Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Quell'estate al castello

213740
Solinas Donghi, Beatrice 8 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
  • Paraletteratura - Ragazzi
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Abbiamo fatto un altro po' di passi nella nuova direzione che la galleria aveva preso, cioè, come si capí poi, tornando verso la prima grotta, ma dentro il muraglione invece che fuori. Stop di nuovo. - E adesso perché ti fermi? - C'è un muro, non si può proseguire. - Siamo arrivate in fondo, allora! - No, è aperto. Cioè, il muro mi arriva solo alla vita. Aspetta, ora ci guardo. Alzai il raggio della pila, muovendola con precauzione qua e là, mentre Ippolita per la curiosità dimenticava gli idem come sopra e si faceva avanti anche lei. Cosí abbiamo visto insieme e siamo rimaste senza fiato tutt'e due. Al di là di quel muretto la galleria si allargava formando come una stanza, una sala col soffitto a volta, tutta piena d'acqua. Acqua ferma come un olio, nera come il catrame; il cerchiolino di luce della pila ci

Però al trovatore e alla dama non abbiamo piú giocato, dopo quel primo giorno.

In quel preciso momento tutt'e due abbiamo capito che cosa poteva, anzi doveva succedere poi. Stavamo anche per dirlo a voce, aprendo la bocca assieme, quando... BOM! BOM! BOM! BOM! Niente paura, non è che fosse scoppiata la guerra mondiale. Era solo Remigio che suonava il gong per annunciare che il pranzo era pronto. Mi son dimenticata di dirlo prima che avevano quest'uso; era una cosa stilé ma anche molto pratica, perché gli risparmiava di venirci a cercare uno per uno in tutto il castello. - Uh, il gong! - strillò Ippolita e mi piantò lí per scappare in bagno a mettersi in ordine prima di scendere. In queste cose era precisa come un soldatino, l'avevano abituata cosí, e poi oggi aveva da darsi anche una bella rinfrescata alla faccia, se non voleva che gli zii capissero subito che c'era qualcosa. In quanto a me, scappavo già come una lepre verso camera mia. Avevo ancora troppa soggezione di loro per presentarmi a tavola senza aver fatto un po' di toeletta, non parliamo poi di farli aspettare, fosse pure un minutino solo. Dunque il discorso restò a metà e cosí lo lascio anch'io. La continuazione al prossimo capitolo.

. - Se le abbiamo cercate e non si sono trovate, vuol dire che qualcuno le ha fatte sparire. Proseguì spiegando che questa casa, ai tempi dello zio Pio, era un porto di mare, con tutte le visite che lui riceveva. Era rimasto in contatto con i suoi confratelli missionari, che oltre a scrivergli mucchi di lettere da tutti i paesi del mondo gli mandavano anche in continuo questo o quello, e mica solo per portare i saluti. C'era chi veniva a farsi dare un consiglio, chi voleva una raccomandazione o delle ripetizioni di latino. Il prozio (era un omettino secco secco; io me lo ricordavo piú che altro dalle fotografie) sbuffava, ma accontentava tutti. Per le ripetizioni poi c'era un viavai, pare che avesse un metodo suo per far entrare il latino in tutte le teste. Ebbene, diceva mamma, tra tante persone sconosciute poteva ben esserci stata quella disonesta. Le rincresceva di pensar male del prossimo, ma non c'era altra spiegazione. Ippolita si appassionò a questa storia. Si ha un bell'essere di famiglia ricca e passare l'estate in un castello, l'idea delle monete d'oro fa sempre un certo effetto. Incominciò a parlarne sovente, quando non c'erano nelle vicinanze Franco o Robi a prendere in giro. Per esempio avrebbe voluto sapere dove le tenesse le monete questo mio prozio. Messe via in una pentola, come nelle favole? - Ma no, non credo, - rispondevo io. - Nel doppio fondo di un cassetto, piuttosto. - Hanno il doppio fondo, i vostri cassetti? - Non lo so. Io non l'ho mai trovato. Dico cosí, perché altrimenti la mia nonna avrebbe visto le monete, quando metteva in ordine. - Ma scusa, se erano in un doppio fondo, come ha fatto il ladro a sapere che c'erano? La sua idea, lo capii un po' alla volta, era che le monete esistevano, ma forse non esisteva il ladro. Secondo lei poteva darsi che non si fossero trovate solo perché erano nascoste molto bene. E in questo caso, naturalmente, dovevano esserci ancora. A me veniva da ridere a figurarmi un tesoro nascosto tra la nostra roba solita di tutti i giorni, magari proprio nella camera che in tempo di vacanze passava a me e Isa (e quindi anche a Ippolita, adesso) ma che prima era stata dello zio Pio. Lei però ci sperava, credo anche per aver da pensare a qualcosa di piú allegro di tutto quel che aveva avuto da pensare in quegli ultimi tempi. Batteva sul muro con le nocche, toc toc. - Qui suona vuoto, non ti pare? Se fosse una nicchia murata, il nascondiglio? Oppure si metteva a girare intorno al seggiolone, un affare alto di legno scuro, col sedile imbottito, che pure quello era stato dello zio. - Ci hanno mai guardato, i tuoi, dentro l'imbottitura? Purtroppo però la nicchia nel muro, che c'era stata davvero, l'aveva murata mio papà appena due estati fa, dato che non serviva piú a niente (ai tempi andati, diceva mamma, ci tenevano i lumi). Dell'imbottitura non sapevo niente, allora siamo andate a domandare a mia nonna e lei si ricordava benissimo che, altro che guardarci dentro, l'avevano addirittura buttata all'aria, cosí che poi si era dovuta rifare. Dopo queste due delusioni ci fu una pausa. Giocavamo all'ometto nero coi miei fratelli, andavamo per funghi, senza trovarne (non era un'annata da funghi). Ma Ippolita si vede che continuava a pensarci. Di punto in bianco, un giorno, mi esce fuori con questa domanda: - Perché dovrebbero essere proprio monete d'oro? - Mah, dicono cosí. - Però hai detto che tua nonna non le ha mai viste. - Infatti; e nemmeno nessun altro. Giustappunto mio papà dice che non sono mai esistite. - Allora da dove è uscita fuori l'idea che ci fossero? Già, da dove? Non me lo ero mai domandato. Cercai una spiegazione. - Avran pensato che dovessero esserci per forza, quando si è visto che d'altro denaro ne aveva lasciato proprio poco. - Ah sí? proprio poco? - Be', cosa vuoi che possa guadagnare un ex missionario che dà ripetizioni di latino? - Allora vuol dire che il tesoro non può esserci! - Il mio prozio però diceva che c'era. Ed era una persona seria, mica un bugiardo, la nonna me l'ha detto tante volte. Ci siamo guardate. Stavamo toccando il nodo del mistero. Stava proprio qui, in questa stranezza del tesoro che non poteva esistere, eppure (per un altro verso) non poteva non esistere. Pensai che anche questo a modo suo era una specie di giallo e da quel momento anch'io cominciai a riprenderci un po' di passione. - Dicevo cosí, delle monete, - riprese Ippolita, - perché se il tesoro fosse invece - mettiamo - in banconote, sarebbe stato piú facile nasconderlo. Quelle stanno dappertutto; tra i fogli dei libri, oppure, non so, nelle lettere. Non riceveva tantissime lettere, il tuo prozio? - Pare di sí. - Idea! forse i suoi amici, confratelli, quello che erano, avevano l'abitudine di infilare del denaro nella busta. Questo spiegherebbe tutto, non ti pare? Non mi pareva, a dir la verità, ma intanto un brividino di eccitazione aveva cominciato a solleticarmi dentro, in quel punto dietro le costole dove non ho mai capito bene se ci stia la punta del cuore oppure il principio dello stomaco. Forse stavamo davvero facendo qualche passo avanti, ancora alla cieca, verso la spiegazione del vecchio mistero di famiglia. - Sarebbe interessante vederle, le lettere, - continuava Ippolita, dandosi un tono da detective. - Perché? Anche se, metti caso, le banconote c'erano davvero, non c'era mica motivo che zio Pio le lasciasse lí dentro. Se le sarebbe spese, o le avrebbe nascoste da un'altra parte. Lei avrebbe persino fatto i salti mortali, credo, pur di non abbandonare quell'idea che le piaceva tanto, perciò disse subito: - Non è detto. Anche le lettere potevano essere un buon nascondiglio - . Qui le scappò un sorriso: - Ma tanto è inutile discuterne; certo a quest'ora le avran buttate via. - Per quello puoi star tranquilla, la mia nonna non butta mai via niente. Mamma la sgrida per questo, ma qui è in casa sua e fa come vuole. Cosí la prossima mossa fu di tornare di nuovo a consultare la nonna. Lei non domandava di meglio: da tanto che era contenta e lusingata le vennero in mezzo alle guance come due roselline color del corallo, in tinta coi suoi orecchini all'antica. E dunque disse che sí, le lettere esistevano ancora. Quando era mancato il povero Pio le aveva messe via lei personalmente in un baule, su in solaio: nessun altro le aveva toccate e nemmeno ci aveva pensato, insomma non erano sembrate importami a nessuno. Erano ancora lassú, se ci faceva piacere vederle. Eccoci dunque ripartite in esplorazione, come ai bei tempi, però in su invece che in giù, verso il solaio polveroso invece che nei sotterranei del castello. Il mio solletico dietro le costole era sempre piú forte. Sentivo odore di avventura. Il baule era di ferro, di quelli che usavano una volta: per metter via la roba, io credo, piú che per viaggiare. Non era chiuso a chiave, bastava tirare su il coperchio. Nell'aprirsi fece uno gnau lamentoso. Mi ricordai del suono che aveva fatto la botola dello scheletro, quando Remigio l'aveva tirata su e si era visto che sotto non c'era niente. Qui c'erano le lettere, una quantità. Nessun topo era arrivato a rosicchiarle, lí dentro il metallo, però erano parecchio sbiadite. Sulle buste l'indirizzo era diventato marroncino, oppure lilla quando era stato scritto con l'inchiostro violetto. - Quante! - disse Ippolita, tutta felice. - Ce ne vorrà, a passarle tutte! Si lasciò andare senz'altro in ginocchio sulle assi polverose e cominciò a tirar su una lettera dopo l'altra, allargando con due dita ogni busta e guardando anche in mezzo ai fogli piegati, caso mai ci fosse la banconota. Allora mi ci misi anch'io, un po' piú al ral - lentatore perché non ero tanto convinta. Leggevo qualche parola, dove mi cadeva l'occhio e dove la calligrafia si capiva. Caro e Reverendo Amico, tutto con le maiuscole. Due righe di scrittura inclinata dove si dava la notizia di un'invasione di cavallette che aveva portato molto danno ai campi della Missione; la data di un certo giorno di un anno lontano. C'era un odore di scartoffie vecchie che mi metteva tristezza. Quello dell'avventura non lo sentivo piú. Ero sempre meno convinta, cosí dissi: - Mah! per me stiamo facendo un lavoro inutile. I missionari, se avevano dei soldi, li avranno spesi per le loro Missioni, ti pare? Perché dovevano mandarli proprio al prozio Pio? Lei rispose solo: - Sarà, ma lasciami finir di guardare. Lo sapevo com'era fatta: quando si appassionava per qualcosa non era tanto facile smuoverla. Io invece mi ero stufata. Pian piano mi allontanai, girellando qua e là a guardare negli angoli piú scuri se anche quest'anno c'erano i pipistrelli. Ne trovai due, piccolini, appesi a testa in giú dietro a una trave. Nel sonno muovevano continuamente il muso in una maniera molto buffa. Gli idem-come- sopra. Pensare che mi avevano fatto paura, nelle catacombe! Per cambiare, andai a guardar fuori dall'unico finestrino che c'era. Si vedeva la strada, il pergolato, la casa del vicino, l'orto con le prime macchie gialle, tutto un po' diverso, almeno mi pareva, di quando lo guardavo dalle finestre di gíú. Non era più la solita roba che vedevo tutti i giorni, ma un quadretto lucido, un po' rimpicciolito. Bello. Forse era cosí che lo vedeva Ippolita, dal suo punto dí vista di persona venuta di fuori: ecco perché le piaceva tanto. - Gina, - disse in quel momento, con una voce strana. Mi voltai. Era seduta sui talloni, con le mani aperte ai lati del corpo e cinque o sei di quelle lettere sparse in grembo. Le guardava senza nessuna espressione particolare, eppure mi sembrò di vedere, sospesa sulla sua testa, la lampadina accesa, con scritto IDEA!!, del detective che ha capito tutto. - Hai, hai trovato qualcosa? - Vieni un po' qua. Andai là. - Avevi ragione, sai. È un lavoro inutile guardar dentro a queste lettere. Bastava guardarle di fuori. - Come sarebbe, di fuori? - Le buste, polla che sei! Ti dicono niente le buste? Le guardai; e non mi dicevano niente. Un po' gialle di vecchiaia, con l'indirizzo sbiadito. Spiccavano, in confronto, i colori dei francobolli, tanto píú che c'erano rappresentati uccelli esotici e fiori strani e altre cose

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Poi abbiamo le grotte in fondo al parco. Anche quelle sono sotterranee, almeno in parte, e antiche. Appartenevano ai giardini della villa. Pensai che allora forse valeva la pena di esplorarle, prima o poi. Ero di nuovo molto su col morale. Prima di tutto ero arrivata bene o male alla fine del maledetto sufflé, e poi adesso sapevo di sicuro che il castello non era tutto finto. Qualcosa di vero c'era, c'erano grotte e antiche fondamenta e cantine e ripostigli, tutta roba che sarebbe stato molto divertente scoprire. Incominciavano a divertirmi anche gli andirivieni dignitosi di Remigio con i piatti e persino l'erre moscia della contessa e il fatto che dicesse «pavdòn» invece di scusa o prego, come un'artista buffa con l'occhialino in una pellicola che avevo visto quell'inverno. All'idea dell'artista buffa per poco non mi veniva la ridarella, ma per fortuna riuscii a mandarla giú e il resto del pranzo passò senza incidenti. Dopo mangiato Ippolita mi portò a prendere il fresco nel parco. Stavamo sotto gli abeti, o forse erano pini, non ho mica mai i capito la differenza, insomma certi alberi scuri scuri che facevano una bell'ombra, ma Ippolita si lamentava lo stesso del caldo. Era irrequieta; dopo un po' eccola che salta su e dice che vuole andare in camera a prendere il grammofono portatile (non si chiamava ancora giradischi, allora). Tornammo in su verso il castello. Sbucando nel piazzale tra le ortensie, feci caso per la prima volta a due figure dipinte sulla facciata, ai lati del balcone: qua un giovane con un chitarrone lungo lungo, dall'altra parte una signora con le trecce fino ai piedi e veli fluttuanti. Erano tutt'e due un bel po' sbiaditini dal sole e dalla pioggia, per questo non li avevo visti prima. - Chi sono quei due lí? - Due tizi finti-medioevali, il trovatore e la sua dama. Mi misi a cantare:

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Lí anzi successe ancora meno, non abbiamo neppure cantato né riso, però fu ugualmente avventuroso, in un altro modo. Erano i posti, che erano avventurosi; misteriosi, ecco. La prima grotta magari non tanto; a proposito, anche le grotte erano due, come le cantine. Stavano in fondo al parco. A reggere il fondo del parco, con gli alberi e tutto,

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Cosí abbiamo proseguito nella solita formazione di tutte le passeggiate, noi due insieme e la zia per conto suo, piú avanti o piú indietro non aveva importanza. Fu una passeggiata barbosa. Non potevamo parlare di quel che piú importava, caso mai ci sentisse, cosí non dicevamo niente. Si sentiva solo lo sguisc sguisc dei nostri stivali di gomma (la contessa aveva le galosce). Alla curva da dove si cominciava a vedere il paese, disse che adesso potevamo anche tornare indietro. Forse si era stufata di camminare nel bagnato con due tipe col muso lungo, in stivali di gomma che facevano sguisc. A me però mi venne in mente una cosa un po' strana, cioè che al paese in fondo non ci si arrivava quasi mai. Appena qualche volta per far compere, e la domenica per la messa, si sa. Ma Ippolita non frequentava nessuno, in paese: questo volevo dire. Erano gli zii, chiaro, che la tenevano isolata, perché cosí potevano fare e disfare, nasconderle le lettere, anche chiuderla a chiave per delle settimane, se volevano! e nessuno ci avrebbe fatto caso, nessuno si sarebbe sognato di mettere il becco! Ma c'ero io. Ippolita non era del tutto abbandonata. Io potevo e dovevo fare qualcosa per impedire questa marcia ingiustizia che le facevano: alla faccia degli zii conti e del loro contorno di complici e carcerieri! Era un pensiero molto coraggioso, cosí coraggioso che mi mise paura. Quando mi trovai di nuovo sola con la mia amica mi era quasi passata la voglia di dirglielo. Tanto parlò lei, subito: - Te lo ricordi cosa dicevamo, prima che suonasse il gong? - Ma sí. Parlavamo della busta crema. Insomma della lettera che tua madre ha scritto a tua zia. E a proposito, perché lo avrà fatto? Se dici che ce l'ha antipatica... - Le avrà domandato dove sono finite le sue lettere, no? Da quel che le scrivo io deve averlo capito per forza che non mi sono arrivate. - Scrollò forte la testa, come se le avessi fatto perdere il filo. - Cosa c'entra questo, adesso! Sta' a sentire: quando ha suonato il gong io dicevo che se avessi saputo che la mamma era abbastanza vicina - a Parigi, mica piú in America - sarei andata

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C'era due volte il barone Lamberto

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Gianni Rodari 9 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
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. — Col suo permesso, signor barone, al pancreas abbiamo assegnato il numero undici. — Cosa mi dici! Il numero undici non è la cistifellea? — Cistifellea cinque, signor barone. Controlli lei stesso. — Non importa, Anselmo, non importa. Che tempo fa? — Nebbia, signor barone. Temperatura in diminuzione. Neve sull'arco alpino. — Sarà ora di andare in Egitto, eh? Il barone Lamberto possiede una villa anche in Egitto, a due passi dalle piramidi. Ne ha un'altra in California. E poi una sulla Costa Brava, in Catalogna, e una sulla Costa Smeralda, in Sardegna. Possiede pure appartamenti ben riscaldati a Roma, Zurigo e Copenaghen. Ma d'inverno, piú che altro, va in Egitto a cuocersi al sole le vecchie ossa, specialmente quelle lunghe, il cui midollo è tanto importante perché è la fabbrica dei globuli rossi e dei globuli bianchi. Cosí, anche quella volta vanno in Egitto. Però ci restano poco. Difatti succede che, durante una passeggiata lungo il Nilo, incontrano un santone arabo e fanno un po' di conversazione con lui. In seguito a questo incontro il barone Lamberto e il maggiordomo Anselmo volano in Italia con il primo aereo e tornano a chiudersi nella villa sull'isola di San Giulio, a fare certi esperimenti. Passa del tempo e non sono piú soli. Nelle

Ma quanto abbiamo dormito! Che cosa è successo, insomma? — Mi sembra, — dice il signor Bergamini, — di sentire la fanfara dei bersaglieri. Belle trombe. — È la marcia dell'Aida, — lo corregge Delfina. — Ho conosciuto una volta a Treviso una signora che si chiamava Aida. Teneva un'osteria e non cucinava male affatto. A proposito, voi non avete fame? Cosa c'è oggi da mangiare? — Signor Bergamini, lei non ha ancora capito la situazione. — E a dire la verità non ci capisco niente nemmeno io. Andiamo in cerca di qualcuno che ce la spieghi. Tutti d'accordo scendono le scale e arrivano nel grande atrio della villa in tempo per vedere il portone che si spalanca e una folla che irrompe con grida festose. Ci sono poliziotti, carabinieri, vigili urbani... — Cielo, — bisbiglia la signora Merlo, — non saranno mica qui per arrestarci? — Io, — dice il signor Giacomini, — non apro bocca se non c'è il mio avvocato. — Io, — proclama la signora Zanzi, — non so niente. Dormivo, io. — E noi, no? — Non lo so. Quando dormo, io non mi guardo in giro per vedere cosa fanno gli altri. Ma ecco il signor Anselmo, tutto allegro, che corre incontro a Delfina e l'abbraccia, urtandola con l'ombrello. — Cara, cara signorina Delfina, questo è il piú bel giorno della mia vita! — E il licenziamento in tronco? — Come non detto! Siete tutti riassunti al lavoro. Anzi, non mi meraviglierei neanche tanto cosí se il signor barone, per festeggiare l'avvenimento, vi aumentasse lo stipendio. — Un momento... Ma il signor barone non è morto? — Il signor barone è piú vivo di prima. — E quel biglietto? — Come non scritto. — Allora torniamo di sopra, — propone il signor Bergamini. — Il pranzo è pronto? — Calma, — dice Delfina, — voglio vederci chiaro. — Se è il signor barone che vuole vedere, eccolo, - dice Anselmo, tutto contento. Il barone Lamberto sta entrando fra gli applausi generali. Sorride, fresco come un mattino di primavera. I sei lo guardano con dodici occhi spalancati. Quello è il barone? E dov'è finito il vecchio signore incartapecorito, tanto somigliante a una tartaruga, che hanno conosciuto alcuni mesi or sono, al momento della loro assunzione? Se lo ricordano bene, il vegliardo tremolante, che parlava con un filino di voce, sempre sul punto di spezzarsi... Che diceva, appoggiandosi a due bastoni dal pomo dorato, puntando su di loro gli occhietti nascosti dalla cascata delle palpebre: — Mi raccomando, il nome dev'essere pronunciato con chiarezza... Non gridato... non sussurrato... non cantato... Ad ogni sillaba il suo giusto peso... Facciamo una prova, prima tutti insieme, poi uno alla volta... Pronti? Via... Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Com'è ringiovanito, — osserva la signora Zanzi. — Pare proprio un altro, — aggiunge il signor Armando. Delfina è sempre piú scura in volto. Non sorride nemmeno quando il signor barone si china a baciarle la mano, dicendo: — Ma sa che lei è sempre più carina? — Mi pare, — dice Delfina con serietà, — che a questo punto lei ci debba delle spiegazioni, non dei complimenti. Siamo stati perfino accusati della sua morte. — Una morte provvisoria, — sorride il barone, — niente di serio. — Meglio per lei, — dice Delfina, — ma sarebbe ora che lei ci dicesse tutto quello che non ci ha detto l'altra volta. — Vuol sapere troppo, — sospira il barone. — E se vi raddoppiassi la paga? La signora Merlo apre già la bocca per ringraziare, commossa, ma Delfina è piú svelta di lei: — Vogliamo sapere il perché del nostro lavoro. A che serve. Che cosa produce. Che cosa ha a che fare con la sua vita e con la sua morte. Il barone sospira di nuovo. Il signor Anselmo, scandalizzato dal comportamento di Delfina, vorrebbe intromettersi, ma il barone glielo impedisce. — Buono, Anselmo, — egli dice. — La signorina Delfina ha ragione. Non è solo carina, è anche intelligente. Vorrei sapere se gli altri sono d'accordo con lei... Gli altri abbassano gli occhi, sospirando. Non sanno bene cosa gli conviene rispondere. Ma non possono mettersi contro Delfina. — Va bene, — cede il barone, — vi dirò tutto. Ma per il momento non può dire niente, perché stanno arrivando i ventiquattro direttori generali delle sue banche, seguiti dai ventiquattro segretari che portano le cartelle. Marciano per tre, con passo militare, decisi a vedere il barone in faccia da vicino. La folla si divide per farli passare. Essi circondano il barone con aria minacciosa. Il direttore generale della Banca Lamberto di Singapore, che è il piú anziano del gruppo e parla per tutti, dice: — Signore, potremmo restare soli? Il barone, sorpreso, li guarda uno per uno. Non gli sembrano tanto contenti della sua rinascita. Come mai? — Anselmo, — egli dice, — accompagna la signorina Delfina e i suoi amici in soffitta. Li raggiungerò tra un momento. A tutti gli altri signori e signore, i miei piú sentiti ringraziamenti e un cordiale arrivederci. Come vedono, ho una riunione d'affari... Ecco, siamo soli. Cioè, siamo soltanto quarantanove. Chi chiede la parola? — Io, — dice il direttore generale di Singapore. — Prego. — Sarò breve. Anzi, sarò interrogativo. Come mai lei ha due orecchie? — Mi sembra di averne il diritto. Anche i gatti ne hanno due. — A chi apparteneva, allora, l'orecchio che i banditi ci hanno inviato? — A me. — In questo caso, lei aveva tre orecchie, non due. — Le dirò... — Ci mostri le mani, per favore, — lo interrompe il direttore generale. Il barone esegue, dando lui stesso un'occhiata. Toh! Il dito amputato è ricresciuto completamente, e figura al suo posto come niente fosse. — Come mai ha dieci dita? — incalza l'inquisitore. — E lei, quante ne ha? E lor signori, quante ne hanno? E quante ne ha il Papa di Roma? — Lasci in pace Sua Santità. Lei è un impostore! — Riconosco, — ammette sorridendo il barone Lamberto, che i fatti sono alquanto strani ed insoliti. — E fa bene, — lo interrompe nuovamente il direttore generale di Singapore. — Quanto a noi, non riconosciamo in lei il barone Lamberto, proprietario e presidente delle banche che qui rappresentiamo. — Chi sono io, allora? — Sono fatti suoi, egregio signore. La sua carta d'identità non c'interessa. Della scomparsa del barone Lamberto risponderà alla polizia. — Ben detto, — ripetono in coro gli altri ventitre direttori generali. I ventiquattro segretari si affrettano a prendere nota anche di questa importante battuta. Il barone Lamberto sorride. Non per la battuta, né per la minaccia di far intervenire la polizia. Gli è venuta in mente un'altra cosa. È questa che lo fa sorridere. — Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo a servire dei rinfreschi. — Ma cosa le salta in mente? — Dove va? Venga qua! — Fermate l'impostore! Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole sposare? — Come ha detto, scusi? — Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso, mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi. Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per sempre felici e contenti. La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si permettono di scherzarci sopra: — A quando i confetti? — Viva la signora baronessa! — Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi, non ho ancora detto la mia opinione. — Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo sarà il piú bel giorno della mia vita. — Invece dico di no. Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino maleducazione, rispondere di no a un signore cosí perbene!» — È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse», oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche speranza. Mi dica almeno «ni». — Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio è l'ultimo dei miei pensieri. — E il primo qual è? — domanda il signor Armando. — Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una spiegazione. — Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto. — Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per assoluta mancanza di spazio). — L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto... Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí, di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione. Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono: cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio. Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette». Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello, che i direttori di banca si chinano a raccogliere per mettersi in vista. — Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti? — A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua. — Certo. — E senza nemmeno essere dottori, — prosegue Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo mantenuto in vita questo gran signore con la nostra voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere perché. A proposito, un disco o un nastro registrato, non avrebbero ottenuto lo stesso effetto? — No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto qualche esperimento, ma non funzionava. — Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo, senza nemmeno sospettarlo... — Già, — esclama il signor Armando, sorpreso, avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio. — Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito, — avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo avessimo chiesto? — Si capisce, — ammette il barone, — anche due. — Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito, — allora, in un certo senso, siamo stati... truffati. — Macché truffati! — esplode il direttore della banca di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti che roba! — La manodopera, — commenta il direttore della banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose. — Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú. — Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno di voi come prima, a qualunque prezzo. — No, signor barone! — grida dal fondo delle scale uno dei segretari. — Questo no! — Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto, lei! Faccia silenzio! Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per schiacciarlo con il loro peso. — Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino dire... Venga su, lei, parli apertamente. — Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo, — lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo veruno e non accenna minimamente ad invecchiare. — È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor barone! — È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo, i ventiquattro direttori di banca. Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta decisiva. — Anselmo, — dice il barone, — controlliamo. Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso, dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La circolazione dei reticolociti è in aumento. — Interessante, — mormora il barone, — interessante. Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai? — Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato, signor barone! La sua vita di prima, quella che era appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di nessuno! Di nessuno! — Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne direste di Osvaldo? — Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il piccolo segretario. — Perché? — Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi... e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato. — Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente. Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una promozione. Dunque, mi pare che a questo punto possiamo sciogliere l'assemblea. — E noi? — domanda la signora Merlo. — Siamo licenziati? — domanda il signor Armando. — Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor Bergamini. I ventiquattro direttori di banca protestano in coro: — Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire? Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno... — Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque. — Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro segretari. — Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per battere il ferro finché è caldo. Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi. Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio. Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità. Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il quale passa maestosamente una nuvola bianca. — D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone. — Le sue camomille sono piú profumate delle rose di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui, vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli qualche cosa... — Piú che giusto, — approva il direttore della banca di Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro o d'argento. — Un servizio da caffè, — propone un altro direttore. — Un orologio a cucú. — Un portachiavi a forma di isola di San Giulio. — Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina. — Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete pronti? E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni, Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto... Lamberto... Lamberto... «Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati. Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti. Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta. — Lamberto Lamberto Lamberto... Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati che stiano litigando a colpi di scioglilingua. — Lambertolambertolambertolam... Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati, il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire, ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe partecipare ai Giochi Universitari, un attor giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea a quella della maturità classica. E non si ferma, perché Delfina e compagni non si fermano, non cessano di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice: — Lambertolambertolambertolamberto... Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo, attraversando all'indietro l'età della crescita. — Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo, atterrito. I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma non trovano parole da far uscire. Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà: i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà quindici anni... — Lambertolambertolambertolamber... — Basta, per carità! Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca la faccia... Adesso avrà, sí e no, tredici anni... E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma torna quasi subito, portando un bel vestitino con i calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito? Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento..., anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga... Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi... È il segretario di nome Renato che si dispera. — Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor barone. Ahimè, la mia carriera è finita! — Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera. — Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato. — In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di verificarla. — Ma è vero o no che il barone stava bene senza che piú nessuno pronunciasse il suo nome? — Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche vedere che cosa sarebbe successo introducendo nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e distinto? — Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi? — No, naturalmente. — Perché? — Perché no. — Ah, capisco... Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda i presenti come se non li avesse mai visti. Vede Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino. — Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma? — Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre attaccarsi a me per stare in piedi? Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in quel momento il direttore generale della banca di Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone... Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere il pubblico. Gireremo un film pubblicitario per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla». Le va l'idea? Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde: — Manco per niente! Il mio tutore sarà Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio studiare... Voglio fare... La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride apertamente, allegramente. Si mette perfino a saltellare intorno per la stanza. — Voglio diventare un artista del circo equestre. È sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una vita per realizzarlo. — Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa. — La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, — sentenzia il direttore della banca di Singapore. — Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, — gli risponde Lamberto. — Bravo! — grida la signora Merlo. I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e mostrare la lingua al signore di Singapore. — Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio, il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò foche, cani, pulci e dromedari... Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del regalo che ha pensato per lui. Proprio in quel momento il signor Giacomini, che per non restare con le mani in mano aveva lanciato l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti. — Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo, — che questo era un lago morto? Anselmo, prepari la padella per il fritto. E chi parla male del Cusio l'avrà da fare con me.

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. — Abbiamo mandato il sangue a Milano per le analisi la settimana scorsa... — Ha ragione il signor barone. Sono arrivate con la posta di stamattina: tutto in regola. Il signor barone ha oggi le arterie di un uomo di quarant'anni. Numero tre: artrosi deformante. — Guarda tu stesso le mie mani, Anselmo. Le loro cinquanta e passa ossa non sono mai state piú agili. Non parliamo degli otto ossicini del polso: smaniano addirittura di essere messi alla prova. Il signor barone si alza di scatto e va a sedersi al pianoforte. Due o tre corse su e giú per la tastiera ed ecco che in tutta la villa si diffondono i robusti accordi delle Variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli. Da quarantadue anni il barone Lamberto non toccava un tasto. Ora s'interrompe, alza il coperchio della coda, schiaccia un bottone. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Il barone strizza l'occhio al maggiordomo. Nelle soffitte il lavoro procede come sempre. Il barone si rialza, fa due o tre passi e scoppia a ridere: — Guarda, — dice, — ho dimenticato di reggermi ai miei due fedeli bastoni dal pomo d'oro, e non casco. Ossa e muscoli sono tornati a fare il loro dovere. Avrei quasi voglia di una bella nuotata nel lago. — Non esageriamo, signor barone. Cancelliamo il numero 24 , zoppia, e riprendiamo i controlli. — Dài, ricomincia pure. — Numero quattro, bronchite cronica. — Ho tossito l'ultima volta per Carnevale, perché mi era andato un boccone di traverso. — Numero cinque, la cistifellea. — L'infiammazione dev'essere andata in vacanza, caro Anselmo, perché da quella parte non sento più alcun disturbo. I controlli durano diversi giorni. Il barone Lamberto e il suo fido maggiordomo passano sistematicamente in rassegna, senza nulla trascurare: — il sistema scheletrico; il sistema muscolare (ci vogliono due mattine solo per quello, perché i muscoli sono più di seicento e vanno controllati uno per volta); — il sistema nervoso (è cosí complicato che fa venire i nervi); — l'apparato digerente (il barone ormai digerirebbe anche i gusci delle lumache); — l'apparato circolatorio; — i vasi linfatici; — le ghiandole endocrine; — il sistema riproduttivo. Tutto in ordine, dai corpuscoli tattili, che avvertono il cervello se l'acqua del bagno è troppo calda o troppo fredda, alle trentatre vertebre della colonna, sia quelle mobili che quelle fisse. Ogni parte del corpo, ogni componente di quella parte, ogni elemento della componente, vengono esaminati con severità, perché non si permettano di nascondere qualche malanno, il principio di un guasto, il sospetto di un sabotaggio. I due esaminatori, come viaggiatori coraggiosi, percorrono e ripercorrono il labirinto delle vene e delle arterie, sbucando da ventricoli e orecchiette, mescolandosi alle emazie e ai leucociti. — Signor barone, i reticolociti si stanno moltiplicando che è un piacere. — E che cosa sarebbero i reticolociti? — Dei globuli rossi piú giovani. — Avanti con la gioventú, allora. Barone e maggiordomo s'infilano nel tunnel di Corti e penetrano nell'orecchio, sbarcano nelle isole di Langerhans dalle parti del pancreas, si arrampicano sul pomo d'Adamo, si avventurano nel groviglio dei glomeruli di Malpighi che se ne stanno raggomitolati nei reni, fanno l'altalena con l'ossigeno e l'anidride carbonica dentro e fuori dai polmoni, salgono sul ponte di Varolio, soffiano nella tromba di Eustachio, suonano gli organi del Golgi, tendono tendini, riflettono sui riflessi, fagocitano fagociti, fanno il solletico ai villi intestinali, mettono in moto la doppia elica del Dna. Ogni tanto si perdono di vista. — Signor barone, dove si è nascosto? — Sto aprendo il piloro. E tu, dove sei? — Qua vicino. Sto succhiando i succhi gastrici. Ci troviamo tra un momento nel duodeno. Anselmo tiene il diario di bordo del viaggio. Ma tanti esami forse non sarebbero tutti indispensabili. Basterebbe la prova specchio. Chiunque, vedendo il barone Lamberto, gli darebbe, sí e no, quarant'anni e si accorgerebbe a occhio nudo che è sano in lungo e in largo. Poche settimane or sono era un vecchio tenuto su solo dalle medicine e dai suoi due famosi bastoni col pomo d'oro, e adesso eccolo lí, un uomo nel pieno vigore, quasi un giovanotto, diritto, alto, biondo, sportivo. Ha preso l'abitudine di fare il giro dell'isola a nuoto tutte le mattine per tenersi in esercizio. Esegue sul pianoforte i pezzi piú faticosi senza sudare. Fa ginnastica. Spacca la legna per il caminetto. Rema, porta la vela senza imbrogliarsi tra fiocco e randa, si tuffa dai trampolini e, dove non ci sono, dagli alberi. Le sue ventiquattro banche, intanto, gli mandano tutte le settimane il resoconto dei profitti. E nelle soffitte della sua villa sei ignari lavoratori, giorno e notte, lo nominano senza sapere il perché (ma Delfina continua a domandarselo): — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Il vecchio arabo aveva proprio ragione, — osserva il barone, soddisfatto. — Come diceva esattamente? «Il nome è detto»... «il nome vive»... qualcosa del genere, mi pare. — Ho annotato le sue testuali parole, — dice Anselmo, sfogliando il suo taccuino. — Eccole qua: «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». — Bello, — commenta il barone, approvando col capo. — Bello. «L'uomo il cui nome è pronunciato...» E anche vero, visti i risultati della cura. Ah, l'antica saggezza degli uomini del deserto! — Se non ricordo male, — precisa Anselmo, — si tratta di un segreto dei faraoni. Il barone riflette. — Loro però sono morti tutti. Come mai, se conoscevano quel detto? — Si vede che non ci credevano. Pensavano che fosse un proverbio dei nonni, non una ricetta buona per tutte le malattie. — Dev'essere cosí, — conclude il barone. — Ma che strano personaggio, quel santone. Io lo avevo scambiato per un mendicante. — L'aspetto era quello. Il tugurio in cui viveva, poi, sembrava un pollaio. Le galline gli camminavano anche sulla testa. — Forse per beccarci i pidocchi, — ride il barone. Appoggia una mano sul pianoforte e con un balzo lo scavalca, esclamando: — Oplà. Se nasco un'altra volta, farò l'artista in un circo equestre. — Ma cosa dice, signor barone? Lei non può piú morire! — Già, non ci pensavo. — Il barone pigia un bottoncino. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Ogni mattina gli spunta un dente nuovo. La vecchia dentiera è finita nella spazzatura. Egli può schiacciare le noci con i suoi molari personali. — Lamberto, Lamberto, Lamberto... «L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita».

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Intanto non si preoccupi delle armi, non abbiamo alcuna intenzione di farle del male, se lei accetterà le nostre condizioni. — Capo, — (sono tornati i due che hanno ispezionato la villa e uno di loro, da vero maleducato, ha interrotto la conversazione), — tutto a posto. Però su nelle soffitte ci sono dei tipi strani. Dicono che sono dipendenti del barone, incaricati di ripetere a turno, giorno e notte, il suo nome. Ce n'è uno seduto davanti a un tavolo, che fa: «Lamberto, Lamberto, Lamberto...» E non si è fermato nemmeno a mostrargli la pistola. — Dev'essere il signor Bergamini, — ha spiegato il barone, — uomo tranquillo e dedito al lavoro. — Che cos'è questa storia? — ha domandato il capo. — Un divertimento, — ha detto il barone, — il capriccio di un miliardario. Mi piace sapere che c'è sempre qualcuno col mio nome in bocca. Dà soddisfazione, come a grattare dove prude. Insomma, è un hobby. Avete qualcosa in contrario? — Assolutamente no, — ha assicurato il capo, — la cosa non interferisce con i nostri piani. — Mi fa piacere, — ha commentato il barone, striz- zando l'occhio al povero Anselmo, bianco come un fantasma. — Del resto li pago bene. Non vorrete creare ostacoli alla libertà di lavoro, spero. — Le ho già detto di no, — ha ripetuto il capo. — Anzi, la cosa fa piacere anche a noi, perché anche noi ci chiamiamo Lamberto. — Ecco, è questo che mi stupisce. Nemmeno uno che si chiami Giuseppe, Reginaldo, Stanislao? Come avete fatto a mettere insieme ventiquattro titolari del nome in questione? — Con un'inserzione nei giornali, — ha detto il capo. — E ora, lasciamo le chiacchiere e veniamo al dunque. — Si dice anche «veniamo al sodo», — ha corretto il barone. — Ecco come stanno le cose. L'isola è occupata militarmente. La villa è isolata dal resto del mondo e della Via Lattea. Lei, signor barone, è nostro prigioniero. — Per riavere la libertà, dovrà versarci un miliardo per ciascuna delle sue ventiquattro banche. Fanno in totale ventiquattro miliardi. — Piú l'Iva? — ha domandato il barone, senza scomporsi. — Piú le marche da bollo? Se il capo ha risposto nessuno ha sentito, perché proprio in quel momento è entrato il nipote Ottavio, accompagnato dal bandito che lo ha catturato al suo ritorno da Orta con le tasche piene di sonniferi. — Zio caro, che succede? — Niente, Ottavio. Molto fumo e poco arrosto. — Ah, ah, — ridacchia il capo. — Per una battuta simile sarei quasi disposto a farle lo sconto. — Le sembro il tipo che tira sul prezzo? — ha domandato il barone Lamberto. E senza aspettare risposta si è alzato, ha annunciato che intendeva riprendere il suo allenamento al punching ball ed è uscito dalla stanza, seguito da due banditi con le armi in pugno. — Lei questa sera, — ha detto il capo al maggiordomo Anselmo, — prenderà la barca e andrà ad Orta... — Io non so remare! — ha piagnucolato Anselmo. Imparerà strada facendo, — ha detto il capo. E cosí che è cominciata l'invasione dell'isola di San Giulio. Al calar delle tenebre, Anselmo è salito in barca per compiere la sua missione. Era cosí agitato che gli è caduto l'ombrello in acqua. Proprio in quel momento il signor Giacomini, dalla soffitta, ha tirato su la lenza e l'ombrello è rimasto attaccato all'amo. Il signor Anselmo si è rifiutato di partire senza l'ombrello. Uno dei banditi è dovuto salire a recuperarlo. — È tutto bagnato, — si è lamentato Anselmo. — Aspettino — che lo asciughi. È corso a prendere l'asciugacapelli, ha asciugato l'ombrello di fuori e di dentro. Finalmente è partito per Orta. Il resto è già stato raccontato.

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. — Meno male che abbiamo chiesto la foto. Pian piano la tempesta si calma. Cessano le esclamazioni e si passa alle osservazioni piú attente, alle riflessioni più meditate. — A guardarlo bene, — si sente dire, — qualche somiglianza — con il barone Lamberto c'è. — Dove? — Per esempio... nelle orecchie. — Il vero barone Lamberto è molto piú anziano. Guardino. In cosí dire l'oratore estrae dal portafoglio una fotografia che lo ritrae accanto al barone Lamberto sulla terrazza di un albergo a Lugano. In questa foto il barone si appoggia a due bastoni, ha la faccia di una tartaruga, ha gli occhi sepolti sotto le palpebre, è piú morto che vivo. Subito tutti frugano nei loro portafogli ed estraggono fotografie nelle quali fanno coppia col barone, e il barone non è un giovane sportivo dal ciuffo spavaldo, ma un vecchio signore che sta in piedi solo perché non soffiano i monsoni.

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Stia tranquillo, abbiamo con noi un medico-chirurgo. Le farà l'operazione a regola d'arte. Non sentirà il minimo dolore. — Grazie, molto gentile. Il capo fa sul serio. E anche il medico-bandito. Sta affilando un rasoio su un pezzo di cuoio con uno stile inconfondibile. — Scusi, — domanda il barone Lamberto, — lei ha fatto il barbiere, per caso? — Per servirla, signor padrone. — Allora respiro: non mi guasterà l'allineamento delle basette. Il barone Lamberto è calmo e sereno. Strizza l'occhio al povero Anselmo, che non sviene solo perché si appoggia all'ombrello, e gli domanda, con aria semplice: — Come sta Delfina? — Bene, grazie, signor barone. — E il resto della famiglia? — Ottimamente, signor barone. Rassicurato circa il lavoro che si svolge nelle soffitte, il barone è anche piú tranquillo di prima e si permette di scherzare: — Dottore, — dice, — vuol vedere se c'è anche del cerume da togliere? — Sarà fatto, signor barone. Mentre il dottore taglia l'orecchio, Anselmo guarda da un'altra parte. Dopo un po', non sentendo né voce né rumore, si volta e vede il dottore che sta fasciando la testa al barone, mentre il capo dei banditi infila l'orecchio tagliato in una busta. — Glielo mandiamo caldo caldo, — dice. I ventiquattro direttori generali ricevono contemporaneamente la foto di profilo del barone, il suo orecchio destro e un biglietto su cui il capo dei ventiquattro Lamberti ha scritto: «Questo è il primo pezzo. Domani, o i quattrini o il secondo». Nove direttori generali svengono, altri nove corrono a lavarsi la faccia nel lavandino, gli ultimi sei restano senza parola. I ventiquattro segretari prendono nota di questi avvenimenti senza permettersi reazioni personali. La foto di profilo ottiene effetti contrastanti. Il naso è senza dubbio quello del barone Lamberto. Ma il collo? Cosí pienotto, liscio e abbronzato non somiglia per nulla ai bargigli rinsecchiti che si notano, sopra la cravatta, nelle fotografie ricordo in possesso degli illustri personaggi. A esaminare l'orecchio viene chiamato un dottore. — Bel taglio, — dice, — lavoro da professionista. Si potrebbe riattaccare in pochi minuti e non si vedrebbe nemmeno il segno. — Che altro ci può dire? — Ecco, per conto mio, questo è l'orecchio di un uomo sano, ben nutrito, che vive parecchio all'aria aperta e fa molto movimento. Età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque. — Ne è sicuro? — Ci metterei la mano sul fuoco. — Ci metterebbe anche un piede nell'olio bollente? — Senza esitare. — Allora questo non è l'orecchio del barone. È l'orecchio di un impostore. — La cosa non mi riguarda, — dice il dottore. — Per conto mio, passo e chiudo. — È un bel mistero, — si dicono l'un l'altro i ventiquattro direttori generali. — Tutto farebbe presumere che un impostore abbia preso il posto del signor barone. — Lo accusa la fotografia, lo accusa l'orecchio. Ma perché diavolo un impostore si sarebbe assoggettato a questa dolorosa operazione? Perché fingersi il barone in un momento in cui non c'è nulla da guadagnare e tutto da perdere? Dopo aver allineato una gran quantità di punti interrogativi, decidono che la notte porta consiglio e vanno a dormire nella villa di Miasino. La mattina dopo s'interrogano a vicenda: c'è chi ha sognato cavalli bianchi, c'è chi ha sognato l'Oceano Pacifico, c'è pure chi non ha sognato per nulla, o ha dimenticato il suo sogno. Ancora una volta il vecchio proverbio non ha mantenuto la promessa: nessuno ha sognato un consiglio che faccia al caso. — Aspettiamo il secondo pezzo, — propone il piú prudente, — poi decideremo. Il secondo pezzo è il dito indice della mano destra. Il capo dei Ventiquattro Elle, non avendo ricevuto risposta positiva al suo messaggio con orecchio allegato, si scusa con il barone: — I suoi dipendenti non si preoccupano molto della sua integrità corporea. Sono stato più crudele io a tagliarle un orecchio, o i suoi ventiquattro direttori ad infischiarsene? — Secondo me, — dice il barone, — avete fatto uno a uno. — Avanti il dottore, — dice il capo. Il medico-bandito arriva sorridendo con i suoi ferri. — L'altro orecchio? — domanda. Il capo gli spiega il nuovo programma e il medico esegue, mentre il barone gli raccomanda: — Stia attento a non sbagliare dito. L'indice è questo, tra il pollice e il medio. Anselmo guarda dall'altra parte per non soffrire e vede nello specchio il barone che gli strizza l'occhio. — Come sta Delfina, Anselmo? — In buona forma, signor barone, — balbetta il maggiordomo. — E il resto della famiglia? — Sempre al lavoro, signor barone. Sa, quando bisogna guadagnarsi da vivere... Anselmo si volta: l'operazione è finita. Il capobanda sta leccando la busta in cui ha infilato il dito tagliato e il bandito-medico, dopo aver medicato la mano del barone, si accinge a rifare la fasciatura della testa. — Che mi venga un colpo, — esclama a un tratto. — Guarda, capo. Il barone finge di spaventarsi: — È grave? — Questa è buona, — dice il capo, — se me la raccontassero in treno, non ci crederei. — Ma cosa c'è? — domanda il barone. — Cos'è successo? — È successo che il suo orecchio è ricresciuto, — spiega il bandito-medico. — Se non glielo avessi tagliato io stesso, con queste mani... — Se non l'avessi infilato io stesso nella busta... — aggiunge il capo, perplesso. — Be', — fa il barone, — non capisco tanta meraviglia. Anche alle lucertole ricresce la coda. Potate un albero e i suoi rami si allungheranno piú robusti di prima. In autunno le foglie cadono, a primavera rispuntano. Il sole la sera tramonta a occidente, la mattina rinasce a oriente. Vecchi trucchi della natura. — Sarà, — dice il bandito-medico, — per me è la prima volta che vedo rinascere un orecchio. Ha fatto qualche cura speciale, ultimamente? — Sí, ho fatto una cura per fare ricrescere i capelli. Sa, ero diventato completamente calvo. Un mio caro amico mi ha procurato una ricetta orientale. — Questi cinesi, — borbotta il capo, — ne inventano di tutti i colori. Ma non perdiamoci in chiacchiere. E scrive il messaggio da accompagnare al dito: «Questo è il secondo pezzo. Domani mattina, se non avremo i soldi, vi manderemo un piede intero». Alla vista del dito, svengono venti direttori su ventiquattro; i rimanenti si rifugiano sotto il tavolo. I segretari prendono nota d'ogni cosa sui loro taccuini senza battere ciglio. Il medico chiamato a esaminare il reperto, detta: — Dito indice mano destra, in perfetto stato di conservazione. Taglio netto a metà della falange. Il dito appartiene a persona in buona salute, di età compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni. — Ancora l'impostore! — si sente esclamare. — La nocca, — prosegue il medico, scrutando la medesima con una lente a cinquanta ingrandimenti, presenta il tipico callo del pugilatore. — Cosa? — Vuol dire che il padrone del dito fa del pugilato. Come minimo, si allena con il sacco di sabbia. Osservino con i loro occhi personali. — Il signor barone non ha mai fatto pugilato. Anzi, fino a una decina di anni fa è stato presidente dell'Associazione — Contro gli Sport Violenti, ha finanziato campagne di stampa contro la caccia e la lotta libera. In India è stato insignito della Medaglia della Mitezza. — Che altro ci può dire sul dito? — La pelle presenta altre notevoli callosità, provocate dall'uso prolungato dei remi... dallo strofinamento con corde di canapa... — Un cordaio? — La vela, signori: lo sport della vela. — Un marinaio? Si fanno ipotesi sull'impostore; ma rimane, congedato il medico dopo avergli pagato la parcella piú l'Iva, la domanda fondamentale: perché mai un impostore si farebbe fare a pezzi al posto del barone? — Un santo, forse... L'isola porta pure il nome di un gran santo, che la scelse per edificare la sua centesima chiesa. — Il barone Lamberto è sicuramente un uomo di alti meriti, protettore delle vedove e degli orfani, promotore del credito, devoto alle finanze, eccetera, ma da questo a supporre un intervento celeste in suo favore, ci corre. — Bisognerebbe interpellare il parroco. — Trattandosi del barone, piuttosto il vescovo. — Signori, — dichiara una voce energica, — non mescoliamo il sacro al profano. Per noi l'impostore è soltanto un impostore. Abbiamo una sola cosa da fare: respingere la sua impostura. — Benissimo, rimandiamo il dito al mittente e mettiamo per iscritto che non lo riconosciamo come proprietà del barone Lamberto. La proposta è accolta. — Esigiamo, — aggiunge un altro dei piú arditi, — di vedere l'intero barone in persona. — Eccellente suggerimento. — Questo taglia la testa al toro. — Speriamo che non provochi al barone altri tagli. — Ma se si tratta di un impostore! — Ah, sí, l'avevo dimenticato. Duilio sta già volando su per la scala della Comunità. Poi rivola giú, inseguito da giornalisti, fotografi, telecronisti d'ambo i sessi. — Che cosa succede? — A che punto sono le trattative? Duilio mostra la busta chiusa, nella quale c'è il dito del barone, il messaggio del capobanda e il contromessaggio dei ventiquattro direttori generali. Viene una bellissima fotografia, ma la busta rimane un mistero per tutti. È troppo piccola per contenere ventiquattro miliardi. È troppo spessa per contenere solo un foglio di carta. Dall'alto delle colline circostanti i cannocchiali da marina e i telescopi astronomici inquadrano la busta, Duilio col braccio alzato, il palazzotto della Comunità. Gli ultimi arrivati (ce ne sono sempre) domandano ingenuamente: — Chi è quello? — Ma è il famoso barcaiolo Duilio, soprannominato Caronte. — Interessante. E che fa, con quella busta in mano? La caccia al tesoro?

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. — Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora Merlo, che è di turno: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte: — Alberto, Alberto... Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza: — Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo Ottavio.

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Abbiamo notizie del caro nipotino? — No, signor barone. L'ultima volta ha chiesto in prestito venticinque milioni per pagare un debito di gioco. È stato un anno fa. — Ricordo, li aveva persi ai birilli, da quel vizioso che è sempre stato. Be', Anselmo, preparami una camomilla. Il barone Lamberto possiede la piú ricca collezione di camomille del mondo. Contiene camomille delle Alpi e degli Appennini, dei Pirenei e del Caucaso, delle Sierre e delle Ande, perfino delle valli himalayane. Ogni tipo è catalogato in appositi scaffali, con un cartellino su cui sono indicati il luogo, l'anno e il giorno della raccolta. — Suggerirei, — dice Anselmo, — una Campagna Romana del 1945 . — Fa' tu, fa' tu. Un giorno all'anno la villa apre cancelli e portoni e i turisti possono visitare le collezioni del barone Lamberto: quella delle camomille, quella degli ombrelli, quella dei pittori olandesi del Seicento... Arrivano i visitatori da ogni parte del mondo e i barcaioli d'Orta, che li trasportano all'isola con le loro barche a remi o a motore fanno affari d'oro e d'argento.

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. — Abbiamo il nipote, — osserva un discepolo. — Quello vale anche meno. Nel suo ultimo testamento il barone gli ha lasciato solo una barca a vela. Lui lo ignora, ma io lo so di sicuro e senza il minimo dubbio. La nostra impresa è fallita. Non ci rimane che squagliarcela. — E cadere nelle mani della polizia che circonda l'isola? — L'aviatore che doveva venirci a prelevare con il suo aeroplano... — Non si farà vivo, perché non c'è piú niente da guadagnare nemmeno per lui. Il capobanda vede la situazione senza illusioni. — Dobbiamo trovare la maniera di andarcene senza essere notati. — Forse se ci trasformassimo in uomini invisibili... — Non dire scemenze. — Scaviamo un tunnel sotto l'isola, sotto il lago, sotto le montagne e usciamo in territorio svizzero. — Sta' zitto e fammi pensare. — Perché, solo tu puoi pensare? — Pensate anche voi, pensiamo tutti insieme, ma che nessuno parli per dire stupidaggini. Pensano e pensano, ma è come grattare un muro di marmo: non viene via niente, le unghie non ci prendono. Ogni tanto uno ha uno scatto, apre la bocca, tutti si voltano dalla sua parte, ma l'idea, sul punto di essere formulata in parole, si è dileguata. — Ce l'avevo sulla punta della lingua, — si scusa quello. I ventiquattro Lambert, uno dopo l'altro, si distraggono. C'è chi vorrebbe trovarsi su una spiaggia delle Baleari, chi su una terrazza d'albergo a Macugnaga, a contemplare il Monte Rosa. Solo il capo sa concentrarsi come si deve. Gli fanno fin male i denti, da tanto si concentra. Ma l'idea non arriva. — Proviamo con il vocabolario, — egli dice a un certo punto. Non tutti sanno cosa sia un vocabolario, ma restano zitti per non passare da analfabeti. Del resto il capo ha già preso un librone da uno scaffale, infila un dito a caso tra le pagine, apre e legge: — «Finimondo». Be', se venisse la fine del mondo, nella confusione potremmo scappare fino a Brindisi. Proviamo ancora. La parola seguente è: «Lince. Mammifero europeo dei Carnivori, abile predatore, con pelo morbidissimo e orecchie a punta sormontate da un ciuffo di peli». Poi esce: «Borotalco». — Splendido, — dice uno, — facciamo venire venti- quattro sacchi di borotalco, ci nascondiamo dentro e rispediamo la merce alla ditta con la scusa che è bianco e noi lo volevamo rosa. Durante il viaggio saltiamo giú dal camion... — «Trapezio», — legge il capo, continuando ad infilare il dito a caso nelle vecchie pagine, in cerca di un suggerimento utile. Escono in fila disordinata: «Mirmecologia. Studio zoologico delle formiche»; «Scovolino. Arnese filiforme di feltro per pulire pipe, bottiglie e simili»; «Caciotta. Formaggio tenero in forma schiacciata e rotondeggiante, dell'Italia centrale». Ottima per la merenda, ma inservibile per la fuga. Il capo insiste con rabbia crescente. Adesso le parole non le legge più, le spara come pallottole: «Dodecaedro. Metaforico. Sobbollire. Prolegomeni. Finestra». Alla parola «finestra», i banditi sospirano di sollievo. Questa, almeno, sanno cosa vuol dire senza leggere la spiegazione. Poi salta fuori la parola «pipí» e tutti scoppiano a ridere. Non sapevano che il vocabolario contenesse anche quelle parole lí. Dal gran ridere, qualcuno se la fa addosso, la parola. Il capo non ride. Ha aperto il vocabolario a una pagina qualunque ed è rimasto li, col dito puntato e gli occhi spalancati. Sembra di sentire il ronzio del suo cervello che riflette. Ne passano dei minuti di silenzio, prima che riapra bocca. — Cretino, — dice. — Ah, ci stanno scritti anche gli insulti? Di bene in meglio. — Cretino io, a non averci pensato prima, — precisa il capo. — Cos'hai trovato? — Dài, leggi. — Non tenerci sulle spine. — «Pallone», — legge il capo. Gli altri ventitre Lamberti lo guardano senza capire, col vago sospetto che il capo, per lo sforzo mentale, stia perdendo la ragione. — Cosa c'entra la Juve, — bisbiglia un Lamberto al suo vicino. — E l'Inter, allora? Ma il capo dei Lamberti non sta pensando al campionato. La parola letta nel vocabolario gli ha fatto ricordare qualcosa che è successo nei primi giorni dell'occupazione. — Eravamo nelle cantine, io, il barone e il suo maggiordomo. — Avete un'idea di quanto siano grandi le cantine della villa? Quel giorno io le ho visitate metro per metro, piano per piano. Lo sapevate che ci sono cinque piani sotterranei? — Non ce l'avevi mica detto, come facevamo a saperlo? — Nel quinto, cioè il piú profondo, il barone tiene, anzi teneva il suo museo personale. Me l'ha mostrato solo perché lo minacciavo con la pistola. Ci conservava la carrozzina in cui lo portava a spasso la sua balia, il triciclo su cui ha imparato a pedalare, la cassaforte della sua prima banca, la fotocopia del primo miliardo, insomma, i suoi ricordini personali. Una stanza del museo è completamente occupata da grossi pacchi legati con una robusta corda. E sapete che cosa c'è in quei pacchi? Quel giorno il barone ha detto proprio cosí: «Qui dentro c'è il piú bel sogno della mia vita. Ci sono tutti i pezzi del pallone aerostatico con cui avevo in mente di conquistare il Polo Nord, che ancora non era stato raggiunto da nessuno. Ci sono i teli, le parti della navicella, le bombole del gas. In questa cartella ci sono i disegni e le istruzioni. Anche un bambino, volendo, potrebbe rimontare il pallone in poche ore». Io l'ho ascoltato con un orecchio solo, perché allora non m'interessava. Fortuna che me ne sono ricordato in tempo. Avete capito, adesso? — No, — borbottano due o tre voci, in tono di mortificazione. — Fuggiremo in pallone. — Bravo, cosí la polizia ci sparerà e... fiiiit, il pallone si sgonfierà. — Fuggiremo di notte. — Ci vedranno con i riflettori... — No, se faremo sapere alla polizia che i riflettori dànno fastidio al barone Lamberto, perché la loro luce, penetrando dalle finestre, gli impedisce di dormire. — E dove andremo? — In Svizzera. — E dopo? — E dopo la mamma vi rimboccherà le coperte, vi darà una caramella col buco e un bacetto in fronte. Finiamola con le chiacchiere e mettiamoci al lavoro. Non tutti i Lamberti sono persuasi, ma il capo sembra di nuovo tanto sicuro di se stesso... Non resta che seguirlo. Qualcuno ha un'idea migliore? Nessuno. C'è altro da tentare? Non c'è. Almeno ora c'è un programma chiaro: gonfiare il pallone, salirci, fuggire di là dalle montagne.

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