Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Otto giorni in una soffitta

204595
Giraud, H. 2 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Abbiate pietà, di noi, mio buon signore!... - Allora ci faranno prendere Bugubù o Carletto, e saremo costretti a lasciare Nicoletta. - E Maria, che potrebbe aver visto Nicoletta in casa della mamma Dufiet, la riporterà da quella strega. - E anche se non la riconoscesse, non potremmo mai più far ritornare Nicoletta nella soffitta, ammettendo che avessimo potuto farla uscire senza incontrare Maria o Leonia. - Vedi bene, - conclude Maurizio, senza rancore - la tua idea può andare a far compagnia alla mia. L'uscita di Nicoletta e la mia pioggia si equivalgono. A Francesco, ora!... - Ma Francesco, scoraggiato, si volge verso i suoi fratelli. Alano insiste nel suo piano, che trova eccellente. - Chi ti dice che Maria acconsentirebbe a portare con noi un ragazzo trovato sulla strada? - finisce col dire Francesco, irritato. I tre ragazzi stanno per bisticciarsi, quando arriva Maria. - È una buona preparazione per andare a pregare il buon Dio, - dice essa. - Che cosa succede? - È Alano che.... che ha letto una storia, - spiega Maurizio - e vuole che facciamo come nella storia. - Quale storia, signor Alano? - - Una bellissima storia, Maria. Alcuni bambini che vanno a fare una passeggiata e una colazione all'aperto come noi, e si sono ripromessi, essendo molto felici, di condurre con loro il primo ragazzo che incontrerebbero perchè anche lui possa esser contento. E così hanno fatto. - E Alano vorrebbe fare come loro, - strilla Maurizio. Maria scuote la testa. - Queste cose vanno bene nei libri, - dice - ma nella vita non sempre sono possibili. Un ragazzo bene educato non se ne va solo solo per la strada. Non vi troveremo che uno sbarazzino, forse sudicio e sgarbato.... Oppure - (e Maria ride a quest' idea) - volete vedere che sarebbe una bambina? No, no, signor Alano, queste sono storie da briganti. Quella gente scrive nei libri non sapendo che cosa inventare per far confondere il cervello. - E, con questa immagine ardita, Maria conduce in chiesa i ragazzi, che dimenticano per un momento la loro grave preoccupazione. All'uscita della messa, Maria propone a Francesco d' invitare alcuni loro amici per il pomeriggio, o di accettare l' invito di recarsi a casa di uno di loro. Francesco protesta con energia: - No, no, Maria; oggi voglio assolutamente lavorare al ritratto per la mamma. - Ma è domenica, - protesta Maria. - Quello non è un lavoro vero e proprio, - risponde Francesco - e ci diverte più di ogni altra cosa. - Questa è la ragione migliore. Maria si arrende e vien declinato l' invito di Giovanni Bord d'andare a far merenda in casa sua. - Oggi no, grazie; - risponde Francesco con una cert'aria d' importanza - abbiamo una cosa da fare per il ritorno della mamma e siamo già un po' in ritardo. - Quando ritorna la vostra mamma? - domanda la signora Bord. - Ci scrive che vuol ritornare presto, signora, - dice Francesco - che si annoia, e che sta molto meglio. - Non dice quando ritorna? - No, signora, vuol farci una sorpresa. - E se arrivasse giovedì? - osserva Alano. - Oh, addio passeggiata! - dice Giovanni Bord con aria desolata. - Sarebbe per un'altra volta. Pazienza! - La signora Bord cerca di consolare suo figlio: Maria prende la parola. - Io credo che la signora non ritorni giovedì; le scrissi ieri, e sa che andiamo al bosco proprio giovedì. E poi credo che il suo medico di laggiù non la lasci partire così presto. - Arrivano intanto gli Aubry con la loro istitutrice, poi i piccoli Dumont, e tutti i bambini che giovedì devono andare al bosco delle Fate. E allora si parla soltanto della passeggiata e delle belle partite che si faranno in quel giorno. I tre babbi hanno quasi dimenticato la loro figlia! Quella domenica è una giornata molte tranquilla per Nicoletta, poichè dopo il desinare Maria e Leonia vanno al vespro, poi Leonia ritorna a casa, e Maria, che ha preparato la merenda prima di andarsene, non ritorna che dopo le sei. I ragazzi hanno il tempo di divertirsi, di gridare e anche d' incominciare a giocare a nascondino nelle due soffitte. Ma devono smettere subito perchè il passo pesante di Leonia fa rintronare la scala ed essa viene a vedere perchè fanno tanto fracasso; ma crede di aver sognato quando trova Francesco nello «studio» che dipinge, e Alano e Maurizio che posano. Essa non si accorge come la mano di Francesco tremi, nè come Alano sia tutto trafelato e Maurizio tutto rosso; e non vede neppure, dietro le imposte della finestra che si muove, la fanciulletta, il cui cuore batte precipitosamente. Sarà ricondotta dalla Duflet, se Leonia la scuopre? No, Leonia non si accorge di nulla e se ne va dicendo: - È strano, come di giù si senta un gran rumore. Dev'essere nella casa accanto. - Se ne va tranquilla, e, in fondo, piena di ammirazione per quei tre ragazzì «buonì come bambine ». - Ah, che paura ho avuto! - esclama Nicoletta uscendo di dietro all' imposta. - Anch' io, - confessa Maurizio. - Non avrei mai immaginato che si sentisse il rumore di giù, - dice Francesco. - Perchè anche Leonia non va a passeggio la domenica? - Temono per noi, - risponde Francesco. Infatti i ragazzi hanno più d' un malestro sulla coscienza, e i giorni in cui sono stati abbandonati a se stessi, sono segnati sul calendario di casa come giorni nefasti. La giornata finisce tranquillamente, i ragazzi sacrificano a Nicoletta la loro partita di calcio; la faranno più tardi, quando Maria sarà rìtornata, o dopo cena, se sarà ancora abbastanza giorno. Per divertire Nicoletta organizzano una grande partita di steeplechase, lo steeple su tappeto verde regalato dal comandante Grey ai tre fanciulli. E Nicoletta è così estasiata nel vedere il suo cavallo arrivare il primo al palo, attraverso i mille ostacoli del giuoco, e ride con tanto gusto nel vedere Maurizio e Alano sempre perdenti, che i ragazzi non si sono mai divertiti tanto col loro steeple. Soltanto lunedì Francesco, a sua volta, ha una idea e la espone ai suoi fratelli, nel giardino, sotto l'albero grande, dove sono soliti tenere i loro conciliaboli. - Ecco, - spiega - non è necessario che stiamo a casa tutti e tre. Basterà che resti uno di noi.... e propongo che quello faccia tante monellerie da qui a giovedì, che Maria sia obbligata a punirlo privandolo della passeggiata. - I due fratelli sono convinti, una volta di più, che il loro fratello maggiore è proprio un «tipo geniale», come dice Mano. - Bastava pensarci, - dice modestamente Francesco. - Chi di noi? - domanda Maurizio. A questo punto la situazione si complica sempre Maurizio che ha l'abitudine di fare più monellerie degli altri, ma è anche il più piccolo e il beniamino di Maria, e i due più grandi lo sanno. Perchè c' è il caso che Maria gli perdoni tutto per non privarlo del divertimento. - E poi, - aggiunge Francesco - a Maurizio dispiacerà di più di non andare al bosco delle Fate. Per me, invece, fa lo stesso, se rimango in casa. - Anche per me. - Anche per me.... Voglio fare quante più monellerie potrò; - dice Maurizio - ma avevo proprio voglia d'esser buono in questi giorni, ed è molto difficile esser cattivi, quando ce lo dicono.... - Ti occorre qualche ispirazione? - domanda Francesco, serio. - Proprio, - risponde Maurizio, che sdegna l' ironia. - Vuoi che tiriamo a sorte per vedere chi dovrà farsi punire?

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E Nicoletta risponde, con voce lamentosa: - Sì.... ma credo che non abbiate messo il sale. - Il campo dei cucinieri è costernato. Hanno dimenticato perfino di portarlo, il sale. Maurizio propone di andare a prenderlo. Ma prima propone a Nicoletta di portare dello zucchero al posto del sale. - Sarà più buona, - egli dice. Ma ad ogni modo non potrebbe esser più cattiva. Nicoletta è stoica: mangia la sua minestra. La mattina ha preso una limonata purgativa e un decotto d'erbe, e quella minestra completa la giornata. Quando ha finito, Alano getta un grido: hanno

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Angiola Maria

207086
Carcano, Giulio 7 occorrenze
  • 1874
  • Paolo Carrara
  • Milano
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Non abbiate soggezione di noi: la vostra fisonomia è tanto dolce e bella! » « Non mi mortificate, sono una povera fanciulla, e voi... » « Noi » riprese ,l' Elisa « siamo ben liete di conoscervi; e se vostra madre è così buona da non dirci di no, torneremo domani, per condurvi alla villa; sarà una giornata di contentezza. » « E vi mostreremo » aggiunse Vittorina « cento belle cose; i nostri anelli, gli smanigli, le collane, le ciarpette e tant' altri vezzi, che sono una maraviglia a vederli. E ne daremo anche a voi, pensate! devono starvi pur bene, avete il collo così sottile e bianco! » « Tu se' proprio uno spiritello! » disse Arnoldo, mentre Maria, alle parole della giovinetta, chinava la faccia sul seno e di nuovo arrossiva. Allora Vittorina, in atto di tenerezza infantile, l'abbracciò e col suo pronto sorriso: « Perdonami, o Maria! ho creduto di farti piacere col dirti che sei bella! » « Tu verrai , Maria, » aggiunse Elisa; « non è vero? dillo! vogliam raccontarci tante cose! Perchè, sai, adesso noi possiamo goderlo in pace questo tempo così allegro, questo cielo così bello! Adesso non tremiamo più per la vita di nostro padre: egli fu ammalato, ammalato assai, ma dopo che Arnoldo tornò, sta molto meglio. » « Buona Caterina, riprese Arnoldo, «fu appunto per causa di mio padre che non venni prima a trovarvi; ma son con- tento, chè vi veggo di buona cera e serena. » « Graziadio! » rispose la vecchia. « Avrete pensato ch' io v' avessi dimenticata? » « Nemmen per sogno! » E Caterina fu pronta a consentire alla graziosa premura che le due damigelle le avevano fatta. Era un grand'onore per lei vedere la figliuola cercata da due signorine tanto leggiadre e buone, il suo amor proprio non essendone poco lusingato; perchè, pensava, in ogni maniera non potrebbe riuscire che una fortuna quella conoscenza. Ben presto le tre giovinette divennero amiche, come se già da un anno si fossero conosciute. E quasi ogni giorno Elisa e Vittorina venivano a cercare Maria, e con lei dividevano l'allegrezza di tutte l' ore. Bene spesso le avresti vedute sedere in crocchio sul terrazzo della villa, intese allo studio de' loro disegni e lavori, al canto di care e semplici melodie, o abbandonate a fanciulleschi e sinceri colloqui. Talvolta anche il vecchio lord, oramai convalescente, stando nel suo seggiolone in un angolo del terrazzo, contemplava con segreta gioia quelle tre testoline giovani e aeree, le vedeva chinarsi e levarsi con un tripudio irrequieto, con un sorriso più eloquente d'ogni parola; e l'ampio foglio del Times, che stavagli spiegato sotto gli occhi, cadeva allora dimenticato su le sue ginocchia; e nel cuore l'arida politica cedeva il luogo alla dolcezza d' un senso affatto nuovo. Più spesso le fanciulle andavano a diporto per i paesi

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E, per carità, abbiate giudizio con chi che sia!... Già ve l' ho pur detto, la prudenza non è stata messa per niente tra le virtù cardinali. » « Oh signor Giosuè, si figuri! solo mi dispiace per quella povera giovine.... » « Sopra tutte, non state ad aprir bocca con lei non ci mancherebb' altro. » « Bene, tacerò.... le prometto che tacerò. » « Sì, sarà meglio, chè mi pento quasi di aver parlato io!... Signora Giuditta, a rivederci. » « Un momento, dica.... senta.... » Il priore della dottrina cristiana le aveva voltato il tergo, e se n'era ito. La signora Giuditta, con la fantasia agitata, in un mar di pensieri, combattuta fra il desiderio di spiegarsi con Maria, secondo lei, colpa di tutto, e la promessa data di tacere, trovò appena la strada di casa sua. Quando entrò, la fanciulla le venne incontro, interrogandola con uno sguardo che pareva chiedere qualche buona novella; e nella sua sembianza leggevasi tutto l' affanno d' un' anima che crede a una sventura e non si sente la forza di sostenerla. La vedova, a cui pizzicava la voglia di parlare e di dire alla poveretta: - Tutto è stato causa vostra, anch' essa ne fu veramente tocca; e la compassione le suggerì qualche magra parola d' amicizia e di conforto. Al che la fanciulla rispose subito con lo stringerle e baciarle le mani, in atto di viva gratitudine e di dolore, sforzandosi di parer tranquilla. Rilessero insieme la lettera del vicecurato; conghietturarono, ripeterono dieci volte le stesse ragioni; ma non sapevano che ben fare. Alla fine, fu stabilito fra di loro, che prima di scrivere alla mamma Caterina, come raccomandava la lettera, o d'andare a prenderla al paese, come voleva Maria, avrebbero aspettato fino al posdomani, affidate che potesse mai in quel mezzo ritornare don Carlo. Ma il posdomani passò, nè comparve persona, nè venne parola. Perduta quella poca speranza, che per i cuori buoni ha sempre qualche sorriso, benchè mesto e solitario come un fil di luce nel crepuscolo, Maria cominciò a pentirsi di non esser subito partita a cercare sua madre: intanto, d'una in altra fantasia, andava creando le più funeste cose. E quantunque la vedova fosse stata prudente, forse per la prima volta in vita sua, coll' averle taciuto i sospetti di quella sparizione; pure, fra gli altri dolorosi pensieri, venne in mente a Maria anche questo, che quant' era avvenuto potesse anche essere una vendetta dell'uomo potente con cui il fratel suo aveva ardito cozzare per salvarla. Ma tal pensiero era così grave e terribile, che al suo cuore mancava la forza di sopportarlo. Così al bandonavasi alle sue dolenti illusioni, alle sue Inquiete paure. Intanto la vedova aveva trovato modo, per via d'un ex-procuratore del suo antico padrone, di far sapere ogni cosa alla mamma Caterina, affinchè, il più presto che fosse possibile, dovesse trasferirsi a Milano: a dir quel ch' era, tutto il trambusto di que giorni non le dava poco pensiero; nè si sarebbe accomodata, in caso di qualche cosa di grave, a tenersi in casa per un pezzo una giovine, che era stata una pietra di scandalo, e che in fin de' conti non le apparteneva. Per consolare Maria, le annunziò dunque che fra due o tre giorni, alla più lunga, sarebbe venuta sua madre; essendosi ella a questo fine raccomandata aduna persona di proposito, e non occorrere che altri si prendesse di ciò fastidio. Questa novella, e l' idea di trovarsi presto nelle braccia della madre, rasserenarono per quel giorno l' anima e la fronte della giovinetta; e una consolazione le ne promise vicina un' altra, quella di poter finalmente rivedere anelo il fratello. Passati tre giorni, un biroccio s'arrestava alla porta del palazzo. Era densa, la comare Caterina, venuta a Milano in compagnia del signor Gaspero, quel vecchio possidente che abbiamo incontrato più d' una volta, in questa storia nostra semplice e nostrale. Costui, ricevuta una lettera del procuratore, al quale la signora Giuditta s'era raccomandata, e inteso di che si trattasse, senz' indugio aveva persuaso alla Caterina quel piccolo viaggio; condottala con sè Como, di là noleggiata una vettura, accompagnò egli stesso a Milano, dove per abitudine capitava sempre una volta all' anno. Maria era accorsa alla finestrina del cortile. Ella guardò, vide di lontano la madre congedarsi dal suo compagno di viaggio, ne intese la voce, dimenticò tutto. Pochi momenti appresso, Caterina stringeva tra le braccia la sua povera figlia, e Maria nascondeva sul seno materno il viso, che solo per un istante si tinse ancora del suo vivo colore. Senza piangere, senza parlare, stettero così in quel dolce e prolungato abbracciamento: pareva che la fanciulla non volesse distaccarsene più. « Maria, mia buona e cara figliuola, » disse alla fine la madre. « Perchè m' hai tu abbandonata? questi sei mesi sono stati sei anni per me! Oh Madonna santa! come ti sei cambiata, povera tosa! non ti riconosco più!... Ma com' è mai che ti trovo qui? non sei più nella casa di quel signore inglese?... E voi, signora Giuditta, e mio figlio.... è qui don Carlo? ma perchè non ho io saputo niente fin adesso?... M' hanno detto ch' è ammalato.... voglio vederlo! dov' è?... ditelo, non mi fate penare!...» Queste molte domande, che alla misera suggeriva tutte in un punto il materno affetto, posero in un bel guaio la vedova; la quale s' era bene accorta come la vecchia comare fosse al buio di tutto. Maria non aveva coraggio di proferire parola; guardava, guardava la madre, senza togliere mai gli occhi da quell'amato volto, in cui la solitu- dine e il dolore avevano in poco tempo solcate più profonde le rughe dell'età. Ma, atteggiata com'era, in muta e affannosa comteplazione, la sua sembianza suscitava nell'anima di sua madre una pietà mista a terrore. Alla fine la Giuditta, fatto un po' di faccia tosta e di cuor duro, pensò: - Qui è meglio parlare; un momento o l'altro, bisogna pur ch' ella sappia tutto.... « Cara la mia Caterina, » prese dunque a 'dire, « non vi crucciate così; fatevi un po' di coraggio. » « Oh misericordia! che altro male c' è?... » « Già lo sapete, a questo mondo i cattivi sono anche troppi, e son sempre gli stracci che vanno all' aria, come dice il proverbio.... Così tocca sempre ai buoni a portare la pena dei tristi.... » « Oh santa pazienzai parlate, non mi tenete qui su le spine.... » « Eh! ognuno ha la sua croce, e c'è chi deve portarla anche per gli altri... E già si sa, bisogna star preparati a tutto.... « A che? ma dite su una volta! parla tu, Maria; che in questo modo ben più mi spaventate, mi fate morire; mio figlio sta forse male? forse.... » « No, no, sta bene, ma.... » « Signore, datemi cuore! ma che?... » Per tutta risposta, Maria non fece che gettarsi un'altra volta nelle braccia di sua madre. E la vedova raccontò tutto quel che sapeva, tacendone però la supposta cagione, per la pietà di Maria. La povera donna non volle credere a nulla; il colpo fu troppo forte, e l' anima sua semplice e piena d'amore non lo sostenne; nè pensò nemmeno a chiedere il perchè di tanta disgrazia: non poteva dubitare che il figlio non fosse innocente; il nome di suo figlio era sempre stato per lei come quello d' un santo. Stanca degli anni e sola, metteva in lui tutto il suo cuore, tutto il suo tenero orgoglio di madre; aveva speranza e vita nell' unico amato, il quale, dopo la morte del suo pover' uomo, com' essa diceva, doveva essere il padre della sua Maria. La buona donna, nella solitudine della sua dimora, che un tempo rallegravano la presenza e l' affetto de' suoi cari, e poi rimasta vôta, deserta, come un sepolcro, si consolava pascendosi dell' idea, che l' uno o l' altra avrebbero sortito modesta e onorevole condizione su la terra, e che un giorno forse, ne' suoi più tardi anni, l'avrebbero circondata di cure d' amore, e a larga mano compensata de' sacrifizii fatti, della vita tediosa che trascinava. Non si rammaricava mai di non aver altra compagnia che la vecchia Marta, perchè, conoscendo il cuore de' figli suoi, le pareva quasi d' abitar con loro, di vivere con loro, quantunque lontani; l'unico desiderio che nutrisse, era di poterli di tanto in tanto rivedere; e ogni giorno si teneva più certa di presto abbracciarli, in questa certezza essendo tutta la sua gioja. Seduta sovente al tepido sole delle mattine d' inverno, sotto la nuda pergola della casa, con la conocchia fedele, pensava alla povertà, alla pace, raccontava la storia d'altri anni, raccontava quella dell' avvenire; felice abbastanza quando parlava della sua bella Maria, o del suo curato, alla Marta che le sedeva rimpetto, pettinando le matassine del lino. E allora, senz' avvedersene, le due comari s'arrestavano dal, lavoro; all'una spezzavasi il filo della conocchia o cadeva di mano il fuso, all'altra si perdeva il lino nelle punte del pettine. Ma entrambe, in que' momenti, sollevavano al cielo gli occhi e il cuore, con un pensiero più santo d'ogni preghiera, del pari benedetto. Ma ora che diversi pensieri, che mutamento La mamma Caterina, per tutto quel dì, e per molt'altri ancora, non volle ascoltar ragione, nè consolazione, nè speranza, non domandava che suo figlio, non voleva che vederlo. Anch'essa, come prima aveva fatto Maria, figurandosi alla mente angustie e spaventi, s'abbandonava a' più tristi presagi, non porgeva più orecchio a nulla, nemmeno al piangere della figliuola. Fu allora che l'amorosa fanciulla, la quale innanzi alla venuta della madre credeva di non poter sostenere l' affanno di que' giorni, si sentì tutta invigorire. Una virtù, ignota a lei fino allora, la costanza del patimento, le raddoppiò il debole coraggio; ma la sua fermezza, la calma delle parole e degli atti, avrebbero dimostrato più crudele il martirio dell'anima a chi avesse potuto vedere il suo segreto. Soffogava le lagrime; e ne' momenti di maggior dolore, la sua voce si faceva più sicura e più affettuosa: l' avresti veduta sorridere; era un riso malinconico il suo, ma celeste. In que' giorni, sempre da uno stesso travaglio misurati, che fanno parer eterna la vita, così Maria con l' amor suo procacciava d' ingannare alla madre le ore contate dall' afflizione; ragionandole di tante cose passate, della loro casa, della vigna su la costa, della vecchia Marta, degli altri amici del paese. E ringraziava il cielo con tutta l' anima, solo che vedesse le sue parole avere temperata per poco l' amarezza della sciagura presente. Così ella nascose nel fondo del cuore tutta la sua parte d' affanni; così comprese e tolse sopra di sè quel dolore inesprimibile, che solamente al cuor delle madri non è un mistero; quell' angoscia, la quale non trova parole, nè lagrime, perchè ha de' segreti che a umano orecchio non possono confidarsi e che il cuore altrui non ha mai conosciuto. Non, v' è piaga quaggiù che il tempo non sani; l' abitudine stessa del soffrire può talvolta diventar quasi cara e necessaria; l' amore, l' ambizione, la vendetta, il rimorso lasceranno pur una volta in pace l' anima di cui han fatto strazio; ma la ferita ché porta il cuor d'una madre per a mai e de' figli suoi, non v' ha balsamo che la medichi, non felicità nè tempo che vi spargano sopra la mesta consolazione dell' obblio. Così, abbandonate, e senza saper nulla mai di quel loro caro, Caterina e Maria trascinavano giorni e settimane, in casa della vedova; la quale, dal canto suo, non aveva potuto far di meno di tenerle con sè qualche tempo ancora, quand' esse, deliberate d' aspettare che fosse decisa la sorte del prete, ne la pregarono, a patto di pagarle trenta soldi al giòrno, per le spese. Ciò veramente andava poco a' versi alla Giuditta, causa la paura di cert' altre visite della specie di quella prima, da lei non ancora dimenticata; ma poi, per amor di bene, non seppe dir di no. Una mattina, erano uscite di buon' ora le due donne per andare insieme a vendere a qualche mercante di mode un velo nero trapunto, in que' dì solitari e mesti, dalla Maria: poichè era essa, che col lavoro delle sue mani sosteneva anche la madre. A caso capitate presso la piccola chiesa di san ***, la Caterina, la quale non lasciava passar giorno che non andasse a pregare il Signore per il suo povero figliuolo e per sè, si rivolse a quella parte, e fece per entrar nella chiesa. Ma d' improvviso la fanciulla, tutta compresa dal terrore d' una funesta ricordanza, le s' era stretta al braccio, trattenendola, e con voce bassa e supplichevole: « Oh no! madre mia, non andiamo in questa chiesa; non devo, non posso entrarvi più. » « Perchè, Maria, perchè?... Cos' hai? tu tremi, diventi smorta! ti senti male? » « No! mamma, è un segreto.... un segreto che nessuno doveva conoscere! se sapeste che in questa chiesa.... O mio Dio, toglietene per sempre dal mio cuore la memoria! » « Maria, che mistero è questo? parla, dimmi.... » « Qui no, no, cara madre.... torniamo a casa, ve ne prego, e vi dirò tutto. Oh povera me, povero mio fratello! » E tornarono a casa. In quel giorno Maria non trovò parola che potesse spargere un po' di serenità su l' addolorata fronte della madre. Attendeva taciturna a' suoi lavori,

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mi pare che abbiate il vostro piccolo orgoglio anche voi.... » « Bisogna compatirla » mormorò il signor canonico: « era usa a star bene, e m' han detto che passò qualche tempo in una casa di signori inglesi.... » « Ah sì?... » domandò, strabiliando, la marchesa; « veramente, è una circostanza che non mi piace affatto.... Ma chi vi mise in quella casa forestiera » « È stata la sorte.... un caso.... io era la compagna delle damigelle di quel signore; avevo passati alcuni mesi con loro, dopo che le avevo conosciute sul lago; e fu il mio povero fratello.... » « Vostro fratello? dunque avete un fratello? » « L'ho avuto.... È morto, signora. » E non potè stare di nascondere fra le mani il volto, e le lagrime che quelle memorie le richiamavano su gli occhi. « E questo vostro fratello cos' era?... » Così, con la freddezza di un giudice processante, continuava la marchesa il suo interrogatorio. « Era vicecurato in un piccolo paese, a***. » « Come?... come?... » interruppe il canonico; e battendo la tavola con una palmata, che fece sobbalzare a un punto calamajo, vassojo, tazza e libri: « sarebbe mai questo vostro fratello il prete Carlo ***? » « Proprio lui, » proferì con fioca voce la sbigottita giovinetta, e chinò sul seno la faccia, lasciando in quell' atto cadere il velo, che prima aveva sollevato « Possibile?... oh vergogna!.. scandalo!... orrore!... Signora marchesa, signora marchesa, non ne facciamo niente.... ritiro la raccomandazione.... Non si può, la mia ragazza, non ai può So ben che ci canzonate! » Che cos' è mai? per amor del cielo! dica, signor canonico, si spieghi, ch' io mi sento venir fredda!... » E la marchesa, sbarrando con ispavento i piccoli occhi, scoteva la cuffia, a gran rischio di scompigliare le bionde sue ciocche. Il canonico si levò in piedi, e delle braccia fatto arco su la tavola, si chinò all'orecchio della marchesa, sfiorando quasi con le labbra i merletti della preziosa cuffia di lei; e le susurrò, in poche parole, non so che mistero. Ma quelle parole furono come colpo di folgore. La marchesa balzò in piedi anch'essa, con una ciera sdegnosa, stralunata; fulminò la povera giovine con un'occhiata terribile; poi, a poco a poco, si ricompose nella primiera dignità, e mutato lo sguardo dell'ira in quello d'una gelida compassione: « Andate, povera ragazza, » le disse, « andate! Io ne sono proprio accorata, ma non posso far niente per voi.... la cosa è troppo, troppo seria. Voi forse non ne avete colpa, ma le leggi, il governo, la religione e la quiete della mia coscienza, vogliono così; è impossibile, impossibile!... » Ciascuna di queste dure parole apriva nel cuore di Maria una ferita. Una maledizione le era dunque caduta sui capo, una maledizione terribile, immeritata, che faceva altrui delitto la pietà verso l'infelice orfanella? Era l' infamia che pesava sopra il nome di suo fratello, sopra quel nome innocente e caro? Essa tremava, come veramente fosse colpevole; la sua mente si smarriva, nè so qual forza la sostenesse in quella difficile prova. S'avanzò con sommessione, com' era venuta, verso la sdegnata marchesa; timida arrischiò un passo, e tentò di baciar la mano di lei, per chiederle perdono d'averla sturbata. Ma la pia e superba dama ritirò la mano, e la congedò dicendo: « Mi rincresce, la mia giovine; ma, per ora, non m' è concesso assolutamente di potervi far del bene. Chi sa che col tempo.... Piuttosto, cercate ricovero in qualche casa oscura, in uno stabilimento di carità, in un ritiro.... sarà meglio! E intanto, tener lontano i pensieri mondani, avvezzarsi alla modestia, al raccoglimento.... e sopra tutto poi , alla rassegnazione. Quanto a me, vi prometto, se m'avverrà, spenderò forse per voi qualche buona parola anch' io.... ma dipenderà dalla vostra buona condotta. » Così detto, si volse al suo fedele consigliere, facendosi a parlargli in segreto, e con gran calore. Maria trovò nella galleria la vecchia Giuditta; la quale, rassegnata ad aspettarla, erasi a tutto bell'agio accovacciata entro un gran seggiolone del seicento, sotto i piè d' uno degli antenati della marchesa; uno di que' cinquanta ritratti, con irti mustacchi, gorgiera alla spagnuola, cappa bruna, e brache gonfie e listate. E, come vide Maria, le venne incontro con volto sereno, che voleva dire: - E così? siete contenta? Ma la fanciulla, tutt' ancora confusa, le prese tremando la mano, e stringendosele vicino: « Andiamo, » le disse, « andiamo via! Oh lei, signora Giuditta, è più buona di toro: lasciamo per carità questa casa, le dirò tutto poi. » - E partirono. Fu dopo questo, e dopo un novello inutile tentativo presso d'un'altra caritatevole signora, la quale trovò Maria d'età troppo fresca, per essere cameriera di una sua figliuola sposa, fu allora che la povera giovine accettava di collocarsi, come ricamatrice, nella bottega d'una crestaja , una delle cento amicizie antiche della signora Giuditta. E si tenne abbastanza fortunata, chè almeno in quell'oscura vita nessuno le avrebbe rimproverato il dolore, la sua misera condizione; nessuno sarebbe venuto a ripeterle all'orecchio una maledizione all' infelice fratello suo. Così aveva passato già sei mesi nella povertà e nel lavoro, paziente e tranquilla. Era come fosse già morta per tutti; nessuno che domandasse il suo nome, nessuno che le dicesse una parola amorosa, o le avesse chiesto mai il perché della sua tristezza. Anche la signora Giuditta, da prima così premurosa, così affannosa', pareva averla di- menticata; poiché, appena le venne fatto d'appoggiare altrove la fanciulla, non si lasciò più tampoco vedere. Non già ch'ella fosse senza cuore, ma voleva respirare da quel gran trambusto avuto in poco tempo, ché non s' era figurato mai potesse succeder tanto al mondo a una donna. Maria però era venuta più d'una volta a visitarla, perché già non avrebbe potuto dimenticar mai il più piccolo bene a lei fatto; e poi, quel luogo era stato l'ultimo asilo della madre sua, innanzi che l'avessero portata via, all'ospedale; era là, che il suo Carlo l'aveva condotta in un giorno di fatale disinganno; era là, che essa l'aveva veduto l'ultima volta. L'onesta crestaja la teneva in casa sua, avendole destinata una cameretta buja, a mezzo la scala, che prima serviva di ripostiglio, e che rispondeva sur un cortiletto angusto e uggioso. In quel bugigattolo altro non c'era che un cassettone, un letto gramo e basso, o piuttosto uno sdrucito materasso gettato su due panche nane, e un piccolo scanno nella stradetta fra il letto e la parete. Una luce morta, rabbujata dal colore delle tettoje all' intorno, calando a traverso dei piccoli vetri verdognoli della finestra inferriata, dava a quell'umide pareti un aspetto più tristo ancora, e quasi di carcere. Eppure la buona orfanella, quando si trovava, nel misero asilo, dove poteva pensare o piangere non veduta, credeva ancora di esser libera; essa, che un tempo temeva, di restarsene sola, allora cercava, amava il silenzio e l'ora solitaria. E quando, dopo l'assiduo lavoro della giornata, ritornava alla tarda sera nell'abbandonata cameretta; e quando, in ginocchio, a fianco del suo letto, chino il viso su le povere coltri, offeriva al Signore il giorno ch'era passato, il Signore allora spirava in quell'anima verginale l'alito della rassegnazione e della pace. E poi, ella coricavasi col cuor libero, con la mente serena, dormiva ancora i soavi sonni dell'infanzia. E l' angelo custode vegliava certamente sopra il capezzale della fanciulla. Così dunque Maria aveva passato que' sei mesi. E nel giorno de' morti, era venuta su la fossa della madre, fra i poveri e i buoni, a portare anch' essa il tributo della sua orazione a quel Dio che benedice il dolore prezioso de' piccoli, e rasciuga le loro lagrime.

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Ora abbiate voi compassione di me, salvatemi voi, fate ch' io fugga subito da questa casa! » « È impossibile! come volete ch' io faccia? è impossibile adesso! dove vorreste andare? Pensateci; e domani, o posdomani, qualche pretesto non vi mancherà. » « No, domani no! adesso, vi dico, adesso.... sono nelle vostre mani, salvatemi, salvatemi! » E piena di raccapriccio e di spavento guatava per il bujo del corridore, come già temesse l'avvicinarsi dell'odioso padrone. « Non sapete » ripigliava Michele « quel ch' arrischio solo per avervi avvisata? il mio pane per tutto il resto della vita; sarei cacciato di qui; e dove trovare chi voglia di me, vecchio e gramo come sono?... » « Anche voi m'abbandonate, buon Michele? Ebbene, Dio mi darà forza; dovessi anche gettarmi dalla finestra, domani non sarò più in questa casa! » « Oh! siete voi che parlate così, Maria? No, no, farò tutto, farò quel che volete. Sentite dunque.... » « Che il cielo vi benedica! ma ch' io fugga sul momento.... Domani, questa notte.... qui sarei già morta! » « Sentite bene! raccogliete quale le cosa del vostro; poi, senza strepito, zitta e lenta, andate a basso, ch' io sarò giù ad aspettarvi appiè della scala.... Per una fortuna del cielo, ho qui una vecchia chiave dello sportello; vi metterò fuori, e se v' accontentate d' un povero cantuccio per questa notte bussate a una porticina qui poco lontano, la seconda, votato il canto: vi stanno una mia sorella e Brigida la mia figliuola, dite che vi mando io; v'apriranno, e sarete la ben venuta: domani poi, all'alba,verrò anch' io; intanto il Signore v' inspirerà che cosa fare. » « Ch' Egli vi dia del bene! non sarà mai che il mio cuore dimentichi un benefizio così grande.... » E stringeva con affetto all'onesto famiglio le mani, su cui cadeva una sua lagrima, una lagrima di riconoscenza. Questo colloquio agitato, sommesso, fu cosa d'un momento. Un momento dopo, Michele era scomparso; e a tentane attraversando la stanza vicina e l'antisala, con gran cautela disserrò I' uscio che rispondeva sul pianerottolo della scala; lasciatolo socchiuso, discese, ponendosi, con animo inquieto, ad aspettare presso la porta di strada. Maria intanto, tutta smarrita e tremante, era rientrata nella sua camera, nè potendo sopportar l'angoscia che le toglieva quasi il respiro, abbandonavasi su d'una seggiola, benchè sentisse bisogno più che mai di riacquistare tutto il suo coraggio. Poi, riscossa da quel breve letargo, al destarsi di nuovo spavento, si racconciò in fretta nella sua semplice vesta, e s'era mossa per uscire, quando le sovvenne di portar con sè il rosario benedetto che sua madre le aveva dato al punto di morte. Tornò indietro, lo cercò fra le cose sue, colà lasciate; e trovatolo, con santo pensiero infantile, nè sapendo quasi più che facesse, se lo pose al collo. In quella, apparve su l'entrata della camera la stupida, esosa figura del signor Cipriano. Egli aveva trovato schiuso l'uscio; nè volle di meglio; chè, vinto il primo passo, si teneva sicuro. S'avanzava pian piano, con un andar rotto, incerto; sul volto acceso gli si leggeva il sinistro ghigno, d'una compiacenza che aveva qualcosa di bestiale. Volendo parlare, balbettò; ma, al primo vederlo, la fanciulla mise un disperato grido, un grido soffogato dal terrore, e corse a nascondersi nel più lontano angolo della stanza. Il vecchio continuava ad avvicinarsi tentennando, sogghignando, e te. neva sovr' essa gli occhi intenti e bramosi. Giunto presso alla debole sbigottita creatura, la quale, rannicchiata sul pavimento, tentava farsi scudo delle braccia, nè osava respirare, come se un respiro avesse potuto perderla, il vile vecchio distese la destra per sollevarla dal terreno, e chinossi lentamente sopra di lei. Allora, inspirata da verginale coraggio, la giovinetta alzò la testa, e con uno sguardo innocente, sublime, ardente di disprezzo e di vergogna, fissò la delirante faccia del vecchio, il quale, colto da involontaria tema, ristette scompigliato, e diede addietro. Essa continuava a guardarlo senza dir parola: quell'aspetto laido, abbominevole, le suscitò tal fremito nell'anima, ch'ella, per salvarsi dall'orrore che sentiva, come dall' apparizione d' un demone, strinse fra le mani la sacra medaglietta del rosario che le pendeva sul seno, e la baciò. Quel bacio fu una preghiera, un voto. Il vecchiardo, il quale, non aspettando quel contrasto, temeva vedersi fuggire di mano la preda, fece i due passi che lo dividevano da lei, e chiamandola a nome, e ringhiando, allungò di nuovo le braccia per afferrarla; ma la fanciulla con un rapido balzo distaccossi da lui, e corse verso l'uscio. Allora, fatto più audace dall'impensata resistenza, il vecchio le attraversò la via, brancicando qua e là, e dando pugni all' aria per trattenerla nella sua fuga: sentendo la poveretta invocar misericordia e soccorso, ruppe in maledizioni, e nell' inseguirla giunse un momento ad afferrarla per le mani; ma, all'impuro tocco, poco mancò che Maria non cadesse svenuta. Egli mischiava intanto preghiere e bestemmie con rauca voce, ripeteva parole insensate, atroci; e co' denti serrati per l' ira, quasi schizzando fuoco dagli occhi grifagni, minacciava, minacciava d'ammazzarla se non tacesse. In quel punto terribile, la fanciulla, raccolta la poca lena che le rimaneva, e sostenuta da virtù sovrumana, superando l'orrore, fece sembiante di cedere alla brutale forza che la trascinava.... Poi, con un' improvvisa stratta, si sciolse dal feroce abbracciamento del vecchio, e sorta di lancio, con impeto, dallo spavento fatto più grande, lo respinse lontano, gridando: - « Lasciatemi, infame! il Signore vi punisca!... lasciatemi! » Il vecchio demente, mezzo ebbro e arrancato com' era, rinculò barcollando, vacillò, e cadde rovescioni sur una tavola; e traendo seco a ridosso la tavola, il lume e ogni altra cosa, stramazzò con un tonfo sul terreno, nè potè rialzarsi: ammaccato e malconcio, andava lamentandosi con un rantolo affogato, interrotto; finchè giacque immobile, riverso nel lurido sfinimento dell' ebbrezza. Maria era fuggita.

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Io non vi rivedrò finché non abbiate fatto miglior senno. » - E ogni ragione fu inutile. Ma Arnoldo non rinunciò alla sua affettuosa speranza. Prese a pigione una piccola casa, che non era a più d'un miglio di quella villa; abbastanza contento, se gli avvenisse d'incontrare le sue buone sorelle o sul lago, o sui sentieri della montagna. Con loro, egli ingannava molte ore, ragionando di tante cose, di tante memorie che portava nel cuore. La storia di codesta vicenda famigliare potrà, cred'io, spiegare la sdegnosa tristezza del lord, e l'amorevole preghiera delle due fanciulle, in quella mattina.

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voi, ministro del Signore, abbiate compassione del fuggiasco perseguitato.... » E qui abbassò la voce, e fatto un passo verso di me, dopo essersi di nuovo guardato dietro le spalle: « Io sono Alberto ***: fui vostro amico! » Era colui che m'avea tradito. Quello che passasse in quel momento nel mio cuore, non voglio nè potrei scriverlo. Egli dimorò sotto al mio tetto due dì e due notti, nè io gli domandai se fosse innocente, o perchè avesse scelto ricovero nella casa d'un uomo a cui egli aveva fatto tanto male, e che fors' anche avrebbe potuto restituirgli il suo tradimento. Ah no! mai, mai! Colui che uccide è più misero di chi rimane ucciso: egli mi credè generoso e incapace del delitto di che spensieratamente, e per leggiere cause, non dubitò farsi reo contro di me. Io non so le conseguenze, le quali per la mia pietà potrei incontrare; ma non le temo. Nè fu pietà la mia, fu giustizia. A lui diedi tutto quel poco denaro che avevo, pregai per esso il Signore, e in quel momento dimenticai tutto il passato. Egli era più che amico mio, era fratello; Dio solo, Dio che mi lesse nel fondo dell'anima, mi giudicherà! Quando volle partire, io gli aveva stesa la mano e lo contemplava fissamente senza far motto. Mi parve commosso, soggiogato dalla memoria di quello che fu tra me e lui: mi guardò egli pure , poi mi si gittò al collo, e pianse. 3 di maggio. . . . Nessuna novella del fuggitivo. Che il cielo l' accompagni! Il mio cuore s' è allargato nella pace di prima sono rassegnato e tranquillo nella mia coscienza. Non so spiegarmi come non ricevessi ancora riscontro alcuno da ***, e da *** alle ultime mie lettere.... Queste note e questi pensieri trovai qua e la sparsi sopra alcuni brani di carta frapposti alle pagine del manoscritto erano per avventura frammenti o postille di guaiate libricciuolo messo in luce, senza nome, in altro tempo. Ne tenni conto, perchè panni che rivelino meglio quali fossero la mente e il cuore del vicecurato. « Molti presuntuosi reputano impossibile tutto ciò che per loro o non si sa o non si fa; moltissimi considerano le grandi cose che non intendono, o che non sono capaci di operare, come inutile fatica d' un esaltato fanatismo; e stanchi prima d' intraprendere, si addormono sui morbidi ma dannosi letti dell' ozio. Tanto è superbo l' amore di noi stessi per non confessare la propria ignoranza e la propria debolezza; tanto è artificioso per giustificarla; tanto è ingiusto per assolverla! Frattanto l' infingardaggine si scusa colla pretesa impossibilità alle grandi cose, per non confessare il timore dell' utile fatica; e il vizio colla pretesa loro inutilità, per non denunciarsi da sè medesimo vile e iniquo; l' infingardaggine e il vizio diventano costume e perchè ciò che non è il costume dei più, sia tristo, sia buono, si chiama fanatismo e pazzia, ogni bello e generoso ardire vien collocato indegnamente in quest' ultima classe. .... « L'uomo contempla, rappresentata ne' grandi genii, in una pompa la più solenne e nella sua più illustre magnificenza, la propria natura: una sublime compiacenza lo fa inorgoglire delle proprie forze; l' animo s' eleva ai più ardui concepimenti; il cuore s' infiamma ai plà scabrosi sperimenti; nulla più si tollera di mediocre, senza una nausea mortale e un magnanimo disprezzo. » .... « Nella rivoluzione de' tempi occorrono età cosi sciagurate per corruttela di costume, e cosi impudenti per abitudine di vizio, che portano in trionfo la colpa, infamemente la collocano sugli altari della virtù, e, per averle cangiato nome, reputano di purgarsi da sacrilega idolatria. Allora, gentilezza di modi le mollezze, gloria l' oro, mo- destia destia la viltà, prudenza il timore, umiltà la codardia, obbedienza la venalità, senno il raggiro, economia l' usura, avvedutezza la frode, laude l'adulazione, belle arti la lussuria; in una parola, la colpa virtù. Tale è il rovescio miserando e scandaloso che si fa d' ogni buono in cattivo, quasichè, per mutar di vocabolo, mutino le cose: ma dando così chiaro a vedere che ogni uomo sente che non è stromento di scelleratezza, e che tale è necessità per esso la virtù, che il delitto non abbraccia se non colorato dalle tinte di quella. Anche scellerato, ama d' ingannarsi che non è; epperò, perdendo la virtù, ne conserva la divisa, onde molta è la ciurma degl' ipocriti: e così, se dappertutto ove sono uomini il delitto ha schiavi, in nessun luogo regna a fronte scoperta. Quindi accade che, se in così fatti tempi sorge un magnanimo amico della virtù e del vero, tutti se gli fanno intorno co' sassi; ed è ben conseguente, perocchè se giunga face là ove tutti hanno bisogno di tenebre per ascondere la colpa, tutti si sforzano di spegnerla subitamente. Delitto dell'amore di noi medesimi, che giustificando i propri errori è pur d'uopo che le virtù contrarie condanni per evitar contraddizione: sicchè in cuore invidia l'altrui virtù, e col labbro la lacera e la condanna. Del resto, la verace virtù che passeggia nel mezzo alla finta, tacitamente denunzia la colpa nascosa sotto le sue larve, e coll' opera del paragone squarcia la veste dell' impostura la più veneranda e la più astuta. Allora si distingue la virtù dall'ipocrisia che fa studio d'imitarla, coll' eguale facilità che da un re di scena un re da trono: ed è per questo che in tale condizione di tempi la virtù e la sapienza sono guardate come due possenti nemiche; è per questo che solo compaiono attraverso lo squarciato manto d'un' illustre povertà, e che sempre le ritrovi fuggiasche sulle spinose vie della persecuzione, e spesso ancora fra le catene, e dentro la carcere dell'omicida e del ladro. » .... « Le grandi speranze e i grandi sforzi sono dei generosi; le forti presunzioni e i deboli attentati, de' superbi.... Io tutto spero, tutto tento, nulla presumo! » .... « Se è vero che dal conoscere scende ogni volere, e dal volere ogni .operazione umana, con cui si satisfà all'inesorabile bisogno, si accontenta il desio insaziabile, e si avverano le indelebili speranze, nella cui somma soltanto può essere riposta quella felicità ch' è data ai mortali; se è vero, io dico, tutto questo, deve scusarsi la nostra curiosità che tutto ad un solo sguardo vorrebbe possedere lo scibile umano. Anzi questa curiosità io la reputo come il possente motivo onde la natura invita l' uomo a ricercarla nel sacrario della scienza: come col desio della felicità lo spinse alle perenni agitazioni delle sorti mortali. Quindi è che, una volta messa sulle vie delle indagini per un sì grande impulso, non già s'avanza gradatamente e con tarda saggezza, contenta ad un vero discreto; ma impaziente delle sagge dimore della riflessione, si avanza baldanzosa, prima fidata al solo probabile, poi al verisimile, ed in ultimo anche al falso in colore di vero; e così, per volere acquistare la vetta per la più spedita via, corre la più lubrica; e correndo questa, bene spesso precipita al basso. A spogliar la cosa di veste metaforica, fatto è che quando cessa il vero, ce lo fabbrichiamo coll' ipotesi del nostro cervello; e vien poi una demenza filosofica, che delira argomenti in suo soccorso; i quali, accreditati dall' umano orgoglio e dall'umana ignoranza, gli ottengono la cittadinanza del vero; e così, come dicevano i Greci, si abbraccia la nube per la diva. - Non già ch' io abborra dall' uso giudizioso dell'ipotesi: so benissimo ch' essa sola batte alle porte della verità; anzi m' aggrada quella sua audacia con che la sollecita a parlare e le squarcia il velo più misterioso. Mi rammento di Newton, che con essa s' innalzò in mezzo de' cieli e che da essa imparò come due mirabili forze equilibrino i firmamenti. Io abborro che lo stromento diventi la cosa, che la via si reputi la meta, e voglio che l' ipotesi non si usurpi nome di realtà, ma che con felice metamorfosi si cangi in essa. Ma pur troppo più persuadono i nomi che le cose: onde il fatto inesorabile bene spesso appalesa le gradite menzogne di noi stessi: decipimur specie recti. » .... « La feconda meditazione de' grandi, tacita e nascosa ne' suoi preziosi ritiri, non ha nemmeno l' applauso che il saltimbanco ottiene sul trivio; anzi spesso dal volgo le sue sapienti lentezze e le sue cautele da precipitato giudizio s' imputano a colpa, e si accusano d' ozio e di pi- grizia. Ma i grandi, sdegnosi di piatire con una plebe che ha bisogno d'assiduo cicaleccio, per non morir d' inedia sulla vie e ne' fori, ne confondono le menzogne, recando in pubblica luce il frutto delle loro nascoste fatiche. » « Le più sublimi speranze non bisogna misurar col solo calcolo del corto soffio dell' umana vita. Non bisogna solo calcolare quanto possa l'individuo; ma quanto può la specie, la cui vita è lunga come la sua perfettibilità. L'orgoglio umano è una menzogna quasi sempre nell'individuo; ma spesso nella specie è una verità; è uno sprone a quanto ella di fatto può. Questo esiste in ogni individuo; e ognuno, al divisamento, è pari all' idea che lo move; ma, all' opera, non potendo quanto la specie, ciò che non sa non fa, lo reputa per un cotale astuto giro dell' amor di sè stesso, o inutile o impossibile. - Ma la specie, all'opposto, può di più che non sappia: ognuno porti quel masso che reggono le sue spalle, e l'edificio s' innalzerà verso il cielo saldo e sublime. Io l'ho detto: Umana perfezione? un sogno: - Umana perfettibilità? una via di cui non conosco la meta, ma sulla quale io pure cammino.

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abbiate pazienza. Anche questa volta, mamma Caterina la confortava Arnoldo. « La speranza del rivedersi è intanto qualche cosa: io poi vi darò spesso notizie di vostro figlio, perchè gli ho promesso d'andare a visitarlo a****. » « Lei è proprio un buon signore! » rispose, in atto di render grazie, la madre. « Oh sì, » aggiunse Maria, con voce soave, ma così timida e fioca che Arnoldo l' intese appena. « Fatevi pur cuore, nè mettete di malanimo anche me. Già bisogna che sia così! » diceva don Carlo. « Ma credetelo, amico, » riprese Arnoldo, « m'ero assuefatto così bene a passare i dì con voi, in questa contrada! « Errando in vostra compagnia da qualsiasi banda, ogni paesetto, ogni villa aveva la sua storia, ogni montagna, ogni rupe il suo nome; e temo che mi costerà il divezzarmi.... » « Lei è un signore » soggiungeva Caterina, « e non vorrà pensare a noi.... » « Che cosa dite? anzi, se non me lo negate, voglio far conoscere le mie sorelle a voi e a vostra figlia, che siete così amorevoli e buone. » « Oh signore! noi avremo vergogna » rispose la madre. « No, non può essere, ve n' assicuro. » « Oh desideriamo tanto di conoscerle » soggiunse vivamente e arrossendo alcun poco Maria: « tra noi ci vorremo bene. » Quella sera, l' ultima ch' egli passava presso de' suoi, chi sa per quanto tempo, don Carlo rimase fino a ora tarda con le donne, le quali a malincuore pensavano al domani. Anche Arnoldo stette un buon pezzo in quella modesta compagnia, fra que' dolci colloquii familiari, in cui si ripetono tante lievi e care cose, e s'avvicendano parole di consiglio, di ricordo, d'aspettazione. L' animo suo sentiva una pura contentezza; e quando, salutato di novo l'amico, tornò per la riva del lago alla villa, ripensava alla buona famiglia, e gli pareva che il suo cuore rimanesse là, in quell' angusta cameretta.

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L'uccellino azzurro

212895
Maeterlink, Maurice 1 occorrenze
  • 1926
  • Felice Le Monnier, Editore
  • Firenze
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Non abbiate paura.... (Alcune Tenebre e alcuni Terrori, sotto l'aspetto di persone velate, quelle con veli neri, questi con veli verdognoli, arrischiano timidamente qualche passo fuori della caverna; ma a un gesto appena abbozzato di Tyltyl, rientrano precipitosamente). Su, coraggio!... Non vedete che è un bambino?... Che male può farvi?... (A Tyltyl). Sono diventati costì timidi, tutti, meno i più grandi, quelli laggiù in fondo.... TYLTYL (guardando in fondo alla caverna) Dio! Mettono spavento a guardarli... LA NOTTE Sono incatenati.... Essi soli non hanno paura dell'Uomo.... Ma ora chiudi la porta; se no si arrabbiano.... TYLTYL (andando verso la porta appresso) Guarda!... Questa qui è ancora più cupa. Che cosa c'è qua dentro?... LA NOTTE Dietro a questa porta ci sono molti Segreti.... Se proprio ci tieni, puoi aprirla.... Ma ti consiglio di non entrare.... Sii prudente; e noi, teniamoci pronti a richiuderla presto, come abbiamo fatto per le Guerre.... TYLTYL (schiudendo la porta con infinita precauzione, e inoltrando timidamente il capo attraverso lo spiraglio) Oh!... Che freddo?... Mi frizzano gli occhi!.... Presto, chiudete!... Spingete forte!... Fanno forza dal di dentro contro la porta... (La, Notte, il Cane, la Gatta e lo Zucchero chiudono a forza la porta). Oh che cosa ho visto!... LA NOTTE Che cosa? TYLTYL (sconvolto) Non so, ma metteva spavento!... Stavano lì seduti come tanti mostri senza occhi.... Chi era il gigante che voleva acciuffarmi?... LA NOTTE Probabilmente era, il Silenzio; ce l' ha lui in custodia questa porta.... Ma era dunque tanto spaventoso a vedersi?... Sei ancora pallido e tremi tutto.... TYLTYL Sì. Non avrei mai creduto.... Ho le mani gelate.... LA NOTTE Vedrai qualcosa di ancora più terribile se ti ostini a voler andare avanti.... TYLTYL (andando alla porta accanto) E dietro a questa?... Ci sarà qualcosa altrettanto orribile?... LA NOTTE No.... Qui c'è un po' di tutto.... Ci metto le Stelle disoccupate, i miei profumi personali, alcune Luci di mia particolare proprietà, come i Fuochi fatui, le Lucciole.... Ci rinchiudo dentro anche la Rugiada e il Canto degli Usignoli.... TYLTYL Ah, le Stelle, il Canto degli Usignoli!... Dev'essere proprio questa.... LA NOTTE Apri, apri pure, se vuoi.... Tutte cose innocue.... (Tyltyl spalanca la porta. Le Stelle, sotto l'aspetto di belle giovinette velate da luci multicolori, fuggono subito fuori dalla loro prigione; corrono qua e là per la sala e formano sui gradini e intorno alle colonne dei graziosi girotondi rischiarati da una specie di penombra luminosa. I Profumi della Notte, quasi invisibili, i Fuochi fatui, le Lucciole, la Rugiada trasparente si uniscono ad esse, mentre il Canto degli Usignoli, uscendo a fiotti dalla caverna, inonda il palazzo della Notte). MYTYL (entusiasmata, battendo le mani) Oh! Che belle signore!... TYLTYL E come ballano bene!... MYTYL E come sono profumate!... MAURICE MAETERLINK. - L'Uccellino Azzurro. 7 TYLTYL E come cantano bene!... MYTYL Chi sono quelli laggiù che si vedono appena?... LA NOTTE Sono i Profumi della mia ombra.... TYLTYL E quegli altri che sembrano fatti di vetro filato?... LA NOTTE Sono le Rugiade delle foreste e delle pianure.... Ma ora basta. Non la smetterebbero più!... Se sapeste che fatica ai farli rientrare là dentro, se fanno tanto di cominciare a ballare!... (Battendo insieme le mani). Via, presto, voialtre Stelle!... Non è il momento, ora, di ballare.... Il cielo è coperto, grossi nuvoloni appaiono qua e là.... Via, sbrigatevi, rientrate tutte, altrimenti chiamo un raggio di sole.... (Le Stelle, i Profumi, ecc. fuggono via spaventati e si precipitano nella caverna la cui porta si richiude dietro di loro. Intanto cessa anche il Canto degli Usignoli). TYLTYL (andando verso la porta di fondo) Eccoci al grande portone centrale.... LA NOTTE (con accento solenne) Non aprirlo!... TYLTYL Perchè?... LA NOTTE Perchè è proibito. TYLTYL Allora è segno che là dentro c'è l'Uccellino Azzurro.... La Luce me l'aveva detto.... LA NOTTE (maternamente) Ascoltami, bambino mio.... Sono stata finora buona e compiacente.... Ho fatto per te quello che non avevo mai fatto per nessuno.... Ti ho rivelato tutti i miei segreti.... Ti voglio bene, sento pietà per la tua giovinezza, per la tua innocenza, e ti parlo come ti parlerebbe una madre.... Ascoltami, dàmmi retta, bambino mio; rinunziaci, non andare più oltre, non tentare il Destino, non aprire quella porta!... TYLTYL (un poco scosso) Ma perchè?... LA NOTTE Perchè voglio salvarti.... Perchè nessuno, intendi, nessuno di coloro che hanno osato di socchiuderla, appena appena, foss'anche per lo spessore di un capello, è ritornato vivo alla luce del giorno.... Perchè tutto quello che si può imaginare di più spaventoso, tutte le peggiori angoscie, tutti gli orrori di cui si parla nel mondo, sono un nulla in paragone a ciò che di meno terribile assale l'uomo non appena il suo sguardo si affissa sull'orlo di quell'abisso al quale nessuno osa dare un nome.... Tanto che io stessa, vedi, se tu nonostante tutto ti ostinassi a voler aprire quella porta, io stessa dovrei pregarti di aspettare finchè io fossi al riparo dentro alla mia torre senza finestre.... E ora rifletti, decidi tu.... (Mytyl, tutta in lacrime, getta urli di terrore cercando di trascinare via con sè Tyltyl). IL PANE (battendo i denti dalla paura) Non aprite, non aprite, padroncino caro! (Gettandosi in ginocchio). Abbiate pietà di noi!... Ve lo chiedo in ginocchio.... La Notte ha ragione.... LA GATTA State per sacrificare la vita di noi tutti.... TYLTYL È inutile.... Debbo aprire quella porta!... MYTYL (singhiozzando e pestando i piedi) Non voglio!... Non voglio!... TYLTYL Voi, Zucchero e Pane, prendete Mytyl per la mano e scappate con lei.... Ora apro LA NOTTE Si salvi chi può!... Presto!... Presto!... (Fugge). IL PANE (fuggendo smarrito) Aspettate almeno finchè siamo arrivati in fondo alla sala.... LA GATTA (fuggendo anch'essa) Aspettate! Aspettate!... (Si nascondono entrambi dietro alle colonne, dalla parte opposta della sala. Tyltyl resta solo col Cane, presso la porta monumentale). IL CANE (affannosamente, pieno di terrore contenuto) Io rimango.... rimango con te.... Non ho paura, io.... Io rimango!... Rimango vicino al mio piccolo dio.... Io rimango! Io rimango!... TYLTYL (accarezzando il Cane) Bravo, Tylô, bravo.... Qua, un bacio.... Siamo in due.... E ora, in guardia!... (Introduce la chiave nella serratura. Un urlo di terrore parte dal punto opposto della sala, dove si sono rifugiati quelli che sono fuggiti. Non appena la chiave ha toccato la porta, i grandi battenti si aprono nel mezzo, scorrono lateralmente e spariscono a destra e a sinistra, nella grossezza del muro, scoprendo a un tratto, immerso nella luce notturna, un maraviglioso, irreale, sconfinato giardino di sogno nel quale, fra le stelle e i pianeti, dei fantastici uccellini azzurri, illuminando tutto ciò che toccano, volando senza posa di pietra in pietra, da un raggio di luna all'altro, fanno perpetue armoniose evoluzioni fino agli estremi confini dell'orizzonte. Sono innumerevoli, e paiono essi il soffio, l'azzurra atmosfera, l'essenza stessa del giardino maraviglioso. Tyltyl, abbagliato, sperduto, immerso nella luce che emana dal giardino). Oh!... il cielo!... (volgendosi agli altri che erano fuggiti). Venite!... Venite!... Eccoli!... Son loro! Son loro! Son loro!... Finalmente!... Migliaia di uccellini azzurri!... Milioni!... Miliardi!... Troppi!... Vieni, Mytyl!... Vieni, Tylô! Venite tutti!... Aiutatemi! (Gettandosi fra gli uccellini). Si possono prendere con le mani!... Non sono selvatici, no.... Non hanno paura di noi!... Venite qua! Venite qua!... (Mytyl e gli altri accorrono. Entrano tutti, meno la Notte e la Gatta, nel giardino maraviglioso). Guardateli!.... Son troppi.... Vengono sulle mani!... Guardate, si nutrono di raggi di luna?... Dove sei, Mytyl?... Ci sono tante ali azzurre, tante piume in giro, che non ci si vede più.... Non morderli, Tylô!... Non far loro male!... Prendili piano piano.... MYTYL (tutta circondata da uccellini azzurri) Ne ho già presi sette!... Oh, come sbattono le ali!... Non posso, teneteli.... TYLTYL Nè anch'io!... Ne ho troppi!... Volano via!.. Tornano!... Anche Tylô ne ha presi!... Ci portano in alto con loro.... Ci portano in cielo!... Vieni, usciamo da questa parte!... La Luce ci aspetta.... Come sarà contentai... Venite di qua, di qua.... (Fuggono via dal giardino, le mani piene d'uccellini che si dibattono, e attraversando la sala in una confusione di ali azzurre escono a destra, da dov'erano prima entrati, seguìti dal Pane e dallo Zucchero i quali, soli fra tutti, non hanno preso neanche un uccellino. La Notte e la Gatta, rimaste sole, risalgono verso il fondo, guardando ansiosamente verso il giardino). LA NOTTE Non l'hanno mica preso, spero?... LA GATTA No, lo vedo lassù, su quel raggio di luna.... Non hanno potuto raggiungere, era troppo in alto.... (Cala la tela. Subito dopo, davanti al sipario calato, entrano simultaneamente, da destra la Luce, e da sinistra Tyltyl, Mytyl e il Cane, tutti quasi nascosti sotto gli uccellini che hanno preso. Ma questi appaiono giù inanimati, e, il capo penzoloni e le ali spezzate, non sono più nelle loro mani se non delle spoglie inerti). LA LUCE Dunque, lo avete preso?... TYLTYL Sì, Sì ! E non uno solo!... Ce n'erano a migliaia!... Eccoli!... Guarda!... (Guarda gli uccellini, nell'atto di porgerli alla Luce, e si accorge che sono morti). O Dio! Sono morti.... Come mai?... Anche i tuoi, Mytyl?... Anche quelli che ha, preso Tylô!... (Gettando con collera in terra i cadaveri degli uccellini). Ah no, è una cosa terribile!... Chi li hai uccisi?... Oh, come sono infelice!... (Si nasconde la testa col braccio, e scoppia in singhiozzi). LA LUCE (stringendolo maternamente fra le braccia) Non piangere, bambino mio.... Tu, non avevi preso l'uccellino che può vivere alla luce del giorno.... Quello era volato via, chi sa dove.... Ma lo ritroveremo!... IL CANE (guardando gli uccellini morti) Mi permetti di mangiarli?... (Escono tutti da sinistra).

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