potenze primitive.
A malgrado di ciò, ritrattando ora la questione, troviamo
più perfetta l' altra definizione testè recata: « l' uomo è un soggetto razionale »;
perchè, dato che la parola razionale sia precedentemente dichiarata,
il che noi facemmo, questa definizione, oltre il pregio della
brevità, gode dei vantaggi seguenti:
1 Quantunque l' intelligenza sia potenza primitiva, tuttavia non è
quella che costituisce la natura dell' uomo; di maniera che colla sola intelligenza
sarebbe posto in essere un soggetto intellettivo, ma non ancora
l' uomo; fino a tanto adunque che il nostro pensiero si ferma all' intelligenza,
l' uomo è in via di formarsi, ma non è ancora formato; l' attività
che pone l' uomo è la ragione.
2 La ragione, essendo quell' attività in cui conviene e si annette
l' intelligenza coll' animalità, esprime acconciamente l' unità del soggetto
soggetto indica sufficientemente l' unità dell' essere umano; ma
la definizione, « l' uomo è un soggetto razionale », oltre esprimere
l' unità dell' uomo, indica altresì il come questa unità si formi, in virtù
cioè della ragione, che congiunge in sè stessa l' intelletto ed il senso (1).
Ora, affinchè questo nesso meraviglioso dell' animalità
coll' intellettualità riceva quella luce che ci bisogna per dedurne le leggi
che segue operando l' umana natura, dobbiamo renderci presente all' attenzione
della mente la dottrina ontologica delle relazioni essenziali
agli enti, le quali si dicono essenziali perchè entrano a costituirli.
E prima non si dimentichi che gli enti, dei quali noi parliamo,
sono quelli che cadono nei nostri concepimenti, poichè se non li concepissimo,
non ne potremmo pur parlare.
Ora questi enti, i quali cadono nel nostro concepire, hanno
in sè delle relazioni così essenziali che, senza di esse, non sarebbero
quello che sono. Quindi essi cangiano di natura nella nostra mente, secondo
che il nostro pensiero li considera con alcune di queste relazioni
essenziali ovvero con altre; perocchè se da un ente concepito si toglie
una sua relazione essenziale, egli è già per questo solo incontanente
un altro ente, e viene espresso con un altro vocabolo; e se una ve ne si
aggiunge, egli di nuovo non è più quell' ente, ma un altro; appunto
perchè si tratta qui di relazioni essenziali, che fanno parte dell' essenza
dell' ente, ossia dell' ente stesso. Questa avvertenza riuscirà chiara a
quelli che già conoscono la nostra dottrina del sintesismo dell' essere.
Ora dobbiamo applicarla alle diverse entità, che entrano nella costituzione
dell' anima umana, la natura delle quali e il loro intimo nesso ci è
bisogno conoscere per dedurne le leggi.
relazione
essenziale fra le parti, che possiamo assegnare col nostro pensiero
in un dato continuo, o fra punti che possiamo in esso a voglia nostra
concepire. La relazione essenziale fra le parti, di cui parliamo, consiste
in questo, che una parte sia fuori dell' altra. La relazione essenziale
fra i punti assegnabili consiste in questo, che fra un punto e l' altro
sia un dato continuo, maggiore o minore, sicchè i punti non si possano
toccar mai. Il concetto dell' ente esteso risulta da queste relazioni; e però
l' estensione involge relazione possibile di parte estesa a parte estesa,
e di punti a punti, la cui relazione è la distanza.
Ma se all' incontro noi consideriamo la relazione del continuo
col principio senziente, questa relazione è del tutto diversa; non
è relazione di parte a parte o di punto a punto, poichè il principio senziente
non è nè una parte estesa, nè un punto matematico. Questa relazione
fra l' esteso e il principio senziente fu da noi chiamata relazione
di sensilità . E` evidente che questa relazione è inestesa, appunto perchè
non è relazione di parte a parte o di punto a punto, la qual sola
forma l' estensione. Dunque noi conchiudemmo che il principio senziente
apprende l' esteso in un modo inesteso. Quando poi diciamo che il principio
senziente apprende l' esteso, noi veniamo a dire che l' esteso è nel
principio senziente. Ma l' esteso non è nel principio senziente come una
parte è in un' altra parte maggiore; dunque l' esteso non è nel principio
senziente con quella relazione che costituisce l' estensione; dunque
l' esteso è nel principio senziente in un altro modo, cioè in un modo
inesteso.
impenetrabilità . All' incontro, se si considera come
l' esteso sensibile sia nella sensazione o nella percezione sensitiva, è
chiaro che non vi è nel detto modo, perchè non si trovano due estensioni,
l' una delle quali minore compresa nell' altra maggiore, ma tutta
intera l' estensione trovasi presente al principio senziente e percipiente,
il quale non è già una estensione maggiore che comprenda la minore,
ma anzi è cosa diversa dall' estensione, di cui l' estensione è il termine;
dunque l' esteso non è nel principio senziente secondo il modo che prescrive
la legge dell' estensione, ma vi è in un modo inesteso. Tutto ciò
viene dato dalla semplice osservazione; è un fatto innegabile; basta
dargli attenzione per riconoscerlo.
Se si vuole ancora un' altra prova di questo vero, o un altro indizio
a cui riconoscere questo fatto, si mediti ciò che sono per dire. La
frase, « un corpo ne contiene un altro, un esteso contiene un altro
di lui minore », è impropria e, rigorosamente parlando, falsa, appunto
perchè l' estensione e ciò che gode dell' estensione è impenetrabile, come
dicemmo; una parte non può essere dentro l' altra senza distruggere la
sua propria estensione. Ora, se l' esteso fosse contenuto nel principio
senziente come un esteso è nell' altro, conseguirebbe che l' esteso non
sarebbe mai contenuto nel principio senziente, ma il principio senziente
non farebbe che circondarlo, che stargli a lato. In questo caso il principio
senziente non potrebbe mai sentire l' esteso, perchè l' esteso si rimarrebbe
sempre fuori di lui, come accade di ogni esteso rispetto ad un
altro esteso; e ciò perchè l' esteso non può sentire l' esteso. Ma il principio
senziente sente l' esteso, tutto l' esteso; dunque è necessario che
l' esteso sia nel principio senziente secondo un' altra relazione, secondo
un' altra legge, diversa da quella dell' estensione, il che è quanto dire
in un modo inesteso.
Di più, se il principio senziente avesse estensione e percepisse gli
estesi, ricevendoli nella sua propria estensione, allora o l' estensione del
principio senziente sarebbe la medesima di quella degli estesi che egli
sente, o sarebbe diversa. Se fosse la medesima, il principio senziente
non sentirebbe che sè stesso e niuna nuova sensione a lui s' aggiungerebbe
Sotto la relazione essenziale all' estensione , la quale consiste in
questo, che una parte sia fuori dell' altra. Colla quale considerazione
il pensiero non esce dall' estensione o da ciò che è esteso; non fa che considerarla
in sè stessa, paragona una sua parte ad un' altra.
Sotto la relazione pure essenziale di sensilità . Colla quale considerazione
si paragona l' estensione o l' esteso col principio senziente,
e la si trova condizionata a lui e in lui inestistente.
Il comune degli uomini considerano l' estensione e l' esteso sotto la
prima relazione, ed in essa pongono la sua essenza; il filosofo deve considerarla
sotto la seconda, ed intendere che anche la seconda entra a
costituirne l' essenza, e quindi che l' estensione ha un nesso essenziale
col principio senziente, che non è lei. Questi nessi tra due enti, essenziali
ad entrambi, sono il fondamento del sintesismo ontologico , e la
chiave della filosofia più elevata.
Ora si deve osservare che la prima relazione essenziale
non è già distrutta dalla seconda, che anzi la seconda suppone la prima.
sostanza involge di
più una relazione coll' accidente , come accade nella sostanza corporea,
che ammette vari accidenti, i quali in essa e per essa esistono, e non
hanno un concetto separato ed indipendente, non potendosi concepire
esistente un accidente corporeo, se prima non si concepisce un corpo,
un esteso, in cui egli sia; al quale si dà appunto perciò la denominazione
di sostanza . Si chiama dunque sostanza « un ente (ossia ciò
che ha un concetto proprio) considerato in relazione con altre entità,
che in lui e per lui esistono »; e questa è la definizione più completa
della sostanza.
Si dirà che se l' esteso continuo ha per sua relazione essenziale
l' esistere nel principio senziente, pare che esso non si possa concepire
senza ricorrere al principio senziente in cui esiste, perchè tutto
ciò che è essenziale entra nel concetto d' un ente. Ma qui si avverta
primieramente che per questo appunto dicemmo che, coll' aggiungere
una relazione essenziale o col sottrarla, mutasi l' ente nel nostro concetto,
cangiandosi essenzialmente; giacchè abbiamo premesso che gli enti,
di cui parliamo, sono quelli che concepiamo; ma la parte essenziale che
vi si aggiunge, non muta la prima.
Di poi si consideri che il concetto di esteso continuo, quantunque
non si consideri in esso il principio senziente, tuttavia presenta
in sè ciò che la semplicità di questo principio produce, che è la
continuità ; di modo che è ragionando sulla natura di questa continuità
che in appresso s' induce la necessità d' un principio senziente. Ma questa
induzione, benchè si fondi sul primo concetto dell' esteso, tuttavia
appartiene ad un ragionamento posteriore alla concezione di lui; il quale
non è necessario alla concezione dell' ente, che col primo concetto , come
dicemmo, si pone.
estensione dall' esteso .
Per estensione noi intendiamo il medesimo che spazio considerato
indipendentemente dai corpi; e per esteso noi intendiamo il corpo che
occupa una parte dello spazio, ossia della estensione. L' estensione, ossia
lo spazio pieno o vuoto, occupato o non occupato dai corpi, esiste egualmente,
e non è certamente un nulla, come taluno si dà a credere; conciossiacchè
il nulla non può essere occupato da una cosa alcuna, nè nel
nulla si possono assegnare parti col pensiero, come si può nello spazio.
Ora questo spazio è immenso (1), immobile, indivisibile, ossia
continuo ed immodificabile; ed è solamente il corpo che è misurabile,
forma nel senso di Kant, quasi
una legge dell' operare e una produzione dell' anima stessa, ma è il
termine, distinto dall' anima, di una naturale percezione. Questo termine
però ha successivamente due stati: il primitivo , privo di qualsivoglia distinzione
o relazione quantitativa, o d' altra natura (spazio puro indistinto);
e il riflesso , che è lavorato dalla riflessione della mente, che
paragona lo spazio primitivo, percepito anche intellettivamente, colle
varie dimensioni dei corpi e colle possibilità di tali dimensioni (idea
di spazio puro distinto, ossia riportato ai corpi).
Questo spazio riflesso, puro, ma distinto, con relazioni quantitative,
è di altro genere, è l' idea di spazio interminabile , di cui abbiamo
dichiarata l' origine nel Nuovo Saggio (1). Noi ammettiamo che uno dei
termini del sentimento fondamentale è un corpo esteso, e però anche
un' estensione distinta, limitata quant' è il corpo. Ma avendo l' animale
virtù di muoversi, e il muoversi non essendo altro che trasportare il
corpo in un' altra parte dello spazio, qualora rimanga un vestigio dello
spazio precedentemente occupato, lo spazio distinto rimane ingrandito
nel principio senziente in proporzione del movimento e della ritentiva
del medesimo. Accadendo poi questo moto nell' uomo, il quale, dotato
com' è d' intelligenza, ha il concetto del possibile, l' uomo intende la
possibilità di moltiplicarsi e di estendersi lo spazio del suo corpo e di
altro corpo all' indefinito mediante il moto, e così si forma il concetto
dello spazio riflesso, distinto, puro od immenso (2). Questo concetto
adunque manca all' animale che non ha concetti, e nell' uomo è acquisito;
ente , perchè il suo concetto, dopo che l' uomo se lo procacciò, è sufficiente
a sè stesso e non ha bisogno di corpo, tuttavia a lui non compete
il nome di sostanza , perchè il concetto di questa è relativo ad altre entità,
che nell' ente e per l' ente esistono, cioè agli accidenti. Dove di
nuovo si vede essere una affermazione gratuita quella che « « non si
dieno altri enti se non sostanze ed accidenti », » affermazione che appartiene
ad una Ontologia materiale e falsa (1).
Che poi lo spazio sia un ente e non sia un nulla, si vede
da questo stesso che egli è termine, insieme colla forza corporea o senza
questa, del sentimento. Ma perchè ciò che si muta è solamente questa
forza ed egli si rimane immobile, conviene dire che egli sia un ente, che
ha solo l' atto primo con cui è nel principio senziente, e come termine
lo informa; ma non ha altra attività, nè atti secondi; perciò appunto
non ha accidenti; onde alcuni, che nulla riconoscono se non vedono
accidenti ed atti secondi, cadono nell' errore di dichiararlo un nulla.
Per altro quando si considera lo spazio puro, l' estensione, come termine
immediato dello spirito, egli si considera nell' atto stesso di costituirsi,
non avendo altra attività che quella che dimostra come naturale
termine del principio senziente; laddove il concetto del corpo (dell' esteso),
continuità . Se leviamo la continuità, se colla mente la
spezziamo successivamente, lo spazio ed il corpo ci si moltiplica sempre
più, e questa moltiplicazione non ha alcun fine, perchè il continuo ci
possibilità d' una
successione, quell' ente dicesi eterno. Tali sono le idee (1), tale è l' essere
necessario, Iddio.
E si noti che a poter dirsi un ente eterno, egli non solo deve escludere
di fatto la successione, ma ben anche la possibilità di lei, di maniera
che il pensare che in esso sia successione equivale ad un distruggerlo.
Così un atomo materiale immobile è privo di successione, ma egli
potrebbe averla, perchè si potrebbero pensare in lui delle mutazioni,
senza annullarne il concetto; perciò egli non è delle cose eterne.
Successione importa mutazione; onde ciò che è eterno è
altresì immutabile.
Per la stessa ragione ciò che ha cominciato ad essere, oppure solo
che si può pensare senza ripugnanza aver egli incominciato, non è eterno.
Poichè se una cosa può cominciare, niente vieta che si pensi un' altra
cosa, che cominci ad essere prima o dopo di quella, o che ella stessa finisca
dopo avere cominciato; è dunque tosto possibile il pensare che quella
cosa sia il termine di una serie successiva, ammetta successione; il che
si deve dire anche dello spazio, il cui concetto ammette benissimo il
cominciamento, senza che con questa concezione lo si annulli.
Si consideri adunque attentamente il concetto della successione ,
giacchè esso è necessario a quello del tempo.
La successione suppone una serie di più avvenimenti. Ora ciascuno
di questi avvenimenti non forma la successione od il tempo, ma tutti
insieme contribuiscono a formarla. Che se in ciascun avvenimento non
relazione essenziale con un altro avvenimento. All' incontro il tempo
consiste essenzialmente nella relazione di più avvenimenti fra loro.
Ora, se questa relazione, che costituisce il tempo, non si
trova negli avvenimenti, dove si troverà?
Noi rispondiamo che questa relazione realizzata si trova prima
nel principio senziente , il quale apprende più avvenimenti, e questi disposti
in ordine successivo.
E` questo un fatto che non si può rilevare che coll' osservazione
interiore; ma possiamo poi analizzarlo e, meditando la sua natura, cercare
le condizioni, alle quali il principio senziente può apprendere
più avvenimenti successivi, per esempio, più modificazioni sue proprie.
Acciocchè il principio senziente apprenda come suo termine
più avvenimenti successivi, appare necessario che essi, rimanendo
in qualche modo in lui, si rendano contemporanei; perocchè se dopo
averne appreso uno, questo passasse del tutto e ne venisse un altro, nel
principio senziente comparirebbero gli avvenimenti singolari come sono
in sè stessi; ma la relazione di successione fra loro non sarebbe appresa,
ella non esisterebbe in lui più che negli avvenimenti, e sopravvenendo
il pensiero, questo non troverebbe alcuna successione.
E` ben da osservarsi che il pensiero piglia le cose come
sono, come gli vengono date dal sentimento, e non le cangia (1); dunque
è uopo che la successione esista avanti il pensiero, nello stesso sentimento,
acciocchè ella possa essere pensata. Ciò che fa il pensiero si
è di concepire quella successione come possibile , e, come tale, rendere
indefinita quella successione finita che gli presenta il sentimento; il che
egli fa coll' idea di possibilità, come abbiamo altrove dichiarato; (2) ma
rimane sempre che il sentimento gli debba aver prima presentata nella
propria realità una successione finita. Il che s' intenderà meglio, ove si
consideri che neppure la memoria sarebbe, senza l' aiuto di sentimenti,
i quali notassero le cose nell' idea dell' essere. Perocchè è certo che, se
cessasse ogni sentimento all' anima intellettiva, in lei cesserebbe ogni
memoria di avvenimenti o di cose reali, non restandole presente altro
che l' essere ideale senza determinazione o disuguaglianza di sorte,
ritentiva , che ha per ufficio di conservare le notizie,
l' altra chiamata reminiscenza , che ha per ufficio di rivocarle all' attenzione
riflessiva della mente, qualora l' uomo ne abbisogni.
Non indugiamo su questa seconda, ma ci conviene trattenerci
sulla prima, la quale è o inconsapevole o consapevole.
La ritentiva inconsapevole è quella che gli antichi chiamavano l' abito
della memoria, pel quale le notizie rimangono in noi, senza che noi
vi diamo attenzione riflessa.
La ritentiva consapevole è quella attività, per la quale abbiamo
presente alla riflessione ed alla coscienza la notizia, sia per avercela
richiamata coll' atto della reminiscenza, sia perchè ci abbiamo continuamente
riflesso.
Diciamo, adunque, che un evento passato acciocchè sia
presente alla nostra coscienza:
Ha bisogno d' un vestigio restato nell' immaginazione, o comecchessia
nel sentimento dell' evento. Ora quel vestigio non è l' evento a cui
noi pensiamo, e che è già passato, ma è un cotal segno di lui.
Conviene dunque che oltracciò s' aggiunga una propria virtù
del pensiero, colla quale la mente nostra possa andare dal segno alla
cosa segnata, possa, aiutandosi col vestigio rimasto, trasportarsi all' evento
che già non è più, e così finire l' atto del pensiero nel passato, come in
suo termine. Ora questo non è così agevole a spiegare. Noi l' abbiamo
fatto altrove; qui in aiuto dei lettori ci riassumeremo.
Primieramente si abbia presente che la mera concezione
dell' evento non è nè passata, nè futura; è presente nell' idea. Questa
concezione adunque non dà cognizione dell' evento che nella sua natura
e nella sua possibilità; qui non entra ancora il tempo, il quale è una
relazione propria degli enti reali, e non delle pure idee. Ma per questo
appunto che la concezione, la possibilità dell' evento è cosa immune
dal tempo, perciò ella può applicarsi ad ogni tempo; io posso pensare
l' evento tanto possibile ad essere avvenuto, quanto ad avvenire.
ente reale non si conosce se non per via di sentimento;
quindi di nuovo è evidente la necessità del sentimento, acciocchè
si possa pensare il tempo dell' evento.
Ma il sentimento della percezione, colla quale noi fummo
presenti all' evento, va a cessare.
Vero; pure conviene osservare che la percezione si compie mediante
un giudizio, ed anzi essendo accompagnata da riflessioni, come accade
nell' uomo adulto, ella è accompagnata da più giudizi. Questi giudizi
danno allo spirito delle notizie dell' evento; vediamo quali sieno tali
giudizi e tali notizie.
Il giudizio proprio della percezione è che l' evento, il fatto, l' ente di
cui si tratta, sussista. Lo spirito così acquista la notizia della sussistenza
di quella entità, parola che abbraccia ogni ente, ogni evento, fatto od
azione.
A questo giudizio se ne accompagnano molti altri, che determinano
l' entità colle relazioni di contemporaneità, che egli ha con altri. Perocchè
quell' entità non si percepisce sola, ma con essa se ne percepiscono
molte che la circondano, coesistenti ad essa. Il che apporta allo spirito
altre notizie, cioè altrettante quanti sono i giudizi, coi quali si affermò
che quella entità coesiste con qualche altra.
Non basta; fra le entità, che coesistono con quella di cui si tratta,
alcune incominciano dopo che ella è già incominciata, ovvero erano incominciate
prima, e mentre esse duravano, ella incominciò. Altre entità
finirono prima di essa, ovvero continuarono a durare dopo che essa cessò.
Nell' atto adunque della percezione, o per dir meglio delle molte percezioni
contemporanee e dei giudizi riflessi che le accompagnano, lo spirito
acquista la notizia dell' ordine cronologico, in cui cominciarono le entità
contemporanee. Ora, poichè tutta la vita è una serie continua di percezioni
e di riflessioni, di giudizi e di notizie cronologiche, perciò consegue
che queste notizie rimanendo nello spirito, questo venga a conoscere
l' ordine cronologico delle entità, ossia degli eventi percepiti. Tutto
adunque si riduce a spiegare come queste notizie si conservino nello
spirito, perocchè, dato che esse si conservino, lo spirito già sa quale
evento è preceduto, e quale è susseguito, e se un dato evento ne ebbe
pochi o molti davanti a lui; il che è quanto dire conosce la successione
ed il tempo; e poco alla volta s' incammina a misurarlo più o meno accuratamente
colla periodicità. Vediamo adunque come si conservano
le notizie cronologiche degli eventi, che acquistiamo in occasione delle
percezioni contemporanee. Dico delle percezioni contemporanee, perocchè
è sempre un evento contemporaneo quello che segna il cominciare
essere
ideale , che è necessario ed eterno, si vede, presupposto il sentimento,
anche il contingente ed il successivo, e la realità stessa come possibile
a sussistere (idea della realità); ed è poi l' affermazione, che, congiungendo
questa realità coll' essenza della cosa, pronuncia la sussistenza;
onde quantunque volte la pronuncia, pronuncia sempre la realità della
stessa essenza, e quindi sempre la stessa cosa identica. Di che si fa chiaro
che il pensiero, il giudizio, l' affermazione, col ripetersi, non mutano il
loro oggetto, ma lo colgono e pongono innanzi alla mente in un modo
eterno e immutabile.
Ora poi, qui noi abbiamo introdotto due ipotesi, l' una che
il giudizio, che produce innanzi allo spirito la notizia cronologica degli
enti in occasione delle percezioni, lasci questa notizia durare nello spirito
quasi in deposito; l' altra che la riproduca, dopo essere ella svanita;
e nell' una e nell' altra egualmente conchiudemmo che la successione di
più enti, conosciuta una volta, si può conoscere egualmente anche molte,
senza che a ciò faccia ostacolo il trascorrere del tempo. Ma per non lasciare
indietro nulla, che turbar possa la mente di quelli che ci accompagnano
in queste ricerche, domanderemo « quale delle due ipotesi
sia conforme al fatto ». La seconda è preferita comunemente, perchè
l' esperienza dimostra che molte notizie si dimenticano e poi si richiamano
colla reminiscenza, onde non pare che di continuo si conservino
nello spirito. Eppure ella soggiace a non leggiere difficoltà; primieramente
se esse non si conservassero, almeno languidamente, non si potrebbe
spiegare il loro richiamo; perocchè dove e come lo spirito le rinverrebbe
perdute? Non può dirsi per associazione di esse con altre notizie
presenti, giacchè se sono affatto perdute, l' associazione non può
esistere; non per gioco d' istinto, giacchè l' istinto suppone il senso di
cui esso non è che il movimento, e però suppone ancora le notizie conservate
in qualche modo nel sentimento; e poi molte volte si richiamano
non istintivamente, ma per decreto di volontà, tostochè piaccia. D' altra
coscienza di quelle notizie, e poi
di nuovo la riprendiamo. Tutte queste difficoltà svaniscono per colui che
conosce la teoria della coscienza; questi intenderà facilmente come le notizie
acquistate possano rimanere nello spirito nostro presenti, attuali,
vive, e tuttavia spoglie al tutto di coscienza. Fu già da noi dimostrato
che « niun atto dello spirito è conosciuto a sè stesso », a cagione che
l' atto è sempre diretto a conoscere il proprio oggetto, e non sè stesso. Fa
dunque bisogno un altro atto riflesso sul primo, pel quale l' atto primo
divenga oggetto, acciocchè si conosca, acciocchè si sappia di conoscere.
Conviene dunque appigliarsi alla prima ipotesi; conviene dire che non
basta avere una notizia, ma di più conviene averla sempre in noi conservata,
perchè ce ne rendiamo consapevoli. Non è dunque assurdo il dire
che le notizie, una volta ricevute nello spirito, vi rimangano, e che quello
che cessa sia l' atto dell' attenzione (1) che lo spirito pone in esse, e della
riflessione , senza i quali atti non è coscienza di cosa alcuna che sia nello
spirito.
Riprendiamo ora il corso del nostro ragionamento. Il
pensiero conosce la successione in un modo nel quale non entra successione
alcuna, a condizione però che la successione una volta gli sia offerta
nella percezione e nei giudizi riflessi, che si fanno in sua compagnia.
Ora noi abbiamo detto che la percezione e i giudizi concomitanti
offrono la successione al pensiero, perchè durante la percezione d' una entità
se ne percepiscono altre, che incominciano o che finiscono; e queste
percezioni si succedono, lasciando di mano in mano nello spirito le notizie
cronologiche degli eventi. Ma questo suppone la durata della percezione.
Infatti non si potrebbe concepire successione di avvenimenti,
se fra l' uno e l' altro non fosse una durata. Ora il durare suppone ciò
che dura, per esempio, la percezione stessa; la durata è propria di ciò
che esiste, e niente all' incontro può esistere in un istante, il quale non
ha durata alcuna; l' istante non è che il principio e il termine della durazione.
Dunque la successione di eventi, cioè del loro cominciare e del
loro finire, suppone la durata d' un ente, nella quale durata, quasi sopra
termometro, sieno segnati tutti gli istanti in cui cominciano o terminano
gli avvenimenti, che in quella si mutano e si succedono. Il tempo
dunque si può definire in sè stesso: « la relazione fra la durata e la
successione ». Ma i concetti della durata e della successione sono correlativi,
per modo che l' una non si conosce, nè può esistere senza l' altra.
Poichè come non si dà successione senza che fra l' uno e l' altro avvenimento,
possibilità che vi sia una
certa successione di avvenimenti, a cui si riferisca (1).
Conviene dunque occuparsi a meditare che cosa sia la
durata , e prima di tutto quella del pensiero, poi quella della percezione
intellettiva, in appresso quella del sentimento, e finalmente quella dell' ente
materiale; e quando il nostro intendimento, meditando, sarà soddisfatto,
allora sarà per noi spiegata sufficientemente la natura del tempo.
Ora la durata del pensiero consiste nell' identità dell' oggetto. Noi
abbiamo veduto che ogni oggetto della notizia intellettiva, come tale,
è immutabile; sicchè ove il pensiero si volga ad un altro oggetto, egli
è incontanente un altro pensiero, non più quel di prima. Ma finchè lo
spirito non si volge ad un altro oggetto, questo essendo immutabile,
rimane pure immutabile il pensiero. Non mancando dunque mai l' oggetto
che determina un dato pensiero ad essere quello che è, perchè l' oggetto
di una notizia è eterno, ed essendo possibile il pensiero tutte le
volte che vi sia l' oggetto; ne consegue che la durata del pensiero sia una
partecipazione dell' eternità del suo oggetto. Se non che, per la limitazione
del soggetto pensante, il pensiero cessa e finisce, benchè rimanga
l' ente che era suo oggetto; e questo cessare è appunto l' istante, che termina
la sua durata.
Ora poi la notizia che un evento precedette un altro è ricevuta
dallo spirito mediante la percezione. Come adunque si spiega la
durata della percezione? - La percezione non può durare, se non dura
il sentimento a cui si riferisce (2); nè il sentimento può durare, se non
dura l' ente senziente e l' ente sentito. Conviene dunque spiegare la durata
dell' ente sentito, oggetto della percezione. Come si spiega la durata
degli enti?
idea è pure necessaria ed eterna. La maniera con la
quale la causa suprema crea, ossia realizza gli enti contingenti,
è per via d' intendimento, è un atto della ragione pratica di Dio,
del suo pensiero operante. Iddio fa sussistere le cose con un atto
analogo a quello, col quale l' uomo le pensa sussistenti. Il pensiero
dell' uomo, come abbiamo veduto, da parte dell' oggetto cognito (benchè
contingente) ossia della notizia , è immutabile ed eterno; ma cessa per
deficienza del soggetto pensante. All' incontro, l' oggetto immediato del
pensiero di Dio è pure eterno, ma è egualmente eterno ed indeficiente
il soggetto pensante, cioè Dio. Quindi le cose create possono durare a
volontà di Dio; e questa volontà infatti è senza pentimento; onde gli
enti, una volta creati, non cessano più in eterno, perchè sono l' opera di
Dio. All' incontro le loro azioni e passioni, avendo per oggetto e causa
prossima gli enti stessi contingenti e deficienti, vengono a cessare, incominciano,
terminano, ricominciano con una incessante vicenda e successione.
Conviene dunque dire che la durata è una partecipazione dell' eternità
di Dio, e la successione è l' effetto della limitazione e deficienza delle
creature. Ora il tempo è appunto questa successione riportata, e quasi
segnata graduatamente su quella durata.
Così è chiaro come le entità durino e si succedano , e come
la loro durata si misuri col numero, ossia colle serie delle successive
azioni degli enti (1).
Dichiarata così la natura del tempo, riprendiamo la nostra
questione, la quale si era se il tempo è nelle cose materiali, se è
nel sentimento, e finalmente se è il solo pensiero che lo forma.
Da ciò che fu detto chiaramente si deduce che il tempo non può
essere nelle cose materiali, perocchè la loro unità, e però la loro durata,
principio corporeo , questo non può
essere corpo, nè materia, di cui anzi è il principio; e però, supponendo
che avesse in sè il tempo, non l' avrebbe però ancora l' ente meramente
materiale.
Ritorniamo adunque all' ente sensitivo, dove trovasi appunto
un principio semplice, fonte di diverse sensioni e modificazioni,
attività e passività. In questo si concepisce una durata appartenente ad
esso principio, che rimane identico; si concepisce del pari una successione
nelle sue sensioni particolari; si concepisce finalmente un nesso fisico
durata, successione, nesso fra loro, compiscono
il concetto del tempo. Il tempo dunque esiste nella natura del
sentimento. Ma qualora si prenda a dar ragione di tutto ciò, la mente
incontra dei nodi difficili, ed è meraviglia se ella non vacilla e tentenna.
Giova che qui noi tocchiamo queste difficoltà, oltrepassando
le quali, il ragionamento nostro non potrebbe indurre piena persuasione
di verità.
Gli atti transeunti e successivi d' un principio senziente, quando
cessano, o lasciano nel principio stesso vestigio di sè o non ne lasciano.
Se non lasciano vestigio alcuno, non può rimanere nel principio successione
di atti in un modo contemporaneo, com' è pur necessario, acciocchè
si abbia il tempo. Perocchè, come vedemmo, questo importa
successione; e successione non v' è, se ella non può esistere tutta insieme,
però contemporaneamente, se non v' è ciò che unisce i suoi anelli. Se poi
gli atti successivi passando lasciano vestigi di sè nel principio senziente,
questi vestigi non sono gli atti stessi; onde non sarebbe più la successione
degli atti che il principio senziente mantiene in sè, ma la successione
dei loro vestigi; e il tempo dovrebbe crearsi mediante questi. Ma
che cos' è la successione dei vestigi? La successione dei vestigi non è
già la loro durata, perocchè nella semplice durata non v' è successione.
La successione dei vestigi non è che il loro cominciare l' uno prima
dell' altro, come pure il loro finire, se finissero; ma noi supponemmo
che rimangano permanenti. Ora, il cominciare di ogni vestigio passa in
un istante e non lascia nulla di sè; rimane il vestigio che dura, ma non
l' istante del suo cominciare. Se dunque il cominciare prima e poi dei
vestigi, che forma la successione, altro non è che una serie d' istanti, il
precedente dei quali non è più quando viene il susseguente, convien
dire che la successione non rimanga, non sia raccolta da un ente che
l' abbia presente; perocchè il principio senziente non ritiene i diversi cominciari
dei suoi vestigi, i quali cominciari trapassano per la loro natura
essenzialmente istantanea. Dunque si trova la stessa difficoltà ad intendere
come il principio senziente possa raccogliere in sè tutta la successione
dei vestigi, che lasciano gli atti suoi, e come possa raccogliere e ritenere
in sè quella dei suoi atti passeggeri. E` dunque uopo cercare
un' altra via a superare questa difficoltà.
durata .
Il concetto, che noi ne abbiamo dato, si fu che « ella è una partecipazione
dell' eternità ». Come l' ente ideale è immune affatto da tempo,
così la sua realizzazione partecipa di questa immunità, benchè in modo
limitato perchè di più non può; e questa è la durata. La durata dunque
suppone identità . Come l' essenza d' un ente è identica in qualunque
istante la si considera, così l' ente reale e semplice è del pari identico
in qualunque istante egli opera e patisce. Ciò posto, se n' ha per conseguenza
che quell' identico principio senziente che fa un atto, è quegli
pure che fa tutti gli altri successivi. Essendo egli identico, è dunque
presente a tutti gli atti che fa; è dunque presente a tutta la successione,
senza che egli stesso soggiaccia a successione, oppure sia un anello di lei.
Considerando in questo modo il principio senziente, s' intende assai
chiaro come egli raccolga in sè la successione dei suoi atti egualmente
che quella dei vestigi che lasciano in lui; benchè i termini della successione
degli atti e dei vestigi trascorrano in modo che l' uno non è presente
all' altro, come è necessario acciocchè formino successione. Conviene
dunque ammettere che il principio sia fuori del tempo, acciocchè possa
accogliere in sè la successione, e così mettere in essere il tempo; onde di
nuovo dobbiamo dire che « il tempo non può esistere se non in ciò che
non ha tempo, come suo termine ». Tutta la difficoltà, dunque, anche
qui si riduce a pervenire colla mente a persuadersi che il principio senziente
(come ogni altro ente semplice) non soggiace al tempo, ma propriamente
è nell' eternità, o, come sogliamo anche dire, appartiene al
mondo metafisico.
Tutto questo ragionamento, a nostro vedere, è inattaccabile,
a meno che non si voglia impugnare la durata del principio senziente,
cioè la sua identità rispetto a tutti i suoi atti successivi.
Supponiamo dunque che s' impugni; noi dovremo sostenerla, e
quando l' avremo provata con invitti argomenti, allora sarà assicurata
la nostra conclusione; qui conviene puntare il ragionamento.
La prima prova, che noi daremo della durata identica del principio
senziente, sarà quella che dimostra in generale la necessità della
durata degli enti. Infatti, supponiamo che un ente non avesse alcuna durata;
è chiaro che non esisterebbe più, perchè l' esistenza istantanea è
assurda in sè stessa, nulla essendo l' istante se non il principio od il
fine di una durata. Ma se un ente dura, per poco che duri, egli deve
essere identico finchè dura, altrimenti non sarebbe durata la sua, ma
successione di enti eguali, ciascuno dei quali fosse per un istante. Il
che, per replicarlo, è manifestamente cosa assurda a pensarsi, sì perchè
niuno di quegli enti sarebbe, giacchè nell' istante stesso in cui fu,
durata ,
il che è quanto dire si conservi identico rispetto a tutti i suoi atti successivi;
ed anzi ciò si deve al tutto ammettere; ora in lui si genera
quella relazione che poi tempo si chiama.
successione degli atti, modificazioni,
passioni, cominciamenti e terminazioni, è dovuta ad un
principio semplice che ha durata, cioè che è identicamente presente a
tutti i termini della successione; senza di che vi sarebbero i singolari
anelli, non mai la successione, e però neppure il tempo; nè i detti anelli
avrebbero ragione di anelli.
Per la ragione medesima che il principio razionale è un
ente semplice, il quale fa più atti successivi, di cui è causa e soggetto
durevole identicamente il medesimo, anche nel principio razionale vi
sono tutte le condizioni richieste all' esistenza del tempo.
Convien dunque conchiudere:
Che se lo spazio e l' esteso ricevono la loro unità dal principio
senziente animale , la successione all' incontro, il tempo ed il temporaneo
ricevono la loro unità da un principio senziente di qualunque
maniera egli sia, o animale o razionale .
Che lo spazio è un concetto conseguente a quello dell' ente
animale ; ma il tempo è conseguente all' ente reale senza più, tostochè
esso divenga soggetto di mutazioni, perchè all' ente appartiene l' identità ,
ossia la durata , in mezzo alle permutazioni a cui si stende.
Che il concetto di tempo non si riscontra in quello di spazio
puro o di materia, dove può pensarsi la durata, ma non la successione,
e però neppure il rapporto fra durata e successione.
Quindi si deve distinguere:
Il tempo reale , cioè il tempo in quanto esiste realmente nel
nesso, che vi è tra un principio identico e la successione delle sue
modificazioni.
tempo reale7conosciuto , che è il tempo presente al pensiero
che lo apprende.
Il tempo ideale , che è il concetto, ossia la mera possibilità
di un nesso fra la durata e la successione.
Noi dobbiamo ora dimostrare come il principio razionale
congiunga e unifichi l' idea ed il sentimento.
Ma poichè il sentimento è di tre specie, animale, intellettivo e
razionale , così di ciascuno di essi dovremo, a parte, dimostrare come
possa coll' idea congiungersi.
Di più, nel sentimento vi sono due elementi, il senziente e il sentito,
ciascuno dei quali può nell' idea conoscersi.
Divideremo adunque le questioni così:
Come il sentito esteso e la successione degli eventi si percepiscano
dal principio intellettivo, che così prende il nome di razionale.
Come si percepisca intellettivamente il principio senziente
animale.
Come si percepiscano il principio intellettuale, a cui è termine
l' idea stessa, ed il principio razionale.
Come si percepiscano le diverse affezioni del principio
razionale.
Noi abbiamo veduto che l' estensione e l' esteso non comunica
col principio senziente per via d' estensione, a quella guisa cioè
che un esteso potrebbe essere in qualche modo contenuto in un altro
esteso; che anzi, se l' estensione e l' esteso non avesse che questa proprietà
relazione di sensilità , egli è ricevuto e contenuto
nel principio senziente. La qual relazione però è prodotta dalla
stessa natura ed attività del principio senziente, di cui tale è la natura
che egli si congiunge alle cose a lui appropriate per via di sentimento;
onde quel che è esteso egli lo rende sentito .
Questa relazione di sensilità è più elevata della relazione
di estensione; e come l' entità più elevata, avente più gradi di essere,
abbraccia l' entità meno elevata avente meno gradi di essere, e abbracciandola
la nobilita comunicandole del proprio, così il concetto di esteso
è abbracciato e contenuto nel concetto di sentito , e non viceversa; e
l' esteso stesso divenendo sentito, ossia considerato come tale, si eleva
nella scala dell' essere un gradino più su.
Ora, più elevato di ogni entità è lo stesso essere , il quale
è l' oggetto dell' intendimento; e quindi il concetto di essere abbraccia
tutte le entità inferiori, qualunque sieno i gradi d' essere di cui quelle
godano.
Quindi le cose tutte si mettono in congiunzione coll' intendimento
per una relazione essenziale di entità .
Ma le cose non possono essere percepite dall' intendimento,
se prima non hanno la condizione e relazione di sentito (1), perocchè
l' uomo non percepisce intellettivamente se non ciò che cade nel
suo sentimento (2).
Dunque l' esteso è nel sentito, e il sentito è nell' ente intuìto dall'
intendimento. Conviene riflettere che l' essere ideale comprende la
realità possibile , il che è quanto dire l' essenza delle cose reali; quindi,
allorquando al principio, che vede l' ente, è contrapposto un sentito7esteso,
forza è che lo veda nell' ente come partecipe dell' essere, e così
lo percepisca, come abbiamo spiegato innanzi più estesamente.
Ora, quando il principio che vede l' ente, vede anche
l' entità partecipata dal sentito, allora quel principio, che prima chiamavasi
semplicemente intellettivo, incomincia a chiamarsi razionale.
principio razionale , adunque, percepisce il sentito nella sua qualità
di ente, il che è quanto dire congiunge in uno ciò che vede nell' idea
(essere) e ciò che sente; e così il sentito diviene un ente all' intelligenza,
un suo oggetto.
Che se niuna intelligenza percepisse il sentito, questo non
avrebbe il concetto di ente, ma solo di sentito, perchè il concetto di
ente lo riceve dalla sua relazione coll' essenza dell' ente, la quale essenza
dimora nella mente suprema e in tutte le menti inferiori, a cui quella
prima la comunica, così creandole.
Chiamo poi questa relazione essenziale , appunto perchè ella entra
a costituire il sentito7esteso come ente; il che è un dargli un grado maggiore
di entità, anzi è un dargli quell' ultimo atto, nel quale è quello che
è. L' ente sentito, adunque, esiste come ente nella mente; ma l' uomo,
che ne parla, attribuisce giustamente la condizione di ente a lui stesso;
perchè l' uomo non parla delle cose se non in quella guisa che sono nella
sua mente; e la cosa stessa, che è nella mente, è ente, ed è ente diverso
sostanzialmente dalla mente, che, ponendolo, lo percepisce.
Per la stessa semplicità dell' idea e della notizia, per la
quale ella è immune dallo spazio e dal tempo, si spiega come la mente
possa concepire gli eventi successivi, passati e futuri, come vedemmo (1).
riflessione quella che, ripiegandosi sul sentito7ente,
trova che a lui deve inesistere un principio senziente per la ragione
detta, che il solo sentito esteso non avrebbe quella unità che egli ha,
qualora non vi fosse alcun principio senziente.
Ma non siamo noi ancora principŒ senzienti? non ce lo dice la
coscienza?
Sì, la coscienza ci dice indubitatamente che in noi è un
principio senziente, un principio intellettivo e un principio razionale,
in cui si unisce quello a questo. Ora la coscienza stessa è una riflessione
sul sentimento nostro proprio.
Ma si conosce il sentimento nostro proprio immediatamente per via
di percezione, senza bisogno di riflessione.
Sì, ma altra cosa è percepire il sentimento proprio, altro è distinguere
in esso il principio , distinguerlo dico, accuratamente dal termine .
Noi percepiamo questo principio entro il sentimento; ma per averne
un concetto separato e distinto dobbiamo ricorrere alla riflessione.
Ora la riflessione lo trova, considerando appunto la natura del
sentimento. Tutto adunque si riduce a dichiarare la natura della riflessione
e in che modo ella proceda.
percezione e sì della
riflessione . La difficoltà, che si presenta, è questa: « Se nel percepire
un ente io ho adoperata l' idea dell' essere legandola col sentito,
come posso io più, dopo di ciò, applicare la stessa idea dell' essere alla
percezione e al suo oggetto, e cavarne da questa nuova applicazione (che
è appunto la riflessione) altre notizie? ».
La risposta si deve desumere dall' osservazione accurata del fatto.
Questo fatto osservato attentamente ci dimostra che la cosa avviene appunto
così; dunque dobbiamo concludere, senza replica, che ella così
può avvenire. L' idea dell' essere può sempre venire dalla mente applicata
a sè stessa, ovvero a qualsivoglia cognizione, in cui ella è già contenuta.
Questo fatto ammirabile non si può negare o impugnare; ma si
può analizzare e cavarne conseguenze utili a farci meglio conoscere
l' indole dell' idea medesima. Ecco quali sono:
Se l' idea dell' essere quantunque la leghiamo nella percezione,
tuttavia ci rimane nello stesso tempo libera a poterla usare nuovamente,
applicarla di nuovo alla percezione che la contiene, conviene dire che
ella è affatto immune da ogni passività , e che il vedere in lei qualche
cosa non la lega propriamente, non la coarta a quella cosa, sì che ella
non ci sia pronta come prima ai nostri bisogni, ai nostri usi.
Il poter noi adoperare sempre l' idea dell' essere come
fosse sciolta, e come fosse la prima volta che noi l' adoperiamo, dimostra
che ella identicamente la stessa è sempre presente a tutti gli atti
del nostro spirito, agli atti di percezione, di riflessione, ecc.; e l' esser
presente nella sua identità a molti atti prova ch' ella è semplice , e come
semplice sta incontro al molteplice e in sè l' accoglie; e l' esser presente
a molti atti successivi dello spirito dimostra che ella non soggiace al
tempo, ch' ella è eterna , come dicevamo di sopra. Infatti, questa è la
proprietà di ciò che è eterno, che « esso, identico, sia presente a molte
entità successive ». Ora quando io intuisco l' essere, egli è presente allo
spirito intuente; quand' io rifletto sopra l' essere da me intuìto, allora
l' essere stesso è presente all' atto della mia riflessione; lo stesso essere
identico è dunque presente quale oggetto al primo atto dello spirito e
al secondo, all' intuizione ed alla riflessione; è unico l' essere, ma ha
relazione a due atti; in quanto ha relazione all' atto intuitivo, si mostra
allo spirito senza distinzione; in quanto ha relazione all' atto riflesso,
semplicità e la eternità dell' ente che spiega la riflessione; senza quelle
due doti questa sarebbe impossibile.
Ciò che si conosce per via di riflessione è diverso da
ciò che si conosce per via di intuizione o di percezione; cioè si conosce
in diverso modo, con diversi gradi, ecc.. Dunque nella riflessione l' ente
non fa che comunicare allo spirito una maggiore notizia di sè stesso,
ovvero una notizia di diverso modo. La notizia dello spirito si deve dunque
distinguere dall' idea dell' ente in sè stessa considerata, che la produce;
quella ha qualche cosa di limitato e di soggettivo, questo è illimitato
e tutto oggettivo, o per dir meglio, oggetto. Questo oggetto è
sempre in tutte le notizie , sia che le abbiamo per via d' intuizione, o di
percezione, o di ragionamento, cioè di riflessione; ma è in quelle varie
notizie in diverse guise (1).
Dallo stesso fatto si deduce e conferma la verità che
l' essere viene dato, per così dire, a prestito alle cose finite, per la necessità
che abbiamo di conoscerle, e l' impossibilità di conoscerle se non
essere , che gli attribuisco; perocchè,
sapendo per natura che cosa è essere, io so che non può mai contrariare
a sè stesso, cioè l' essere non può essere non essere pel principio di
cognizione . Ma il sentito esteso non sarebbe sentito esteso, se non avesse
un principio semplice; dunque, ecc..
Niuna meraviglia ancora se, dopo aver intuìta l' idea, noi possiamo
cavare il concetto del principio intuente, applicando l' essere all' intuizione
in un modo somigliante. Perocchè possiam dire: l' idea intuìta
ha questa entità di essere idea intuìta; ma ella non avrebbe questa entità
se non ci fosse un principio intuente; dunque, non potendo questa
entità essere e non essere, debbo ammettere un principio intuente.
Finalmente niuna meraviglia se, riflettendo sul sentito7esteso percepito
intellettualmente, troviamo la necessità dell' esistenza del principio
razionale; perchè, non ammettendo questo principio, non sarebbe
vero che avessimo percepito intellettivamente il sentito7esteso. Ma non
può ad un tempo esser vero che l' abbiamo e non l' abbiamo percepito,
per la natura dell' essere (noto per natura), che esclude la contraddizione;
dunque il principio razionale esiste.
Che se si vuole che io giunga ad affermare il principio senziente,
l' intellettuale ed il razionale, anche per via di semplice astrazione o di
analisi, queste stesse operazioni si fanno, come ho dimostrato altrove,
per una applicazione segreta e sfuggevole dell' idea dell' essere (1).
relazione essenziale con un
principio senziente, sicchè il pensarla fuori di esso è assurdo.
Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza di un' attività
corporea che si manifesta nell' estensione, e in questa diviene termine
del principio senziente7animale. In quanto è estesa, ella ha pure una
relazione essenziale col principio senziente, cioè non può che avere la
sua sede in esso, e ripugna il pensarla fuori di esso. Ma questa attività,
che si manifesta nell' estensione, non è l' estensione, e non è neppure il
principio senziente. Questa attività corporea non ha solo l' atto primo
col quale esiste, ma ha ancora degli atti secondi, non presentandosi già
al principio senziente come un termine immobile ed immutabile, ma
con movimento e variate apparenze. La causa prossima di lei, straniera
al principio senziente, fu da noi detta principio corporeo , il quale,
quando fa sentire la sua azione nell' anima, prende nome di virtù sensifera;
ma noi non siamo entrati ad investigare la natura di quel principio,
secondo ciò che può essere o non essere in sè stesso. Rispetto poi
alla causa onde i corpi si muovono secondo la legge dell' attrazione, e,
quali termini del nostro principio senziente, cangiano di posizione e di
aspetto, fu collocata, almeno con argomenti di grande probabilità,
nell' animazione degli elementi. Quindi:
1) Talora l' attività stessa del principio senziente immuta e muove
il suo termine.
2) Talora il termine corporeo d' un principio senziente viene
immutato da un principio ch' egli non percepisce, e che probabilmente
è un altro principio senziente. Lasciamo le leggi del movimento meccanico,
che altronde deriva.
forza
sensifera ed altri principŒ senzienti; così il principio senziente talora
è concorde, talora discorde colle attività straniere, che hanno virtù di
costituire o d' immutare i corpi; e quando è discorde, talora prevale,
talora è vinto, secondo il grado di forza che spiegano i principŒ opposti,
e così sorge la lotta delle malattie. Medesimamente avviene che il principio
razionale può essere in discordia colle dette attività, e confederato
al principio senziente lottante, od anche coll' attività dei principŒ
stranieri, quando questi leghino e spossessino il principio senziente,
impedendolo di piegarsi all' attività del principio razionale, e a questa
servire.
Ma se l' opposizione al principio razionale non nasce dall' agente
straniero, ma dallo stesso principio senziente, in tal caso vi è
difetto nella percezione primitiva, che è il vincolo dell' anima razionale
col corpo animale; ed è perciò che il principio razionale non ha le piene
e naturali sue forze, non può farsi ubbidire dal suo inferiore (1).
condizione alla quale egli può percepire i corpi;
la seconda e la terza, cioè la virtù sensifera ed il principio senziente,
come strumenti del principio razionale: quella cioè come strumento
mediato, questo come strumento immediato (1).
Che se non sempre il principio razionale può far uso di
questi suoi strumenti, reggendone e dominandone la potenza, ne vedemmo
pur ora il perchè, che a queste due ragioni riducesi:
I - La debolezza e imperfezione del principio razionale, che non
può dominare la forza del principio senziente7animale, attesa l' imperfezione
della percezione fondamentale.
II - La debolezza del principio senziente, a cui non è ben congiunto
e armonizzato il principio sensifero, da cui dipende.
atti secondi , nei quali l' attività dell' anima
si manifesta. E parlando noi dell' attività dell' anima affine di esporre
le leggi del suo operare, cerchiamo la causa degli atti secondi e non
ci fermiamo all' atto primo, che finisce tutto in sè stesso.
Se dunque si considera il principio razionale, si vede che in esso
vi è sempre l' atto del principio intellettivo, poichè egli non potrebbe
percepire un ente reale, se non intuisse prima l' essere ideale. Quel
soggetto adunque, che intuisce l' essere ideale e che, in quanto a ciò,
si chiama principio intellettivo, è quello stesso che percepisce l' ente
reale, e, in quanto a ciò, si chiama razionale. L' intuizione dell' essere
ideale non esaurisce l' attività del soggetto; dunque l' intuizione dell' ideale
è un atto del soggetto, ma non è tutto il soggetto stesso, tutto
l' uomo. Perocchè un soggetto è posto da quell' atto primo, che abbraccia
in sè potenzialmente tutti gli atti secondi.
L' intuizione poi dell' essere ideale si può anche considerare come
condizione necessaria agli atti del principio razionale. E qui si scorge
un' ammirabile analogia fra l' ordine animale e l' ordine intellettuale.
Nell' ordine animale vi è l' apprensione dello spazio, quale condizione
all' apprensione del corpo. Nell' ordine intellettuale vi è l' intuizione dell' essere
ideale, quale condizione preliminare alla percezione dell' essere
reale. Quindi lo spazio puro è un bel simbolo dell' essere ideale
indeterminato: in quello si percepiscono sensitivamente i corpi, in questo
si percepiscono intellettivamente gli enti reali. Appartiene all' Ontologia
la questione: « Se tali simboli, sparsi nella natura sensibile,
di ciò che accade nella natura intelligente, siano conseguenze necessarie
principio razionale , che è reso unico dall' unità
dell' essere, si comprende il principio intellettivo come la prima
forma del suo atto; e si contengono in radice i tre ordini supremi delle
umane potenze e facoltà, cioè l' ordine delle potenze e facoltà che si
riferiscono all' idea, l' ordine di quelle che si riferiscono alle cose (reali),
e l' ordine di quelle che si riferiscono al bene morale7eudemonologico.
Il principio razionale adunque ha un solo ed unico oggetto,
l' essere; ma come l' essere è in tre forme, così l' atto primo
del principio razionale è pure in tre forme rispettive, salvo che riguardo
alla terza egli è da principio in potenza e non in atto; il che è possibile
a concepire, poichè avendo l' atto delle due prime forme, dal rapporto
di quelle esce poi necessariamente la terza (1).
Dalle quali cose tutte si raccoglie che, come le potenze
dello spirito si diversificano secondo le relazioni che ha il principio
razionale con altre attività ed entità inferiori, così pure le leggi , che
legge della natura si chiama quel modo costante
che dimostrano le operazioni degli enti, a preparare la via all' esposizione
di quelle leggi non basta che abbiamo trovato nel principio razionale
il fonte di tutte le operazioni umane e di tutte le leggi, ma è
uopo altresì che premettiamo la teoria delle operazioni degli enti in generale;
è uopo che presentiamo un concetto accurato dell' operare .
Perocchè allora la mente, arricchita di questo accurato e bene analizzato
concetto, potrà intendere la necessità di quei modi costanti che
nelle operazioni si scorgono, ai quali si dà appunto il nome di leggi .
Il quale argomento appartiene veramente all' Ontologia ed alla Cosmologia;
ma mancandoci tuttavia sufficienti trattati di queste scienze, a cui
ricorrere, noi dobbiamo, siccome abbiamo fatto altre volte, trascorrere
in esse, pigliandoci dalle dottrine a loro spettanti quanto ce ne abbisogna.
Incominciamo dunque dallo svolgere il concetto di operazione,
dimostrandone quella possibilità che è ammessa dal senso comune
senza alcuna difficoltà nè meraviglia, ma pure si fece sempre un grande
inciampo alla filosofia.
Allora quando noi concepiamo un ente determinato, concepiamo
ad un tempo un atto , cioè l' atto del suo esistere.
Questo atto è semplice, e dura quanto l' ente; perciò è uno degli atti
che si dicono immanenti.
Concepire un ente e concepire l' atto del suo esistere è
egli il medesimo?
L' atto dell' esistere dell' ente non differisce dall' ente, se non per
certe relazioni che vi aggiunge la mente nostra.
Quando diciamo atto , noi vi aggiungiamo una relazione colla
potenza, a cui il concetto dell' atto è correlativo per opposizione.
ente , concepiamo l' atto compito ed ultimato,
laddove quando diciamo atto di essere , noi concepiamo, ovvero immaginiamo
di concepire tutta la via per la quale l' ente fu naturato; e
nell' atto stesso distinguiamo un cotal principio (atto iniziale), un mezzo
e un fine, in cui si riposa compiuto e assoluto. Quindi certe sentenze
dei filosofi, come quella: in actu actus nondum est actus , e simili.
Di più l' atto stesso dell' essere noi lo concepiamo preceduto
o susseguito necessariamente da certi altri atti immanenti, come diremo
in appresso.
Quando poi l' ente è costituito con tutti i suoi atti immanenti
a lui necessari, allora noi pensiamo, traendo il pensiero dall' esperienza,
che l' ente, che ha già l' atto compito di esistere, passi ad altri
atti, che si dicono anche sue azioni ed operazioni. Ora l' atto dell' esistere
ed anche gli atti immanenti che lo accompagnano, si sogliono chiamare
atti primi , e i susseguenti si sogliono chiamare atti secondi transeunti .
La natura dell' atto transeunte consiste nel passaggio che
fa l' ente da uno stato all' altro, sia che avvenga in un solo istante, sia
che duri alquanto in un continuo moto. Il carattere adunque dell' atto
transeunte è il passaggio , è il moto senza quiete.
L' atto immanente è quello che dura coll' ente finchè non
sopravviene sostanziale mutazione; e fra gli atti immanenti il primo è
certamente quello che abbiamo indicato, l' atto dell' esistere.
Tuttavia, oltre l' atto pel quale un dato ente esiste, noi troviamo
degli altri atti immanenti, i quali si possono dividere in due classi.
I - Gli atti immanenti che precedono (non già nell' ordine cronologico,
ma nell' ordine intrinseco della naturazione) all' atto dell' essere.
Così, a ragion d' esempio, noi vedemmo che l' atto dell' essere della natura
umana, che è quello del principio razionale, risulta da due atti
precedenti (quasi come da sua forma e da sua materia): cioè dall' atto
intellettivo e dall' atto del sentimento animale fondamentale, i quali
pure sono immanenti.
susseguono all' atto dell' essere, ma che
sono a lui indivisibilmente congiunti, come gli accidenti stabili di una
sostanza, poniamo gli abiti.
Sono adunque di tre classi gli atti immanenti: 1 quelli
che precedono nell' ente all' atto dell' essere; 2 l' atto dell' essere; 3
quelli che susseguono all' atto dell' essere con istabile durata.
Oltre di ciò l' analisi e l' astrazione scompongono talora un
atto in più per diverse relazioni con cui lo considerano; e quindi gli atti
immanenti si moltiplicano nel linguaggio e nella concezione umana.
Fu in Italia che cominciarono a levarsi gli ingegni alle
più difficili questioni, fu in questa terra, patria della dialettica. Quivi
s' intese da prima che ciò che tutto il mondo ammetteva, cioè le operazioni
degli enti, come atti transeunti, non era così facile a spiegarsi,
come ad ammettersi; non era facile a conciliarsi con altre verità somministrate
dal pensiero umano, quando pure la verità non può avere
scissura in sè medesima, nè contraddizione.
La difficoltà, che corse agli occhi dei più antichi filosofi
italici, attaccava il concetto volgare degli atti transeunti, secondo il
quale « l' atto transeunte dura qualche tempo in mutazione continua ».
Veramente questo concetto di mutazione continua involgeva insuperabili
difficoltà, le quali, svolte dall' illustre scuola italiana di Elea con
polso di sottilissima dialettica, sollevarono a tumulto tutto intero il
campo della filosofia; nè la lotta, riaccesa più volte, cessò mai per decisiva
vittoria, ma sempre per isfinitezza dei combattenti. A me pare
che quegli argomenti abbiano qualche cosa di solido. Io ne trarrò profitto,
adducendone cinque contro la continuità dell' atto.
durata di sorte alcuna. Ma ciò che non dura non
è. Dunque nessuno dei suoi stati successivi è. Dunque il concetto di mutazione
continua è assurdo.
Se tutto insieme preso l' atto transeunte
ha una qualche durata, nella quale l' ente muta di stato continuamente,
il numero di questi stati successivi, che egli prende, non esiste,
perchè non esiste un numero di istanti, si prenda qualsiasi numero, che
insieme presi formino una durata (1). Se non esiste il numero degli stati
che deve percorrere, è assurdo il pensare che li possa percorrere; perocchè
se percorre degli stati diversi, questi debbono avere un numero determinato,
giacchè non si dà in natura che ciò che è determinato. Dunque
la mutazione continua involge assurdo. Dunque ella è impossibile.
Che se taluno dicesse che una durata
è divisibile attualmente all' infinito, sicchè possa esservi un numero
infinito (cosa certamente assurda, e tuttavia affermata da uomini grandi
quanto era un Leibnizio!), in tal caso noi domanderemo se ciascuna parte
di questo numero infinito di parti, in cui si pretende potere sciogliersi
la durata, dura qualche poco o non dura punto; perocchè fra questi due
partiti non vi è nulla di mezzo. Ora se ciascuna parte dura, in tal caso
a percorrere un infinito numero di durate, per minime che sieno, si
esige un tempo infinito, e però l' atto transeunte non si compirebbe
giammai; il quale è uno degli argomenti di Zenone contro il moto continuo
(2). Se poi ciascuna parte della durata non dura punto, ma è
continuità del moto.
E veramente è un fatto riconosciuto da tutti i fisici e dato
dall' esperienza, che la sensazione visiva ha una durata nel sensorio ottico,
e non passa in un istante. Se questo non fosse un vero d' indubitabile
esperienza, si potrebbe dimostrare la necessità che così fosse, considerando
che una sensazione, che non avesse durata alcuna, non sarebbe.
Ma non abbiamo bisogno d' una tal prova di ragione. Tuttavia,
quantunque ogni sensazione ottica duri qualche tempo, essendone assai
piccola la durata, il comune degli uomini la crede istantanea. Posto
dunque questo vero, che ogni sensazione ottica ha una piccola durata,
ne viene per indeclinabile conseguenza che l' occhio non può testimoniare
punto nè poco il movimento continuo, perchè non può testimoniare
ciò che non vede. E di vero, il movimento continuo è un continuo
cangiamento di luoghi, in ciascuno dei quali il corpo non fa fermata
alcuna. Per essere adunque veduto il movimento continuo, l' occhio
dovrebbe avere una successione di sensazioni diverse, ciascuna delle
quali non avesse durata alcuna. Ma il fatto non va così; che anzi l' occhio
altro non prova, quando l' uomo crede di vedere un corpo che si muove
continuamente, se non una serie di sensazioni l' una continua all' altra
(o con intervallo insensibile), ciascuna delle quali dura qualche poco
di tempo. Dunque anche il moto fenomenale, cioè sensibile agli occhi,
si riduce in una serie di stati del mobile, ciascuno dei quali dura alquanto.
Quella dunque che sbaglia è l' avvertenza della mente, quando,
trascurando di osservare quelle minime durate, suppone che l' una segua
all' altra senza alcuna interruzione (1).
principio
corporeo , il quale non può essere che semplice. In che consiste
l' identità del termine di un atto? In questo, che egli sia eguale in tutto;
è una identità specifica quella che in esso si cerca in relazione all' atto,
perchè il termine è costituito da questa relazione essenziale. Così se
io fiuto cento volte l' odore di rosa, benchè gli atti sieno numericamente
diversi, essi hanno però un termine specificamente identico, perchè
è sempre la stessa sensazione dell' odore di rosa in cui terminano, supponendo
questa sensazione invariabile; io non ho in tutti questi atti
altra sensazione che quella dell' odore di rosa, che si riferisce a più atti.
Ora, se il principio corporeo attuasse il corpo con intermittenza, egli
che essendo semplice può abbracciare ad un tempo tutto lo spazio, come
abbiamo veduto avvenire del principio senziente, lo potrebbe far comparire
successivamente in luoghi vicinissimi, a tale che paressero continui
e non interrotti, e così il corpo parrebbe muoversi con movimento
continuo, benchè non sarebbe. E tuttavia egli sarebbe lo stesso corpo,
perchè termine eguale in tutto degli atti intermittenti di esso principio
corporeo semplice; onde la diversità individuale che esservi potesse,
sarebbe affatto indiscernibile. Che se non ci bastasse il mantenere
ciascun corpo tanta identità specifica, e si volesse una identità numerica,
non ce ne mancherebbe la via. Perocchè potrebbe considerarsi la forza
sensifera come una virtù identica del principio corporeo, la quale operasse
con intermittenza non osservabile ai sensi.
passaggio , ossia in una
mutazione, che si fa in un istante.
Tenuto questo concetto e la dottrina dell' istante e della
durata , si ha una definizione dell' atto transeunte, che dimostra ottimamente
la sua relazione essenziale coll' atto immanente; perocchè la definizione
dell' atto transeunte riesce a questa: « L' atto transeunte è sempre
il cominciamento o il fine di un atto immanente »; ossia « l' atto
transeunte non è che il cominciare o il finire dell' atto che dura ».
Dalla quale definizione si trae un corollario importantissimo,
che qui noi non vogliamo lasciare inosservato, come quello di
cui abbisogniamo in progresso, a procedere con piena chiarezza e distinzione
di pensieri.
atto immanente ,
ed un atto purissimo.
creazione ,
rispetto all' atto transeunte prodotto, quale principio di atto immanente.
Dunque si dà necessariamente la creazione, ossia la creazione è
necessaria a spiegare l' esistenza del mondo, che è un complesso di atti
immanenti e transeunti legati insieme.
Il sagace lettore intenderà, io non dubito, che questa dimostrazione
equivale a qualsivoglia delle dimostrazioni di Euclide (1).
ente senza alcuna durata è un assurdo, giacchè l' istante è il limite della
durata, e perciò suppone la durata, nè sta da sè, come il punto matematico
è il limite della linea, che non istà da sè.
Ora un atto immanente, che produce un atto transeunte, o lo produce
con un atto eterno, immanente anch' esso, ed allora egli non è il
soggetto dell' atto transeunte prodotto, il che si avvera solo nella creazione,
come vedemmo; ovvero produce un atto transeunte, di cui egli
è il soggetto, di modo che l' atto transeunte è un atto suo proprio; per
esempio, l' atto con cui il principio senziente acquista una nuova sensazione,
o l' atto con cui il principio razionale fa un pensiero, sono atti
transeunti, il cui soggetto è il principio senziente o il principio razionale.
Questi atti transeunti modificano il soggetto che li fa, producono in esso
qualche cosa di nuovo; e nella loro spiegazione si presenta appunto la
difficoltà accennata, la quale è questa.
Se un ente, atto immanente, diviene soggetto di atti transeunti,
il che è quanto dire modifica sè stesso, conviene assegnare una ragione
sufficiente, una causa di questa modificazione, pel principio di causa.
causa piena ,
l' effetto esiste. Ma l' atto immanente era prima che l' atto transeunte
comparisse; dunque l' atto immanente non è causa piena degli atti transeunti,
che in lui, come altrettanti suoi accidenti, si manifestano.
Questa è una nuova prova che l' atto immanente, soggetto dell' atto
transeunte, non può esserne la piena causa, che si deve aggiungere a
quella che abbiamo data prima.
La conseguenza di ciò si è che niun ente è veramente e
rigorosamente semovente; ma deve concorrere al suo movimento, cioè
alla sua immutazione, qualche agente straniero.
Per evitare questa conseguenza, che pareva loro una
difficoltà, molti antichi filosofi posero l' essenza dell' anima nel movimento
(1); ma oltre non essere il movimento sostanza e aver bisogno
movimento s' intende in senso proprio, cioè per movimento locale
proprio dei corpi, e in tal caso è facile provare che l' anima ne va immune
perchè semplice e spirituale, e che quindi può muovere i corpi
senza che ella si muova, giacchè ella è principio, ed i corpi sono il suo
termine, e in questo termine è lo spazio, il luogo ed il moto. Ovvero
si dà alla parola movimento una più estesa significazione, quella dell'
atto transeunte, della mutazione, dell' accadere qualche cosa di nuovo;
il che pure fa Aristotele sovente. Onde non potendo negarsi che le potenze
dell' anima escano in atti transeunti, nota Aristotele che Democrito,
che dava all' anima il moto, confondeva la potenza dell' anima,
a cui il moto conviene, coll' anima (1) a cui non conviene.
Ma se le potenze altro non sono che attività dell' anima, giacenti
nella sua stessa essenza, forz' è ben dire che l' anima stessa rimanga
modificata dagli atti di sue potenze, non solo quando queste sono in
atto, ma anche dopo il loro atto, restando in essa l' abito come quasi
un rimasuglio dell' atto. Poichè, quantunque l' anima abbia natura di
principio , tuttavia questo principio riceve o perde di sua attività; e così
nasce in lui qualche mutazione, e in questa in senso metaforico qualche
moto, chè alla fine, di tutti gli atti delle potenze l' anima è il soggetto,
e il soggetto si modifica pei suoi atti transeunti.
E` vero che Aristotele dice che l' anima è atto (l' atto del corpo
vivo), ma non può negare che questo atto primo è potenza ad altri atti
transeunti, e però non è atto puro ed immutabile, ma passa dalla potenza
all' atto (2).
Se dunque la parola movimento si piglia per ogni passaggio
dalla potenza all' atto, nel quale passaggio sta appunto la natura
dell' atto transeunte, conviene dire che fra la sentenza di quei filosofi,
semovente ,
il concetto del quale ripugna, come abbiamo detto.
Se dunque niun ente può essere un vero semovente, cioè
una causa piena dei propri atti transeunti, rimane a cercare ancora
come questi nascano, quale sia la loro causa completa.
A tal fine dobbiamo richiamare quello che abbiamo detto, che
l' anima ha natura di principio, e il concetto di principio involge quello
di atto. Ma il principio non esiste senza il suo termine, ed è dal suo
termine che riceve la sua attualità ed attività.
L' anima sensitiva ha per suo termine lo spazio ed il corpo.
L' anima razionale ha per suo termine l' ente.
Ora se si muta il termine, si muta conseguentemente l' attualità e
l' attività del principio. Conviene adunque cercare la cagione degli atti
transeunti, che accadono nell' anima nella mutazione dei suoi termini,
come noi abbiamo già fatto prima. Perocchè il principio è essenzialmente
atto, e però è indifferente ai suoi termini, nè gli vien meno l' attività
giammai, per qualsivoglia termine gli sia dato; che, anzi, secondo
il termine, più o meno attivato.
Questa dottrina, che viene somministrata dall' osservazione
interna, spiega in che modo nell' anima vi possa essere della
potenza, quantunque ella sia essenzialmente atto, perchè è principio;
il che parrebbe contraddizione. Ma se si pone che l' atto stesso riceve
più o meno entità, secondo la natura dei termini che gli sono dati, da
una parte si scorge che ella rimane sempre puro atto, benchè maggiore
o minore, nè mai, propriamente parlando, ha unito seco un quid della
sua essenza che sia potenza; dall' altra, essendo capace d' incremento e
di diminuzione, dicesi che ella è in potenza a questo incremento di sè
o a questa diminuzione.
concetto della potenza ,
come una negazione di atto , e non come un che positivo, che costituisca
una parte sostanziale dell' ente principio.
Vero è che fra l' essere dato un termine ad un principio
e l' essergli al tutto negato, vi è uno stato di mezzo, il quale consiste
nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi
pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso,
ed il combattimento fra lui e il suo termine; ma di questo parleremo
altrove.
Ora, dunque, noi possiamo conchiudere che la ragione degli
atti transeunti non si deve mai cercare negli enti principio, ma negli enti
termine. Conviene adunque esaminare con somma diligenza quali sieno
le forze, o virtù, o cause che mutano gli enti termine, e come queste
operino; ed in tal caso solamente sarà spiegato come gli atti transeunti
siano possibili, appunto perchè sarà dichiarato il modo come si formano.
Ma perchè questo modo non è unico nei diversi enti, così noi dobbiamo
discendere alle singole maniere di enti e di loro atti transeunti, come
faremo nel seguente capitolo.
Le quali cose tutte noi abbiamo creduto dover premettere
a spiegare il movimento del principio razionale. Perocchè la condizione
di questo movimento non riesce ben chiara nel concetto della
mente: 1 se non si conosce la natura del movimento in genere di tutti
gli enti, e specialmente di quelli che sono soggetti di atti transeunti;
2 se non si confronta il movimento del principio razionale a quello,
secondo cui si muovono gli altri agenti della natura. Delle quali due
cose la prima fu fatta nel capitolo precedente, la seconda noi togliamo
a fare ora.
soggettiva e l' extrasoggettiva .
Il soggetto si spande nel sentimento fondamentale corporeo come
padrone, come in cosa propria, a sè unita quasi una parte, una continuazione
di sè stesso; egli agisce in esso, e ne ha bisogno come d' una
condizione essenziale di sè stesso. Qui non compariscono confini lineari
o superficiali, è un sentimento solido, fuori del quale nulla si
sente di corporeo, nulla si può sentire; perciò non ha relazioni sensibili
con niun corpo straniero.
Ma la sensazione extrasoggettiva è di tutt' altra natura; ella accusa
una forza straniera a quella del sentito; la quale forza produce una violenza
(benchè talora piacevole) al sentimento fondamentale. La forza
straniera agisce nell' estensione stessa del sentimento, nel sentito fondamentale,
ed allora questa estensione si disegna e figura. Ora conviene
bene intendere la natura di questi confini superficiali, che acquista
così il nostro sentito fondamentale.
Prima di tutto, allorquando il nostro tatto è affetto da un corpo
straniero, si distingue che quel corpo è straniero, perchè si sente che
l' azione di lui non è quella del principio senziente, anzi questo è in essa;
si sente che l' agente straniero non è sentito in sè stesso, ma solamente
ne è sentito l' effetto e il termine della sua azione, perchè il sentimento
che se ne ha non è quello d' un solido, ma d' una superficie; si sente dunque
il termine della sua azione, ma non lui stesso, a differenza di quanto
accade nel sentito fondamentale, il quale non è un termine superficiale
extrasoggettivo , come ogni altro corpo, in quanto ha
anch' egli la virtù sensifera, onde è visibile, tattile, ecc., e nel modo
soggettivo , nel quale secondo modo è il sentito del sentimento fondamentale.
Ora il corpo nostro extrasoggettivo non entra nel sentimento fondamentale,
anzi non è che la virtù sensifera a lui straniera ed opposta.
Supponiamo adunque di non averlo percepito extrasoggettivamente,
ma solo soggettivamente; in tal caso egli non ha più moto. Infatti noi
abbiamo già dimostrato nell' Ideologia che il moto nostro non è sensibile
(1); ma se il nostro sentimento fondamentale non sente alcun moto,
dunque il moto non cade in lui, essendo egli essenzialmente sentimento,
e non cadendo nel sentimento ciò che non è sensibile.
Si dirà che quando noi stessi moviamo il corpo nostro, per esempio
camminando e saltando, allora noi sentiamo lo sforzo che facciamo per
muoverci. Verissimo; ma lo sforzo, che noi facciamo per muoverci, non
è già il moto, ma la causa del moto. Nel sentimento fondamentale adunque
non cade moto di traslazione da luogo a luogo, benchè vi si trovi
la forza e la causa del moto.
Quindi il moto di traslazione non è che un cangiamento che si fa
extra il soggetto, è un cangiamento nel corpo extra7soggettivo, una mutazione
nella forza sensifera; ma non punto nel sentimento fondamentale,
che si rimane immobile.
Ma pure quando il corpo extrasoggettivo si trasporta per
guisa che mediante l' esperienza extrasoggettiva si vede il nostro aver
mutato di luogo, di che ci accorgiamo per la diversa relazione che prende
coi corpi circostanti, allora il sentimento nostro fondamentale, e quindi
il corpo soggettivo, è ancora presente agli stessi fenomeni extrasoggettivi,
che dà il corpo nostro trasportato, sicchè il corpo nostro soggettivo
non ha cangiato di relazione col corpo nostro extrasoggettivo. Se dunque
il corpo nostro extrasoggettivo occupa un altro spazio, si suol dire che
per accidente , e che paragona
al moto del colore, che non si muove come colore, ma come aderente
ad un corpo che si muove. Ma questo, come abbiamo detto, è un
errore, perchè, ritornando noi al sentito fondamentale, è evidente che
il moto o dovrebbe essere sentito, e però cadere in esso sentimento, o non
essere moto del sentimento; perocchè il sentimento è racchiuso in sè
stesso per la sua propria essenza, e il mutarsi delle cose fuori di lui non
è un muoversi che faccia egli stesso. Onde convien dire che il movimento
locale è un fenomeno al tutto extrasoggettivo, cioè tale che si
rivela colla sola esperienza extrasoggettiva, e non un fenomeno soggettivo,
che si sperimenti come accidente del soggetto stesso o del suo sentito
fondamentale. Ora i fenomeni extrasoggettivi sono prodotti dalla
forza sensifera; onde si può ben dire bensì che col movimento del nostro
proprio corpo si cangi il rapporto fra il nostro sentimento fondamentale
e la forza sensifera sparsa nella natura, per esempio, nei corpi
esterni, ma non che si cangi o muova lo stesso sentimento.
Ma nel sentimento fondamentale si sentono, per l' azione
del sensifero, le superfici di esso sentimento fondamentale, e queste
pure si muovono. - A questa obbiezione rispondo: 1 che le superfici
si sentono quando la forza sensifera attualmente è applicata al nostro
corpo, e durante quest' azione non vi è movimento locale delle superfici;
2 quando poi la forza sensifera non agisce più sul nostro tatto,
e il corpo nostro si trasporta da un luogo all' altro, allora la mutazione
non istà in altro se non nell' essersi mutato il rapporto fra la forza sensifera
e il sentimento fondamentale, come dicevamo.
Ma lo stesso corpo nostro si vede quando viene trasportato.
- Rispondo che l' esperienza della vista è del tutto extrasoggettiva.
Ciò che si vede si è il corpo nostro in quanto cade sotto l' esperienza
extrasoggettiva, e nel corpo extrasoggettivamente considerato
accordammo già che si dà il moto; ma un tal corpo non è il sentito
fondamentale, bensì cosa tutta diversa da esso.
Ma nella superficie stessa del corpo nostro si sente il moto,
qualora una sensazione particolare trascorra da un punto all' altro di
essa superficie. - Rispondo che questa sensazione trascorrente è prodotta
dalla virtù sensifera, e però appartiene al corpo percepito come
un extrasoggettivo; e in quest' ordine di percezioni si dà il moto.
sentito e ben
anche quella di sensifero . Dunque sia pure accordato che al principio
senziente, come ad un semplice ed incorporeo, non competa il moto,
ma al termine esteso deve convenire il moto per due ragioni: 1 perchè
è esteso, ed un esteso può essere trasportato da un luogo all' altro;
2 perchè in quello stesso esteso vi è il sensifero, al quale voi pure accordate
il moto.
Rispondo che in quanto il termine del sentimento fondamentale
ha seco la virtù sensifera, in tanto egli non è termine del sentimento
fondamentale, ma è quella virtù che può immutarne il termine, ossia
costituirlo in altro modo da quello che è. Mi spiego. Il sentito fondamentale,
come meramente sentito, è nel principio senziente allo stesso
modo con cui abbiamo veduto che in lui è l' esteso, come contenuto nel
contenente, e fra il principio senziente e l' esteso vi è una perfetta unione,
di modo che formano un unico sentimento. All' incontro, la forza sensifera
non è in questo modo nel principio senziente, ma ella non fa che
operare nell' esteso, termine del sentimento e immutarlo. Onde il principio
senziente non è unito stabilmente colla forza sensifera, nè da lei riceve
direttamente l' azione, ma la riceve indirettamente, perchè gli si cangia
il sentito da una forza diversa dalla propria. Di più, quando la forza
sensifera agisce attualmente nell' esteso, termine del sentimento, allora
ella non presenta in sè movimento di luogo a luogo, ma solo azione
nello stesso sentito, termine del senziente.
Quanto poi alla seconda obbiezione che, essendo il sentito nel sentimento
fondamentale esteso, è atto a muoversi, rispondo che non ogni
esteso è atto al moto. Così lo spazio stesso infinito non è atto al moto,
come vedemmo, anzi è essenzialmente immobile. Acciocchè vi sia possibilità
di movimento è necessario che, oltre lo spazio occupato dall' esteso,
vi sia un altro spazio in cui egli si possa trasportare. Ma noi abbiamo
veduto che l' esteso proprio del sentito fondamentale è un esteso in cui
non cadono confini, e che solamente quando si percepiscono i confini
superficiali, per poterli percepire è necessario percepire un altro spazio
di là da essi. All' incontro il sentito fondamentale è di tal natura che di
là da esso, cioè dal suo sentito, non si percepisce alcun' altra estensione,
finisce tutta l' estensione in sè; perciò non è possibile che egli sia soggetto
ad un movimento suo proprio, perchè non ha altro spazio ove recarsi
che quello che egli occupa. Acciocchè dunque si concepisca una
mutazione di luogo, conviene uscire da lui ed entrare nel mondo extrasoggettivo.
Conosciuti da noi i fenomeni di questo mondo extrasoggettivo,
allora ci sembra che il sentito fondamentale si muova; ma questo
naturazione;
il sentito comincia ad essere in un' estensione maggiore, o cessa
di essere in una parte di essa. Questo non è moto locale, ma una specie
di creazione o cessazione di una nuova parte estesa7sentita.
Ma il sentimento fondamentale non è uniforme. Se una
parte dunque di esso si sente più di un' altra o in modo diverso, ella
potrà muoversi di luogo entro l' esteso sentito7fondamentale.
Rispondo che se questo si vuole chiamare movimento, egli è
il solo movimento che si può ammettere nel sentimento fondamentale.
Ma conviene spiegarlo, e spiegandolo ben si comprenderà
che vero movimento non è, quando si prescinda da ogni azione del sensifero,
che vi si possa mescolare. Infatti, noi abbiamo posto che se le
particelle corporee, a cui termina il sentimento fondamentale, si muovono
senza perdere la loro continuità, il sentimento acquista un eccitamento,
cioè una vivezza maggiore e varia. Ora dicendo movimento
delle particelle corporee, si dice primieramente un fenomeno extra7soggettivo.
Il fenomeno soggettivo corrispondente ad esso è la detta
maggior vivezza e varietà nel sentimento. La questione adunque sta
in sapere se questa mutazione nel fenomeno soggettivo si possa chiamare
moto. Ma: 1 il movimento di ciascuna particella sentita non è
sensibile, come abbiamo veduto, perchè il movimento del sentito non
cade nel sentito, e però è del tutto extra7soggettivo; 2 il movimento
di due o più particelle, che si muovono senza perdere la continuità,
altra mutazione, quanto all' estensione, non produce nel sentito, se
non che questo si aumenta da una parte e si diminuisce dall' altra; il
che non è movimento, come abbiamo pure veduto; 3 finalmente se
locale , non si creda per questo che
noi gli accordiamo la quiete . No, non si può assegnare la quiete a ciò
in cui non può cadere il moto, perchè quella è relativa a questo; ma
piuttosto è vero il dire che non v' è nè moto, nè quiete, come là dove
non vi è estensione, neppure può esservi il punto, che è il termine
della estensione.
Dalle quali cose tutte possiamo raccogliere:
Che lo spazio, non avendo atti secondi e transeunti, non richiede
di spiegare il modo del suo operare.
Che il corpo presenta due attività, il sentito e il sensifero .
Che il sentito non ha propriamente moto locale, e che la sua
azione dipende dall' essere dato al senziente e quasi posto in lui; e
principio sensitivo , come riceve l' esistenza dal principio
corporeo , che può anch' egli esser principio di moto, qualunque poi sia
la maniera occulta nella quale lo produca.
Ora, poichè la forza si considera nei corpi come atto immanente
e il moto come atto transeunte, gioverà che indichiamo il rapporto
di questa forza corporea col moto.
Abbiamo detto che nel sentito7esteso non è la cagione del movimento
extra7soggettivo; o se c' era, in quanto è divenuta sentito7esteso, ella ha
perduto la sua natura di forza, dominata dal principio senziente; conviene
dunque considerare la forza come distinta dal sentito, determinandola
dai suoi effetti.
Questi effetti sono:
Comunicazione del moto . - Nella percussione di un corpo nell' altro
il corpo percosso e libero si muove nella direzione del primo.
Questo effetto si riduce all' impenetrabilità e all' inerzia . Non potendo
un corpo penetrar l' altro, ed il moto dovendosi conservare per l' inerzia,
Conservazione del moto . - Per l' inerzia un corpo in moto
continua a muoversi nella stessa direzione. Questo effetto suppone che
la causa del moto perseveri; ma questa causa non può essere il corpo
stesso, perchè egli è indifferente alla quiete e al moto; deve essere adunque
una forza incorporea diversa dal corpo che opera nel corpo.
Attrazione . - Questa non è altro che un conato di muoversi
d' un corpo verso l' altro, un conato permanente. La permanenza
di questo conato indica una causa di moto diversa nell' operare dalla
causa della conservazione del moto. Perocchè il fatto della causa che
conserva il moto, è questo: due corpi di eguale massa, mossi con eguale
celerità l' uno incontro all' altro nella stessa linea, quando giungono a
percuotersi, si fermano distruggendosi i moti, sicchè resta la stessa quantità
di moto nella stessa direzione. Questi due corpi, ridotti così alla
quiete, si stanno al contatto, senza che rimanga in essi neppure il conato
di muoversi nelle direzioni che precedentemente avevano, sicchè non
gravitano l' uno incontro l' altro. All' incontro la causa dell' attrazione
produce in essi una pressione dell' uno nell' altro tendente a penetrarsi.
L' esperienza dunque dimostra che nella natura del moto concorrono
tre cause di moto:
Una causa che produce semplicemente il moto , cioè che fa
passare il corpo dalla quiete al moto e viceversa.
Una causa che presiede alla conservazione e alla comunicazione
del moto da un corpo all' altro.
Una causa che produce il conato costante di muoversi di un
corpo verso l' altro, fenomeni dell' attrazione.
La prima e la terza causa trovano, secondo noi, una spiegazione
sufficiente nell' attività motrice del principio senziente annesso
agli elementi della materia, e nelle leggi secondo le quali opera quell'
attività.
La seconda suppone un altro principio straniero ai corpi,
quel principio stesso che li costituisce e, costituendoli, impone loro le
leggi dell' inerzia.
Secondo queste leggi il moto in una direzione rimane annullato da
altrettanto moto in direzione opposta. Il conato, che hanno i corpi a penetrarsi,
in tal caso cessa col cessare del movimento, perchè nasce da
questo e non dalla forza causa di lui, la quale è cessata. Tutte le leggi
moto semplice ad ogni tempuscolo
si rinnova il moto; ma non s' aggiunge alcun nuovo conato a quello
che nasce dal moto stesso. Onde il moto riesce uniforme .
Nell' effetto dell' attrazione ad ogni tempuscolo si rinnova
il conato al moto, che produce nuovo moto, ed il corpo già si muove
per la conservazione del moto precedente, onde se ne ha un moto accelerato,
come il quadrato dei tempuscoli . A produrre adunque il moto
accelerato concorrono due principŒ: 1 il principio della produzione
del moto; 2 il principio della sua conservazione.
Ma poichè l' impenetrabilità distrugge il moto e il conato
veniente dal moto, ma non il conato costante che precede il moto, ed
è causa della sua produzione; quindi se due corpi eguali si muovono in
direzione opposta con eguale moto, senza attrazione, venuti al contatto,
cessa ogni loro moto e ogni conato che potesse venire dal moto, che è
sempre un conato istantaneo, durante cioè quel solo tempuscolo che è
necessario ad estinguersi il moto. Quando all' incontro due corpi si
avvicinano per via di attrazione, allora al loro contatto cessa bensì
tutto il loro moto (posto che sieno eguali di massa), quantunque cresciuto
per via secondo il quadrato dei tempuscoli; ma non cessa il conato
costante , col quale tendono di penetrarsi o almeno (il che mi pare
detto con più verità) di toccarsi in tutti i loro punti, di accentrarsi.
E` dunque evidente che vi sono due virtù che operano nei
corpi: 1 una causa costante di moto già prodotto; 2 una causa costante
di conato al moto da prodursi.
Noi dicemmo che la causa del moto è certamente distinta
dal corpo, perchè dall' essenza del corpo rimane escluso il moto.
Ma della causa del conato al moto si potrà dire il medesimo?
E` da confessarsi che la causa di questo conato, che si chiama anche
attrazione o forza viva , deve operare incessantemente nei corpi,
perchè tutti i corpi si attraggono (lasciando da parte i così detti imponderabili,
relazione di un corpo coll' altro. E`
dunque necessario che la causa dell' attrazione non sia un corpo, ma un
agente capace di abbracciare la relazione di più corpi fra loro. Questo
sembra una nuova conferma dell' opinione che tal virtù possa essere
un principio senziente, unito a tutti gli atomi corporei; perocchè questa
opinione toglierebbe affatto la difficoltà. Ed essendo provato dall' esperienza
che il principio senziente può essere causa di moto, l' ipotesi,
se ella è tale, ha le due condizioni volute da Newton, che ella sia cosa
esistente in natura, ed abbia la virtù sufficiente da produrre l' effetto.
Ad ogni modo rimane dimostrato che la materia per sè stessa è
inerte, ed ha bisogno di ricevere il moto senza tenere in sè facoltà di
produrlo.
All' incontro il principio senziente ha un' attività propria
ed è causa dei suoi atti. Ma poichè niuna causa degli atti transeunti è
causa piena, chè se fosse piena, ella produrrebbe atti immanenti quanto
lei stessa, perciò è da cercare come possa il principio senziente
porre gli atti suoi transeunti.
Noi abbiamo detto che l' attività del principio senziente si suscita
dai suoi termini, ma che, suscitata che sia, ella è propria di lui, diretta
nel suo operare da sue proprie leggi. L' attività dunque del principio
senziente ha due parti, e però da due cagioni possono sorgere in esso
degli atti transeunti:
Dalla mutazione del suo termine, il quale è il sentito corporeo;
mutazione che non viene da lui, ma da cagioni straniere. Dove è da
rammentarsi dell' opinione su accennata, che ogni particella di materia
abbia seco congiunto un sentimento; il che agevola ad intendere come
il termine d' un principio senziente si possa ingrandire coll' unirsi sentimento
a sentimento, posta la legge che dove il sentito è continuo, il
malo stato del principio stesso ed il combattimento ».
Quando dunque un movimento intestino ed eccitatore
incomincia nel termine del sentimento, se quel movimento è consentaneo
alla perfetta eccitazione, il principio senziente ha l' attività di
conservarlo e di continuarlo (1); ma questa attività, che perpetua
(quando non si trovino ostacoli) il movimento, non è cosa nuova, ma la
stessa attività che era prima del sentimento eccitato, che ha virtù di
conservarsi e durare qual è.
Ma non ogni movimento intestino nell' esteso sentito
è opportuno all' esplicazione dell' atto naturale del principio senziente
eccitato. Perchè quest' atto:
1) Esige un movimento armonico ed uno.
2) Esige un movimento che rientri in sè a guisa di circolo, altrimenti
non potrebbe perpetuarsi.
3) Esige un movimento il più frequente possibile, salve le due
prime condizioni.
4) Esige che si conservi il contatto ed altresì la gravitazione dell' una
verso l' altra delle molecole, ma in un determinato modo, sicchè
non impedisca le tre sopra esposte condizioni.
Ora l' atto primo del sentimento eccitato è una virtù, la
cui energia, benchè limitata, dovendosi collocare nel suo atteggiamento
più piacevole, più perfetto, più naturale, influisce a far sì che il movimento
eccitatore del sentito abbia le quattro condizioni accennate.
Ma a questo intento non può talora riuscire per un contrasto
di forze e virtù avversarie. A ragione d' esempio:
a ) Dall' istinto animale, gli atti del quale sono atti transeunti
del sentimento fondamentale7animale, il quale essendo percepito
per natura dall' uomo, sono percepiti del pari tutti i movimenti
istintivi. Quando dunque l' animalità dell' uomo si agita e muove per soddisfare
qualche suo bisogno, la percezione razionale accompagna tutti
questi movimenti e queste azioni. Allora l' uomo, essendo un principio
unico, il principio razionale, messo a parte dei bisogni della sua animalità,
si sforza con tutte le forze che ha, anche colle forze razionali,
di conseguire la soddisfazione desiderata (1). Ora questo lo obbliga
a fissare la sua attenzione ai mezzi ed ai fini; il che è un riflettere sulle
proprie percezioni. Tutta quest' opera dell' intendimento è sempre mossa
dal principio accennato, che « il sentimento soggettivo si atteggia nel
modo più comodo e più piacevole ». La riflessione è l' attenzione, il cui
atto ferisce tutti i termini a lei proporzionati; ma l' inquietudine, il
bisogno, ecc., sono termini nuovi a lei dati; ella trova così quasi nuove
porte onde uscire, a quella guisa che l' acqua contenuta in un recipiente,
tostochè si apre un foro, spiccia da quello non per alcuna virtù, ma per
la stessa gravitazione e pressione che esercitava nel recipiente, compressa
e ritenuta prima dalle pareti continue del recipiente medesimo.
b ) Dall' istinto razionale in un modo simile. Piglisi l' esempio
della curiosità. All' aspetto di un avvenimento insolito si susciterà
spontaneamente il desiderio di conoscere perchè quella causa, che
prima produceva un effetto, ora ne produce un altro, ingannando l' aspettazione.
La riflessione vi si porta sopra, e non è quieta se non trova
la soluzione del nodo, e ciò perchè « quando alla mente si affaccia un' apparente
contraddizione, allora il suo atto razionale non è compito e
quieto se non l' ha tolta via, perchè l' essere è il termine del pensiero,
c ) Da un decreto della volontà, che, propostosi un fine,
muove di necessità la riflessione a cercarne i mezzi, perchè altrimenti
l' atto della volontà rimarrebbe rannicchiato e mozzo contro il bisogno
della sua attività primitiva.
L' attività volontaria e pratica si può spiegare anche
in altri modi. - Ma il principio razionale passa sempre a questa specie
di atti transeunti, che diconsi volontari, per gli oggetti nuovi che gli
sono dati dalle altre potenze, i quali oggetti nuovi, essendo termini
nuovi, chiamano e provocano l' evoluzione di attività nuove, sempre
per lo stesso principio, che « l' atto primo e immanente dell' anima, qualora
riceve nuovi termini, non ha più uno stato soddisfacente, ma naturalmente
spiega la sua attività, prima rattenuta e solo in conato per
l' ostacolo ossia la mancanza di ragione a dispiegarsi ».
Finalmente vi è la libertà bilaterale, e gli atti transeunti
di questa sono, come vedemmo, i più difficili a spiegarsi. - Perocchè
nasce questa difficoltà: se l' atto primo e immanente dell' anima
si spiega naturalmente quando riceve nuovi termini, e l' esplicazione
dell' attività primitiva è questa stessa attività, che per legge di natura
si ammoda allo stato suo più comodo e più conveniente; dunque gli atti
transeunti sono necessari, sono determinati dalla natura dell' atto primo
e immanente, e dalla qualità dei termini che loro sono applicati. Ma in
tal caso non c' è più libertà bilaterale o d' indifferenza. - Quando si
considera questa potenza della libertà bilaterale, pare doversi dire che
ella si muova dal soggetto stesso, indipendentemente affatto dai termini
che gli sono dati; e in tal caso si ricade in quella difficoltà che cerchiamo
di rimuovere con sì lunghi discorsi, senza rimuovere la quale rimane
inesplicato l' atto transeunte, il quale o ha la causa piena nel suo soggetto
(atto immanente), ed allora deve coesistere col soggetto e non essere
più atto transeunte, ma immanente anch' esso; o non ha la causa piena
nel suo soggetto, ed allora dipende dai termini del soggetto stesso (perocchè
ogni eccitamento dato al soggetto da un agente straniero è un termine
anch' esso) e porta necessità; ovvero nasce dal soggetto senza che
si possa trovare la causa piena, ed allora si urta contro il principio di
causa. Questa difficoltà in apparenza gravissima è quella appunto, se
Antropologia (1) », troveranno la via aperta per dileguare ogni ombra
di sì terribile difficoltà; ecco in qual modo.
Conviene determinare prima di tutto con precisione quale sia il
termine ossia l' oggetto proprio della libertà. Questo termine noi abbiamo
trovato essere « la scelta fra due volizioni contrarie »(2).
Ora l' essenza della libertà non consiste nello scegliere ovvero
non scegliere; ma consiste nel modo di scegliere, cioè scegliendo, nello
scegliere piuttosto l' una che l' altra delle due volizioni.
Quando dunque si presentano all' animo due volizioni da scegliere,
se non si fa l' atto della scelta, non vi è l' atto della volontà; e se si fa,
vi è quest' atto.
Anche posto, dunque, che l' uomo sia determinato a fare la scelta,
o sia determinato a non farla, posto anche che a fare questo atto sia
mosso da una spontanea necessità; questa necessità, che lo muove a
fare l' atto della scelta, non lo spoglia della sua libertà, purchè facendo
questo atto, egli rimanga libero a scegliere piuttosto una volizione
che l' altra.
Quando adunque sono all' animo dell' uomo presenti le due volilizioni
fra cui deve scegliere, sia pure che egli si muova a questo atto
transeunte dal nuovo termine, che è dato alla sua attività immanente,
il quale termine sono le due volizioni contrarie eleggibili e il bisogno
di eleggere, e che egli si muova necessariamente a fare quest' atto (3);
non si muove per questo necessariamente a farlo piuttosto in un modo
principio razionale , nel quale propriamente consiste
l' essenza ultimata ed intera dell' anima stessa; perciò quando ci
riuscisse di esporre convenevolmente le leggi, secondo le quali opera e
patisce il principio razionale , noi avremmo sciolta la nostra promessa,
ottenuto il nostro intento.
corpo animato , e di un' anima razionale , non facendo
la divisione dell' uomo col mettere la materia bruta da una parte,
e l' anima sensitiva e razionale dall' altra. L' anima intellettiva è la forma
di un corpo sensitivo, non d' una materia nuda (1). Il che non distrugge
l' unità dell' anima, anzi la conferma, perocchè questa è anche principio
supremo del sentimento, in quanto lo percepisce come entità. Il che
nello stesso tempo spiega, come abbiamo già detto, perchè talora si
manifesti nell' uomo un' attività sensitiva ribelle al principio razionale
ed umano, giacchè la percezione fondamentale non distrugge l' attività
sensitiva, benchè sia nata a dominarla. Altrimenti non potrebbe esservi
contraddizione e lotta fra l' animalità e la ragione, senza che fossero
due anime.
Dedicheremo adunque il seguente quarto libro all' esposizione delle
leggi secondo cui opera l' uomo, cioè il principio, razionale , che ha
in sè anche il sentimento sotto la relazione essenziale di entità; ed il
quinto libro, che viene appresso, all' esposizione delle leggi secondo le
quali opera il principio animale per sè considerato, cioè sotto la relazione
essenziale di sensilità; il quale non è l' uomo, ma è nell' uomo.
Trattando poi del principio sensitivo, parleremo insieme, per quanto è
necessario, anche dell' attività da lui diversa, che in lui si manifesta ed
a lui talora contrasta, cioè della virtù sensifera.
modi costanti dell' operare della causa spesso occulta, e li appellano
leggi . Imperocchè quelle che essi chiamano leggi di natura non sono
che identità e costanza di effetti, che appariscono nella reciproca azione
e passione delle sostanze corporee componenti il mondo. I quali studiosi
da ciò che negli effetti scorgono sempre eguali, ragionevolmente inducono
il modo dell' operare; e quindi argomentando che la causa sia così
formata, o naturata, o disposta, che ella non possa altramente che in
quella guisa adoperare. La quale necessità di fare mai sempre allo stesso
modo giustamente appellano legge, perchè « legge indica necessità determinante
l' operazione », benchè quella necessità, a cui si dà tal nome,
ora sia fisica ed ora morale. E prima s' impose quella parola alla necessità
morale, di poi si trasportò alla fisica. Così noi dobbiamo fare nello
studio delle operazioni e degli effetti dipendenti dalle cause invisibili
e spirituali. La via dialettica del pensiero vuole essere la medesima: in
prima diligentissimamente osservare e raccogliere le operazioni del principio
razionale, di poi notarvi colla maggiore diligenza ciò che in esse
apparisce identico; in appresso indurre la costante maniera dell' operare
dalla causa; finalmente conchiudere che a questa immutabile costanza e
uniformità di operazione deve rispondere una necessità, che obblighi
la causa a conformare sempre in quella guisa le sue operazioni, la quale
necessità, che legge si chiama, non può avere altrove radice che nella
natura stessa della sostanza o causa operante; conciossiacchè la natura
e la sostanza sono gli atti immutabili e immanenti rispetto alle azioni
ed agli effetti loro passeggeri.
Ma ora, posciachè le leggi che noi dobbiamo raccogliere
saranno molte, affine di dare ordine al nostro lavoro ci converrà in
prima considerarne i fonti principali, i principali elementi onde risultano
mezzo del conoscere ed a spiegare, oltracciò, da quali cagioni
l' intelletto al tutto semplice potesse essere mosso a conoscere specialmente
il corporeo.
Questi erano i quesiti di suprema importanza, e neppure
Aristotele, nè alcuno antico potè rispondervi adeguatamente. Poichè,
restringendoci al quesito che riguarda il mezzo di conoscere, Aristotele
applicò allo spirito principŒ ontologici troppo angusti, non cavati dagli
scienza stessa in atto , anteriormente al quale vi è nell'
anima una cotal materia di tutte le cognizioni. E in tal guisa egli credeva
aver superata la difficoltà mossa alla dottrina di Anassagora, che
ammettendo un intelletto solo immateriale, non si potesse più spiegare
come questo conoscesse, e onde fosse mosso a conoscere le cose materiali.
Ma più osservazioni si hanno a fare sul ragionamento aristotelico:
Primieramente quel ragionamento pecca contro le regole del
buon metodo. Perocchè da principio suppone che nell' universa natura
tutto sia composto di forma e di materia, senza dimostrare una proposizione
così universale, ricorrendo all' esperienza e all' esperienza delle
sole cose materiali. Di poi conchiude che così deve essere anche nell' anima,
mentre avrebbe dovuto contentarsi di osservare se così è di fatto,
senza imporre canoni preliminari alla natura dell' anima e leggi a priori,
sempre arbitrarie e fallaci.
Di poi dicendo che l' intelletto possibile diviene tutte
le cose, cioè tutte le cognizioni, rende soggettive le cognizioni; le quali
tutte non sarebbero più altro che l' anima stessa variamente modificata,
e però sarebbero contingenti, ecc. come l' anima, meri sentimenti dell' anima,
senza virtù di attestare un oggetto distinto dall' anima.
Idem autem est scientia, quae
actu est, quod res ipsa », ne verrebbe che come tutte le notizie sono l' anima
modificata e attuata, così tutte le cose sarebbero l' anima, che è il panpsichismo
di molti filosofi tedeschi.
Se l' intelletto agente è causa, efficienza, principio
operante come opera l' arte o l' abito, in tal caso non è interamente in
atto. Il nostro filosofo veniva bensì ad assegnare col suo intelletto possibile
la causa materiale delle cognizioni, di cui Anassagora non aveva
parlato, ma la causa efficiente7piena di esse, nè la causa istrumentale
non la spiega a sufficienza col suo intelletto agente. L' abito ha bisogno
di un eccitamento per uscire all' atto, specialmente se deve essere determinato
a produrre dalla materia piuttosto una cosa che un' altra,
per esempio, dalla pietra piuttosto la statua di Apollo che quella di
Ercole. Così pure l' arte ha bisogno di strumenti per produrre la statua.
Aristotele incontra sulla via la bella similitudine del
lume, che avrebbe potuto raddrizzare i suoi pensieri, ma egli ne usa
troppo male. Poichè i colori in potenza, che egli introduce, non sono
colori, ed i colori in atto sono il lume stesso modificato e spezzato. Oltracciò,
altro è l' occhio che vede, altro il lume che fa vedere; all' incontro
l' intelletto, che è l' occhio, in Aristotele è confuso col lume che
fa vedere, l' oggetto col soggetto .
Questa grande distinzione, adunque, dell' oggetto e del soggetto
è quella che mancò alla filosofia aristotelica, e quella sola che poteva
compire ciò che aveva lasciato Anassagora da ricercarsi agli avvenire.
Noi abbiamo dimostrato quale sia il lume della mente;
abbiamo detto che questo lume è l' idea dell' essere , e questo il mezzo
del conoscere .
L' intelletto umano adunque, sebbene sia immisto, come lo voleva
Anassagora, tuttavia ha una dualità, e così è tolta la difficoltà che Aristotele
muoveva all' illustre filosofo di Clazomene, perchè gli è dato un
mezzo di conoscere. Nello stesso tempo è dimostrata erronea la maniera
con cui Aristotele credeva poterla vincere.
E perchè si vedano le differenze fra la via da noi tenuta
a superare quella difficoltà e l' aristotelica, si consideri:
Che Aristotele, componendo l' anima intellettiva di una materia
e di una forma a similitudine della natura materiale, la faceva
risultare da due elementi, ciascuno dei quali era parte sostanziale dell'
essere ideale parte sostanziale dell' anima,
ma solamente oggetto che le si dà a vedere, e così la pone in atto ed in
essere, senza confondere sè stesso con quella, lasciando solamente in
quella la cognizione; onde l' anima intellettiva si rimane per noi del
tutto immista, quantunque sia congiunta con altra cosa da sè diversa,
che la illumina.
Che Aristotele fa che l' anima risulti da una forma
simile a quelle dell' essere reale, che è una realità anch' essa, è l' atto
della realità; laddove noi diciamo che l' essere ideale informa bensì l' anima,
ma in tutt' altro modo, conservando il suo proprio essere al tutto
diverso da quello dell' anima, e solo dandosi all' anima a conoscere (1)
e le forme o cause informanti di questo genere le chiamiamo oggettive ;
colla loro presenza nello spirito, essendo essenzialmente lume, esse gli
danno quell' atto d' intuizione che si potrebbe anche chiamare in qualche
modo una forma soggettiva , nel quale aspetto le forme oggettive
sono cause delle forme soggettive .
Che Aristotele dà all' anima intellettiva qualche cosa,
che risponde alla materia dei corpi, onde dice che diviene tutte le cose.
Noi, nulla di ciò. L' anima rimane sempre principio semplicissimo. Ed
ella non si compone propriamente di forma e di materia, ma di atto e di
potenza; perocchè ella è atto prima di essere potenza; ed è potenza
non per sè, ma pel cangiamento dei termini suoi, come abbiamo spiegato.
Gli Aristotelici possono replicare: « Come in tal caso fate voi nascere
le cognizioni speciali? ».
Rispondiamo: l' anima razionale è quella che apprende l' ente;
l' ente poi è ideale e reale . E` dato all' anima l' ente ideale per natura,
e questa forma dell' ente è essenzialmente illimitata. Le è dato pure
per natura un ente reale , limitato nel sentimento fondamentale animale ,
il quale è percepito da lei razionalmente, perchè compreso già
al suo modo nell' ente ideale , che tutto comprende. Il rapporto fra l' ente
reale7limitato e l' ente ideale7illimitato costituisce i concetti , ossia le idee
speciali e le generiche. Ma nè l' ente ideale, nè l' ente reale dall' anima
percepito per natura, è l' anima stessa; ma è cosa a lei congiunta per
quella relazione sua propria, che chiamammo, per distinguerla da ogni
altra, di razionalità . In tal modo le difficoltà aristoteliche affatto svaniscono,
senza rompere perciò agli scogli, a cui ruppe il filosofo di Stagira.
Leggi Ontologiche , delle
Leggi Cosmologiche , e delle Leggi Psicologiche . Noi incominceremo dal
ragionare delle leggi, che la natura dell' oggetto impone al principio razionale
nel suo operare, cioè dalle Ontologiche, le quali non possono
mancare giammai, qualunque sia l' ente intorno a cui versi come ad oggetto
l' operare dell' anima.
Ora poi, operando il principio razionale in due maniere,
l' una speculativa che non produce effetto fuori della mente, l' altra pratica
che produce effetto fuori della mente; si vogliono da noi considerare
tanto le leggi ontologiche, che l' oggetto impone alla ragione speculativa,
quanto quelle che egli impone alla ragione pratica.
E prima è da considerare la suprema e generalissima, la
quale è il principio di cognizione .
Di vero tutte le altre leggi sono contenute e riassunte nel principio
di cognizione, il quale si formula così: « « Il termine del pensiero
è l' ente »(1) ». Il che viene a dire: « il pensiero è così fatto che ha per
non è altro non significa se non due
atti combinati nel pensiero stesso, coll' uno dei quali si pensa l' ente,
coll' altro si toglie via l' ente, e col torlo via si abolisce l' oggetto del pensiero.
nulla pensato non sia propriamente il nulla, ma
una relazione dell' ente, ciascuno si potrà persuadere considerando
i tanti ragionamenti che fanno i matematici intorno al nulla, e le diverse
specie di nulla che essi stabiliscono, come dichiarò assai sottilmente
Giuseppe Torelli nel suo bel libro De nihilo geometrico . Lo
stesso si può rilevare dalle maniere di parlare degli ascetici, le quali sono
tutt' altro che false, quando dicono, a ragion d' esempio, che l' uomo è
un nulla, che tutto è nulla fuor di Dio. Una persona spirituale soleva
fare questa orazione: « Mio Dio, io sono un nulla peccatore, deh fate
che io diventi un nulla innocente! ». Io trovo di mirabile verità ed esattezza
questa orazione, nella quale ben si vede che il nulla, di cui in essa
si parla, non è il puro nulla, il quale non è capace di colpa o di innocenza,
ma bensì una relazione dell' uomo, che è nulla da sè stesso senza
il Creatore, perchè senza il Creatore egli cessa di essere.
« L' intendimento umano benchè abbia sempre per
oggetto l' ente, tuttavia non è necessitato a pensare in egual modo tutte
le proprietà dell' ente, ma alcune è obbligato a pensarle attualmente, altre
poi virtualmente. Queste egli è obbligato a non negarle, lasciando
a sè stesso aperta la via di farne ricerca. Ciò che deve pensare attualmente
è l' essenza ideale ; le proprietà poi e le relazioni, che appartengono
all' ente come reale, e che sono virtualmente comprese nell' ideale,
benchè necessarie alla costituzione dell' ente stesso pensato, l' intendimento
umano non è obbligato per legge del suo pensiero a considerarle
attualmente, ma solo a non negarle, rimanendogli esse materia
a successiva investigazione ».
La qual legge importantissima rende possibili le diverse
maniere di intellezione proprie dell' uomo, e a ciascuna di esse assegna
sue leggi speciali. Vediamo a quali leggi ontologiche ciascuna maniera
d' intellezione ubbidisca. Le maniere principali delle intellezioni umane
sono:
1 l' intuizione; 2 la percezione; 3 la riflessione, la quale si esercita
per via di astrazione e per via d' integrazione, onde ella si divide in:
a ) riflessione astraente, b ) riflessione integrante.
intuizione avendo per oggetto l' ente ideale, vedesi che
questo atto del pensiero si stende all' ente, in quanto è nella sua forma
ideale, prescindendo al tutto dalle altre due forme, la realità e la moralità.
Ora qui si deve considerare un principio ontologico di non
lieve momento, ed è che « quantunque l' ente sia in tre modi, tuttavia
in ciascuno di essi è compiuto, perchè ciascuno abbraccia tutto l' ente
alla sua guisa ». Onde l' intuizione abbraccia tutto l' ente, e non può
dirsi che ad un atto, che si riferisce a tutto l' ente, manchi nulla di ciò
che esige il pensiero, conciossiacchè il pensiero non esige altro se non
di avere per suo oggetto l' ente.
Di più essendo l' ente sotto la forma ideale semplice ed impartibile,
sotto questa forma egli non può essere dato all' intendimento
che tutto o niente . All' incontro l' ente sotto la forma reale, essendo
partibile e moltiplicabile, può essergli dato parzialmente, nel qual caso
non può essere pensato solo, perchè mancante di una sua parte, non ente
compiuto (1). Ma posto che l' intendimento umano abbia già tutto
l' ente nella forma ideale, a lui non manca più l' oggetto compiuto ed intero,
che gli è necessario, posto il quale, possono essere pensate anche le
parti del reale; poichè queste non tolgono l' ente ideale, ma solo aggiungono
qualche altro termine al pensiero. Il pensiero adunque è possibile
tosto che è a lui dato tutto l' ente sotto la forma ideale, e perciò
noi dicemmo che l' essere ideale è quello che forma il pensiero, e
costituisce la potenza di pensare.
A spiegare dunque la percezione , che è quell' operazione
del principio razionale che apprende l' ente reale , uopo è che preceda
l' intuizione dell' essere ideale, lume e mezzo di conoscere ogni reale.
particolare e non più; non arrivano mai a sciogliere l' oggetto percepito
nei suoi elementi della possibilità e della realità , della idea , in cui
si vede l' essenza conoscibile del corpo, e dell' apprensione contemporanea,
colla quale se ne afferma la realità.
Chi vuol vedere quanto sia vero che la mente nostra non percepisce
un corpo senza recarsi col suo atto in entrambi quegli elementi,
domandi a sè stesso: so io quello che ho percepito? Risponderà: io
lo so; fu un corpo rotondo, di grandezza pari a una melagrana, giallo,
lucido, duro, una palla d' avorio. Tale è il concetto del corpo che ho percepito.
- Ma in questo concetto, badi egli bene, si acclude la sussistenza
del corpo? - No, perchè fino a tanto che io penso unicamente
questo concetto del corpo, quale viene espresso nella definizione che ne
ho data, io non so ancora per questo solo che egli sussista - Dunque,
io conchiudo, il sapere che quel corpo sussiste realmente è cosa diversa
dall' averne il concetto. Ma colla percezione si acquistano entrambe queste
due cognizioni, quella del concetto e quella della sussistenza reale
del corpo. Dunque ogni percezione è duplice, risultante da due atti
dello spirito, i quali si fanno ad un tempo, e sono l' intuizione del concetto
e la persuasione della sussistenza; nè si può andare persuasi che
una cosa esiste se non se ne ha il concetto, di maniera che nell' ordine
logico il concetto precede alla persuasione che sussista ciò che nel concetto
e pel concetto si conosce.
Un' altra maniera di convincersi della stessa verità si è il considerare
che di ogni cosa contingente che io percepisca, ne conosco subito
la possibilità; di maniera che interrogato: « la tal cosa è ella possibile? »
io tosto rispondo: « e come no? ella esiste, dunque è possibile ».
Ora come so io che ciò che esiste è possibile? dove tolgo io il
concetto della possibilità? Non lo derivo certo da altro che dal concetto
che ho della cosa; perocchè il concetto mi dà notizia dell' essenza conoscibile
della cosa, ma non mi dice che ella sussista; dunque, io concludo,
la cosa contemplata nel suo concetto potrebbe tanto sussistere, quanto
non sussistere; dunque per sapere se ella sussiste, mi bisogna qualche
altro indizio, e nella percezione questo indizio è il senso di essa. La possibilità
s' acchiude nel concetto puro della cosa, in quanto che quel
concetto non la dimostra necessariamente sussistente. Ora questo concetto
è l' essere ideale della cosa. Se nella percezione adunque io non
pensassi l' essere ideale della cosa, non ne conoscerei la possibilità.
L' origine dunque del pensiero della possibilità suppone che in ogni
essere ideale indeterminato ed universale . Dunque la percezione
non può spiegarsi, se non si suppone che l' anima intuisca prima
di tutto l' essere ideale per sè stesso.
Di che ancora si scorge come l' oggetto della percezione,
benchè sia un reale limitato, tuttavia è ancora l' ente, senza che niente
gli manchi di quanto gli è essenziale, come vuole il principio di cognizione.
Se il reale limitato si separasse dall' ideale, egli non avrebbe più
tutte le condizioni e qualità di ente, perchè da sè solo non può esistere,
non ha in sè la ragione della propria esistenza, anzi dividendolo dall' ideale,
lo si divide dalla propria essenza. Ma quando il reale è unito
all' ideale, allora egli ha ricevuto la sua essenza ed è ente completo; perciò
può essere percepito.
Rimane tuttavia a chiarire come la percezione sia così
limitata. Perchè non si percepisce addirittura tutta la realità? qual' è
la ragione, per la quale l' intendimento nella percezione apprende questa
parte della realità dell' ente, ed esclude ogni altra? - Rispondo che
la porzione del reale che si percepisce, non è presa ad arbitrio dall' intendimento,
ma gli è somministrata dal sentimento. I sentimenti individuali
sono divisi per modo che ciò che è nell' uno, non è nell' altro, e
sono fra di loro incomunicabili. Il principio razionale rimane dunque
nella percezione limitato dal sentimento; il che lo diamo come un fatto
innegabile, spettando alla Teosofia investigarne la ragione.
Ma se anche l' ente reale per sè stesso è illimitato, percependolo
limitato, mancherà sempre qualche qualità essenziale o necessaria
panideisti , i
quali pretendono che l' uomo nella sua prima intellezione debba percepire
tutto ciò che poscia trova colla riflessione; essi non distinguono
acconciamente fra l' essere ideale e l' essere reale, li confondono insieme,
e pretendono che anche Tutto il Reale cada nella prima naturale intellezione,
e quindi in ogni percezione, quando il vero si è che non ci
cade se non Tutto l' Ideale , al quale confrontandosi poi il reale limitato
e parziale, la riflessione trova ciò che gli manca (1). Esponiamo ora
dunque la legge della riflessione.
La riflessione è quella facoltà che ritorna sulla percezione
o sul suo oggetto, ed astrae od integra.
In quanto alla riflessione astraente conviene distinguere
tre accidenti:
1) Vi è un' astrazione simulata, che non è propriamente altro che
percezione imperfetta, e trova il suo fondamento nell' imperfezione
universalizzazione , e si fa talora naturalmente senz' atto positivo, cessando
l' atto dell' affermazione, e perdendosene la memoria (1).
3) Vi è finalmente un' astrazione che si esercita sull' idea della cosa,
e solo di conseguente sul reale in quanto corrisponde all' idea (forma
realizzata). Con essa si limita l' attenzione ad una parte dell' ente concepito
e percepito, senza però abolire nella mente le altre parti, a cui
soltanto non si dà attenzione.
Parliamo del primo accidente. - Gli Aristotelici avevano
osservato che le nozioni dei bambini e dei rozzi sono assai generali.
Osservarono pure che un oggetto, presentato in distanza all' organo
sensorio, occulta alcune sue differenze; per esempio, un uomo fermo
in lontananza non si distingue da una colonna, non apprendendo il
senso le parti minori, che differenziano l' uomo. Quindi conchiusero
che il senso presentava prima le qualità più comuni e poi le proprie;
e che l' intelletto seguace al senso, prima concepiva l' universale e
poscia il particolare. Questa era un' illusione sensistica; ma era almeno
un' illusione sottile ben più di tante altre che presero i moderni, un' illusione
che caratterizza l' indole dell' ingegno aristotelico. Parmi prezzo
dell' opera che io qui la esponga colle parole di un italiano filosofo,
professore dell' Università Padovana nel cinquecento, il Zimara. Agitando
la questione « qual sia il primo cognito », egli dice così:
[...OMISSIS...]
astratto , dal proprio.
Lungi che il bambino colla sua prima operazione divida e astragga, anzi
unisce e sintetizza, cioè unisce l' universalissimo, l' idea dell' essere, al
concreto che cade sotto i suoi sensi. Infatti le parole paternità, maternità,
umanità, che esprimono astratti, sono inintelligibili per molto
tempo al bambino. Nè le parole padre e madre significano per lui il
comune, l' astratto, ma primieramente gli individui reali da lui percepiti,
che udì connotare di tali nomi; ed è un errore il credere che queste
parole significhino al bambino quello che a noi. Ora, a percepire
tali individui egli dovette unirvi l' universale che ha in sè; onde l' oggetto
significato da tali parole, benchè particolare, è associato all' universale,
nel quale è veduto dalla mente. Quando poi ai sensi del bambino
pensiero di certe qualità più apparenti, che hanno
fermata la sua attenzione nei primi uomini e nelle prime donne da lui
conosciute; onde poniamo, per modo d' esempio, che nei primi uomini
la sua attenzione abbia fissata la barba, e nelle prime donne la cuffia;
quando egli vede un uomo lo chiama padre per voler dire « quell' ente
che ha la barba »; e quando vede una donna, la chiama madre, per
voler dire « quella donna che ha la cuffia »; e lo stesso vale, se si prende
a scopo fisso dell' attenzione bimbesca, in luogo di un segno così speciale,
la conformazione generale e totale del corpo dell' uomo e della donna.
Egli, in questo supposto, dice padre « quell' ente che ha quella configurazione
totale maschile, trascurate le minute differenze »; e dice madre
« quell' ente che ha quella configurazione totale femminile, trascurate
le minute differenze »; nè conosce ancora il vero significato di
padre o di madre. Qui non vi è astrazione se non apparente, ma vi è
sintesi, perchè: 1 vi è l' unione dell' ente ideale con quella configurazione
sensibile, o con quella marca sensibile più appariscente; 2 vi è
la determinazione di un individuo, di un ente mediante quella configurazione
o quella marca, che serve di segno a distinguerlo dagli altri. -
Ma, si dice, questa configurazione o marca sensibile è comune. - No,
si risponde, a principio pel bambino non è comune, è un sentito particolare,
che prende a segno e connotato dell' ente, e che perciò restringe
all' attenzione e determina l' universale, non lo forma. Ora colla
stessa marca si contrassegnano più individui successivamente con atti
particolari dello spirito; solamente in appresso, mediante la riflessione,
quando la mente indotta dal bisogno che ne ha, osserva anche le differenze
più speciali, allora discopre che quella marca , che da principio le
servì di mezzo a restringere e particolarizzare l' universale, e a nominare
gli individui, è ella stessa comune ed universale, considerata in
relazione con quelle differenze, delle quali, dopo averle percepite, si
serve a restringere e particolarizzare di nuovo quegli enti che hanno
tutti quella marca , venendo così cotal marca ravvisata per comune a
molti individui.
Onde è falsa, è apparente l' astrazione primitiva, che i sensisti attribuiscono
al senso, quasi che questo percepisca il comune, e la ragione
si pigli tosto bell' e fatto il comune dal senso.
Veniamo al secondo accidente dell' astrazione, che è l' universalizzazione.
universalizzazione , non fa che scomporre la percezione intellettiva,
ponendo da una parte l' essere ideale , dall' altra il sentito, ossia il reale .
Dove nasce questa difficoltà: « Il reale se si considera
nella sua pienezza, reale infinito, è al tutto indivisibile rispetto a sè
dall' ideale, perchè l' uno e l' altro non sono che un solo essere; se poi si
parla del reale finito e contingente, il reale diviso dall' ideale non è
ente compiuto, e quindi è inescogitabile. Come dunque l' astrazione può
dividerli? ».
Si risponde che il reale infinito, non essendo dato all' uomo, quando
l' uomo astrae l' ideale e lo separa dal reale infinito per via d' un giudizio,
crede di fare quello che non fa, crede di dividere quello che non divide,
giacchè in tal caso l' oggetto della sua riflessione astraente non
è il vero reale infinito, ma è un concetto negativo ed analogico, che
nella mente umana tien luogo del reale infinito. All' incontro un comprensore
celeste che apprende il reale infinito, non si proverebbe giammai
a separare con un giudizio astrattivo l' ideale dal reale, come un
uomo non tenterebbe mai colla sua mente di fare un assurdo, se lo conoscesse
per assurdo.
Con che rimane confutata la dottrina dei pseudomistici, i quali
pretendono che l' oggetto dell' intuito naturale dell' uomo sia Dio stesso,
che contiene la realità infinita, ma poscia per via di astrazione da quel
reale infinito l' uomo tragga l' essere ideale; sistema che, oltre a contraddire
al senso comune, involge molti altri assurdi e conseguenze
sovvertitrici del Cristianesimo. Tuttavia per non uscire qui dalla confutazione
diretta, che accennavamo della predetta setta dei pseudomistici,
è da considerare primieramente il fatto che l' uomo, sia per
via d' astrazione, sia in altro modo, intuisce effettivamente l' ideale senza
il reale (fatto neppur negato dagli avversari). Ora se l' uomo vedesse
per natura il reale assoluto ed infinito, cioè Iddio, dovrebbe vedere insieme
due cose: 1 che l' ideale è nel seno del reale; 2 che il considerarlo
per via di un giudizio come separato dal reale è assurdo. Ma è
manifesto che l' uomo, com' è al presente, non vede quest' assurdo, e
però pensa all' ideale senza pensare al reale, senza trovare in ciò alcuno
inconveniente; il che dimostra che egli non apprende per natura il
reale assoluto, come vogliono quei pseudomistici. Vero è che l' ideale è
per sè concepibile, perchè racchiude tutto l' essere, benchè sotto una
sola forma; ma altra è la ragione per la quale s' intuisce l' ideale, altra
è la ragione per la quale lo si pensa e giudica solo e staccato dal reale,
senza trovarci assurdo; la ragione perchè si concepisce l' ideale è che
esso ha tutto ciò che si esige per essere concepibile; la ragione perchè si
può pensare e giudicare solo, senza accorgersi dell' assurdo che vi è
universalizzazione che si
esercita sull' oggetto finito della percezione, è da avvertirsi che, dividendosi
quest' oggetto nei suoi due elementi: 1 l' ideale, 2 il reale finito;
solo il primo di esso rimane concepibile perchè ente, ma il secondo
rimane inconcepito, rimane un mero sentito; con tale divisione
è disfatto l' oggetto reale, non rimane più che il reale senza la condizione
di oggetto; ed è un' illusione il credere che il reale si concepisca
a parte, perocchè se ci sforziamo di concepirlo a parte, pure col concepirlo
l' abbiamo mescolato e legato coll' idea, che lo completa come
ente; e quindi è falso che lo concepiamo a parte.
Ma come ne parliamo adunque? come parliamo di lui
unito e separato? - Noi parliamo di lui unito all' idea e lo vediamo altresì
separabile, cioè annullantesi quale oggetto di cognizione, perchè
intendiamo che egli non è l' idea; e questa cognizione negativa basta
a poterne parlare, senza che ci sia necessario perciò di concepirlo come
un oggetto della conoscenza attualmente separato. Possiamo anche intendere
che separato egli non è ente compiuto, e questa è ancora una
cognizione negativa, che non ha bisogno per aversi di percezione o
di concezione positiva. Le quali cognizioni negative noi le prendiamo
contemplando il reale nell' idea e all' idea paragonandolo, perocchè la
separabilità di ciò che pensiamo unito è pensabile, come è pensabile
l' annullamento di un oggetto pensato.
Terzo accidente dell' astrazione - Astrazione propriamente
detta.
Finalmente il terzo accidente della riflessione astraente, che merita
il proprio nome di astrazione, è quando noi, riflettendo sopra
qualche concetto, separiamo in esso più elementi o relazioni; per esempio,
quando noi dal concetto di un ente finito astraiamo la sostanza
dall' accidente, o l' accidente dalla sostanza, ecc.. I prodotti di questa
astrazione, l' accidente, poniamo, o la sostanza, presi in separato l' uno
dall' altro, non sono enti, e però non possono essere oggetti del pensiero,
ma parti di enti, ossia enti imperfetti (entità). Come dunque si
pensano? Non col pensiero complesso, ma col pensiero parziale, con
quella maniera di astrazione che si esercita sull' idea, tali parti od elementi
non si dividono intieramente dal concetto, ma nel concetto stesso
si contemplano, restringendo a ciascuno di essi una speciale attenzione
dello spirito. Ma nello spirito il concetto intero, su cui si riflette, rimane;
e la sua unità e semplicità è quella che rende possibile il considerare
sensisti , come pure quello dei pseudomistici
loro confratelli; i primi dei quali si danno a credere che
l' idea dell' essere si possa cavare per astrazione dai sentiti reali; i secondi
poi, con maggiore assurdo, pretendono che si cavi dall' essere reale assoluto,
intuìto per natura dallo spirito umano. I quali ultimi non considerano
che l' astrazione, di cui parliamo, non si esercita che sull' idea
sola, e però l' idea deve aversi prima nell' ordine logico; nè considerano
che l' idea dell' essere è quella che dirige l' astrazione nelle sue
operazioni, senza la qual direzione ella s' andrebbe a caso contro il
fatto. Che se ricorressero alla seconda maniera di astrarre, noi l' abbiamo
esclusa di sopra.
attualmente le loro relazioni
essenziali o necessarie coll' essere reale compiuto; ma senza negarle le
lascia da parte come un' appendice da svolgersi poscia.
E questo svolgimento è appunto l' opera, che fa la riflessione sopravveniente.
Ella ritorna sul reale percepito e lo raffronta coll' essere
ideale, che è il tipo di ogni realità; quindi discopre ciò che manca al
reale conosciuto per via di percezione; per esempio, ella rileva che è
contingente e che ha una relazione col necessario, trova che è limitato
e che non potrebbe essere se non vi fosse un illimitato, ecc., e così via
dicendo (1).
Come dunque la riflessione astraente confronta le idee
degli enti fra loro per fissare il più comune, applicando i risultati di
questo confronto agli enti stessi, così la riflessione integrante confronta
le idee degli enti coll' idea dell' essere in universale, e trova le relazioni
ontologiche, cioè le relazioni che gli enti finiti tengono colla essenza
dell' essere stesso.
Nel sistema dei pseudomistici questa operazione integrante
della riflessione è abolita; perocchè essi pretendono che la riflessione
non iscopra mai niente di nuovo, essendo data all' uomo la
pienezza dell' essere reale nel suo naturale intuito, onde per essi non
può restare altra riflessione che l' astraente. Ma questo si oppone al
senso comune ed alla coscienza di ciascheduno, perocchè ciascuno ben
sa che colla riflessione si discoprono nuove verità, e così crescono le
scienze; al che fare non è uopo, come quei filosofi falsamente pretendono,
che quelle verità siano già nell' oggetto dell' intuito, ma basta che l' oggetto
dell' intuito sia l' essere ideale, il quale, contenendo tutto l' essere
a suo modo, è regola universale a giudicare del reale, conoscerne l' ordine
e le relazioni, e trovare ciò che gli manca al compimento; perocchè
possibile , non
ha una necessità al mondo di pensare insieme alla sua realità; 2 l' altra
che senza che la mente apprendesse il reale assoluto, la riflessione non
potrebbe trovare le verità scientifiche intorno agli esseri determinati
e reali; il che pure è falso, perchè, come provammo, nell' essere ideale
ella ha già la regola suprema per tutti i giudizi circa i reali sentiti, essendo
anche i reali virtualmente (e però nel modo ideale) compresi
nell' ideale. Ignorano altresì costoro che il reale è nel sentimento, e
l' uomo non lo percepisce se non riportandolo all' idea; ed aggiungono
a loro pro certi ragionamenti teologici, che ben dimostrano in teologia
non veder essi più addentro che in filosofia (1).
Esposta così la legge universale e suprema dell' umano
pensiero, la quale dice: « l' ente è il termine essenziale del pensiero »,
ed applicata alle diverse maniere d' intellezioni, è uopo che ne deriviamo
le leggi speciali. Il che facilmente ci verrà fatto considerando
quali siano le speciali doti dell' ente, ciascuna delle quali imprime un
carattere proprio alla cognizione umana per forma, che contribuisce
non poco a farcene intendere l' intima natura, per quanto al bisogno
nostro è richiesto.
Ora le precipue qualità dell' ente (e ad esse noi ci restringiamo)
sono che: 1 è oggetto, 2 è possibile; 3 è atto primo; 4
oggetto; il vero però si è che tutte hanno un termine , e il solo intendimento
ha un oggetto.
Ma l' uomo intende tutto e non parla se non di quello che intende;
quindi egli cangia i termini delle potenze in altrettanti oggetti, pur
solo col pensarli, col percepirli; i termini adunque delle potenze non
intellettive si chiamano oggetti posteriormente, in quanto sono in relazione
col pensiero. Vediamo che voglia dire essere oggetto .
Il termine d' una potenza è oggetto, quando esso è così
in sè stesso che non riceve nessuna modificazione, nè passiva nè attiva,
dalla potenza a cui è termine; e l' atto della potenza lo contiene, e per
questo solo ella se ne arricchisce e ne cava suo pro, senza punto, come
si diceva, modificarlo (1).
Di più, la potenza per avere un oggetto deve essere tale che ella
possegga quel suo termine per ciò che è in sè stesso, e non per ciò che
opera in lei.
azione di lui, ma apprenda
lui stesso e se ne giovi; 3 la potenza che lo apprende, non apprende
con lui sè stessa, ma lui solo; onde egli resta sempre separato dalla potenza
in virtù dell' atto stesso dell' unione e dell' apprensione, il quale
atto lo oppone anzi alla potenza, di che gli viene il nome di obiectum .
Queste tre condizioni sublimissime non si riscontrano
in nessuno dei termini delle altre potenze, ma solo in quello dell' intendimento,
che è l' ente. Poichè i termini di tutte le altre potenze: 1
sono passivi da esse e ricevono modificazioni; 2 sono anche attivi e
producono modificazioni nella potenza; onde ciò che riceve la potenza
non è che l' azione di un ente, non l' ente stesso; 3 talora sono le modificazioni
di essa potenza; per esempio, le sensazioni, termini del sentire,
non sono altro che le modificazioni del sentimento fondamentale;
4 si uniscono colla potenza in modo da confondersi con essa, di cui
diventano o una cotal continuazione, o un' attualità, ecc.; e però non
rimangono separati da essa nell' atto dell' unione, nè ad essa contrapposti,
ma la potenza, apprendendo il suo termine, apprende in pari
tempo sè stessa modificata, e quindi non lascia sè stessa per applicarsi
tutta a cosa diversa da sè.
Ora se ben si considera, si vedrà che l' oggettività è condizione
così essenziale dell' ente che, in quanto non è oggetto, non è
ente, tutt' al più sarà un rudimento dell' ente concepito per astrazione,
non possibile ad esistere tutto solo. E veramente si attenda bene che
cosa contenga il concetto di ente . Il concetto di ente non contiene alcuna
relazione di un ente con un altro, anzi la esclude come un soprappiù;
dice la cosa in sè , non la cosa agente in un' altra . Ma
la cosa è in sè , solo a condizione che sia in una mente; perocchè
se si parla di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo
non ha questa condizione di essere in sè qualche cosa, perchè non ha
alcuna suità. Lo stesso è a dirsi di un essere meramente sensitivo, a
cui manca il sè . L' essere dunque in sè non è altro che l' essere concepito
assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto. E quando
a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benchè non
sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale.
Noi supponiamo che non sieno concepite nell' atto stesso che le concepiamo
e ne ragioniamo; onde parliamo senz' accorgerci di cose concepite
in sè, le quali certamente esistono in sè, senza bisogno di altri atti
essenziale
dell' ente.
Di che nasce la conseguenza che il dire che l' oggettività
è una relazione essenziale dell' ente riesce al medesimo che il dire che
l' ente è per sua essenza conoscibile, ossia che anche l' intelligibilità è
proprietà necessaria dell' ente; di maniera che quegli enti, che non si conoscono
per sè stessi ed hanno bisogno per essere conosciuti di un mezzo
di conoscere, neppure sono pienamente enti; ma hanno bisogno per
essere tali di venire completati e ultimati dall' unione dell' ente per essenza,
dell' ente per sè intelligibile, unione che, quasi in talamo, si fa
nella mente. Infatti l' oggettività non si trova che negli enti, in quanto
sono presenti alla mente; dunque l' oggettività e l' intelligibilità riescono
ad un medesimo concetto, dicono lo stesso sotto due rispetti; sicchè
quando si dice oggetto, dicesi ente in sè stesso inteso; quando si
dice intelligibilità dicesi la proprietà che ha l' ente di essere inteso,
divisa per astrazione.
Aristotele in più luoghi viene a dire che l' ente per sè
considerato è la prima cosa intesa, senza la quale non può intendersi
le altre; dei quali luoghi noi accenneremo solo il quarto libro dei Metafisici.
Qui egli insegna che [...OMISSIS...] .
Di qui un sottile dissidio fra gli Aristotelici, i quali, convenendo
tutti che l' ente era il primo intelligibile, attaccarono poi gran
briga per sapere se questa intelligibilità convenisse all' ente come ente, ovvero
all' ente in quanto è in atto, che a loro pareva un genere speciale
enti imperfetti (.), che
sta in gran parte nella legge ontologica del sintesismo , per la quale gli
enti finiti si appoggiano l' uno all' altro e si sorreggono, cosicchè divisi
ente imperfetto , il quale è come in via ad essere
ente, completandosi e rendendosi possibile realmente, quando gli
si aggiunge l' altro ente a cui si appoggia. Così la materia è ente, considerata
come termine del principio senziente; separata da questo, è un
rudimento di ente, il quale nella realità è nulla, perchè impossibile
ad esistere così; e nella mente pure è ente imperfetto , attesochè, sebbene
la mente le dia un compimento senza il quale non potrebbe essere
pensata, sopravviene l' astrazione che le spoglia quella veste non sua per
considerare la materia nuda, senza però che resti nuda anche nel pensiero
complesso. Onde quando si dice ente , si dice già atto , e non si
dà ente che sia mera potenza; la quale, come abbiamo veduto innanzi,
è piuttosto un che negativo, e perciò un non ente anzichè un ente.
Quindi dalla legge dell' oggettività emana la legge del
sintesismo; perocchè se l' oggetto si unisce al soggetto in
modo che, lungi dal confondersi con esso lui, per l' atto stesso dell' unirsi
a lui si divide e si pone per quello che è in sè, suscitando nel soggetto
medesimo un atto, che non determina nel soggetto, ma nell' oggetto,
procede quindi che il soggetto e l' oggetto sieno uniti in modo così correlativo
che la loro unione riesca essenziale ad entrambi (1), li costituisca
entrambi, e tuttavia in modo così distinto che l' uno è non solo separato
dall' altro, ma all' altro opposto.
Ignorata questa legge dagli antichi (2), essi rovinarono
in speculazioni inestricabili ed in gravissimi errori. Dall' ignorazione
di essa ricevette rincalzo l' «hen to on kai pan» di Parmenide, come si
essenza che esiste per sé , «kath' hauten
usian», non può essere in noi, «en hemin». Ottenuta questa concessione, egli
conchiude che esse specie ci sono ignote, perocchè noi non ne siamo
partecipi: «uk ara hupo ghe hemon ghignosketai ton eidon uden epeide autes
epistemes u metechomen». Ora se Socrate avesse conosciuta la legge del
sintesismo, non avrebbe mai accordato a Parmenide che le specie
per essere qualche cosa in sè, non potevano essere in noi. Anzi
avrebbe dovuto stabilire che la specie intellettiva, da non confondersi
coll' immagine, è l' essere stesso sotto la forma ideale, il quale
è così in sè che non può non essere in sè, nè da noi riceve nulla; e
tuttavia può essere da noi intuìto appunto in sè, come è e non altrimenti,
e però noi ne siamo partecipi, e in questo senso è in noi. L' argomento
prova che la specie deve essere a noi unita, se dobbiamo intuirla
e di essa far uso a conoscere altre cose; ma non prova l' impossibilità
che sia da noi intuita, rimanendo un essere di altra natura e condizione
della nostra. Il che certo ne verrebbe, qualora fosse provato che
ciò che è in noi debba essere una parte o modificazione di noi stessi;
ma questo è anzi gratuito e falso. Vedesi dunque che l' errore di Parmenide
venne da quello stesso principio arbitrario, onde i moderni cavano
il loro soggettivismo; ma il grande pensatore di Elea andava
colla sua logica mente assai più in là, traendo per conseguenza che tutte
le cose dovevano essere un solo ente. E che questa argomentazione, che
Platone mette in bocca di Parmenide, sia veramente di questo nostro
pensatore, scorgesi dai versi che di lui si sono conservati, nei quali appunto,
per dare una spiegazione acconcia della cognizione, dice che il
conoscere e l' essere sono la medesima cosa: [...OMISSIS...] ,
e ancora, secondo la traduzione del Karsten:
essere intuìto dalla mente (3) nella
sua propria essenza, la quale è eterna; ma questa essenza ora comprende
la realizzazione dell' essere, e allora è l' essere infinito, Iddio che non si
vede; ora poi non comprende la sua realizzazione, e allora è l' essere
ideale , al quale si rapporta la realizzazione che col sentimento apprendiamo.
Onde la cosa reale conosciuta altro non è che l' essere ideale realizzato,
sicchè l' oggetto del conoscere in tal caso risulta dai due elementi
Possibile in senso logico significa privo di contraddizione.
Ora l' ente non ammette contraddizione alcuna. Da questa proprietà
dell' ente di essere essenzialmente concorde e consentaneo seco
stesso, procede il principio di contraddizione che « l' essere e il non
essere insieme non è essere ».
Ora se « l' essere e il non essere insieme non è essere », dunque
non si può pensare, perchè l' oggetto del pensiero è l' essere. In questo
senso la possibilità logica costituisce la pensabilità delle cose.
Ma volendo conoscere se un ente, o reale o ideale, può
avere contraddizione nel suo seno, dove riguardiamo noi? Nella sua
essenza. Ora l' essenza dell' ente si vede nell' idea. Se dunque la possibilità
dell' ente è ciò che lo rende pensabile, e se la possibilità, ossia immunità
da contraddizione, trovasi nell' idea, viene confermato quel vero, che
abbiamo di sopra stabilito, con un nuovo ed invitto argomento, cioè che
niente si pensa senza l' idea; il che non vuol dire che ogni pensiero umano
si faccia colla sola idea, come alcuni disattenti ci hanno attribuito. Nella
percezione razionale adunque, nella quale pensiamo un reale, non è
la sola realità che forma l' oggetto del nostro pensiero, ma l' idealità
altresì; dunque ogni percezione ha un elemento ideale ed uno reale.
Il sensismo adunque che si ferma al reale, nè altro riconosce che questo
per oggetto del pensiero, è un sistema erroneo, mancante di filosofica
oggetto della mente. Mostrano adunque
di essere assai poco innanzi nelle filosofiche investigazioni coloro che,
riputando l' ideale per un nulla, pretendono che la mente umana non
avrebbe un vero oggetto, se non avesse per suo termine un reale! Anzi
è appunto vero il contrario; la sola essenza dell' ente, che è l' essere
ideale, è oggetto; non vi è oggetto fuori di essa o senza di essa; il
reale deve essere oggettivato , cioè completato nell' idea, nell' essenza, acciocchè
si possa pensare.
Essere oggetto, essere pensabile, essere intelligibile per
sè stesso, sono pressochè sinonimi; dunque l' intelligibile per sè stesso
è il solo essere ideale , e l' essere reale è intelligibile per partecipazione .
A questo principio vi è una sola eccezione, benchè neppure essa sia
propriamente eccezione; Iddio anche nella sua realità è intelligibile
per sè stesso. Ora questo accade, perchè nella sua stessa essenza ideale
si comprende la sussistenza; onde non si può avverare il caso che la sussistenza,
ossia realità, sia scompagnata in Dio dall' idealità. E` dunque
un gravissimo e perniciosissimo errore il dire che Dio è un' idea, o anche
che è l' idea , vocabolo che nella lingua degli uomini non significa
realità, quando Iddio è anzi Realissimo . E perchè gli uomini usano così
la parola idea? perchè inventarono questa parola ideale in opposizione
di reale? Perchè non avendo essi per natura la visione dell' essere realissimo,
non hanno esperienza alcuna del nesso necessario fra l' essere
ideale e l' essere reale compiuto; e però non possono che argomentare
un tal nesso per via di raziocinio. L' invenzione adunque della parola
idea, e il suo uso costante, abbatte l' errore di quelli che accordano all'
uomo l' intùito di Dio stesso nella presente vita.
Ma onde poi la parola possibile? Abbiamo detto che in
senso logico equivale a ciò che non involge contraddizione. Ma neppure
Iddio involge contraddizione. Si dirà dunque che Iddio è possibile?
L' esservi una cotal ripugnanza a dire che Iddio è possibile dimostra
che nella parola possibile, oltre l' assenza della contraddizione, si
associa un altro concetto. Tanto Iddio, quanto la creatura, non involge
possibile; la possibilità
logica è dunque la ragione della possibilità metafisica .
Quindi avviene ancora che tutto si possa oggettivare,
ossia idealizzare; perchè tutto ciò che non è necessario e che non involge
contraddizione si concepisce come possibile.
Non vi è dunque cosa che in questo senso non abbia un' idea a sè
opposta. L' individuo si può considerare come possibile; la sussistenza
del pari; questo è quanto dire considerarla in rapporto colla sua idea,
coll' essenza di cui è una realizzazione.
Considerare come possibile è universalizzare. Non si
universalizzano però le cose tutte allo stesso modo. Perocchè, come
abbiamo veduto che la parola possibile si prende in due significati, nel
significato meramente logico , l' essenza di una cosa che non involge contraddizione,
e nel significato metafisico , la suscettività che ha quell' essenza
ad essere realizzata; così è da dirsi dell' universalizzare.
Nella semplice essenza talora non vi è universalità, come accade
in quelle cose che per loro essenza sono uniche: l' essenza dell' individuo,
dell' uno, dell' io, del sussistente, ecc., racchiude la particolarità
e l' unicità; e però l' individuo, l' uno, l' io, il sussistente non possono
essere che unici. Ma se si considera la possibilità che sussistano molti
io, molti uni, molti individui, molti sussistenti, ecc., tutte queste cose
vengono universalizzate per via della possibilità , ma non della possibilità
logica, sì della possibilità metafisica.
Si opporrà: « Non corrispondono tutte queste cose moltiplicate
ad una sola essenza, all' essenza dell' io, dell' individuo, ecc.? E se corrispondono
ad una sola essenza, non è per l' essenza che vengono universalizzate? ».
Noi neghiamo che ciascuna di queste cose rispondano ad una sola
essenza. Di fatti l' essenza d' un io, d' un individuo, ecc., non è l' essenza
d' un altro io, d' un altro individuo, ecc.; ma l' essenza d' un io
non ha nulla che appartenga all' essenza d' un altro io, consistendo
appunto in questo l' indole del sussistente di non aver nulla di
comune con un altro sussistente. Ciò che fa parere il contrario si è che si
confonde la natura , di cui il sussistente partecipa, collo stesso sussistente .
La natura è comune , ma la stessa sussistenza è singolare .
suità , dunque hanno qualche cosa di comune. - E bene,
replichiamo anche noi, che la suità è un' essenza comune, ma non è
l' essenza di nessun io, ecc..
- In tal caso l' io non ha essenza.
- Appunto l' io come io non ha essenza ideale, perchè egli è un
reale, un sussistente. Quindi l' universalizzazione, che interviene quando
si concepiscono molti io, dipende dall' astrazione, che costituisce un' essenza
generica , mancando la specifica . Quando adunque si ha una universalizzazione
fondata nella possibilità metafisica , la quale dipende
dall' esistenza di una volontà, causa efficiente, e non da un' idea, causa
esemplare; allora l' universalizzazione si riferisce ad un' essenza generica ,
che non rappresenta compiutamente l' ente di cui si tratta, ma solo una
parte di lui, venendo l' altra parte prodotta immediatamente dall' efficacia
della volontà. Così l' idea generica dell' io è l' idea della natura
umana, in quanto la causa efficiente può farla sussistere in più individui,
senza che rappresenti l' individuo stesso, che ella fa realmente sussistere.
E qui nasce la questione: « Come si possa conoscere
se una data essenza possa essere realizzata in più individui, ovvero in
uno solo ». A cui si risponde che questo quesito non si può risolvere,
se non considerando l' essenza stessa di cui si tratta. Perocchè è l' essenza
della cosa quella che o esclude, o ammette la molteplicità maggiore
o minore degli individui.
Così l' essenza di Dio, come pure l' essenza della materia, esclude
la molteplicità degli individui: l' essenza di Dio, perchè è l' essere stesso,
e l' essere è uno e semplicissimo; l' essenza della materia, perchè essendo
il termine esteso del sentimento, ella non ha altra essenza ideale che generica,
che la esprime tutta e non in parte; onde rimane escluso da essa
l' individuo. Così quando si dice acqua , si esprime tutta la natura
dell' acqua; la qual natura perciò è semplice, come la stessa essenza
reale, alla quale il suo concetto viene ristretto.
Allo stesso modo vi potrebbero essere delle essenze che
determinassero un certo numero d' individui; benchè tutti gli enti a noi
conosciuti per essenza specifica non ammettano limiti nel numero metafisicamente
possibile dei loro individui, non si può tuttavia dimostrare
assurdo che qualche essenza a noi sconosciuta ne ammettesse,
come ne ammette l' essenza di un ordine qualsiasi risultante da più cose
finite.
essere
ideale , che informa la ragione nostra, essere Dio, cadrebbe in gravissimo
errore, conducente al razionalismo, al pseudomisticismo e a molte
altre assurdità mostruose.
idea si manifesta, e non potendosi pensare cosa alcuna
scompagnata dalla sua essenza; quindi una nuova dimostrazione
della verità spesso da noi annunciata e ancora sì poco intesa, che l' ente
reale contingente non si può percepire dall' intendimento se non mediante
l' idea e nell' idea; la quale idea non può essere data dalla sensazione,
perchè la sensazione è appunto quella entità reale che si tratta
di percepire e di conoscere.
Dopo di ciò, colla sola idea non si percepisce il reale, perchè l' idea
contenendo la pura essenza dell' ente, e questa rimanendo così separata
dalla realità o sussistenza, nulla è ancora inteso di questa finchè altro
non s' intuisce che l' essenza nell' idea. Ora la sussistenza si apprende,
nel modo detto, col sentimento, l' apprensione razionale e l' affermazione.
Ma come anche qui ha luogo il principio che nulla si può
conoscere, se non si conosce l' atto primo della cosa conosciuta? Nella
realità propriamente non è l' atto primo , perchè, come vedemmo, questo
atto appartiene all' essenza. Quindi accade che lo spirito nella percezione
e nell' universalizzazione assuma come atto primo quello che contrassegna
con un vocabolo, e a cui si ferma l' attenzione; e consideri
come atti secondi quelli che accadono alla cosa contrassegnata col vocabolo
e presa come subbietto della definizione e scopo dell' attenzione,
e che sono fuori degli elementi raccolti nel vocabolo, o nella definizione,
o nell' oggetto dell' attenzione astraente. E così lo spirito si forma la cognizione
delle cose reali e delle loro essenze conoscibili, determinandole
e limitandole, come dicevo, da ciò che prima percepisce col sentimento
(1).
Ma oltre di ciò nel sentimento stesso lo spirito intelligente
trova un ordine, giacchè: 1 egli non può percepire certe qualità
sensibili senza altre; per esempio, non può percepire il colore o la
forma senza l' estensione; 2 alcune di queste sono precedenti, e come
condizioni rimanendo immutate, ed altre condizionate mutandosi; per
esempio, l' estensione è precedente, e il colore che può mutarsi, rimanendo
quella immutata, susseguente. Allorquando le cose si vedono
così connesse e dipendenti, si prende la prima condizione o qualità,
quella che è logicamente anteriore alle altre, e lei si considera come
atto primo, e in relazione colle altre, già unita all' essenza, si chiama
sostanza. Nei corpi la forza sensibile o sensifera è questo atto primo,
atto primo; ma questo è un
atto ipotetico, perchè relativo alla sensitività stessa, come abbiamo
già detto parlando della percezione. Ora quando l' intendimento concepisce
l' essenza d' un ente atto ad essere percepito, cioè che ha tutte le condizioni
per essere termine della percezione di cui abbiamo parlato,
allora coll' astrazione questo ente si spezza e si trova l' atto primo che si
chiama sostanza, senza il quale non si può percepire il resto. Ma questo
stesso ordine che è nella realità, si riflette nell' essenza ideale, che
da questa relazione col reale si attua agli occhi dello spirito nostro e
determina; ed è in questa che si conosce.
A percepire adunque un reale contingente è necessario:
Che non manchi l' essenza, la quale s' intuisce nell' idea, perchè
l' essenza è atto primo rispetto alla realizzazione.
Che non manchi l' atto primo della realità stessa, perchè
senza questo atto la realità non può cadere nel sentimento e acquistare
un nome; avvertendosi però che l' atto primo della realità, a cui è
condizionato il sentimento, è ipotetico, cioè viene considerato da noi
come tale; ed è anche tale, ma solo in relazione al sentito, non in
relazione a tutto l' essere.
Un' altra proprietà dell' ente è di essere uno. Se non
fosse uno, non sarebbe ente; quindi l' uno è necessario che sia sempre
nell' oggetto del pensiero, poichè altrimenti non vi sarebbe l' ente;
quindi l' ente è sempre un individuo, e non si può pensare l' ente col
pensare intero e complesso senza attribuirgli una individualità.
Infatti onde l' idea di uno o di unità? Ella è data coll' idea
di ente, e dall' ente si cava per via di astrazione (1); senza l' ente niuna
idea possibile, coll' ente l' idea di uno è tosto nella mente.
per modum unius , riconoscendo la necessità che l' uno entri
sempre nell' oggetto del pensiero.
Gli antichissimi filosofi poi, onde trasse Platone, non
sapendo trovare nel corpo unità, perchè questa unità la volevano cercare
nella materia, cioè nel corpo disunito dal principio senziente, e
quindi divisibile all' infinito, senza poter mai venire ad un primo esteso,
che avesse l' unità e non la potesse più perdere per ulteriore divisione,
negarono al corpo l' essere un ente e il poter essere oggetto di scienza;
lo cangiarono così in un fenomeno, che il volgo prende per un ente,
ma che la filosofia prende per una larva; insomma caddero nell' idealismo,
o per dir meglio posero quei principŒ ontologici, onde poi venne
l' idealismo platonico. Ma noi abbiamo trovata l' unità del corpo nella
relazione essenziale , che esso ha col principio senziente; e convenendo
anche noi che, diviso da questo principio, il sentito ed il sensifero più
non si concepisce, dicemmo però che questa necessità che ha di essere
in relazione col principio senziente non toglie punto la sua realità;
semplice per modo tale che se gli manca qualche
cosa di ciò che lo costituisce ente, egli già per questo solo non è più.
Il che pure vide Parmenide, ed è espresso in quel verso riportato da
Teodoreto [...OMISSIS...] . Ed è
per questo appunto che noi traendo fuori le principali proprietà dell' ente,
ne induciamo altrettante condizioni e leggi del pensiero. Ma
ciò che non vide il nostro antenato Parmenide si fu che vi è qualche
cosa che può dirsi ente in via , quando si stacca dalle sue relazioni essenziali ,
come abbiamo detto, della materia, ecc..
Che essendo l' ente semplice, egli è immune dallo spazio e dal
tempo, e costituisce quello che io chiamo il mondo metafisico ; il che
pure vide Parmenide, e l' accennò in quel verso che si trova negli
Stromi di Clemente, e che dice: [...OMISSIS...] .
l' istante altro non è che
il principio od il termine di ciò che dura (sia poi un ente o atto di un
ente). Dunque l' istante non si dà, se non si dà la durata; l' istante non
si concepisce se non come il limite di questa, e però in questa; a quella
guisa che il punto matematico è il termine di una linea, e però si concepisce
solo nella linea e per la linea.
Il credere che possa darsi un ente che esista per un solo istante,
è un' illusione volgare di quelli che non si sono formati il giusto concetto
dell' istante. L' istante non avendo alcuna durata affatto, l' ente supposto
sarebbe un ente che nulla affatto durerebbe; e ciò che nulla affatto
dura, non è ente.
Questa è una rilevantissima verità, osservata dalle scuole
italiane della Magna Grecia e dedotta dal principio di cognizione.
Vediamo come e a quai litigi essa abbia dato cagione.
Parmenide espresse distintamente « il principio di cognizione »in
questo verso, conservatoci da Simplicio e da Proclo:
[...OMISSIS...]
e in quell' altro frammento, conservatoci pure da Simplicio:
[...OMISSIS...]
Il quale è un principio così evidente, così patentemente consentito
dal senso comune che non si poteva impugnare se non da una scolastica
corrottissima. Adunque i primi e più celebri nostri filosofi nazionali
posero a salda base della loro filosofia il principio di cognizione .
ente è la sola cosa pensabile, conveniva
investigare la qualità e le condizioni dell' ente per sapere se
una cosa espressa in una proposizione era pensabile o no; il che è
quanto dire se ella era o non era, se la proposizione diceva qualche cosa
ovvero nulla, se fosse un' apparenza ciò che si credeva di pensare o
una verità.
Ora, fra le prime proprietà dell' ente ben videro che vi erano
queste due, l' unità e la durata; onde conchiusero che ciò che non è
uno e che non dura , era nulla, nè poteva essere oggetto del pensiero.
Ma restringendoci ora alla durata , avendo dell' uno brevemente
parlato più sopra, si trovavano tosto uscire ad una conseguenza ripugnante
al senso comune. Perocchè non era ancora stabilito il concetto
filosofico del moto, quale noi l' abbiamo dato, e però veniva ammesso,
e dal volgo passava senza esame nelle scuole, il concetto volgare di
esso, che suppone il moto farsi senza interruzione e per continua mutazione,
a cagione che le interruzioni brevissime, che lo rendono intermittente,
sfuggono, almeno fino ad ora, ad ogni osservazione sensibile,
e però non potevano venire neppure in sospetto al volgo, che si
attiene all' apparenza dei sensi, nè tampoco cadeva in sospetto ai filosofi,
che non avevano ancora per virtù di riflessione trovato cagione
di sospettarne. Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo
che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non
soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza
del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza
ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele
tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere
che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente,
non il moto stesso secondo il suo vero concetto.
Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente
stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna,
non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel
perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della
filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa,
quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono.
Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi
ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà,
onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi
supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza.
Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di
lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] .
Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] :
il che sembra voler dire
che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e
così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini,
acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano
di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ;
il che allude al
trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»).
Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio
il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso
Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione,
il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente,
facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema,
Nullismo (1).
Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero
l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due
concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall'
opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo.
Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi
si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo;
2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso,
e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se
non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti
sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna.
Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa ,
ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano,
che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze,
e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ
su cui si appoggia.
Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso
dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura
di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che
a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio
abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè
poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere
le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli
per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per
vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente
qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2).
ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo»,
essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero:
[...OMISSIS...] .
Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia
parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante
ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto,
e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel
nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei
quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva
durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare
la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè
non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune
che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che
qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo.
Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro
a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione
continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero
le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi
al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche
linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi
stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri
dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1).
Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare
espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide
circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare
il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose
che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno
in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse
a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino
e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della
mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo
ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente
per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo idee , e che questa perciò sia dovuta
a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter
anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse
del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo
introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo
di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente
del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I
frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi:
1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema
eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente,
cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione
fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora
e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente
e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e
i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il
generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più
recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio
del suo poema:
[...OMISSIS...] .
Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di
ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo
non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere
il non7ente insieme coll' ente; onde dice:
continuamente mutabile , come da tutti egualmente
si supponeva, era apparenza, non7ente.
Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente,
cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui
non poteva essere cosa alcuna), l' universo ,
[...OMISSIS...]
e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide
abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina
dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane.
La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua
propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono
di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone
e Gorgia di Aristotele.
E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere
in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un
ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di
continuità
del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo
procurato di fare (1).
Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore.
Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può
pensare cosa maggiore.
Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito
è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore,
non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo
di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime
numero ,
che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una
unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente
non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente
detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito,
un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una
qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la
notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede.
Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione
un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale.
Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho
detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione:
« « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni
cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale
adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono
molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque
non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle
idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna
delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero
si chiama specie »(1) ».
Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere,
mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo:
« « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in
universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre
prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti
gli esseri sussistenti »(2) ».
E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò
piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di
loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso
siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare
i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti.
Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò
qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta.
Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore,
senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare?
Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno
dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò,
semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia,
in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che
si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti,
non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma
ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè
l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè
non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente
con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente
diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di
generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli
astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare
qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni
lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti;
all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere
di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per
essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa
solo virtualmente contenuto.
Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la
somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere
ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha,
nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè
solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua
o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo
è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio
di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza
astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere
è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto
nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato,
il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale,
ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo
quando che sia.
Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non
sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che
vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo
piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono
l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i
loro calcoli. Questi filosofi errano:
In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè
manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali,
e che particolare non si può denominare, se non in quanto si
considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca
all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia
di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può
manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale,
o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare
alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea
piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito
per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli
non sono punto necessari (1).
Le idee astratte non si possono pensare dalla mente,
se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono;
ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente
senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro,
come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente
a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione
da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle
idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione,
è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali
idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta
più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole
dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o
meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai
pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa
si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela,
di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella
mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie.
Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto,
un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito
è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non
esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno
sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi
fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per
la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire
dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare
e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente
esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad
esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali,
li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli
astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili
a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio.
Finalmente l' esempio che adducono a conferma di
loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto,
lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E
di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista,
altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano
delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse
anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera
già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne
le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende
egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione
che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate
dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che
d e c . Ora
quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre
che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno
la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose
attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in
conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose
attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la
scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista
condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e,
avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente
che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne
posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni
dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni,
ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla
mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più
elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque
l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono
pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile,
se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di
essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già
venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega
punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione
« che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano
la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente
svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità.
Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito,
non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè
solo essere oggetto al pensiero.
Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli
può essere finito o infinito.
finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così
propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda
l' identità.
Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi,
non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito.
Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da
rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere
più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con
avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non
si pensa più quell' ente.
Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene
pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato ,
ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non
nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo
del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non
pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura
di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che
ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente,
virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere.
Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo
vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo.
A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per
oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura;
2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque:
Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel
modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che
osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua
infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e
quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe
farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale
se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come
sopra: perchè è semplicissimo ed uno.
azione che esercitano in noi;
indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo
e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del
nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del
pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero,
ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento.
Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento
sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero
soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo.
Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo
lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che
lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire
in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione
prodotta.
Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice,
tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è
molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione,
non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche
moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità.
L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non
si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi
o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque
soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe
inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra.
oggetto; dunque nella percezione
dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol
dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo
a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto,
non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo
semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non
si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono
punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma
s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere
alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il
soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente,
ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo
di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto
che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli
nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta
la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende
nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora
che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2).
Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è
misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha
esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente
la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto
innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione
dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare
misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente
niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario,
come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa,
che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del
ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario
che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe
ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe
impossibile.
Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva
poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio
che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la
oggetto intuìto
e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto.
Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente
che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in
quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto
nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far
sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce
totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa
essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono.
Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono,
si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca
nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della
propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo
che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli
enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo.
Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero.
Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce,
e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto,
quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che
non istà nel produrre una semplice modificazione o passione?
Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi
veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata,
e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità;
solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio
il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente,
non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua
azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale
creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto,
e non suppone già l' agente sussistente in cui operi.
attività
dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra
solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di
una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre
la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle
sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse,
ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe
nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è
passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò
che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale
fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non
può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente
in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni,
perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla
sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non
può essere mai ricevuta in un ente come paziente.
Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come
Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce.
Perocchè in questo fatto avvengono due cose:
Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi
possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività
stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione.
Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio,
gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella
causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione.
oggetto del
godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto ,
e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno
non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva
dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura,
e gli atti di queste forze sono limitati.
Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio,
è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell'
atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra
che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di
forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito;
ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene
all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno
nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi,
impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo
piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma
questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui
l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente
sarebbe un altro.
Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire,
sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza
sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno
di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine
quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice
esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice.
Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale,
qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti,
sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare
nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra
di potere rispondere quanto segue.
In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero
qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio.
Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima
cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere,
separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per
natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza,
sussistenza stessa dell' essere, ma
non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la
sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa
che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre
ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito
umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a
sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che
non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un
errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio
ai celesti.
Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza
e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio,
forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento
e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce
a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua
sussistenza si nasconde (1).
Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell'
essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell'
essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est ,
cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur .
Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa
sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature »,
è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice
che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno
le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato
(2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non
da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno
molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che
ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere
le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra
e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo
adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed
appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il
suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il
ragionando
per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio
ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio
come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo
di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità
per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la
vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e
necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente
come ella possa essere tale.
Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è
il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine
di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà
allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio
di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e
però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito.
Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti
sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità
è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza
all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta.
Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio
razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle
che presiedono all' operare della ragione pratica.
La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in
quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è
principio razionale7operante
(1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche,
di cui parliamo. Quali sono queste leggi?
Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della
ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui
gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi
non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la
ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio
razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera
dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella
speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi
nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella
stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè
come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere
le leggi del suo operare.
Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi
della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una
difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile
ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di
vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono
violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando
cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in
quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò
può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare
il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la
difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione,
richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali,
le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di
legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai.
La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle
operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti
ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione
delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole;
il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana.
Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata
la legge suprema della ragione pratica.
deve operare;
di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto
del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve
essere l' oggetto del conoscere pratico ».
Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione,
perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo,
giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire
alla ragione pratica.
Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo
lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due
modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è
retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver
bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni.
L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli
opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo
l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale
illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo
lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere
idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla
coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non
entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed
estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma,
qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un
ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente
termine .
L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di
male e di bene.
Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce
anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme
alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono,
nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che
l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo
termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male.
Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che,
secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un
dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così,
ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre,
perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento.
Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo
e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben
presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male
del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare.
La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ,
e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro
termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano
la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di
male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta
l' attività sua propria.
Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni
di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente .
Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo,
che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del
ragione teoretica , quanto allorchè è attivo
e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non
può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare.
Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo
che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende
da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma
dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde
la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera;
da quella necessità che lo costituisce quello che è.
All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè
il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa;
egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può
mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè
quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua
propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro
questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi
è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è
teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario
alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione .
Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra,
legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando
che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca,
come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono;
cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore.
Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del
principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la
parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare
l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e
poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica.
Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività
razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo
conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione
pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con
compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in
esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve
il concetto di bene .
Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere
attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere
pratico .
E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà .
La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema
altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella
diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine:
la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività ,
e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata
di adesione .
pensare intero dal pensare astratto ,
e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire
il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo
nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare
intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo
« l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere,
se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente,
benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio
accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato
da alcuna attuale attenzione.
Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione
pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema
regola della prudenza ».
Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla
ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica,
e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche
meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla
stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già
comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono
più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano
operare.
Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni
in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo ,
o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale .
Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo,
esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere
per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In
questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare
così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione
negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ».
La società
ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di
pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre
l' altra.
Dalla qual regola generale procede quella più speciale,
che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare
essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta
(2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare
la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non
può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3).
Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che
noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così
le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi,
ragione pratica ; il che ora
dobbiamo noi svolgere.
L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto
la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro
modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione
pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione
dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza,
ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè
il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato,
quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione.
Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee
riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale
intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non
pratica.
L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto
dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente
il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale
è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi
avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada
anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi.
Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire
semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione .
Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza,
così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è
« la fruizione dell' oggetto ».
In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio
razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè
l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè
virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che
non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi,
carattere essenziale di ciò che
è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo
tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura
infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene
eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito.
L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto
l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante
e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo.
Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè
non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura
e determina la quantità di adesione a quello dovuta.
Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene
morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della
norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale.
astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere
una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò
che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione.
Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere
volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con
astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte
solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione.
Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente
per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo
naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza,
dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono.
Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine,
vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad
un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi
è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale
vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo
possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio
razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1).
Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere
la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto,
è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e
riflessione integrante come funzione della
ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell'
uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve
l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino
suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere
essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione
pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la
forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione
negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la
morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così
la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase
solo disegnato in sulla carta dall' architetto.
Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione
pratica: la prima è quella dell' oggettività.
Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione:
1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui
stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo
col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale
debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica;
perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie
alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è,
e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica,
che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono
l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie
in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale .
legge morale alla ragione pratica quello
stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che:
Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare
il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo,
di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe
un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente.
Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore
e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della
ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti,
si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere.
Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non
ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi
è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare
il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale
azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e
non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto
coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione
adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione
pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto
all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare
nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto
un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell'
ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad
operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza
dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare
secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente;
l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare
la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco
o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi
secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto .
Come è legge essenziale della ragione apprendere
l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione
pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine
in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella
non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna
alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra
il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine
della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote
in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi,
come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità ,
del sacrificio .
esigenza dell'
ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico).
Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione,
ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e
spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico);
2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non
essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico).
Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente
col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica,
il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più
che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione,
e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della
giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque
vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede
perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente
uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale
a favore dell' ente che fu oltraggiato.
Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico,
che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto
che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico.
Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu
rispettata l' esigenza.
Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente
considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la
attività reciproca; il termine del principio
razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra
essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una
relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce
in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce
in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come
dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è
suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli
stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo,
l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed
è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio
razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta
ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato
contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente;
e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo
termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al
male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata
nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione
del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce
nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti,
e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha
questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione;
2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo
termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è
che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1).
idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa
idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo
di quell' ente reale.
Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta,
misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura
prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima
sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che
la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore,
deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta
nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica,
avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua
stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi
sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene
alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che
ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque
idea .
Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione
pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato
non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza.
Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende
il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione.
Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza
possibile della cosa in relazione col suo realizzamento.
Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare
un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il
tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto
il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora
non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo
nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà
ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato.
Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale);
2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo
si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1).
Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo
delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella
formazione e nel governo del mondo (2).
Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può
applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto.
Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità
nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa
della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere
supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge
imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto
è oggetto reale della stessa ragione pratica.
La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile
è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge
sua propria l' armonia nell' oggetto.
hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe
giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe
non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa
conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli
dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che
arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia
bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze
o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione
che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le
naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare
fine e di termine
della ragione pratica.
Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un
ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo
crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente
finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale
solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto.
E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio
razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche.
Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del
principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli
un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita
naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo
doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia
attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola
parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell'
anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e
sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono
alle leggi cosmologiche.
Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma
solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad
esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo
a parlare dell' altra classe più innanzi.
Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi
cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto
di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di
esse.
essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero
sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1).
Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio
razionale che ne è informato, non può avere altro termine che
sotto la forma di oggetto.
Da queste verità si raccoglie:
Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo,
non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale.
Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento
fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale
termine.
Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto,
se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto.
In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche,
che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare
l' ultima.
L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che,
se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da
alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete,
Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi.
Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso,
egli eseguisca il suo movimento.
In quanto alla prima questione, è da rispondere che il
principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è
dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche
cosa di reale.
Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito
o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la
stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè
oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito
nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente
ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi
soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività
suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e
tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe
e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto
quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse
essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere
che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così
dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione
e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel
reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1).
Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito,
ogni comunicazione del reale finito non può suscitare
che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi
cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è
certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente
ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive,
legge psicologica
d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla
quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè
lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse
cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1).
Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale,
non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta
attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo?
Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo
fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni
nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima
avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare?
Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non
avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non
sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è,
ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi
andiamo investigando.
speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente
speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza
dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si
fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica
(1).
Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione
speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e
dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non
traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse
si crea.
All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi
ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della
ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi
necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente
necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei,
ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che
che deve fare per essere perfetta.
La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo
le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche;
e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono
ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle
prime prendiamo ora ad esporle.
Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione
della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal
continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai
sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine;
di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già
adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une
sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due
maniere di legge distintissime.
attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone
ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non
poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno,
e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato.
Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione,
gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico ,
raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti
passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo
la loro ragione sufficiente.
Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto
a cui si possa unire.
Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta
in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo
è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento,
il quale è giunto al suo compiuto termine.
Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove
la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme:
a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale,
concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè
della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente
unito.
Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque
ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da
qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci.
Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire
oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in
quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi
di unione dell' anima coll' oggetto.
Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente
una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di
avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi
in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1).
affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente
affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi
si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo
bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle
volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione.
Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo
ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento,
è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii
si uniscono al loro termine. Quindi:
Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo
la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione
visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare
una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla.
Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa
distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani;
per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano,
per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero.
Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare
lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e
mangiare quella frutta.
E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si
brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene,
in quel vario modo che la natura del sensorio esige.
Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora
dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve
la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a
cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere
trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi
la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici.
ragione pratica già muove la ragione
teoretica a trovare i detti mezzi .
E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino
i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente
astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni
degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli
enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine
complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo
tutto, inteso nel tutto e pel tutto.
Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora
astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare
astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero
vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che
nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è
una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato.
Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame
fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano,
che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E
l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la
spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del
principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi
i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un
cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo
fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono
da tale stimolo tratti a succedersi.
La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa
le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi
muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi.
Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi
corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi,
ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una
volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi.
Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei
diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè
se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad
esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la
fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo
che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante ,
abitudine ragionante , che incomincia
già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce
ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che
siamo per descrivere.
L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale
diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così
comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto,
insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle
percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno
talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione
data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza
poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare
altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo
a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto
di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti
e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento
più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca,
anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento
dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto
del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che
tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto
dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma
l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora.
Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare
i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono
essi nomi propri o comuni?
La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto
(altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso
che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono
il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1).
Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono
all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben
presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè
stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata
all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da
quel legame estrinseco.
E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli
uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio,
è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice
dei nomi.
sussistenza ,
perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il
nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune.
Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista
nella percezione?
Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle
sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono
lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè
rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue
qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare
l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1).
sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della
medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo
nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano.
Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente
percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile
dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti
il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore.
I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il
piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti
con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni
esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso;
ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono
la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu
est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino
da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli
oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che
esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà
tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal
fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio,
ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono,
è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più
che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile
a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne
di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che
sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro
la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli,
a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che
esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze
nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1).
I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò
che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero
dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono
nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi,
perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa
facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si
inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal
dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori,
di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile,
sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici
aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della
lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro
nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il
concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi
accidenti.
Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante
a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i
generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo
un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della
terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde,
il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della
sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo
chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto
è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo
prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde
colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che
nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color
verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma
queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il
color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione
alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità
più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che
non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà
nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe
maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente
collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo
a significare in generale « ciò che è verde ».
nomi comuni
è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi
dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue
antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato,
e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1)
quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando
non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma
introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero
modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo:
[...OMISSIS...]
nomi comuni , e ne abbia tanta
facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più
tenero. Questa cagione si è sempre:
La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione
loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto
il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività
unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili.
La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei
sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si
attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più
comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali
percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti
hanno a cagionare quei medesimi sentimenti.
Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un
reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche
quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più
comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine
comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto
a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le
cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo
a fare checchessia, ecc..
E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza
che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente
dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna,
che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio
organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello,
questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario;
perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento
speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni
di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato
al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere
nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda.
E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali
ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo
solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe
Rinnovamento contro
l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà
manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può
ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà,
che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare
della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso
ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi
seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie
sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della
fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto
dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3).
Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò
che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche
cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi
dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere
un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il
sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora
al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni
e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha
l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri
sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello
dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non
solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale
sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente
dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia .
E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale,
che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le
sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del
sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel
suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello
stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè
paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento
totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può
nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti
a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione
intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del
sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome
comune inventato sarà il sensibile .
Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò
che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente
e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto
alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma
per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni
più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi,
in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata
la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza
e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà
a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà
il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di
fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra;
perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle
sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste
sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice
comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i
sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di
cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime.
A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate
da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo
Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel
Deuteronomio: [...OMISSIS...] ;
ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il
Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] .
E questo fecero pure i Greci, massime
gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). »
« « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei
quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma
più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana
dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune.
percezione del
fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico,
allegorico, ecc..
Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere ,
che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle
funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la
percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice:
« « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece
di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell'
Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor
mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla
e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3),
la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto
di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che
nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi
dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè
questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella
fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole.
Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi:
« « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi
ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano
dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni
del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari.
Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere
che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per
fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure
degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco
valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi:
[...OMISSIS...]
La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura
segno naturale comune ad esse.
Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione
dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte
delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina
in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira
l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che
sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta
cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa
Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una
certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale
della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica
compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse
il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome
comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni
altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato
di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere
più ristretto, cioè con quello degli uomini.
Fin qui si vede come gli uomini in società potevano
pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero.
Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed
è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi
abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire
a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno
stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di
questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed
fatto da quella della semplice possibilità . E`
indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento
a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una
porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove
esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se
l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a
pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e
con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di
segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver
trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale
fosse mosso l' umano intendimento.
Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate
di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi
comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue
antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e
in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi
qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua
di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare
i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà ,
ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è
bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono,
«peri hedones, peri agathu», ecc.. »
Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse
giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi?
Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale,
che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa
condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli.
Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è,
e come venga data all' uomo.
Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell'
altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la
parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il
nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente
il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro
nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti.
Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che
ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà
altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre
il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia,
braccio, mano, ecc..
manus Domini (1) »
o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare
la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide
(3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente
un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già
significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora
avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo
dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono
gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza
o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.;
e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione
degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima.
Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente
per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo
è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è
questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In
questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di
dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo
corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente
che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la
voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci
cosa , come si può vedere nei lessicografi?
[...OMISSIS...] ;
e questo
parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo ,
venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire
l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare
altresì la seconda delle Persone divine.
Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo
del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come
fecero le lingue antiche.
Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto
di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati,
applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino
della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto
il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato.
Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari
per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio.
E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole
unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola
parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi
materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione
o no.
L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto
ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e
questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche
sopra descritte.
essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare
questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi
perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi
abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono
ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice
non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non
è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti
i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero.
Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice
non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire
e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo
essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso
niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente
uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente,
avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero
efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali
pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce
l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc.,
poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere
altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è
sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto
una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili
labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava,
finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano
all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non
è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà
ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere.
Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà
nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non
avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto
matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione
ente , come dicevamo, ma una negazione ,
non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro
spirito sopra un oggetto (l' estensione).
L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo,
si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa
deve confrontarsi coll' ente reale.
L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi
quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale
elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di
meno vuole intendersi in più modi. Poichè:
Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali
possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche
moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio
animale; ma neppure questo è dividersi in più.
Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può
colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la
sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero
astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre
nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni
si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla
verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente,
benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa
già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto
del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente
uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò,
egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma
dall' arbitrio, fonte degli errori.
coscienza .
La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione
ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito
come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria
sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che
l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro.
Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto
il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso
e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione
(1).
L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza.
Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina
Io) attiri la propria attenzione a sè.
Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non
pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno?
« Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia
è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ».
Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante
il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi
al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga
il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la
coscienza.
non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce,
non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può
distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe.
Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè
come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto
positivo.
Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica
di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo
in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare.
Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè
quella parola interiore colla quale afferma o nega.
Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si
noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia
suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento,
chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato,
quasi a sua materia.
Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia
in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente
sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua
causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua
immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica
visione.
ente ideale infinito ,
diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel
suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun
pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi
o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche
essere reale, fonte della pluralità.
Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito
per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto
nuovo?
La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa
da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la
cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto.
Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa,
tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione
che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto,
a questo accordandosi ed adattandosi.
Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa,
è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo
solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2).
Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito
e non all' oggetto.
Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi,
che argomentavano:
[...OMISSIS...]
(3).
A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità;
ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così:
« Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si
pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se
s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il
pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può
pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare
oggetto
della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè
stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse
affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione
di sorte.
Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito?
Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito
dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione ,
onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione
ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora
la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa
essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole
e vacillante.
Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero
insorgere.
Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro
è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui.
Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può
cadere errore (1).
congiunzione del soggetto col predicato è
l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un
oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito.
Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime
ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare,
perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è
questa.
La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente
come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto;
ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la
si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo
corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado
che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo
è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza
affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme
con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo;
non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni
possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare.
Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è
lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali
operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle
due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando
pronuncia che quella è.
Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia
di una delle relazioni possibili, contradittorie? ».
Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere
ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera
è
copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende
alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per
esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell'
è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale.
Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato
essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste »,
dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza
dell' ente.
Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento,
significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade.
L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla
lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla
mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche
che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione,
vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento
di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto,
ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione
è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi
alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi
per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi
per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione,
dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per
la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi
e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e
non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione
in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un
predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive,
conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora
se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad
un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia
un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un
assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo,
perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è
il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia
possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo.
Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò
che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta
che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce,
dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito;
modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso
oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto,
appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che
prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione
dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso,
secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda.
Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli
esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio
o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio
è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico:
« questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non
l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando
dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile.
Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento,
almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale
vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo
e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il
soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento
(reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero
può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme.
Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto,
ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa,
ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce
la cognizione soggettiva .
Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del
soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall'
unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda
unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa,
non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di
unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella
quale cade il vero ed il falso.
Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto
nuovo?
La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato,
un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente
era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico
« il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva
prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento
soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente
essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come
sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione;
non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione:
1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili,
essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma
idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti
non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio,
non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come
possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene
persuasione, cognizione soggettiva.
Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità
come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità
se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto
che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro
che un nuovo modo di unire a lui sè stesso.
E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante,
che procede dall' esposta dottrina.
L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva ,
perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente
dall' oggetto e l' altra propria del soggetto.
All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto,
risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche
che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde
la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle
leggi psicologiche.
scientia est de necessariis (1).
La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato
dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce
all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto
ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis ,
potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente,
anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente.
La quale distinzione basta a distruggere il panteismo
idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo »
induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si
riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato
del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto
raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste
nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia
oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un
modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si
fa per via di predicazione.
La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione
e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico ,
escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si
riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò
le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive,
ecc..
Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più
ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione .
La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che
per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto
ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle
sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione ,
e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei
fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non
va immune neppure la filosofia scozzese (2).
leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il
movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto .
Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte
allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono.
Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in
parte psicologiche.
Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due
supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè
esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante
del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè
esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi,
determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore,
acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua
attività.
io e il non io come contrapposti
correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo
spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli
atti seguenti:
Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo,
senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè
del suo atto; egli vive ed è nell' essere.
Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale,
e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza
espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente ,
nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio
sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento,
senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine
in cui si giace.
La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera
da noi spiegata.
Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce
pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di
questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto
alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il
principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento,
che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia
nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di
io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti
correlativi di principio e di termine.
reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza
radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo
tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare
eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza
concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il
soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale
sua propria.
Ma in questa legge sono da considerarsi due cose:
La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi,
uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il
reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione
di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ».
La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale
sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così:
« Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale,
in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e
cessano prestamente ».
Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge.
Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova
fare le seguenti osservazioni:
Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo
grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni
ragionamento .
I reali, che muovono il ragionamento e non la sola
percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente
a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento;
il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta
da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine;
dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa
in atti molteplici.
I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione
che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in
virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che,
data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento,
a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi.
Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre
un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi,
e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha
bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre
il pensiero e l' azione.
Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace,
è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere
su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio
sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali
eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno
nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino,
egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il
compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull'
altrui.
Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo,
aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte
della legge che noi esponiamo.
sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno
durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se
tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre)
non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si
hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa
piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso
principio senziente che dura.
In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non
eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano,
e non il movimento (1).
In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono
nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee,
perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento
non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla
se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento;
2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante,
ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante,
ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi,
eccitatrici (a loro modo)
del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento
eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione
della fibra) non duri.
Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero
nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili
le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura.
Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della
mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale,
tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero,
cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se
il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale,
da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli
non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci.
I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono
principalmente i seguenti; ella spiega:
Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare
soggettivamente (1).
Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi
puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che
la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra
sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo
per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il
sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo.
Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento,
ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine ,
ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell'
ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione
del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in
appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo
non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto
perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine
anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative
del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza
incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome
suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas ,
che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la
parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare
la forza della legge.
E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni
astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di
metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza
del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi
proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni,
siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della
mente (2).
Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero,
tanto per sintesizzare, quanto per analizzare.
Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando
s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di
rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica,
quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli;
ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola
parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la
memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi
fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto
di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme
di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè
segno unico commemorativo di entrambi. Questo
istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri
quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge
più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde
avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar
impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale
apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio
impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove
ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di
Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi
espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare):
« questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim ,
cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano
scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato
quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5);
ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei
nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso
istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero
qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar
la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di
operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a
due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo
sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i
monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato
alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini
con sapienza scrisse:
pluralità , non essendo un reale, ha bisogno
di un segno reale per essere ritenuta e marcata.
Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo:
a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati,
come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali
assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali
acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione.
Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel
desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire
vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può
avere di continuo presenti.
E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti,
in quanto che non operano come reali immediatamente sopra
di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli
che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il
culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano
le leggi della natura.
Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione
e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e
specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente
dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso
che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non
fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità ,
già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione,
acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso
tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un
tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad
un tempo ed analitico.
psicologiche del pensiero, che
rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati
positivamente i primi elementi.
Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria,
nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione:
La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni
si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò
solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che
un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se
non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente;
perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci
pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni
qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo
ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra
libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più
richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal
caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna
immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove
affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima.
Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la
notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale
uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano
conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia
smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione
riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui
quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del
quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde
le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza,
si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere
ideale.
reali , onde si segnano le notizie, non
dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto.
Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi
nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo
può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce
facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi
del tutto impossibile.
Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità
o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza,
noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti
(pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali
presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame
è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento
sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un
legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque
il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che
egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno
non7io . Nel quale concetto del
mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto,
benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso
parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè
l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche
di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita
e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al
mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere,
è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio
razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale,
è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti.
unicamente
psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione
si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva,
neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo
il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia
ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva,
ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale.
Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere
il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine ,
che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio
anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente
e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni
ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato
di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva
l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione
delle parole da noi esposte.
Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del
mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano
e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume
le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica
abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come
si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] .
mondo in contrapposto
dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia,
che nell' animalità si contiene.
Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del
sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova,
proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è
il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro
errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato
minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura
dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale,
e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si
è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale,
e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica,
esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll'
unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1).
In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo
giaccia l' unità del tempo.
Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell'
animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria
all' armonia, nel tempo il numero .
E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero,
se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero
presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non
può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può
varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo
è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in
lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale)
la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi.
Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità ,
l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità
è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico;
quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia
una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell'
anima col mondo.
Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva
S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia
sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura
cosmologica.
grandezza , della forma , dei
limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra
nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione:
come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione.
nero ; perocchè
definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere
la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo
che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il
nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo
stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le
sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni
parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente
fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero.
Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione
a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti
con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio
nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli
occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi
d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò
si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi,
le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione,
s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento
che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione
della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire
qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento
fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo
dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato
come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un
che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche.
All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade
nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo
cosmologica ,
parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito,
psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo
spirito stesso è fornito (1).
Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo
dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che
è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia
la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia
cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti
intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura,
che è o sedata e primitiva, o eccitata.
A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce
indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine ,
essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima.
La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera,
è ancora azione cosmologica.
Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che
ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale
virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto
psicologica (2).
L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in
essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a
determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente
tocco della sensazione
per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione,
cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si
vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso
organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore,
ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora,
quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado,
per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini
mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il
detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè
il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo.
Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione
può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione
può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui
termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime,
sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo
già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti
dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti,
i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno;
i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il
tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe.
Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva,
come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente
psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa
variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di
questi.
Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per
l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale,
le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va
unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà.
analogia e non per vera similitudine
che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella
qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello
spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell'
identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il
principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così
quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva
(esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in
quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo
servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima
al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del
che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima
fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la
carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio
da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta
l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano
toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico
non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene
(percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo:
che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto
ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso
spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo;
e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali
spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima
carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei
mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna
viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla
carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo
rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo,
cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto
diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando
lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione
dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per
misura
comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente
diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del
sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico;
ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale
o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone
è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza
ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire
che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia
la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile
sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo.
La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione
di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio
è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo
visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento
visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare
lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè
non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo,
tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere
si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi
l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla
retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente
soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede
ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del
principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a
tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio
in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro
spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare,
tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa
per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina,
non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se
esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei.
Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non
più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di
queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare
coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione
l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente,
soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio
altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio,
ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui
di comune è la proporzione
delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio
razionale paragona.
causa efficiente delle sensazioni non
sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio
sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi
movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato,
rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe
l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è.
In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine
un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti
che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione,
ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che,
senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi
con più o meno di pressione alle loro superficie.
Ciò posto, è chiaro:
Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione
dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi
limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve
rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall'
anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un
altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il
moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento
delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale,
ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore
nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell'
unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo,
tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento
continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè
per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè
converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere
queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione
delle parti ed i loro confini.
Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello
stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione
sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si
cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio
nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali,
che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e
diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1);
do , ce ne vogliano 27 a produrre il re ,
non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio
acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore
di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente
essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica.
Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo
sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza
di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due
vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni
correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo
stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di
quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si
che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1).
Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica
nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra
colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento,
diciamo che questi elementi psicologici sono:
1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della
moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità;
4 il tocco del sentimento.
unità dilettevole ; ed è questa
che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non
manca mai per l' identità del soggetto senziente.
Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità
piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche
o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni
sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo
ed al razionale. Esse sono le seguenti.
«babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il
nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia
trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo
a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di
Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo
stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra
la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle
esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione,
come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.;
reali immaginari o in generale sensibili,
rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto
grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale
esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina
legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini
ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli
simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio »
sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la
esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia.
L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia
nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà
a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso
che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto
potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane
storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar
buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare.
E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga
sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta
e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango,
e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra,
e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo;
ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi
sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una
prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi
parvae et lenes curae loquuntur,
ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando
parte che la veemenza della passione animale offende gli organi,
a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo,
parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione,
sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello
sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado,
e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere
l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra.
La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente
afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa
del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla
e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli
intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa,
Antropologia » abbiamo recato
l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche
cosa.
Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni
per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi
limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose
del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non
basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere,
che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo,
adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare
in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell'
anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo
vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso
quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire
al di fuori di esso nel detto fluido.
Antropologia , che i
colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee,
il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari;
quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè
spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che
associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando
così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio
senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti
contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè
egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati,
costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i
primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge.
Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli
accordi dei suoni.
Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello
stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente
alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero.
Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una
ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta
ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i
denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole
intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della
ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si
aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più
frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo
di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la
sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però
vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio
nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel
qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso.
Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè
distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti
da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra.
L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono
da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione
negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima,
che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante
la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che
fa, la, do;
do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come
4, 5, 6.
Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee
per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi.
Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la
corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo
che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli
appunto che formano fra loro armonia (2).
Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei
che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima.
Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno
ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere
fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e
però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar
metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto
e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo,
cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità
dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli
esteriori che mutano il suo termine.
Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute
regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima.
forma , e fa sì che il mondo esterno, che
non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma
solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui
stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella
acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia,
benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica ,
perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.