C'era due volte il barone LambertoGianni Rodarimarcatura a cura didott.ssa Francesca MarranzanoAccademia della Crusca
Available for academic research purposes only.
Gianni RodariC'era due volte il barone LambertoTriesteEdizioni EL - Einaudi Ragazzi1996
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LA COLLANA FANTASTICA
Gianni Rodari
C'ERA DUE VOLTE
IL BARONE LAMBERTO
illustrazioni di Francesco Altan
EDIZIONI EL - EINAUDI RAGAZZI
L A COLLANA F A N T A ST IC A
Edizione speciale pubblicata su licenza di
Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste)
1992, 1996 Edizioni EL, San Dorligo della Valle (Trieste)
1996 Altan/Quipos S.r.l. per le illustrazioni
Progetto grafico della copertina: Gaia Stock
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di riferimento. Tutti i diritti di copyright sono riservati.
Ogni violazione sarà perseguita a termini di legge.
Gianni Rodari
C'era due volte
il barone Lamberto
ovvero I misteri dell'isola di San Giulio
Illustrazioni di Francesco Altan
C'era due volte il barone Lamberto
In mezzo alle montagne c'è il lago d'Orta. In mezzo
al lago d'Orta, ma non proprio a metà, c'è l'isola di San
Giulio. Sull'isola di San Giulio c'è la villa del barone
Lamberto, un signore molto vecchio (ha novantatre
anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia,
Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre
malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il
maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene
elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino:
asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica,
e cosí avanti fino alla zeta di zoppía. Accanto a ogni
malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere,
a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e
quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori: «Stare
attenti al sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare
lo zucchero, che non va d'accordo con il diabete»,
«Evitare le emozioni, le scale, le correnti d'aria, la
pioggia, il sole e la luna».
Certe volte il barone Lamberto sente un dolorino qui
o lí, ma non riesce ad attribuirlo con precisione ad una
delle sue malattie. Allora domanda al maggiordomo:
— Anselmo, una fitta qui e l'altra lì?
— Numero sette, signor barone: l'ulcera duodenale.
Oppure: — Anselmo, ho di nuovo quelle vertigini.
Che sarà mai?
— Numero nove, signor barone: il fegato. Ma ci potrebbe
essere anche lo zampino del numero quindici, la
tiroide.
Il barone confonde i numeri.
— Anselmo, oggi vado malissimo con il ventitre.
— Le tonsille?
— Ma no, il pancreas.
— Col suo permesso, signor barone, al pancreas abbiamo
assegnato il numero undici.
— Cosa mi dici! Il numero undici non è la cistifellea?
— Cistifellea cinque, signor barone. Controlli lei
stesso.
— Non importa, Anselmo, non importa. Che tempo
fa?
— Nebbia, signor barone. Temperatura in diminuzione.
Neve sull'arco alpino.
— Sarà ora di andare in Egitto, eh?
Il barone Lamberto possiede una villa anche in
Egitto, a due passi dalle piramidi. Ne ha un'altra in
California. E poi una sulla Costa Brava, in Catalogna, e
una sulla Costa Smeralda, in Sardegna. Possiede pure
appartamenti ben riscaldati a Roma, Zurigo e Copenaghen.
Ma d'inverno, piú che altro, va in Egitto a
cuocersi al sole le vecchie ossa, specialmente quelle
lunghe, il cui midollo è tanto importante perché è la
fabbrica dei globuli rossi e dei globuli bianchi.
Cosí, anche quella volta vanno in Egitto. Però ci restano
poco. Difatti succede che, durante una passeggiata
lungo il Nilo, incontrano un santone arabo e
fanno un po' di conversazione con lui. In seguito a
questo incontro il barone Lamberto e il maggiordomo
Anselmo volano in Italia con il primo aereo e tornano
a chiudersi nella villa sull'isola di San Giulio, a fare certi
esperimenti. Passa del tempo e non sono piú soli. Nelle
soffitte della villa, ora, ci sono sei persone che giorno
e notte ripetono il nome del barone:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Lamberto, Lamberto, Lamberto.
Comincia la signorina Delfina, continua il signor
Armando. Finisce il signor Giacomini, attacca la signora
Zanzi. Poi tocca al signor Bergamini, quindi alla
signora Merlo, ed ecco di nuovo il turno della signorina
Delfina. Fanno un'ora a testa, di notte due ore.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Lamberto, Lamberto, Lamberto.
Alla signorina Delfina, ogni tanto, viene da ridere.
Prima di addormentarsi, pensa: «Che razza di lavoro!
A che cosa mai potrà servire? I ricchi sono matti».
Gli altri cinque non ridono e non si fanno domande.
Sono ben pagati, perché ricevono uno stipendio pari a
quello del presidente della Repubblica, piú vitto, alloggio
e caramelle a piacere. Le caramelle sono per
quando gli si secca la lingua. Di che cosa dovrebbero
darsi pensiero?
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Anche la domenica. Anche il giorno di Natale. Anche
l'ultima notte dell'anno.
Essi non sanno che in ogni angolo delle soffitte sono
nascosti tanti piccoli microfoni, cui corrispondono in
ogni punto della villa minuscoli altoparlanti altrettanto
invisibili. Ce n'è uno sotto il cuscino nel letto del barone,
uno dentro il pianoforte nel salone delle feste. Ce
ne sono due nel bagno padronale: uno fa corpo con il
rubinetto dell'acqua fredda, l'altro con il rubinetto
dell'acqua calda. In qualunque momento, si trovi in
cantina o in biblioteca, in sala da pranzo o al gabinetto,
il barone Lamberto pigia un bottone e ascolta:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Anche il maggiordomo Anselmo, almeno una volta
ogni mezz'ora, controlla che lassú, nelle soffitte, il lavoro
proceda senza interruzioni, che il nome sia pronunciato
esattamente, che ogni sillaba abbia il giusto
rilievo, che i sei si guadagnino onestamente il pane e le
caramelle.
Il barone, in principio, non è del tutto soddisfatto.
— Da' retta, Anselmo, — egli si lagna, — la maiuscola
non si sente.
— Purtroppo, signor barone, non esiste un modo di
pronunciare le maiuscole diversamente dalle minuscole.
— La lingua parlata ha di queste manchevolezze.
— Lo so, ma è ben fastidioso. La «Elle» iniziale del
mio nome suona esattamente come la «elle» di lumaca,
lucertola, lecca-lecca. È deprimente. Mi domando
come abbia potuto tollerare, il grande Napoleone, che
la «Enne» del suo nome imperiale avesse lo stesso
suono di quella di navalmeccanico, nottolino, natica.
— Naso, nausea, nittitazione, — aggiunge Anselmo.
— Che vuol dire nittitazione?
— L'atto di aprire e chiudere rapidamente gli occhi.
Il barone riflette.
— Dovrebbero almeno sforzarsi, mentre pronunciano
il nome, di vederlo con gli occhi della mente, con la sua
grande Elle al primo posto.
— Questo si può fare, — dice Anselmo. — Metteremo
su tutte le pareti delle soffitte dei cartelli con il nome
scritto in stampatello, perché lo vedano mentre lo
pronunciano.
— Buona idea. Poi bisognerebbe avvertire la signora
Zanzi di non tenere cosí lunga la seconda sillaba di
Lamberto, smorzando la terza: ne risulta un effetto di
belato — «bèèè bèèè» — che bisognerebbe evitare a tutti
i costi.
— Sarà fatto, signor barone. Se permette, allora, pregherò
anche il signor Bergamini di non separare troppo
nettamente le tre sillabe del nome. Ne risulta, se cosí
posso esprimermi, un effetto da stadio calcistico.
Sembra l'invocazione di un tifoso: Lam-ber-to — Lam-ber-to...
— Provvedi, Anselmo, provvedi. E da parte loro ci
sono richieste?
— La signora Merlo vorrebbe il permesso di lavorare
a maglia quando è il suo turno.
— Concesso, purché non le venga in mente di contare
i punti ad alta voce.
— Il signor Giacomini vorrebbe l'autorizzazione a
pescare dalla finestra della soffitta nord, che guarda a
picco sull'acqua.
— Ma non ci sono pesci, nel lago d'Orta...
— Gliel'ho fatto osservare. Gli ho spiegato che il
Cusio è un lago morto. Mi ha risposto che per lui l'importante
è pescare, non prendere pesci, e che un lago
morto o un lago vivo, per un vero pescatore, sono assolutamente
la stessa cosa.
— Allora s'accomodi.
Il barone si alza, aiutandosi con i suoi due bastoni dal
pomo d'oro massiccio, fa tre passi zoppicando (n. 24,
zoppia) fino al divano piú vicino e vi si lascia cadere.
Pigia un altro bottone e si pone in ascolto:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Questa è la voce della signorina Delfina.
— Sí, signor barone.
— Che bella pronuncia. Si distingue benissimo ogni
lettera del nome che, come tu Anselmo avrai notato, è
composto di lettere tutte differenti.
— Anche il mio, se il signor barone permette.
— Anche il tuo. E anche Delfina. Sono belli i nomi in
cui nessuna lettera compare piú di una volta. Qualche
volta sono belli anche gli altri. La povera mamma, per
esempio, si chiamava Ottavia, un nome in cui la «t» è
raddoppiata e la «a» è ripetuta. Nel suo caso questo
suonava molto bene. Però mi dispiace che mia sorella
abbia voluto battezzare Ottavio il suo unico figlio. Ottavio
comincia e finisce con la stessa vocale. Le due «o»
fanno l'effetto di due parentesi. Un nome tra parentesi,
che roba... Sarà per questo che l'Ottavio mi è tanto
antipatico. Non credo che lo lascerò erede di tutte le
mie ricchezze... Purtroppo non ho altri parenti...
— No, signor barone.
— Tutti morti prima di me, tranne l'Ottavio. E lui sarà
li che aspetta il mio funerale, s'intende. Abbiamo notizie
del caro nipotino?
— No, signor barone. L'ultima volta ha chiesto in
prestito venticinque milioni per pagare un debito di
gioco. È stato un anno fa.
— Ricordo, li aveva persi ai birilli, da quel vizioso che
è sempre stato. Be', Anselmo, preparami una camomilla.
Il barone Lamberto possiede la piú ricca collezione di
camomille del mondo. Contiene camomille delle Alpi e
degli Appennini, dei Pirenei e del Caucaso, delle Sierre
e delle Ande, perfino delle valli himalayane. Ogni tipo
è catalogato in appositi scaffali, con un cartellino su cui
sono indicati il luogo, l'anno e il giorno della raccolta.
— Suggerirei, — dice Anselmo, — una Campagna Romana
del 1945 .
— Fa' tu, fa' tu.
Un giorno all'anno la villa apre cancelli e portoni e i
turisti possono visitare le collezioni del barone
Lamberto: quella delle camomille, quella degli ombrelli,
quella dei pittori olandesi del Seicento... Arrivano
i visitatori da ogni parte del mondo e i barcaioli
d'Orta, che li trasportano all'isola con le loro barche a
remi o a motore fanno affari d'oro e d'argento.
È il turno della signora Zanzi.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Essa sta molto attenta a non calcare sulla seconda
sillaba, perché non si senta quel «bèèè bèèè bèèè» che
le è stato rimproverato. Anche lei come la signora
Merlo, per non annoiarsi, lavora a maglia e ci si trova
bene. Non deve nemmeno contare i punti, le sue mani
contano per lei.
In un'altra stanza delle soffitte il giovane Armando
ascolta le riflessioni della signorina Delfina.
— Questo lavoro, — dice Delfina, — non mi convince.
— Io lo trovo facilissimo, — ribatte Armando. — Pensi
se avessimo dovuto ripetere la parola «pterosauro».
— E cosa vuol dire?
Rettile volante della preistoria. C'era la settimana
scorsa nelle parole incrociate.
— Cosa c'entra? Questo lavoro sarebbe misteriosissimo
anche se dovessimo ripetere giorno e notte la parola
«polenta», o «pancotto».
— Io non ci vedo niente di misterioso: il barone paga,
noi facciamo quello che ci ordina di fare. Punto e basta.
Lui ci mette il capitale, noi il lavoro. Attacca l'asino
dove vuole il padrone.
— E il prodotto? Io ho lavorato dieci anni in una
fabbrica di calze. Il padrone pagava (male, a dire la
verità), io lavoravo e alla fine saltavano fuori le calze.
Noi che cosa produciamo?
— Signorina, non complichi troppo le cose. Faccia
conto che la paghino per fare pubblicità al sapone Pik
Puk. Lei non deve produrre il sapone, deve solo dire:
Pik Puk, Pik Puk, Pik Puk. E la gente corre a comprare
il sapone perché quando si lava la faccia le sembra di
sentire la sua bella vocina e di vedere il suo bel nasino.
— Lasciamo da parte i complimenti. Noi non stiamo
facendo la pubblicità al barone Lamberto, che non è in
vendita. Lavoriamo di nascosto, come se si trattasse di
una cosa proibita.
— Sarà un segreto militare.
— Ma via...
— Un segreto atomico.
— Ma andiamo...
— Signorina, ho calcolato che ogni volta che pronuncio
la parola Lamberto guadagno cinquecento lire.
Le sembrano poche? Il trattamento è ottimo. La cucina,
di prima classe. Oggi, per esempio, il signor Anselmo
ci ha servito risotto coi tartufi e anatra alla pechinese.
Io ho lavorato dodici anni in una fabbrica di
frigoriferi, ma sempre a pane e mortadella. Qui avevo
cominciato a ingrassare, ma quando ho chiesto, a nome
di tutti, che una delle soffitte fosse attrezzata a palestra,
siamo stati accontentati nel giro di ventiquattr'ore. E
che attrezzi: roba da miliardari. E anche a lei piace fare
ginnastica. Di che si lamenta?
— Non mi lamento, ma delle cose mi piace sapere il
perché.
— E quando l'ha saputo, che ci fa? Il caffè?
Ora è il turno della signora Merlo. In un'altra stanza
della soffitta riposano beatamente il signor Bergamini
e il signor Giacomini, il quale, come al solito, sta pescando.
Ha gettato l'esca dalla finestra e aspetta. L'attività
principale del vero pescatore è aspettare. A
prendere i pesci sono buoni tutti. Questa, almeno, è la
sua opinione.
— È come alle Olimpiadi, — spiega. — L'importante è
partecipare, non vincere.
Alle sue spalle anche il signor Bergamini aspetta. Un
caso quasi miracoloso ha voluto che si ritrovassero insieme
un vero pescatore e un autentico osservatore di
pescatori, quello che non si spazientisce se il pescatore
non pesca nulla, ma tiene le mani in tasca, fuma la pipa,
osserva e lascia passare il tempo senza fare commenti.
Quando parlano, il pescatore e l'osservatore di pescatori
rievocano pesche passate, avvenute altrove, o si
confidano opinioni su svariati argomenti.
— Ha notato, — dice il signor Giacomini, — che il signor
Anselmo non abbandona mai il suo ombrello?
— Secondo me, — risponde il signor Bergamini, — lo
porta anche quando fa la doccia.
Infatti il signor Anselmo tiene sempre un ombrello di
seta nera appeso al braccio per il manico di legno.
— Brava persona, però.
— Niente da dire.
Quando è il turno del signor Giacomini, egli lascia la
canna fissata alla finestra e prega il signor Bergamini di
dare un'occhiata al galleggiante. Il signor Bergamini è
un vero osservatore di pescatori: continua ad osservare
anche quando il pescatore si allontana.
Intanto presta orecchio alle chiacchiere delle signore
Zanzi e Merlo, che sferruzzano in soggiorno. La signora
Merlo è preoccupata. Essa ha un cugino che si chiama
Umberto e un altro che si chiama Alberto. Quando
tocca a lei il turno, quei due nomi le arrivano continuamente
fin sulla punta della lingua, cento volte è già
stata lí lí per fare «Um» o «Al», invece di «Lam».
Dopo va via liscia, perché la seconda e la terza sillaba
sono uguali nei tre nomi: Umberto, Alberto, Lamberto.
Ma la prima sillaba è sempre il risultato di una lotta
che si svolge, tra cervello e lingua, a velocità elettronica.
Ogni volta essa deve scegliere la sillaba giusta tra
«Lam», «Al» e «Um».
— Finora, per fortuna, — dice, — non mi sono mai
sbagliata.
— Vedrà che ci prende la mano. Ma non creda, anch'io
ho le mie difficoltà. Mi vengono in mente ogni
sorta di parole che cominciano per «lam», come lampo,
lampadina, lampione, lampreda. La prima sillaba va
d'incanto. Le tentazioni vengono con la seconda. Capirà,
è una questione di coscienza: sono pagata per dire
Lamberto; se dicessi lampeggiatore mi sembrerebbe di
rubare il salario.
Ogni tanto, giú in cucina, il maggiordomo Anselmo
pigia il bottone giusto e ascolta le conversazioni che si
svolgono in soffitta. Gli fanno compagnia, mentre
prepara il timballo di riso o le bracioline alla panna.
Non lo fa per spiare, ma per imparare tante cose. È un
vero studioso, lui.
Il signor barone, invece, mai ascolterebbe una conversazione
privata. La sua povera mamma, quand'era
piccolo, gli ha insegnato che non si deve origliare. Lui
ascolta solo per controllare che il lavoro venga eseguito
come si deve:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Quelle voci gli dànno una sensazione di sicurezza. È
come se ci fosse sempre una sentinella a vegliare su di
lui per tenere lontani i nemici.
Lo sa bene che quelli lassú ripetono il suo nome solo
perché sono pagati per farlo. Ma lo fanno con tanto
scrupolo e qualche volta perfino con tanta grazia che il
barone non può fare a meno di pensare: «Senti come
mi vogliono bene».
Una mattina il barone, guardandosi allo specchio,
scopre che col favore delle tenebre gli è spuntato un
capello. Un capello biondo. Eccolo li che trema in mezzo
al cranio calvo, tempestato di macchioline marrone.
— Anselmo! Presto! Vieni a vedere.
Anselmo accorre tanto in fretta che dimentica l'ombrello
e a metà strada deve tornare indietro a prenderlo.
— Guarda: un capello. Erano quarantacinque anni
che non si vedeva niente del genere sulla mia testa.
— Un momentino, signor barone.
Anselmo va a cercare la grande lente con cui il barone
osserva i francobolli della sua collezione. Nella lente
il capello sembra un albero dorato dal sole. Ma c'è
di piú...
— Se il signor barone permette, — dice Anselmo, — non
si tratta di un semplice capello, bensí di un capello
naturalmente ondulato, forse ricciuto.
— Quand'ero piccolo, — sussurra il barone, commosso,
— la povera mamma mi chiamava «il mio ricciolino».
Trovandosi con la lente in mano, Anselmo ne approfitta
per esplorare attentamente tutta la superficie
del cranio padronale, in silenzio. Sotto la pelle la cupola
delle ossa rivela la sua ingegnosa architettura,
primo modello naturale del Pantheon, del Cupolone di
Michelangelo e del casco da motociclista.
— Qui, — egli conclude, — dove l'osso parietale destro
incontra l'osso denominato etmoide, o la lente m'in-
ganna, o io sono un visionario, oppure sta spuntando
un secondo capello. Sí, ecco, ha bucato il cuoio capelluto,
ha messo fuori prudentemente la punta, spinge
pian piano, passa...
— Tu saresti un ottimo radiocronista, — commenta il
barone.
— Non c'è dubbio: è un capello biondo. Pura seta.
Ma... Aspetti, aspetti...
— Che c'è? Il capello si è spaventato? Si ritira nella sua
tana?
— Le sue rughe, signor barone...
La faccia del vecchio signore è come rappresa in una
ragnatela fittissima di rughe, talune sottili, appena
tratteggiate sull'epidermide, altre profonde come fossi.
Pare il muso di una tartaruga secolare.
— Ho l'impressione, — continua Anselmo, — che le
rughe si vadano spianando. Ricordo di averne contate
piú di trecento all'angolo di quest'occhio e ora scommetterei
il mio ombrello che sono molte di meno. La
pelle diventa liscia a vista d'occhio. Dai suoi strati piú
profondi salgono cellule giovani, piene di vita e di
speranza, per prendere il posto di quelle vecchie che
tramontano malinconicamente.
— Anselmo, — dice il barone, — non mi diventare
poeta. A me la mia faccia sembra ancora quella di ieri.
Due capelli non fanno primavera.
La mattina seguente, però, deve ammettere anche lui
che le rughe si stanno cancellando. La pelle, al tocco,
non dà più quella sgradevole impressione di carta vetrata.
I capelli, in vari punti del cranio, formano ciuffetti
sbarazzini. Gli occhi, fino a qualche settimana fa
seminascosti dalla pesante cortina delle palpebre, si
affacciano alla luce con rinnovata vivacità. Si vede
l'iride azzurra che circonda il foro nero della pupilla
come il lago d'Orta circonda l'isola di San Giulio.
— Direi, — riferisce il barone, analizzando le proprie
sensazioni, — che i coni e i bastoncelli della mia retina
si siano svegliati da un lungo sonno. Il nervo ottico era
un tubo intasato: adesso i messaggi vanno e vengono
dal cervello a velocità supersonica. Mi sembra presto
per cantare vittoria, ma un fatto è certo: da molti anni
nessun medico e nessuna medicina riuscivano a darmi
un tale senso di benessere. Anselmo, io comincio a star
meglio.
— Controlliamo, — propone il maggiordomo, cavando
di tasca il suo taccuino.
— Avanti.
— Numero uno, asma.
— L'ultimo accesso è stato diversi mesi fa. Eravamo
appena tornati dall'Egitto.
— Numero due, arteriosclerosi.
— Abbiamo mandato il sangue a Milano per le analisi
la settimana scorsa...
— Ha ragione il signor barone. Sono arrivate con la
posta di stamattina: tutto in regola. Il signor barone ha
oggi le arterie di un uomo di quarant'anni. Numero tre:
artrosi deformante.
— Guarda tu stesso le mie mani, Anselmo. Le loro
cinquanta e passa ossa non sono mai state piú agili. Non
parliamo degli otto ossicini del polso: smaniano addirittura
di essere messi alla prova.
Il signor barone si alza di scatto e va a sedersi al
pianoforte. Due o tre corse su e giú per la tastiera ed
ecco che in tutta la villa si diffondono i robusti accordi
delle Variazioni di Beethoven su un valzer di Diabelli.
Da quarantadue anni il barone Lamberto non toccava
un tasto.
Ora s'interrompe, alza il coperchio della coda,
schiaccia un bottone.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Il barone strizza l'occhio al maggiordomo. Nelle
soffitte il lavoro procede come sempre.
Il barone si rialza, fa due o tre passi e scoppia a ridere:
— Guarda, — dice, — ho dimenticato di reggermi ai
miei due fedeli bastoni dal pomo d'oro, e non casco.
Ossa e muscoli sono tornati a fare il loro dovere. Avrei
quasi voglia di una bella nuotata nel lago.
— Non esageriamo, signor barone. Cancelliamo il
numero 24 , zoppia, e riprendiamo i controlli.
— Dài, ricomincia pure.
— Numero quattro, bronchite cronica.
— Ho tossito l'ultima volta per Carnevale, perché mi
era andato un boccone di traverso.
— Numero cinque, la cistifellea.
— L'infiammazione dev'essere andata in vacanza, caro
Anselmo, perché da quella parte non sento più alcun
disturbo.
I controlli durano diversi giorni. Il barone Lamberto
e il suo fido maggiordomo passano sistematicamente in
rassegna, senza nulla trascurare:
— il sistema scheletrico;
il sistema muscolare (ci vogliono due mattine solo
per quello, perché i muscoli sono più di seicento e
vanno controllati uno per volta);
— il sistema nervoso (è cosí complicato che fa venire
i nervi);
— l'apparato digerente (il barone ormai digerirebbe
anche i gusci delle lumache);
— l'apparato circolatorio;
— i vasi linfatici;
— le ghiandole endocrine;
— il sistema riproduttivo.
Tutto in ordine, dai corpuscoli tattili, che avvertono
il cervello se l'acqua del bagno è troppo calda o troppo
fredda, alle trentatre vertebre della colonna, sia quelle
mobili che quelle fisse.
Ogni parte del corpo, ogni componente di quella
parte, ogni elemento della componente, vengono esaminati
con severità, perché non si permettano di nascondere
qualche malanno, il principio di un guasto, il
sospetto di un sabotaggio. I due esaminatori, come
viaggiatori coraggiosi, percorrono e ripercorrono il labirinto
delle vene e delle arterie, sbucando da ventricoli
e orecchiette, mescolandosi alle emazie e ai leucociti.
— Signor barone, i reticolociti si stanno moltiplicando
che è un piacere.
— E che cosa sarebbero i reticolociti?
— Dei globuli rossi piú giovani.
— Avanti con la gioventú, allora.
Barone e maggiordomo s'infilano nel tunnel di Corti
e penetrano nell'orecchio, sbarcano nelle isole di
Langerhans dalle parti del pancreas, si arrampicano sul
pomo d'Adamo, si avventurano nel groviglio dei
glomeruli di Malpighi che se ne stanno raggomitolati
nei reni, fanno l'altalena con l'ossigeno e l'anidride
carbonica dentro e fuori dai polmoni, salgono sul ponte
di Varolio, soffiano nella tromba di Eustachio, suonano
gli organi del Golgi, tendono tendini, riflettono sui riflessi,
fagocitano fagociti, fanno il solletico ai villi intestinali,
mettono in moto la doppia elica del Dna. Ogni
tanto si perdono di vista.
— Signor barone, dove si è nascosto?
— Sto aprendo il piloro. E tu, dove sei?
— Qua vicino. Sto succhiando i succhi gastrici. Ci
troviamo tra un momento nel duodeno.
Anselmo tiene il diario di bordo del viaggio. Ma tanti
esami forse non sarebbero tutti indispensabili. Basterebbe
la prova specchio. Chiunque, vedendo il barone
Lamberto, gli darebbe, sí e no, quarant'anni e si accorgerebbe
a occhio nudo che è sano in lungo e in
largo.
Poche settimane or sono era un vecchio tenuto su
solo dalle medicine e dai suoi due famosi bastoni col
pomo d'oro, e adesso eccolo lí, un uomo nel pieno vigore,
quasi un giovanotto, diritto, alto, biondo, sportivo.
Ha preso l'abitudine di fare il giro dell'isola a
nuoto tutte le mattine per tenersi in esercizio. Esegue
sul pianoforte i pezzi piú faticosi senza sudare. Fa
ginnastica. Spacca la legna per il caminetto. Rema,
porta la vela senza imbrogliarsi tra fiocco e randa, si
tuffa dai trampolini e, dove non ci sono, dagli alberi. Le
sue ventiquattro banche, intanto, gli mandano tutte le
settimane il resoconto dei profitti. E nelle soffitte della
sua villa sei ignari lavoratori, giorno e notte, lo nominano
senza sapere il perché (ma Delfina continua a
domandarselo):
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Il vecchio arabo aveva proprio ragione, — osserva il
barone, soddisfatto. — Come diceva esattamente? «Il
nome è detto»... «il nome vive»... qualcosa del genere,
mi pare.
— Ho annotato le sue testuali parole, — dice Anselmo,
sfogliando il suo taccuino. — Eccole qua: «L'uomo il cui
nome è pronunciato resta in vita».
— Bello, — commenta il barone, approvando col capo.
— Bello. «L'uomo il cui nome è pronunciato...» E anche
vero, visti i risultati della cura. Ah, l'antica saggezza
degli uomini del deserto!
— Se non ricordo male, — precisa Anselmo, — si tratta
di un segreto dei faraoni.
Il barone riflette.
— Loro però sono morti tutti. Come mai, se conoscevano
quel detto?
— Si vede che non ci credevano. Pensavano che fosse
un proverbio dei nonni, non una ricetta buona per tutte
le malattie.
— Dev'essere cosí, — conclude il barone. — Ma che
strano personaggio, quel santone. Io lo avevo scambiato
per un mendicante.
— L'aspetto era quello. Il tugurio in cui viveva, poi,
sembrava un pollaio. Le galline gli camminavano anche
sulla testa.
— Forse per beccarci i pidocchi, — ride il barone.
Appoggia una mano sul pianoforte e con un balzo lo
scavalca, esclamando: — Oplà. Se nasco un'altra volta,
farò l'artista in un circo equestre.
— Ma cosa dice, signor barone? Lei non può piú
morire!
— Già, non ci pensavo.
— Il barone pigia un bottoncino.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Ogni mattina gli spunta un dente nuovo. La vecchia
dentiera è finita nella spazzatura. Egli può schiacciare
le noci con i suoi molari personali.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
«L'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita».
A Roma c'è la Cupola di San Pietro. Dall'alto della
Cupola, se si sa dove guardare, si vede un attico circondato
da un grande terrazzo, dove siede sotto un
ombrellone un giovane sui trentacinque anni, dall'aspetto
meditabondo. È Ottavio, il nipote del barone
Lamberto, che riflette. Egli ha perso al gioco dei birilli
l'ultimo avanzo del patrimonio lasciatogli dalla sua
povera mamma. Oggi l'oste gli manderà il conto delle
gazose, che consuma a centinaia, offrendone generosamente
agli amici. Come farà a pagare?
— Sono rovinato, — egli constata. — L'unica mia speranza
è che lo zio Lamberto si decida a morire e mi lasci
erede del suo patrimonio. Almeno di un paio di
banche... Ormai deve avere quasi cento anni. Sarebbe
bene che mi facessi vedere da lui, per ricordargli che
sono l'unico figlio della sua unica sorella. Che faccio?
Vado o non vado? Farò testa e croce con la mia ultima
moneta da cento lire. Ecco, testa. Si parte.
Cinque ore di macchina, cinque minuti di barca,
cinque minuti a piedi per le viuzze dell'isola di San
Giulio, e Ottavio bussa al portone della villa baronale.
Gli viene ad aprire un giovane atleta sorridente.
— Buongiorno, chi desidera?
— Il barone Lamberto, per favore.
Quel giovane si ritira con un inchino. Poi torna, col
sorriso di prima.
— Con chi vuol parlare, prego?
— Ma, insomma, mi sta prendendo in giro? Ho chiesto
del barone Lamberto. Dov'è?
— Ma è qui, davanti a te. Ottavio, nipote mio, unico
figlio della mia unica sorella, non riconosci piú il tuo
amato zietto?
A Ottavio, per la sorpresa, gli viene un colpo e casca
per terra. Quando torna in sé cerca di scusarsi: — Il
piacere di vederti in cosí buona salute è stato troppo
forte. Al cuore non si comanda. Ah, ma sono proprio
contento. Come hai fatto? Hai trovato una nuova cura?
— Nuova, ma anche antica, — ridacchia il barone.
— Un segreto, — interviene il maggiordomo Anselmo,
strizzando l'occhio al suo padrone, quasi per invitarlo
rispettosamente alla prudenza.
— Un segreto cinese? — azzarda Ottavio.
— Acqua, acqua, — dice Anselmo.
— Indiano?
— Acqua, acqua.
— Persiano?
— Acqua, acqua, signor Ottavio.
— Be', — dice il barone, — ti ho visto con piacere. Ora
scusami un momentino. Anselmo, offrigli qualcosa,
un'aranciata, una camomilla, quello che preferisce.
— Una gazosa, grazie.
Quando Anselmo ricompare con la gazosa, è di ritorno
anche il barone, in tenuta da subacqueo.
— Vieni a fare un giretto con me nei bassifondi?
— Grazie, zio. La maschera mi fa venire il mal di denti.
— Allora, accomodati. Anselmo ti mostrerà la tua
stanza. Ci vediamo a cena.
Il barone Lamberto si allontana, saltellando come
una cavalletta. I suoi riccioli biondi ondeggiano festosamente
al vento della sera.
— È in gran forma, — dice Ottavio. — Nessuno direbbe
che ha novantatre anni.
— Ne compirà novantaquattro domani alle quindici e
venticinque, — precisa Anselmo.
«La situazione è tragica, — pensa Ottavio sdraiato sul
letto nella sua camera, mentre conta distrattamente le
travi del soffitto. — Speravo di trovare un moribondo e
mi vedo davanti un campione olimpionico con tutti i
muscoli, i denti, i capelli al posto giusto. L'eredità si
allontana. Chi pagherà le rate per la mia fuoriserie? Con
quali soldi giocherò ai birilli? Qua urgono provvedimenti».
Il primo provvedimento che prende, dopo cena, è di
rubare in cucina il trinciante con cui Anselmo ha tagliato
il fagiano al cognac, e di nasconderselo sotto il
cuscino. Poi va a dormire, ma punta la sveglia a mezzanotte.
La sveglia ha un carillon che suona l'inno di
Garibaldi: Si scopron le tombe, si levano i morti. Terminato
l'inno, Ottavio si alza senza far rumore, non
s'infila nemmeno le ciabatte, a piedi nudi va ad origliare
alla porta dello zio Lamberto. Lo sente russare vigorosamente.
È l'ora. Scivola dentro, si accosta al letto,
prende la mira al chiaro di luna che entra dalla finestra
e col trinciante d'argento — zac zac — taglia la gola allo
zietto. Poi torna a letto senza ricaricare la sveglia.
La mattina, aprendo gli occhi, sente cantare:
O come sto ben, o come sto ben,andare in barca mi convien.
Cielo! È lo zio Lamberto, piú vivo di ieri, in tenuta da
marinaio. Sulla gola non si scorge nemmeno un graffio.
— Forza, Ottavio! Si va a fare un po' di vela.
Ottavio si scusa, dice che il lago gli dà il mal di mare
e intanto riflette: «Questi trincianti del giorno d'oggi
non taglierebbero neanche il brodo di dadi. Proverò
con qualcosa di piú serio».
La notte seguente prova con una carabina automatica
rubata in sala d'armi. Carica la sveglia, dorme un
paio d'ore per essere calmo e riposato al momento decisivo;
poi, senza nemmeno aspettare che termini l'inno
di Garibaldi, s'insinua silenziosamente nella camera
dello zio Lamberto, che russa senza sospetto alcuno,
gli appoggia la bocca della canna al cuore, preme il
grilletto e lascia andare sette colpi. Tornando a letto si
frega le mani: «Stavolta voglio ben vedere!»
E chi gli dà la sveglia, la mattina? Di nuovo lo zio
Lamberto, vispo come un pesce persico, che canta:
O come sto ben, o come sto ben,andare a nuotare mi convien.
È in costume da bagno. Sul petto non ha nemmeno
una puntura di zanzara.
— Dài, Ottavio, si fa un po' di stile libero? Due giri del
lago, ti do mezzo giro di vantaggio.
Ottavio si scusa col dire che l'acqua del lago gli dà
l'orticaria e resta in casa a riflettere. Riflette e gironzola.
Fruga in tutti i cassetti, negli armadi e sotto i tappeti,
cercando la medicina segreta dello zio Lamberto. Capita
anche in sala di musica ed ecco sente una vocina
gentile gentile uscire dalla coda del pianoforte:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Ottavio non crede nei fantasmi e nei pianoforti parlanti,
perciò ispeziona lo strumento e finisce per trovare
il congegno nascosto da cui esce quella vocina, che ripete
senza stancarsi:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
È successo che il barone, prima di uscire, ha pigiato
il bottone per controllare che nelle soffitte fervesse il
lavoro a norma di contratto, poi si è dimenticato di
spegnere e l'altoparlante ha continuato a fare il suo
dovere.
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
«Molto interessante, — dice fra sé il giovane ricercatore,
— anche se un po' monotono. Vediamo dove va a
finire il filo».
Cammina e cammina, il filo e il nipote Ottavio finiscono
in soffitta e lí c'è una bella ragazza con i capelli
rossi e gli occhi verdi che tiene d'occhio un fumetto di
Linus e intanto recita, con voce chiara e distinta:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Signorina, guardi che io mi chiamo Ottavio, — dice
il medesimo.
— Spiritoso, — osserva il giovane Armando, sopraggiungendo.
— Si scansi e ci lasci lavorare. Delfina, tocca
a me.
Delfina si alza e si stira le braccia. Armando siede al
suo posto e attacca:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Ottavio è molto incuriosito e vorrebbe saperne di
piú.
— Signorina, — dice alla ragazza, seguendola in un'altra
stanza, — come mai si chiama Delfina?
— Mio padre era un gran re, era il re di Francia. Era
un signore molto nobile, con una parrucca fatta di fili
d'oro. In Francia il figlio primogenito del re si chiama
Delfino.
— Perché?
— Perché il re di Francia è anche il re dei delfini.
Quando la levatrice si accorse che non era nato un
maschio, ma una femmina, tutti dicevano: «Chissà
come si arrabbierà il re, chissà come si arrabbierà il re
di Francia». Mio padre, invece, fu contentissimo lo
stesso e decise di chiamarmi Delfina. E fece bene. Infatti,
per merito di questo nome, sono molto brava nel
nuoto e nei tuffi.
— Non credo una parola di quello che dice, anche se
lo dice con tanta grazia.
— Ha ragione di non credermi. Difatti non sono figlia
del re di Francia, ma di un povero pescatore. Una notte
egli usci a pescare con la sua barca nell'Oceano Indiano.
Quando fu al largo si accorse che un delfino seguiva
la sua scia con insistenza. Mio padre aveva in tasca un
tozzo di pane, che doveva essere tutto il suo cibo per
molti giorni e altrettante notti. Egli ne fece due parti e
ne offri una al delfino. Per combinazione quel delfino
non era un delfino, ma il re d'Inghilterra trasformato in
delfino da una cattiva strega e condannato a vagare per
gli oceani fino a quando un pescatore avesse diviso con
lui il suo ultimo pezzo di pane. Il delfino mangiò il
pane, ridiventò il re d'Inghilterra, sali sulla barca di mio
padre, si fece portare a riva e di qui alla stazione, dove
prese il treno per andare a uccidere la strega.
— E come ricompensò suo padre?
— Con un bellissimo ricordo. Quando io venni al
mondo, in onore di quel re d'Inghilterra venni chiamata
Delfina.
— Anche questa è una bella favola. Ora però vorrei
che mi dicesse la verità. Perché ve ne state lí a ripetere
il nome di mio zio Lamberto?
— Non lo sappiamo.
— Non vi sarete mica ammattiti tutti e due!...
— Tutti e sei, allora, perché siamo in sei. È il nostro
lavoro. Siamo pagati per questo. Piú vitto, alloggio e
caramelle a piacere.
— Strano lavoro.
— Ce n'è anche di piú strani. Ho conosciuto uno che
ha lavorato trent'anni a contare i soldi degli altri.
— Sarà stato un cassiere di banca. E da quanto tempo
fate questo lavoro?
— Da otto o nove mesi.
— Capisco.
— Allora è proprio bravo, perché io, invece, non ci
capisco niente. Ho accettato il posto solo perché è pagato
meglio di altri. Ma a dire la verità ne sono un po'
stufa. Ho l'impressione che mi faccia male alla salute.
— Anche gli altri cinque cominciano ad avere dei
doloretti, delle fitte qui e li, un po' di nausea la mattina,
qualche giramento di testa.
— Sarà perché state sempre al chiuso.
— Sarà. Arrivederla.
— Come, arrivederla, dove va?
— Vado a dormire. Sa, mi sono alzata presto per fare
il mio turno.
Ottavio vorrebbe trattenerla per tentare di saperne di
piú. Ripassando per la stanza di prima, vede il giovane
Armando che disegna su un quaderno a quadretti. Non
disegna, dipinge. Non dipinge, solo copre di nero un
quadretto sí e l'altro no. Intanto ripete, con voce professionale:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
«Qui, — riflette Ottavio, — come direbbero i nostri
vecchi, che la sapevano lunga, gatta ci cova. E qui, se
non mi sbaglio, dev'essere il segreto dello zio Lamberto».
Scendendo le scale incontra il maggiordomo Anselmo.
— Dov'è stato, signor Ottavio?
— Sul tetto, a vedere il panorama.
Il maggiordomo non fa commenti, ma decide che
sarà il caso, per il futuro, di tener d'occhio i movimenti
del signorino.
— C'è una barca disponibile? Dovrei fare una corsa
a Orta.
— Nella darsena ci sono tre barche a remi, tre a vela
e tre motoscafi.
— Andrò col motoscafo, — dichiara Ottavio. — I motori,
se non si tengono in esercizio, arrugginiscono.
— Parole sante, — approva Anselmo.
Ottavio attraversa il braccio di lago che divide l'isola
di San Giulio dalla cittadina di Orta. Cerca un medico,
si fa visitare e dice che non riesce a dormire.
— Ha provato a contare le pecore?
— Ne conto un milione per sera, ma non mi addormento.
— Ha provato a recitarsi il Piemonte di Giosue
Carducci?
— Con pessimi risultati: lo sforzo di ricordare un verso
dopo l'altro mi tiene sveglio.
— Provi a studiare a memoria i Promessi Sposi.
— Non sarebbe piú semplice se prendessi un buon
sonnifero?
— Ottima idea, — esclama il medico, — non ci avevo
pensato. Ora le scrivo la ricetta. Come si chiama, lei?
— Giovanni Pascoli.
— Che strano! C'era anche un poeta che si chiama-
va cosí.
— Era mio nonno. Il povero nonno Giovannino.
Ottavio, ad ogni buon conto, ha dato un nome falso.
Il suo progetto è di mettere il sonnifero nella cena di
quei sei che stanno nelle soffitte. Chi dorme, infatti, non
piglia pesci e non può nemmeno ripetere «Lamberto,
Lamberto, Lamberto...»
Ottavio la pensa cosí: «Mettiamoli a tacere, per prova,
per vedere quello che succede. Se quel che credo di
aver indovinato è vero, allo zio Lamberto gli verrà
perlomeno la polmonite. Poi da cosa nasce cosa...»
Continua a pensare, il giovane pensatore: «Se non ci
fosse di mezzo Delfina, potrei avvelenarli tutti e sei e
dare la colpa ai cibi guasti. Ma quella ragazza mi piace,
è troppo carina per morire giovane. Mi andrebbe per-
fino di sposarla. Ma bando, per ora, ai sogni matrimoniali:
provvediamo prima ad assicurarci l'eredità».
Cosí nella sua testa, un progetto si mescola all'altro.
Col sonnifero in tasca si dirige alla riva, sale sul motoscafo
e si avvia pian piano. Cosí piano che si fa sorpassare
da una barca carica di turisti olandesi in gita
d'istruzione. Essi vanno sull'isola a visitare la famosa
basilica del santo. Li porta il barcaiolo Duilio, che tutti
chiamano Caronte per dimostrare che hanno letto i
classici.
I turisti gli gridano qualcosa in olandese, ridendo.
Ottavio non si offende. Tanto piú che ben presto quella
barca, dopo aver toccato appena il piccolo imbarcadero
dell'isola, si stacca come scottata e torna indietro.
Caronte rema più in fretta che mai e, passando, grida
anche lui qualcosa.
— Cos'ha detto?
— Sull'isola non si può sbarcare. Ci sono i banditi.
— Ma quali banditi?
— Vada pure avanti, se ci tiene ad incontrarli, ma non
dica che non l'ho avvertito.
Prima di toccare terra, Ottavio incontra ancora una
piccola flotta di imbarcazioni che si allontanano dall'isola.
Sulla prima ci sono sei suore, sei povere suorine.
Sulla seconda, sulla terza e sulla quarta ci sono alcuni
commendatori con le loro famiglie. Sulla quinta un
vecchio signore solitario come un cane. È gente che
risiede sull'isola: le suorine tutto l'anno, gli altri solo
nella bella stagione.
— Che succede?
— Torni indietro! I banditi non le permetteranno di
sbarcare! Noi, come vede, ci hanno cacciati.
Tra i fuggiaschi non c'è lo zio Lamberto, non c'è
Anselmo, non ci sono quei sei delle soffitte...
— Io vado a dare un'occhiata, — decide Ottavio. E
dirige la prua verso la darsena. Lo accoglie un cittadino
mascherato che gli mostra un mitra e gli fa:
— Benvenuto, signore, l'aspettavamo. Posi là barca,
grazie. Da oggi sono sospese le regate.
— Cos'è, — domanda Ottavio, — è scoppiata la guerra?
— L'isola è occupata, signore. Ma lei può sbarcare,
perché fa parte della famiglia. Altre istruzioni le saranno
comunicate in seguito.
Ottavio obbedisce. Si può discutere con un mitra?
L'isola di San Giulio sembra fatta tutta a mano, come
un gioco di costruzioni. Metro per metro, secolo dopo
secolo, dandosi il cambio, uomini e altri uomini le
hanno dato forma con il loro lavoro. Se si vede del
verde, la natura non c'entra: sono i giardini delle ville.
Non si vedono rocce, ma pietre, mattoni, vetrate, colonne,
tetti. L'insieme è compatto come i pezzi di un
rompicapo. Di sera le differenze dei colori scompaiono,
i profili si fondono, l'isola sembra un monumento in un
sol blocco di pietra nera a guardia dell'acqua cupa. Da
qualche finestra invisibile parte un raggio di luce, come
un cordone gettato per tenere legata l'isola alla terraferma.
Sul lungolago di Orta la gente conta le luci.
— Sono quelle della villa del barone Lamberto.
— Per forza, c'è rimasto solo lui.
La notizia che l'isola è stata occupata dai banditi ha
richiamato migliaia di persone sulla riva. Ci sono gli
abitanti di Orta, usciti dalle antiche stradine, dai nobili
palazzotti e dalle ville fiorite, o scesi dai fianchi della
montagna. Ci sono i turisti, che lasciano raffreddare la
cena sui tavoli degli alberghi. Non ci sono i profughi,
che si sono ficcati a letto per rimettersi dallo spavento.
Al centro dell'attenzione sono i turisti olandesi e il
barcaiolo Duilio, che sono stati i primi a dare l'allarme.
Ma i turisti olandesi parlano olandese e non si capisce
una parola di quello che dicono. Tocca a Caronte rispondere
alle domande.
— Com'erano, com'erano?
— Chi?
— Ma i banditi, no?
— Avevano la maschera sulla faccia.
— Nera?
— Nera, blu, chi lo sa. Io tenevo d'occhio le armi.
— Fucili o mitra?
— Fucili, mitra e anche rivoltelle. E ne ho visti due che
piazzavano un cannoncino.
— Tu come lo sai che era un cannoncino?
— Saprò ben distinguere un cannoncino da un paiolo
per fare la polenta.
— Lo sai distinguere anche da un mezzo litro rosso?
A questo sfacciato, Duilio volta la schiena per rispondere
a un signore piú gentile, che domanda:
— Erano tanti?
— Tanti.
— Quanti, piú o meno?
— Piú di venti e meno di trenta.
— Parlavano italiano?
— Certo. Altrimenti come avrei fatto a capire quando
mi hanno detto che nessuno poteva scendere e che
dovevo fare marcia indietro? Parlavano italiano.
— Bene?
— Non sono mica il maestro, per dare i voti.
— Buona questa, Caronte: i voti ai banditi. Sette piú,
cinque meno.
— Ma adesso i voti non li dànno piú neanche i maestri.
— Insomma, forse avevano un accento, che so, milanese,
siciliano, inglese, tedesco...
— Banditesco, — interrompe uno spiritoso.
Duilio ha già raccontato venti volte com'è andata.
Tutti quelli che l'hanno sentita raccontare da lui, a loro
volta, l'hanno ripetuta altre venti volte a chi non l'aveva
sentita, ma c'è sempre qualcuno che arriva adesso
adesso e vuol sentire la storia da capo, cosí poi potrà
riferirla a quelli che arriveranno piú tardi.
Gli olandesi continuano a parlare olandese e intorno
a loro sono in molti a fare di sí con la testa, anche se
non capiscono un'acca. Un tale, a un certo punto, si
rivolge a un olandese grosso, che gli altri chiamano
«Professor» e gli fa: — Do you speak english?
Il professore si rischiara tutto e attacca a parlare in
inglese, ma quello là si spaventa e scappa. Altri olandesi
provano a parlare in tedesco, o in francese, allora si
trovano cittadini che hanno lavorato in Germania, o in
Francia, e capiscono queste lingue. Cosí la comunicazione
è stabilita e i turisti sono ai sette cieli.
— C'era uno che dava ordini a bassa voce, — racconta
— Duilio, e intorno a lui altri ripetono, per chi era
distratto o troppo lontano: — Uno dava ordini a bassa
voce.
Il particolare sembra molto importante. Forse quello
era il capo. Ma forse no. C'è materia per discutere.
Una donna cambia improvvisamente la rotta, osservando:
— Chissà poi perché avranno occupato l'isola di San
Giulio, domando io.
Sulle prime si sentono solo dei borbottii informi,
tipo:
— Mah!
— Boh!
— Vattelapesca.
— Hm.
Poi si affacciano le congetture.
— Per me, dev'essere tutta pubblicità.
— E di che cosa?
— Che ne so: del dentifricio, del panettone...
— Cosa c'entra il panettone, che siamo d'estate.
— Perché, alla televisione non fanno la pubblicità al
gelato anche d'inverno?
— La réclame è l'anima del commercio.
— Non si venderanno mica anche l'isola.
— Dev'essere una pensata del sindaco.
— Io non c'entro, — grida il sindaco, che ha sentito.
— Certe pagliacciate non mi riguardano.
— Allora, secondo lei, è una pagliacciata? Dove ha
visto i pagliacci con i cannoni?
— Non esageriamo! I cannoni...
— L'ha detto Caronte.
— Caronte ha detto cannoncini.
— Allora sarà la réclame dei cannoncini alla crema.
— Per me, — afferma una signora alta, elegante, che
tutti ascoltano volentieri perché ha dei bellissimi occhi,
potrebbe essere un trucco del barone Lamberto per
sabotare il turismo sull'isola.
— Già, forse gli dà fastidio il rumore degli zoccoli.
— Forse lo disturba l'odore del formaggio olandese.
Risate.
— Perdoni, signora. Il barone Lamberto ha novantaquattro
anni e non si sa quante malattie. Col suo
udito, non lo disturberebbero nemmeno le cannonate.
E poi, a essere sinceri, non ha mai fatto storie.
— Gran brava persona.
— Anche il suo maggiordomo, quello dell'ombrello.
— Due brave persone.
— Magari hanno un po' troppo il gusto del mistero.
Tutta quella servitú invisibile che si sono portati...
— Già, almeno sei persone di servizio e non se n'è mai
vista una in libera uscita.
— Sempre in soffitta, dicono.
— Guardate, anche adesso le soffitte sono illuminate.
Tutti si voltano a guardare dalla stessa parte.
— Tornando ai banditi, — dice un milanese che soggiorna
nel miglior albergo, — tempo fa ho sentito parlare
di un gruppo di pittori astratti di Omegna, Verbania e
Domodossola che hanno lanciato un manifesto contro
le cartoline illustrate, chiedendone la distruzione e
minacciando di passare all'azione.
— Cioè? Dare l'assalto alle tabaccherie?
— Fare dei falò di cartoline illustrate sulle pubbliche
piazze?
— Il signore vuol dire che potrebbero aver occupato
l'isola per ricattare l'intera nazione: o vengono distrutte
tutte le cartoline illustrate della penisola, isole comprese,
oppure...
— Già, che cosa potrebbero minacciare?
— Di far saltare San Giulio.
— Búm!
— Questa mi sembra diffamazione bella e buona. Ho
conosciuto molti pittori astratti: erano tutti ottimi padri
di famiglia. Uno era perfino nonno.
— Io ne ho conosciuto uno che era una madre di famiglia.
— Ed era anche zia, perché aveva una sorella sposata
con due figli.
— Io non insisto, — borbotta il milanese, — dico solo
quel che ho sentito dire.
— Dove?
— In treno.
— Bella roba. In treno la gente ci va apposta per
sballarle grosse, tanto nessuno può controllare. Una
volta ho viaggiato con un tale che pretendeva di essere
stato rapito dai marziani.
— A proposito, non dimentichiamo gli Ufo.
— Cioè?
— I dischi volanti. Gli spaziali. Sbarcano un po'
dappertutto, non potrebbero essere sbarcati sull'isola
di San Giulio?
— In questo caso Caronte avrebbe visto degli ometti
verdi con le corna.
Qualcuno, arrivato da poco, capisce solo a metà e
dice al suo vicino:
— Pare che sull'isola ci siano degli ometti verdi con le
corna.
— Ma allora è pericoloso stare qui.
— La penso come lei. Andiamo a bere una birra.
Qualcosa però li trattiene. Un brivido di eccitazione
ha percorso la folla. Dall'isola si è staccato un puntino
luminoso, che avanza verso la riva di Orta.
— Arriva qualcuno.
— Un marziano?
I presenti muniti di cannocchiale scrutano nell'oscurità
per essere i primi a dare informazioni su quel
«qualcuno» che sta attraversando il confine invisibile
tra il mistero e la terraferma.
— È uno che affonda troppo i remi. Deve fare una
fatica del diavolo.
— Ha un ombrello appeso al braccio.
— Allora è il signor Anselmo.
— Cosa vi dicevo? Tutto un trucco del barone. Ora
manda il maggiordomo a dettare le sue condizioni.
Un giovinastro di cattivo gusto si protende verso il
vogatore e gli batte il tempo con la voce:
— Ooo-òp! Ooo-òp!
— Ma cosa fa? — osserva un esperto di regate olimpioniche,
pioniche, — non vede che è un «singolo»? Il timoniere,
sul «singolo», non c'è.
Il signor Anselmo — è proprio lui, oltre che dall'ombrello
lo si riconosce dai capelli bianchi — si accosta
all'imbarcadero, ansando.
— Dov'è... dov'è... il sindaco.
— Cosa vi dicevo? È una pensata del sindaco.
— Pronti, sono qua. Chi mi vuole?
Il signor Anselmo si schiarisce la voce e si aggiusta il
manico dell'ombrello sul braccio. Il momento è solenne.
Tutti si invitano reciprocamente al silenzio, producendo
un gran frastuono.
— Signor sindaco, — esordisce Anselmo, — sono incaricato
di trasmetterle il seguente messaggio: «Primo,
l'isola di San Giulio è militarmente occupata dalla
banda dei Ventiquattro Elle».
— Come ha detto, Emme?
— No, ha detto Enne.
— Elle, come Lamberto, — precisa Anselmo. — Posso
proseguire?
— La prego, — dice il sindaco di Orta. — E voi altri (alla
folla), non interrompete piú. Perbacco.
— «Secondo, il sindaco di Orta è incaricato di convocare
entro quarantott'ore i direttori generali delle
ventiquattro banche di proprietà del barone
Lamberto». Eccole l'elenco e i numeri di telefono, signor
sindaco.
— E chi pagherà tutte queste chiamate intercomunali
e internazionali? Guarda, guarda... Zurigo, Hong
Kong, Singapore... Stiamo freschi!
— «Terzo, — prosegue Anselmo, passandosi il fazzoletto
sulla fronte,— il barcaiolo Duilio è incaricato di
portare sull'isola, ogni mattina alle otto, i rifornimenti».
Dov'è Duilio?
— Presente.
— Eccole la nota della spesa. In questa busta ci sono
i soldi. Il resto, mancia.
— E se io non ci sto?
— «Quarto, — riprende Anselmo senza rispondergli,
se questi ordini non verranno eseguiti, la città di Orta
sarà bombardata dall'isola».
Nessuno rompe piú il silenzio. La cosa si è fatta seria.
— «Quinto. E vietato avvicinarsi all'isola in barca, a
nuoto, per via subacquea e per via aerea. Firmato: I
Ventiquattro Elle».
Anselmo ha finito. Accenna a un inchino, borbotta
un «buonasera» in fretta, volta la barca e punta sull'isola.
Si sente il tonfo dei remi che entrano nell'acqua.
Un po' troppo in profondità, come qualcuno ha già
osservato.
Ora però nessuno ha piú voglia di fare osservazioni.
Si sentono solo sussurri, bisbigli, colpi di tosse. Il sindaco
sta correndo in municipio per attaccarsi al telefono.
Chiama il prefetto, il ministro dell'Interno, la sua
propria signora, che si trova al mare a Viareggio. Poi
comincia sospirando a chiamare i numeri che gli sono
stati consegnati da Anselmo.
I curiosi che continuano a guardare l'isola hanno ora
l'impressione che sia diventata piú nera e compatta. Le
luci che bucavano la sua massa si sono spente. E come
se l'isola avesse troncato i contatti con la terraferma, per
prepararsi ad un lungo assedio.
Cosí deve averla vista, prima dell'anno Mille, l'imperatore
Ottone quando vi si rinchiuse il re d'Italia
Berengario, e ci vollero delle settimane per costringerlo
alla resa. Sconfitto Berengario, si rifugiò a San Giulio
sua moglie, la regina Willa, con tutti i tesori del regno.
Ottone dovette ricominciare da capo l'assedio, che
questa volta durò un bel pezzo; chi dice due mesi, chi
tre. Alla fine fecero un patto: la regina consegnò all'imperatore
i suoi tesori e quello la lasciò libera di andare
dove voleva. Uno a uno. Vecchie storie di gente
morta da mille anni. Ma le pietre dell'isola se le ricordano
e prendono, adesso, un'aria minacciosa nel buio.
— Andiamo a dormire, — dice la gente.
— Andiamo.
I banditi sono arrivati per via d'acqua, a piccoli
gruppi, sotto vari travestimenti. Alcuni hanno affittato
una barca a Pettenasco. Erano in uniforme da boy
scouts, hanno spiegato che venivano da Domodossola
in gita. Altri hanno rubato a Omegna, prima dell'alba,
un'imbarcazione a vela appartenente al primario dell'ospedale.
A Pella, ricorderanno due frati allegri e
simpatici che si sono fatti portare all'isola in motoscafo
e dopo aver pagato il pilota gli hanno dato anche la
benedizione. Il pilota ha scherzato con loro:
— San Giulio, però, non aveva bisogno del motoscafo
per attraversare il lago. Distendeva sull'acqua il suo
mantello, ci montava sopra e via, senza vela né motore.
— Noi non siamo tanto santi, — hanno detto i due falsi
frati, — e poi, come vedi, non portiamo mantello perché
non è la stagione.
Sull'isola si sono riuniti nell'antica basilica, come un
gruppo di pellegrini. Il capo ha dato gli ordini: questi
di guardia sulle coste, questi sul campanile, questi altri
alle mitragliatrici e ai cannoncini, gli ultimi tre con lui,
alla villa del barone Lamberto.
Hanno bussato, Anselmo è venuto ad aprire e si è
sentito chiedere:
— Piove, lí dentro?
— No, perché?
— Scusa, vediamo che porti l'ombrello.
— Ci sono affezionato. E un ricordo del mio povero
babbo, che era di Gignese e faceva l'ombrellaio.
— Bravo, onora il padre e la madre. Ora dentro,
chiudi la porta, qua la chiave, chiama il barone.
— Chi devo annunciare, per favore?
— Scegli tu: questa è una pistola, questo è un mitra.
Fila.
Anselmo ha obbedito ed è corso dal barone, che si
stava allenando al punching ball e lo ha accolto con
entusiasmo:
— Guarda, Anselmo, guarda che diretto, osserva come
raddoppio, ammira che schivate, nota il movimento
delle gambe. Domani farai una corsa a Milano, ti do
l'indirizzo di una palestra, mi andrai a cercare un pugile
disposto ad allenarmi. Direi un peso medio, che te ne
pare? O sarà meglio un medio-massimo? Per la paga,
offrigli solo il doppio di quello che chiede, non bisogna
esagerare.
— Signor barone, permetta una parola.
— Dimmi, Anselmo. Ma cos'hai? Com'è che ti trema
l'ombrello?
— Ci sono giú dei signori, signor barone...
— Mandali via, non aspetto nessuno.
— Non si può, signor barone. Sono armati.
— Armati... Che tipi sono?
— Non si vede, signore. Hanno il volto coperto dalle
maschere.
— Mascherati! Ma è tutto uno sbaglio, carnevale è
passato da un pezzo.
— Se il signor barone vuole rifugiarsi in soffitta, o in
cantina, dirò a quei signori che al momento è assente,
che provino a ripassare domani.
— No, Anselmo, cosí non va. Sei troppo vecchio per
esporti a certi rischi. Scendo immediatamente. Intanto
offri a quei signori aranciata, camomilla, quello che
desiderano.
Anselmo è tornato dai banditi.
— Il signor barone verrà subito.
— Esatto, è proprio quello che deve fare.
Il barone si è tolto la tuta da ginnastica, ha indossato
un paio di blue jeans e una maglietta azzurra, si è
presentato ai suoi visitatori con un ampio ospitale sorriso.
— Buongiorno, signori. In che cosa posso esservi
utile?
Il capo ha fatto un cenno a due dei suoi uomini, che
si sono allontanati per fare una ricognizione completa
della villa.
— Signor barone, — ha detto il capo, — lei è nostro
prigioniero.
— Non ricordo di aver dichiarato la guerra a nessuno, —
ha risposto il barone, — e non ricordo di aver
perduto alcuna battaglia.
— La sua risposta, — ha detto il capo, — dimostra che
lei è un uomo coraggioso. Me ne compiaccio. Odio
avere a che fare con quelli che appena vedono un'arma
se la fanno sotto dalla paura. Ma questo non cambia la
sua situazione. Coraggioso o no, lei è prigioniero lo
stesso.
— E di chi, se la domanda è lecita? Non vorrà che mi
arrenda al primo sconosciuto. Si presenti, mi presenti
i suoi amici, poi si vedrà.
— Lei, — ha ripreso il capo, — è prigioniero dei Ventiquattro
Elle.
— Come ha detto, Emme?
— No, Elle, signor barone. Elle come Lamberto.
— Che combinazione! È proprio il mio nome.
— È anche il nostro, signor barone. Siamo ventiquattro
e ci chiamiamo tutti Lamberto.
— Piacere, — ha detto il barone, — anzi, piacere moltiplicato
ventiquattro. Non credevo che il mio nome
fosse tanto diffuso. Ho conosciuto, all'infuori di me, tre
soli Lamberti: uno a Milano, uno a Venezia e uno a
Costantinopoli, che però era di Forlí. Era capitato in
Turchia per affari, commerciava in marmellate. Ricordo
di avergli chiesto l'ora per la strada. E sa che cosa mi
ha risposto? Mi ha risposto cosí: «È l'ora di andare a
bere una birra. Venga con me». È cosí che ci siamo
conosciuti. A proposito di birra, Anselmo, non hai ancora
offerto da bere a questi signori...
— Grazie, piú tardi, — lo ha interrotto il capo. — Prima
lei mi deve ascoltare con attenzione. Intanto non si
preoccupi delle armi, non abbiamo alcuna intenzione di
farle del male, se lei accetterà le nostre condizioni.
— Capo, — (sono tornati i due che hanno ispezionato
la villa e uno di loro, da vero maleducato, ha interrotto
la conversazione), — tutto a posto. Però su nelle soffitte
ci sono dei tipi strani. Dicono che sono dipendenti
del barone, incaricati di ripetere a turno, giorno e notte,
il suo nome. Ce n'è uno seduto davanti a un tavolo, che
fa: «Lamberto, Lamberto, Lamberto...» E non si è fermato
nemmeno a mostrargli la pistola.
— Dev'essere il signor Bergamini, — ha spiegato il barone,
— uomo tranquillo e dedito al lavoro.
— Che cos'è questa storia? — ha domandato il capo.
— Un divertimento, — ha detto il barone, — il capriccio
di un miliardario. Mi piace sapere che c'è sempre
qualcuno col mio nome in bocca. Dà soddisfazione,
come a grattare dove prude. Insomma, è un hobby.
Avete qualcosa in contrario?
— Assolutamente no, — ha assicurato il capo, — la cosa
non interferisce con i nostri piani.
— Mi fa piacere, — ha commentato il barone, striz-
zando l'occhio al povero Anselmo, bianco come un
fantasma. — Del resto li pago bene. Non vorrete creare
ostacoli alla libertà di lavoro, spero.
— Le ho già detto di no, — ha ripetuto il capo. — Anzi,
la cosa fa piacere anche a noi, perché anche noi ci
chiamiamo Lamberto.
— Ecco, è questo che mi stupisce. Nemmeno uno che
si chiami Giuseppe, Reginaldo, Stanislao? Come avete
fatto a mettere insieme ventiquattro titolari del nome in
questione?
— Con un'inserzione nei giornali, — ha detto il capo.
— E ora, lasciamo le chiacchiere e veniamo al dunque.
— Si dice anche «veniamo al sodo», — ha corretto il
barone.
— Ecco come stanno le cose. L'isola è occupata
militarmente. La villa è isolata dal resto del mondo e
della Via Lattea. Lei, signor barone, è nostro prigioniero.
— Per riavere la libertà, dovrà versarci un miliardo
per ciascuna delle sue ventiquattro banche. Fanno in
totale ventiquattro miliardi.
— Piú l'Iva? — ha domandato il barone, senza scomporsi.
— Piú le marche da bollo?
Se il capo ha risposto nessuno ha sentito, perché
proprio in quel momento è entrato il nipote Ottavio,
accompagnato dal bandito che lo ha catturato al suo
ritorno da Orta con le tasche piene di sonniferi.
— Zio caro, che succede?
— Niente, Ottavio. Molto fumo e poco arrosto.
— Ah, ah, — ridacchia il capo. — Per una battuta simile
sarei quasi disposto a farle lo sconto.
— Le sembro il tipo che tira sul prezzo? — ha domandato
il barone Lamberto. E senza aspettare risposta
si è alzato, ha annunciato che intendeva riprendere
il suo allenamento al punching ball ed è uscito dalla
stanza, seguito da due banditi con le armi in pugno.
— Lei questa sera, — ha detto il capo al maggiordomo
Anselmo, — prenderà la barca e andrà ad Orta...
— Io non so remare! — ha piagnucolato Anselmo.
Imparerà strada facendo, — ha detto il capo.
E cosí che è cominciata l'invasione dell'isola di San
Giulio.
Al calar delle tenebre, Anselmo è salito in barca per
compiere la sua missione. Era cosí agitato che gli è caduto
l'ombrello in acqua. Proprio in quel momento il
signor Giacomini, dalla soffitta, ha tirato su la lenza e
l'ombrello è rimasto attaccato all'amo. Il signor
Anselmo si è rifiutato di partire senza l'ombrello. Uno
dei banditi è dovuto salire a recuperarlo.
— È tutto bagnato, — si è lamentato Anselmo. — Aspettino
— che lo asciughi.
È corso a prendere l'asciugacapelli, ha asciugato
l'ombrello di fuori e di dentro. Finalmente è partito per
Orta. Il resto è già stato raccontato.
Adesso a Orta c'è spettacolo ventiquattr'ore su ventiquattro.
L'isola è circondata da una stretta cintura di
imbarcazioni cariche di poliziotti che tengono d'occhio
i banditi. Intorno a questo primo cerchio ce n'è un
secondo di barche piene zeppe di curiosi e inviati
speciali che tengono d'occhio la polizia. Per tutto il
lago, col bel tempo o con la pioggia, altri professionisti
o dilettanti dell'informazione vanno e vengono in motoscafo
o approfittano dell'occasione per dedicarsi allo
sport della vela. Di notte sulle barche si accendono fari,
lampade tascabili o ad acetilene, candele e torce: mancano
solo i fuochi artificiali, perché non è la festa di San
Giulio.
L'antica cittadina è invasa da turisti che preferiscono
i soggiorni avventurosi alle villeggiature troppo tranquille.
Non c'è piú un letto libero negli alberghi del
Cusio, del Verbano e dell'Ossola. I campeggi sorgono
come fungaie sulle rive del lago, presso i paesi a mezza
costa, nei boschi e nelle valli prealpine. Giornalisti,
radio- e telecronisti sono giunti dalle cinque parti del
mondo, perché il barone Lamberto è famoso dal Polo
Nord al Polo Sud per via delle sue banche; sicché non
solo gli italiani, ma pure gli svizzeri, i tedeschi, i
borgognoni, gli americani e gli afroasiatici vogliono
essere informati per filo e per segno di ogni cosa che lo
riguardi. Ci sono cronisti accampati sotto i portici in
piazza, altri appollaiati sui balconi e sui tetti. Ci sono
cannocchiali e telescopi puntati sull'isola da tutte le
svolte panoramiche delle strade che fanno il giro del
Cusio, sulla sponda orientale come su quella occidentale.
Ci sono potenti teleobbiettivi in costante osservazione
sui campanili di Pogno, San Maurizio d'Opaglio,
Alzo, Pella, Corconio, Lortallo e Vacciago; ma non
proprio sulle punte dei campanili, che sono troppo
aguzze, bensí sui davanzali delle celle campanarie.
Altri osservatori ambitissimi dalla stampa, sono:
—il Belvedere di Quarna, dove la birra è sempre
fresca;
—il santuario della Madonna del Sasso, a strapiombo
sul lago;
—un'osteria della Valstrona, di dove non si vede
niente, però ci si mangia un'ottima polenta e coniglio;
—la torre di Buccione, costruita nel secolo dodicesimo,
ma sempre in gamba;
—il convento del monte Mesma, dove i frati raccolgono
ingegnosamente l'acqua piovana, ma offrono agli
ospiti un saporoso vinello);
—il santuario della Madonna della Bocciola;
—e, naturalmente, proprio alle spalle di Orta, nel
punto più elevato del promontorio, il piazzale del Sacro
Monte, di dove, se scoppia un temporale, si fa presto a
rifugiarsi nelle cappelle in cui le statue di terracotta
colorata, coperte di polvere e tarlate dalla vecchiaia
raccontano silenziosamente la storia di san Francesco.
I fotografi giapponesi, che sono i piú sistematici,
hanno occupato i due punti piú alti della zona, e cioè:
—l'Alpe Quaggione (1150 metri sul livello del mare);
—la vetta del Mottarone (1491 metri sul medesimo).
Essi, peraltro, si lamentano perché da entrambi
questi punti si vede il lago da nord a sud, da Omegna
a Gozzano, mentre non esiste un punto altrettanto alto
e altrettanto panoramico per vedere l'intero lago da sud
a nord, se si eccettua la già citata torre di Buccione, che
però è occupata in forze dalla Tv messicana.
Un giornalista inglese ha piazzato la sua tenda nei
boschi sopra Ameno e di lí, ogni mattina, si gode lo
spettacolo del Monte Rosa che esce dalle nuvole alla
luce del sole, quando ancora tutte le altre montagne
sono sepolte in una nebbia azzurrina, e le chiama, una
dopo l'altra, a disporsi nel paesaggio, una dietro l'altra,
una accanto all'altra, fino a riempire tutto lo spazio
sotto il cielo.
Il giornalista ha descritto con entusiasmo lo spettacolo
in un articolo che il suo direttore ha buttato nel
cestino, dettando subito dopo un telegramma urgentissimo:
«Lascia perdere il paesaggio, la gente non vuol
sapere che cosa fa il Monte Rosa, ma che cosa fa il barone
Lamberto».
Allora il giornalista ha scritto, ma solo per se stesso,
una poesia che comincia cosí:
Pastore, o Monte Rosa, il gregge dei monti bela stamattina...
Poi si è accorto che il belato non proveniva dalle Alpi,
ma da un sentiero li sotto, su cui una vecchia conduceva
al pascolo la sua capra. Si è anche ricordato che quella
poesia era già stata scritta da un altro poeta. Il quale
però non parlava del Monte Rosa, ma della Torre Eiffel
di Parigi. E non parlava di monti, ma di ponti. Una
terribile confusione.
Questo non impedisce al solerte cronista britannico
di scendere ogni mattina a Orta in motocicletta a svolgere
il suo lavoro. Di solito arriva in tempo per la conferenza
stampa del barcaiolo Duilio.
— Cos'ha comprato, stavolta?
— Dodici polli, sette conigli, pasta, riso, formaggi di
cinque qualità, trenta chili di frutta, caffè, zucchero,
sale.
— Quanto sale?
— Due pacchetti di quello fino e due di quello grosso.
Quando Duilio monta in barca per trasportare i rifornimenti
all'isola, lo salutano grandi applausi e i fotografi
gli gridano:
— Guarda da questa parte, Duilio! Sorridi! Alza bene
quel mazzo di banane.
I fotografi dànno del tu a tutti.
Di ritorno dall'isola, Duilio è seguito da un corteo di
barche stracolme di cronisti, che fanno domande e
prendono appunti:
— Cos'hanno detto i banditi?
— Ha visto il barone?
— Ha visto il signor Guglielmo?
— Ha fatto il militare?
— A che età si è sposato?
— Quanti figli ha?
— Quanti litri di vino beve in un giorno?
Eccetera, ogni sorta di domande. Ma i giornalisti, a
differenza dei fotografi, gli dànno sempre del lei.
I ragazzini seguono la barca a nuoto, sia all'andata
che al ritorno, divertendosi a farsi cacciare dai poliziotti
e dai vigili urbani.
Arrivano venditori di palloncini, di noccioline, di
torroni, di mandorle tostate. C'è anche uno che vende,
chissà perché, vedute del Colosseo. E c'è chi le compra.
C'è sempre chi compra qualsiasi cosa, con qualunque
tempo.
I bar, i caffè e i negozi rimangono aperti tutta la notte,
perché tanta gente non sa dove andare a dormire e
rimane a bighellonare o a bivaccare dove può, bevendo
birra e masticando panini. Di notte vengono anche
quelli di Gozzano, di Borgomanero, di Omegna e di
Gravellona, che di giorno non hanno tempo perché
lavorano. Riescono a sapere tutto lo stesso, questi
pendolari: quanti polli ha comprato Duilio e quanti litri
di vino ha bevuto. Il sabato e la domenica arrivano,
con tutti i mezzi, i milanesi, i torinesi e gli industriali di
Busto Arsizio.
Duilio, quando parte per l'isola, qualche volta c'è sua
moglie a salutarlo piangendo, come se partisse per la
guerra.
— Non andare, Caronte (anche lei lo chiama affettuosamente
cosí), ti faranno del male, cosa c'entri tu,
cosa te ne importa del barone Lamberto, pensa ai tuoi
figli, che potrebbero restare orfani.
— Ma se sono già tutti grandi, sposati e padri di famiglia!
— Pensa ai tuoi nipotini.
— Guarda lí come si preoccupano i nipotini.
Ce ne sono tre o quattro tra la ragazzaglia che si tuffa
e schiamazza presso il pontile. Anche loro sono acciuffati
dai giornalisti e intervistati dalla televisione.
— Ti piace di piú Zorro o l'Uomo Ragno?
— Sei piú bravo in cibernetica o in antropologia
strutturale?
— Quanto fa tre per otto ventiquattro?
Insomma, c'è il cinema continuato. I commercianti
portano il sindaco in palma di mano, come se fosse
tutto merito suo. La banca locale ha aperto tre nuovi
sportelli.
C'è sempre qualcosa da commentare: ora un avvocato
di Milano organizza un torneo di calcio notturno,
ora un venditore ambulante di cavatappi si mette a dare
dimostrazione pubblica della bontà di quegli oggetti,
utilissimi per chi possieda bottiglie tappate. Poi ci sono
concerti di clavicembalo e di strumenti a percussione,
esibizioni di gruppi corali, corse nei sacchi. I contadini
della zona si raccomandano ai telecronisti: — Vedete
d'infilarci una buona parola per i nostri vini, il Gattinara,
il Ghemme, il Sizzano, il Fara... Volete mettere
lo Spanna con l'acqua minerale?
Il terzo giorno arriva un pullman con l'aria condizionata.
Per concessione speciale del vigile urbano,
impressionato dal suo contenuto, l'autista può parcheggiare
in piazza, che sarebbe zona pedonale. È
targato Mi, che significa Milano. Ne scendono per
primi ventiquattro signori vestiti di grigio scuro. Poi ne
scendono altri ventiquattro signori, un po' piú giovani,
vestiti di blu. Quarantotto camicie bianche e quarantotto
cravatte tutte insieme fanno un bellissimo effetto.
E chi sono mai? Sono i ventiquattro direttori generali
delle banche di proprietà del barone Lamberto, ciascuno
con il suo segretario per prendere appunti, correre
al telefono, portare la borsa dei documenti.
La folla trattiene il respiro. Chi ha mai visto ventiquattro
direttori generali di banca in una volta sola? In
carne ed ossa, con le scarpe lucide, molti con gli occhiali,
tutti con un'aria severissima.
— Largo, largo, — fanno i segretari.
A fatica si forma nella ressa un sentiero, lungo il
quale, in fila indiana, i ventiquattro signori, e poi anche
gli altri ventiquattro, si avviano per schierarsi sulla riva,
in vista dell'isola. Ecco, si levano tutti insieme quarantotto
cappelli, in segno di rispetto. Se li rimettono.
Restano lí in piedi, immobili, a guardare.
La stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa
vanno all'assalto del gruppo, sparando domande in
almeno venti lingue diverse, ma ottengono risposte solo
da uno dei ventiquattro segretari, che è stato scelto a
portavoce. Dal canto suo, egli risponde solo:
— No comment.
Dopo pochi minuti i ventiquattro banchieri e i loro
segretari salgono in Comune, nell'ufficio del sindaco,
che consegna loro un messaggio del barone Lamberto,
portato segretamente da Duilio. Il messaggio dice:
Gentili signori,
vi ringrazio di esservi disturbati per me. Vi spero in
buona salute. La mia è ottima. Due ore al giorno di palestra
non riescono nemmeno a farmi sudare. Vi pregherei
di procurarmi gli attrezzi occorrenti perché io possa
esercitarmi nel sollevamento dei pesi, l'unico sport che mi
è consentito nelle presenti circostanze. Vi auguro buon
soggiorno sulle amene sponde del Cusio.
Vostro affezionatissimo
Lamberto
Sotto la firma, il capo dei banditi ha aggiunto, in
stampatello maiuscolo:
POSCRITTO - IN CAMBIO DEL BARONE LAMBERTO NOSTRO PRIGIONIERO
ESIGIAMO LA CONSEGNA DI VENTIQUATTRO MILIARDI,
UNO PER CIASCUNA DELLE SUE BANCHE. NON SI ACCETTANO ASSEGNI,
MINIASSEGNI, CAMBIALI E GETTONI DEL TELEFONO.
I ventiquattro direttori generali si guardano negli
occhi e lo stesso fanno i loro ventiquattro segretari.
Non sanno se mostrarsi piú indignati per la richiesta di
ventiquattro miliardi o addolorati per quella degli attrezzi
per il sollevamento pesi. Piccoli colpi di tosse
esprimono imbarazzo. Raschiamenti di gola indicano
perplessità. Uno dei segretari bisbiglia nell'orecchio del
suo vicino: — Il barone deve essere impazzito per lo
spavento, poveretto.
— C'è risposta? — domanda il sindaco.
— Nessuna risposta, — rispondono i direttori generali.
— Si alzano come un sol uomo, salutano, scendono in
piazza, risalgono sul pullman, seguiti dalle loro ventiquattro
ombre e dai loro ventiquattro segretari. L'autista
li porta velocemente a Miasino, dov'è stata affittata
per loro una villa del Seicento, con affreschi del Settecento,
quadri dell'Ottocento ed elettrodomestici del Novecento.
Qui essi trascorrono la notte, al riparo dall'improvviso
temporale che flagella i poveracci accampati qua e
là nel vasto paesaggio sinistramente frustato dai lampi.
Ma c'è uno che non può dormire per altre ragioni. È
il piú giovane dei ventiquattro segretari. Con una macchina
presa a noleggio, egli corre a Milano per procurarsi
gli attrezzi richiesti dal barone. I ventiquattro direttori
generali hanno discusso a lungo, durante la cena,
la delicata questione. Alla fine, con ventiquattro voti
favorevoli e nessun contrario, hanno deciso di obbedire
ciecamente agli incomprensibili ordini del padrone.
— Avrà i suoi scopi.
— Forse prepara una trappola. Non dobbiamo ostacolarlo.
La mattina dopo, mentre Duilio sta per partire per
l'isola con il suo carico di generi alimentari e diversi, il
segretario arriva in tempo a consegnargli gli attrezzi,
comprati a peso d'oro in una palestra della metropoli
lombarda, aperta anche la notte.
— Che cosa c'è in quei pacchi? — domandano i poliziotti
addetti alla sorveglianza del carico.
— Attrezzi sportivi, maresciallo.
— Non pistole, cannoni, bombe atomiche? Apra, apra,
faccia vedere.
Sotto gli occhi di mille curiosi si taglia la corda, si
svolge la carta, compaiono delle sbarre, dei dischi di
ferro. Un brigadiere, che è stato campione italiano di
sollevamento, riconosce ufficialmente i pesi regolamentari.
— E a chi servono?
— Al signor barone, maresciallo. Intende allenarsi in
questa disciplina sportiva.
— Quanti anni ha, il signor barone? — domanda il
maresciallo.
— Novantaquattro, maresciallo.
Il maresciallo appare dubbioso. Alla fine borbotta
che «non è mai troppo tardi» e mette il timbro sulla
merce sospetta.
Orta e dintorni hanno un ottimo argomento di discussione
per la mattinata. Di bocca in bocca la notizia
subisce, naturalmente, qualche trasformazione. A
mezzogiorno a Stresa, dall'altra parte della montagna,
un cameriere d'albergo comunica al suo chef che il
barone Lamberto parteciperà alle prossime Olimpiadi
nella specialità del lancio del martello. Alle quattordici
e trenta del pomeriggio a Laveno, sulla sponda lombarda
del Lago Maggiore, un gelataio rivela a un cliente
tedesco che il barone ha segretamente battuto il record
mondiale di salto con l'asta.
— Ja, ja, — dice il tedesco, leccando il gelato.
I ventiquattro direttori di banca e i loro segretari
siedono in permanenza nel palazzo della Comunità
della Riviera e di lí conducono le trattative con i banditi.
È un bel palazzotto del Cinquecento che, come
dicono le guide, «poggia su quattro pilastri angolari,
inframmezzati da robuste colonne di granito». Insomma,
sotto c'è un portico dove si sta a chiacchierare all'asciutto
quando piove, sopra c'è una sala alla quale si
accede per una scala esterna; cosa assai utile, perché la
gente può vedere la sfilata dei funzionari quando salgono
e quando scendono e, di tempo in tempo, i garzoni
del caffè, quando portano, secondo le ore, gli
aperitivi o i digestivi. Sono quarantotto ordinazioni per
volta: un bel colpo. Il sindaco, per non far torto a nessuno,
fa prendere le bibite ora da un bar ora da quell'altro.
Pagamento alla consegna. Pagano a turno i
ventiquattro direttori generali e la televisione può riprendere
in diretta ora un assegno della Banca Lamberto
di Hong Kong, ora uno della Banca Lamberto di
Montecarlo o di Montevideo.
Il lavoro piú pesante è per Duilio, che deve portare
avanti e indietro dall'isola i messaggi. I banditi hanno
posto un ultimatum: «Se entro quarantott'ore non riceveremo
il denaro del riscatto, cominceremo a mandarvi
il barone Lamberto a pezzetti: prima un orecchio, poi un
dito, e cosí via, fino a totale consumazione del soggetto».
I banchieri hanno risposto che l'ordine glielo deve
dare il barone Lamberto, per iscritto, altrimenti loro
non sono autorizzati a pagare, né in lire né in noccioline.
Il capobanda fa presente la cosa a Lamberto e lo
prega di fornire un suo manoscritto.
— Immediatamente, — risponde il barone. E scrive su
un foglio, in inglese: « Gentili signori, che ne direste di
un giretto in giostra? Vi invito al Prater di Vienna per il
prossimo Natale».
— Perché ha scritto in inglese? — domanda il capo, che
non ha studiato le lingue.
— Con quei signori io parlo sempre in inglese, per il
decoro.
— Qui c'è la parola Vienna, cosa c'entra?
— Ho dato ordine di prelevare i fondi dalla mia Banca
di Vienna, che al momento è quella piú fornita di
banconote italiane di piccolo taglio.
I ventiquattro direttori generali discutono a lungo il
testo del messaggio.
— La calligrafia è senz'altro quella del signor barone.
— Sí, ma lo stile non è il suo.
— Ha ragione il collega: non ricordo che il barone
abbia mai usato la parola «giostra».
— Anche quel «giretto», al posto di «giro», mal si
addice al suo carattere, alieno da frivolezze e diminutivi.
— Lo scritto, — aggiunge un altro, — contiene anche
distrazioni assolutamente in contrasto con la mente
lucida e concentrata del barone. Difatti, quando si accenna
al Prater di Vienna, si parla della Grande Ruota,
non di una qualsiasi giostra.
— Una giostra è roba adatta, tutt'al piú, alla Fiera di
Crusinallo.
All'unanimità l'assemblea decide di respingere il
messaggio, chiedendone uno in tedesco.
— Perché in tedesco? — domanda il capobanda al barone,
sottoponendogli la richiesta.
— Evidentemente il direttore della mia banca di
Vienna, essendo lui quello che deve tirar fuori materialmente
i quattrini, vuol essere ben sicuro di aver capito.
— Avanti, scriva.
— E la penna?
— Eccola lí.
— No, scusi, quella è la penna con cui ho scritto il
messaggio precedente. Io non ho mai usato la stessa
penna per piú di un documento. Anselmo, portami una
penna nuova.
Anselmo obbedisce e il barone scrive, in tedesco:
«Gentili signori, con la presente ordino che da tutte le
mie banche siano licenziati in tronco tutti gli impiegati
che non sanno ballare il tango. Firmato: Lamberto».
— Cosa c'entra il tango? — domanda il capo dei Ventiquattro
Elle, indicando l'unica parola del messaggio
che riesce a capire.
— È una parola in codice per dire «miliardo». Non
vorrà mica che parli di soldi apertamente. E se il biglietto
cade in mano a qualche spia?
— Più che giusto, — ammette il capo, dimostrandosi
comprensivo.
Il messaggio arriva dove deve arrivare. I ventiquattro
direttori generali lo leggono ad alta voce e la discussione
è aperta.
— Siamo alle solite: la calligrafia è indubbiamente
quella del barone Lamberto. Anche la firma è la sua.
Sono in grado di provarlo.
Cosí dicendo, l'oratore mostra una cartolina postale
che il barone gli ha spedito l'anno scorso da Miami,
Florida. La cartolina passa di mano in mano. Tutti
controllano e confrontano la firma con quella del
messaggio.
— Lo stile, però, rivela una personalità ben diversa da
quella che conosciamo.
— Esatto. Il signor barone non ama il tango.
— Può darsi che non l'ami adesso, perché ha novantaquattro
anni, ma che l'abbia amato in gioventú.
— Lo escludo. Il signor barone, a memoria d'uomo,
ha sempre amato solo i bilanci in attivo, i tassi di sconto,
i libretti di assegni e i lingotti d'oro.
I presenti applaudono. Anche i ventiquattro segretari
cessano un istante di prendere appunti per battere le
mani.
All'unanimità l'assemblea decide che il messaggio
non è soddisfacente e che a questo punto occorre una
prova non equivoca che il barone Lamberto è ancora in
vita. I banditi dovranno inviare una sua fotografia fresca
di giornata.
— Gli daremo la fotografia, — acconsente il capobanda.
— Anselmo, — ordina il barone, — prendi dalla mia
collezione di macchine fotografiche un apparecchio a
sviluppo istantaneo e passa ad eseguire.
Anselmo scatta la foto, aspetta qualche secondo,
strappa il cartoncino. Il barone Lamberto è venuto
benissimo. Pare un divo del cinema. Sorride che gli si
vedono tutti i denti. Ha un ricciolo che gli ricade sull'occhio
destro.
— Ora, — dice il capo, — hanno tutto quello che vogliono.
gliono. Se non mollano i soldi, mi dispiace per lei, ma
il prossimo capitolo sarà piú doloroso.
— Non si preoccupi, — risponde il barone Lamberto,
ogni cosa a suo tempo.
Altro viaggio di Duilio dall'isola di San Giulio al
palazzotto della Comunità. I ventiquattro direttori generali
si passano la foto di mano in mano senza batter
ciglio, in attesa che il barcaiolo esca dalla sala. Appena
è uscito, scoppia la tempesta.
— Tradimento! Questo non è il barone Lamberto!
— Truffa aggravata! Millantato credito e falso in atto
pubblico: quest'uomo è un impostore!
— Troppo bello per essere vero.
— Meno male che abbiamo chiesto la foto.
Pian piano la tempesta si calma. Cessano le esclamazioni
e si passa alle osservazioni piú attente, alle riflessioni
più meditate.
— A guardarlo bene, — si sente dire, — qualche somiglianza
— con il barone Lamberto c'è.
— Dove?
— Per esempio... nelle orecchie.
— Il vero barone Lamberto è molto piú anziano.
Guardino.
In cosí dire l'oratore estrae dal portafoglio una fotografia
che lo ritrae accanto al barone Lamberto sulla
terrazza di un albergo a Lugano. In questa foto il barone
si appoggia a due bastoni, ha la faccia di una tartaruga,
ha gli occhi sepolti sotto le palpebre, è piú
morto che vivo.
Subito tutti frugano nei loro portafogli ed estraggono
fotografie nelle quali fanno coppia col barone, e il
barone non è un giovane sportivo dal ciuffo spavaldo,
ma un vecchio signore che sta in piedi solo perché non
soffiano i monsoni.
— Osservino la testa. Quando mai il barone ha portato
i riccioli?
— Potrebbe essersi messo una parrucca, — mormora
timidamente una voce.
— E le rughe? Dove sono le rughe?
— Con il trucco, — insiste la voce, — si possono fare
miracoli. Ho conosciuto un soprano dell'Opera che
aveva settant'anni e ne dimostrava venticinque.
— Il barone non è un soprano!
— Però ama la buona musica.
— Questo è vero...
Dopo un'ora di discussioni, l'assemblea decide di
chiedere un'altra fotografia, nella quale si veda il barone
Lamberto non piú di faccia, ma di profilo.
— Perché di profilo? — borbotta il capobanda, dopo
aver letto il contromessaggio.
— La sola cosa veramente bella del mio volto, — spiega
dolcemente il barone Lamberto, — è il mio naso. Forse
in quell'altra foto non si vedeva bene.
— Sarà, — conclude il capo, — ma io non mi lascio
prendere per il naso. Ora le faremo la fotografia di
profilo, ma gliela manderemo, a quei signori, accompagnata
da un orecchio.
— Quale orecchio? — domanda il barone Lamberto.
— Uno dei suoi. Stia tranquillo, abbiamo con noi un
medico-chirurgo. Le farà l'operazione a regola d'arte.
Non sentirà il minimo dolore.
— Grazie, molto gentile.
Il capo fa sul serio. E anche il medico-bandito. Sta
affilando un rasoio su un pezzo di cuoio con uno stile
inconfondibile.
— Scusi, — domanda il barone Lamberto, — lei ha fatto
il barbiere, per caso?
— Per servirla, signor padrone.
— Allora respiro: non mi guasterà l'allineamento delle
basette.
Il barone Lamberto è calmo e sereno. Strizza l'occhio
al povero Anselmo, che non sviene solo perché si appoggia
all'ombrello, e gli domanda, con aria semplice:
— Come sta Delfina?
— Bene, grazie, signor barone.
— E il resto della famiglia?
— Ottimamente, signor barone.
Rassicurato circa il lavoro che si svolge nelle soffitte,
il barone è anche piú tranquillo di prima e si permette
di scherzare:
— Dottore, — dice, — vuol vedere se c'è anche del
cerume da togliere?
— Sarà fatto, signor barone.
Mentre il dottore taglia l'orecchio, Anselmo guarda
da un'altra parte. Dopo un po', non sentendo né voce
né rumore, si volta e vede il dottore che sta fasciando
la testa al barone, mentre il capo dei banditi infila
l'orecchio tagliato in una busta.
— Glielo mandiamo caldo caldo, — dice.
I ventiquattro direttori generali ricevono contemporaneamente
la foto di profilo del barone, il suo orecchio
destro e un biglietto su cui il capo dei ventiquattro
Lamberti ha scritto: «Questo è il primo pezzo. Domani,
o i quattrini o il secondo».
Nove direttori generali svengono, altri nove corrono
a lavarsi la faccia nel lavandino, gli ultimi sei restano
senza parola. I ventiquattro segretari prendono nota di
questi avvenimenti senza permettersi reazioni personali.
La foto di profilo ottiene effetti contrastanti. Il naso
è senza dubbio quello del barone Lamberto. Ma il
collo? Cosí pienotto, liscio e abbronzato non somiglia
per nulla ai bargigli rinsecchiti che si notano, sopra la
cravatta, nelle fotografie ricordo in possesso degli illustri
personaggi.
A esaminare l'orecchio viene chiamato un dottore.
— Bel taglio, — dice, — lavoro da professionista. Si potrebbe
riattaccare in pochi minuti e non si vedrebbe
nemmeno il segno.
— Che altro ci può dire?
— Ecco, per conto mio, questo è l'orecchio di un
uomo sano, ben nutrito, che vive parecchio all'aria
aperta e fa molto movimento. Età compresa fra i
trentacinque e i quarantacinque.
— Ne è sicuro?
— Ci metterei la mano sul fuoco.
— Ci metterebbe anche un piede nell'olio bollente?
— Senza esitare.
— Allora questo non è l'orecchio del barone. È
l'orecchio di un impostore.
— La cosa non mi riguarda, — dice il dottore. — Per
conto mio, passo e chiudo.
— È un bel mistero, — si dicono l'un l'altro i ventiquattro
direttori generali. — Tutto farebbe presumere
che un impostore abbia preso il posto del signor barone.
— Lo accusa la fotografia, lo accusa l'orecchio. Ma
perché diavolo un impostore si sarebbe assoggettato a
questa dolorosa operazione? Perché fingersi il barone
in un momento in cui non c'è nulla da guadagnare e
tutto da perdere?
Dopo aver allineato una gran quantità di punti interrogativi,
decidono che la notte porta consiglio e
vanno a dormire nella villa di Miasino.
La mattina dopo s'interrogano a vicenda: c'è chi ha
sognato cavalli bianchi, c'è chi ha sognato l'Oceano
Pacifico, c'è pure chi non ha sognato per nulla, o ha
dimenticato il suo sogno. Ancora una volta il vecchio
proverbio non ha mantenuto la promessa: nessuno ha
sognato un consiglio che faccia al caso.
— Aspettiamo il secondo pezzo, — propone il piú
prudente, — poi decideremo.
Il secondo pezzo è il dito indice della mano destra. Il
capo dei Ventiquattro Elle, non avendo ricevuto risposta
positiva al suo messaggio con orecchio allegato,
si scusa con il barone:
— I suoi dipendenti non si preoccupano molto della
sua integrità corporea. Sono stato più crudele io a tagliarle
un orecchio, o i suoi ventiquattro direttori ad
infischiarsene?
— Secondo me, — dice il barone, — avete fatto uno a
uno.
— Avanti il dottore, — dice il capo.
Il medico-bandito arriva sorridendo con i suoi ferri.
— L'altro orecchio? — domanda.
Il capo gli spiega il nuovo programma e il medico
esegue, mentre il barone gli raccomanda: — Stia attento
a non sbagliare dito. L'indice è questo, tra il pollice
e il medio.
Anselmo guarda dall'altra parte per non soffrire e
vede nello specchio il barone che gli strizza l'occhio.
— Come sta Delfina, Anselmo?
— In buona forma, signor barone, — balbetta il maggiordomo.
— E il resto della famiglia?
— Sempre al lavoro, signor barone. Sa, quando bisogna
guadagnarsi da vivere...
Anselmo si volta: l'operazione è finita. Il capobanda
sta leccando la busta in cui ha infilato il dito tagliato e
il bandito-medico, dopo aver medicato la mano del
barone, si accinge a rifare la fasciatura della testa.
— Che mi venga un colpo, — esclama a un tratto.
— Guarda, capo.
Il barone finge di spaventarsi: — È grave?
— Questa è buona, — dice il capo, — se me la raccontassero
in treno, non ci crederei.
— Ma cosa c'è? — domanda il barone. — Cos'è successo?
— È successo che il suo orecchio è ricresciuto, — spiega
il bandito-medico. — Se non glielo avessi tagliato io
stesso, con queste mani...
— Se non l'avessi infilato io stesso nella busta... — aggiunge
il capo, perplesso.
— Be', — fa il barone, — non capisco tanta meraviglia.
Anche alle lucertole ricresce la coda. Potate un albero
e i suoi rami si allungheranno piú robusti di prima. In
autunno le foglie cadono, a primavera rispuntano. Il
sole la sera tramonta a occidente, la mattina rinasce a
oriente. Vecchi trucchi della natura.
— Sarà, — dice il bandito-medico, — per me è la prima
volta che vedo rinascere un orecchio. Ha fatto qualche
cura speciale, ultimamente?
— Sí, ho fatto una cura per fare ricrescere i capelli. Sa,
ero diventato completamente calvo. Un mio caro amico
mi ha procurato una ricetta orientale.
— Questi cinesi, — borbotta il capo, — ne inventano di
tutti i colori. Ma non perdiamoci in chiacchiere.
E scrive il messaggio da accompagnare al dito:
«Questo è il secondo pezzo. Domani mattina, se non
avremo i soldi, vi manderemo un piede intero».
Alla vista del dito, svengono venti direttori su ventiquattro;
i rimanenti si rifugiano sotto il tavolo. I segretari
prendono nota d'ogni cosa sui loro taccuini
senza battere ciglio.
Il medico chiamato a esaminare il reperto, detta:
— Dito indice mano destra, in perfetto stato di conservazione.
Taglio netto a metà della falange. Il dito appartiene
a persona in buona salute, di età compresa fra
i trentacinque e i quarantacinque anni.
— Ancora l'impostore! — si sente esclamare.
— La nocca, — prosegue il medico, scrutando la medesima
con una lente a cinquanta ingrandimenti,
presenta il tipico callo del pugilatore.
— Cosa?
— Vuol dire che il padrone del dito fa del pugilato.
Come minimo, si allena con il sacco di sabbia. Osservino
con i loro occhi personali.
— Il signor barone non ha mai fatto pugilato. Anzi,
fino a una decina di anni fa è stato presidente dell'Associazione
— Contro gli Sport Violenti, ha finanziato
campagne di stampa contro la caccia e la lotta libera. In
India è stato insignito della Medaglia della Mitezza.
— Che altro ci può dire sul dito?
— La pelle presenta altre notevoli callosità, provocate
dall'uso prolungato dei remi... dallo strofinamento
con corde di canapa...
— Un cordaio?
— La vela, signori: lo sport della vela.
— Un marinaio?
Si fanno ipotesi sull'impostore; ma rimane, congedato
il medico dopo avergli pagato la parcella piú l'Iva,
la domanda fondamentale: perché mai un impostore si
farebbe fare a pezzi al posto del barone?
— Un santo, forse... L'isola porta pure il nome di un
gran santo, che la scelse per edificare la sua centesima
chiesa.
— Il barone Lamberto è sicuramente un uomo di alti
meriti, protettore delle vedove e degli orfani, promotore
del credito, devoto alle finanze, eccetera, ma da
questo a supporre un intervento celeste in suo favore,
ci corre.
— Bisognerebbe interpellare il parroco.
— Trattandosi del barone, piuttosto il vescovo.
— Signori, — dichiara una voce energica, — non mescoliamo
il sacro al profano. Per noi l'impostore è soltanto
un impostore. Abbiamo una sola cosa da fare:
respingere la sua impostura.
— Benissimo, rimandiamo il dito al mittente e mettiamo
per iscritto che non lo riconosciamo come proprietà
del barone Lamberto.
La proposta è accolta.
— Esigiamo, — aggiunge un altro dei piú arditi, — di
vedere l'intero barone in persona.
— Eccellente suggerimento.
— Questo taglia la testa al toro.
— Speriamo che non provochi al barone altri tagli.
— Ma se si tratta di un impostore!
— Ah, sí, l'avevo dimenticato.
Duilio sta già volando su per la scala della Comunità.
Poi rivola giú, inseguito da giornalisti, fotografi,
telecronisti d'ambo i sessi.
— Che cosa succede?
— A che punto sono le trattative?
Duilio mostra la busta chiusa, nella quale c'è il dito
del barone, il messaggio del capobanda e il contromessaggio
dei ventiquattro direttori generali.
Viene una bellissima fotografia, ma la busta rimane
un mistero per tutti. È troppo piccola per contenere
ventiquattro miliardi. È troppo spessa per contenere
solo un foglio di carta.
Dall'alto delle colline circostanti i cannocchiali da
marina e i telescopi astronomici inquadrano la busta,
Duilio col braccio alzato, il palazzotto della Comunità.
Gli ultimi arrivati (ce ne sono sempre) domandano ingenuamente:
— Chi è quello?
— Ma è il famoso barcaiolo Duilio, soprannominato
Caronte.
— Interessante. E che fa, con quella busta in mano? La
caccia al tesoro?
Ottavio, vero? Che fa di bello, Ottavio? Come sta?
Da quando sono arrivati i banditi sta sulle spine. Quelli,
allo zio, gli prolungano la vita. Eredità, addio!
Ottavio ha in tasca il sonnifero con il quale progettava
di espugnare per conto suo la fortezza, passando
per le soffitte. Ma non può fare un passo senza che un
bandito lo segua.
— Dove va?
— A prendere un po' d'aria.
— Buona idea, vengo con lei.
Ottavio passeggia maledicendo il banditismo. Quello
degli altri.
— Adesso dove va?
— A bere un bicchier d'acqua.
— Ho giusto sete anch'io, andiamo pure.
Ottavio è costretto a bere l'acqua, che non gli piace,
per guadagnare altro tempo.
Anche Anselmo lo tiene d'occhio. Se Ottavio si dirige
verso le scale, ci sono tutti e due, il bandito addetto alla
sua persona e Anselmo, che gli domandano a una voce:
— Dove vuol andare?
— Sul tetto, a vedere il panorama.
— Non c'è bisogno, — dice il bandito, — domandi a me,
che le descrivo Orta e dintorni meglio di una guida.
— Io glieli posso descrivere in italiano, in inglese e in
tedesco, — dice Anselmo. — Il francese, purtroppo, lo
leggo, non lo parlo. Lo spagnolo lo parlo, ma non lo
capisco.
In questo periodo, poi, il barone, non potendo uscire
sul lago, sta sempre appiccicato al nipote. Pretende
che assista ai suoi allenamenti con i pesi. Una volta gli
fa addirittura calzare i guantoni da boxe.
— Ottavio, facciamo un paio di riprese, — dice,
sempre con il punching ball mi annoio.
— Troppo onore, zio.
— Dài, non voglio picchiarti sul serio, farò finta.
— Sono contrario al pugilato per ragioni sentimentali.
Non c'è niente da fare, gli tocca incrociare i guantoni
con lo zio Lamberto. Al primo colpo, va al tappeto
e comincia a contare:
— Uno, due, tre, quattro...
— Cosa stai facendo?
— In assenza dell'arbitro, mi conto da solo. Nove,
dieci... Sono K.O., non puoi piú toccarmi.
— Con te non c'è gusto a boxare, — dice lo zio.
Per fortuna tra i banditi c'è un ex campione regionale
dei pesi medi, che accetta di allenare il barone e gliele
suona ai punti in dodici riprese. Il barone è ai sette cieli.
Ottavio è a terra.
Poi succede il fatto dell'orecchio. Poi quello del dito.
Ora Ottavio perfeziona il suo piano: farà morire il barone
e darà la colpa ai banditi. Ma per quanto pensi e
rimugini, non riesce mai a trovare l'occasione buona.
Finalmente capita l'imprevisto. Quella sera il barone
trattiene Anselmo a giocare agli scacchi.
— È l'ora, signor barone, — sussurra il maggiordomo,
spostando la regina, — bisogna che porti la cena in
soffitta.
— Manda Ottavio, — ordina distrattamente il barone.
— Non ci sa fare, — protesta Anselmo, — rovescerà il
sale.
— Ti ho detto di mandare Ottavio.
— Cos'avete da borbottare, voi due? — interviene il
capobanda, sollevando gli occhi dal fumetto di Asterix
su cui sta meditando. — Silenzio, o vi butto gli scacchi
nel lago.
Anselmo è costretto a pregare Ottavio di portare la
cena ai sei lavoratori. Lo fa con le lacrime agli occhi e
la morte nel cuore. Un sospetto spaventoso gli dà il mal
di stomaco. Ma al barone bisogna obbedire.
Il giovane Ottavio deve supplicare le sue gambe di
non tradire la contentezza, mettendosi a ballare il valzer.
A vederlo portare il vassoio su per le scale, si direbbe
che per tutta la vita egli abbia fatto il cameriere
nei grandi alberghi del Lago Maggiore.
Quando arriva sul pianerottolo si ferma un attimo,
fingendo di aggiustare i tovaglioli arrotolati nei bicchieri.
Invece mette nella zuppiera una quantità di
sonnifero che farebbe dormire sei locomotive. Eccolo
a posto.
— Da cosa nasce cosa, — egli canticchia, soddisfatto.
— Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor
Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora
Merlo, che è di turno:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte:
— Alberto, Alberto...
Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote
Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza:
— Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo
Ottavio.
I cinque che sono liberi dal lavoro attaccano la minestra.
— Strano, — dice Delfina, dopo la prima cucchiaiata,
sa di cavolo, ma anche un po' di granatina.
— Per me, — dice la signora Zanzi, — sa di ribes. Però
è buona.
— A proposito, — domanda Delfina, — l'altro giorno
sono arrivati su degli strani tipi armati. Chi erano?
— Cacciatori di passaggio, — spiega in fretta Ottavio.
— Ci sono lepri sull'isola? — domanda il signor
Giacomini che, oltre ad essere un autentico pescatore,
è anche un autentico cacciatore.
— Starne di passaggio, — inventa Ottavio tra i denti.
— Per secondo, come vedono, filetto di bue ai pistacchi,
con contorno di cavolfiori al velluto e melanzane in
tortino. Per finire, budino di pesche e cassata alla siciliana.
— Sempre cassata, sempre cassata, — borbotta il signor
Bergamini, — e mai polenta.
— Desidera polenta per domani, signor Bergamini? -
domanda premuroso Ottavio.
— Polenta di primo, polenta di secondo e polenta per
dolce!
— Il signor Bergamini parla solo per sé, — precisa la
signora Zanzi, — per noi quel che fa il signor Anselmo
è ben fatto.
Ottavio li guarda mangiare, fregandosi mentalmente
le mani.
A metà cena il signor Armando dà il cambio alla signora
Merlo, che attacca a sua volta la minestra.
— Buona, — essa dice, — pare condita con le albicocche.
— Bisognerà che mi faccia dare la ricetta dal signor
Anselmo.
E anch'essa ripete, con convinzione: — Quello che fa
il signor Anselmo, è sempre ben fatto.
Ottavio, dal momento che ci si trova, tenta di attaccare
discorso con la signorina Delfina.
— Mi piacerebbe, — dice, — invitarla a fare due passi.
— Dove, sul tetto?
— Ma no, a Milano in via Montenapoleone... a Roma
in via Veneto... a Barcellona sulle Ramblas... a Parigi in
rue de Rivoli...
— E a Carpi?
— A Carpi... Dov'è Carpi?
— Ecco, vede, non sa la geografia.
— Signorina, lei ha sempre voglia di scherzare. Ma io
dico sul serio. Mi piacerebbe regalarle una collanina...
— Di castagne secche! — finisce Delfina al suo posto.
— Mi piacerebbe portarla sulle Dolomiti.
— A cavalcioni sulle spalle? Guardi che peso sessanta
chili, anche se ne dimostro quarantasette.
— Verrebbe con me a Singapore?
Che vigliacco! Ha appena finito di metterle il sonnifero
nella minestra e le fa tutti questi salamelecchi.
Ma ora deve scendere per tranquillizzare il sospettoso
Anselmo. La partita a scacchi è finita con la vittoria del
barone. Ora è cominciata una partita a tressette. Giocano
il barone e Anselmo contro due banditi. Vince
ancora il barone. Però si vede che le continue vittorie
gli fanno venire sonno, perché sbadiglia guardando
l'orologio.
— È tardi, — egli proclama, — vado a letto.
— Sono curioso, — dice il capobanda.
— Curioso di che?
— Di vedere se domattina le sarà rispuntato il dito
come le è rispuntato l'orecchio.
— È possibile. Vogliamo scommettere?
— Non ho la testa alle scommesse. Debbo decidere se
mandare all'assemblea il suo piede destro o invitare qui
un paio di quei signori perché vedano che lei è ancora
vivo.
— Perché non manda me a Orta, invece? — sorride il
barone. — Le do la mia parola d'onore che vado, mi
esibisco e torno. Vado a nuoto, se vuole.
I due uomini si guardano a lungo negli occhi. Il
bandito legge in quelli del barone una superba calma,
che egli attribuisce a lunghi anni di abitudine alla ricchezza
e alla potenza. Il barone legge in quelli del bandito
una fredda determinazione. E un uomo che non ci
penserebbe due volte a schiacciarlo come una mosca.
Le sue maniere gentili sono una spolverata di zucchero
di vaniglia su una bomba al tritolo. Il barone ha un
brivido. «Per fortuna, — pensa, — sono inattaccabile.
Basta che non mi cedano i nervi». Uno sbadiglio. Un
altro sbadiglio.
— Vado a letto, — ripete il barone, — sogni d'oro a tutti.
— Buonanotte, zio, — sorride Ottavio, falso come
Giuda.
— Buonanotte, signor barone —. Questo è Anselmo. Il
bandito non dice niente.
Il barone Lamberto si corica e si addormenta immediatamente,
di un sonno pieno di sogni confusi. Egli
sogna di esser sul ring per un incontro di boxe. Il suo
avversario è Ottavio, ma è anche il capobanda e sorride
con cattiveria. Nel guantone sinistro stringe un
trinciante d'argento, con il destro agita una carabina a
ripetizione. Poi lascia cadere le due armi e solleva il
manubrio dei pesi.
«Che fai? — vorrebbe dire Lamberto. — È contro tutte
le regole».
Ottavio avanza, levando sempre piú in alto l'attrezzo.
Il suo sorriso si trasforma in una smorfia di minaccia.
— Ottavio, sei impazzito?
Il barone non riesce a parlare. Le parole gli si aggrovigliano
in bocca, gli s'impastano sulla lingua, gli
ostruiscono la gola e il naso, impedendogli di respirare.
— Facciamola finita, — dice Ottavio nel sogno, — basta
con la camomilla!
Anselmo non si vede. Il barone ha l'impressione che
all'inizio dell'incontro egli fungesse da arbitro. Ma sí,
eccolo là, sta giocando a tombola con il capobanda.
«Anselmo, Anselmo», vorrebbe chiamare il barone;
ma il nome del maggiordomo gli si attacca al palato, gli
rotola nella trachea, gli diventa un peso insopportabile
nel cuore.
Il barone Lamberto si sveglia in un lago caldissimo e
appiccicoso, dov'è impossibile nuotare. Sollevare il
braccio dall'acqua è come sollevare una montagna. Il
braccio viene su carico di alghe, di pesci morti, di cartacce
e rifiuti. Finalmente il barone si sveglia nel suo
letto. Ma l'incubo non è scomparso. Egli respira a fatica,
sente che la gola gli si stringe, acuti dolori gli
scoppiano nel petto. Allunga la mano per tirare il cordone
del campanello e non ci riesce. Vorrebbe chiamare
Anselmo, ma la bocca è come murata. Raccogliendo
le ultime briciole di energia, infila una mano
sotto il cuscino e preme il bottone dell'altoparlante. Gli
risponde un russare affannoso. Nessuno piú sta pronunciando
il suo nome. «Dormono, — pensa il barone,
— e io muoio». Ma non fa in tempo a spaventarsi, perché
è già morto.
Anselmo a trovare il suo corpo, ormai freddo, la
mattina alle sei, quando porta il caffè. Senza stare a
disperarsi e a fare scene, pigia i bottoni degli altoparlanti,
Tanti, uno dopo l'altro. Niente. Il lavoro nelle soffitte
sembra cessato.
Anselmo corre su, ansando, entra, spalanca una porta
dopo l'altra, grida, scuote i corpi immobili sdraiati in
disordine sui letti e sul pavimento.
— Traditori! Assassini! È cosí che rispettate il contratto?
Dormono cosí profondamente, che uno li crederebbe
morti se non si udissero i loro respiri regolari, forse
un po' pesanti. Anselmo prende a schiaffi la signora
Merlo, molla un calcio negli stinchi al signor Armando,
getta brocche d'acqua in faccia agli altri, li afferra per
le braccia. Non c'è niente da fare. Non si sveglierebbero
nemmeno se risuonassero le trombe dell'Apocalisse.
«Sonnifero, — pensa Anselmo, guardandosi intorno
per recuperare l'ombrello che ha lasciato cadere non sa
piú dove. — Qui c'è la mano di Ottavio».
— Sveglia! Sveglia! — grida piangendo. — Tornate al
lavoro!
Le sue grida hanno allarmato le sentinelle dei banditi,
che accorrono per informarsi sulla loro causa.
— Il barone è morto, — singhiozza Anselmo, — lo
hanno lasciato morire nel sonno. Non c'è piú niente da
fare per voi in questo posto. Andatevene via!
— Calma, — dice il capobanda, chiamato da un suo
discepolo. — Calma e gesso. Vediamo la salma.
Non ci sono dubbi. Il barone è defunto. La constatazione
viene fatta dal bandito medico: — Per me, — egli
dice, — si tratta di un collasso cardiocircolatorio.
— Nessun indizio sospetto? Niente tracce di iniezioni?
— C'è la possibilità che qualcuno abbia avvelenato il
barone?
— Lo escludo nel modo piú assoluto. Il barone è
morto di morte naturale.
GIANNI R O D A R I
— Per curiosità, — dice il capobanda, — osserva un po'
la mano.
Il bandito medico toglie la fasciatura, guarda, si rischiara
la voce: — Il dito è ricresciuto solo a metà. Se il
barone fosse vissuto fino a stamattina, avrebbe avuto
due indici e dieci dita in tutto, come prima. Venti contando
le dita dei piedi.
— Lei, — dice il capobanda al signor Anselmo, — vada
nella sua stanza e ci resti. Due a tenerlo d'occhio. Dov'è
quell'altro?
Ottavio è ancora a letto e dorme il sonno degli angeli.
Quando lo informano che lo zio Lamberto è passato a
miglior vita, come si diceva una volta, si fa dare un
fazzoletto e ci nasconde gli occhi, perché nessuno veda
che sono asciutti. Lo chiudono a chiave e passano alle
soffitte. Qui non ci sono provvedimenti da prendere:
tutti dormono come ghiri in letargo e non c'è verso di
fargli aprire gli occhi. Basta chiudere a chiave anche
loro e mettere una sentinella sul pianerottolo.
— Ora, — dice il capobanda, — a noi. Da vivo, il barone
— Lamberto valeva per noi la prospettiva di ventiquattro
miliardi. Per il suo cadavere non ci daranno
nemmeno un soldo.
— Abbiamo il nipote, — osserva un discepolo.
— Quello vale anche meno. Nel suo ultimo testamento
il barone gli ha lasciato solo una barca a vela. Lui lo
ignora, ma io lo so di sicuro e senza il minimo dubbio.
La nostra impresa è fallita. Non ci rimane che squagliarcela.
— E cadere nelle mani della polizia che circonda
l'isola?
— L'aviatore che doveva venirci a prelevare con il suo
aeroplano...
— Non si farà vivo, perché non c'è piú niente da guadagnare
nemmeno per lui.
Il capobanda vede la situazione senza illusioni.
— Dobbiamo trovare la maniera di andarcene senza
essere notati.
— Forse se ci trasformassimo in uomini invisibili...
— Non dire scemenze.
— Scaviamo un tunnel sotto l'isola, sotto il lago, sotto
le montagne e usciamo in territorio svizzero.
— Sta' zitto e fammi pensare.
— Perché, solo tu puoi pensare?
— Pensate anche voi, pensiamo tutti insieme, ma che
nessuno parli per dire stupidaggini.
Pensano e pensano, ma è come grattare un muro di
marmo: non viene via niente, le unghie non ci prendono.
Ogni tanto uno ha uno scatto, apre la bocca, tutti si
voltano dalla sua parte, ma l'idea, sul punto di essere
formulata in parole, si è dileguata.
— Ce l'avevo sulla punta della lingua, — si scusa quello.
I ventiquattro Lambert, uno dopo l'altro, si distraggono.
C'è chi vorrebbe trovarsi su una spiaggia
delle Baleari, chi su una terrazza d'albergo a Macugnaga,
a contemplare il Monte Rosa. Solo il capo sa
concentrarsi come si deve. Gli fanno fin male i denti, da
tanto si concentra. Ma l'idea non arriva.
— Proviamo con il vocabolario, — egli dice a un certo
punto.
Non tutti sanno cosa sia un vocabolario, ma restano
zitti per non passare da analfabeti. Del resto il capo ha
già preso un librone da uno scaffale, infila un dito a
caso tra le pagine, apre e legge:
— «Finimondo». Be', se venisse la fine del mondo,
nella confusione potremmo scappare fino a Brindisi.
Proviamo ancora.
La parola seguente è: «Lince. Mammifero europeo dei
Carnivori, abile predatore, con pelo morbidissimo e
orecchie a punta sormontate da un ciuffo di peli».
Poi esce: «Borotalco».
— Splendido, — dice uno, — facciamo venire venti-
quattro sacchi di borotalco, ci nascondiamo dentro e
rispediamo la merce alla ditta con la scusa che è bianco
e noi lo volevamo rosa. Durante il viaggio saltiamo
giú dal camion...
— «Trapezio», — legge il capo, continuando ad infilare
il dito a caso nelle vecchie pagine, in cerca di un
suggerimento utile.
Escono in fila disordinata: «Mirmecologia. Studio
zoologico delle formiche»; «Scovolino. Arnese filiforme
di feltro per pulire pipe, bottiglie e simili»; «Caciotta.
Formaggio tenero in forma schiacciata e rotondeggiante,
dell'Italia centrale». Ottima per la merenda, ma
inservibile per la fuga.
Il capo insiste con rabbia crescente. Adesso le parole
non le legge più, le spara come pallottole: «Dodecaedro.
Metaforico. Sobbollire. Prolegomeni. Finestra».
Alla parola «finestra», i banditi sospirano di sollievo.
Questa, almeno, sanno cosa vuol dire senza leggere la
spiegazione. Poi salta fuori la parola «pipí» e tutti
scoppiano a ridere. Non sapevano che il vocabolario
contenesse anche quelle parole lí. Dal gran ridere,
qualcuno se la fa addosso, la parola.
Il capo non ride. Ha aperto il vocabolario a una pagina
qualunque ed è rimasto li, col dito puntato e gli
occhi spalancati. Sembra di sentire il ronzio del suo
cervello che riflette. Ne passano dei minuti di silenzio,
prima che riapra bocca.
— Cretino, — dice.
— Ah, ci stanno scritti anche gli insulti? Di bene in
meglio.
— Cretino io, a non averci pensato prima, — precisa il
capo.
— Cos'hai trovato?
— Dài, leggi.
— Non tenerci sulle spine.
— «Pallone», — legge il capo.
Gli altri ventitre Lamberti lo guardano senza capire,
col vago sospetto che il capo, per lo sforzo mentale, stia
perdendo la ragione.
— Cosa c'entra la Juve, — bisbiglia un Lamberto al suo
vicino.
— E l'Inter, allora?
Ma il capo dei Lamberti non sta pensando al campionato.
La parola letta nel vocabolario gli ha fatto ricordare
qualcosa che è successo nei primi giorni dell'occupazione.
— Eravamo nelle cantine, io, il barone e il suo maggiordomo.
— Avete un'idea di quanto siano grandi le
cantine della villa? Quel giorno io le ho visitate metro
per metro, piano per piano. Lo sapevate che ci sono
cinque piani sotterranei?
— Non ce l'avevi mica detto, come facevamo a saperlo?
— Nel quinto, cioè il piú profondo, il barone tiene,
anzi teneva il suo museo personale. Me l'ha mostrato
solo perché lo minacciavo con la pistola. Ci conservava
la carrozzina in cui lo portava a spasso la sua balia,
il triciclo su cui ha imparato a pedalare, la cassaforte
della sua prima banca, la fotocopia del primo miliardo,
insomma, i suoi ricordini personali. Una stanza del
museo è completamente occupata da grossi pacchi legati
con una robusta corda. E sapete che cosa c'è in
quei pacchi? Quel giorno il barone ha detto proprio
cosí: «Qui dentro c'è il piú bel sogno della mia vita. Ci
sono tutti i pezzi del pallone aerostatico con cui avevo
in mente di conquistare il Polo Nord, che ancora non
era stato raggiunto da nessuno. Ci sono i teli, le parti
della navicella, le bombole del gas. In questa cartella ci
sono i disegni e le istruzioni. Anche un bambino, volendo,
potrebbe rimontare il pallone in poche ore». Io
l'ho ascoltato con un orecchio solo, perché allora non
m'interessava. Fortuna che me ne sono ricordato in
tempo. Avete capito, adesso?
— No, — borbottano due o tre voci, in tono di mortificazione.
— Fuggiremo in pallone.
— Bravo, cosí la polizia ci sparerà e... fiiiit, il pallone si
sgonfierà.
— Fuggiremo di notte.
— Ci vedranno con i riflettori...
— No, se faremo sapere alla polizia che i riflettori
dànno fastidio al barone Lamberto, perché la loro luce,
penetrando dalle finestre, gli impedisce di dormire.
— E dove andremo?
— In Svizzera.
— E dopo?
— E dopo la mamma vi rimboccherà le coperte, vi
darà una caramella col buco e un bacetto in fronte. Finiamola
con le chiacchiere e mettiamoci al lavoro.
Non tutti i Lamberti sono persuasi, ma il capo sembra
di nuovo tanto sicuro di se stesso... Non resta che
seguirlo. Qualcuno ha un'idea migliore? Nessuno. C'è
altro da tentare? Non c'è. Almeno ora c'è un programma
chiaro: gonfiare il pallone, salirci, fuggire di là
dalle montagne.
A Orta, quando sorge di nuovo il sole, nessuno sa
nulla di quel che è successo sull'isola durante la notte,
però molti hanno l'impressione che sarà una giornata
speciale. Intanto, il pullman che porta giú da Miasino
i banchieri arriva un quarto d'ora prima del solito.
Eccoli che salgono con passo elastico la scaletta esterna
del palazzotto della Comunità, in fila indiana. C'è
sempre chi si diverte a contarli: — ...quarantasei, quarantasette,
quarantotto.
Ora, perché ridiscendono velocemente? Perché la
donna delle pulizie non ha finito di lavare il pavimento.
Dovranno aspettare nel sottoportico. La folla li circonda
silenziosa e attenta. Quelli che hanno già imparato
a conoscerli li additano a quegli altri — pochi, per
la verità — che ancora non sanno distinguere il direttore
generale di Amsterdam dal direttore generale di Alessandria
d'Egitto. I piú bravi riconoscono a occhio
nudo, uno per uno, anche i ventiquattro segretari personali.
— Potete entrare, — grida la donna dal balconcino,
ma non buttate le cicche per terra!
Risalgono, spariscono dietro la porta. La folla si
guarda in giro in cerca di altri fenomeni degni di studio
e vede tornare dall'isola il barcaiolo Duilio, che ha già
fatto il primo viaggio con le provviste.
Caronte salta giú dalla barca e corre verso i portici
della piazza, inseguito dai giornalisti piú giovani (i piú
anziani stanno ancora facendo colazione sulle terrazze
degli alberghi).
— Dove va?
— Caronte, un sorriso per la stampa.
— Come stanno i suoi nipotini? E passato il mal di
pancia a sua suocera?
Il barcaiolo entra in una cartoleria e ordina, senza
riprender fiato:
— Presto, trenta chili di scotch.
— Cosa? Trenta chili di?...
— Di scotch, di scotch!
— Ma io non ne ho né trenta chili né trenta etti. Ecco
tutto quello che ho.
La cartolaia esibisce cinque o sei rotolini di nastro
autoadesivo di diverse misure.
— Mi dia questi. Dove posso trovare il resto?
— Dai casalinghi, qui accanto.
Duilio corre al negozio dei casalinghi. Poi batte i tabaccai.
Se mette insieme cinque o sei etti di scotch è
tanto.
— Ci pensiamo noi! — gridano i giovani giornalisti.
Difatti essi si dividono in squadre e con le loro macchine
si dirigono parte verso Gozzano e Borgomanero,
parte verso Arona e Sesto Calende, parte verso Omegna
e Gravellona Toce, a fare incetta di scotch. Dopo
un'oretta tornano con montagne di rotolini di tutti i
colori, che consegnano a Duilio con l'orgoglio di chi sta
partecipando ad un'impresa storica.
— Io l'ho comprato blu, perché si adatta al colore del
lago.
— Ecco, tre chili di scotch offerti dalla Gazzetta di
Quarna!
— Tre chili e sei etti a nome del Corriere della Val
Strona!
Duilio scaraventa il tutto nella barca e punta la prua
sull'isola. Il nuovo argomento di discussione mantiene
viva la curiosità fino all'ora dell'aperitivo.
— Che ci faranno con tutto quello scotch?
— Ma è chiaro: serve per imballare i soldi del riscatto.
— E la carta?
— Vedrete che manderanno a comprare anche la
carta.
Quando Duilio torna dall'isola e corre verso i portici,
la folla lo aspetta già dal cartolaio. Lui invece entra
nel negozio di ferramenta, mostra una catenina d'acciaio
sottile sottile e ordina: — Cinquecento metri di
questa.
— Ti posso dare cinquecento cacciaviti, — dice il ferramenta,
— cinquecento chiodi a rampino, cinquecento
badili. Il mio negozio è il più fornito del Cusio. Ma la
catena d'acciaio, per combinazione, di quella misura lí,
l'ho finita. Posso ordinarla, in un paio di giorni te la
faccio avere.
— Mi serve subito, — ribatte Duilio. — Mi dica dove
posso trovarla.
— Perché non prendi cinquecento martelli? — insiste
il commerciante.
— Guarda, ho anche cinquecento tenaglie, cinquecento
pinze...
Insiste, prega, supplica. Nessuno è mai uscito dal suo
negozio a mani vuote. Ma Duilio è irremovibile. Si fa
per dire, perché si muove di corsa e va in cerca del
sindaco.
— Signor sindaco, cosí e cosí: che cosa consiglia?
— Consiglio il signor Giuseppe di Omegna.
Il signor Giuseppe è famoso per trovare qualsiasi
cosa nel tempo di recitare la Cavallina Storna. Potete
chiedergli una Fiat del 1913 , un cannone della guerra
Quindici-Diciotto, un costume da Re Sole, una biga
dell'epoca di Nerone, una macchina per pelare polli:
non batte ciglio, parte e trova. Per lui trovare mezzo
chilometro di catena d'acciaio è uno scherzo.
Prima di sera, sempre per accontentare i banditi e
riempire di nuove forniture la barca di Duilio, il signor
Giuseppe trova:
— ventiquattro cestoni da bucato;
— una padella coi buchi per arrostire le castagne;
— le opere complete del filosofo tedesco Emanuele
Kant;
— una carta topografica delle Alpi;
— un salvadanaio di coccio a forma di porcellino, che
ad infilargli una monetina nella pancia ringrazia muovendo
il codino.
I banditi, evidentemente, hanno bisogno di vari materiali
per completare il pallone che stanno montando
di nascosto, ma per confondere le idee mandano a
chiedere anche cose che non hanno niente a che fare
con l'aeronautica. Il risultato è raggiunto. Nel
palazzotto della Comunità, dove siedono in permanenza
i banchieri e i loro segretari, le idee sono piú
confuse che mai. Si aspettano una risposta alla loro richiesta
di vedere il barone Lamberto in carne, ossa e
persona, e sono invitati a procurare un setaccio per i
fagioli. Temono di veder comparire, in un pacco ben
confezionato, un piede del barone, giusta la minaccia
dei banditi, e si vedono costretti a esaminare la richiesta
di una scatola di lecca-lecca.
E le ore passano. La situazione si fa sempre piú
strana. Già il sole discende tra le montagne d'occidente.
Sul lago soffia fredda la brezza della sera. Sulla riva
di Orta chi ha un maglione lo indossa. Nei bar diminuiscono
le ordinazioni di birra e gelati e aumentano
quelle di bevande calde. La giornata è stata piena di
avvenimenti imprevisti e di oggetti incomprensibili, ma
le trattative non hanno fatto un passo avanti.
Poi si fa proprio notte, non c'è piú niente da dire. È
una notte senza luna. Nel buio San Giulio — le cui coste
sono debolmente illuminate dai riflettori degli assedianti
(la potenza dei fari è stata diminuita per non
disturbare il sonno del barone) — sembra l'isola dei
fantasmi, a guardarla vengono i brividi.
A una cert'ora un giornalista di sentinella sulla piazza
di Orta, crede di vedere sul tetto della villa una grande
ombra nera. Ma è tanto giovane che nessuno gli dà
retta. I colleghi piú anziani non mettono nemmeno il
naso fuori del caffè dove si sono rintanati a giocare a
poker.
— Un'ombra nera, eh? Sarà il diavolo.
— Non hai visto se ha le corna?
— Non hai sentito odor di zolfo?
Dopo un po' neanche quel giornalista vede piú
l'ombra nera.
— Mi pareva che fosse proprio là, sul tetto. Dev'essere
stata un'illusione ottica.
Invece, naturalmente, era il grande pallone che
prendeva il volo. Nessuno lo vede salire nel buio, con
i ventiquattro Elle accoccolati sotto la sua pancia, nei
ventiquattro cestoni da bucato. L'inverna, il freddo
vento che soffia sul lago da sud, lo spinge verso i monti
della Val d'Ossola. La sua silenziosa navigazione nella
notte è quanto mai tranquilla. In poche ore potrebbe
superare la frontiera senza nemmeno vederla, entrare in
arie svizzere senza pagar dogana. Potrebbe... Ma le
cose, a un certo punto, decidono di andare per un altro
verso. Su una di quelle montagne c'è un campeggio di
boy scouts. Quei bravi ragazzi hanno deciso di lanciare,
a mezzanotte in punto, dei razzi di segnalazione per
salutare un altro gruppo di boy scouts attendato su
un'altra montagna. Uno dei razzi illumina in pieno il
solenne aerostato e le sue ventiquattro ceste. Il secondo
sfiora senza volerlo il pallone e gli appicca il fuoco.
In quel momento i trasvolatori sono, per fortuna, a
poche decine di metri dalla cima della montagna.
L'incendio si estende pian piano. Insomma, prima che
il pallone esploda, i ventiquattro Elle fanno in tempo ad
atterrare e ad arrendersi ai boy scouts, che essi hanno
scambiato per poliziotti. Una volta che si sono arresi,
peggio per loro, non possono più gridare «non vale!».
La notizia vaga per alcune ore da una radiotrasmittente
a un'altra, senza trovare la strada ufficiale. Un
radioamatore di Domodossola, che non ha capito
esattamente come stanno le cose, fa in tempo a trasmettere
che sul monte Moro sono atterrati i dischi
volanti. Uno di Locarno, in cima al Lago Maggiore, non
riceve perfettamente la trasmissione e capisce che
ventiquattro boy scouts stanno mangiando salsicce in
Val Vigezzo. I radioamatori del Piemonte, della Lombardia
e del Canton Ticino sono tutti ai loro apparecchi
e fanno una confusione da non dire, con tanti «passo e
chiudo» che chiariscono ben poco.
È quasi l'alba quando giunge ad Orta, finalmente
chiara e distinta, la notizia che la banda dei ventiquattro
Lamberti è stata catturata senza colpo ferire, a
duemila metri sul livello del mare, da un gruppo di
ragazzini in calzoni corti. Subito scattano ordini e
contrordini. Un motoscafo della polizia, pieno di uomini
armati, si accosta cautamente all'isola... in tempo
per vedere le imposte di una finestra della villa che si
spalancano con fracasso e la testa spettinata del maggiordomo
Anselmo, che si affaccia a gridare proposizioni
incomprensibili.
— Cosa dice? Piú forte, per favore!
Anselmo agita anche l'ombrello, come se la cosa
avesse il potere, di amplificare la sua povera voce,
arrocchita dagli strapazzi e dagli spaventi.
— Il barone è morto! — egli grida. — Mandate un falegname
per la cassa!
Povero Anselmo. Ha impiegato una giornata intera a
ricordarsi che la camera in cui i banditi l'hanno rinchiuso
sta proprio sopra lo stanzino di servizio. Ha lavorato
tutta la notte a scavare un buco nel pavimento
per scendere nello stanzino e affacciarsi alla finestra. È
sporco di calcinacci, coperto di polvere, ha le mani
sanguinanti.
— E morto il barone! — egli grida. — Ma voi, che fate?
Non avvicinatevi o vi spareranno ! È gente decisa a tutto !
— Calma, — gli risponde un poliziotto, — calma e cessato
allarme! I banditi sono stati catturati.
Anselmo non sta a sentire altro. Corre nelle soffitte
per riprendere la discussione con quei sei dormiglioni,
ma non può discutere di nulla, perché essi continuano
a dormire il sonno dell'innocenza. Tutto quel che
Anselmo può fare è di scrivere in stampatello un biglietto
che mette bene in vista, per il momento in cui si
sveglieranno:
PER CAUSA VOSTRA IL BARONE LAMBERTO È MORTO.
SIETE LICENZIATI IN TRONCO.
Poi corre ad aprire la camera in cui è prigioniero il
giovane Ottavio. Il quale, dal canto suo, dorme il sonno
dell'incoscienza.
— Che ore sono? — domanda sbadigliando, quando
Anselmo spalanca le finestre.
— Le cinque e mezza.
— Del pomeriggio?
— Del mattino, del mattino! Si alzi, presto.
— A far che? A quest'ora non ci può essere niente di
urgente da fare.
— Non si ricorda piú che è morto il barone suo zio?
— Giusto, — dice Ottavio, — bisogna pensare ai funerali
in barca.
Ne passeranno degli anni e dei secoli prima che le
acque azzurre del Cusio rivedano un funerale come
quello del barone Lamberto, piú bello di un film a colori.
Anche la giornata ce l'ha messa tutta per essere
ricordata. C'è una luce che sembra argento fuso. Le
montagne hanno innalzato tutt'intorno i loro sipari
verdi e azzurri e dietro le cime svetta il Monte Rosa,
come un gigante che guardi di sopra le spalle delle
persone comuni.
Tra vicini e lontani, posti sulla riva o sulle colline, piú
in alto o piú in basso, quanti saranno i campanili intorno
al lago? Piú di trenta sicuramente. E tutti, fin
dall'alba, si scambiano rintocchi solenni. E su ogni
campanile c'è un sacrestano o un chierichetto che si
godono lo spettacolo.
Cinquantamila persone si sono raccolte sulla sponda
orientale del lago e almeno altrettante sulla sponda
occidentale. Il promontorio su cui sorge la città di Orta
è cosí carico di folla che, se non fosse di solida roccia,
rischierebbe di sprofondare. Il barone Lamberto era già
famoso prima che l'isola fosse occupata dai banditi. Era
già famoso da vivo, figuriamoci da morto.
La salma dovrà essere trasportata in barca dall'isola
a Orta, di qui proseguirà per Domodossola, dove il
barone Lamberto ha la tomba di famiglia.
Tra l'isola e Orta non ci sono che quattrocento metri
di lago: troppo pochi per consentire al corteo funebre
di spiegarsi in tutta la sua lunghezza. Perciò è stato disposto
che esso non segua una linea retta, ma si
sgomitoli in un'ampia serie di curve, perdendo tempo
in andirivieni pittoreschi, come certi ponti cinesi che
per andare dal punto A al punto B seguono tutto un
percorso a zig zag, per consentire a chi li attraversa di
ammirare il panorama da diversi punti di vista.
Apre la sfilata il barcone con i preti e i chierichetti.
Tra questi spiccano i nipotini del barcaiolo Duilio, che
si ficcano sempre dappertutto. Sono tanto vivaci che
uno si aspetta di vederli correre sull'acqua senza affondare.
Si litigano il secchiello dell'acqua santa,
l'aspersorio, il turibolo dell'incenso e si beccano anche
qualche scappellotto dal viceparroco.
Seguono ventiquattro barche tutte uguali, ciascuna
reca a bordo un direttore generale di banca e il suo segretario,
in totale quarantotto funzionari vestiti di
scuro, scurissimi in volto. Il fatto è che, quando sono
giunti sull'isola, il barone Lamberto era già stato chiuso
nella cassa.
— Ma come, — hanno detto, — e noi?
— Loro cosa? — ha chiesto Ottavio, faccia di bronzo.
— Ma... naturalmente... avremmo voluto rendere
omaggio alla salma... tra l'altro riconoscere ufficialmente
il barone...
— Il riconoscimento è stato effettuato dai membri
della famiglia, cioè da me, che sono l'unico nipote, e dal
maggiordomo Anselmo.
Cosí i ventiquattro direttori sono rimasti con i loro
sospetti, e mentre il funerale serpeggia sul lago, essi si
domandano se nella cassa ci sia veramente il barone o
un misterioso impostore. E in questo caso, dove sarà il
barone vero e proprio?
Dopo i banchieri, ecco il barcone con la cassa del
morto. Alla sua guida c'è Duilio, detto Caronte per
burla, oggi nei panni di un autentico traghettatore di
anime. Il barcone alza una bandiera nera con una
grande Elle d'oro in mezzo. Dietro il barcone vengono
due barchini. Su uno, il nipote Ottavio finge di piangere
in un fazzoletto bianco bordato di nero; in realtà,
se non avesse paura di perdere l'equilibrio, ballerebbe
dalla contentezza: tra qualche ora saprà quanta parte
delle sterminate ricchezze dello zio finirà nelle sue tasche
assetate. Sull'altro barchino, in piedi, appoggiato
all'ombrello dignitosamente arrotolato, c'è Anselmo,
che rimugina i suoi sospetti sul nipote Ottavio. Ma chi
gli crederebbe, se lo accusasse apertamente? Va bene,
si può provare che è stato lui a mettere il sonnifero nella
cena degli abitanti delle soffitte. E con questo? Quale
medico, quale giudice di tribunale crederanno mai che
il barone è morto perché il suo nome non è stato piú
pronunciato? Lo guarderebbero storto. Forse gli direbbero:
— Lei vuol farci credere alla storia del mago.
Guardi che viviamo nel Secolo Ventesimo.
Anselmo piange. Anche di lontano, se uno ha per le
mani un buon cannocchiale da marina, può vedere i
lacrimoni che rotolano giú per le guance e sgocciolano
sull'ombrello.
Seguono altre barche con autorità di ogni genere,
civili e militari, nazionali ed estere. Poi vengono le
barche con i vessilli delle associazioni che il barone
Lamberto ha beneficato, da quel vero benefattore del
popolo che è sempre stato: la Bocciofila di Orta,
l'Unione delle Banche Angloprussiane, la Società degli
Amici dell'Alta Finanza, la Società Amici del Fisco, la
Juventus Polisportiva di Armeno, eccetera. I vessilli
formano una bellissima macchia di colore.
Poi ci sono centoventisette motoscafi carichi di corone
di fiori, giunte dai cinque continenti del pianeta,
una perfino dalla Terra del Fuoco. Solo a contare le
corone, gli astanti hanno un bel lavoro. C'è chi ne conta
un paio di piú, chi un paio di meno. Per non litigare, si
accordano sulla cifra totale di trecentoventi. Ma c'è un
signore piccolo, nervoso, che si ostina a dire che sono
trecentoventuno. C'è sempre qualche originale che non
si vuol rimettere al parere della maggioranza.
Intanto, tra decine di migliaia di bocche corrono
bisbigli e sussurri, domande e risposte, esclamazioni e
commenti:
— Povero barone Lamberto, con tutti i suoi soldi...
— Eh, Lamberto, si, che era ricco.
— Lamberto era anche buono.
— Chi? Lamberto? Era piú buono del pane.
— Ma è quel Lamberto che...
— Sí, sí, proprio quel Lamberto lí.
— E quale Lamberto voleva che fosse?
— Di Lamberto ce n'è uno... Anzi, c'era.
— C'era una volta Lamberto.
In fondo al corteo naviga una grande chiatta piena di
musicanti. È la banda dei tranvieri di Milano, fatta venire
apposta in treno, che suona una marcia funebre
dopo l'altra.
— Il barone Lamberto era un vero amante della musica.
— Lamberto amava tutte le cose belle.
— Eh, il cuore di Lamberto...
— Come dice? Lamberto è morto di mal di cuore?
— Dico che aveva un gran cuore, Lamberto.
— Povero Lamberto.
— Lamberto di qui...
— Lamberto di là...
— Lamberto di su...
— Lamberto di giú...
— Lamberto di sopra e di sotto...
Se un ascoltatore potesse portarsi a ventimila metri di
altezza e in quel punto convergessero tutte le parole che
vengono pronunciate sul lago e intorno al lago da tutte
quelle persone, si può supporre che egli, l'ascoltatore,
registrerebbe una serie ininterrotta di:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
È vero che la gente parla anche d'altro. Mentre seguono
il funerale, gli industriali di Omegna parlano di
caffettiere e frullini, i fabbricanti di rubinetti di San
Maurizio d'Opaglio si scambiano informazioni sugli
sceicchi arabi che hanno ordinato una partita di rubinetti
d'oro, i fabbricanti di ombrelli di Gignese sospirano
a causa dell'estate troppo asciutta per i loro gusti,
i montanari della Valstrona discutono sui prezzi del
legname, i pittori astratti di Verbania dicono male dei
loro colleghi figurativi e viceversa. Ma c'è sempre uno,
almeno uno, che nomina Lamberto, e quando lui è
giunto alla «o» del nome, c'è sempre un altro che attacca
con la lettera «elle». La cosa non è stata programmata
da nessuno, ma di fatto ecco che centomila,
centocinquantamila persone, a voce alta o bassa, maschile
o femminile, pronunciano a turno quel nome:
— Lamberto, Lamberto, Lamberto...
A un tratto — ma era inevitabile, c'era da aspettarselo,
c'era da scommetterci che succedeva! — dalla cassa
del morto si sentono uscire dei colpi energici. Tutti si
voltano da quella parte. I preti e i chierichetti smettono
di cantare. La banda smette di suonare. La gente trattiene
il fiato. I colpi aumentano d'intensità. C'è chi
sviene subito per l'emozione, c'è chi tiene duro: a svenire
c'è sempre tempo... Finalmente, con uno schianto,
il coperchio della cassa si solleva, si solleva un altro po',
si solleva ancora un po', si rovescia del tutto e finisce in
acqua, mentre il barone Lamberto si alza in piedi, si
guarda intorno e grida: — Tutto sbagliato! Caronte, riportami
a casa mia! Anselmo, guarda che ti perdi
l'ombrello! Ottavio, dove scappi?
Ottavio, appena afferrata la nuova situazione, si è
tuffato dal suo barchino e nuota vigorosamente verso la
riva.
Il barone Lamberto continua a gridare allegramente:
— Tutto sbagliato! Tutto da rifare! Il funerale è rinviato
a data da destinarsi, perché il morto non gioca
più!
Da Orta e dintorni sale al cielo una grande, lunghissima:
— Oh!
Poi una grande, lunghissima: — Ah!
Poi un applauso tempestoso, grida di evviva: — Viva
Lamberto!
— Grazie. Difatti sono vivo!
Il direttore della banda dei tranvieri non si lascia
prendere di contropiede dagli avvenimenti. A un suo
segnale i centoventi musicanti del celebre complesso di
strumenti a fiato attaccano la marcia trionfale dell'Aida.
Anselmo ripesca l'ombrello che per la sorpresa aveva
lasciato cadere in acqua, lo apre, lo richiude, non sa
piú quel che fa.
— Signor barone, — egli grida, — che cosa desidera per
pranzo? Le andrebbero dei piccioni alla Cavour o
preferisce un'anitra alla mantovana?
Il barone non gli dà retta. È troppo occupato a godersi
la sua festa. E in questo momento, il famoso
ascoltatore che si trovasse a ventimila metri d'altezza,
nel punto di convergenza di tutte le voci e parole che si
levano dal Cusio, sentirebbe ripetere con maggiore intensità
e con piú forza che mai: — Lamberto, Lamberto,
Lamberto...
— Dunque Lamberto è vivo.
— Quello di Lamberto dev'essere stato un caso di
morte apparente.
— Fortunato Lamberto!
— Però diciamo la verità: Lamberto se lo meritava...
— Lamberto di qua...
— Lamberto di là...
Nella generale esultanza, spiccano per contrasto i
ventiquattro direttori generali e i loro ventiquattro segretari.
Non gridano, non parlano, non dànno il minimo
segno di gioia. Essi puntano i loro quarantotto piú
quarantotto occhi sul barone Lamberto, ne scrutano la
figura, ne studiano la fisionomia, la confrontano con i
loro ricordi, con le fotografie in loro possesso che tolgono
ogni momento dal portafoglio, si guardano tra di
loro, consultandosi silenziosamente. Finalmente ordinano
ai loro barcaioli di puntare sull'isola, al seguito di
Caronte che sta già attraccando al piccolo pontile.
Il barone Lamberto, sbarcando, si volge a salutare
un'altra volta, stringendosi le mani sopra il capo, nel
gesto dei pugilatori vittoriosi.
— Viva Lamberto! — gli risponde la folla.
Poi, lentamente, essa si scioglie, perché non c'è piú
niente da vedere. Soddisfatta, però, perché è la prima
volta nella storia del lago che un funerale si conclude
con il lieto fine.
C'è ancora qualche tafferuglio a metà strada tra l'isola
e Orta, dove la cassa del morto è finita in acqua e gli
appassionati se ne disputano le ultime schegge, che
intendono conservare per ricordo della bella giornata.
Ottavio, a quest'ora, è già lontano. Si ferma solo a
Firenze a far benzina. È difficile che si senta ancora
parlare di lui, sulle verdi rive del Cusio. Ciao, Ottavio.
Delfina è la prima a svegliarsi dopo due giorni e tre
notti di sonno forzato. Non si rende conto subito di
essersi svegliata; anzi, le sembra di aver cominciato un
nuovo sogno, nel quale scende dal cielo una banda che
suona la marcia trionfale dell'Aida. Non capisce bene
se quelli che entrano dal finestrino della soffitta sono
raggi del sole o squilli di trombe. Ha gli occhi aperti,
ma non vuol dire, in sogno si hanno sempre gli occhi
aperti, tranne quando si sogna di averli chiusi. Si stira
le braccia e le gambe ed urta con il piede in una sedia.
Ahio! Com'è duro questo letto...
Delfina si guarda intorno e vede la signora Merlo
sdraiata per terra, con la testa sotto il tavolo. Finalmente
realizza che anche lei è sdraiata sul pavimento e
salta su, come se si sentisse punta.
Corre a guardare dal finestrino e vede che sul lago c'è
una grande festa popolare.
Corre a guardare sul tavolo e trova il biglietto scritto
da Anselmo: «Il barone morto... colpa vostra... licenziati
in tronco...»
— Cosa? Cosa? Signora Merlo! Signora Zanzi!
A forza di pizzicotti, ceffoni, bicchieri d'acqua nel
collo, urlacci, riesce a svegliare i suoi cinque compagni.
— Tocca a me? — borbotta il signor Giacomini. E subito
attacca, sbadigliando: — Lamberto, Lamberto,
Lamberto...
— Alt! — grida Delfina. — Stop! Non c'è piú niente da
lambertare: siamo licenziati, guardate qui. Forse siamo
anche accusati di lamberticidio. Signor Armando, per
favore, non si riaddormenti.
— Che ore sono? — farfuglia il signor Armando.
— Domandi piuttosto che giorno è.
Il signor Armando guarda il suo orologio, che non
segna solo le ore, ma anche i mesi e i giorni.
— Perbacco! Ma quanto abbiamo dormito! Che cosa
è successo, insomma?
— Mi sembra, — dice il signor Bergamini, — di sentire
la fanfara dei bersaglieri. Belle trombe.
— È la marcia dell'Aida, — lo corregge Delfina.
— Ho conosciuto una volta a Treviso una signora che
si chiamava Aida. Teneva un'osteria e non cucinava
male affatto. A proposito, voi non avete fame? Cosa c'è
oggi da mangiare?
— Signor Bergamini, lei non ha ancora capito la situazione.
— E a dire la verità non ci capisco niente nemmeno
io. Andiamo in cerca di qualcuno che ce la
spieghi.
Tutti d'accordo scendono le scale e arrivano nel
grande atrio della villa in tempo per vedere il portone
che si spalanca e una folla che irrompe con grida festose.
Ci sono poliziotti, carabinieri, vigili urbani...
— Cielo, — bisbiglia la signora Merlo, — non saranno
mica qui per arrestarci?
— Io, — dice il signor Giacomini, — non apro bocca se
non c'è il mio avvocato.
— Io, — proclama la signora Zanzi, — non so niente.
Dormivo, io.
— E noi, no?
— Non lo so. Quando dormo, io non mi guardo in
giro per vedere cosa fanno gli altri.
Ma ecco il signor Anselmo, tutto allegro, che corre
incontro a Delfina e l'abbraccia, urtandola con l'ombrello.
— Cara, cara signorina Delfina, questo è il piú bel
giorno della mia vita!
— E il licenziamento in tronco?
— Come non detto! Siete tutti riassunti al lavoro.
Anzi, non mi meraviglierei neanche tanto cosí se il signor
barone, per festeggiare l'avvenimento, vi aumentasse
lo stipendio.
— Un momento... Ma il signor barone non è morto?
— Il signor barone è piú vivo di prima.
— E quel biglietto?
— Come non scritto.
— Allora torniamo di sopra, — propone il signor
Bergamini. — Il pranzo è pronto?
— Calma, — dice Delfina, — voglio vederci chiaro.
— Se è il signor barone che vuole vedere, eccolo, -
dice Anselmo, tutto contento.
Il barone Lamberto sta entrando fra gli applausi generali.
Sorride, fresco come un mattino di primavera. I
sei lo guardano con dodici occhi spalancati. Quello è il
barone? E dov'è finito il vecchio signore incartapecorito,
tanto somigliante a una tartaruga, che hanno
conosciuto alcuni mesi or sono, al momento della loro
assunzione?
Se lo ricordano bene, il vegliardo tremolante, che
parlava con un filino di voce, sempre sul punto di
spezzarsi... Che diceva, appoggiandosi a due bastoni dal
pomo dorato, puntando su di loro gli occhietti nascosti
dalla cascata delle palpebre: — Mi raccomando, il
nome dev'essere pronunciato con chiarezza... Non
gridato... non sussurrato... non cantato... Ad ogni sillaba
il suo giusto peso... Facciamo una prova, prima
tutti insieme, poi uno alla volta... Pronti? Via...
Lamberto, Lamberto, Lamberto...
— Com'è ringiovanito, — osserva la signora Zanzi.
— Pare proprio un altro, — aggiunge il signor Armando.
Delfina è sempre piú scura in volto. Non sorride
nemmeno quando il signor barone si china a baciarle la
mano, dicendo:
— Ma sa che lei è sempre più carina?
— Mi pare, — dice Delfina con serietà, — che a questo
punto lei ci debba delle spiegazioni, non dei complimenti.
Siamo stati perfino accusati della sua morte.
— Una morte provvisoria, — sorride il barone, — niente
di serio.
— Meglio per lei, — dice Delfina, — ma sarebbe ora che
lei ci dicesse tutto quello che non ci ha detto l'altra
volta.
— Vuol sapere troppo, — sospira il barone. — E se vi
raddoppiassi la paga?
La signora Merlo apre già la bocca per ringraziare,
commossa, ma Delfina è piú svelta di lei: — Vogliamo
sapere il perché del nostro lavoro. A che serve. Che
cosa produce. Che cosa ha a che fare con la sua vita e
con la sua morte.
Il barone sospira di nuovo. Il signor Anselmo, scandalizzato
dal comportamento di Delfina, vorrebbe intromettersi,
ma il barone glielo impedisce.
— Buono, Anselmo, — egli dice. — La signorina Delfina
ha ragione. Non è solo carina, è anche intelligente.
Vorrei sapere se gli altri sono d'accordo con lei...
Gli altri abbassano gli occhi, sospirando. Non sanno
bene cosa gli conviene rispondere. Ma non possono
mettersi contro Delfina.
— Va bene, — cede il barone, — vi dirò tutto.
Ma per il momento non può dire niente, perché
stanno arrivando i ventiquattro direttori generali delle
sue banche, seguiti dai ventiquattro segretari che portano
le cartelle. Marciano per tre, con passo militare,
decisi a vedere il barone in faccia da vicino. La folla si
divide per farli passare. Essi circondano il barone con
aria minacciosa. Il direttore generale della Banca
Lamberto di Singapore, che è il piú anziano del gruppo
e parla per tutti, dice: — Signore, potremmo restare soli?
Il barone, sorpreso, li guarda uno per uno. Non gli
sembrano tanto contenti della sua rinascita. Come mai?
— Anselmo, — egli dice, — accompagna la signorina
Delfina e i suoi amici in soffitta. Li raggiungerò tra un
momento. A tutti gli altri signori e signore, i miei piú
sentiti ringraziamenti e un cordiale arrivederci. Come
vedono, ho una riunione d'affari... Ecco, siamo soli.
Cioè, siamo soltanto quarantanove. Chi chiede la parola?
— Io, — dice il direttore generale di Singapore.
— Prego.
— Sarò breve. Anzi, sarò interrogativo. Come mai lei
ha due orecchie?
— Mi sembra di averne il diritto. Anche i gatti ne
hanno due.
— A chi apparteneva, allora, l'orecchio che i banditi ci
hanno inviato?
— A me.
— In questo caso, lei aveva tre orecchie, non due.
— Le dirò...
— Ci mostri le mani, per favore, — lo interrompe il
direttore generale.
Il barone esegue, dando lui stesso un'occhiata. Toh!
Il dito amputato è ricresciuto completamente, e figura
al suo posto come niente fosse.
— Come mai ha dieci dita? — incalza l'inquisitore.
— E lei, quante ne ha? E lor signori, quante ne hanno?
E quante ne ha il Papa di Roma?
— Lasci in pace Sua Santità. Lei è un impostore!
— Riconosco, — ammette sorridendo il barone Lamberto,
che i fatti sono alquanto strani ed insoliti.
— E fa bene, — lo interrompe nuovamente il direttore
generale di Singapore. — Quanto a noi, non riconosciamo
in lei il barone Lamberto, proprietario e presidente
delle banche che qui rappresentiamo.
— Chi sono io, allora?
— Sono fatti suoi, egregio signore. La sua carta
d'identità non c'interessa. Della scomparsa del barone
Lamberto risponderà alla polizia.
— Ben detto, — ripetono in coro gli altri ventitre direttori
generali.
I ventiquattro segretari si affrettano a prendere nota
anche di questa importante battuta.
Il barone Lamberto sorride. Non per la battuta, né
per la minaccia di far intervenire la polizia. Gli è venuta
in mente un'altra cosa. È questa che lo fa sorridere.
— Signori, — dice, alzandosi di scatto e dirigendosi
verso le scale, — abbiano la bontà di attendermi qualche
minuto. Mi sono ricordato di una cosa d'importanza
decisiva. Nel frattempo manderò il mio maggiordomo
a servire dei rinfreschi.
— Ma cosa le salta in mente?
— Dove va? Venga qua!
— Fermate l'impostore!
Ventiquattro piú ventiquattro scalmanati inseguono
vociando il barone Lamberto, che sale i gradini a tre per
volta, spalanca la porta delle soffitte, piomba sul
gruppetto in attesa e fa: — Signorina Delfina, mi vuole
sposare?
— Come ha detto, scusi?
— Le ho chiesto se mi vuole sposare. Non sarebbe una
cosa magnifica? Mi è venuta in mente proprio adesso,
mentre discutevo con questi signori. Da quando l'ho
conosciuta il mio cuore batte solo per lei, i miei occhi
vedono solo i suoi occhi verdi e i suoi capelli rossi.
Sento che siamo fatti l'uno per l'altra e che vivremo per
sempre felici e contenti.
La signora Zanzi e la signora Merlo si abbracciano
per la gioia, confidandosi che loro l'avevano sempre
pensato. Il signor Armando ci resta di gesso, perché un
pensierino su Delfina l'aveva fatto anche lui. Il signor
Bergamini e il signor Giacomini battono le mani e si
permettono di scherzarci sopra:
— A quando i confetti?
— Viva la signora baronessa!
— Un momento, — dice Delfina, senza scomporsi,
non ho ancora detto la mia opinione.
— Dica di sí, Delfina, — insiste il barone, — e questo
sarà il piú bel giorno della mia vita.
— Invece dico di no.
Sorpresa, esclamazioni, commenti vari: «Ma che
maniera di buttar via la fortuna!», «Ecco, non le basta
un barone, forse vuole un principe azzurro», «È perfino
maleducazione, rispondere di no a un signore cosí
perbene!»
— È proprio un «no-no», o è soltanto un «no-forse»,
oppure un «no-vedremo», o magari un «no-aspettiamo
un po' di tempo»? — incalza il barone. — Mi lasci qualche
speranza. Mi dica almeno «ni».
— Ma neanche per sogno. Per il momento il matrimonio
è l'ultimo dei miei pensieri.
— E il primo qual è? — domanda il signor Armando.
— Il primo, — dice Delfina, — è di capirci qualcosa in
tutto questo pasticcio. Il barone ci aveva promesso una
spiegazione.
— Piú che giusto, — sospira il barone (quante volte gli
tocca sospirare, oggi). — Vi dirò tutto.
— Era ora, — commentano i ventiquattro direttori di
banca, che si sono infilati anche loro nella soffitta (i
ventiquattro segretari sono rimasti fuori sulle scale, per
assoluta mancanza di spazio).
— L'anno scorso, in ottobre, mi trovavo in Egitto...
Il barone Lamberto rivela il suo segreto. Racconta
ogni cosa per filo e per segno, mentre Anselmo fa di sí,
di sí con la testa. Anselmo, anzi, interviene una volta
per ripetere le parole precise del santone arabo incontrato
per caso all'ombra della Sfinge: «Ricordati che
l'uomo il cui nome è pronunciato resta in vita». Tutto
ora diventa chiaro alla mente dei ventiquattro direttori
di banca. Essi passano dal sospetto alla commozione.
Quando il barone arriva al punto in cui i banditi gli
tagliano prima l'orecchio poi il dito, essi non resistono:
cadono in ginocchio, gli baciano le mani, specialmente
il dito nuovo. Qualcuno gli bacia anche l'orecchio.
Quando il barone arriva al momento in cui si sveglia
nella cassa da morto, la signora Merlo si fa il segno della
croce e la signora Zanzi, appassionata del gioco del
lotto, mormora tra sé: «Morto che parla fa quarantasette».
Anselmo piange e lascia cadere due o tre volte l'ombrello,
che i direttori di banca si chinano a raccogliere
per mettersi in vista.
— Ecco, — dice il barone, — questo è tutto. E ora, che
ne direste di fare un brindisi alla salute dei presenti?
— A proposito di salute, — dice Delfina, — se ho capito
bene, siamo noi che le abbiamo restituito la sua.
— Certo.
— E senza nemmeno essere dottori, — prosegue
Delfina. — Siamo proprio meglio dei maghi. Abbiamo
mantenuto in vita questo gran signore con la nostra
voce. Con il nostro lavoro. Di cui non comprendevamo
nemmeno il significato. Per settimane, per mesi, quassú
a ripetere il suo nome come pappagalli, senza sapere
perché. A proposito, un disco o un nastro registrato,
non avrebbero ottenuto lo stesso effetto?
— No, signorina, — spiega Anselmo. — Avevamo fatto
qualche esperimento, ma non funzionava.
— Ci voleva la voce umana, — dice Delfina, — ci volevano
i nostri polmoni. Per mesi abbiamo tenuto nelle
nostre mani la vita del barone Lamberto senza saperlo,
senza nemmeno sospettarlo...
— Già, — esclama il signor Armando, sorpreso,
avremmo magari potuto chiedere un aumento di stipendio.
— Di più, — scopre il signor Giacomini, stupito,
— avremmo potuto chiedere anche un miliardo. Lei,
signor barone, ce lo avrebbe dato un miliardo. Lei, signor
barone, ce lo avrebbe dato un miliardo, se glielo
avessimo chiesto?
— Si capisce, — ammette il barone, — anche due.
— Ma allora, — balbetta il signor Bergamini, sbalordito,
— allora, in un certo senso, siamo stati... truffati.
— Macché truffati! — esplode il direttore della banca
di Singapore. — Siete stati pagati benissimo. Ma senti
che roba!
— La manodopera, — commenta il direttore della
banca di Zurigo, — ha sempre delle pretese scandalose.
— Adesso però, — dice Delfina, — non serviamo piú.
— Per carità! — si affretta a dire il barone. — Avrò bisogno
di voi come prima, a qualunque prezzo.
— No, signor barone! — grida dal fondo delle scale
uno dei segretari.
— Questo no!
— Come? Chi è che si permette? Resti al suo posto,
lei! Faccia silenzio!
Sembra che i ventiquattro direttori generali vogliano
saltare tutti insieme sul povero piccolo segretario, per
schiacciarlo con il loro peso.
— Piano, piano, — fa il barone incuriosito, — lo lascino
dire... Venga su, lei, parli apertamente.
— Signor barone, — dice il segretario, emozionatissimo,
— lei non ha piú bisogno di nessuno. Sono ore che
nessuno pronuncia piú il suo nome, eppure lei, a
quanto pare, continua a vivere, non accusa disturbo
veruno e non accenna minimamente ad invecchiare.
— È vero! — esclama Anselmo. — È proprio vero, signor
barone!
— È vero, è vero, — gridano, al colmo dell'entusiasmo,
i ventiquattro direttori di banca.
Delfina e i suoi amici si guardano. Il barone guarda
Delfina. Sembra che la storia stia arrivando a una svolta
decisiva.
— Anselmo, — dice il barone, — controlliamo.
Anselmo cava di tasca il suo libriccino e comincia
il controllo delle ventiquattro malattie, del sistema
scheletrico, del sistema muscolare, del sistema nervoso,
dell'apparato circolatorio, eccetera eccetera. È tutto a
posto. Non c'è una sola cellula che faccia i capricci. La
circolazione dei reticolociti è in aumento.
— Interessante, — mormora il barone, — interessante.
Mi sento come nei miei giorni migliori. Come mai?
— Signor barone, — insiste il piccolo segretario, deciso
a far carriera, — il perché è chiarissimo. Lei è rinato,
signor barone! La sua vita di prima, quella che era
appesa al filo della voce di questi... di questi sei... di
questi signori, è finita. Là fuori, sul lago, è cominciata
per lei una seconda vita. Lei non ha piú bisogno di
nessuno! Di nessuno!
— Interessante, — ripete il barone, — dev'essere proprio
cosí. Mi sento veramente rinato. Quasi quasi prenderei
un altro nome, per dimenticare quello di prima. Che ne
direste di Osvaldo?
— Mi permetto di consigliare Renato, — osa ancora il
piccolo segretario.
— Perché?
— Renato vuol dire, appunto, nato due volte. E poi...
e poi... col suo permesso, anch'io mi chiamo Renato.
— Bravo, — dice il barone. — Ragazzo intelligente.
Anselmo, segnati cognome e indirizzo. Merita una
promozione. Dunque, mi pare che a questo punto
possiamo sciogliere l'assemblea.
— E noi? — domanda la signora Merlo.
— Siamo licenziati? — domanda il signor Armando.
— Avremo almeno la liquidazione? — domanda il signor
Bergamini.
I ventiquattro direttori di banca protestano in coro:
— Anche la liquidazione! Ma dove andremo a finire?
Il barone Lamberto-Renato, invece, sorride. Strano
sorriso, però. Sembra che stia pensando di fare uno
scherzo a qualcuno. Uno scherzo maligno...
— Ma sí, — dice dopo aver sorriso per un centinaio di
secondi, — la liquidazione ci vuole. Anselmo, prepara
per ciascuno di questi tre egregi signori e di queste
gentili signore... un sacchetto di camomilla. Scegli
l'annata migliore. Consiglierei... Tibet del Settantacinque.
— Bravo! — approvano i direttori di banca e i loro
segretari.
— Bravissimo! — grida il piccolo segretario Renato, per
battere il ferro finché è caldo.
Delfina e i suoi amici restano silenziosi e meditabondi.
Anche perplessi. Anche indignati. Cinque paia
d'occhi fissano Delfina. Forse lei ha una buona risposta
pronta. Si capisce che la sta pensando da come corruga
le sopracciglia, da come si batte col dito medio sul ginocchio.
Anche il barone Lamberto guarda Delfina con curiosità.
Lei per un pezzo resta zitta fissando un punto
nell'aria, non si capisce esattamente dove, forse una
trave del soffitto, forse un vetro della finestra, dietro il
quale passa maestosamente una nuvola bianca.
— D'accordo, — essa dice finalmente, tra la sorpresa
generale, — accettiamo il dono generoso del signor barone.
— Le sue camomille sono piú profumate delle rose
di Bulgaria. Ma noi non vogliamo essere da meno di lui,
vero? Ho pensato che anche noi possiamo regalargli
qualche cosa...
— Piú che giusto, — approva il direttore della banca di
Singapore. — Fate una colletta con i vostri risparmi e
regalate al barone Lamberto un oggetto ricordo d'oro
o d'argento.
— Un servizio da caffè, — propone un altro direttore.
— Un orologio a cucú.
— Un portachiavi a forma di isola di San Giulio.
— Zitti, voi, — ordina il barone. — Ascoltiamo Delfina.
— Grazie, signor barone, — dice Delfina, con un piccolo
inchino. — Propongo dunque ai miei cinque compagni
di offrire gratis al barone, per l'ultima volta, un
saggio della nostra bravura. In fin dei conti egli non ci
ha mai visti mentre pronunciavamo il suo nome. Siete
pronti?
E senza neanche guardare i suoi imbarazzati compagni,
Delfina attacca: — Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Poi anche il signor Armando si fa coraggio e tira fuori
la voce: — Lamberto, Lamberto, Lamberto...
Uno alla volta gli altri si uniscono al coro: — Lamberto...
Lamberto... Lamberto...
«Belle voci, ottima pronuncia», pensa il maggiordomo
Anselmo, soddisfatto: è stato lui, a suo tempo, a
scegliere i sei dicitori tra centinaia di candidati.
Il barone ascolta con un sorrisetto fermo come una
vespa all'angolo della bocca. Poi il sorrisetto vola via. Al
suo posto un'espressione di stupore gli si disegna su
tutta la faccia. Anche i ventiquattro direttori, poco fa
semplicemente curiosi e interessati, appaiono stupefatti.
Delfina affretta il ritmo, battendo il tempo con la
mano sul ginocchio e incitando con le occhiate e con i
gesti i suoi compagni a far sempre piú in fretta.
— Lamberto Lamberto Lamberto...
Con l'allenamento che hanno, passano da sessanta
colpi al minuto a ottanta, a cento, a centoventi... A
duecento colpi al minuto sembrano sei diavoli scatenati
che stiano litigando a colpi di scioglilingua.
— Lambertolambertolambertolam...
Sotto gli occhi dei presenti, sempre piú meravigliati,
il barone Lamberto-Renato comincia a ringiovanire,
ringiovanisce, continua a ringiovanire. Ora gli si darebbero
venticinque anni. E un giovanotto che potrebbe
partecipare ai Giochi Universitari, un attor
giovane pronto a salire sul palcoscenico per interpretare
parti da primo amoroso. Passa dall'età della laurea
a quella della maturità classica. E non si ferma, perché
Delfina e compagni non si fermano, non cessano
di sparare il suo nome a velocità di mitragliatrice:
— Lambertolambertolambertolamberto...
Quando il barone è arrivato ad avere diciassette anni
ed è già diventato cosí snello che i vestiti gli stanno
larghi addosso, comincia anche a diventare piú piccolo,
attraversando all'indietro l'età della crescita.
— Basta! Basta! — grida il maggiordomo Anselmo,
atterrito.
I ventiquattro direttori hanno la bocca spalancata, ma
non trovano parole da far uscire.
Lamberto sembra un ragazzo nei panni del suo papà:
i pantaloni sono molto piú lunghi delle gambe, i segni
della barba sono spariti dalla sua faccia. Ora avrà
quindici anni...
— Lambertolambertolambertolamber...
— Basta, per carità!
Lamberto ha un'espressione sorpresa, non capisce
bene quello che gli sta capitando... Si tira indietro le
maniche della giacca che gli coprono le mani... Si tocca
la faccia...
Adesso avrà, sí e no, tredici anni...
E ora Delfina smette di dire il suo nome e fa segno
agli altri di smettere. Si fa un gran silenzio, si vede
Anselmo che sparisce di corsa da qualche parte, ma
torna quasi subito, portando un bel vestitino con i
calzoni corti: — Signorino, si vuol cambiare d'abito?
Questo è quello che le fu regalato nel millenovecento...,
anzi nel milleottocentonovantasei... È un po' fuori
moda, ma tanto carino. Venga, signorino, venga...
Mentre Anselmo accompagna Lamberto in un'altra
stanza a vestirsi da giovinetto, si sentono dei singhiozzi...
È il segretario di nome Renato che si dispera.
— Credevo, — egli dice a Delfina tra le lacrime, — che
voi non aveste piú alcun potere sulla vita del signor
barone. Ahimè, la mia carriera è finita!
— Su, su, — lo consola Delfina, — non se la prenda, lei
è tanto giovane, domani è un altro giorno, eccetera eccetera.
— Mi dica almeno in che cosa ho sbagliato.
— In questo, — gli spiega con pazienza Delfina, — che
lei ha formulato una teoria ma non si è preoccupato di
verificarla.
— Ma è vero o no che il barone stava bene senza che
piú nessuno pronunciasse il suo nome?
— Forse durava ancora l'effetto del funerale, con tutta
quella gente a nominarlo gratis. Ad ogni modo io ho
voluto fare una prova. Intanto che c'ero, ho voluto anche
vedere che cosa sarebbe successo introducendo
nell'esperimento la variabile della velocità. È chiaro e
distinto?
— Altroché, — sospira Renato. — Lei ha proprio una
mentalità sperimentale. Vorrebbe sposarmi?
— No, naturalmente.
— Perché?
— Perché no.
— Ah, capisco...
Ma ecco che Lamberto ricompare, tenuto per mano
da Anselmo, con l'aria di un ragazzetto sperduto e
confuso. Si guarda in giro, senza saper che fare. Guarda
i presenti come se non li avesse mai visti. Vede
Delfina e un timido sorriso compare sul suo faccino.
— Delfina, — dice, — vuole diventare la mia mamma?
— Ci mancherebbe, — risponde Delfina. — Prima mi
vuole per moglie, ora mi vuole per madre. Deve sempre
attaccarsi a me per stare in piedi?
Lamberto sembra sul punto di piangere. Proprio in
quel momento il direttore generale della banca di
Singapore, che si è rapidamente consultato con i suoi
colleghi, prende la parola per dire: — Signor barone...
Anzi... hm... hm... signorino... la situazione ci sembra
ora cambiata in modo radicale. Lei non ha piú l'età per
presiedere ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong
Kong, Singapore e Altrove... Bisognerà nominarle un
tutore, perché è minorenne. A questo provvederemo
nella prossima assemblea dei direttori generali. Nel
frattempo... Ci è venuta un'idea. Con il suo aspetto
fresco e attraente, lei sembra fatto apposta per commuovere
il pubblico. Gireremo un film pubblicitario
per la Tv, nel quale si vedrà una cassaforte delle Banche
Lamberto e Vediamo un po'... Lei si rinchiuderà
nella cassaforte sorridendo e pronunciando queste
parole: «Qui dentro sto al sicuro come nella mia culla».
Le va l'idea?
Lamberto guarda Anselmo, guarda Delfina, in cerca
di consiglio. Ma Delfina non apre bocca. Gli tocca
proprio fare da solo. Stringe i denti e i pugni. Ci pensa
su un bel po', finalmente si alza e con voce ferma risponde:
— Manco per niente! Il mio tutore sarà
Anselmo, che è abituato a obbedirmi, non uno di
voialtri, vecchi gufi di banca! E quanto a me... voglio
studiare... Voglio fare...
La sua faccia s'illumina. Finalmente Lamberto sorride
apertamente, allegramente. Si mette perfino a
saltellare intorno per la stanza.
— Voglio diventare un artista del circo equestre. È
sempre stato il mio sogno e questa volta ho tutta una
vita per realizzarlo.
— Bravo! — grida la signora Zanzi, sempre piú commossa.
— La cosa è assurda, impossibile e perfino indecente, —
sentenzia il direttore della banca di Singapore.
— Lei è indecente, assurdo e perfino un po' antipatico, —
gli risponde Lamberto.
— Bravo! — grida la signora Merlo.
I direttori di banca parlano tutti insieme. Delfina e gli
altri parlano tutti insieme. Anche Anselmo parla e
parla, mentre Lamberto continua a ballare, saltare e
mostrare la lingua al signore di Singapore.
— Farò il trapezista, l'acrobata, il giocoliere, ballerò
sulla corda, domerò i leoni e gli elefanti, farò il pagliaccio,
il suonatore di tromba e di tamburo, ammaestrerò
foche, cani, pulci e dromedari...
Farà... farà... Che cosa farà? Questo non si può ancora
sapere. Ma Delfina adesso è molto contenta del
regalo che ha pensato per lui.
Proprio in quel momento il signor Giacomini, che
per non restare con le mani in mano aveva lanciato
l'amo dalla finestra, tira su un pesce di otto etti.
— Chi ha detto, — grida il signor Giacomini, eccitatissimo,
— che questo era un lago morto? Anselmo,
prepari la padella per il fritto. E chi parla male del
Cusio l'avrà da fare con me.
Epilogo
Le favole di solito cominciano con un ragazzo, un
giovinetto o una ragazza che, dopo molte avventure,
diventano un principe o una principessa, si sposano e
dànno un gran pranzo. Questa favola, invece, comincia
con un vecchio di novantaquattro anni che alla fine,
dopo molte avventure, diventa un ragazzino di tredici
anni. Non sarà uno sgarbo al lettore? No, perché c'è la
sua brava spiegazione.
Il lago d'Orta, nel quale sorge l'isola di San Giulio e
del barone Lamberto, è diverso dagli altri laghi piemontesi
e lombardi. È un lago che fa di testa sua. Un
originale che, invece di mandare le sue acque a sud,
come fanno disciplinatamente il Lago Maggiore, il lago
di Como e il lago di Garda, le manda a nord, come se
le volesse regalare al Monte Rosa, anziché al mare
Adriatico.
Se vi mettete a Omegna, in piazza del Municipio,
vedrete uscire dal Cusio un fiume che punta diritto
verso le Alpi. Non è un gran fiume, ma nemmeno un
ruscelletto. Si chiama Nigoglia e vuole l'articolo al
femminile: la Nigoglia.
Gli abitanti di Omegna sono molto orgogliosi di
questo fiume ribelle e vi hanno pescato un motto che
dice, in dialetto:
La Ni goja la va in sue la legg la fouma nu.
e in italiano:
La Nigoglia va all'insú
e la legge la facciamo noi.
Mi sembra detto molto bene. Sempre pensare con la
propria testa. Si capisce che poi, alla fin dei conti, il
mare riceve le sue spettanze: difatti le acque della
Nigoglia, dopo una breve corsa a nord, si gettano nello
Strona, lo Strona le porta al Toce che le versa nel
Lago Maggiore e di qui, via Ticino e Po, esse finiscono
nell'Adriatico. L'ordine è ristabilito. Ma il lago d'Orta
è contento lo stesso di quello che ha fatto.
È sufficiente come spiegazione di una favola che
obbedisce solo a se stessa? Speriamo di sí.
Resta poi da aggiungere che i ventiquattro direttori
generali delle Banche Lamberto, rientrati nelle loro
sedi, si affrettarono ad assumere persone di ambo i sessi
e a pagarle perché ripetessero a turno, giorno e notte,
i loro riveriti nomi. Speravano cosí di guarire dalle loro
malattie e di far camminare il tempo all'indietro. Invano.
Chi aveva i reumatismi, se li dovette tenere. A chi
era calvo, non spuntò alcun capello in capo, né biondo
né bruno. Chi aveva compiuto i sessantacinque anni,
non recuperò un solo minuto. Certe cose succedono
una volta sola. A dire la verità, poi, certe cose possono
succedere solo nelle favole.
Non tutti saranno soddisfatti della conclusione della
storia. Tra l'altro non si sa bene che fine farà Lamberto
e cosa diventerà da grande. A questo, però, c'è rimedio.
Ogni lettore scontento del finale, può cambiarlo a suo
piacere, aggiungendo al libro un capitolo o due. O anche
tredici. Mai lasciarsi spaventare dalla parola
Fine.
C'era due volte
il barone Lamberto
p. 7 Capitolo primo
15 Capitolo secondo
20 Capitolo terzo
28 Capitolo quarto
40 Capitolo quinto
49 Capitolo sesto
56 Capitolo settimo
66 Capitolo ottavo
80 Capitolo nono
96 Capitolo decimo
105 Capitolo undicesimo
114 Capitolo dodicesimo
131 Capitolo tredicesimo - EpilogoFinito di stampare nel mese di maggio 2005
presso
Grafica Editoriale Printing srl
Bologna
LA COLLANA FANTASTICA
In mezzo alle montagne c'è il lago d'Orta. In
mezzo al lago d'Orta, ma non proprio a metà, c'è l'isola
di San Giulio. Sull'isola di San Giulio c'è la villa
del barone Lamberto, un signore molto vecchio (ha
novantatre anni), assai ricco (possiede ventiquattro
banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore,
eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro.
Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda
tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un
piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite,
artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta
di zoppìa. Accanto a ogni malattia Anselmo ha
annotato le medicine da prendere, a che ora del
giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati,
le raccomandazioni dei dottori: «Stare attenti al
sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare lo
zucchero, che non va d'accordo con il diabete»,
«Evitare le emozioni, le scale...