Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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D'Ambra, Lucio

220357
Il Re, le Torri, gli Alfieri 4 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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A poco a poco abbiamo potuto distinguere le voci di quegli uomini in corsa che urlavano a squarciagola l'annunzio delle edizioni speciali dei giornali della sera e la notizia della dichiarazione ufficiale della guerra. Il massiccio battaglione dei giornalai fu letteralmente preso d'assalto. Dai marciapiedi, dalle vetture, dalle automobili, dai portoni delle case, persino dai mezzanini più bassi le copie ancora umide del giornali, con le ultime notizie stampate in grassetto sotto titoli a lettere di scatola, erano strappate di mano ai rivenditori, aperte febbrilmente e lette immediatamente in gruppi e in capannelli improvvisati nella pallida luce crepuscolare. Ma le limousines continuavano a palpitare del loro ànsito pesante segnando il passo nelle quattro file di vetture in salita e in discesa tulle cariche d'eleganti signore nei priori chiari e freschi abiti di primavera, l'immensa folla continuava a muoversi, ad andare e venire lentamente sui marciapiedi, più densamente ancora assiepata d'innanzi ai grandi caffè sfavillanti di luce. Solo un gruppo di giovani, passando sotto il balcone del Circolo del Bridge che era situato di rimpetto alle finestre d'un grande, giornale, Il Conservatore, gridò ripetutamente: «Viva il Re! Viva Fantasia! Viva l'esercito!». Applaudii anch'io dal balcone e potei osservare che eravamo, in verità, pochini a provare il bisogno di fare un po' di rumore. La folla lasciò cadere le grida di quei pochi giovani come le parole di un discorso che non ci riguarda e che ancor meno c'interessa. Il gruppo di quei giovanotti, ricordando la scena finale di Nanà, cominciò allora a gridare «A Zarzuelopoli! A Zarzuelopoli!» Il nuovo grido non ebbe maggior fortuna. Evidentemente ogni cittadino, più che da quella d'andare a Zarzuelopoli, ipotesi remota, era adesso preoccupato dalla necessità, tesi immediata, d'andare a casa sua, a pranzare, a vestirsi per il teatro, per le riunioni mondane o per la solita partita. Già infatti la grande strada si sfollava. Si facevan dei vuoti nelle barricate umane d'innanzi ai caffè. Carrozze e automobili voltavano a dritta o a sinistra per le vie traverse. Le voci dei giornalai che annunziavano lo scoppio delle ostilità tra il nostro paese e Zarzuelopoli erano ormai monotone come quando, ogni sera, annunziavano i grandi tumulti, che non c'erano stati, alla seduta del Congresso dei deputati. Ognuno pensava oramai esclusivamente ai fatti suoi. La terribile notizia divulgata mezz'ora prima non aveva fatto più impressione di quella della caduta d'un aviatore e dell'arrivo al traguardo d'un intrepido ciclista. E fu così che Effemeris, capitale del regno di Fantasia, apprese tra le cinque e le sei di sera del 7 maggio dell'anno di grazia 1912 la notizia della guerra scoppiata tra il regno di Fantasia e l'impero di Silistria. Se i popoli felici non hanno storia, la felicità dei popoli risiede probabilmente nel segreto di non preoccuparsi di nulla e di dirsi che, guerra e pace, pace e guerra, tutto al mondo è vanità. Ho pranzato al Circolo, poichè il pensiero che eravamo giunti a una delle grandi tappe della storia del mondo, se pur mi preoccupava, non mi toglieva di sacrificare, come ogni sera a quella stessa ora, ad una delle mie e delle altrui più inveterate abitudini. Pranzai alla mia solita tavola, senza i miei soliti compagni di dispepsia, perchè contemporaneamente alla proclamazione della guerra c'era quella sera la prima rappresentazione molto attesa d'un celebre corpo di ballo annamita che aveva fatto furore a Parigi durante l'ultimo inverno. Mi serviva, nella sala da pranzo deserta, il mio solito cameriere che sapeva ancor meglio di me tutt'i miei gusti e tutt'i miei disgusti. Mentre mi somininistrava il mio solito pranzo sommario e versava all'ostinato bevitore d'acqua che io sono una complicata serie di acque ininerali estere e nazionali, il mio fedele cameriere mi sembrava preoccupato e come impacciato a trovare il modo di rivolgermi la parola per una domanda che doveva stargli molto a cuore. Fui allora io stesso a domandargli che cosa lo preoccupasse, poichè lo vedevo così insolitamente turbato; ed egli mi domandò se veramente la guerra era ormai dichiarata o se c'era ancora la speranza d'un accomodamento e d'una intesa tra le cancellerie di Effemeris e di Zarzuelopoli. E quand'ebbe saputo da me che gli ultimi comunicati parlavano chiaro e che già un primo corpo d'armata sarebbe partito nella notte per la frontiera occidentale, il povero vecchio asciugò una lacrima con la manica della giubba e mi raccontò che due suoi figliuoli facevano il loro servizio militare negli usseri del Dragone d'oro ed erano appunto di guarnigione in una delle città di confine che con maggiore probabilità sarebbero state teatro delle imminenti operazioni militari. «Ma non importa, aggiunse poi sorridendo. Noi tutti dobbiamo al nostro paese quello che abbiamo di più sacro. Io gli offro i miei due figliuoli, sebbene al mondo non abbia che loro. Se la Provvidenza vorrà conservarmeli, Iddio sarà benedetto. Se vorrà togliermeli, morirò anch'io, ma col conforto di sapere i miei due figliuoli morti da eroi per il loro paese e per il loro re». Queste parole un poco enfatiche erano dette con un tale accento di semplicità e di sincerità che io, tuttavia non facile alla commozione o per lo meno difficilmente pronto ad abbandonarmici non seppi rispondere al vecchio cameriere se non con una voce un po' tremante per dire tutte le sciocchezze che si dicono in queste occasioni avendo ancora l'aria di credere che cento grosse parole possano menomamente cambiare il più piccolo fatto. Dissi molte parole inutili e gli strinsi lungamente la mano. Ma la mia stretta di mano non fu inutile; fece almeno piacere a me e dandola provai una profonda ed improvvisa simpatia per quel vecchio domestico sbarbato e canuto che vedevo da anni, cosi indifferente, ogni sera, in quella stessa sala, e che ora sacrificava con tanta semplicità i suoi due figliuoli alla fortuna del suo paese mentre i miei compagni abituali di pranzo al Circolo non avevano saputo rinunziare, per sapere e osservare quello che accadeva, neppure alle prime piroette del meraviglioso mimo polacco ch'era la great attraction del corpo di ballo annamita. Sono uscito sùbito dopo pranzo per tornarmene a casa mia. Mi sembrava che in una sera siffatta non avrei avuto desiderio di veder gente, nè di parlare. Ma fuori l'aria era tiepida, quasi già calda, e la calma profonda della notte serena invitava alla marcia. Passai d'innanzi alla redazione d'un altro grande giornale che dalle sue finestre, con trasparenti luminosi, comunicava alla popolazione di Effemeris le ultime notizie della serata: l'ordine di mobilitazione era stato immediatamente trasmesso alle truppe di terra e di mare; il generale Paolo de Gonzales, capo dello Stato Maggiore, aveva preso il comando supremo delle truppe; reggimenti stavano per partire da ogni città per andarsi ad ammassare al confine occidentale. Una certa folla stazionava d'innanzi a quegli schermi luminosi, come d'innanzi al quadro bianco d'un cinematografo-réclame. Sentivo attorno a me qualche voce domandare: «E il Re? Del Re non si hanno notizie? Il Re non si muove?». E proprio in quel punto lo schema luminoso comunicò alla folla, da una delle finestre, che «le condizioni di salute di Sua Maestà il Re erano invariate». Ci fu un mormorio, un brontolio, manifestazione di poca entità, esuberanza di pochi individui isolati. Il popolo di Fantasia — lo conosco bene oramai — e specialmente quello di Effemeris, giocondissima capitate, non perde mai l'equilibrio della sua serena indifferenza, nè per esaltare nè per condannare. Gioie e sventure lo lasciano egualmente tranquillo. È da gran popolo, non scomporsi mai. E il popolo di Fantasia è un grande popolo: almeno lo dice la storia. Era veramente strano che a Sua Maestà non avessi pensato fino allora e che dopo l'annunzio della guerra dichiarata ci volessero quei commenti della folla per richiamarmelo in mente. Era certo che Sua Maestà non avrebbe potuto marciare al fuoco alla testa dei suoi eserciti. I più forti generali possono sdrucciolare su una buccia d'arancio, ed era precisamente, ammessa la metafora, quello ch'era capitato quindici giorni prima a Sua Maestà. La sua buccia d'arancio, provvida ed improvvida insieme, era stata la ripiegatura d'un tappeto mal tirato in cui giorni prima. Sua Maestà aveva malauguratamente inciampato andando a ruzzolare su lo scalino d'un caminetto ch'era lì presso e che gli aveva spezzato, come un biscottino, il femore sinistro. Già da quindici giorni almeno Sua Maestà era in letto e doveva rimanerci ancora almeno un mese, supino, con la gamba ingessata, distesa ed immobile, e con un diavolo per capello. Non che il Re dovesse essere desolato di non poter capitanare i suoi eserciti durante quella guerra in cui egli non aveva mai creduto: aveva un capo di Stato Maggiore eccellente, e lui invece, il giovane Re Rolando secondo, non ostante il bel nome eroico e cavalleresco, non aveva mai amato troppo i disagi della vita militare. La rivista passata col canocchiale alle più belle donnine del corpo di ballo lo aveva interessato sempre più di quella passata alle sue truppe, a cavallo, sotto un sole torrido d'agosto o di settembre, alla fine di tre settimane infernali di grandi manovre che aveva dovuto pur troppo conoscere quando, principe ereditario, comandava, per modo di dire, almeno nei bollettini militari e nelle cerimonie ufficiali, il corpo d'armata di Pulquerrima. Ma Rolando secondo era però coraggioso ed orgoglioso. Doveva seccargli di non poter essere alla testa delle sue truppe magari a costo di farsi ammazzare, e doveva turbarlo profondamente il pensiero che qualche giornale avesse potuto fare allusione alla comodità di certe coincidenze e al vantaggio, a prima vista misconosciuto, di non avere in casa propria i tappeti ben tirati e qualche facile possibilità d'inciampare. È vero che a questa possibile malignità dei giornali repubblicani, ch'erano poco letti ma appunto per questo motto numerosi, avrebbero fieramente risposto i giornali socialisti che nel regno di Fantasia, come in tutt'i regni di questo mondo, passato il periodo delle prime bizze infantili e messo il dente del giudizio, erano ministerialissimi e quanto, mai riguardosi per la monarchia e per le istituzioni. E infine Rolando secondo doveva anche provare un certo rimorso di non potere andare alla guerra poichè la guerra avveniva per causa sua, e di non potersi cavallerescamente battere con tutto il suo paese per ciò per cui tutt'il suo paese si batteva: voglio dire, una donna! Per una donna, precisamente. Diretto a casa avevo preso non so più come la via diametralmente opposta a quella di casa mia. Andavo, andavo diritto innanzi a me, per le grandi vie sonore e vuote dei nuovi quartieri che avevano fatto passare improvvisamente, in tre anni, l'avventurata capitale da un terribile rincaro delle pigioni a una non meno terribile crisi edilizia; andavo diritto, fumando, e, poichè non v'è antinomia tra il fumo del tabacco e quello del cervello, fumando pensavo e ricordavo fumando. E, tra tanti pensieri e tanti ricordi, un verso mi ronzava nel cervello e su le labbra, un verso italiano di Vincenzo Monti, il primo verso di Vincenzo Monti, se non per ordine cronologico o di merito, certo per ordine numerico nella traduzione dell'Iliade. Anche un lettore del tutto illetterato avrà potuto sospettare che il verso che mi accompagnava lungo la via come un ritornello era appunto:

Poichè abbiamo veduto la impossìbilità assoluta in cui si trova Sua Maestà di riparare l'ingiuria subita, bisogna evitare prima di tutto che lo spiacevole fatto possa ripetersi e allontanare inoltre da Sua Maestà la persona del suo offensore. Per raggiungere questo scopo una via ci deve essere. — Si tratta di trovarla, — spiegò il ministro delle Comunicazioni che fino allora non aveva aperto bocca. — Semplicemente! — annuì il dotto filologo — Pensiamo! Pensiamo! — opinarono contemporaneamente, con fiero cipiglio, i due ministri militari che, come si conviene in un paese libero alle più moderne riforme, erano la condanna vivente della superstizione delle competenze ed erano ambedue borghesi: ex-agente di cambio il ministro della Marina e ex-professore di filosofia nei licei regi il ministro della Guerra, entrato nella vita politica grazie ad una fervida propaganda antimilitarista che gli aveva fatto perdere il posto d'insegnante e guadagnare quello di ministro della Guerra. Poichè era evidente che se nell'esercito tutto era da riformare, il ministro meglio indicato per le riforme era l'apostolo antimilitarista che del militarismo aveva istruito minuziosamente il processo. Invitati a pensare dai loro due colleghi per cosi dire militari, i ministri si raccolsero in meditazione. E quando un ministro si mette a pensare e a meditare, non si sa mai quando lo scherzo potrà finire: lo sanno i deputati che proponendo al Governo un'utile riforma si senton rispondere che il ministro sta studiando su quella materia un disegno di legge. La cerimonia durava già da una diecina di minuti e già due ministri dei più attempati, esausti da quella levataccia cosi di buon'ora, cominciavano a russare, quando un gran colpo destò i dormienti e i cogitabondi. Era il presidente del Consiglio che con un gran colpo sul tavolino annunziava la nascita impreveduta ed improvvisa d'una grande idea. — Ho trovato! — gridò. Fu evidentemente una grande consolazione per tutti quelli altri poveri diavoli che si affaticavano a cercare, a costo d'una meningite per un eccessivo esercizio cerebrate cui non erano naturalmente abituati. L'opinione di tutti fu sintetizzata dal solito filologo con uno dei suoi soliti avverbii: — Fortunatamente! — Ho trovato! — ripetè il presidente del Consiglio che prima di persuadere gli altri provava il bisogno di persuadere addirittura sè stesso d'aver potuto trovare qualche cosa. E col gesto indicava il ministro degli Esteri, dignitoso e pettoruto, dalla bocca ermeticamente chiusa come se aprendola potessero scapparne fuori i segreti di tutte le cancellerie europee. Il ministro degli Esteri, atterrito all'idea che il presidente del Consiglio non avesse trovato di meglio che far risolvere il problema da lui, si grattò le onorate e brizzolate basette e il labbro glabro e con un fil di voce domandò: — Io? — Si, proprio lei. Il viso del povero ministro degli Esteri si disfece. Ma fortunatamente il presidente già spiegava: — Non è il duca don Alvaro di Frondosa ministro plenipotenziario a disposizione del Ministero? — Per l'appunto. — Ebbene, bisogna sùbito richiamarlo in servizio. Cosi tutto è accomodato. È semplicissimo. Mi sono spiegato? — Chiaramente. Era l'inevitabile filologo. Ma il ministro degli Esteri, che, rinsanguato, cominciava a riprendere i suoi colori, rispondeva: — Richiamarlo in servizio è presto detto. Ma comunicherò ai miei colleghi, poichè ho l'onore d'esser ministro degli Esteri da diversi anni, che egli fu messo a disposizione appunto sotto la mia amministrazione. Il duca di Frondosa sarebbe un diplomatico di primissimo ordine: gran nome, grande fortuna, riceve moltissimo, ha bellissimi cavalli, è elegantissimo, ha una bellissima signora.... e, per un diplomatico, le grazie della sua metà fanno valere il doppio il suo talento. Ma il duca di Frondosa è un uomo di carattere fermo e risoluto. È sembrato spesso impetuoso e impulsivo perchè era coerente. Ma loro tutti m'insegnano che in politica estera le due cose si confondono e che la coerenza di un diplomatico non e meno pericolosa della sua impulsività per il paese che egli rappresenta. — Perfettamente! — commentò il filologo che di avverbi ne consumava molti ma, per quanto filologo, ne aveva pochi, ed era perciò costretto a ricorrere sovente agli stessi, aggravando anche pia la monotonia delle sue interruzioni concise: — Già tre volte, lor signori lo sanno, — riprese il ministro degli Esteri, — già tre volte il duca di Frondosa ci mise in gravissimi imbarazzi, a Lisbona, a Pietroburgo, a Madrid. Anzi, l'ultima volta, la sua coerenza fu addirittura sul punto di far scoppiare la guerra; e fu proprio dopo questo gravissimo incidente che, per una prudenza elementare, decidemmo di rinunziare ai suoi servizi, di richiamarlo e di tenerlo, vita natural durante, indisponibilmente a disposizione del Ministero. Il presidente del Consiglio era uomo di poche parole, e, una volta che s'era deciso a una cosa, nulla più poteva rimuoverlo. Talchè alla bella orazione del suo collega degli Esteri egli rispose semplicemente: — Tutto ciò sta bene. Ma guardiamoci anche noi dai pericoli della coerenza. Sarebbe ingenuo, e però eminentemente antipolitico, non riparare a un danno certo per paura d'un danno ipotetico. Ora conviene richiamarlo in servizio e dargli un'ambasciata. Non c'è altra via per uscire da quest'impiccio. La volontà di Sua Maestà è esplicita su questo punto: per dire le cose col loro vero nome permettetemi di affermare che Sua Maestà non se lo vuole, insomnia, trovare più tra i piedi. Il ministro degli Esteri si strinse nelle spalle. Gli altri si strinsero attorno all'opinione del presidente del Consiglio; desiderosi oramai d'andare a far colazione e stanchi d'una discussione che li aveva letteralmente esauriti. — Dunque, — domandò il presidente, — si può sapere quale ambasciata è disponibile? — Non c'è che Zarzuelopoli. - Ahi, ahi! — esclamò don Pedro de Aldana grattandosi la fronte come già vi fossero insediati tutti i grattacapi futuri. — E se lo mandassimo invece a Londra? O a Vienna? O a Parigi? O a Pietroburgo? O a Washington? Riprese la parola il ministro degli Esteri. Per varie ragioni nessuno degli ambasciatori che occupavano quelle residenze poteva essere mosso. Uno era un antico ministro degli Esteri cui era stata promessa. Parigi a vita, un altro era graditissimo al sovrano della nazione presso la quale era accreditato, un terzo aveva sposato una signora imparentata a Corte nell'impero presso il quale rappresentava il regno di Fantasia, un quarto era coperto di debiti e solo l'immunità diplomatica poteva salvarlo da un fallimento sicuro. Non c'era dunque che Zarzuelopoli, dove il vecchio ambasciatore aveva chiesto il collocamento a riposo. A posti minori non c'era da pensare: il duca di Frondosa era ministro plenipotenziario di prima classe e li avrebbe certamente rifiutati. — Non c'è dunque che Zarzuelopoli: — Disogna pensarci su due volte, — ammonì il ministro degli Esteri. — Ci abbiamo pensato anche troppo. E poi non c'è da scegliere. Non c'è che Zarzuelopoli. Vada per Zarzuelopoli. Tutti i ministri, meno tre, quello degli Esteri e i sedicenti militari, fecero eco alle energiche parole del loro presidente. — Vada dunque per Zarzuelopoli! — Irrevocabilmente! — credette necessario di aggiungere il dotto filologo. Il povero ministro degli Esteri sudava freddo. L'ambasciata più delicata, più gelosa, più pericolosa toccava a quel rompicollo d'uomo di carattere ch'era il duca di Frondosa. Il povero ministro, già prevedeva le più spaventevoli complicazioni. Se quel diavolo di Frondosa ne faceva una delle sue! Anche i due ministri militari erano preoccupati e cogitabondi. Il diavolo era capace di metterci la coda e di mandare alla guerra sul serio, in redingote e cappello a staio, proprio l'agente di cambio che aveva paura anche dell'acqua dolce e il bollente antimilitarista che aveva una crisi di nervi solo a sentir sparare inaspettatamente una castagnola. Ma la volontà del presidente del Consiglio era dispotica. Aveva già preso un foglio da decreti e già l'aveva passato al ministro degli Esteri perchè vi scrivesse immediatamente, di suo stesso pugno, il decreto di nomina del duca di Frondosa, decreto che doveva essere immediatamente sottoposto all'augusta firma del Sovrano. Guardavo il povero vecchio ministro mentre scriveva. Le mani gli tremavano. Paventava per la sua cara patria le più terribili vicissitudini. E, consegnando il decreto a don Pedro de Aldana, raccomandò ancora con un fil di voce: — Onorevoli colleghi, pensateci - ancora una volta. Ma già don Pedro de Aldana s'era levato, aveva suonato un campanello e a un giovane ufficiale di servizio aveva chiesto di pregare Sua Maestà di volere onorare il Consiglio dei ministri della sua augusta e necessaria presenza. Poi si rivolse verso di me e mi diede congedo. — Ella può, marchese, abbandonare il suo posto. Sua Maestà il Re viene ad occuparlo. Il Re infatti entrava poco dopo, ristorato da alcune ore di sonno tranquillo, fresco, sorridente, allegro, indossando il più delizioso abito da mattina che mai sarto elegantissimo abbia cucito per un giovane re. Strinse la mano a don Pedro, sorrise e inchinò il capo a tutti gli altri, salutò me con un leggero cenno di mano e sedette su la poltrona Impero che io occupavo poco prima. Dalla comoda poltrona di marocchino rosso dove ero tranquillamente tornato, benevolo spettatore, dopo aver anch'io recitato la mia breve parte in commedia, vidi il mio regale amico trarre dalla tasca posteriore del suo pantalone il portasigarette dorato da cui prese una sottile sigaretta bionda che accese ad un fiammifero offertogli con sussiego dal presidente del Consiglio. Immediatamente, dopo aver scambiato poche parole indifferenti coi ministri su la bella giornata che si annunziava dal cielo limpidamente sereno, prese la penna e incominciò a firmare con la sua grossa scrittura diritta il pacco di decreti che don Pedro aveva rispettosamente posto d'innanzi a lui. Quando, dopo altri venti decreti, gli capitò davanti quello che riguardava don Alvaro e che il primo ministro aveva delicatamente insinuato tra gli altri, Sua Maestà lo scorse rapidamente e lo firmò sera muovere ciglio, con un'ombra appena di sorriso che poteva sfuggire agli altri ma che non sfuggiva a me. Il Re si levò sùbito dopo, mentre i ministri lo imitavano. M'ero levato anch'io e il caso m'aveva posto vicino al ministro della Guerra antimilitarista, che s'era avvicinato al presidente del Consiglio. — Io non mi sono opposto, — disse il ministro della Guerra — non mi sono opposto alla nomina di don Alvaro di Frondosa a Zarzuelopoli perchè conosco il vostro senno e sono sicuro che voi avrete già pensato a chiedere al Congresso i crediti per le nuove spese militari. Non si fa la guerra senza un esercito forte. Con mio rammarico perdetti la risposta del presidente del Consiglio poichè proprio in quel punto, mentre i ministri raccoglievano le loro carte e i loro cappelli a staio, Sua Maestà mi chiamava e mi manifestava con due parole succinte il suo compiacimento nel vedere che la difficile situazione era stata delicatamente spianata. — La soluzione, infatti, è un po' delicata, — risposi ricordando le parole del ministro degli Esteri. Sua Maestà, che è molto intelligente, capì tutto in un batter d'occhi. — Capisco. C'è il pericolo d'una nuova Iliade in pieno secolo ventesimo. Vuol dire che in tal caso lei ne detterà il poema. Il mio regale amico alludeva alle mie lontane velleità letterarie. — Non potrei tutt'al più che scrivere in prosa, Maestà, — risposi sorridendo con umiltà di prosatore. — Scusi, — rispose il re che è sempre pieno di spirito, — quel decreto è scritto in prosa ma, francamente, vale un poema.... Osservai in quel punto, volgendomi, che tutti i ministri s'erano radunati verso la finestra da dove potevano scorgere, esposti alla luce, la regale guancia e lo storico segno di cravache. Ma tutto era scoparso sotto un po' di cipria rosea, poichè, come c'insegna il Vangelo, torna alla cipria ciò che dalla cipria è venuto.

Dovrebbe sapere che noi abbiamo sempre resistito. Ed è per questo che le signore per bene non ci possono vedere. Noi costringiamo anche loro a farsi pregare, ed è una cosa di cui sono, poverine, assolutamente incapaci. Non c'era più che fare e, inchinatomi, m'allontanavo portandomi via il pendentif del principe; ed ero già sulla porta, quando Manon mi raggiunse, mi prose per mano e mi trattenne: — Ma se metto alla porta, — mi disse col suo incantevole sorriso, — se metto alla porta il latore della sconvenientissima ambasceria di Sua Altezza, prego il mio cortese amico, poichè tutti sanno che ambasciatore non porta pena, di rimanere. Ed è con voi che o sarò felicissima di bere in casa mia la tazza di tè che il principe m'aveva offerto a palazzo. Saprà cosi proprio da voi che io bevo quando ho sete e che a nessuno deve essere lecito insegnarmi come io debba o non debba bere. Non ho bisogno di suggeritore. Vado benissimo a memoria. Venne il tè e bevemmo. Fu un tè squisito, offerto senza cerimonie, veramente col cuore in mano, se posso esprimermi così. Quand'andai via, ringraziandola, confuso per la sua inattesa ospitalità, Manon Manette vide tra le mie mani il gioiello del principe ch'ella mi aveva sdegnosamente restituito. Con un incantevole sorriso la graziosa attrice mi disse: — Ed è dalle vostre mani, intendiamoci bene, solo dalle vostre mani che riprendo questo gioiello, considerandolo come un dono prezioso della vostra personale amicizia e come un attestato della vostra improvvisa riconoscenza. E, ripreso il pendentif, se lo riannodò attorno al collo con un terzo incantevole sorriso. Poi, ricordando il mio infelice discorso di poco prima: — Così Sua Altezza, — disse, — fra i tanti alfieri compiacenti e le tante facili pedine del suo giuoco di scacchi ha trovato finalmente anche una torre. Ed è finita come doveva finire... — Cioè?... — Con scacco al Re!

Agli oracoli ambigui che una volta profetizzavano il destino degli uomini noi abbiamo oggi sostituito il calcolo delle probabilità, la regola matematica delle martingale. E in questo giuoco leggero ci assistono con leggerezza gli Dei profani e mondani d'un tempo che e venuto a patti anche con la divinità. Mentre la tragedia antica aveva negli Dei gli invisibili architetti delle sue linee, la commedia moderna riconosce negli Dei garbati e bonari i più cordiali spettatori. Su la scena della Grecia antica solo gli Dei agivano e gli uomini, raccolti nell'anfiteatro della vita terrestre, subivano senza comprenderli i contraccolpi di quelle loro azioni misteriose. Su la scena d'un regno come quello della modernissima Fantasia solo gli uomini agiscono, e gli Dei, seduti nei fauteuils d'orchestre della vita di tutti i giorni, seguono senza indignarsene le accorte combinazioni di quelle loro azioni realistiche e precise. In fondo, spettatori senza cattiveria, gli Dei si divertono alle nostre commedie, e, quando queste più imprevedutamente si complicano, volentieri essi batterebbero le mani, se questo gesto plebeo da claqueurs potesse accordarsi con la necessaria dignità che non puo scompagnarsi mai da personaggi divini, anche se posti, almeno provvisoriamente, in disponibilità in seguito alla sfrenata concorrenza che gli Dei di tutti gli Olimpi terrestri hanno fatta agli Dei dell'Olimpo maggiore. Un poeta avendo avvertito un giorno gli uomini (Les Dieux s'en vont....) alcuni uomini credettero di doversi affrettare a prendere i loro posti. C'è oramai una tal ressa da per tutto e un tale culto universale delle incompetenze che un uomo il quale abbia bisogno di collocarsi pone ugualmente la sua candidatura così a un seggio mell'Olimpo come a un posto di portinaio. Ma gli Dei, che non avevano intenzione d'andarsene, ritornarono: il poeta aveva, nella fretta, scambiato per una partenza quella che non era altro che una passeggiata per isgranchire le gambe. Ritornarono. E poichè non trovarono più i loro posti, occupati oramai da uomini politici e da giornalisti in voga, da avvocati di grido e da tenori di cartello, da giuocolieri di circo equestre e da segretari delle Camere del Lavoro, gli Dei espulsi rimasero così, fuori organico, in soprannumero. Tra le piacevoli commedie alle quali, procul nègotiis divini, è stato loro da noi concesso d'assistere, nessuna dove avere divertito il loro spirito, indulgente e beffardo insieme, più di quella che sul palcoscenico del regno di Fantasia ebbe, quando sembrava esaurita, una di quelle riprese d'interesse, una di quelle complicazioni di situazione che sono il segreto dei commediografi veramente esperti nell'arte dei colpi di scena. La sera stessa del Consiglio di ministri antelucano due righe in testa alle «Informazioni» dei giornali di Effemeris annunziarono al popolo di Fantasia che Sua Eccellenza il duca don Alvaro di Frondosa, ministro plenipotenziario a disposizione, era stato nominato ministro plenipotenziario a Zarzuelopoli, e che dentro brevissimi giorni l'illustre diplomatico, accompagnato dalla duchessa, avrebbe raggiunto la sua nuova residenza. I più pacifici borghesi di Fantasia, perfino i membri più autorevoli delle leghe propagandiste per il raggiungimento e il mantenimento della pace universale, letta quella notizia, dormirono ugualmente quella notte i loro sonni tranquilli. Io solo ebbi, nella mia notte, qualche agitazione. Ma nel breve periodo della mia carriera m'ero sentito dire più volte che io avevo la sensibilità diplomatica: sensibilità specialissima che consiste nell'udire le parole che non si dicono e nell'avvertire i gesti che non si fanno. La sensibilità diplomatica è come un sismografo intuitivo, il quale registrerebbe una scossa di terremoto sei mesi prima del più leggero moto tellurico. Così quella notte io previdi — profetica anima mia! — quello che sei mesi dopo tutti dovevano proclamare assolutamente imprevedibile. Previdi, cioè, la guerra. La guerra solamente. Ci fu, come si vedrà, ben altro. Ma il mio sismografo, giunse fin lì, poichè v'è un imprevedibile e un imprevisto anche per i previdenti, e anche per i profeti il futuro ha le sue pagine chiuse. Di natura modesto e sempre pronto a riconoscere col mio anche il merito degli altri, devo convenire che non fui in realtà io solo a prevedere la guerra. Anche i ministri militari, e perfino il ministro degli Esteri, previdero che la politica estera di Fantasia era sul punto di guastarsi dal momento che il duca di Frondosa, uomo logico e uomo di carattere, ci metteva sventuratamente le mani. Con la sua logica e col suo carattere il duca di Frondosa si trovava a dover proprio dirigere i rapporti tra Fantasia e Silistria, rapporti che erano quanto mai illogici e senza carattere poichè a furia di averne troppi non ne avevano più nessuno. Non aveva, il duca, raggiunto da un mese la sua residenza e presentato al Sovrano di Silistria le sue credenziali che già il castello di carte dell'amicizia politica fra i due stati confinanti cominciava a traballare su le sue esili fondamenta. Sei mesi dopo il castello intero era a terra. Aveva creduto, il duca di Frondosa, che amicizia politica volesse e dovesse significare scambio reciproco di procedimenti amichevoli; aveva creduto che il riconoscimento del dovere e la rivendicazione del diritto non dovessero essere il primo tutto da una parte e la seconda tutta dall'altra; aveva creduto che non fosse quello di lasciarsi intimidire il miglior sistema per non essere intimiditi; aveva creduto; infine, che intendersi non dovesse significare la coniugazione del verbo pretendere da una parte sola della contesa frontiera; aveva creduto sopratutto che la sua missione fosse quella di fare ad ogni costo rispettare il suo paese e non quella di rispettare ad ogni prezzo il paese altrui: credeva, il duca di Frondosa, tutte queste sciocchezze e molte altre ancora. E poichè quando credeva a qualche cosa il duca aveva la perniciosa abitudine di crederci veramente, di passo in passo, di negoziato in negoziato, di nota in nota, si trovò un bel giorno d'innanzi alla nota da liquidare della più dispendiosa fra tutte le rotture: la rottura diplomatica. In tempi di questi più leggiadri non sempre la rottura diplomatica era sinonimo di dichiarazione di guerra. Ma erano quelli i tempi sanguinari e medioevali quando ancora il mite spirito degli uomini non aveva cristianamente parlato di pace universale, quando ancora la conferenza internazionale dell'Aja non era stata inventata per mettere ogni cinque minuti l'Aja nell'imbarazzo a dover scegliere tra la pace e la guerra. Ora i tempi sono mutati e lo spirito di contraddizione, il quale a il solo in cui tutti gli uomini si trovan d'accordo, non può che rendere inevitabile la guerra quando tutti proclamano desiderabile la pace. Come nel duello fra due gentiluomini pacifici i quattro secondi fanno sovente battere due primi i quali preferirebbero un processo verbale di reciproche scuse, così nella guerra due nazioni che non si vorrebbero torcere un capello hanno le nazioni amiche che le rappresentano per sospingerle per forza su quel campo di battaglia dove per amore non si sarebbero mai fatte vedere. Poichè è provato che quando gli amici intervengono per comporre un incidente questo incidente entra veramente in una fase d'estrema gravità, è ugualmente evidente che la guerra fra Fantasia e Silistria era decisa dal momento istesso in cui le Cancellerie amiche dell'una e dell'altra parte si mettevano in mezzo per far da pacieri. Ho già raccontato, al principio di queste memorie, la proclamazione della guerra di Fantasia e la partenza delle prime truppe mobilitate. Ho anche detto come Sua Maestà Rolando II non avesse nessuna parte attiva in questa prima fase della guerra, costretto a rimanersene disteso d'un tappeto mal cucito in cui il piede regale era andato malauguratamente ad inciampare. Ho già detto anche come il popolo di Fantasia si avviasse alla suprema prova della guerra con spensierata festevolezza. Ora riprendo il racconto, per chiuderlo, là dove l'avevo incominciato, da quel primo capitolo, cioè, in cui aleggia il ricordo offenbachiano della Belle Héléne e al quale faranno bene a ritornare le memorie labili in cui le parole di questi miei «documenti» non si fossero incise con indelebili segni. Una risata omerica senza una troppo facile all'Iliade — dovette accogliere, da parte degli Dei onnipresenti, l'incontro fra Sua Maestà e me all'indomani della proclamazione di guerra, quando il giovane Sovrano, disteso sopra un canapè, con una mano occupata a sfogliare un fascicolo della Vie Heureuse e con un dito dell'altra impiegato a scuoter la cenere della più sottile sigaretta russa, sorrise allegramente vedendomi entrare e mi disse con l'aria più serena di questo mondo : «Gliel'avevo detto io, d'Apre? Siamo alla guerra». Il ricordo omerico seguì quell'esclamazione. «E vede? Per una donna. Come nell'Iliade». Ed io, non per ironia ma per disdegno dell'alta cultura, aggiunsi con un mite sorriso: «E come nella Belle Hélène». Ma, il ricordo offenbachiano non parve irriverente a Sua Maestà pur se messo lì a due passi dal suo ricordo omerico. Parve, anzi, convenirgli più di questo. «Gia, esclamò infatti, anche meglio: come nella Belle Hélène». Non bisogna giudicare da questo Rolando II troppo severamente: non era irriverenza. Non bisogna neppure giudicarlo troppo ottimisticamente: non era ironia. Era una cosa molto più semplice: che egli aveva, cioè, una famigliarità molto più grande con le operate di Offenbach che non con i poemi d'Omero. L'ottimismo non è, come superficialmente si crede, la dottrina filosofica che insegna la bontà delle cose e degli uomini. L'ottimismo è la teoria filosofica la quale insegna che ogni medaglia ha due facce e che se da una la vita piange dall'altra la vita sorride. Ogni caso umano ha, per l'ottimista, due effetti: uno malefico ed uno benefico; e l'arte di saper vivere è tutta riposta nel segreto di dar la minima importanza al maleficio e la massima importanza al beneficio. Così la guerra scoppiata fra Fantasia e Silistria se minacciava di mille pericoli la sovranità di Rolando II, se metteva su le sue spalle abituate a pesi più leggeri il grave pondo d'una responsabilità di quelle in cui la caducità delle cose umane deve fare i conti con l'immortalità e l'incancellabilità della storia, aveva d'altra parte una conseguenza immediata che, nella sua letizia, aveva il potere di dissipare tutte le più gravi preoccupazioni del monarca come il sole ritornando nel chiaro mattino apre con mani d'oro tutte le nebbie d'un cielo antelucano: la guerra aveva infatti costretto immediatamente il duca e la duchessa di Frondosa a fare ritorno in patria e a rioccupare il loro palazzo nel più aristocratico quartiere di Effemeris; La soluzione di continuità che per sei mesi s'era prodotta eliminava la situazione imbarazzante di dover richiamare il duca e la duchessa a riprendere a Corte le loro funzioni di gentiluomo e di dama d'onore. Ma, se non era a Corte, Isabella era ad Effemeris, e le capitali più sono grandi più racchiudono la loro vita mondana in un raggio di poche centinaia metri. La guerra inoltre creava per Rolando II mille piccole occasione d'incontrare Isabella senza avere affatto l'aria di cercarla. Caritatevole e sensibile, persuasa anch'essa di essere involontariamente la causa della guerra, poichè una sua amabile condiscendenza avrebbe radicalmente mutato il corso della storia del regno di Fantasia, ella prodigava la sua attività negli ospedali, nei comitati, nelle organizzazioni in cui la pietà delle donne preparava conforti e ristori per gli uomini che si battevano alla frontiera. Non appena la sua frattura gli permise di far due passi senza essere grottesco, Rolando II cominciò a visitare anche lui ospedali, comitati e sotto-comitati. Aveva l'aria d'interessarsi di tutto: tornava due giorni di seguito a un ospedale per confortare un ferito guaribile in sette giorni senza riserva, mattina e sera correva ad un sotto-comitato per vedere un nuovo tipo di bottoni infrangibili per le ghette dei soldati. I giornali esaltavano con degne parole la patriottica pietà del Re. La folla, all'uscita dagli ospedali e dai comitati, lo applaudiva, quando, compiuto il suo dovere, incontrando la duchessa Isabella, risaliva nella sua limousine, in cui, seduto di fronte al suo aiutante di campo, io continuavo a compiere le mie funzioni d'aiutante di camera. Di tanta gloria regale io, imperturbabile, non sorridevo. M'interessavo invece al ferito guaribile in sette giorni e alla scatola di bottoni infrangibili con quella gravità e quella compunzione che fra noi dovevan servire a salvare apparentemente le apparenze. Il primo incontro fra la duchessa di Frondosa reduce da Zarzuelopoli e Rolando II reduce dalla sua frattura avvenne nella sala operatoria d'un ospedale, mentre un esercito di dottori informava Sua Maestà di tutt'i particolari d'una perfetta organizzazione sapientemente raggiunta. Un gruppo di dame era in un angolo della sala, ed io avevo già scoperto in quel gruppo il visino arguto della duchessa Isabella che da lontano, quietamente, mi sorrideva. Il Re ascoltava le spiegazioni dei medici come in quel periodo egli era solito ascoltare: con gli orecchi zelantemente offerti ai suoi interlocutori, ma con gli occhi altrove. Ricordo anzi che un insigne medico col quale Sua Maestà aveva lungamente conferito e che avvicinava Sua Maestà per la prima volta, ritenendo opportuno di comunicare a me le sue impression su l'incontro regale, esclamò: «Sua Maestà è molto affabile. Ma ha, se posso osare di segnalare questo piccolo difetto, ha il difetto di non guardarvi mai in faccia quando vi parla. Sembra che i suoi occhi vi sfuggano». Sfuggivano, sì. E cercavano. Cercavano e finalmente trovarono. Lo vidi diventar tutto rosso, poichè aveva ancora l'ingenuità giovanile di colorirsi il viso con le sue emozioni. Al primo momento ebbe una breve incertezza e si volse a me con lo sguardo come per domandarmi: «È lei?» Con un impercettibile moto del mio volto io risposi, dalla mia impassibilità: «Sì, Maestà, è proprio lei». Si vide allora Rolando II interrompere a metà il racconto d'una meravigliosa operazione, aprirsi la strada in quella muraglia di redingotes, di camici bianchi e d'uniformi e muovere verso il gruppo delle dame che sùbito s'apri a scoprire la duchessa di Frondosa come se tutte le altre diciannove dame sapessero che tra venti Sua Maestà non poteva desiderare d'avvicinarsi che a quella. Non appena fu giunto presso la duchessa e non appena le ebbe baciato la mano, con una rapida occhiata chiamò me in suo soccorso. Abituato a intendere i suoi desideri senza che questi avessero mai bisogno d'essere formulati, capii che Sua Maestà chiedeva a me di reggere e dirigere la conversazione: il che non era evidentemente protocollare, ma il protocollo non prevede il caso in cui un re debba trovarsi a riconversare per la prima volta con una dama dal cui marito egli abbia ricevuto un energico richiamo alla limitazione dei poteri regali. Le altre dame avevano intanto fatto circolo attorno a noi tre. Rolando II aveva, con un saluto collettivo, risposto all'ossequiosa riverenza delle altre signore. Ed ora, estatico, silenzioso, ascoltava me che parlavo e guardava Isabella che taceva. Era irrequieto su le gambe nervosamente tese e distese, come sempre gli accadeva di fare quando era molto contento. Ad un tratto lo vidi riaccendersi in volto, erigersi su le gambe tese ed immobili: segno evidente che la contentezza di Sua Maestà aveva avuto una brusca fermata. Seguii con lo sguardo e vidi, dalla porta ch'era dietro le spalle della duchessa di Frondosa e proprio di fronte al Re; apparire l'elegante e sorridente figura del duca don Alvaro. Era ormai troppo tardi per tornare indietro, e l'infallibile signorilità del gentiluomo sentì ch'era assolutamente il caso d'andare avanti, d'avvicinarsi alla duchessa, d'inchinarsi a Sua Maestà e di stringere rispettosamente la mano leggermente agitata che Sua Maestà, desolata di non poterne fare a meno, gli tendeva con regale urbanità. Ma per evitare di dar la mano due volte Sua Maestà volle che quel saluto fosse anche la fine della conversazione, di modo che una sola stretta di mano potesse servire così per l'incontro come per la separazione. Baciò la mano della duchessa, s'inchinò di nuovo alle altre dame e, tornato fra i medici, lasciò che il suo interlocutore, riprendesse il suo racconto senza neppur pensare, tanto era turbato, a chiedergli scusa d'averlo interrotto. Solo osservai che alla ripresa non prestava, il Re, solo l'attenzione degli orecchi ma anche quella degli occhi, poichè d'incontrare lo sguardo del duca di Frondosa non sentiva, povero re, niente affatto il bisogno. Aveva, però, il bisogno di sfogarsi e di manifestare il suo malumore. Difatti, non appena usciti dall'ospedale e non appena seduti nella limousine tra la folla che acclamava, Rolando II si volse a me di scatto ed esclamò: «II mio trisavolo avrebbe potuto far tagliare a quell'uomo la testa. Io devo invece stringergli la mano». Osservai che purtroppo i tempi erano mutati e che non sempre mutamento è sinonimo di miglioramento. E mentre, inchinando il capo a destra e a sinistra, rispondeva agli applausi del suo popolo, Sua Maestà sospirò con profonda nostalgia d'assolutismo: «La libertà dei popoli è la schiavitù dei re!» Ma anche la schiavitù dei re ha i suoi accomodamenti avec le Ciel. Così, a togliere Sua Maestà dall'anfibia situazione di dover ricercare gl'incontri con la moglie del duca e di dover evitare quelli con il marito della duchessa, pensò quella benedetta abitudine di don Alvaro d'essere e di voler essere uomo di carattere. Poichè i suoi quarantacinque anni erano sani e robusti quanto i venti anni di tutti i bravi ragazzi che andavano soldati alla frontiera, il duca don Alvaro non vide per quale ragione questi quarantacinque anni dovevano dispensarlo dal compiere un dovere per l'adempimento del quale gli avevano garbatamente lasciate fresche e vegete tutte le facoltà. Buon cavaliere, gli parve di poter benissimo seguire a cavallo, come soleva fare per le caccie alla volpe e i paper-hunt, anche le cariche d'un bello squadrone d'usseri di Fantasia. E poichè tra tante stravaganze il duca aveva anche quella di non lasciare tra il dire e il fare nessun mare di mezzo, in mese dopo la dichiarazione di guerra, nominato in virtù di leggi eccezionali luogotenente degli usseri, don Alvaro partiva per la frontiera, stretta l'elegante e ancor giovanile persona nella bella uniforme azzurra dalla triplice bottoniera d'argento e dagli alamari d'oro. Vidi allora svolgersi sotto i miei occhi, nel tranquillo andamento delle cose solite, tutt'un tenebroso dramma d'amore e di vendetta. Saputo che il duca di Frondosa aveva chiesto l'onore di servire nell'esercito di Fantasia, chiamato a palazzo il ministro della Guerra, Sua Maestà lo pregò di non ostacolare in alcun modo il desiderio nobilmente patriottico e veramente esemplare del duca, di dargli anti corso il più rapidamente possibile e magari anche, se fosse stato necessario, un corso forzoso, con la creazione impromptue di qualche disposizione o di qualche legge eccezionale atta a far sì che il duca potesse dare per l'amata patria il suo sangue come lo dànno gli eroi: senza badare ai pericoli. Poichè è oramai stabilito dal destino che, finchè vivrà Rolando II o colui che fu Rolando II e finchè io avrò l'onore d'essergli amico toccheranno a me tutte le situazioni difficili, fu anche questa volta affidato alla mia sapiente arte diplomatica l'arduo còmpito di preparare il delitto senza aver l'aria che nessuno volesse commetterlo. Avendo infatti il ministro della Guerra, dopo ricevuti gli ordini di Sua Maestà fatto sapere a Sua Maestà d'essere molto perplesso poichè quegli ordini avevano qualche penombra in cui era necessario portare un po' di luce, io fui mandato dal ministro per vedere di quali penombre potesse mai esser questione. Le perplessità del ministro furono con me, naturalmente, molto meno perplesse. Difatti, dopo un breve preambolo in cui la circonlocuzione fu ancora in onore, il ministro della Guerra mi si piantò davanti con l'imponenza d'un esercito intero e in termini espliciti domandò: «Deve insomma il duca di Frondosa morire come tutti noi soldati per la grandezza della Patria o deve solamente aver l'aria di voler morire?» Poichè mi vedevo d'innanzi, a parlare intrepidamente di morte, quell'omettino lindo e pinto nella più pacifica redingote io risposi di non saper che rispondere: non sapevo infatti di che morte il ministro della Guerra volesse parlare e non potevo quindi che riferire a Sua Maestà il dubbio espostomi così drammaticamente dal suo ministro. Riaccompagnandomi alla porta del suo gabinetto il ministro della Guerra approvò la mia proposta sospensiva. «Bisogna prima conoscere chiaramente attraverso gli ordini di Sua Maestà le intenzioni del duca di Frondosa, chè, mio caro Marchese, io ministro della Guerra vedo tutt'i giorni che altro è parlar di morte altro è morire». E lo vidi quel giorno anch'io, guardandolo. La perifrasi, la metafora, la circonlocuzione, tutte le forme rettoriche per cui l'arte di dire è quella di non dire, furono con infallibile istinto adoperate da Sua Maestà, quando, quella stessa sera, si trovò a dover rispondere al dubbio esposto per mio mezzo dal ministro della Guerra. Se è vero, come Machiavelli affermava, che la parola è data all'uomo per nascondere il pensiero, Sua Maestà doveva avere in fatto di parole un inestimabile patrimonio tanto alla fine del nostro lungo discorso il suo pensiero mi apparve meravigliosamente nascosto. Ma un confidente perfetto sa cercare e trovare sopratutto nei nascondigli. Si stabilisce così tra il confidente intelligente e colui che si confida con cautela una specie di giuoco che assai in onore tra le fanciulle borghesi nei lunghi pomeriggi di villeggiatura. Il confidente, che deve penetrare la segreta intenzione d'un lungo discorso che gli è stato confidato, comincia a esporre con garbo e con ordine tutte le più varie interpretazioni che al misterioso discorso si possono dare. Il sorriso di colui che s'è confidato avverte il confidente se si avvicinta al pensiero nascosto o se ne allontana. Il volto di colui che s'è confidato si oscura? Acqua, acqua, ci si allontana. Il volto di colui che s'è confidato s'illumina? Fuoco, fuoco, ci si avvicina. — Ho inteso benissimo, — dissi infatti, — le intenzioni di Vostra Maestà le quali evidentemente non sono che le intenzioni del duca di Frondosa, principale interessato nell'interessante problema che ci preoccupa. Evidentemente al desiderio di don Alvaro di Frondosa si può rispondere in tre modi: prendendolo alla lettera, avendo l'aria di prenderlo ma non prendendolo assolutamente alla lettera o, finalmente, non avendo l'aria di prenderlo e non prendendolo affatto alla lettera. Cominciamo da questa terza ipotesi. Sua Eccellenza il ministro mostra d'interessarsi alla domanda del duca e dopo avere lungamente studiato il problema ringrazia il duca della patriottica offerta e promette di tenerla presente alla prima occasione, a quella prima occasione che appunto perchè è la prima, timida com'è, non si presenta mai. (Volto nero di Sua Maestà: acqua acqua..) È evidente che questa ipotesi è immediatamente da scartarsi. Il duca di Frondosa non è uomo da offrire col desiderio segreto che l'offerta non venga accettata. La seconda ipotesi è più temperata: presuppone da parte del duca la sincerità dell'offerta e da parte del ministro l'intenzione di non accettarla o almeno di non accettarla così come il duca la presenta. In altri termini il ministro della Guerra potrebbe nominare il duca luogotenente degli usseri ma, senza esporlo a rischi maggiori di quelli di un'insolazione o un acquazzone, non mandarlo alla guerra ma tenerlo alla capitale o in un'altra qualsiasi città ad istruire coloro che alla guerra devono andare. (Su la faccia del re, buio profondo: acqua acqua, non ci siamo....) Anche questa seconda ipotesi è, senza dubbio, da scartare. Se sbaglio, Vostra Maestà voglia degnarsi di correggermi. (Il Re sorride. Ci avviciniamo). Rimane la terza ipotesi: voglio dire che il duca sia nominato luogotenente degli usseri e mandato a combattere dove e come combattono tutti gli altri luogotenenti degli usseri. (Il Re sorride ancora di più. Ci avviciniamo sempre più). È l'ipotesi più logica, la soluzione del problema più consigliabile. Non risponde alla dignità del duca prestarsi ad una specie di mascheratura militare, a un travestimento da eroe, ma da eroe di guarnigione. E c'è di più: la personalità eminente del duca farà del suo volontariato militare un esempio che sarà mònito, consiglio, stimolo per tanti altri. Ma quale stimolo, quale consiglio, quale mònito sarebbero nel fatto di vedere il duca di Frondosa, in virtù di eccezionali privilegi, aver la gloria senza il rischio, il premio senza la virtù, l'onore senza l'onere, in un tempo specialmente in cui ogni privilegio è soppresso ed in cui di fronte al pericolo della patria ogni cittadino è uguale? (Come, come sorride il Re! Fuoco, fuoco....) Ma c'è ancora di più. Non è il duca di Frondosa l'uomo che ha creduto necessario al decoro e all'avvenire del regno di Fantasia la guerra che oggi il regno di Fantasia così valorosamente combatte? Converrebbe, dopo tutto questo, converrebbe al duca di rimanere indietro e d'aver fatto la guerra con la carta quando gli altri la fanno, per lui, con le armi? Io non lo credo. (Il Re sorride). Credo che convenga al duca andare, come soldato, avanti.... Re sorride ancor più....) Molto avanti.... (Il Re è tutt'una festa di sorrisi). Anzi, quanto più avanti è possibile.... (II sorriso del Re è infinito. Fuoco, fuoco, fuoco.... Ci siamo!) Quindi, se Vostra Maestà non giudica errate le mie conclusioni, io riferirò queste conclusioni a Sua Eccellenza il ministro della Guerra il quale non attende che gli ordini di Vostra Maestà per operare immediatamente in conseguenza. Presi fiato, finalmente. Di fronte a me, fumando, Rolando II continuava a sorridere, a sorridere, a sorridere.... Sentii che m'adorava. — Mio caro d'Aprè, — disse finalmente, — io non avevo il coraggio di essere così inesorabilmente logico. Si espone risolutamente la vita collettiva d'un esercito quando ciò sia necessario, ma è duro al cuore esporre, deliberatamente, la vita d'un uomo, d'un singolo soldato. Lei ha avuto la forza di dire quello che io non osavo neppure pensare. Me ne rimetto alla sua saggezza. Faccia lei. E mi rimise così, tranquillamente, anche la responsabilità ed il rimorso. Mi parve in quel punto che, fra tutti i mestieri che l'amicizia di Rolando II mi aveva affidati, ci fosse da quel momento anche quello del sicario. Ma il mandatario che non vuol fallire il colpo non lascia all'arbitrio del sicario lo svolgimento dell'agguato. Ne intesse egli stesso la fila. Così Rolando II concluse: — Solo mi permetto di farle notare che non si può mandare il duca a comandare un plotone come un luogotenente di carriera. Occorre trovargli un posto adeguato ai suoi meriti e più rispondente all'autorità della sua persona. Il maresciallo Paolo de Gonzales è senza aiutante di campo. Il duca di Frondosa farebbe, io credo, al caso suo. Mi giudichino i contemporanei come più tardi mi giudicherà la storia. Levandomi su quel consiglio ch'era un ordine non battei ciglio, tanto il senso della criminalità era ottenebrato nel mio spirito dall'impersonalità curiosa dello spettatore. Sul momento agii. Non fu che dopo, uscendo nuovamente dal gabinetto del ministro della Guerra, che avvertii dentro di me un sordo logorìo di rimorso in minore, di rimorso sottovoce, il rimorso del complice. Poichè il maresciallo Paolo de Gonzales aveva il comando delle truppe più esposte alla furia delle armi asturiane e poichè già due suoi aiutanti di campo avevamo avuto morte gloriosa per portare sotto il fuoco delle mitragliatrici nemiche ordini agli estremi avamposti, era quasi matematicamente certo che il duca di Frondosa partiva per non ritornare. Nel ritrovar quella sera Rolando II tranquillamente sorridente, sentii sotto quella tranquillità e in quel sorriso la bieca crudeltà degli avi lontanissimi, autocrati e despoti, massacratori e avvelenatori. Sentivo che quel sorriso vendicava, sette od otto mesi dopo, l'offesa d'un colpo di cravache che sembrava dileguato sott'un po' di cipria rosea e che ora invece chiedeva, per essere cancellato, il rosso sangue della vita d'un uomo. Un ultimo senso di pietà parlò nell'anima del complice e dissi a Sua Maestà la mia angoscia: — Credo, Maestà, il duca di Frondosa troppo esposto. Il maresciallo Paolo de Gonzales è un rompicollo. Dov'è lui si muore. — Ma dove è lui si vince, — ribattè il Re, sorridendo. — Legga i «comunicati». E poichè mi vedeva silenzioso e mortificato si levò, sorrise, mi battè su la spalla: — Del resto il duca di Frondosa, — disse, — sarà veramente al suo posto. Nel coraggio il duca è uomo prudente e calcolatore. Accanto al maresciallo servirà da freno. Il suo calcolo limiterà l'impeto dell'altro. Vedrà. La presenza del duca di Frondosa avrà questo risultato: in quel settore si morrà molto meno e si vincerà ugualmente. E, per mettere definitivamente in regola con gli Dei spettatori la sua migliore coscienza, Rolando II concluse: — E val la pena, del resto, d'esporre una vita sola quando una sola può salvarne migliaia! Non seppi che cosa rispondere. Mi giudichi la Storia. Mentre aspettava di giudicarmi, la Storia intanto elaborava le preparazioni d'un capitolo su cui fra cinquant'anni, se ancora non si sarà compreso che l'autodidattisino è il solo modo per imparare qualche cosa e non si sarà ancora deciso d'adibire gli edificii scolastici a un più pratico uso, gli scolari dovranno passare lunghe ore di gravi meditazioni. Questo capitolo della storia universale avrà nome, allora, la rivoluzione antidinastica di Fantasia. Se ne cercheranno le origini, dagli Ippoliti Taine dell'epoca, nel regime, nello svolgersi della lotta di classe, negli eccessi del militarismo sopratutto. Io che la rivoluzione di Fantasia l'ho vista nascere, se oso esprimermi così, su le mie ginocchia, posso affermare invece che la rivoluzione di Fantasia non ebbe origine negli eccessi del militarismo ma sopratutto, al contrario, nel difetto delle istituzioni militari. Tra i notevoli difetti già rilevati in lui il duca don Alvaro di Frondosa aveva anche quello di credere ai discorsi che i ministri sogliono pronunziare nei Parlamenti: difetto tanto più deplorevole quando questa fiducia era accordata ai discorsi che i ministri della Guerra e della Marina, una volta all'anno, in occasione della discussione dei rispettivi bilanci al Congresso, pronunziavano per assicurare alla popolazione di Fantasia ch'essa poteva dormire pacificamente i suoi sonni tra due guanciali, uno del quali era il suo forte esercito e l'altro la sua invidiabile marina. In politica come in amore non si bada alle promesse: l'essenziale è di raggiungere lo scopo, lo scopo immediato, così nelle Camere dove le leggi si fanno come in quelle dove alle leggi si contravviene. La così detta politica degli armamenti è, per molti paesi, non quella di armarsi ma quella di farsi credere armati. Senonchè, quando la politica passa dalle parole alle azioni, l'essenziale non è più di farsi credere armati, ma bensì di essere armati veramente quanto meno gli altri se l'aspettano. Il duca di Frondosa, fidando nelle perentorie affermazioni dei ministri incompetenti per cui l'esercito di Fantasia, era meravigliosamente inquadrato, equipaggiato, preparato e ammaestrato, e per cui la marina del medesimo regno era in grado di sbarazzarsi in tre quarti d'ora — appena il tempo d'una passeggiatina in alto mare — di qualsiasi flotta avversaria, credette possibile levar la voce per la dignità del regno di Fantasia anche se levar la voce dovesse voler dire andare incontro alla guerra. Gli avvenimenti non tardarono a provare che la perfezione dell'esercito di Fantasia aveva molte lacune e che tre quarti d'ora l'alto mare erano per la flotta di Fantasia una prova assolutamente superiore alla forza dei suoi cannoni, che, abituati a sparare in bianco alle grandi manovre, perseveravano a non colpire il bersaglio come se continuassero a sparare in bianco, anche quando, venuta la guerra, si sparava non a polvere ma a palle. Così, dopo appena mezz'ora, la flotta di Fantasia dovette ritirarsi. E le sirene, che in piu miti tempi adescavano col loro canto i navigatori, ora inseguivano coi loro sibili, da tutte le navi avversarie, la bella flotta sventurata e incompresa che si ritirava come ci si avvia ad ogni ritirata: con la massima fretta. Nè più liete volsero, per terra, le sorti della guerra. Si stabilì tra l'esercito di Fantasia e quello di Silistria una specie di figura di quadriglia per cui ora andava avanti l'uno e ora andava avanti l'altro. Ma, a furia d'andare e venire, l'esercito di Silistria era sempre un po' più avanti e quello di Fantasia era sempre un po' indietro. Intanto, a mano a mano che le notizie della guerra giungevano, prima pessimiste, poi allarmanti, finalmente catastrofiche, il popolo di Fantasia cominciò a rivedere le volate liriche dei primi giorni. Per le nazioni lo stato d'animo lirico e come una scala molto ripida, salita troppo in fretta: ci si ferma a metà strada, per mancanza di fiato. Così il popolo di Fantasia, fermatosi sul pianerottolo del senso comune, cominciò a guardare se veramente la guerra era necessaria e se, essendovi la possibilità di evitarla, sovrano, governo e diplomazia non avevano l'obbligo di vedere il vero stato delle cose di fronte all'eventualità della guerra prima che l'eventualità della guerra sconvolgesse tutte le cose dello Stato. E, poichè la saggezza popolare e abituata a ricercare sempre dietro le idee fallite gli uomini in fallimento, responsabili dell'errore che trascinava il regno di Fantasia alla disfatta furono riconosciuti il governo, presieduto da don Pedro de Aldana, la cricca di Corte e la piccola banda di generali che faceva la pioggia e il bel tempo attorno al ministro della Guerra agente di cambio. Queste tre responsabilità assommavano, naturalmente, nella responsabilità di Rolando II, il quale cominciò a diventare rapidamente impopolare. Chè la popolarità, con la sua coda di stelle satelliti, non segue gli astri sconfitti che si spengono ma gli astri vittoriosi che si formano. Come il firmamento, l'opinione pubblica è in continua evoluzione: mondi antichi si spengono e mondi nuovi si formano nel mistero delle nebulose impenetrabili. E se l'astronomo non è mai sicuro di ritrovar stasera nel fuoco del suo telescopio il pulviscolo d'oro che vi lasciò ieri sera, l'uomo pubblico non è mai certo di ritrovar stamattina nell'anima della folla il posto che vi occupava ancora ieri mattina. Popolarità, il tuo nome è fragilità! Se gli astronomi della vita sociale fossero, come quelli della vita siderale, provveduti di telescopi a lunga portata, sarebbe stato possibile avvertire, nei contraccolpi che la guerra sfortunata aveva sul popolo di Fantasia, i primi rombi precorritori d'un nembo per la violenza del quale gli avvenimenti dovevano, in breve tempo, precipitare in tal modo che, prima che fosse riuscito a mandare il marito d'Isabella al fronte, Rolando II si doveva veder costretto a raggiunger lui la frontiera. È inutile che io ricordi il succedersi di questi avvenimenti i quali non sono ancora molto lontani, talchè posso affidarne la cronologica ricostruzione alla memoria dei lettori benigni che hanno seguito fin qui questa veridica storia. Non ebbe, la rivoluzione che doveva deporre Rolando II dal trono dei suoi avi, la grandiosità di linee di quella che dovette proclamare i Diritti dell'Uomo. Mancò intanto, ad essa, il patetico elemento della deposizione e dell'esecuzione di Maria Antonietta. Poichè Maria Antonietta, non avendo a lodarsi della condotta coniugale del regale consorte, aveva già da tempo ripreso la via della Corte paterna col pretesto d'una malattia nervosa che consigliava alla Regina di Fantasia un lungo periodo di assoluto riposo morale e materiale. Mancò anche ad essa la tragicità d'una fuga a Varennes o d'un internamento nella Torre del Tempio, poichè il popolo di Fantasia non ebbe per il Re violenze d'odii rancori e, purchè se ne andasse, lo lasciò libero d'andare come voleva e dove voleva. Mancò ad essa, finalmente, l'elemento suggestivo d'un fanciullo imprigionato e proclamato re nella prigione dai principi emigrati, e il romanzesco d'una morte controversa e d'una probabile sostituzione di persone, perchè Rolando II, così assiduamente occupato a inseguire l'inafferrabile felicità che la duchessa di Frondosa rappresentava per lui, aveva completamente trascurato la necessità di dare al suo regno un erede e alla sua rivoluzione un Delfino. Ho vissuto a fianco di Rolando II gli ultimi giorni del suo regno, quelli durante i quali ogni nuovo avvenimento non faceva che ripetere a Sua Maesta il saggio consiglio di cominciare a preparar le valigie. Confesso modestamente che quelle ore non ebbero nulla di singolarmente terribile, se non una terribile nevralgia dentaria che affliggeva Rolando II e che lo faceva soffrire assai più dell'idea di dover perdere il trono. Assolutamente refrattaria a resistere al più modesto segno di dolore fisico, Sua Maestà si trovò a ricevere la notizia che il Congresso aveva compiuto il colpo di Stato e proclamato la Repubblica, proprio nel momento in cui l'insigne odontoiatra, al quale erano affidati, con congruo stipendio annuo, i denti di Sua Maestà, s'nchinava al re che pallido e abbandonato su la poltrona lo guardava con la bocca ancora spalancata, e gli annunziava che la misura più urgente da premiere per ridare a Sua Maestà il benessere fisico era quella di strappare il dente malato. Fra l'insigne odontoiatra che rispettosamente chiedeva con un sorriso a Sua Maestà se era il caso d'armare i ferri del mestiere e di passare all'estirpazione del dente cariato, e don Pedro de Aldana il quale, con aria desolata, attendeva di sapere dal re deposto com'egli intendesse regolarsi di fronte al Presidente della Repubblica che le Camere avrebbero certamente eletto nella serata, Rolando II se ne rimaneva lì, su la poltrona, sempre a bocca aperta, con l'aria di chiedere un miracolo così alla scienza dell'insigne odontoiatra come alla politica del suo primo ministro: ed il miracolo non era quello di fargli, finchè s'era ancora in tempo, restituire il trono, ma quello di fargli passare il dolor di denti senza che dovesse subire il tremendo dolore dell'estirpazione proclamata imperiosamente necessaria. Compresi in quel momento che a Rolando II doleva solamente di aver dovuto perdere il regno senza avere avuto almeno il tempo di barattarlo. Chè se un suo illustre e remoto collega aveva offerto di barattarlo per un cavallo, egli l'avrebbe, senza pensarci un solo minuto, barattato volentieri col mezzo di farsi passare il mal di denti senza doversi lasciar strappare l'iniquo molare ch'era causa di tanto male. Senonchè l'dontoiatria e la filosofia della storia hanno la medesima inesorabilità e Rolando II dovette, nella stessa mezz'ora, lasciarsi strappare un dente di bocca e la corona dalla fronte. La coincidenza dei due dolori fu, del resto, probabilmente preparata con benignità verso Rolando II dai misteriosi dottori in fisio-psicologia che reggono e governano il nostro destino. Se, prima che il dente gli fosse strappato, Rolando II non si preoccupò che di questo dolore, dopo che il dente fu avulso dalla delicata gengiva regale la gioia del Sovrano fu tale che l'aiutò a considerare con occhio sorridente qualsiasi altra avversità. Tuttavia al pensiero di questa avversità Rolando II fu chiamato dal brusìo lontano, poi dal vocìo vicino d'una dimostrazione popolare la quale veniva sotto le finestre del palazzo reale a confermare a Sua Maestà ch'era veramente il caso di disporre che le valigie fossero preparate. Guardai dalla finestra la grande piazza esagonale su la quale aprivano le duecento finestre del palazzo reale: era gremita di popolo. Ma non era l'orda terribile e incendiaria dei Sanculotti. Era una Pacifica popolazione domenicale d'onesti borghesi e di padri di famiglia la quale non aveva l'aria di venire ad avvertire il Monarca che il popolo aveva deciso di cambiar di regime e che la Repubblica era stata proclamata, ma piuttosto quella di venire garbatamente ad augurare al re un ottimo viaggio verso la frontiera. Rolando II, intanto, mentre giù nella piazza la folla, tanto per aver l'aria di fare qualche cosa, cantava un inno rivoluzionario, guardava con occhi esterrefatti l'insigne dottore in odontoiatria che preparava i ferri per la terribile operazione. Ebbe appena, Rolando II, quando il canto giù n ella piazza si fece più alto, la curiosità di volgersi a me per domandarmi di che cosa si trattava. Informato sommariamente da me di quanto avveniva, sorrise amaramente come per dire: «Beata tutta questa gente che può pensare a far la rivoluzione! Se soffrisse coi denti come soffro io!...» E si volse di nuovo, con occhi sempre più esterrefatti, all'insigne dottore in odontoiatria il quale prese rispettosamente con due dita il re per il naso e per il mento e nella bocca violentemente spalancata introdusse il ferro liberatore. Con azione fulminea l'insigne dottore in odontoiatria afferrò il dente regale e lo strappò con un dolce moto della mano. Ma, dolce a vederlo, il moto non dovette essere dolce a sentire, poichè dalla gola del re partì un grido straziante che scompigliò il mio essere sin nelle viscere più profonde. Poi, dalla bocca regale, versandosi nel vaso di cristallo che l'insigne dottore in odontoiatria offriva a Sua Maestà, uscì un mezzo bicchiere di sangue: il solo sangue che resti per me legato al ricordo dell'esangue rivoluzione di Fantasia. Dolore e piacere, avvertiva Platone, sono cosi saldamente uniti che non si sa dove l'uno cominci e dove l'altro finisca. Questa mancanza d'una linea di demarcazione fra sofferenza e voluttà è fortunatamente solo filosofica e non ha niente a che vedere con la estirpazione d'un dente cariato. Se nell'astrazione del filosofo non si sa dove il piacere cominci e dove finisca il dolore, sotto le mani d'un insigne dottore in odontoiatria si sa benissimo che dopo cinque minuti di stupimento finisce il grande dolore d'avere un dente cariato e comincia il grande piacere di non averlo più. Così Rolando II, dopo che ebbe con un ultimo colluttorio calmante sedato anche l'ultimo nervo doloroso delle sue regali gengive, levandosi dalla poltrona ove aveva tanto sofferto, si volse a me con un sorriso beato. Ed era così lieto di non soffrire più, manifestava la sua gioia fisica in una tale esuberanza di gesti e di parole, che parve a me delittuoso troncare sul nascere quella gioia commovente ricordando a Sua Maestà che giù la rivoluzione aspettava che lui se ne andasse. Ma, poichè non tutti gli uomini hanno la stessa delicata sensibilità, don Pedro de Aldana ebbe il cuor ch'io non ebbi, e vibrò nell'estasi di Sua Maestà il colpo brutale d'un improvviso richiamo agli avvenimenti. Don Pedro mise rapidamente al corrente il Re di quanto avveniva: il colpo di Stato avvenuto al Congresso, la Repubblica proclamata, le Camere convocate per la sera per eleggere il primo magistrato della Repubblica, la sommossa popolare scatenata per le vie e le piazze di Effemeris, la guarnigione divisa, metà già passata armi e bagagli alla Rivoluzione; metà ancora fedele al Re per usargli la cortesia di presentargli un'ultima volta le armi al momento della sua partenza. Sopratutto di questa partenza don Pedro de Aldana si preoccupava. E la sua preoccupazione non era del tutto ingiustificata poichè se dalla piazza esagonale gremita di folla non saliva un solo grido ostile alla personalità di Rolando II, giungeva sonante nelle nostre stanze il grido di: «Morte a don Pedro! Don Pedro alla lanterna!» Formula fuori luogo, in verità, ma anche le rivoluzioni hanno il loro tradizionalismo, e nessun rivoluzionario saprebbe rinunziare al dovere di impiccare un aristocrate alla lanterna anche quando si tratti d'un ministro democratico e quando le lanterne della rivoluzione francese sono state sostituite da globi elettrici situati a tale altezza che a volervi impiccare qualcuno il rischio non sarebbe meno grave per l'impiccatore che per l'impiccato. Nelle ore delle grandi prove si misurano i grandi caratteri. Lo stoicismo che Rolando II rivelò in quell'occasione fu, o mi parve, veramente insuperabile. Poichè la gioia d'essersi liberato d'un dente cariato non saprebbe essere eterna, Rolando II degnò di occuparsi anche della Rivoluzione, e, saputo quanto avveniva, domandò se nessuna resistenza fosse possibile. Informato che pensar di resistere sarebbe stato semplicemente follia, si passò la mano su la fronte, vi raccolse un'idea, prendendo uno di quei fieri e teatrali atteggiamenti che la storia deve ricordare e che per la storia sono opportunamente preparati, guardò me, guardò don Pedro de Aldana impaziente di correre alla stazione, guardò l'insigne dottore in odontoiatria che puliva e riponeva i suoi piccoli strumenti, ed esclamò: — C'è, o signori, qualche cosa di più potente della Volontà del Sovrano: ed la sovrana volontà del popolo! Salendo a palazzo reale, don Pedro de Aldana doveva avere una sola preoccupazione: quella che al giovane re dovesse mai saltare in mente l'idea di ostinarsi a resistere e di volersi fare uccidere, assieme al suo Primo Ministro, sui gradini del trono. Così, quando nella storica frase di Rolando II trove tanta rassicurante remissività, don Pedro de Aldana trasse dal largo petto carico d'onori e d'oneri il respire d'un uomo che dopo aver veduto la morte sicura ritorna inopinatamente alla vita. Ma, poichè la felicità dell'attimo fuggente è pavida e teme sempre che l'attimo che fuggirà immediatamente dopo debba minacciarla, don Pedro tentò d'indurre Sua Maestà ad una partenza immediata, prima cioè che potesse venire a Sua Maestà l'idea di tornare su la sua prima, prudente e ragionevole deliberazione. Ma Rolando II che s'era intanto avvicinato alla finestra ed aveva veduto che la Rivoluzione non aveva un aspetto terribile — poichè in mezzo alla lavagna nera d'una densa folla pacifica un paio di compagnie della Guardia Reale disegnavano alcune mobili «esse» di corazze d'argento mentre nel silenzio d'una folla che aveva l'aria d'assistere ad uno spettacolo alcune dozzine di tenori volontari cantavano qualche canzone proibita che non faceva male a nessuno — Rolando II non vide la necessità d'una partenza precipitosa. Ma, don Pedro de Aldana ch'era prudente avendo opinato che le cose potevano guastarsi da un momento all'altro e che l'ombra della notte favorisce intemperanze delle folle rivoluzionarie, Sua Maestà mise il suo Primo Ministro in libertà e lo autorizzò a partire senza attendere che anche lui fosse pronto alla partenza. Così don Pedro e l'insigne dottore in odontoiatria si ritirarono simultaneamente e frettolosamente, dopo avere confermato a Sua Maestà, con telegrafiche parole, una devozione la quale non chiedeva che d'essere messa alla prova quando la prova non fosse per riuscire troppo pericolosa. Quando rimanemmo soli, Rolando II si mise a sedere e accese una sigaretta, con una certa sprezzante bravura e con l'aria d'un uomo che non ha nessuna ragione d'aver fretta a cambiare di residenza. Stimai quella tranquillità ammirevole ma eccessiva e non mi sottrassi al dovere di avvertirne Sua Maestà: — Vostra Maestà, — dissi, — ricorderà che il poeta di una commedia famosa, la quale fu la fanfara d'allarme di un'altra memorabile Rivoluzione, avvertiva che tout finit par des chansons. Nella Rivoluzione che sconvolge oggi l'ordine delle cose nel regno di Fantasia, invece che finire con le canzoni, con le canzoni si comincia. Ma non c'è da fidare eccessivamente nell'innocua temperanza di questi preludi musicali. Del resto, se vogliamo rimanere nella musica, anche nella sinfonia i tempi si seguono e non si rassomigliano; e se dopo l'«allegretto» viene l' «andante», dopo «l'andante» viene l'«appassionato». Però io consiglio rispettosamente a Vostra Maestà di scegliere per sè in questa musica, e finchè siamo in grado di farlo comodamente, il tempo più consigliabile in questo momento: intendo dire: la «fuga». Gli avvenimenti che ho raccontati fin qui hanno provato che il temperamento di Rolando II, pur senza giungere ad avere l'inclinazione precisamente contraria, non aveva certo l'inclinazione eroica. È quindi quasi superfluo all'economia del racconto avvertire che Sua Maestà accolse con docilità il mio consiglio, talchè non erano trascorsi venti minuti che egli aveva già mutata la sua uniforme militare col più leggiadro abito da viaggio che sia mai stato confezionato dai grandi sarti di Fantasia. Intanto il telefono aveva annunziato che una folla in atteggiamento minaccioso stazionava attorno alla stazione nella speranza di poter dare un rumoroso saluto agli alti papaveri della monarchia che si sarebbero certo affrettati a partire per l'esilio. Ma un gentiluomo di Corte sopraggiunto in quel mentre comunicò che infatti gli alti papaveri già partivano tutti ma che avevano tutti preferito di partire in automobile. E già a quell'ora le automobili in partenza s'inseguivano in lunga fila per le strade che conducevano alle porte della città. La modernità dei mezzi toglieva, mi parve, a questa fuga ogni carattere veramente drammatico, e gliene dava in ricambio uno ch'era piuttosto sportivo, poichè tutta quella fila di eleganti limousines, più che d'una tragica fuga negli orrori della rivoluzione, dava idea d'un placido ritorno da una giornata di corse in un pomeriggio di bel tempo. Rolando II non esitò a scegliere anche lui questo sistema di partenza, pur conciliandolo col proposito di prendere un treno alla prima stazione dopo la capitale. Intanto il più fidato cameriere di Sua Maestà preparava una valigia per le necessità immediate, mentre gli altri domestici riempivano, con uno zelo inconsueto, che rivelava l'ansia di mandarla via presto, i grossi bauli in cui Sua Maestà aveva dato ordine di chiudere il suo guardaroba, la sua biancheria; le sue carte politiche e il magazzino variopinto delle sue decorazioni. Bisogna non aver mai veduto partire un re per l'esilio per credere che l'addio di un Sovrano alla sua Corte abbia la medesima povertà di commozione dell'addio di un sottosegretario di Stato ai suoi uscieri all'indomani d'una crisi ministeriale. Sparsasi la notizia che Sua Maestà partiva, dame e gentiluomini, vecchi uomini politici fedeli al Sovrano, erano accorsi per inchinarsi l'ultima volta alla Maestà di Rolando II. Vidi così tra coloro che affollavano le sale per cui il Re, andandandosene, passava e distribuiva strette di mano copiose e sorrisi commoventi, anche il duca e la duchessa di Frondosa, vecchia nobilta monarchica, ligia al regime, e, non ostante tutte le cose profane che avevano potuto dividde momentaneamente i due coniugi da Sua Maestà, profondamente compresa di quarto di sacro era nell'ora storica in cui la Corte cedeva alla sopraffazione della piazza. Non c'era più sul volto del duca di Frondosa traccia alcuna degli antichi sentimenti. Al ricordo della corte che Rolando II aveva fatta a sua moglie, s'era adesso sostituito il pensiero della Corte da cui Rolando II esciva per sempre. Vidi il grande gentiluomo stringere devotamente la mano del re e baciarla con profonda commozione. E vidi la duchessa Isabella inchinarsi sin quasi a inginocchiarsi d'innanzi a Rolando II, il quale le si fermò davanti e le baciò la mano guardandola un momento negli occhi con suprema rassegnazione come a dire: «Mi è grato salire anche l'ultima stazione di questo calvario per amor tuo». Il momento fa, in verità, singolarmente patetico, e se Rolando II mormorò a fior di labbra: «Arrivederci!», a me parve che gli occhi della duchessa e del Re, lucidi di lacrime, si dicessero invece malinconicamente: «Addio!». Un poeta ha detto quale sia la suggestione d'un muro derrière lequel se passe quelque chose. Io conobbi quella notte la suggestione che esercita la porta di una cabina di sleeping-car nella quale sia chiuso un re che, deposto, parta involontariamente per l'esilio. Rolando II vi si era chiuso non appena fummo saliti nel direttissimo diretto al confine, il quale ci aveva raggiunti nella quieta stazione secondaria che cento chilometri appena separavano dalla capitale ma che secoli interi sembravano separare invece dalla Rivoluzione. Spettatore per lunghi anni dell'amabile commedia, io mi sentivo ora preso dal patetico afflato dell'improvvisa situazione tragica inseritasi nell'ultimo atto dell'azione che ho raccontata. Se l'insonnia di un re è legittima, in una notte come quella non apparirà meno legittima, io credo, l'insonnia d'un cortigiano che il re ha invitato ad accompagnarlo per l'ultima volta fin oltre la frontiera. Da una parte e dall'altra della porta della cabina regale le nostre due insonnie si cercavano senza avere tuttavia il coraggio d'aprir la porta e di trovarsi di fronte. Intuivo che l'orgogliosa spavalderia del re durante i preparativi della partenza doveva ora, nella solitudine, aver dato luogo alla tragica angoscia della tremenda catastrofe. Imaginavo Rolando II intento ad arrampicarsi, per risalirlo, su per l'albero genealogico della regale famiglia, con lo scopo di ritrovare attraverso i secoli e i costumi le glorie insigni della dinastia. Che tanto splendor di glorie dovesse spegnersi prematuramente con lui, era certo per Rolando pensiero intollerabile. Trascorsi la notte in queste mie inquietudini senza osare di portare sollievo e conforto alla inquietudine di Sua Maestà. Vedevo, intanto, dalle finestre del corridoio, le stazioni notturne ingombre di soldati, di feriti, di carri militari, di tutta la congestion ferroviaria d'un esercito in ritirata. Lo spettacolo della guerra perduta e della rivoluzione già scoppiata era squallido. Dal finestrino opposto Rolando II doveva vederlo come io lo vedevo, e quella contemplazione del sanguinoso epilogo in cui la sua corona cadeva spezzata non poteva non indurlo in desolate e disperate meditazioni. La mia ansia giunse anzi a tal segno che, spuntata in cielo l'alba, non seppi reggere più a lungo e aprii la porta della cabina regale. Se vi sono gradi di scetticismo che preparario ad affrontare impavidi ogni spettacolo vi sono però spettacoli che impavidamente superano, col loro impreveduto, qualsiasi grado di scetticismo. Tale fu quello che mi si offrì appena ebbi aperta la cabina regale e appena mi vidi davanti Rolando II stretto nella seta d'un pigiamino changeant, col volto fresco di chi ha riposato tranquillamente la notte intera e intento a radersi, con un rasoio di sicurezza d'innanzi a uno specchio a due luci aperto su un tavolinetto ch'era ai piedi della cuccetta ancora calda del quieto sonno regale. Se Rolando II lavorava così a non aver più peli su la faccia, non era ancora lecito a me di non avere con lui finalmente peli su la lingua. Ma confesso che ne ebbi, per la prima volta, violentemente la tentazione. Sui suoi confini nord-occidentali il regno di Fantasia è diviso dal limitrofo regno d'Asturia da un lungo tunnel sotto cui i direttissimi internazionali corrono per quaranta minuti senza prendere una boccata d'aria o un filo di luce. Passato il tunnel, il direttissimo si ferma, esausto, a fare un po' d'acqua prima di riprendere la sua corsa. A quella stazione Rolando II aveva deciso di scendere dal treno per prendere congedo da me, pernottarvi e riprendere in automobile l'indomani il suo viaggio verso Parigi. Era una stazioncina solitaria, e sorridente, tutta rosea e fiorita, a varii chilometri dal paesello inerpicato lassù su la montagna. Accanto alla stazioncina una piccola trattoria invitava i viaggiatori prendere qualche ristoro. E, poichè il mezzogiorno era ormai passato, vi entrammo anche noi per far colazione. Nelle commedie ben fatte, all'ultimo atto, quando tutto pare finito, entra un nuovo personaggio particolarmente adibito a riprendere l'interesse illanguidito che sta sul punto d'estinguersi. Questo nuovo personaggio, ch'era di sesso femminile e quanto mai grazioso, ce lo trovammo seduto a tavola, d'innanzi a noi, occupato a far colazione in compagnia d'un elegante adolescente che ostentava i modi estremamente disinvolti con cui gli efebi impegnati in una prima avventura cercano di nascondere agli esperti gli smarrimenti di un'inesperienza estremamente intimidita. Rolando II, che durante il viaggio non aveva degnato d'un solo sguardo lo spettacolo del suo regno insanguinato dalla disfatta e dalla sommossa, non ebbe occhi che per la giovane ed elegante viaggiatrice, la quale parlava francese e dalle parole che pronunziava ad alta voce dimostrava il desiderio di far sapere a noi ch'era di Parigi, ch'era chanteuse di caffè-concerto e che si chiamava Loulette Louly. Ma se Rolando non le levava gli occhi di dosso non bisogna ricercare in questo un altro segno della sua inguaribile vocazione per il commercio femminile, ma piuttosto un segno del suo non meno inguaribile e sventurato amore per la duchessa di Frondosa. Non appena c'eravamo seduti, Sua Maestà aveva infatti afferrato il mio braccio e, stritolandomelo quasi nel parossismo d'una improvvisa commozione, aveva esclamato: «Ma guardi, guardi.... Pare il ritratto, il ritratto parlante d'Isabella....» Ma se m'era facile convenire, nell'udirla rovesciare sul commensale adolescente un diluvio di parole, che Loulette Louly era anche troppo parlante, non potevo con eguale tranquillità di coscienza affermare ch'ella fosse veramente il ritratto della duchessa Isabella. Occorreva almeno stabilire se Sua Maestà intendeva parlare d'un ritratto eseguito da un fotografo o da un pittore, poichè è noto che i ritratti dei pittori sogliono essere discreti verso i moderni sino a non spingersi mai più oltre d'una somiglianza vagamente approssimativa. Ma gli innamorati hanno cosi vivo negli occhi l'oggetto amato che basta loro un qualsiasi pretesto appena tollerabile per trasportarlo sul volto di un'altra persona. È una disposizione che gl'innamorati hanno in comune, quando si tratti d'identificazione errata di persone, con gli uffici antropometrici della polizia. Ma non occorre che una somiglianza sia autentica perchè sia irresistibile: basta che sia semplicemente supposta. Così Rolando II guardò con tanta insistenza la giovane chanteuse che giovane efebo che l'accompagnava dimostrò a più riprese, con gesti di fastidio, di trovare assolutamente insopportabile l'insistenza contemplativa di quell'ignoto viaggiatore. Si dice che il destino degli uomini può essere legato ad un filo, ma in mancanza d'un filo esso può anche essere legato a un po' di cenere di sigaretta. Difatti, levatici per uscire, passando accanto alla giovane coppia che troppo occupata a discorrere non aveva ancora finito di far colazione, Sua Maestà lasciò cadere involontariamente la cenere della sua sigaretta, che, nell'estasi, s'era dimenticato di scuotere, su le spalle dell'elegante giovinetto. Il quale, irritato com'era, alle scuse di Sua Maestà si voltò irritatissimo, invitando il viaggiatore a badare meglio così alla sua sigaretta come ai fatti suoi. Nelle grandi catastrofi gli avvenimenti si succedono con rapidità fulminea. Così l'elegante giovinetto non aveva ancora terminato di rimproverare a Rolando II la sua sbadataggine che già la mano di Rolando II s'appoggiava su la guancia del giovinetto con assai minor leggerezza di quella con cui la cenere della sigaretta regale s'era appoggiata su la sua spalla. Ai grandi urti seguon, di solito, lunghi sbalordimenti. Così Rolando II ed io avemmo tutto il tempo d'uscire dalla piccola trattoria senza che alla via di fatto al singolare seguisse un pugilato al plurale. Quando fu fuori Sua Maestà mi fermò per un braccio e, col volto illuminato da un grande sorriso, mi disse: — Lo crederebbe? Sto meglio. Morivo di voglia anch'io di dare uno schiaffo a qualcuno. Poi si fermò a pensare e battendo le mani in segno di giubilo esclamò: — E questa volta, perdio, mi batto. Sono un borghese qualunque, finamente! Convenne trovare per questo borghese qualunque un nome, il che fu facile perchè, abituato a non far mai complimenti con me, decise sùbito, per l'occasione, di prendersi il mio. Convenne anche cercare un secondo padrino che avesse potuto assistere Sua Maestà nel duello inevitabile. Toccò naturalmente a me anche il còmpito di sbrogliare quest'ultima situazione difficile, tanto più difficile in quanto, a vista d'occhio, in un raggio di chilometri, non era possibile trovare altra forma umana che quella imberrettata del capostazione. Inoltre, a meno di farli battere con due coltelli da tavola, non era lecito pensare alla possibilità dello scontro in quel luogo. Ma conveniva essere comunque in due, pronti almeno a ricevere e ad accettare la sfida, per poi stabilire ad altra data e ad altro luogo la possibilità dello scontro. Ho avuto nella mia vita d'amico di Rolando II missioni difficili, ma nessuna mai che potesse essere paragonabile a quella di riuscire a decidere il piu pacifico dei capistazione del regno d'Asturia e d'ogni altro regno di questo mondo. Dio volle che riuscissi allo scopo; ma questa riuscita non fu possibile se non a patto di rivelare al capostazione la vera personalità di Rolando II, poichè la suggestione del diritto divino e tale che anche un re deposto induce in ogni umile mortale l'impressione che non sia assolutamente possibile disubbidirgli. Come tornai da Rolando II che passeggiava impaziente tra la stazione e la trattoria, la gioia del mio regale amico non conobbe più limiti. Poteva dunque battersi, poteva finalmente questa volta sbrigare una faccenda di questo genere come la sbrigano tutti gli uomini, e senza dovere una seconda volta rimetterci il trono, che del resto non aveva più. Le gioie che si fanno più lungamente aspettare sono quelle che meno hanno l'intenzione di venire. Così noi aspettammo per tre ore i padrini dell'elegante giovanetto. Cercato costui da ogni parte, non fu possibile ritrovarlo, e, solo al termine di lunghe peregrinazioni per le campagne circostanti, un piccolo telegrafista avvertì d'averlo veduto ripartire in uno dei treni che ogni mezz'ora eran venuti ad interrompere con la loro esposizione di facce ai finestrini la monotonia della lunghissima attesa. Mi fu facile ricostruire l'accaduto. Sebbene non ci fosse attorno, per così dire, anima viva e sebbene io avessi vivamente raccomandato al secondo testimonio la cautela del massimo segreto, il capostazione aveva dato alla notizia e alla vera personalità di Rolando II la massima diffusione compatibile con l'estremamente ridotta densità di popolazione in quelle amene contrade. Gli uomini che non hanno storia solo, si afferma, gli uomini felici. Ma questi uomini felici sono singolarmente più felici il giorno in cui possono raccontare di essere comunque partecipi d'un avvenimento che li dovrà far entrare, insalutati ospiti, nella storia. Le spiegazioni ulteriori le fornì, loquacemente, Loulette Louly sorpresa a sua volta dall'inopinata partenza che la lasciava sola in quel luogo perduto, e con su le spalle, per modo di dire, un'automobile noleggiata ad alto prezzo. E tra me e Loulette Louly fu facile ricostruire il dramma prospettatosi agli occhi d'un timido figlio di famiglia ch'era alla sua prima scappatella d'adolescente e che inopinatamente si trovava a doversi battere niente di meno che con un re. Di fronte alla certezza d'uno scandalo europeo il giovinetto aveva considerato opportuno conservare lo schiaffo, del resto augusto, di Rolando II, piuttosto che incorrere nella violenta sanzione dei piu sacrosanti scappellotti paterni. Se alla notizia che l'avversario era scomparso il capostazione riacquistò gli spiriti che gli s'erano ottenebrati nell'ansia delle misteriose responsabilità cui andava incontro, alla stessa notizia Rolando II perdette invece definitivamente i suoi. Gli vidi, con gli spiriti, cascare anche le braccia e col volto desolato d'un uomo che accetta, poichè non può più rifiutarvisi, un mostruoso destino, lo sentii dire: - Vede? Non c'è che fare. La mia cattiva stella vuole inesorabilmente così. Se prendo uno schiaffo, lo devo tenere, e ci perdo il trono. Se lo do io, se lo tengono gli altri, e ci perdo il treno. Partiva infatti in quel punto l'ultimo treno della sera che, attraverso il regno di Asturia, correva verso la Francia e Parigi. Rimaneva solo sul binario, in attesa di ripartire, l'ultimo treno della sera che, attraverso l'interminabile tunnel, riconduceva nel regno, pardon, nella repubblica di Fantasia. Disposi sùbito per la mia partenza. E, tornato indietro per salutare Rolando II, trovai che già Rolando II e Loulette Louly s'erano messi d'accordo per fare insieme il viaggio verso Parigi nell'automobile abbandonata, senza pagarla, dal'elegante giovinetto. Già sorrideva fra loro, nella sera che scendeva, nella notte che s'apriva, il primo quarto di luna di miele. Già Rolando II guardava estatico la sua compagna e più la guardava più diceva a me con gli occhi e coi sospiri: — È proprio lei, Isabella, proprio lei! La cocottina abbandonata e il re deposto filaron via così, verso Parigi, nella letizia degli incontri felici e predestinati. E, mentre Rolando II volava in quarta velocità verso il suo nuovo mestiere di roi en exil, io ripresi con filosofica malinconia il treno che doveva ricondurmi nell'amata patria, dove mi riattendeva lo spettacolo della disfatta e della sommossa, nate, come ho troppo lungamente raccontato, da un bacio di donna che senza aver fatto provvisoriamente felice un uomo aveva definitivamente perduto un re. FINE.

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