Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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La tecnica della pittura

254149
Previati, Gaetano 1 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Bocca
  • Torino
  • trattato di pittura
  • UNIFI
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—oppure, ciò che abbiamo visto condurrebbe allo stesso risultato, è possibile sottrar un corpo qualsiasi alla luce, al calorico, all’aria, alle influenze di affinità coi corpi circostanti nel mezzo stesso dello espandersi di tutte queste forze come è condizione consentanea all’uso delle sostanze coloranti e del dipinto?

Pagina 158

Racconti 3

662738
Capuana, Luigi 8 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
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Noi tutti gli abbiamo invidiato la sua ultima avventura. Parlandone, egli si trasformava, diventava poeta, tanto calore di affetto e tanto splendore di immagini gli sgorgavano dal cuore. Era orgoglioso di aver fatto una buon'azione, di aver salvato da morte e da qualcosa di peggio la bella, virtuosa e intelligente creatura da noi conosciuta nel suo studio e che vi diffondeva un sorriso di serenità e di dolcezza da imporre ammirazione e rispetto. Se in questo mondaccio le buone azioni fossero degnamente rimeritate, Eligio Norsi avrebbe dovuto avere sorte ben diversa! - Dopo brevissima pausa, Bertini riprese: - Io sono stato incaricato di radunare parecchi suoi amici nello studio dov'egli si è fracassato con un colpo di pistola il cervello, per comunicar loro la lettera da lui scrittami poche ore prima di attuare il triste proposito: ma non ho avuto coraggio di rivedere quel luogo dove noi abbiamo passato deliziosissime ore in lieti e nobili ragionamenti, mentr'egli continuava a dipingere pur prendendo parte alle vivaci discussioni, illuminandole con frasi brevi, dense di pensiero, anche quando sembravano una bravata da artista di buon umore. Ho pensato meglio di invitare in casa mia voi altri che siete stati tra i piú intimi e piú fidi. Giacché molti, in questi ultimi anni, aveano fatto come il pubblico; si erano allontanati da lui, forse anche perché le circostanze della vita sono grandi disgregatrici di cuori. Io eseguisco la sua ultima volontà parlandovi dell'episodio che conferma la mia opinione, cioè: che vi siano creature umane destinate unicamente a nuocere agli altri e a se stesse. So particolari da voi ignorati, sono stato testimone di scene che mi hanno attristato profondamente e che possono modificare il vostro giudizio, se per caso esso è risultato, in certe occasioni, poco benevolo per Efigio Norsi e per colei che ha voluto seguirlo, con una settimana di distanza, nella tomba, non ostante che egli le avesse «ordinato - sono sue parole - di vivere perché ella aveva davanti a sé il ridente avvenire che la giovinezza, la bellezza e l'intelligenza le avrebbero facilmente permesso di raggiungere». Per sua fortuna, Eligio Norsi ha avuto risparmiato il dolore di assistere a quest'altra rovina di cui è stato involontaria cagione. Io capitai nel suo studio il giorno dopo in cui egli vi aveva fatto trasportare la giovane balzata, in un momento di disperazione, dal parapetto del ponte Margherita, nei gorghi del Tevere. Nuotatore abilissimo, egli non aveva esitato un istante a buttarsi nell'acqua per salvare la sciagurata. La lotta con l'impeto della corrente era stata tremenda. «Per questo ella mi è parsa cosa mia! - egli mi disse - E non ho voluto mandarla all'ospedale». La bionda creatura era assopita sul divano, sotto una coperta di lana, pallida, coi capelli in disordine, ma con una dolcissima serenità nell'aspetto. «Non ha ancora vent'anni! È sola al mondo ... Mi ha rimproverato di averla salvata. Oh! Mi son fatto giurare che non ritenterà di ammazzarsi.» «Ebbene? - gli dissi. - Che ne farai?» «Quel che bastava per uno basterà per due! Se avessi una figlia? ... » Gli splendeva negli occhi un'intensa gioia. Sembrava improvvisamente ringiovanito al contatto di quella giovinezza che riprendeva a vivere là, sul divano, nel ristoro del placido sonno. «Guarda!» E mi mostrò una tela, dove egli aveva già fissato con larghe e magistrali pennellate la scena che avevo davanti. La giovine sembrava respirasse dolcemente nella tela come io la vedevo respirare sul divano. «Ne farai un bel quadro?» gli domandai. «No; lascerò l'abbozzo qual è, lo guasterei». Infatti, messo in ricca cornice, noi abbiamo potuto ammirarlo nel suo studio; e non vi parrà esagerazione se aggiungerò che esso è forse il capolavoro di Eligio Norsi. Un giorno che dissi questo anche a lui, egli mi rispose seriamente: «Il capolavoro, eccolo qua!» E mi mostrò un disegno, inespertamente tracciato, ma cosí rassomigliante - era il suo ritratto - e cosí pieno di vita, che io stentai a crederlo opera di persona che non aveva mai maneggiato un pezzo di fusain, né copiato un modello. «È un portento. Ne farò una gran pittrice!» Lo aveva disegnato lei, la sua Moseina, come scherzando soleva chiamarla, alludendo al nome di Mosè che significa: «Salvato dalle acque» Quel che poi accadde vi è noto. Egli l'amò come si ama talvolta nell'età in cui parrebbe che certe illusioni non dovessero piú prodursi: e fu riamato, né soltanto per gratitudine, ma per le buone qualità del suo cuore e del suo ingegno. Ella era di un'ammirabile saggezza precoce, capace di qualunque sacrificio; e non fu tanto la sua affettuosa compagna, quanto la sua consigliera, la sua severa ammonitrice, la sua ispiratrice anche. Erano bastati pochi mesi perché in lei si sviluppasse un finissimo senso di arte, un gusto delicato sotto le prime lezioni di disegno impartitele da lui. Egli n'era orgoglioso. «Non passerà molto, che dovrò io apprendere da essa». Gliel'abbiamo udito ripetere piú volte. E cosí trascorsero due anni, tra le prime avvisaglie di quella lotta economica ch'egli si sforzava di nasconderle, ma che la bella creatura indovinava, e che le velavano gli occhi con leggiera nebbia di rassegnata tristezza. Appunto in quel tempo parve che la forte fibra dell'artista desse visibili segni di stanchezza, dopo un lieto periodo di geniale produzione. Io credo che si trattasse di una di quelle mude in cui l'ingegno, come gli uccelli, butta via le vecchie penne e dà tempo di crescere alle nuove. In tale stato, anche gli uccelli sembrano malati, perdono la loro vivacità, non fanno piú udire un solo gorgheggio. L'ingegno si concentra, rimugina tacitamente nuovi ideali di arte che si maturano in un'inconsapevolezza strana, sotto forme diverse o di lassezza o di scoraggiamento o di smania che non sa ancora che cosa voglia e a che tenda. Ma ella non poteva indovinare se quella lassezza, se quello scoraggiamento nascondessero un prossimo risveglio; e sapendo per prova che la sua parola incitatrice esercitava grande efficacia su lui, lo assaliva con rimproveri nei quali le parole avevano una calcolata esagerazione che costava tanto al suo povero cuore. E appena le sembrava che esse avessero ottenuto un qualche effetto, gli buttava le braccia al collo, lo copriva di baci, di carezze e per poco non gli chiedeva perdono di essersi mostrata, pel bene di lui, quasi cattiva ed ingrata. Eligio Norsi, in quei momenti, si sentiva - ed era infatti - un fanciullo che promette di essere buono, ma che sa di non potere facilmente mantenere le promesse. Sopraggiunsero presto giorni tristissimi. Egli, per una specie di pudore, le aveva celato i gravi imbarazzi in cui si trovava per la sua quasi assoluta inettezza negli affari. Caduto in mano di rapacissimi strozzini, aveva perduto, per sodisfare gli impegni presi, il suo piccolo patrimonio, i frutti del suo lavoro, vivendo ogni giorno in continua lotta di espedienti, lusingandosi sempre di uscire con qualche colpo di fortuna, da quello stato di precarietà che lo esauriva per lo sforzo di nasconderlo non solamente a lei, ma ai suoi amici e agli invidiosi della sua fama di artista. E quando non fu piú possibile fingere con lei e si credette simile a un reo davanti al suo giudice e non osò piú di farle la proposta di darle il suo nome da lei tante volte ricusato perché non voleva essere sospettata di calcoli interessati sotto sembianze di gratitudine e di affetto, egli fu stupito di sentirsi dire le piú dolci, le piú carezzevoli parole che fossero mai uscite da labbro di donna; le parole piú confortevoli e piú incoraggianti; parole di dedizione completa, di sacrifizio assoluto, quasi la colpevole di quel disastro fosse stata lei. Eligio me lo raccontò, con le lagrime agli occhi, lo stesso giorno, pregandomi d'intervenire, di fare opera da amico, da fratello. «Ella vuole abbandonarmi, ella vuol morire, capisci? per lasciarmi libero, per non gravare su me, capisci?» E, cosí dicendo, si torceva dolorosamente le mani. Intervenni. Non ho mai udito in vita mia parole piú savie, piú ferme e piú affliggenti di quelle che mi rispose la bella e buona creatura che anch'io avevo appreso a chiamare Moseina. «Bisogna che io lo liberi - ella mi disse. - Egli ha messo in pericolo la sua vita per salvare la mia quando io non sapevo che cosa farne, perché non avevo piú nessuna ragione di vivere. So bene come mi giudicano parecchi dei dei suoi intimi amici, lei stesso, forse ... ». Protestai ed ero sincero. «Grazie - ella riprese. - Questo non toglie che per tanti altri amici o conoscenti io non abbia l'apparenza di essere stata la rovina di Eligio Norsi, rovina materiale e morale. È un dolore di cui non so consolarmi. Che posso fare? Avrebbe dovuto abbandonarmi alla mia sorte; la sua pietà, la sua bontà gli hanno impedito di agire cosí. Non è stato sincero con me, per eccesso di buon cuore. E quando penso che non ho saputo indovinare prima d'ora i sacrifici che gli sono costata, sento rimorso di questo male involontariamente cagionato piú che se lo avessi operato con malvagia intenzione. Come vuole che io non cerchi un rifugio nella morte? Quali speranze possono allettarmi? Se mi risolvessi ad uscire di qui, dovrei chiedere soltanto alla mia giovinezza mezzi di vivere che ora mi ripugnano piú che mai; non sono nata per questo. Appunto per tale repugnanza ho tentato di ammazzarmi a vent'anni. Mi ero lusingata di trovare una risorsa nella pittura per la quale mi riconosco anch'io qualche attitudine; ma occorre parecchio tempo prima che questo possa avvenire. Ogni giorno che passa, mi rivela piú chiaramente che terribile cosa è quest'arte. Quando ignoravo le difficoltà, ero tranquilla ... Ora, oh! ... Solo, egli può lottare e vincere. Io gli sono d'impaccio. Perché ritardare una soluzione inevitabile? Se egli mi avesse lasciato nella mia ignoranza ... Invece mi ha inoculato la smania dell'arte, mi ha fatto assaporare le sue lusinghe ... Credeva di farmi del bene, e si è ingannato. Mi sono ingannata anch'io, immaginandomi di potergli essere di aiuto e conforto ... Ecco perché voglio ... !» E non poté finire, interrotta da un grande scoppio di pianto. «L'ammiro - le dissi - ma non posso approvarla. Non bisogna mai disperare della vita!» «Belle parole!» esclamò tra i singhiozzi. «Se gli vuole veramente bene ... ». M'interruppe con un'occhiata che non dimenticherò mai e mi tese le mani in segno di ferma promessa. Ah, se fossi stato ricco! Cercai e trovai un generoso che prestò ad Eligio Norsi mille e cinquecento lire perché uscisse dai piú cocenti imbarazzi e avesse modo di lavorare con un po' di tranquillità. Bastarono appena per opporre un momentaneo argine alle necessità piú imperiose. Ella volle sacrificare gli orecchini, i braccialetti, gli anelli regalatile da lui nel primo anno della loro unione. Stremata fin di abiti, si rassegnò a vivere chiusa in casa per mesi e mesi, sottoponendo la sua giovinezza a una volontaria prigionia nelle stanze accanto allo studio o nello studio, quando non c'era nessun altro che lui intento a un frettoloso lavoro che doveva provvedere alle urgenze del domani. Il gran quadro ideato e disegnato rimaneva là con pochi imbratti di colore; ed ogni sua speranza di risorsa intanto era riposta in esso! Ora era Moseina che mi confidava i suoi terrori, le rare volte che avevo la forza di presentarmi nello studio di Eligio Norsi e nei brevi intervalli che mi avveniva di restar solo con lei. Cosí io ho assistito, impotente di apportarvi un riparo, alla straziante agonia di quei due poveri cuori, che pur recavano sul viso una maschera di sorridente rassegnazione per ingannarsi l'un l'altro, fingendo di credere a speranze di prossimi aiuti, a rivolgimenti improvvisi di buona fortuna ... finché lui che avrebbe dovuto essere il piú forte ... Bertini s'interruppe; la commozione gli aveva troncato la parola. Tutti eravamo rimasti silenziosi egualmente commossi, attendendo la lettura della lettera ch'egli aveva davanti sul tavolino. L'aperse senza dir altro e lesse con voce tremante: «Caro Bertini, Vorrei sparire senza che nessuno se n'accorgesse. Spero che Moseina , la mia buona e adorata Moseina , vorrà perdonarmi l'atto disperato che sto per compire e accogliere la mia estrema parola che le impone di vivere. Sappi, non sono un vigliacco; ci vuol coraggio a morire. Un solo pensiero mi addolora in quest'istante: che la mia buona e adorata Moseina sarà mal giudicata. Tu che sei stato messo a parte di tante confidenze, raduna nel mio studio i comuni amici e giustificala innanzi a loro, perché essi la giustifichino presso i maligni e gli ignari. Io non ho bisogno di esser scusato in faccia a nessuno; la mia coscienza è serena. La vita ha fatalità che nessuno può vincere! ... Addio!». - Povera Moseina ! - continuò Bertini - Che può importarle di essere giustificata? Pur troppo, la vita ha fatalità che nessuno può vincere! Povero Eligio Norsi, a cui l'arte non ha saputo all'ultimo dar tanto da sfamarlo ogni giorno! Con che ironico sorriso hai tu forse appreso nell'altro mondo che ieri uno dei quadri da te ceduto per cento lire, è stato comprato per ventimila da un tuo postumo ammiratore!

. - Lo abbiamo fatto; è stato inutile. I primi fenomeni, le prime manifestazioni piú evidenti sono avvenuti in campagna nella nostra villa di Foscolara ... Siamo scappati via. Ma la stessa sera dell'arrivo in città ... - È naturale. Che distrazione poteva darvi la vostra casa? Dovevate viaggiare, far vita d'albergo, un giorno qua, un giorno là; andare attorno l'intera giornata per chiese, monumenti, musei, teatri; tornare all'albergo a sera tardi, stanchi morti ... - Abbiamo fatto anche questo, ma ... - Voi due soli, m'immagino. Dovevate cercare la compagnia di qualche amico, di una comitiva ... - Lo abbiamo fatto; non è valso a niente. - Chi sa che comitiva! - Di gente allegra ... - Gente egoista vuol dire, e vi siete trovati isolatissimi in mezzo ad essa, capisco ... - Prendevamo anzi molta parte alla loro allegria, sinceramente, spensieratamente. Appena però ci trovavamo soli ... Non potevamo mica condurre la comitiva a dormire con noi ... - Ma dunque dormivate? Ora non capisco piú, se tu intendi parlare di allucinazioni o pure di sogni ... - E picchia con le allucinazioni, coi sogni! Eravamo svegli, con tanto di occhi spalancati, nelle piú limpide funzioni dei sensi e dello spirito, come in questo momento che vorrei ragionare con te e tu ti ostini a non volermi concedere ... - Tutto quel che vuoi. - Vorrei almeno esporti i fatti. - Li so, me li figuro; i libri di scienza ne sono pieni zeppi. Potranno esservi diversità insignificanti nei minuti particolari ... Non contano. L'essenziale natura del fenomeno non muta per ciò. - Non vuoi darmi neppure la soddisfazione ... ? - Cento, non una, giacché ti fa piacere. Tu sei di coloro che amano di grogiolarsi nei dolori, quasi vogliano centellinarseli ... È stupido, scusa! ... Ma se ti fa piacere ... - Francamente, mi sembra che tu abbia paura. - Paura di che? Sarebbe bella! ... - Paura di dover mutare opinione. Hai detto: «Io non credo agli spiriti». E se, dopo, fossi costretto a crederci? - Ebbene, sí; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo cosí noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l'intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l'intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti. - Oh!… esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. - Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero torto - anch'essi badavano, piú che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti piú da quell'anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato «caro poeta!». L'etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c'è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: e talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta. - Ecco come siete voialtri letterati! Cominciate sempre ab ovo ! - Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non avevo piú avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra ... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui ... dove mi attendeva il piú doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo piú di prima! ... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui ... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirgliela per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui. «Vengo a restituirle questa lettera - mi disse. - Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto cosí. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica». Era impallidito parlando e gli tremava la voce. «Chiedo perdono dell'imprudenza - risposi. - E per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi». Dovevo essere piú pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: «Sono vedova. T'amo sempre. E tu?» Suo marito era morto da due mesi. - Il mondo è cosí: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro. - È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non è sempre vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di «colui». Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggí dalle labbra. «Come sono felice - esclamò - che questo sia avvenuto soltanto ora!» Si udí un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno. - Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione. - Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla. - E cosí, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda. - Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. «Che cosa hai? Ti senti male?» le domandavo ansioso. «Ho paura ... Non hai udito?» «No». «Non odi? ... » insistette la sera appresso. «No». Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giú, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di piú. Levavo il capo, guardavo ... «Dev'essere entrato qualche topo in camera ... » «Ho paura! ... Ho paura!» Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile andare e venire, su e giú, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo. - E le fantasie riscaldate facevano il resto. - Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora ... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giú, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: «È lui! È lui!» - Scusa - lo interruppe Mongeri - non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sí. «È lui! È lui!» Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui , cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia. - Sia pure. Ma io - riprese Lelio Giorgi - come c'entro con la tua fisiologia? - Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo. - Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa? - L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi. - E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto? - Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch'esso. - Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: «È lui! È lui!» quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandomisi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: «Ha parlato!» «Che dice?» «Non ho sentito bene ... Odi? Ha detto: "Sei mia!"» E siccome anch'io la stringevo piú fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva. - Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza? - Va bene ... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei ... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta ... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente ... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lí a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio ... Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui . Non m'udiva piú, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti ... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. «Che colpa ho io, se tu sei morto? - Oh! no, no! ... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io? ... Per sbarazzarmi di te? ... È un'infamia! - E il bambino che colpa ha? - Soffri? Pregherò per te, farò dire delle messe ... - Non vuoi messe? ... Me, vuoi? ... Ma come mai? Sei Morto! ... » Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione ... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto. «Hai sentito? - mi diceva. - Mi accusa di averlo avvelenato. Tu non ci credi ... Tu non mi sospetterai capace ... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?» Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava ... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui . Come faremo? Come faremo? - Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi. - Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente piú solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene ... Ma nel mio caso e sotto l'influenza delle parole di mia moglie: «Farò dire delle messe» pensai naturalmente all'intervento di un prete. - L'hai fatta esorcizzare? - No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta ... anche per impressionare l'immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d'immaginazione esaltata, di nervi sconvolti ... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni. - E l'acqua benedetta? - Inefficace. Come se non fosse stata adoperata. - Non l'avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l'operazione, con tutto l'apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature ... e il malato guarí. - L'acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo ... Oh! ... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l'odio di colui era rivolto contro il bambino ... Come proteggerlo? ... Appena Luisa vedeva ... - O le sembrava di vedere ... - Vedeva, caro mio, vedeva ... Vedevo anche io ... quasi. Giacché mia moglie non poteva piú avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva ... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue ... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino ... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! Come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo. - Si tratta dunque? ... - Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po' sarcastico e un po' compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Giorgi parlava, si era spento tutt'a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l'amico che lo guardava con ansiosissima attesa, e ripeté: - Si tratta dunque? ... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere piú schietto di cosí. Ma posso darti un consiglio ... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me ... Fanne l'uso che e credi. - Lo eseguirò subito, oggi stesso. - Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel piú breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l'aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all'infuori di questo mondo materiale. Lo spirito ... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti.… Per la scienza c'è di reale soltanto l'organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l'individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi ... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, piú o meno lungamente dopo la morte ... Si comincia a sospettarlo ... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d'accordo con la credenza popolare ... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore ... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire ... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, piú probabilmente, di quell'istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L'uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie piú che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe; e l'uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l'istinto; nell'uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtú primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono piú tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell'ignoranza ... Perdonami questa lunga digressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l'atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell'esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità piú persistenti delle altre, casi rari, sí, ma possibili anche senza ammettere l'immortalità dell'anima, dello spirito ... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa ... È fatto, non insolito, intorno al quale la cosí detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d'accordo con la scienza ... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l'essenza vitale delle persone sane? ... L'affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano ... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa ... Tu dici che il tuo bambino ... - Vieni a vederlo; non si riconosce piú. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore ... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto ... Ma ... Invano mi ripeto: «Non è vero! Non può esser vero! ... » Invano ho tentato di confortarmi pensando: «E dato pure che fosse vero? ... È una gran prova d'amore. Si è fatta avvelenatrice per te! ... » Invano! Non so né posso piú difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui ! ... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta: «Avvelenarti? Io? ... Come puoi crederlo? ... » Oh! Non viviamo piú, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate ... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo ... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che cosí strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina. - Fate cremare il cadavere. È una prova che m'interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non piú vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all'empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente - soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante. - E il bambino intanto? - esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. - Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: «Va' via! Va' via, maledetto! ... » Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio ... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare ... - Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte ... - Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza ... - T'inganni. - Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva ad irritarlo di piú, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani ... - E il giorno dopo, egli tornò cosí spaventato, cosí disfatto che il Mongeri concepí qualche dubbio intorno all'integrità delle facoltà mentali del suo amico. - Egli sa! - balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. - Ah, che nottata d'inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo. - Tanto piú dobbiamo osare - rispose il Mongeri. - Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: «Sí, sarò tua, tutta tua! ... Ma risparmia quest'innocente ... » E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch'ella non fosse davvero piú mia, ma sua, di colui ! - Calmati! ... Vinceremo. Calmati! ... Voglio esser con voi questa notte -. Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: - Accade quasi sempre cosí. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre cosí. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare -. E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com'egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l'orecchio ... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l'agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto. Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio. Bel parlatore, senza nessun'affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare cosí l'attenzione di quei due, e intanto non perderli d'occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi; e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell'istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov'era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi. Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava. - Eccolo! - ella gridò. - Oh, Dio! Povero figliuolino! - Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov'era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla. - Non è niente! - disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa. La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito piú violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei. - Perché dici che voglio continuare a farti del male? ... Ho pregato per te! ... Ho fatto dir delle messe! ... - Ma non si può sciogliere! Tu sei morto ... - Non sei morto? ... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato? ... - D'accordo con lui? Oh! ... - Ti aveva promesso, sí; ed ha mantenuto ... Per finzione? C'intendevamo da lontano? Lui m'ha spedito il veleno? ... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità ... - Va bene. Non ti stimerò morto ... Non te lo ripeterò piú. - È in istato di trance spontanea! - disse Mongeri all'orecchio di Lelio. - Lasciami -. Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò - Signora! ... - Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri diè un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisonomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita. - Che cosa vuoi? Perché t'intrometti tu? - Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L'abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l'influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente: - Finiscila! Te l'ordino! - Aveva messo nell'espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all'esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel «te l'ordino», lo scosse, lo fece titubare un istante. - Finiscila! Te l'ordino! - replicò poi con maggior forza. - Ah! Ah! Vuoi essere il terzo ... che gode ... Avvelenerete anche lui? - Mentisci! Infamemente! - Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po' turbata, non ostante gli sforzi ch'egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentí battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare. - Vedi? Vedi? - gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce. Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance, quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s'interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l'oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare ... improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde piú altro. La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti al suo amico: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo». Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l'esperimento fino all'ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente), la sua reputazione di scienziato dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l'esperimento abbia confermato la credenza popolare, e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere, i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: «I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza; il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato». No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione, tanta suggestione, tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l'altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d'abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato. Il piú curioso è che non si è mostrato piú coerente come uomo. Egli che proclamava: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo» ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: - Ma come? ... Tu! ... - rispose: - A quest'ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni! - senza accorgersi che, parlando cosí, contraddiceva l'autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo , cioè, se stesso.

Abbiamo rotto il limite, l'armonia, e finiremo - vorrei essere cattivo profeta - con la distruzione della specie umana. - Eh! già! - protestarono parecchi. - Questa sera è di cattivo umore - gli disse la baronessa Lanari. - No, cara baronessa; io non sono mai di cattivo umore. Sarebbe una stupidaggine e un'imprudenza a ottant'anni. Non sono stato di cattivo umore, neppure nella giovinezza e nella virilità. Abbandonarsi al cattivo umore sarebbe una specie di suicidio all'età mia. Da lungo tempo, ho preso le mie precauzioni per evitare, a ogni costo, che s'impossessi di me. È quistione di igiene, fisica e spirituale. - Come? Un materialista suo pari? - esclamò il canonico Venini, che si compiaceva di punzecchiare il dottore, quasi per incitarlo. - Materialista e spiritualista, secondo le occasioni, per modo di dire. Queste due qualifiche si equivalgono ... Ma non mi faccia divagare. Dicevo dunque: divertiamoci pure coi nostri balocchi scientifici; non arriveremo mai a fare per l'umanità quel che la natura ha fatto per gli uccelli. - Anzi, anzi! - lo interruppe nuovamente l'avvocato Veraldi. - Ci ha dato l'intelligenza, l'ingegno per crearci da noi qualcosa di meglio delle ali. - I palloni dirigibili? Gli aeroplani? Balocchi! Balocchi! Nient'altro. Le ali non costano niente agli uccelli ... Io rimpiango i milioni - non faccio conti esagerati - che costano e costeranno gli aeroplani. Pochi, pochissimi, potranno darsi il gusto di «aeroplanarsi», direbbe lei, baronessa, che - ricorda? ... No, fui io che proposi «spallonarsi» invece del suo «scarrozzarsi in pallone». La paternità di queste due bruttissime parole è, pur troppo, mia ... Ah! C'è la guerra, l'offesa, la difesa ai confini! Benissimo; ammettiamolo pure; ci saranno però, se non ci sono già, cannoni che faranno fare dei capitomboli agli aeroplani con tutto il loro carico di bombe e di materie esplodenti ... Ma io non volevo discutere di questo, io volevo semplicemente raccontare ... - Ci siamo! - Ci siamo, signor canonico, perché non ci riuniamo qui per annoiarci con inutili ragionamenti che non caverebbero un ragno da un buco ... Le dirò soltanto: se fossi papa, invece di scomunicare certi poveri diavoli, autori di libri che nessuno leggerebbe se non fossero proibiti, sicuro, se fossi papa e avessi fede nell'efficacia del mio potere spirituale ... - Lasci stare il papa, dottore! - Non lo tocco; lo rispetto; è il piú elevato personaggio della terra ... Voglio dire che, se fossi papa, scomunicherei tutti gli inventori di ordigni di distruzione e coloro che se ne servono ... Disgraziatamente ... Ma permettetemi di raccontarvi la geniale trovata del marchese di Santa Pia che qualcuno di voi deve aver conosciuto o, per lo meno, sentito nominare. No? lo dimentico facilmente di esser troppo vecchio. Eppure questo ricordo mi richiama appena a trent'anni fa. Il marchese di Santa Pia passava per mezzo matto perché non faceva mai quel che fanno e possono fare tutti o quasi tutti. Bell'uomo, alto, robusto, con una salute di ferro, con molti quattrini che gli permettevano di cavarsi qualunque capriccio - e non ne abusava, bisogna aggiungerlo in sua lode - si era ultimamente dato a un allevamento strano. Diceva: «L'uomo ha già addomesticato il cavallo, il bue, il cane, il gatto; perché non dovrebbe tentar di addomesticare il re dei volatili, l'aquila?» - Era proprio matto quel suo marchese! Si vede! - Avvocato mio, passano per matti tutti coloro che tentano un'ardita invenzione a cui nessuno ha pensato prima di essi. - Tanto è vero che non è riuscito ... - È riuscito; se non che ... - Il diavolo ci ha messo la coda! ... - Non il diavolo, precisamente, a cui non poteva importare nulla del buon successo di quell'impresa. Egli ha ben altro da fare - è vero, signor Canonico? - per portarsi all'inferno tante belle signore ... - È riuscito? E non se n'è saputo nulla? - insisté l'avvocato Varaldi. - Si è saputo quel che si poteva sapere; la tragica morte del povero marchese, ma incompletamente. Santa Pia, l'antico dominio dei marchesi Contaris, non è neppure un villaggio ma un piccolo aggregato di case attorno al castello feudale in parte crollato. L'ultimo marchese ne aveva fatto restaurare un'ala e andava a passarvi parecchi mesi dell'anno accanito cacciatore solitario, tra le balze delle montagne che circondano il castello nascondendolo alla vista dei viaggiatori affacciati agli sportelli del treno nella lontana pianura, attratti dall'orrido del paesaggio. Io ero allora ospite del medico condotto di un paesetto vicino, mio antico compagno di università. Cosí mi accadde un giorno di incontrare il marchese di Santa Pia in completo arnese di cacciatore montanaro ... Eravamo armati di fucile anche noi, il mio collega ed io, cacciatori da ridere ... «Noi ci conosciamo soltanto di vista - egli disse al mio amico. - Le confesso che non mi dispiace. Coi medici, è meglio starne lontani. Brave persone! ... Mah! ... » Rideva cosí sinceramente, che le sue parole non offendevano. Lo incontrai altre due volte; e siccome ero solo, ebbi il piacere di essere invitato al castello. «Non invito pure il medico condotto, per una mia superstizione». Stavo per confessargli: sono medico anche io; ma la curiosità mi suggerí la ipocrita scusa che mi trovavo colà da villeggiante, da ospite, e non esercitavo. Se fossi stato sincero, probabilmente, non avrei visto né saputo niente della maraviglia che il marchese di Santa Pia voleva far conoscere soltanto ad opera compiuta. Tanto è vero che il valore morale di certe nostre azioni è molto relativo. «Lei ha una faccia che ispira fiducia, - mi disse. - Farà due cose: manterrà, finché occorra, il segreto; mi darà il suo schietto giudizio intorno al mio gran tentativo». Promisi; e fui introdotto nel - non so come chiamarlo ... Si dice: pollaio? Perché non si potrebbe dire: aquilaio? - nel vastissimo locale, specie di immensa gabbia, con da un lato finestre provviste di forti inferriate, e parecchi scompartimenti ridotti a nidi per l'allevamento delle aquile, dall'altro. Indicandomi la vecchia aquila, con a un piede la grossa catena fissata a un anello piantato nel suolo, mi disse: «È il mio trofeo di cacciatore. La colpii a un'ala sei anni addietro. Per farla vivere, dovei amputargliela. La curai, la guarii e - lo crederà? - mi ha dimostrato la sua gratitudine, addomesticandosi a poco a poco. Oggi posso accostarmele, accarezzarla; siamo buoni amici. Ma da principio ... Il mignolo di questa mano mi fu stroncato da essa con un colpo di becco, quando era ferita e non voleva esser fatta prigioniera. Stette due settimane senza prender cibo né acqua, terribilmente immobile, minacciosa, con atteggiamento proprio reale. Sembrava che volesse lasciarsi morire. Ora so che le aquile possono sopportare anche piú lunghe astinenze». Ho dimenticato di dire - soggiunse il dottore - che il luogo dove si trovava quell'aquila era uno stanzino che precedeva il vastissimo locale di cui ho parlato. Entrando colà, ebbi la straordinaria sorpresa di veder alzarsi a volo tre aquile che però non parevano spaventate dalla nostra presenza. Si libravano in alto, rasentando il soffitto, quasi senza battere le grandi ali aperte, e, di tratto in tratto, mandavano fuori un grido acuto, una specie di lamento che faceva strana impressione. A un fischio del marchese, si affrettarono ad accorrere e a posarsi ai suoi piedi, con le teste ritte e i fulvi occhi vivacissimi rivolti verso di lui, interroganti, pareva, e in attesa di ordini. «Sono state tolte dal nido - specie di grossolano corbello intessuto tra i rami di una quercia, in cima a quella montagna - e la indicò. - Erano implumi. Le ho imbeccate per parecchi mesi; non si saziavano mai. Appena mi vedevano entrare, tendevano il collo, col becco aperto; riconoscevano che ero - dirò cosí - il loro balio. Messe le penne, mi venivano dietro come tre cagnolini ... E sono cresciute domestiche. Ho fatto una prova. Ne condussi una all'aperto, libera ... Volò in alto, lontano; credei che non sarebbe tornata più ... E tornò subito, al richiamo del mio fischio. Ripetei la prova con le altre due ... Allora mi convinsi che la mia idea di render pratico l'allevamento delle aquile non era un'assurdità». «Che vuol farne?» domandai. «Voglio farne ... i nostri cavalli aerei, i nostri aeroplani viventi. Non sorrida, non spalanchi gli occhi cosí ... ! Tra le aquile, la specie detta reale è la piú forte. Credo che con l'esercizio si potrà rendere piú robusta ancora e piú svelta. Abbiamo fatto questo miracolo con la razza cavallina. Pare che tentino di farlo con gli struzzi, in Australia. Io sono a buon punto. Guardi». Staccò dal muro un arnese di cuoio, una specie di briglia, e l'adattò alla testa di una delle tre aquile, che pareva orgogliosa di esser preferita. Infatti aperse le ali, per dar comodo al marchese di cavalcarla, e prese il volo, lentamente da prima, andando su e giú pel vasto locale, obbediente alle redini, accelerando la corsa all'incitamento del fischio del cavaliere, abbassandosi e innalzandosi ... Io guardavo a bocca aperta, quasi non credendo ai miei occhi. «È maraviglioso!» esclamai. «Dovrebbe provare anche lei. Si faccia coraggio». «Sono sempre stato un meschino cavalcante ... Si figuri!» «Non le pare che il problema sia risoluto?» «Solamente ... » obbiettai. «Dica pure ... ». «Solamente non so fino a quanto si possa calcolare su l'obbedienza del re degli uccelli». «Si può calcolare assai meno su l'obbedienza degli ordigni di un dirigibile, di un aeroplano. L'aquila poi ha su di essi un gran pregio: non teme il vento piú impetuoso. Tra un anno mi propongo di fare esperimenti pubblici. Voglio essere assolutamente sicuro. E poi, non ci sarà mai una macchina che potrà sollevarsi cosí alto, fino a due mila metri. Non parlo della spesa. L'aquila non costa niente, appena il suo mantenimento. Le par poco? Tra cinquant'anni ... » Non potevo dire che il marchese di Santa Pia fosse un sognatore. La realtà che mi stava sotto gli occhi superava infatti le arditezze del sogno. Aveva inventato anche una specie di leggero sellino da fissarsi al petto dell'animale, all'attacco delle ali. Una solida tigna avrebbe mantenuto saldo il cavaliere sul sellino, per evitare che fosse preso dalla vertigine dell'altezza e dello spazio. Aveva pensato a tutto, fuorché alla orrenda possibilità ... - Il dottor Maggioli si fermò un istante, quasi volesse godersi l'ansiosa aspettazione suscitata negli ascoltatori. - Dopo un anno - riprese - di continuo allenamento - mi pare che si dica cosí - egli era sicuro del fatto suo. Esercitava le tre addomesticate all'aria aperta, tra le gole delle montagne che circondano il vecchio castello. I suoi contadini lo vedevano, con terrore, partire sul dorso di un'aquila, perdersi tra le nuvole, radere le aspre cime rocciose, scendere, risalire, e tornare dalla aerea passeggiata, col viso raggiante di sodisfazione; forse lo credevano un mago. E un giorno essi furono impotenti spettatori dell'incredibile combattimento, della spaventosa tragedia che avveniva nello spazio. Videro apparire due punti neri su l'azzurro limpidissimo, che rapidamente s'ingrandirono, accostandosi all'aquila cavalcata dal marchese, e cominciarono a rotearle attorno. Erano due aquile che agitavano le ampie ali minacciosamente. Il marchese dové capire il pericolo, e spinse la sua alla discesa. Allora quelle si decisero all'assalto, chi sa? forse con l'intenzione di liberare la compagna asservita, forse sospinte da aspro bisogno di preda. La lotta durò pochi momenti. Colpito alla testa dai furibondi rostri delle assalitrici, il marchese fu visto abbandonarsi sul dorso della sua aquila che tentava di resistere colpendo alla sua volta col becco, quantunque il suo collo fosse impacciato dalle redini strette dal pugno del suo cavaliere. Muti di orrore, i contadini videro che una delle due aquile, afferrate col rostro le redini, trascinava in alto, dietro a sé, quella che piú non opponeva resistenza, mentre l'altra con gli artigli sollevava il peso del corpo del marchese, agevolando il volo di tutte e tre verso la cima piú alta della montagna. Sparirono dentro un'insenatura della roccia ... E questa volta fu atteso invano il ritorno del marchese. Otto giorni dopo ne trovarono lo scheletro buttato via fuori dalla grotta dove le due aquile avevano il nido. La carcassa e gli arnesi della addomesticata, giacenti poco discosto dallo scheletro, fecero capire che anch'essa era stata uccisa e divorata. Nessuno, dopo la disgrazia del marchese, si ricordò delle tre aquile, di quella con un'ala, e delle altre due addomesticate. Un lontano parente del marchese, che ne raccolse l'eredità, arrivato al castello dopo un mese, le trovò morte di fame -. INDICE COSCIENZE I. PAROLA DI DONNA II. IN VINO VERITAS…? III. ELIGIO NORSI IV. MA, DUNQUE? V. L'ANELLO SMARRITO VI. ESITANZE VII. RETTIFICA VIII. IL PARANINFO IX. SFOGO X. L'ABATE «CASTAGNA» XI. RISPOSTA XII. UN CONSULTO LEGALE XIII. UN CRONISTA XIV. SORRISINO XV. LETTERA DI UNO SCETTICO XVI. UN SUICIDA XVII. IL BRACCACCIO XVIII. IL CASO DI EMILIO ROXA XIX. TORMENTATRICE UN VAMPIRO I. UN VAMPIRO II FATALE INFLUSSO LA VOLUTTÀ DI CREARE I. I MICROBI DEL SIGNOR SFERLAZZO II. UN GELOSO!!! III. L'INCREDIBILE ESPERIMENTO IV. LA REDENZIONE DEI CAPILAVORI V. LA SCIMMIA DEL PROFESSOR SCHITZ VI. IL BUSTO VII. LA CONQUISTA DELL'ARIA VIII. DUE SCOPERTE IX. L'INVISIBILE X. IL DOMATORE DI AQUILE 129

Tra pochi anni, tra pochi secoli ... tra qualche millennio, la donna e l'uomo non avranno rapporti tra loro molto diversi da quelli che noi ora abbiamo con le nostre mandrie, coi nostri armenti. La donna sarà la Magna Parens , la covatrice artificiale, e l'uomo ... Ma, forse, allora l'uomo attuale non esisterà piú, trasformato in essere assai piú spirituale e piú perfetto. - Ma, dottore! ... dottore! - Non parlo cosí io, per mio conto, cara baronessa, - rispose tranquillamente il dottor Maggioli. - Ho ripetuto le precise parole di Manlio Brozzi, d'un mirabile scienziato che, nel momento in cui mi diceva ciò, era, probabilmente, anche «la Scienza»! -

Ma noi miserabili della peggiore specie, perché dobbiamo nascondere il nostro stato per non capitar peggio, noi abbiamo la disgrazia di avere i nervi scoperti, impressionabilissimi, il cuore pronto a commoversi per un nonnulla, e una ragione che non ragiona, non calcola ... Sissignore! È un'infamia, ma è cosí! Ed ecco in che modo oggi mi trovo babbo di un figlio che non è mio e non so di chi sia! Mi ha portato fortuna? Perché ho già ottenuto quest'impieguccio che mi frutta sessanta lire al mese? ... Fosse almeno campata lei! ... Il veleno no, la polmonite, sí; in quattro giorni! Mi pare un orribile sogno! ... Era una sorella per me! ... Potevo avere il coraggio di farmene un'amante? Potevo consigliarle: - Trovatelo! - dopo quel che le era accaduto? ... Voi gliel'avreste detto? ... Ma sí, vi credo! Le cose parlano! ... I fatti parlano! Quando uno è nato col destino di essere disgraziato per tutta la vita! ... Sono superstizioso, è vero? Vi faccio ridere? Peggio per voi! ... Datemi un sigaro! ... No, una sigaretta; non ne fumo da mesi ... Grazie! ... Intanto mi sono sfogato! ... È qualche cosa! ...

Le novelle, i romanzi, che ci rappresentano fatti di ogni giorno, che ci ricantano le solite storie, alle quali spesse volte abbiamo assistito da testimoni e un po' forse da interessati; che, per lo meno, somigliano tanto a queste, da darci l'illusione che il merito del novelliere e del romanziere consista unicamente nella bella maniera con cui ha saputo raccontarceli; le solite novelle, i soliti romanzi mi fanno l'effetto di un pettegolezzo trasportato dai salotti nelle pagine di un libro. Invece, le storie maravigliose che hanno la potenza di farci penetrare lentamente, inavvertitamente, nelle regioni dell'impossibile, dell'assurdo, e farci sognare a occhi aperti e darci l'illusione che l'impossibile, l'assurdo siano, o siano stati, per eccezione, per misteriose circostanze, una realtà, non mi deliziano soltanto perché mi trascinano con dolce violenza in un mondo diverso dal nostro, ma anche perché m'ispirano una grande ammirazione per l'ingegno dell'autore. Dopo, appena la sorpresa è passata, io rifletto che le cose lette sono una ... una ... - Una sciocchezza, una stupidaggine - l'aiutò a dire il dottor Maggioli. - No, una mistificazione - riprese la baronessa - un capriccio di fantasia artistica (quel che mi sembra sciocco o stupido non riesco a leggerlo); che importa, però? Per una o due ore, per mezza giornata, io ho avuto il beneficio di dimenticare le noie, le miserie, le brutture che mi circondano e mi irritano e mi affliggono, e sono gratissima all'autore da cui è stato prodotto quel miracolo. Mesi fa, ho letto un romanzo inglese dove si narra la storia di un uomo riuscito a rendersi invisibile ... - The Invisible Man - la interruppe il dottore. - L'ho letto anch'io che non soglio leggere romanzi, ed è stata una gran delusione. Mi aspettavo di trovarvi ben altro. L'uomo invisibile non è un'assurdità, è una realtà, ed io credevo che quell'autore avesse voluto raccontarci la storia vera ... - Ecco, ora vuol mistificarci lei! - esclamò l'avvocato Veraldi. - Scommetto che ha già pronta qualcuna delle sue storielle ... - Dica pure storielle, non me ne offendo - rispose il dottor Maggioli. - Convengo che possano sembrare tali perché non sono ordinarie. Ma sappia che ogni volta che io racconto in questo salotto qualcuna di quelle che lei chiama storielle, io racconto fatti da me veduti, dei quali posso affermare, fin con giuramento, la veridicità. Mai, come nel caso dell'Invisible Man, è apparso evidente che la fantasia piú sbrigliata sia incapace di raggiungere la prodigiosa potenza della natura. Vi sono attorno a noi, dentro di noi tali forze di cui pochi sospettano l'esistenza, e che si lasciano indietro, a grandissima distanza, tutto quel che possono inventare di piú strano, di piú incredibile un novelliere, un romanziere, un poeta in vena di scapricciarsi con le finzioni piú pazze. Chi sa che cosa s'immaginava di aver prodotto lo scrittore dell' Uomo invisibile ! Una cosa sbalorditoia, originalissima ... Ebbene, io posso assicurarvi, baronessa, ch'egli è rimasto assai assai al disotto della realtà. L'uomo invisibile io ... come dire? ... l'ho visto. Sembra una contraddizione, e non è. - Infatti, giacché era invisibile ... - disse la baronessa. - Ma dunque? - Giudichi lei se ho ragione di parlare cosí. E perché questi signori capiscano di che cosa si tratta, accennerò che il romanziere inglese ha inventato le avventure di un giovane scienziato il quale, per mezzo di reagenti chimici, è riuscito a rendere invisibile il suo corpo, e a dare il pauroso spettacolo di un cappello, di una giacchetta, d'un paio di pantaloni, di un paio di scarpe che camminino da sé, come cosa viva, senza che si scorga il corpo umano da cui sono portati. L'uomo invisibile del quale voglio parlarvi era diverso, meno incoerente senza dubbio dell'eroe del romanziere inglese. Poteva rendersi invisibile quando gli faceva comodo, e interamente, corpo e vestiti. Poteva ... - Non ci metta paura facendoci credere che ciò sia possibile! - esclamò la signorina Bonucci. - Mi vengono i brividi soltanto a pensare che un uomo sia in caso di introdursi non visto in camera mia quando io piú credo di essere sola ... - Si rassicuri - continuò il dottor Maggioli, sorridendo. - Non è facile arrivare al punto di produrre in sé questo prodigio. Occorre un organismo speciale e tale persistenza nello sforzo per raggiungere lo scopo, da scoraggiare i piú risoluti. E poi - sarebbe lungo spiegarlo - certi singolari stati fisici, come questo di cui parliamo, richiedono, a quel che pare, singolari e corrispondenti condizioni morali da impedire che se ne abusi, servendosene per soddisfare volgari e delittuosi capricci. - Ah! Se fosse vero - lo interruppe l'avvocato - io vorrei almeno divertirmi! - Zitto! - disse la baronessa. - Sarebbe un po' difficile che lei, con tutto quell'adipe, divenga invisibile! - Non era magro - riprese il dottor Maggioli, ridendo anche lui - l'uomo che una mattina venne da me per consultarmi. Si lagnava di un male strano: aveva la sensazione di essere cosí leggero, che camminando gli sembrava di venir trasportato via dal movimento dell'aria piú che dai piedi, quantunque il corpo obbedisse alla sua volontà. «Sono un po' estenuato» disse, esitando. Lo invitai a spiegarmi quali potevano essere state le cagioni del male. «So - rispose - che lei è una persona spregiudicata, e perciò ho preferito di consultarla invece del mio medico ordinario. Ho voluto fare un esperimento, sono riuscito, ma ne risento le cattive conseguenze. Non ritenterò piú; intanto cerco di riparare i danni prodotti nel mio organismo dall'imprudenza commessa». Per quanto io fossi già ridotto a non maravigliarmi di niente, mentre egli mi esponeva il suo caso, stavo incerto se avessi da fare in quel momento con un individuo malato di corpo o di spirito. L'uomo piú spregiudicato del mondo non può udire senza incredulità la recisa affermazione di un fatto che contraddice a tutte le leggi della natura da noi credute inviolabili. E colui mi rivelava tranquillamente di essere arrivato a rendere invisibile il suo corpo e i suoi vestiti, e di essersi potuto spingere, cosí, a grandi distanze dal luogo in cui si trovava. Egli attribuiva a queste esperienze l'estenuazione che gli produceva l'effetto di sentirsi trasportato via, piú che di camminare coi propri piedi. «Come ha fatto?» gli domandai, quasi egli m'avesse detto cosa da non recarmi nessuna meraviglia. «Non vorrei abusare della sua cortesia - rispose - intrattenendolo per parecchie ore con la spiegazione di teoriche un po' astruse. E poi, il preciso "come" non saprei spiegarglielo neppure io stesso. Tenterò». Era un adepto teosofo, un discepolo di quella scuola religiosa filosofica e scientifica che esiste nell'India e che la signora Blavatsky e i suoi collaboratori cominciano a diffondere in Europa. Ascoltai, senza batter ciglio, senza mostrare stupore o incredulità; anzi arrivai fino a mostrarmi persuaso della possibilità del fatto. Soggiunsi però: «Una cosa è la possibilità di un fatto, altra la realizzazione di esso. Io, per esempio, non dirò mai che i palloni, teoricamente, non siano dirigibili; ma, per ora, la scienza non è riuscita a ridurre in pratica la teorica, quantunque molti si siano illusi di aver sciolto l'arduo problema». «Crede dunque che io sia un illuso? Che il fatto della mia invisibilità sia soltanto un'allucinazione prodotta dallo sforzo nervoso, e dalla perturbazione che n'è seguita nell'organismo?» «Potrebbe darsi» risposi. «In questo caso, le darò una prova. Ritornerò da lei fra qualche giorno». «Perché non darmela ora stesso?» «Perché occorre una preparazione. La prova sarà tale, che lei non potrà piú dubitare. Intanto pensi al rimedio ora che sa di che cosa si stratta». «Una buona serie di doccie fredde!» dissi da me. E credevo di non piú rivederlo, sapendo per esperienza che i malati del genere a cui stimavo che colui appartenesse non sogliono ritornare dai medici, se sospettano di non essere stati presi sul serio. Ecco ora quel che mi accadde due giorni dopo, e quando non pensavo affatto al mio strano visitatore. Ero rientrato in casa portando cinque o sei bellissime rose thea. Allora amavo di avere qualche fiore sul mio tavolino di studio, in un vasetto giapponese regalatomi da un amico, oggettino bello e raro che mi era carissimo. Le avevo poste io stesso in quel vasetto, mutando l'acqua dei fiori mezzo appassiti che vi si trovavano da due giorni. Riferisco questi particolari per far meglio comprendere il mio stupore quando, terminato di leggere alcune lettere arrivate nella mia assenza, non vidi piú le rose dove con molta cura le avevo disposte poco prima. Accusandomi di sbadataggine, le cercai con gli occhi per la stanza, su altri mobili; le rose erano sparite! Passato il rapido sbalordimento, io non potei piú dubitare di averle poste nel vasetto e cercavo di spiegarmi quel fatto, sospettando una burla di un mio nipotino entrato zitto zitto nello studio mentre ero distratto dalla lettura. Guardai l'uscio, e vistolo chiuso e non socchiuso, rivolsi di nuovo gli occhi al tavolino ... Era sparito anche il vasetto! Un brivido di freddo mi corse per le ossa. Davanti a certi fenomeni non c'è tempra d'uomo che resista. E il pensiero volò subito all'incognito che mi aveva promesso una prova della sua invisibilità. Egli doveva essere nello studio, in qualche angolo, e chi sa come rideva della mia paura e del mio imbarazzo! Giacché, lo confesso, io avevo paura e non sapevo come comportarmi. A un tratto, ecco un foglio di carta da lettere che esce dalla papeterie, si stende sul tavolino proprio nel posto dove io solevo scrivere, ed ecco una penna impugnata da mano invisibile che si muove e traccia dei caratteri celeremente. Mi slancio per afferrare il braccio e fermare la mano, ma la penna cade sul tavolino, e io non sorprendo niente di solido come avevo immaginato. Leggo quel che la penna ha scritto: «Crede ora? Verrò domani» e mi sento preso da vertigine, vedendo riapparire il vasetto con le rose, ma in un altro punto del tavolino. Eppure - tanta è la nostra avversione a prestar fede a quel che crediamo impossibile! - io sarei rimasto nel dubbio di essere stato vittima di un'allucinazione cagionata da quella che il Braid ha chiamato «attenzione aspettante», se il giorno appresso il mio cliente non si fosse presentato, sorridendo dalla soddisfazione e ripetendomi le parole scritte: «Crede ora?» «Credo a quel che ho visto - risposi. - Ma questo non prova che voi possiate rendervi invisibile. Prova soltanto che avete un potere misterioso con cui agite a distanza, mettendo in opera forze a me ignote e delle quali si parla in parecchi libri che si occupano di simili fenomeni». «Ha ragione» egli disse. E rimase pensieroso. «Senta - riprese dopo lunga pausa. - Io ero risoluto a non abbandonarmi piú a queste pericolose prove di cui già risento i tristi effetti. Ma esse hanno le affascinanti attrattive dell'hascisc e della morfina e sono malefiche altrettanto. Gustate una volta, non è possibile rinunziarvi, neppure avendo la certezza di trovarvi, presto o tardi, la pazzia o la morte. Ha ragione: le prove datele non sono convincenti. Per ringraziarla, a modo mio, della cortesia con cui mi ha accolto e dell'interesse dimostratomi, le darò ora la prova assoluta. Apriamo le finestre». E accorse egli stesso ad aprirne una; io apersi l'altra. «Si segga là - riprese indicandomi una seggiola - e non dica una parola, non faccia il minimo movimento. Stia soltanto a guardare». Incrociò le braccia, si piantò ritto su la persona nel centro della stanza, con gli occhi chiusi e la testa rovesciata un po' indietro, immobile per alcuni minuti. Io trattenevo il fiato, ansiosissimo. Vidi uscirgli disotto le braccia un lieve vapore bianco, che discese lentamente lungo le gambe e le avvolse quasi serpeggiando fino alla punta dei piedi; lo vidi risalire con ondate piú dense, aggirarsi attorno al petto, elevarsi fin sopra i capelli e nascondere ai miei sguardi tutta la persona di lui. Poi questa colonna di fumo, che spandeva attorno un odore acre, sgradevole, cominciò a piegarsi da una parte quasi mossa dall'aria che penetrava da una delle finestre e a disperdersi uscendo, come spinta dal vento, con larghi avvolgimenti, dall'altra ... Ed io sbarravo gli occhi, stupito di vedere che il fumo biancastro andasse via attenuandosi. Sembrava che il pavimento fumigasse; poi le ultime ondate si staccarono dal suolo tremolanti, si alzarono fino all'altezza delle finestre e svanirono ... Il mio cliente era sparito! Rimase ancora là? Uscí, invisibile, dall'uscio o col fumo? Non saprei dirlo ... Era sparito; e non l'ho piú riveduto!

. - Che abbiamo di nuovo, signori miei? - Chi non campa muore - gli rispondeva qualche burlone. - E l'affare del Rospo com'è finito? - Corna e legnate, chi le ha avute se le tiene. - Oh! Come mai? - E si faceva raccontare il fatto per filo e per segno. - Mettiamolo a libro, don Rosario! - gli diceva Pizzo-'nterra, ridendo. Egli «metteva a libro» tutto, anche gli avvenimenti piú insignificanti: le messe solenni pei santi, con nome e cognome del celebrante, del diacono e del suddiacono; i tridui e le novene col nome del predicatore e del devoto che li aveva ordinati per ricevere qualche grazia; risse, ferimenti, furti, arresti, pettegolezzi di ogni genere, pur di riempire con la sua grossa calligrafia quei quaderni, che poi rilegava da sé in volumi, e riponeva, per ordine di mesi e di anni, negli scaffali della sua camera dove non permetteva che entrasse nessuno. Verso le dieci e mezzo, don Rosario andava ad assistere, dal coro, assieme coi canonici, alla messa cantata, e in sagrestia pescava altre notizie, altri pettegolezzi, e prendeva nota degli anniversari e dei quattrini che i canonici si dividevano secondo il lascito dei parrocchiani defunti. E, subito, si metteva attorno per gli studi notarili, lavorando lunghe ore a trascriversi le compre e vendite stipulate, i contratti matrimoniali, le permute, le cessioni, i testamenti, i mutui, tutto, quasi avesse avuto incarico dal governo di controllare gli atti pubblici. Non aveva egli nient'altro da fare? Alle faccende di casa e di campagna pensava il fratello. Don Rosario gli lasciava mani libere, e quegli lo calcolava come una bocca di piú in famiglia. Appena, di tanto in tanto, osava domandargli - Ma che ne farai di tutte quelle cartacce? - Sciocco! Alla mia morte vi lascerò un tesoro. Vorranno sapere una data, un fatto? Ebbene, dieci, venti, trenta lire, secondo l'importanza; se no, no. E poi ti sembra niente il poter dire a certa gente: Il giorno tale, l'anno tale, nella tua famiglia avvenne questo e quest'altro; tuo padre ha rubato; tuo nonno è morto in galera! ... Tua madre ... cosí! Tua zia, tua sorella ... cosí! E tapparle la bocca? Eh! Eh! Ti sembra niente? Io tengo in un pugno un paese intero, due generazioni! Tutto è registrato là ... Hanno paura di me, cominciando dal sindaco fino all'ultimo mascalzone. Tutti! Ma tu sei sciocco non puoi capire -. E lo lasciava là, e andava a rinchiudersi in camera, nella «camera del disordine», come la chiamava suo fratello. Vestiti, biancheria, robe sporche, cappellacci vecchi, ciabatte, ogni cosa, ammonticchiati su le seggiole, per terra, negli angoli. Soltanto i volumi rilegati facevano bella mostra negli scaffali di abete rustico che occupavano due pareti. La sera, prima di andare a letto, egli li passava in rassegna, piantato in mezzo alla stanza a gambe larghe, con le mani dietro la schiena, con gli occhi rilucenti di sodisfazione, quasi ogni volta, stando cosí a contemplarli, rileggesse tutte le miserie, tutte le porcherie, tutti gli imbrogli della gente colà annotati! ... E quella bestia di suo fratello non capiva che tesoro egli avrebbe lasciato alla famiglia dopo la sua morte! ... E gli imbecilli lo burlavano: - Che cosa dicono i registri, don Rosario? - Che cosa dicono? Non ridereste se sapeste quel che dicono! Spesso, durante la notte, si svegliava di soprassalto. Aveva sentito rumore o gli era parso? Temeva, da qualche tempo in qua, che i ladri venissero ad assaltarlo, a portargli via il gran tesoro dei manoscritti per incarico di qualcuno a cui piú scottava di sapere quel che stava consacrato colà. E per ciò teneva appoggiato all'angolo del corsello un vecchio soffione del '48@, '48, caricato a palla. Svegliandosi, stendeva istintivamente la mano ad esso per assicurarsi che era al suo posto. E quando capitava, in piazza, nel caffè di Pizzo-'nterra, nelle sagrestie, dovunque, parlava misteriosamente, strizzando un occhio, della terribile arma pronta là, per difesa dei manoscritti; era bene che i malintenzionati sapessero che bella accoglienza li attendeva! Un giorno, un imbecille gli aveva fatto la burla di dirgli: - Sapete? È morto don Pietro Lagreca, d'accidente, in campagna! - E don Rosario era corso a casa per registrare il fatto, con tutti i particolari inventati lí per lí da colui. Due ore dopo però egli si incontrava faccia a faccia col Lagreca sano e pieno di vita, col naso piú rosso del solito e con le gambe che andavano una a destra e l'altra a sinistra quasi non stessero d'accordo. - Come? Non siete morto? - gli scappò detto dallo stupore. - Crepate voi, don pezzo d'asino! - gli rispose il Lagreca, facendogli le corna con tutte e due le mani. Fu una gran mortificazione per don Rosario. E da quel giorno in poi, non scrisse nei famosi quaderni nessun fatto se prima non lo avea verificato. E siccome sentiva orrore delle cancellature, egli aggiunse questa postilla al margine della falsa notizia: «Il morto è vivo ancora. Dio glielo perdoni!» E intendeva dir questo per quell'altro che lo aveva burlato. Oh! Il bello stile non era il suo forte, e neppure talvolta la grammatica. Ma di queste picciolezze don Rosario non si curava. Gli bastava che ogni tre mesi rilegasse un volume di scartafacci, oltre ai volumi degli atti notarili trascritti. Gli bastava la sodisfazione che parecchi venissero a consultarlo intorno a un fatto, a una data. Si faceva pregare un po' e poi dava, trascritta in un pezzettino di carta, la notizia richiesta, aggiungendo - Alla mia morte, ogni notizia dovranno pagarla ai miei eredi. - Grazie tante, don Rosario! - Egli si ringalluzzava, sorrideva sornionamente, e quella sera, prima di andare a letto, guardava con maggior tenerezza il suo tesoro. Una gran tristezza lo invadeva però, riflettendo che alla sua morte nessuno avrebbe pensato a continuare l'opera sua. Il figlio di suo fratello era ancora bambino. Pure egli qualche volta lo conduceva in camera per mostrargli i volumi negli scaffali e insinuargli l'idea di essere il suo vero successore; la sua parte di patrimonio era destinata a lui per incoraggiarlo, per abituarlo a quest'idea. Il bambino rispondeva: - Sí, zio! - E non sapeva a chi dar retta, perché suo padre, quando il bambino gli riferiva le parole dello zio, rispondeva stizzito: - Pensi a morire, che io farò una fiammata di tutte quelle cartacce! - Da qualche anno, l'idea della morte contristava don Rosario. Non era poi tanto vecchio, a sessanta anni; e la sua vita, regolatissima, gli faceva sperare di campare almeno fino all'ottantina ... Ma con la morte, non si sa mai! Da piú di mezzo secolo, egli non aveva cangiato abitudini. L'ultimo giorno di maggio, smetteva il gran ferraiuolo, si faceva tagliare i capelli e li pesava - il peso era per lui segno di vitalità - ogni primo di ottobre riprendeva il ferraiuolo. Non gli importava che talvolta nel giugno facesse freddo e nell'ottobre continuasse ancora il caldo dell'estate. Aveva fatto sempre cosí, e cosí persisteva a fare. Quell'anno intanto egli aveva avuto la brutta sorpresa di trovare diminuito il peso dei capelli tagliati. - Cattivo segno, fratello mio! Cattivo segno! - aveva esclamato. - Vuol dire che il barbiere ne ha tagliati meno degli altri anni. - No, no! - La risposta di suo fratello non lo convinceva. Cattivo segno! E per due notti di seguito, vegliò a compire l'indice delle materie degli ultimi due volumi. Voleva lasciare tutto in ordine. Con la morte non si sa mai! Invece ... Era l'ultimo giorno di maggio. Egli aveva riposto nell'armadio il pesante ferraiuolo, ed era uscito, verso le undici, fuori Porta Vecchia, per godersi la bella giornata e dare un'occhiata alla campagna. Che delizia! La pianura tutta verde di seminati, sorridente di fiori di lino, qua e là rossa di papaveri; e le colline coperte di vigneti rigogliosi, di olivi in fioritura. Che benedizione di Dio! Quest'anno poteva segnare nei suoi scartafacci: «Gran buon'annata!» Non gli accadeva da un pezzo. E dava la voce ai contadini che passavano - E, compare, siete contento? - Purché il Signore non ci castighi, come gli anni scorsi! - Tutti gli rispondevano cosí, diffidenti, pensando che da parecchi anni le campagne promettevano bene e poi ... Don Rosario si sdegnava di quella poca fede. La vista della campagna gli metteva in cuore vivissima gioia; gli sembrava di aspirare dall'aria tutta la bella forza di tanto rigoglio, di sentirsi rinvigorire. Ed ecco quel mal'augurio del Lagreca, a cavallo della mula, che gli grida: - Come? Ve ne state qui? A casa vostra c'è un incendio! - Va bene! Va bene! - rispose, incredulo, sospettando che quello stortaccio volesse prendersi una rivincita. Quando colui però si fu allontanato dopo di avergli gridato - Accorrete! - don Rosario si sentí tremare le gambe sotto e battere violentemente il cuore. Se fosse vero? E si diè a correre come un matto. Era vero! Era vero! Davanti alla sua casa, gran folla; carabinieri che tenevano indietro la gente; volenterosi che facevano catena per passarsi da una mano all'altra le secchie con l'acqua; manovali sul tetto, proprio sul tetto della sua camera, in mezzo ai vortici di fumo, che sfondavano la incannicciata e versavano acqua dentro ... Egli si precipitò addosso alle persone, facendosi largo, dando spintoni e pugni, urlando: - I manoscritti! I manoscritti! - e svenne su la soglia, tra le braccia del brigadiere che lo aveva afferrato per le spalle. Il giorno dopo, don Rosario sembrava invecchiato di dieci anni. Piangeva come un bambino davanti a quel cumulo di fogli anneriti, di cui rimanevano appena pochi brani leggibili; il resto volava via appena le sue mani tremanti toccavano i pochi volumi non ridotti dall'acqua in nera poltiglia! - Bestia! Ringrazia Iddio che non sia andata in fiamme tutta la casa! - gli diceva suo fratello per consolarlo. A lui che sarebbe importato di tutta la casa, purché si fosse salvato il suo tesoro? Che malignità avea commesso il fuoco rispettando lo scaffale dove si trovavano gli atti notarili trascritti, e consumando i venti volumi che gli costavano piú di trent'anni di fatica! Non sapeva consolarsene. E quasi odiava il fratello che tornava a ripetergli: - Bestia! Ringrazia Iddio! - Don Rosario giurò a se stesso di voler essere piú forte del destino. Doveva fare un immenso sforzo di memoria, egli che aveva letto e riletto tante volte i suoi manoscritti, aiutarsi anche con le pagine mezze bruciate e rifare da cima a fondo il gran lavoro. Per piú settimane non uscí di camera, chino sui nuovi quaderni, lavorando intere giornate, dormendo soltanto qualche ora la notte, felice di vedersi rinascere sotto gli occhi, quasi la ricopiasse, la minuta cronaca del paese coi nomi, con le date, con tutti i particolari, assaporando una specie di vendetta contro la gente che si era rallegrata di veder sparire con quell'incendio la testimonianza dei loro brutti fatti, delle loro magagne, delle loro infamie ... - Bestia! Ti ammazzi cosí! - gli diceva suo fratello, che lo vedeva deperire, sfinito dalla fatica, dallo scarso sonno e dal poco cibo che prendeva. Don Rosario tentennava il capo, compatendolo, ostinato piú che mai, con la mente tesa per ricordare e ricostruire il tesoro distrutto. E una mattina, lo trovarono freddo, stecchito, con la penna stretta tra le dita irrigidite e il capo rovesciato sul quaderno riempito a metà! La mezza pagina rimasta interrotta era piena di scarabocchi indecifrabili. Il gran cronista era morto, lasciando appena iniziato il nuovo compito che si era imposto!

. - La gioventú di oggi è caparbia; faremmo peggio assai mostrando alla marchesina che noi non abbiamo piena coscienza della nostra autorità. Io non posso tollerare che una Santacroce si ribelli alla volontà dei suoi genitori. È già stata eccessiva concessione l'apparenza di consultarla ... Il cappellano sa di che cosa si tratta -. Don Paolo accennò di sí con la testa, atteggiandosi a una mossa di dispiacere in conferma delle parole del marchese. - Da quattro giorni non esce di camera, col pretesto di un fiero dolor di capo. Buttata vestita sul letto, tiene chiusi gli scuri dell'imposta del balcone e rifiuta di ricevere il dottore. Io non sono andato da lei per farle cosí intendere la mia collera. Oggi non è neppure intervenuta al sacrificio della santa messa ... È troppo! Bisogna finirla! - Il marchese aveva parlato lentamente, a bassa voce, tracciando dei segni sul tappeto della tavola col cucchiaino di argento quasi vi scrivesse in strani caratteri quel che diceva; e pronunciando le ultime parole, picchiato sdegnosamente su la tavola col cucchiaino due volte, lo aveva rigettato lontano, facendogli urtare il piattino della tazza del prete. - Ho sentito dire nella farmacia Russo - ruppe il silenzio don Paolo - che il signor barone sarà qui tra qualche giorno. - Si parla già in pubblico del matrimonio? - E se ne rallegrano tutti, signor marchese. Il barone di Pietrerase è ottimo partito. Il principe suo fratello è vecchio e non ha figli; un giorno o l'altro la marchesina potrà essere principessa di Cavanna ... - I Cavanna sono nati ieri di fronte ai Santacroce - lo interruppe severamente il marchese. - La probabilità del principato non entra per niente nella mia decisione. - Lo credo! Lo credo! - si affrettò a ripetere don Paolo per scancellare la cattiva impressione prodotta dalle sue imprudenti parole. - Non ho cercato io il barone di Pietrerase, né so come gli sia venuta l'idea di domandare la mano della marchesina. Non l'ha neppure veduta, credo, o di sfuggita in qualche occasione; a Catania forse, l'ultima volta che siamo andati colà per la malattia della marchesa. È uomo all'antica, buon amministratore dei suoi beni ... Il feudo di Pietrerase confina col nostro di Saccorotto ... Ho preso le piú scrupolose informazioni ... Eccellenti, riguardo ai principi politici e alla morale. Negli ultimi avvenimenti si è tenuto dignitosamente da parte; ha rifiutato di essere consigliere provinciale ... Lo avevano eletto non ostante le sue franche dichiarazioni; e non si è lasciato sedurre dai voti degli elettori. Noi nobili non dobbiamo attendere che ci abbandonino in un canto; siamo di altri tempi e dobbiamo volontariamente ridurci a vivere e a morire come in un mondo a parte ... finché dura la tempesta, come la chiamano, democratica. Quando Dio vorrà ... - Presto, eccellenza; cosí non può durare! - disse don Paolo - La marchesina dunque… - egli soggiunse timidamente. - La marchesina pretende ... Ditelo voi, marchesa, che cosa pretende, voi che le avete parlato di questo matrimonio ... - Senza nessuna ragione ... rifiuta - balbettò la marchesa. - Come se noi potessimo proporle un partito indegno di lei! - Oh, eccellenza! - esclamò don Paolo. - Io ho la mia maniera di tagliare i nodi; sono un po' brutale. Non ho comunicato alla marchesina la mia decisa volontà, cedendo al troppo benevolo desiderio di sua madre. Ho avuto torto. «Senza nessuna ragione!» Lo avete già udito ... Prima dell'autorità paterna, facciamo pure sentirle il peso di quella di Dio! Onora il padre e la madre, dice il decalogo, e si onorano soprattutto obbedendo. Dopo il confessore, interverrò io. Non voglio discutere con mia figlia. Quando il marchese mio padre mi disse: «Tu sposerai la baronessina Grimaldi» risposi soltanto: «Come vuole vostra eccellenza!» Allora usava cosí. Il nostro matrimonio è stato felice. Se il Signore mi avesse concesso un figlio, non mi sarei comportato diversamente con lui. L'autorità paterna è di diritto divino, come quella dei re, anzi prima di quella dei re -. Nella vasta sala da pranzo la voce del marchese si affiochiva quasi sperdendosi per la volta elevata, coperta di pitture sbiadite, o insinuandosi tra le credenze di noce scolpito che coprivano le pareti e tra le larghe pieghe delle pesanti tende scure dei quattro usci che sembrava la segregassero dal resto di quel palazzo dove parecchie generazioni di Santacroce erano vissute in orgogliosa solitudine, ora resa piú grande dal cupo carattere dell'ultimo marchese che vedeva estinguersi malinconicamente la sua razza per difetto di un erede. Don Paolo, tutte le volte che attraversava gli ampi saloni nei giorni che il suo ufficio di cappellano e di confessore lo faceva «salire al palazzo», sentiva un senso d'intimidazione e di freddo, come se egli penetrasse in un posto pieno di religioso mistero. Per gli abitanti di R*** la mole grigia, coi grandi balconi con ringhiere bombate di ferro battuto su le mensole rose dal tempo e dall'umido, con le imposte stinte che combaciavano male, e l'immenso portone sempre chiuso, mole dominatrice dall'alto della collina su tutte le altre case del paese, era il «palazzo» per antonomasia. «Salire al palazzo» significava andare dal marchese di Santacroce, giacché il marchese e la marchesa uscivano di rado, e quasi unicamente per recarsi nel feudo di Serralonga in primavera e in autunno, mutando la loro prigionia nell'antica cittaduzza che la posizione su l'altura teneva appartata da ogni contatto di vita commerciale, con l'altra nel feudo dove un gran casamento mezzo rustico, con immensi stanzoni anch'esso, circondato da un muro con feritoie che formava cortile, dava appena qualche differenza al tenore di vita della famiglia. Prima del '60@, '60, il marchese esercitava una specie di dominio su i cittadini di R***, tradizionale residuo di quello dei suoi antenati quando essi erano padroni del borgo, poi divenuto cittaduzza libera, passata alla Camera Reginale per vicende politiche che avevano prodotto la decadenza della famiglia Santacroce e ne avevano stremato i vasti possedimenti e le ricchezze. Il padre del marchese, don Alvaro Gutierrez-Guerrero, avea regnato da tirannello. Ai suoi tempi era stato adattato a lui il vecchio proverbio: «Non si muove foglia che Dio nol voglia»; se non che invece di Dio, si metteva irriverentemente ma esattamente «il marchese». La tirannia, del resto molto benigna, del padre era passata nelle mani del suo erede, che continuava a venir consultato in tutti gli affari privati, e aggiustava liti, annodava matrimoni, dotando le ragazze povere senza richiedere, come si diceva facessero i suoi antenati fino al suo genitore, certi diritti contro cui i contadini non osavano di ribellarsi. Nel comune, nella matrice, decurioni e canonici non deliberavano niente prima di domandarsi: - Che ne dirà il marchese? - E quando il marchese aveva risposto: - Fate cosí! - la sua parola diventava sentenza inappellabile; si faceva cosí. Il '60@ '60 aveva cangiato di punto in bianco ogni cosa. A R*** quattro teste sventate, come il marchese le qualificava, avevano fatto la rivoluzione senza consultarlo, ed erano andati ad attaccargli la bandiera tricolore a una delle colonne del portone, quasi per significargli che il suo regno era finito. Il marchese aveva avuto tanto spirito da non far togliere la bandiera, nell'attesa che i soldati del re venissero a toglierla loro, come nel '49@; '49; e si era chiuso in casa, stupito ogni giorno piú che la «rivoluzione» prendesse piede, ma pur lusingandosi sempre che, non ostante Garibaldi e Vittorio Emanuele, il buon diritto, quello dei Borboni, dovesse finalmente trionfare. Poi, deluso, si era rassegnato, con una vaga speranza in fondo al cuore, che il guardiano dei pp. cappuccini prima e, dopo, don Paolo Forti alimentavano fiaccamente recando, di tratto in tratto, qualche notizia lassú di quel che avveniva nel mondo e che il marchese ascoltava con orecchio diffidente, crollando la testa per compiangere la tristizia dei tempi. Egli e la marchesa vivevano smarriti pei saloni del palazzo, tra le poche vecchie persone di servizio tenute in segregazione assieme con loro; egli occupandosi a riordinare antiche scritture di famiglia, oppresso dal rammarico che il titolo di marchese di Santacroce dovesse passare, dopo la sua morte, a un lontano parente col quale da quasi mezzo secolo, per ragioni d'interessi, i Santacroce non avevano avuto piú relazione di sorta alcuna; la marchesa immersa in pratiche religiose o di carità nascosta, specialmente da che la marchesina era stata affidata alle cure della settantenne zia del marchese, badessa in un convento di benedettine in Catania. Otto anni dopo, essi si erano figurati di ritirare dal convento una ingenua educanda e invece si erano trovati dinanzi una giovine seria, chiusa, che aveva negli occhi e nella fronte qualche cosa d'incomprensibile e d'inquietante. Il marchese avea notato subito che la loro figliuola parlava poco. Infatti rispondeva con semplici monosillabi alle interrogazioni. La marchesa domandandole un giorno se era stata contenta della vita di convento, avea sentito rispondersi: - Non lo so -. E non si era attentata di chiederle spiegazioni di quelle strane parole. La vecchia badessa l'aveva molto viziata, un po' facendole fare quel che piú le pareva e piaceva, un po' - e non ce n'era bisogno - sviluppando coi consigli e con l'esempio l'alterigia naturale in una Santacroce per eredità e pel prestigio del nome. La marchesina Cecilia, o Cilia , come la chiamavano, non era una bellezza appariscente. Le linee del viso rigide, quasi dure, e il naso solido e aquilino della sua razza venivano però raddolciti dagli occhi neri e grandi e dalle labbra tumide e sensuali. Il mento, solido anch'esso, ne indicava il carattere fermo, ostinato, e la voce, gutturale ma sommamente melodiosa, dava alle sue parole un'indefinibile malia che non faceva badare alla bassa statura della sua personcina e alla lieve sproporzione tra il busto e le gambe per cui somigliava alla madre. Dalla madre aveva ereditato anche le mani piccole con dita sottili e i piedini ben fatti, le une e gli altri suo orgoglio in convento tra le quattro educande di nobili famiglie con le quali aveva avuto qualche contatto, perché una Santacroce, diceva la zia badessa, doveva stimarsi tale da dover tenere in distanza la «nobiltà» che poteva contare appena due secoli di esistenza. Cosí, durante gli anni passati tra le monache, ella si era sentita invadere da un senso di isolamento e di tristezza irrequieta, di mano in mano che i ricordi dell'infanzia vissuta nel malinconico palazzo di R*** le si erano schiariti nella memoria, quasi costringendola a rivivere con l'immaginazione quelle giornate interminabili, quelle serate paurose delle quali ora comprendeva meglio tutta la vacuità e tutta la desolazione e a cui neppure il suo orgoglio di casta riusciva a farla compiutamente rassegnare. A traverso le doppie grate del parlatorio, a traverso la grande grata di legno dorato del coro che dominava dall'alto la chiesa luminosa, piena, le domeniche, di elegante pubblico di signore e di signori accorsi ad assistere alla messa cantata, uno sbuffo, un'onda, un profumo di vita piú allegra, piú agitata penetrava nel convento, dove non tutte le monache erano, quantunque di nobili famiglie, impassibili e fredde come la zia badessa, né cosí assorte nelle pratiche religiose da sfuggire, quali pericolose e malsane, le relazioni col mondo profano. La zia le avea ripetuto, in parecchie occasioni, che la sua condizione la destinava a un'alleanza con qualcuna delle poche famiglie siciliane degne di ricevere l'onore di accogliere - poiché il Signore avea voluto cosí! - l'ultimo bagliore dei Santacroce. Anche la badessa reputava immensa disgrazia che quel titolo dovesse passare, per mancanza di erede maschio, a uno del ramo cadetto quasi povero e incapace di portarlo con la dignità e l'austerità mantenute onorevolmente finora. E siccome, parlandole del futuro matrimonio, la badessa soggiungeva sempre: - A questo penseranno i tuoi genitori; ci penserò pure io, se il Signore vorrà concedermene la grazia! - l'idea che la coscienza e la volontà di lei non dovessero contare per niente nella decisione intorno all'avvenire che l'attendeva le aveva lungamente torturato l'animo, inasprendoglielo sordamente e fortificandolo - forse invano! ella rifletteva - per una lotta nella quale già capiva di dover essere perditrice. E ogni volta che la zia tornava a parlargliene, la marchesina fissava negli occhi quel viso pallido, rugoso, con labbra sottili e un che di maschile nei lineamenti che le rammentavano quelli del padre. E le sembrava di scorgere nella voce lenta e sommessa della vecchia monaca benedettina un accento di rancore e di rimpianto, misto con un altero senso di rassegnazione che avrebbe voluto nascondere o attenuare quel rimpianto e quel rancore. Era stata, forse, vittima anche lei delle circostanze e dei pregiudizi di razza, sacrificata a un primogenito, eliminata dalla vita comune per quell'inesorabile volontà che non avrebbe consultato neppur lei il giorno in cui suo padre ne avrebbe deciso la sorte! E si era sentita oppressa, sopraffatta dalla fatalità, rientrando in quel palazzo dei Santacroce isolato lassú in cima alla collina di R***; e che le sembrava assai piú cupo del convento, dove almeno le pratiche e le feste religiose servivano da distrazione giornaliera e da svago impazientemente atteso e quasi infantilmente goduto. La messa che don Paolo Forti veniva a dire, le domeniche e le feste, nella cappella di famiglia era cerimonia fredda e compassata, in confronto anche della messa bassa di tutti i giorni a cui ella aveva assistito in convento. Quei quattro ceri accesi davanti al quadro di santa Margherita da Cortona, quell'altare disadorno, con la predella di legno che risonava sotto i grossolani scarponi del prete a ogni passo ch'egli moveva, quei vecchi seggioloni col piano e le spalliere coperti di cuoio, dietro i quali ella udiva il sommesso borbottio del rosario e i colpi di tosse delle poche persone della servitú inginocchiate sul freddo pavimento di mattoni di Valenza, le mettevano tale sgomento e tale tristezza nell'animo che le impedivano di concentrarsi e di pregare. E durante la settimana? Una o due visite di vecchie signore e lo spettacolo della campagna che si stendeva, a perdita d'occhio, a piè della collina, fino alla catena delle Madonie coperte di neve e fino alle falde dell'Etna che, sotto il sole, svaniva quasi sul cielo azzurro, niente altro. Giacché i balconi della camera e del salottino della marchesina rispondevano su la parte opposta a quella dove stava arrampicata la cittaduzza di R*** e i balconi delle stanze che guardavano da questo lato, per ordine del marchese, rimanevano sempre chiusi a testimoniare la sua protesta contro le «novità» finché esse duravano e che, contro ogni sua illusione, persistevano a durare. Fortunatamente in convento ella aveva appreso a suonare il pianoforte e vi si era appassionata sotto la direzione della suora che insegnava il canto fermo alle educande. E tutta quella vecchia musica sacra più particolarmente studiata avea sviluppato in modo severo il suo gusto. Il Palestrina, il Bach, lo Scarlatti, il Mozart, le erano divenuti cari anche per le difficoltà da superare nell'esecuzione. Soltanto all'uscita del convento ella avea voluto provvedersi di una larga scelta di cose moderne, accettando tutto quel che dal negoziante di musica le era stato proposto; e il suo salottino appartato, da mattina a sera, risonava di melodie prima ignorate, ora studiate e interpretate con fina intelligenza e che divenivano tale rivelazione per lei da darle fremiti, da agitarla e lasciarla stanca e spossata dopo le molte ore consacrate ad esse in quelle giornate di primavera cosí splendide e cosí eccitanti nella solitudine della sua vita. Don Paolo Porti aveva intuito sin da principio che qualche cosa di segreto, d'inafferrabile stava in fondo all'animo della giovane silenziosa, e avea tentato di scoprirlo nella confessione, consigliato dalla marchesa; ma inutilmente. E fermatosi, quella domenica, su la soglia della camera tenuta al buio, mentre la marchesa entrava ad annunziare alla figlia la insolita visita, egli non sperava affatto di essere piú fortunato nel nuovo tentativo. La marchesa avea aperto gli scuri, invitando don Paolo a farsi avanti. - Ho pregato per voscenza nel sacrificio della santa messa - egli disse dopo alcune parole di scusa pel disturbo di quella visita. - Brutta cosa l'emicrania! Ne soffro pure io qualche volta ... - Grazie! - rispose la marchesina che aveva aperto gli occhi, senza moversi dalla posizione in cui si trovava. Don Paolo si sentí turbare dagli sguardi di sospetto e di diffidenza con cui si vedeva fissato. Appena la marchesa, col pretesto di un ordine da dare, lo lasciava là, seduto a piè del lettino dove la marchesina era coricata vestita, coperta soltanto fino a metà del corpo con uno scialle, egli abbassava gli occhi e non trovava parole per riprendere la conversazione. - Indovino perché mammà vi ha condotto qui - disse la marchesina, rompendo il lungo intervallo di silenzio, quasi impietosita dell'imbarazzo del prete. - Che cosa vogliono da me? - Quel che una figlia rispettosa e obbediente deve ai suoi genitori. Le parlo da indegno ministro di Dio, da confessore. - Mi vogliono maritare con uno che non conosco neppure di vista. - Pensano all'avvenire di voscenza, alla sua situazione nel mondo. E giacché si sono decisi per questa scelta, vuol dire che vi trovano tutte le eccellenti condizioni morali e materiali degne della loro nobilissima casa. I genitori s'ingannano di rado. - E il mio cuore non conta nulla? - Il suo cuore sarà tutto della persona che avrà la fortuna di sposarla. Voscenza ha l'esempio della mamma, di una santa ... - E se ... Ella s'interruppe, irrigidendosi, facendo un visibile sforzo di contenersi. - So che ha risposto con un rifiuto - disse il prete. - Oh! Una Santacroce non deve avere volontà di fronte ai genitori. Vi sono doveri che s'impongono innanzi tutto quando si occupa, per nascita, una posizione elevata come la sua. Le donne della famiglia Santacroce sono state sempre mirabili modelli su questo punto. La signora marchesina non vorrà dare un gran dispiacere a suo padre ... che ha già impegnata la parola col barone di Pietrerase. Gran signore anche lui, il barone ... Il principe suo fratello non ha figli ... Io le auguro di vederla principessa, un giorno o l'altro. Il titolo toccherebbe di diritto al barone. I Cavanna, dice bene il signor marchese, non possono competere coi Santacroce per nobiltà, ma sono tra le piú illustri e ricche famiglie siciliane. - E se io volessi sposare un altro? - lo interruppe la marchesina sollevandosi sopra un gomito e appoggiando la testa sul palmo della mano. - Mi confido col confessore ... Sono stata di poco coraggio; non ne ho detto niente a mia madre. - Un altro? ... Chi? Giacché mi parla come a confessore ... - Il nome non importa ... per ora. - Se è degno della sua famiglia, il marchese certamente non si opporrà. - Non è nobile, né ricco. - In questo caso ... Una Santacroce non può discendere in basso. Sarebbe un gran dolore pei suoi genitori; sarebbe un fatto senza precedenti in famiglia ... una cosa impossibile! - Rimarrò zitella. - La signora marchesina deve riflettere ... - Ho riflettuto. Non credo che si voglia la mia infelicità. - Se la prepara voscenza stessa, con le proprie mani. Non si ostinerà, oso di lusingarmi. Io, suo confessore, non verrei a consigliarle di sottomettersi, se credessi di fare opera contraria al mio sacro ministero. Non si offenda se immagino che la poca esperienza del mondo, la giovinezza, e, forse, una mal riposta passioncina la illudono in questo momento. - Al confessore si deve dire tutto. Mi sarei confidata con mammà se non sapessi che ella non ha altra volontà all'infuori di quella di mio padre. Ho voluto risparmiarle un dispiacere. Dirò tutto al confessore. Sí, io amo un altro, da due anni, e so di essere amata. Tutti e due abbiamo però compreso le difficoltà che oggi si oppongono alla nostra unione, e ci siamo rassegnati. Se mio padre vorrà disporre di me altrimenti, io forse non resisterò ai suoi ordini, quantunque in questo momento sia già decisa a resistere. Avrà un gran peso su la coscienza mio padre! Quel che farò dopo non so ... - Niente che possa recar disonore alla sua nobile famiglia, ne sono sicuro - la interruppe don Paolo. - Il barone di Pietrerase è un gran signore anche lui; saprà darle tutte le felicità che si possono conseguire in questo mondo ... - Preferirei di essere infelice ma libera di agire a modo mio. - Guardi, marchesina. Crede voscenza che io sia un cattivo prete? Ho i miei difetti ... ma, insomma! ... Ebbene io sono stato fatto prete per forza. Mio padre mi mise il collare da chierico a dieci anni; poi mi mandò in seminario ... E una volta che ebbi l'ardire, prima di prendere gli ordini minori - ero grande e grosso, a diciotto anni - una volta che ebbi l'ardire di dirgli che avrei voluto essere medico, avvocato, agrimensore, o altro ma non sacerdote, mio padre mi schiaffeggiò come un ragazzino, mi saziò di pugni e pedate - era manesco, Dio l'abbia in gloria! - e cosí mi levò di capo ogni voglia di ribellarmi alla sua volontà. Ora dico che fece bene. Sono contento del mio stato; e quando osservo tanti altri che furono in seminario con me, e che buttarono via il collare anche dopo di aver ricevuto gli ordini minori, benedico quegli schiaffi, quei pugni, quelle pedate. - E se suo padre si fosse ingannato? Se lei fosse riuscito un cattivo prete? - Bisogna aver fede in Dio, marchesina! ... Che cosa dovrò dunque riferire alla marchesa? Attende ansiosamente la risposta, povera signora. Forse, se dipendesse da lei ... - Ditele che le chiedo perdono del dispiacere che le faccio, ma che rifiuto, rifiuto ... rifiuto! Mi lascino in pace. Vogliono sbarazzarsi di me? Io non do noia a nessuno in questa casa ... Perché mio padre dovrebbe mantenere la sua parola al barone? ... Poteva darla? - Allora ... - rispose don Paolo, esitando - Allora sarà meglio fare cosí. Dia retta al mio consiglio. Io riferirò al marchese e alla marchesa che voscenza, da figlia buona e obbediente, si sottomette alla loro volontà ... Mi lasci dire. La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

IL Santo

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Fogazzaro, Antonio 7 occorrenze

Mi pare che per lui il Cristianesimo sia sopra tutto azione e Vita secondo lo spirito di Cristo, del Cristo risorto che vive sempre in mezzo a noi, del quale noi abbiamo, com'egli dice, l'esperienza. Mi pare che la sua propaganda religiosa non abbia per oggetto il Credo di una Chiesa cristiana piuttosto che di un'altra, benché senza dubbio la santità del suo vivere sia rigorosamente cattolica. Quando l'ho inteso parlare di dogmi con Giovanni non era mai per discutere le differenze fra Chiesa e Chiesa, era piuttosto per aprire certe formole della Fede e mostrare la luce grande che n'esciva aprendole in un certo modo. In questo Giovanni è Maestro ma quando parla Giovanni si sente sopra tutto che nella sua mente vi ha un sapere immenso, e quando parla Maironi si sente sopra tutto che nel suo cuore vi ha il Cristo vivo, il Cristo risorto, e ci si accende. Per essere interamente, scrupolosamente sincera, ti dirò che se non credo ch'egli desideri di convertirmi, però non posso esserne certissima. Eravamo un giorno nell'uliveto. Egli e Giovanni discorrevano di un libro tedesco sull'essenza del Cristianesimo che pare aver fatto rumore ed è stato scritto da un teologo protestante. Maironi osservava come questo protestante, quando parla del Cattolicismo, ne parli colla più onesta attenzione d'imparzialità, ma come in fatto non conosca la religione cattolica. Secondo lui nessun protestante la conosce, son tutti pieni di pregiudizi, giudicano essenziali al Cattolicismo certe alterazioni della sua pratica, esteriori e sanabili. C'era lì un panierino di albicocche ed egli ne tolse una bellissima, però un poco guasta. "Ecco" disse "un frutto guasto. Se io offro questo frutto a uno che non conosce ma vuole esser gentile, mi dice che vi è del sano e del buono ma che pur troppo vi è anche del malato e che perciò egli, con dispiacere, non lo prenderà. Così parla del Cattolicismo questo protestante insigne. Ma se io offro il frutto a uno che conosce, egli lo accetterà quand'anche fosse tutto putrido e porrà il nocciuolo immortale nel proprio terreno con la speranza di avere albicocche bellissime e sane." Il discorso era rivolto a Giovanni, ma gli occhi guardavano sempre me. Devo soggiungere che anche a Jenne egli mi aveva detto d'imparare a conoscere il Cattolicismo. A ogni modo se io rimango protestante non è per il conoscere e il non conoscere, è perché così vogliono i miei sentimenti più sacri. Mia cara Jeanne, vi ha un'altra cosa che ti voglio schiettamente dire. Sospetto che tu sia gelosa. Ho paura che tu non possa comprendere il dolore indicibile che mi faresti se lo fossi veramente; ho paura che tu non possa comprendere la gravità immensa dell'offesa che faresti a lui prima e poi anche a me. Adesso io ti apro il mio cuore. Avrei rimorso di non farlo, amica mia; rimorso rispetto a te, rispetto a lui, rispetto a me stessa. Quanto a lui, egli è buono e dolce a tutti coloro che avvicina ma in modo particolare ai più umili, e forse tu potresti esser gelosa della vecchia di Subiaco che viene in casa per i bassi servizî. Con Maria e con me la sua bontà e dolcezza si mostrano silenziosamente più che con parole. Con noi egli è sereno, semplice, affabile; non ha mai l'aria di sfuggirci ma non è mai accaduto che si trattenesse a parte né con l'una né con l'altra. Io sono agli occhi di lui un'anima e le anime sono per lui tutte come erano per mio Padre le menome pianticelle del suo grande giardino, ch'egli avrebbe voluto difendere dal gelo col calore del suo cuore, far crescere e fiorire colla comunicazione della sua Vita. Ma sono un'anima come un'altra, forse appunto colla differenza sola ch'egli mi giudica più lontana dalla Verità e perciò più minacciata dal gelo; benché questo non si vede nel suo contegno. Quanto a me, cara, io provo certamente un sentimento profondo per lui; ma sarebbe abbominevole dire che il mio sentimento somigli anche da lontano a quello che gli uomini chiamano col solito nome. Il mio sentimento è riverenza, è una specie di timore devoto, una specie di awe per cui io sento intorno alla sua persona come un circolo magico che non oserei passare. Nella sua presenza il mio cuore non ha un battito di più. Non lo so, direi piuttosto che ne abbia uno di meno. Non potrei essere più sincera di così, cara Jeanne. Dunque ti prego, ti supplico di non immaginare altra cosa. Per ora non penso al Belgio. Può darsi che vi faccia una corsa più tardi. Salutami tuo fratello, del quale vorrei sapere se ha finalmente portato il vecchio prete e la signorina in Fomalhaut. Ci penso anch'io qualche volta, alla sua Fomalhaut. Digli che se quest'inverno verrete a Roma faremo musica insieme. Addio, ti abbraccio. Benedetto a don Clemente. (Non spedita ) Padre mio, il Signore si è ritirato dall'anima mia, non dico per abbandonarmi al peccato ma per togliermi ogni senso della presenza Sua, e il desolato grido di Gesù Cristo sulla croce freme, a momenti, in tutto il mio essere. Se mi sforzo di richiamare ogni mio pensiero nel pensiero della Presenza Divina, ogni mio sentimento in un atto di abbandono alla Divina Volontà, non ne ho che pena e scoramento, mi par di essere una bestia caduta sotto il carico, che a un primo colpo di frusta fa uno sforzo, ricade; a un secondo colpo, a un terzo, a un quarto trasalisce appena, neppure tenta rialzarsi. Se apro il Vangelo o l' Imitazione, non vi trovo sapore. Se ripeto preghiere mi vince il tedio e ammutolisco. Se mi prostro sul pavimento, il pavimento mi gela. Se mi lamento a Dio di essere trattato così, il Suo silenzio mi par diventare più ostile. Se con l'autorità dei grandi mistici mi dico che ho torto di avere tanto affetto alle dolcezze spirituali, di soffrire tanto per la loro privazione, mi rispondo che hanno torto i mistici, che nello stato di grazia sensibile si cammina sicuri e che invece in questa notte spirituale senza stelle il cammino non si vede, non c'è altra regola che ritrarre il piede quando si sente molle l'erba, e ciò non basta, ch'è anche possibile di porlo addirittura, il piede, nel vuoto. Padre, Padre mio, mi apra le Sue braccia, ch'io senta il calore del Suo petto pieno di Dio! Vi sono cento ragioni per me di non venire a Santa Scolastica, ma in ogni modo preferirei scrivere. Ella è qui presente a me più che nel corpo; io mi unisco, mi confondo meglio a Lei col pensiero che se Le fossi davanti; e ho bisogno di confondermi a Lei col pensiero, ho bisogno di costringere l'anima mia dentro la Sua. Forse Le manderò questa lettera, forse neppure la manderò. Padre mio, Padre mio, mi fa bene di scriverti più che di parlarti, non ti potrei parlare colla foga che ora mi viene alla penna e non mi verrebbe alle labbra. Scrivendo, io parlo, io grido a te immortale, io ti spoglio dalle mortalità che sono anche nell'anima tua e che mi romperebbero, nella tua presenza, questa foga, delle mortalità di conoscenze incomplete delle cose, di prudenze che ti consiglierebbero veli al tuo pensiero. No, non te la spedirò questa lettera, eppure tu l'avrai; l'arderò, eppure tu l'avrai, sì, tu l'avrai, non è possibile che il mio tacito grido non ti raggiunga, forse adesso nelle tenebre della notte, mentre dormi, forse fra due ore, ancora nelle tenebre della notte, mentre preghi con i fratelli nella dolce Chiesa dove tanto abbiamo adorato insieme. Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

"Abbiamo notizie" diss'egli. "Possiamo assicurarvi fin d'ora che il Santo non è in carcere!" Scoppiarono dei viva, dei bravo, degli applausi. "Ma dov'egli sia" proseguì l'oratore "propriamente non si sa." Urla e fischi. L'oratore allibbì e dopo essersi debolmente provato di parlare, cedette alla burrasca e calò dai suoi rostri viventi. Ma un'altro dei sei, più gagliardo e ardito, balzò su a rispondere violentemente. Allora le urla, le invettive raddoppiarono. "Vi hanno infinocchiato!" gridava la gente. "Scemi che siete! In prigione lo hanno cacciato! In prigione!" Il grido si diffonde, l'odono i lontani che altro non hanno udito e persino coloro che né questo né altro udirono, sentono attraversarsi il petto dalle magnetiche onde oscure dell'ira. Parecchi urlano: "abbasso!" senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l'uno e chi l'altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l'uscio dell'assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla Selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch'egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l'amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. "Io non volevo credere" conchiude il tabaccaio "ma ecco! Adesso dica lui." Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l'osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant' Anselmo e ch'ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L'oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c'era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all'udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell'altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant' Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l'oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l'osteria. Entrarono nel cortile. L'ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l'ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell'interrogatorio. Uno di essi chiamò l'ostessa, le parlò a voce alta: "Che voglion sapere? L'ho veduto io l'uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa." La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la Verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n'andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. "Io?" rispose colui. "Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!" "E allora?" fece l'ostessa. "Dove sarà andato?" "Vada a cercarlo in cantina" rispose il ferroviere "che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora."

Per questo abbiamo bisogno di creare un'opinione che induca l'autorità legittima ad agire di conformità sia pure fra venti, trenta, cinquant'anni. Ora noi che pensiamo così siamo affatto disgregati. Non sappiamo l'uno dell'altro, eccetto i pochi che pubblicano articoli o libri. Molto probabilmente vi è nel mondo cattolico una grandissima quantità di persone religiose e colte che pensano come noi. Io ho pensato che sarebbe utilissimo, per la propaganda dalle nostre idee, almeno di conoscerci. Stasera ci si riunisce in pochi per una prima intesa." Mentre Giovanni parlava, gli altri tenevano gli occhi sull' Abate ginevrino. L' Abate guardava nel suo piatto. Seguì un breve silenzio. Giovanni lo ruppe il primo. "Il professore Dane" diss'egli "non Le aveva detto questo?" "Sì sì" rispose l' Abate, levando finalmente gli occhi dal piatto "qualche cosa di simile." Il tono fu d'uno che approvasse poco. Ma perché, allora, era venuto? Don Paolo faceva smorfie di malcontento, gli altri tacevano. Vi fu un momento d'imbarazzo. Marinier disse: "Ne parleremo stasera." "Sì" ripeté Selva, tranquillo. "Ne riparleremo stasera." Pensava che avrebbe trovato nell' Abate un avversario e che Dane aveva commesso un errore di giudizio e di tatto invitandolo alla riunione. Si confortò in pari tempo con la tacita riflessione che l'udirsi rappresentare tutte le obbiezioni possibili sarebbe utile; e che un amico del professore Dane sarebbe almeno onesto, non propalerebbe nomi e discorsi ancora da tacersi. Invece il giovine di Leynì si crucciava di questo pericolo, sapendo quante e quanto diverse amicizie tenesse l' Abate Marinier in Roma, dove dimorava da cinque anni per certi suoi studi storici; e si crucciava di non avere saputo della sua venuta in tempo di scriverne ai Selva, per suggerir loro che intraprendessero la sua conquista incominciando dal palato. La mensa di casa Selva, sempre nitidissima e fiorita, era, quanto ai cibi, molto parsimoniosa, molto semplice. I Selva non bevevano vino mai. Il vino chiaretto, acerbetto di Subiaco non poteva che inasprire un uomo avvezzo ai vini di Francia. La ragazza di Affile aveva già servito il caffè quando arrivarono, a un punto, don Clemente a piedi da Santa Scolastica, Dane, il Padre Salvati, e il professore Minucci in un legno a due cavalli da Subiaco. Ma don Clemente, ch'era seguito dal suo ortolano, vista la carrozza movere verso il cancello del villino e non dubitando che portasse gente a casa Selva, affrettò il passo perché Giovanni e l'ortolano potessero vedersi, parlarsi un minuto, prima della riunione. I Selva e i loro tre commensali si erano levati da cena e Maria, uscendo, a braccio del cavalleresco Abate Marinier, sulla terrazza, vide, benché annotasse già, il benedettino sul ripido sentiero che sale dal cancello aperto sulla via pubblica. Lo salutò dall'alto e lo pregò di aspettare, a piè della scala, che gli facessero lume. Scese ella stessa col lume la scala a chiocciola, accennò a don Clemente di volergli parlare e diede un'occhiata significativa all'uomo che gli stava dietro le spalle. Don Clemente si voltò a costui, gli disse di stare ad attenderlo lì fuori sotto le rubinie; e saliti, al muto invito della signora, alcuni scalini, sostò ad ascoltarla. Ella gli parlò, frettolosa, dei suoi tre ospiti e particolarmente dell' Abate Marinier. Disse che stava in pena per suo marito il quale aveva posto tanto amore e tanta fede nell'idea di questa associazione cattolica e ora si troverebbe a fronte di una inattesa opposizione. Desiderava che don Clemente lo sapesse, che fosse preparato. Glielo diceva lei perché suo marito non poteva in quel momento lasciare i suoi ospiti. E si congedava, nel tempo stesso, da don Clemente, non avendo intenzione, lei donna e tanto ignorante, di assistere alla seduta. Forse lo avrebbe riveduto fra pochi giorni, al monastero. Non era il Padre foresterario, egli? Ella verrebbe forse fra tre o quattro giorni a Santa scolastica con una sua sorella ... A questo punto la signora Selva alzò involontariamente il lume per vedere meglio il suo interlocutore in viso, e subito se ne pentì come di un mancato rispetto a quell'anima certamente santa, certamente pari di virile e verginale bellezza all'alta, snella persona, al viso eretto abitualmente in atto quasi di franca modestia militare, tanto nobile nella fronte spaziosa, negli occhi cerulei chiari, spiranti a un punto dolcezza femminea e maschio fuoco. "Ci sarà pure" disse a bassa voce, vergognando di sé "un'amica intima di mia sorella, certa signora Dessalle." Don Clemente voltò la testa di scatto, e Maria n'ebbe il contraccolpo, tremò. Era dunque lui! Egli le rivolse subito il viso da capo. Era un po' acceso ma composto. "Scusi" diss'egli "questa signora, come si chiama?" "Chi? La Dessalle?" "Sì." "Si chiama Jeanne." "Che età può avere?" "Non lo so. Tra i trenta e i trentacinque anni direi." Adesso Maria non comprendeva più. Il Padre faceva queste domande con tanta indifferente calma! Ne arrischiò una essa pure. "Lei la conosce, Padre?" Don Clemente non rispose. Sopraggiungeva in quel momento il povero gottoso Dane, che con grande stento si era trascinato su dal cancello a braccio del professore Minucci. Erano amici di casa l'uno e l'altro; la signora Selva fece loro un'accoglienza gentile ma lievemente distratta. La seduta si tenne nello studiolo di Giovanni. Era così piccolo che il bollente don Farè, non potendosi tenere aperte le finestre per un dovuto riguardo ai reumi di Dane, vi si sentiva soffocare e lo disse con la sua rudezza lombarda. Gli altri finsero di non udire, meno di Leynì, che gli accennò silenziosamente di non insistere, e Giovanni che aperse l'uscio del corridoio e l'altro vicino che dal corridoio mette sulla terrazza. Dane sentì subito un odore di bosco umido e bisognò chiudere. Sullo scrittoio ardeva una vecchia lampada a petrolio. Il professore Minucci soffriva di occhi e chiese timidamente un paralume, che fu cercato, trovato e posto. Don Paolo si fremette dentro: "questa è un'infermeria!" e anche il suo amico di Leynì, a cui pareva che tante piccole cure si dovessero in quel momento dimenticare, ebbe uno spiacevole senso di freddo. Lo ebbe lo stesso Giovanni ma riflesso; sentì l'impressione che del Dane e forse anche del Minucci doveano riportare coloro, fra i presenti, che non li conoscevano. Egli li conosceva. Il Dane, con tutti i suoi reumi e i nervi e i sessantadue anni, possedeva, oltre al sapere grande, una indomita vigoria di spirito, un coraggio morale a tutta prova. Andrea Minucci, malgrado il biondo pelo rabbuffato, gli occhiali, certa rigidezza di movimenti, che gli davano un aspetto di erudito tedesco, era una giovane anima delle più ardenti, provata dalla Vita, non effervescente alla superficie come l'anima del prete lombardo, ma chiusa nel proprio fuoco, severa, probabilmente più forte. Giovanni prese la parola con animo franco. Ringraziò i presenti e scusò gli assenti, il frate e il prete, dolendosi però molto che mancassero. Disse che a ogni modo la loro adesione era sicura e insistette sul valore di quest'adesione. Soggiunse parlando più alto e più lento, tenendo gli occhi sull' Abate Marinier, che per ora stimava prudente non divulgare niente né della riunione, né delle deliberazioni che vi si prendessero; e pregò tutti a considerarsi legati al silenzio da un impegno di onore. Quindi espose l'idea che aveva concepita, lo scopo della riunione, un po' più diffusamente che non avesse fatto a cena. "E adesso" conchiuse "ciascuno dica quel che pensa." Seguì un silenzio profondo. L' Abate Marinier stava per parlare quando si alzò in piedi, stentatamente, Dane. Il suo pallido viso scarno, fine, pregno d'intelletto, era atteggiato a gravità solenne. "Io credo" diss'egli in un italiano esotico, rigido e tuttavia caldo di Vita "che trovandoci noi sul cominciamento di una comune azione religiosa, dobbiamo fare due cose; subito! Prima cosa! Dobbiamo raccogliere l'anima nostra in Dio, silenziosamente, ciascuno la sua, fino a sentire la presenza, in noi, di Dio stesso, il desiderio Suo stesso, nel nostro cuore, della Sua propria gloria. È questo che io faccio e prego fare con me." Ciò detto, il professore Dane s'incrociò le braccia sul petto, piegò il capo, chiuse gli occhi. Tutti si alzarono e, meno l' Abate Marinier, giunsero le mani. L' Abate se le raccolse al petto con un ampio gesto, abbracciando l'aria. Si poté udire un gemer dolce della lucerna, un passo al piano terreno. Marinier fu il primo a guardar sottecchi se gli altri pregavano ancora. Dane rialzò il capo e disse: "Amen." "Seconda cosa!" soggiunse. "Noi ci proponiamo di obbedire sempre l'autorità ecclesiastica legittima ..." Don Paolo Farè scattò. "Secondo!" Un vibrare di subiti pensamenti, un fremere sordo di parole non nate scosse ogni persona. Dane disse lentamente: "esercitata con le debite norme." Quel moto discese a un mormorio di consenso, posò. Dane riprese: "Ancora questo! Mai non sarà odio né su nostro labbro, né in nostro petto verso nessuno!" Don Paolo scattò da capo. "Odio no ma sdegno sì! Circumspiciens eos cum ira!" "Sì" disse don Clemente con la sua dolce voce velata "quando avremo edificato Cristo in noi, quando sentiremo una collera di puro amore." Don Paolo, che gli stava vicino, non rispose niente, lo guardò con le lagrime agli occhi, gli afferrò una mano per baciargliela. Il benedettino la ritrasse spaventato, tutto una fiamma in viso. "E non edificheremo Cristo in noi" disse Giovanni, commosso anche lui, felice di quel mistico soffio che gli pareva spirare nell'adunanza "se non purificheremo nell'amore le nostre idee di riforma; se, quando venisse il momento di operare, non ci purificheremo prima le mani e gli strumenti. Questo sdegno, questa ira che Lei, don Paolo, dice, è una grande potenza del Maligno sopra di noi, appunto perché ha un'apparenza e qualche volta, come nei Santi, una sostanza di bontà. In noi è quasi sempre vera inimicizia perché non sappiamo amare. La preghiera a me più cara dopo il Pater noster è la preghiera dell' Unità, la preghiera che ci unisce allo spirito di Cristo quando prega il Padre così: "ut et ipsi in nobis unum sint." Abbiamo sempre il desiderio e la speranza dell'unità in Dio con i fratelli che sono divisi da noi nelle idee. E adesso, dunque, dite se accettate la proposta di fondare l'associazione che io vi propongo. Prima discutete questo e poi, se la proposta è accettata, si vedrà in qual modo sia da porla in atto." Don Paolo esclamò impetuosamente che il principio nemmanco era da discutere e Minucci osservò in tono sommesso che lo scopo della riunione era stato conosciuto da tutti i presenti prima d'intervenire, che perciò, intervenendo, essi lo avevano implicitamente approvato, avevano implicitamente consentito di legarsi per un'azione comune, salvo appunto a decidere sui modi e le forme. L' Abate Marinier chiese di parlare. "Me ne rincresce veramente" diss'egli sorridendo, "ma per legarmi io non ho portato con me il menomo filo. Io sono pure di coloro che vedono molte cose andar male nella Chiesa e tuttavia, quando il signor Selva mi ha bene spiegato, prima a cena e ora qui, la sua idea che non avevo bene compresa dal mio amico professore Dane, mi si sono affacciate obbiezioni che credo serie." "Già" pensò Minucci che aveva udito parlare di certe ambizioni del Marinier "se vuoi far carriera non ti devi mettere con noi." E soggiunse forte: "Dica!" "In primo luogo, signori" cominciò il fine Abate "mi pare che abbiate principiato dalla seconda riunione. Dirò con un rispetto grande che voi mi parete bravissime persone, le quali si mettano festosamente a sedere per giuocare insieme alle carte, e non possono andare avanti perché uno ha le carte italiane, un altro le francesi, un altro le tedesche e non s'intendono. Io ho udito parlare di idee comuni, ma forse vi ha fra noi piuttosto una comunanza di idee negative. Noi siamo d'accordo, probabilmente, in questo, che la Chiesa Cattolica è venuta somigliando a un tempio antichissimo di grande semplicità originaria, di grande spiritualità, che il seicento, il settecento e l'ottocento hanno infarcito di pasticci. Forse i più maligni di voi diranno pure che vi si parla forte solamente una lingua morta, che le lingue vive appena vi si possono parlare piano e che il sole vi prende alle finestre un colore falso. Ma io non posso credere che siamo poi tutti d'accordo nella qualità e nella quantità dei rimedii. Prima dunque di iniziare questa frammassoneria cattolica, io credo che vi converrebbe intendervi circa le riforme. Dirò di più; io credo che anche quando fosse fra voi un pienissimo accordo nelle idee, io non vi consiglierei di legarvi con un vincolo sensibile come propone il signor Selva. La mia obbiezione è di una natura molto delicata. Voi pensate certo di poter navigare sicuri sott'acqua come pesci cauti, e non pensate che un occhio acuto di Sommo Pescatore o vice-Pescatore vi può scoprire benissimo e un buon colpo di fiocina cogliere. Ora io non consiglierei mai ai pesci più fini, più saporiti, più ricercati, di legarsi insieme. Voi capite cosa può succedere quando uno è colto e tirato su. E, voi lo sapete bene, il grande Pescatore di Galilea metteva i pesciolini nel suo vivaio, ma il grande Pescatore di Roma li frigge." "Questa è buona!" fece don Paolo con un sussulto di riso. Gli altri tacevano, gelidi. L' Abate continuò: "Non credo poi che con questa lega possiate far niente di buono. Le associazioni fanno progredire forse i salari, forse le industrie, forse i commerci; la scienza e la Verità, no. Le riforme si faranno un giorno, perché le idee sono più forti degli uomini e camminano; ma voi, armandole in guerra e facendole marciare per compagnie, le esporrete a un fuoco terribile che le arresterà per un pezzo. Sono gl'individui, i Messia, che fanno progredire la scienza e la religione. Vi è un Santo fra voi? Oppure sapete dove prenderlo? Prendetelo e mandatelo avanti. Parola ardente, grande carità, due o tre piccoli miracoli, suggeritegli quello che deve dire e il vostro Messia farà più che tutti voi insieme." L' Abate tacque e Giovanni prese la parola. "Forse il signor Abate" diss'egli "non ha potuto formarsi ancora un giusto concetto della unione che noi desideriamo. Noi ci siamo associati testé in una preghiera silenziosa e intensa, cercando di tenerci uniti nella Presenza Divina. Questo indica il carattere della nostra unione. Considerando i mali che affliggono la Chiesa, i quali, in sostanza, sono disaccordi del suo elemento mutabile umano con il suo elemento immutabile di Verità Divina, noi ci vogliamo unire in Dio Verità col desiderio ch' Egli tolga questi disaccordi; e vogliamo sentirci uniti. Una tale unione non ha bisogno di intelligenze circa idee particolari, benché alcuni di noi ne abbiamo alquante di comuni. Noi non pensiamo di promuovere un'azione collettiva né pubblica né privata per attuare una riforma o l'altra. Io sono abbastanza vecchio per ricordare i tempi del dominio austriaco. Se i patrioti lombardi e veneti si raccoglievano allora a parlare di politica, non era mica sempre per congiure, per atti di rivoluzione; era per comunicarsi notizie, per conoscersi, per tener viva la fiamma dell'idea. È questo che noi vogliamo fare nel campo religioso. Lo creda il signor Abate Marinier, quell'accordo negativo ch'egli diceva può bastare benissimo. Facciamo che si allarghi, che abbracci la maggioranza dei fedeli intelligenti, che salga nella gerarchia; vedrà che gli accordi positivi vi matureranno dentro occultamente come semi vitali dentro la spoglia caduca del frutto. Sì, basta un accordo negativo. Basta di sentire che la Chiesa di Cristo soffre, per unirci nell'amore di nostra Madre e almeno pregare per essa, noi e i nostri fratelli che, come noi, la sentono soffrire! Che ne dice, signor Abate?" L' Abate mormorò con un lievissimo sorriso: "C'est beau mais ce n'est pas la logique." Don Paolo scattò: "Ma che logica!" "Ah!" rispose il Marinier con una maligna faccia compunta. "Se rinunciate alla logica ...!" Don Paolo, tutto acceso, era per protestare ma il professore Dane gli accennò di chetarsi. "Noi non vogliamo rinunciare alla logica" diss'egli. "Solamente non è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di sentimento, di amore, di fede, come è facile misurare il valore logico di una conclusione in materia di geometria. Nella materia nostra il procedimento logico è occulto. Certo il mio caro amico Marinier, una delle menti acutissime che io conosco, non ha voluto dire questa cosa in risposta al mio caro amico Selva, che quando una persona molto amata da noi cade inferma, è necessario a noi di accordarci sulla cura che le faremo, prima di correre insieme al suo letto!" "Queste sono bellissime figure" disse l' Abate Marinier alquanto vivacemente. "Ma sapete bene che le similitudini non sono argomenti!" Don Clemente, che stava in piedi nell'angolo tra l'uscio del corridoio e la finestra, e il professore Minucci seduto presso a lui, fecero atto di parlare. Subito si arrestarono, volendo ciascuno dei due cedere la parola all'altro. Selva propose che prima parlasse il monaco. Tutti guardarono a quel nobile viso di arcangelo, arrossente ma eretto. Don Clemente esitò un poco, e quindi parlò con la sua voce soffice, velata di modestia: "Il signor Abate Marinier ha detto una cosa che io credo molto vera. Ha detto: ci vuole un Santo. Io pure lo credo. Chi sa? Io non dispero che possa già esistere." "Lui" mormorò don Paolo. "Ora" proseguì don Clemente "io vorrei dire al signor Abate Marinier: siamo in qualche maniera i profeti di questo Santo, di questo Messia, prepariamo le sue vie, che poi significa solo far sentire universalmente il bisogno di un rinnovamento di tutto che nella religione nostra è veste, non corpo della Verità, anche se questo rinnovamento sarà doloroso per certe coscienze. Ingemiscit et parturit! E far sentire tutto ciò stando sopra un terreno assolutamente cattolico, aspettando le nuove leggi dalle autorità vecchie, dimostrando però che se non si cambiano le vesti portate da tanto tempo, fra tante intemperie, nessuna persona civile si avvicinerà più a noi, e Dio non voglia che molti di noi le svestano senza permesso, per un disgusto insopportabile. Vorrei anche dire al signor Abate Marinier, se me lo permette: non abbiamo troppi timori umani!" Un mormorio caldo di assenso gli rispose e Minucci scattò tutto vibrante. Mentre parlava l' Abate Marinier, di Leynì e Selva lo avevano visto bollire accigliato; e appunto Giovanni, che conosceva il carattere fiero di quel mistico asceta, si era proposto, facendo parlare prima don Clemente, di dargli tempo a chetarsi. Egli scattò. La parola non gli veniva fluida, gli si rompeva per soverchio impeto, e rotta gli sgorgava dal labbro a ondate, precisa, però, e potente nel vigoroso accento romano: "Ecco! Non abbiamo timori umani! Noi vogliamo cose troppo grandi e le vogliamo troppo fortemente per avere timori umani! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivo, quanti sentiamo che il concetto della Via, della Verità e della Vita si ... si ... si ...- si dilata, ecco, si dilata nel nostro cuore, nella nostra mente! E rompe tante - come dirò? - vecchie fasce di formole che ci stringono, che ci soffocano, che soffocherebbero la Chiesa, se la Chiesa fosse mortale! Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente, quanti abbiamo sete - sete, signor Abate Marinier! Sete! Sete! - che la nostra fede, se perde di estensione, cresca di intensità - a cento doppi, cresca, viva Dio! - e possa radiare fuori di noi, e possa, dico, purificare come il fuoco, prima il pensiero e poi l'azione cattolica - ecco. Noi vogliamo comunicare nel Cristo vivente quanti sentiamo ch'Egli prepara una lenta ma immensa trasformazione religiosa per opera di profeti e di Santi, la quale si opererà con sacrificio, con dolore, con divisione di cuori; quanti sentiamo che i profeti sono sacri al soffrire e che queste cose non ci vengono rivelate dalla carne o dal sangue ma dall' Iddio vivo nelle anime nostre! Comunicare, vogliamo, tutti, di ogni paese, ordinare la nostra azione. Massoneria Cattolica? Sì, Massoneria delle Catacombe. Lei teme, signor Abate? Teme che si taglino tante teste con un colpo solo? Io dirò: dov'è la scure per un tal colpo? Uno alla volta tutti si possono colpire: oggi il professore Dane, ad esempio, domani don Farè, posdomani qui il Padre; ma il giorno in cui quella fantastica fiocina del signor Abate Marinier pescasse, attaccati a un filo, laici di grido, preti, frati, vescovi, cardinali fors'anche, quale sarà, ditemi, il pescatore, piccolo o grande, che non lascerà cadere nell'acqua, spaventato, la fiocina e ogni cosa? - Ma poi mi perdoni, signor Abate, se io dico a Lei e ai prudenti come Lei: dov'è la vostra fede? Esiterete voi, per paura di Pietro, a servire Cristo? Uniamoci contro il fanatismo che lo ha crocifisso e che avvelena ora la Sua Chiesa e se ne avremo a soffrire, ringraziamone il Padre: "beati estis cum persecuti vos fuerint et dixerint omne malum adversum vos, mentientes, propter me." Don Paolo Farè saltò in piedi e abbracciò l'oratore. Di Leynì si affisava in lui con occhi accesi di entusiasmo. Dane, Selva, don Clemente, l'altro frate tacevano, imbarazzati, sentendo, specie i tre ecclesiastici, che Minucci era trascorso troppo, che le sue frasi sulla estensione e la intensità della fede, sul timore di Pietro, non erano misurate, che tutta l'intonazione del suo discorso era stata troppo bellicosa e non si accordava né col mistico esordio di Dane né con le parole usate da Selva a delineare il carattere dell'unione proposta. L' Abate di Ginevra non aveva levato un momento dal viso di Minucci, mentr'egli parlava, i suoi piccoli occhi brillanti. Guardò l'amplesso di don Paolo con un misto d'ironia e di pietà, poi si alzò in piedi: "Sta bene" diss'egli. "Io non so se il mio amico Dane in particolare divida le opinioni del Signore. Veramente ne dubito un poco. Il Signore ha nominato Pietro. Ecco, mi pare che qui ci si dispone a uscire dalla barca di Pietro sperando forse di camminare sopra le onde. Io dico umilmente che non ho fede abbastanza e andrei subito al fondo. Io intendo di restare nella barca e forse tutt'al più adoperarvi qualche piccolo remo secondo la mia intenzione, perché, come ha detto il Signore, sono molto pauroso. È dunque necessario che ci separiamo e non mi resta che a domandarvi perdono di essere venuto. Ho anche bisogno di una piccola passeggiata per la mia vile digestione.- "Caro amico" soggiunse rivolgendosi a Dane "ci ritroveremo all'Aniene." E mosse verso Selva con la mano stesa, per accomiatarsi. Subito gli furono tutti attorno, meno don Paolo e Minucci, per non lasciarlo partire. Egli insisteva tranquillo, arrestava ora con un gelido sorrisetto, ora con una parolina graziosamente sarcastica, ora con un gesto elegante gli assalitori troppo veementi. Di Leynì si voltò a Farè, gli accennò di unirsi agli altri; ma il focoso don Paolo gli rispose con una violenta spallata, con una smorfia di fastidio. Intanto dal gruppo che attorniava il Marinier una voce toscana si alzò sopra le altre: "Stia bono! Non si è ancora deciso niente! Aspetti! Io non ho ancora detto la mia!" Era il Padre Salvati, scolopio, che aveva parlato; un vecchio dai capelli candidi, dal volto rubizzo, dagli occhi vivaci. "Non si è ancora deciso niente!" ripeté. "Io, per esempio, per l'unione ci sto ma io vorrei una cosa e i discorsi che si son fatti me ne arieggiano un'altra. Progresso intellettuale, sta bene; rinnovamento delle formole della fede secondo vogliono i tempi, sta bene; riforma cattolica, benissimo! Io sto con Raffaello Lambruschini, che era un grand'omo; io sto con i Pensieri di un solitario ma per il signor professore Minucci il carattere della riforma mi pare che avrebbe a essere sopra tutto intellettuale e questo, scusate ..." Qui Dane alzò la sua bianca, piccola mano di dama. "Permetta, Padre" diss'egli. "Il mio caro amico Marinier vede che si ritorna a discutere. Io lo prego di rimettersi a sedere." L' Abate levò un poco le ciglia in su, mise un sospiro scettico e obbedì. Gli altri sedettero pure, soddisfatti. Non si fidavano della discrezione dell' Abate, sarebbe stato un grosso guaio ch'egli fosse partito ab irato . Il Padre Salvati riprese a parlare. Egli era contrario a che s'imprimesse al movimento riformista un carattere sopra tutto intellettuale, non tanto per il pericolo di Roma quanto per il pericolo di turbare nella loro fede semplice una quantità immensa di anime tranquille. Voleva che l' Unione si proponesse anzi tutto una grande opera morale, il richiamo dei credenti alla pratica della parola evangelica. Illuminare i cuori era secondo lui il primo dovere di uomini, che aspiravano a illuminare gl'intelletti. Evidentemente non importava tanto di trasformare secondo un ossequio razionale la fede cattolica nella Bibbia, quanto di rendere effettiva la fede cattolica nella parola di Cristo. Bisognava dimostrare che generalmente dai fedeli si onora Cristo con le labbra ma che il cuore del popolo è lontano da lui; dimostrare quanto posto sia lasciato agli egoismi da certe pietà fervorose che credono santificarsi ... Qui don Paolo e Minucci brontolarono: "Questo non c'entra." Il Salvati esclamò che c'entrava benissimo e che avessero la bontà di aspettare. Continuò a dire di un pervertimento generale nel concetto del dovere cristiano intorno alla ricerca e all'uso della ricchezza, pervertimento difficilissimo a raddrizzare perché indurato da secoli e secoli nelle coscienze cristiane con la piena complicità del clero. "Il tempo, signori" esclamò il vecchio frate "domanda un'azione francescana. Ora io non ne vedo segno. Vedo antichi Ordini religiosi che non hanno più forza di agire sulla Società. Vedo una Democrazia Cristiana amministrativa e politica che non ha lo spirito di S. Francesco, che non ama la santa Povertà. Vedo una società di studi francescani; trastulli intellettuali! Io intenderei che noi si provvedesse all'azione francescana. Dico se si vuole una riforma cattolica!" "Ma come?" domandò Farè. Minucci brontolò seccato: "Non è questo." Selva sentiva disgregarsi le anime che si erano unite in un primo slancio. Sentiva che Dane, Minucci, probabilmente anche Farè, intendevano, com'egli stesso intendeva, iniziare un movimento intellettuale e che quella divampata francescana era venuta fuor di tempo e fuor di luogo. Era tanto più inopportuna quanto più calda di Verità viva. Perché molta Verità c'era senza dubbio nelle parole del Padre Salvati, egli lo riconosceva, egli che si era più volte dibattuto nel pensiero il dubbio se non convenisse promovere, per il bene della Chiesa un'azione piuttosto morale che intellettuale. Ma egli non sentiva in sé le attitudini all'apostolato francescano e non le vedeva negli amici suoi, neppure nel più ardente, Luigi Minucci, un solitario, un asceta schivo della folla come lui, Selva. Le ragioni del Salvati valevano a guastare e non a edificare. Giovanni sentiva segrete ironie andare al Marinier e anche al Dane, di cui si conoscevano i gusti poco francescani, il palato difficile, i nervi delicati, gli affetti dati a cagnolini e a pappagalli. Se si voleva riescire a qualche cosa, conveniva correre al riparo. "Mi perdoni" diss'egli "il carissimo Padre Salvati se io gli osservo che il suo discorso, tanto caldo di spirito cristiano, è intempestivo. Mi pare ch'egli consenta con noi nel desiderio di una riforma cattolica. Stasera non è davanti a noi che una proposta; quella di promuovere una specie di Lega fra quanti hanno lo stesso desiderio. Ora decidiamo questo!" Lo scolopio non si arrese. Non poteva comprendere una Lega inattiva, e un'azione secondo le idee degli intellettuali non gli piaceva. L' Abate ginevrino esclamò: "Je l'avais bien dit!" E si alzò per andarsene davvero, stavolta. Selva non lo permise, propose di sciogliere la seduta, pensando di richiamare l'indomani o più tardi il professore Dane, Minucci, di Leynì, Farè. Con Salvati non c'era niente a fare, ed era meglio lasciar partire Marinier dandogli a credere che tutto fosse andato a monte. Minucci indovinò il suo pensiero e tacque, l'inconsiderato don Paolo non capì nulla e strepitò che si doveva deliberare, votare subito. Selva, e per ossequio a Selva, di Leynì, lo fecero aspettare. Fremeva, però; fremeva contro lo svizzero, sopra tutto. Dane e don Clemente erano poco soddisfatti, quale per una ragione, quale per un'altra. Dane era molto irritato in cuor suo contro Marinier e si doleva di averlo portato con sé; don Clemente avrebbe voluto dire che le parole del Padre Salvati erano state molto belle e sante e non intempestive perché anzi era bene che ciascuno lavorasse giusta la vocazione propria, gl'intellettuali per una via, i francescani per un'altra. Colui che chiama provvederebbe a coordinare l'azione dei chiamati; le diverse vocazioni potevano benissimo stare insieme nella Lega. Avrebbe voluto dire così ma non fu pronto, lasciò passare il momento, anche per verecondia intellettuale, per paura di non dir bene, per un riguardo verso Selva, che desiderava evidentemente di troncare. E fu troncato, tutti si alzarono, uscirono sulla terrazzina, meno Dane e Giovanni. L' Abate Marinier intendeva recarsi l'indomani a Santa Scolastica e al Sacro Speco; poi, forse, ritornare a Roma per Olevano e Palestrina, una via nuova per lui. Chi gliela poteva indicare di lì? Gliela indicò don Clemente. Era la stessa che aveva percorso venendo da Subiaco. Passava lì sotto, valicava l' Aniene poco più a sinistra, sul ponte di S. Mauro, volgeva a destra, saliva verso i monti Affilani, là di fronte. L'aria veniva, odorata di boschi, dalla gola stretta ond'esce il fiume sonoro sotto i Conventi. Il cielo era coperto, salvo sul Francolano. Là sopra il gran monte nero tremolavano due stelle. Minucci le mostrò a di Leynì. "Guardi" diss'egli "quelle due stelline come sfavillano! Dante le direbbe le fiammelle di San Benedetto e di Santa Scolastica che sfavillano vedendo nell'ombra un'anima simile ad esse." "Voi parlate di Santi?" fece Marinier, accostandosi. "Io ho domandato poco fa se avete un Santo e vi ho augurato di possederne uno. Queste sono figure oratorie, perché so bene che non lo avete. Se lo aveste, il vostro Santo sarebbe subito ammonito dalla questura o spedito in China dalla Chiesa." "Ebbene?" rispose di Leynì "E se fosse ammonito?" "Se fosse ammonito oggi, sarebbe imprigionato domani." "Ebbene?" replicò il giovane. "E S. Paolo, signor Abate?" "Eh, mio caro, S. Paolo, S. Paolo ...!" Con questa reticenza l' Abate Marinier intendeva probabilmente dire che S. Paolo era S. Paolo. L'altro pensò invece che Marinier era Marinier. Don Clemente osservò che neppure tutti i Santi si potevano mandare in China. Perché non sarebbe laico il futuro Santo? "Questo lo credo" esclamò il Padre Salvati. Invece l'entusiasta don Faré si teneva certo che sarebbe Sommo Pontefice. L' Abate rise. "Idea semplice ed eccellente" diss'egli. "Ma io sento la carrozza che viene a pigliarci, Dane, me e chi vuol venire con noi a Subiaco; per cui vado a congedarmi dal signor Selva." Si chinò dal parapetto a cogliere una frondetta dell'olivo piantato nel terrazzo del piano inferiore. "Dovrò presentargli questo" disse. "E anche a Loro signori" soggiunse con un gesto grazioso, sorridendo. E uscì della terrazza. Si udì infatti, giù nella strada, il rumore di un legno a due cavalli che, venendo da Subiaco, girò lo scoglio sul quale la villetta è assisa e si fermò davanti al cancello. Pochi momenti dopo vennero nella terrazza Maria Selva e Dane col suo gran pastrano e il grandissimo cappello nero a cencio. Seguivano Giovanni e l' Abate. "Chi viene con noi?" disse Dane. Nessuno parlò. S'intesero, sul rumore fondo dell' Aniene, voci e passi che salivano dal cancello verso la villa. Minucci che stava sull'angolo di levante della terrazza, guardò e disse: "Signore. Due Signore." Maria trasalì. "Due Signore?" diss'ella. Balzò al parapetto, vide due figure chiare che salivano lentamente, facevano allora la prima svolta del ripido viottolo. Non era possibile distinguerne le forme, erano ancora troppo giù e faceva troppo scuro. Giovanni osservò che probabilmente si trattava di persone dirette al primo piano, a visitare i padroni di casa. Il professore Dane sorrise misteriosamente. "Potrebbero venire anche al secondo" diss'egli. Maria esclamò: "Lei sa qualche cosa!" e gridò abbasso: "Noemi! est-ce vous?" La voce limpida di Noemi rispose: "Oui, c'est nous!" Si udì un'altra voce femminile dirle forte: "Che bambina! Dovevi tacere!" Maria mise un piccolo grido di gioia e disparve, corse giù per la scala a chiocciola. "Lei sapeva, professore Dane?" fece Selva. Sì, Dane sapeva, aveva veduto a Roma la signora Dessalle, conosciuta da lui nella sua villa del Veneto, nella villa degli affreschi del Tiepolo. Suo fratello, il signor Carlino Dessalle, era rimasto a Firenze. Lei e la signorina d' Arxel volevano fare una sorpresa, gli avevano proibito di parlare. Il nome Dessalle richiamò alla mente di Selva, in un baleno, quello cui subito non aveva pensato, la presenza di don Clemente, il dubbio che fosse lui l'amante scomparso di quella signora, la necessità di evitare un incontro che poteva essere terribile per l'una e per l'altro. Del colloquio fra sua moglie e il Padre egli non sapeva, naturalmente. Intanto si udì Maria scender di corsa il sentiero, poi suonare le esclamazioni e i saluti festosi. Dane, inquieto per la troppo lunga fermata sulla terrazza, propose di scendere. Quelle Signore si erano certo servite della carrozza che veniva a prender lui! Anche don Clemente pareva molto inquieto. Selva si affrettò, dissimulando la commozione propria, di prenderlo a braccetto. "Se Lei non vuole imbarazzarsi con Signore" diss'egli "venga subito con me che La faccio passare dal Casino, per il sentiero alto." Il Padre parve contentissimo, i due partirono in gran fretta, il benedettino senza nemmeno salutare. "È anche tardi" diss'egli "Ho detto all' Abate, chiedendogli il permesso, che sarei ritornato alle nove e mezzo." Scesero a precipizio la scala a chiocciola; ma quando uscirono sul piazzaletto delle robinie, Jeanne Dessalle vi metteva il piede dall'altro capo con Maria e Noemi. Non era tanto buio, sotto le robinie, che Maria non potesse riconoscere suo marito e don Clemente nelle due ombre che uscivano di casa sua. Ella, che a fianco di Jeanne precedeva sua sorella, prontamente piegò e fece piegare a destra la sua vicina, verso il piccolo casino ch'è un'appendice della villa, voltando le spalle a questa. Dal canto suo, Selva, vedendo l'atto di sua moglie, prontamente sussurrò al Padre: "Scenda diritto, subito!" Ma non valse. Non valse perché Noemi, meravigliata di veder sua sorella svoltare a destra, si fermò esclamando: "Dove andate?" e don Clemente, forse per aver veduta questa signora ferma sulla sua via, invece di passare e scendere, andò a raccogliere l'ortolano che lo attendeva nell'angolo più oscuro del piazzaletto, dove il fianco della casa s'incontra col monte. Chiamò "Benedetto!" e si volse a Selva. "Se Lei volesse mostrargli il campicello?" Giovanni rispose: "A quest'ora?" mentre sua moglie diceva piano a Noemi: "C'è forestieri che partono, lasciamoli passare, restiamo qui al casino." Ella le accennò in pari tempo del capo così risolutamente che la Dessalle se ne avvide, pensò tosto a qualche mistero. "Perché?" disse. "Sono terribili?" E rallentò il passo. Invece Noemi che aveva afferrato l'intenzione della sorella, non però le ragioni occulte, mise troppo zelo a secondarla, abbracciò alla Vita le due compagne, le spinse verso il casino. Jeanne Dessalle ebbe un moto istintivo di ribellione, si voltò di botto dicendo: "che fai?" vide Selva che veniva alla loro volta e che subito salutò allargando le braccia, come per nascondere don Clemente, il quale, seguito dall'ortolano, passò frettolosamente a cinque passi da Jeanne, prese la discesa. Noemi, che al saluto di suo cognato si era pure voltata, corse ad abbracciarlo. Intanto Selva si compiacque di vedere che don Clemente era sfuggito all'incontro. Selva, scioltosi dall'abbraccio di Noemi, stese la mano a Jeanne, che non se ne avvide, mormorò, trasognata, qualche incomprensibile parola di saluto. In quel momento uscirono dalla villa Dane, Marinier, Faré, di Leynì, il Padre Salvati. I due Selva mossero loro incontro, lasciando Noemi e la Dessalle ad aspettare in disparte. I saluti di commiato furono abbastanza lunghi. Dane desiderava salutare anche la Dessalle. Maria non la scorse più dove l'aveva lasciata, suppose che lei e Noemi fossero entrate in casa girando alle loro spalle, s'incaricò dei saluti del professore. Finalmente quando i cinque discesero, accompagnati da Giovanni, si udì chiamare da Noemi: "Maria!" Un accento particolare nella voce di sua sorella le disse che era accaduto qualche cosa. Accorse; la signora Dessalle, seduta sopra un fascio di legna, nell'angolo lasciato cinque minuti prima dall'ortolano di Santa Scolastica, ripeteva con voce debole: "niente, niente, niente, adesso entriamo, adesso entriamo."Noemi, tutta palpitante, raccontò che l'amica si era sentita mancare a un tratto mentre quei signori discorrevano e che a lei era appena riuscito di trarla fino a quel fascio di legna. "Andiamo, andiamo" ripeté Jeanne e si sforzò di alzarsi, si trascinò, sorretta dalle altre due, fino all'uscio della villa, sedette sullo scalino, aspettando un po' d'acqua che poi assaggiò appena. Altro non volle e presto si rimise tanto da poter salire, adagio adagio, le scale. Si scusava ad ogni sosta e sorrideva; ma la fantesca che saliva innanzi col lume, a ritroso, venne quasi meno ella stessa vedendo quegli occhi smarriti, quelle labbra bianche, quel terribile pallore. La condussero al canapè del salottino; e là, dopo un momento di silenzioso abbandono a occhi chiusi, poté dire alla signora Selva, sorridendo ancora, ch'erano affetti di anemia e che c'era avvezza. Noemi e Maria si parlarono piano fra loro. Jeanne intese le parole "a letto" e assentì del capo con uno sguardo di gratitudine. Maria aveva disposto per lei e per Noemi la migliore camera del piccolo alloggio, la camera d'angolo opposta allo studio di Giovanni, dall'altra parte del corridoio. Mentre Jeanne vi si avviava stentatamente a braccio di Noemi, ritornò Selva che aveva accompagnato gli amici sino al cancello. Sua moglie ne udì il passo sulla scala, gli scese incontro, lo trattenne. Si parlarono al buio, sotto voce. Era dunque lui, ma come lo aveva riconosciuto? Eh, Giovanni aveva ben cercato di frapporsi, nel momento pericoloso, fra la signora e don Clemente, il Padre era anche passato quasi di corsa, ma egli aveva sospettato subito, perché la Dessalle non aveva quasi risposto al suo saluto, non gli aveva stesa la mano, era rimasta come una statua. Anche il Padre, quando aveva udito sulla terrazza ch'era arrivata la signora Dessalle, si era mostrato inquieto; poi aveva mostrato un vivo desiderio di evitarla; si era però serbato molto padrone di sé. Oh sì, molto padrone di sé! Questo era pure il giudizio di Maria che raccontò il suo colloquio con lui, lì in fondo alla scala. Marito e moglie salirono lentamente, compresi di quello straordinario dramma, di quel dolor mortale della povera donna, dell'impressione terribile che doveva aver riportato anche lui, dopo tutto, della notte che passerebbero l'uno e l'altra; pensosi di quel che accadrebbe l'indomani, di quel che farebbe lui, di quel che farebbe lei. "Per queste cose è bene di pregare, non è vero?" disse Maria. "Sì, cara, è bene. Preghiamo ch'ella sappia donare il suo amore e il suo dolore a Dio" rispose suo marito. Entrarono, tenendosi per mano, nella camera nuziale, divisa in due da un cortinaggio pesante. Si affacciarono alla finestra guardando il cielo, pregarono silenziosamente. Un alito di tramontana passò come un lamento per la quercia che pende sulla piccola Santa Maria della Febbre. "Povera creatura!" disse Maria. Parve a lei e a suo marito di amarsi anche più teneramente del solito e tuttavia sentirono ambedue, senza dirselo, che qualche cosa li tratteneva dal bacio dell'amore. Jeanne, appena Noemi ebbe chiuso dietro a sé l'uscio della loro camera, le si avvinghiò al collo, ruppe in singhiozzi irrefrenabili. La povera Noemi, avendo compreso, per l'effetto vedutone, che quell'ecclesiastico passato in fretta davanti all'amica sua era Maironi, si struggeva di pietà. Disse parole della più ardente, della più soave tenerezza con la voce di chi blandisce un bambino che soffre. Jeanne non rispondeva, singhiozzava sempre. "È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

Trasse una lettera e lesse: "Noi siamo stati educati nella fede cattolica e, fatti uomini, abbiamo accettato con un nuovo atto di libera volontà i suoi più ardui misteri, abbiamo lavorato per essa nel campo amministrativo e sociale; ma ora un altro mistero sorge sul nostro cammino e la nostra fede tituba davanti ad esso. La Chiesa cattolica che si proclama fonte di Verità, oggi contrasta la ricerca della Verità quando si esercita sui fondamenti suoi, sui libri sacri, sulle formole dei dogmi, sull'asserita infallibilità sua. Questo per noi significa ch'essa non ha più fede in sé stessa. La Chiesa cattolica che si proclama ministra della Vita, oggi incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente, oggi puntella tutte le sue cadenti vecchiaie. Questo per noi significa morte; lontana, ma ineluttabile morte. La Chiesa cattolica che proclama di volere rinnovar tutto in Cristo, è ostile a noi che vogliamo contendere ai nemici di Cristo la direzione del progresso sociale. Questo per noi significa, insieme a molti altri fatti, avere Cristo sulle labbra e non nel cuore. La Chiesa cattolica oggi è tale e Dio vorrà che noi le obbediamo ancora? Ecco perché noi veniamo a Voi. Che dobbiamo fare? Voi che vi professate cattolico e, predicate il cattolicismo e avete fama ..." Qui Benedetto troncò la lettura, dicendo: "Seguono parole inutili." E riprese a parlare: "Io rispondo a chi mi ha scritto così: - Ditemi; perché vi siete rivolti a me che mi professo cattolico? Mi credete voi forse, nella Chiesa, un Superiore dei Superiori? È forse per questo che se la parola mia sarà diversa da quella che voi dite la parola della Chiesa, voi riposerete in pace sulla parola mia? Udite una figura. Pellegrini assetati si accostano a una fonte famosa. Trovano una vasca piena di acqua stagnante, ingrata al gusto. La scaturigine viva è sul fondo della vasca, non la trovano. Si volgono mesti a un cavatore di pietre che lavora in una cava vicina. II cavatore offre loro acqua viva. Gli chiedono il nome della sorgente. "È la stessa della vasca" dice. "È tutta, nel sottosuolo, una sola corrente. Chi scava, trova." I pellegrini sitibondi siete voi, il cavatore oscuro sono io e la corrente occulta nel sottosuolo è la Verità, cattolica. La vasca non è la Chiesa, la Chiesa è tutto il campo corso dalle acque vive. Voi vi siete rivolti a me per un vostro inconscio conoscere che la Chiesa non è la sola gerarchia, è la universale assemblea dei fedeli, gens sancta , che dal fondo di ogni cuore cristiano può zampillare acqua viva della sorgente stessa, della stessa Verità. Inconscio conoscere; perché se non fosse inconscio, voi non direste - la Chiesa contrasta questo - la Chiesa soffoca quello - la Chiesa invecchia - la Chiesa ha Cristo sulle labbra e non nel cuore. "Intendetemi bene. Io non giudico la gerarchia, io riconosco e onoro l'autorità della gerarchia, io dico unicamente che la Chiesa non è la gerarchia sola. Udite un'altra similitudine. Vi ha nei pensieri di ciascun uomo una specie di gerarchia. Prendete un uomo giusto. Certe idee, certi propositi sono in lui pensieri dominanti, governano la sua Vita, e sono questi: compiere il dovere religioso, il dovere morale, il dovere civile. Egli ha dei varii doveri il concetto tradizionale che gliene fu appreso. Ma poi questa gerarchia d'idee ferme con impero non è tutto l'uomo. Sotto di essa vi è in lui una moltitudine di altre idee, una moltitudine di pensieri che continuamente si muovono e si modificano per le impressioni e l'esperienza della Vita. E sotto questi pensieri vi ha un'altra regione dell'anima, vi ha l'Inconscio dove facoltà occulte lavorano un lavoro occulto, dove avvengono i contatti mistici con Dio. Le idee dominanti esercitano autorità sul volere dell'uomo giusto, ma tutto l'altro mondo del suo pensiero ha pure una importanza immensa perché attinge continuamente alla Verità con l'esperienza del reale nell'esterno, con l'esperienza del Divino nell'interno, e quindi tende a rettificare le idee Superiori, le idee dominanti in quanto il loro elemento tradizionale non è adeguato al Vero; è per esse una perenne fonte di fresca Vita che le rinnova, una sorgente di autorità legittima fondata sulla natura delle cose, sul valore delle idee, più che sui decreti degli uomini. La Chiesa è tutto l'uomo, non un solo gruppo d'idee eminenti e dominanti; la Chiesa è la gerarchia con i suoi concetti tradizionali ed è il laicato con il suo continuo attingere alla realtà, con il suo continuo reagire sulla tradizione; la Chiesa è la teologia ufficiale ed è il tesoro inesausto della Verità Divina che reagisce sulla teologia ufficiale; la Chiesa non muore, la Chiesa non invecchia, la Chiesa ha nel cuore il Cristo vivente meglio che sulle labbra, la Chiesa è un laboratorio di Verità in azione continua e Iddio comanda che voi restiate nella Chiesa, che voi operiate nella Chiesa, che voi siate, nella Chiesa, sorgenti di acqua viva." Uno spirito di commozione e di ammirazione agitò l'uditorio con il rumore del vento. Benedetto, ch'era venuto alzando la voce, sorse in piedi. "Ma qual fede è la vostra" esclamò acceso "se parlate di uscire dalla Chiesa perché vi offendono certe dottrine antiquate dei suoi capi, certi decreti delle Congregazioni romane, certi indirizzi del governo di un Pontefice? Quali figli siete voi che parlate di rinnegare la madre perché veste come a voi non aggrada? È forse cambiato, per una veste, il seno materno? Quando piegati sovr'esso voi dite piangendo a Cristo le vostre infermità, e Cristo vi sana, pensate voi all'autenticità di un passo di S. Giovanni, al vero autore del quarto Vangelo o ai due Isaia? Quando raccolti sovr'esso vi unite a Cristo in sacramento, vi turbano i decreti dell' Indice o del Sant' Uffizio? Quando abbandonati sovr'esso entrate nelle tenebre della morte, vi è meno dolce la pace che a voi ne spira, perché un Papa è, contrario alla democrazia cristiana? "Amici miei, voi dite: noi abbiamo riposato all'ombra di questo albero, ma ora la sua corteccia si fende, la sua corteccia si dissecca, l'albero morrà, andiamo in cerca di un'altra ombra. L'albero non morrà. Se aveste orecchi udreste il moto della corteccia nuova che si forma, che avrà il suo periodo di Vita, che si fenderà, che si disseccherà alla sua volta perché un'altra corteccia le succeda. L'albero non muore, l'albero cresce. Benedetto sedette spossato e tacque. L'uditorio ebbe un moto e un fremito di onda verso di lui. Egli, lo arrestò alzando le mani. "Amici" riprese con voce stanca e dolce "ascoltatemi ancora. Scribi e Farisei, anziani e principi dei sacerdoti zelanti contro le novità sono in ogni tempo e anche in quest'ora. Non ho a parlar di loro a voi, Iddio li giudicherà. Noi preghiamo per tutti coloro che non sanno quello che fanno. Ma forse nell'altro campo cattolico militante non si è senza peccato. Nell'altro campo si è inebbriati della idea di modernità. La modernità è buona ma l'eterno è migliore. Io temo che colà non si tenga l'eterno nel debito conto. Vi si attende molta salute alla Chiesa di Cristo dall'azione cattolica collettiva nel campo amministrativo e politico, azione di battaglia per la quale il Padre riceverà ingiuria dagli uomini, e non se ne attende abbastanza dalla luce delle opere buone di ciascun cristiano per la quale il Padre è glorificato. Supremo fine delle creature umane è glorificare il Padre. Ora gli uomini glorificano il Padre di coloro che hanno lo spirito di carità, di pace, di sapienza, di povertà, di purità, di fortezza, che adoperano per i fratelli le energie della Vita. Uno di questi giusti che professi e pratichi il Cattolicismo è profittevole alla gloria del Padre, di Cristo e della Chiesa più di molti Congressi, di molti Circoli, di molte vittorie elettorali cattoliche. "Ho inteso testé uno di voi mormorare: "e l'azione sociale?" L'azione sociale, amici miei, è sicuramente buona come opera di giustizia e di fraternità, ma, simili ai socialisti, certi cattolici la marchiano con il marchio delle loro opinioni religiose e politiche, rifiutano di accomunarvi gli uomini di buona volontà se non accettano quel marchio, respingono da sé il buon Samaritano e questo è abbominevole agli occhi di Dio. Improntano col marchio cattolico anche opere che sono strumenti di lucro e questo pure è abbominevole agli occhi di Dio. Predicano la giusta distribuzione della ricchezza ed è bene, ma troppo dimenticano di predicare insieme la povertà del cuore; e se lo ommettono deliberatamente per ragioni di opportunità, questo è abbominevole agli occhi di Dio. Purgate l'azione vostra di questi abbominii. Chiamate alle opere particolari di giustizia e di amore tutti gli uomini di buona volontà, contenti di esserne voi gli iniziatori. Predicate a ricchi e poveri, con la parola e con l'esempio, la povertà del cuore." L'uditorio ondeggiò confusamente, sospinto in parti diverse. Benedetto si raccolse un momento celando il viso fra le mani. "Voi mi avete domandato che fare?" diss'egli, scoprendo il viso. Pensò ancora un poco e riprese: "Io vedo nell'avvenire cattolici laici, zelatori di Cristo e della Verità, trovar modo di costituire unioni diverse dalle presenti. Si armeranno un giorno cavalieri dello Spirito Santo per l'associata difesa di Dio e della morale cristiana nel campo scientifico, artistico, civile, sociale, per l'associata difesa delle legittime libertà nel campo religioso, con certi particolari obblighi, non però di convivenza né di celibato, integrando l'ufficio del clero cattolico dal quale non avranno a dipendere come Ordine, ma solo come persone nella pratica individuale del Cattolicismo. Pregate che la volontà di Dio si manifesti circa quest' Opera nelle anime che la pensano; pregate ch'esse anime si spoglino lietamente della compiacenza di averla immaginata e della speranza di vederla compiuta, se Dio si rivela contrario ad essa. Se Dio si rivela favorevole, pregate che gli uomini la sappiano bene ordinare in ogni parte a gloria di Lui e a gloria della Chiesa. Amen." Egli aveva finito e nessuno si mosse. Tutti gli occhi lo fissavano, ansiosi, avidi di altre parole dopo le inattese ultime di tôno scuro e grande. Molti avrebbero voluto e non osarono rompere quel silenzio. Ma quando Benedetto si alzò e tutti gli si scostarono d'intorno a cerchio riverenti, si alzò pure il vecchio Signore dal viso rosso e dai capelli bianchi, e disse con voce rotta dalla emozione: "Ella riceverà oltraggi e battiture, sarà incoronato di spine e abbeverato di fiele, sarà deriso dai farisei e dai pagani, non vedrà l'avvenire che desidera, ma l'avvenire è per Lei, i discepoli dei discepoli suoi lo vedranno." Abbracciò Benedetto e lo baciò in fronte. Due o tre vicini batterono le mani timidamente, uno scroscio di applausi suonò nella sala. Benedetto, turbatissimo, accennò a un giovinetto biondo che lo aveva accompagnato, e questi corse a lui, proprio lucente in viso di commozione e di gioia. Qualcuno sussurrò: "Un discepolo." Altri soggiunse, piano: "Sì, e il prediletto." Il padrone di casa si prostrò, quasi, davanti a Benedetto con parole di ossequio e di gratitudine. Allora uno dei sacerdoti ardì pure farsi avanti, disse con voce commossa: "E per noi, Maestro, non avrà un consiglio?" "Non mi chiami Maestro" rispose Benedetto, tutto ancora turbato; "preghi luce a questi giovani, ai nostri Pastori e anche a me." Uscito ch'egli fu, si levò nella sala un crepitìo di voci vibrate, brevi e fioche, premendo ancora lo stupore sulle anime commosse. Poi la commozione scoppiò qua e là, forte, ruppe da ogni banda, urtandosi anche le ammirazioni fra loro nell'esaltare queste o quelle parole, queste o quelle idee del discorso, l'accento o lo sguardo dell'oratore, o lo spirito di santità diffuso nel suo volto, spirante anche dalla sua mano. Ma il padrone di casa congedò gli ospiti; con molte scuse, sì, con molte parole di cerimonia, ma con una fretta quasi scortese. Rimasto solo, aperse un uscio ch'era chiuso a chiave, s'inchinò dentro l'apertura. "Signore!" diss'egli. E spalancò l'uscio. Uno sciame di Signore irruppe nella sala vuota. Una signorina matura si slanciò addirittura verso il giovine, a mani giunte, esclamando: "Oh quanto Le siamo grate! Oh che Santo! Non so perché non siamo corse tutte fuori ad abbracciarlo!" "Cara" disse una signora con ironica flemma veneta, sorridendo nei due grandi belli occhi, "perché, fortunatamente per lui, l'uscio era chiuso a chiave." Erano dodici Signore. Il padrone di casa, professore Guarnacci, figlio dell'agente generale di una di queste, la marchesa Fermi, romana, le aveva raccontato della riunione che doveva tenersi in casa sua, del discorso che vi avrebbe pronunciato lo strano personaggio di cui si parlava già in Roma come di un agitatore religioso entusiasta e taumaturgo, popolare nel quartiere del Testaccio. La marchesa si era posta in capo di udirlo non veduta. Presi gli accordi col Guarnacci, aveva tratte nella congiura tre o quattro amiche e ciascuna di queste aveva ottenuto di aggregarsi delle appendici. Era una miscela curiosa, in vista. Molte avevano toilettes da società, due vestivano proprio come quacchere, una sola di nero. Le due quacchere, straniere, parevano impazzite dall'entusiasmo e fremevano contro la marchesa, una vecchia scettica, alquanto sarcastica, che diceva tranquillamente: "Sì, ha parlato bene ma però avrei voluto vedere la sua faccia mentre parlava." E dichiarando di saper giudicare gli uomini dalla faccia meglio che dalle parole, la vecchia marchesa rimproverò il Guarnacci di non aver praticato un buco nell'uscio o almeno levata la chiave dalla toppa. "Sei troppo Santo" diss'ella. "Non conosci le donne." Il Guarnacci rise, si scusò con l'ossequio dovuto alla padrona di suo Padre e affermò che Benedetto era bello come un angelo. Ma una giovine signora insipidetta, venuta, pensavano rabbiosamente le quacchere, Dio sa perché, uscì a dire quieta quieta che lo aveva veduto due volte e ch'era brutto. "Bisognerebbe conoscere la Sua idea di bellezza, signora" disse acremente una quacchera. E l'altra quacchera mise subito fuori, ma sottovoce per acuire la malignità espressamente, un velenoso: "Naturellement!" La signora insipidetta replicò, un poco arrossendo fra l'imbarazzo e il dispetto, ch'era magro, pallido; e le due quacchere si guardarono, si sorrisero con tacito disprezzo. Ma dove lo aveva veduto? Questo volevano sapere le altre dalla Insipidetta. " Eh! Sempre nel giardino di mia cognata" diss'ella. "Sempre nel giardino?" esclamò la marchesa. "È un angelo in piena terra o è un angelo in vaso?" La Insipidetta rise e le quacchere fulminarono la marchesa con gli occhi furiosi. Entrò il thè, compreso nell'invito del professore Guarnacci. "Bella discussione, eh?" disse piano la signora Albacina, moglie dell'onorevole Albacina, sottosegretario di Stato per l'Interno, all'orecchio della signora vestita di nero, che non aveva mai aperto bocca. Colei sorrise tristemente e non rispose. Il thè, servito dal professore e da una sua sorellina, ammorzò per un momento la conversazione che si riaccese sul discorso di Benedetto e diventò un guazzabuglio tale di ragionamenti senza ragione, di giudizi senza giudizio, di dottrine senza dottrina, che la signora silenziosa vestita di nero propose all' Albacina, con la quale era venuta, di andarsene. Ma in quel momento la marchesa Fermi, scovato un campanellino sopra una caminiera, si mise a scampanellare per ottenere silenzio. "Vorrei sapere di questo giardino" diss'ella. Le quacchere e la signorina matura, infervorate a discutere l'ortodossia cattolica di Benedetto, non avrebbero taciuto per dieci campanelli; ma la curiosità della signorina matura, all'udire la parola "giardino" scattò. Scattò fuori tutta intera. Altro che giardino! Il signor professore doveva raccontare tutto che sapeva di questo Padre Hecker italiano e laico. Un po' per sfoggio di cultura, un po' per avventatezza, ella aveva già battezzato Benedetto così. Allora la Insipidetta guardò l'orologio. La sua carrozza avrebbe dovuto trovarsi alla porta. La piccola Guarnacci disse che di carrozze ce n'erano già quattro o cinque. La Insipidetta voleva arrivare al Valle per il terzo atto della commedia. Due altre Signore avevano altri impegni e partirono con lei. La Fermi restò: "Fa presto, però, professore, " diss'ella, "perché stasera mia figlia ci aspetta, me e queste altre Signore di cui vedi le spalle." "Faccia prestissimo" disse, dispettosetta, la signorina matura. "Dopo parlerà per la povera gente che non mostra le spalle." Una forestiera bionda, molto scollata, bellissima, lanciò uno sguardo ineffabile allo povere coperte spallucce magre della dispettosa, che diventò rossa di rabbia come un gambero. "Allora" incominciò il professore "siccome la signora marchesa e forse anche le altre Signore che hanno fretta sanno già quanto so io del Santo di Jenne prima della sua partenza da Jenne, quello lo lascio. Io dunque un mese fa, in ottobre, neanche ricordavo di aver letto nei giornali, in giugno o in luglio, di questo Benedetto che predicava e faceva miracoli a Jenne, quando un giorno uscendo da S. Marcello m'incontrai in un tale Porretti che una volta scriveva nell'Osservatore e adesso non vi scrive più. Questo Porretti mi si accompagna, si parla della condanna dei libri di Giovanni Selva che si aspetta di giorno in giorno e, tra parentesi, non è ancora venuta, e Porretti mi dice che adesso in Roma c'è un amico di Selva, il quale farà parlare di sé più che lo stesso Selva. "Chi è?" faccio io. "II Santo di Jenne" dice. E mi racconta questo. L'uomo è stato cacciato da Jenne per opera di due preti, farisei terribili, che a Roma si conoscono. Si è rifugiato a Subiaco presso i Selva che villeggiano lì e si è ammalato gravemente. Guarito, è venuto a Roma circa alla metà di luglio. Il professore Mayda, amico del Selva anche lui, e che lo aveva conosciuto a Subiaco, lo prese per aiuto-giardiniere nella villa che si è fabbricata due anni sono sull' Aventino, sotto Sant' Anselmo. Il nuovo aiuto-giardiniere che si fa chiamare Benedetto e nient'altro, come a Jenne, è diventato presto popolare in tutto il quartiere del Testaccio. Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

"Non sai" diss'egli "che lo abbiamo portato con noi?" Benedetto lo guardò, contento del nuovo tu e porse la mano tremante cercando quella di Mayda che gliela prese fra le proprie, dolcemente. In pari tempo si sentì umiliato della sua dimenticanza. Era egli vicino a perder la mente? Tutto il giorno prima aveva pensato le ultime parole da dire agli amici e alla persona che tanto gli aveva fatto sentire la sua presenza invisibile. Ma se perdeva la mente? Il professore diede mano a saturarlo di chinino. In principio Benedetto accettò volontieri iniezioni dolorose e pozioni amare, così per il desiderio di rinvigorirsi un poco e quindi di difendersi contro un oscuramento dello spirito, come per il desiderio di soffrire. Oh sì, soffrire, soffrire! Nei giorni precedenti aveva sofferto molto, non di sofferenze locali, non di sofferenze acute, ma di una sofferenza inesprimibile, diffusa dalle radici dei capelli alle estremità dei piedi. Era stata una beatitudine dell'anima poter associare in tali momenti la volontà propria alla Volontà Divina, accettare dall' Amore tutto il dolore che gli aveva destinato senza dirgliene il misterioso perché, un perché nascosto nel disegno dell' Universo, certo un perché di bene; non di solo bene della persona sofferente ma di bene universale, di un bene radiante dal suo povero corpo senza conosciuto confine, come il moto da un vibrante atomo del mondo. Grande cosa soffrire, continuare umilmente Cristo, continuare la redenzione come un peccatore può, compensare col dolore proprio il male altrui! Là sul sentiero solitario del Sacro Speco, nel fragore dell' Aniene, fra le montagne religiose, don Clemente gli aveva parlato così. E adesso quel soffrir mortale era cessato. Quando il chinino cominciò a rombargli nel capo, se ne sgomentò. Questi rimedî lo istupidivano. Chiamò il professore; gli rispose una suora. Chiese che gli facessero venire un sacerdote dalla Bocca della Verità. Il professore ch'era andato a riposare per un'ora, venne a rassicurarlo e credette allora dirgli quello che prima aveva taciuto. Don Clemente aveva telegrafato a Selva che sarebbe giunto a Roma l'indomani mattina alle dieci. Benedetto n'ebbe una gran gioia. "Ma non sarà tardi?" diss'egli "Non sarà tardi?" No, non poteva esser tardi. Egli non si trovava presentemente in pericolo prossimo. Questione di Vita o di morte era il rinnovarsi della febbre e nel caso più disgraziato vi sarebbero state ancora molte ore. Mayda dubitò di avere parlato troppo crudamente, gli sussurrò: "Ma guarirai." E uscì della camera. Benedetto, pensando a don Clemente, passò dalla quiete della sua contentezza nel sopore e nel sogno, dove discesero gli spiriti mali a comporgli con le ultime parole del professore una visione d'inganno. Egli si vide in faccia un colossale muraglione di marmo, incoronato di ricche balaustrate, tutto bianco di luna. Là in alto, dietro le balaustrate, agitavasi al vento una densa foresta. Sei scale, pure fiancheggiate di balaustri, scendevano per isghembo, tre da sinistra e tre da destra, sulla fronte del muraglione, terminando a sei ripiani sporgenti. Le balaustrate Superiori erano partite da pilastrini che reggevano urne. Ed ecco fra le urne, a mezzo di ciascun intervallo, apparire come in danza, nello stesso istante, nello stesso abito celeste scollato, nello stesso grazioso atto del capo, sei giovani donne bellissime; e con lo stesso armonioso gesto delle braccia ignudo tendere a lui dall'alto, piegando il busto, sei scintillanti coppe di argento. Si ritraevano quindi a un punto dalla balaustrata e a un punto ricomparivano sulle sei scale, le scendevano uguali velocemente, e, toccati i ripiani, a un punto riporgevano graziose il busto, gli tendevano, guardandolo con una gravità strana, le sei coppe scintillanti. Dalle loro labbra non usciva parola e tuttavia gli era evidente che le sei giovani gli offrivano nell'argento un liquore di Vita, di salute, di piacere. Egli sentiva di averne uno sgomento morale angoscioso e tuttavia di non poter levare lo sguardo dalle coppe scintillanti, dai bei volti gravi, chini sopra di esse. Si sforzava di chiudere gli occhi e non poteva, di levarsi e non poteva, d'invocare Dio e non poteva. Le sei danzatrici piegarono a un punto le coppe verso di lui, sei mobili nastri di liquore rigarono l'aria. "Come io" pensò il dormente scambiando persone nella memoria turbata "a Praglia." E tutto scomparve, si vide davanti Jeanne. Ritta in piedi, chiusa nel mantello verde foderato di skuntz guardato a Praglia nel momento del primo incontro. Ma stavolta il dormente vide una rispondenza fra la gravità di quello sguardo e la gravità dei volti delle danzatrici, vide con lo spirito la parola silenziosa delle sette anime: povero uomo, tu ora conosci il tuo doloroso errore, tu ora sai che Dio non è. La gravità degli sguardi non era che tristezza di pietà. Le coppe della Vita, della salute e del piacere gli erano offerte discretamente e senza gioia come a uno ch'è nel lutto, che ha perduto ogni cosa più cara; come il solo povero conforto che gli rimane. Così Jeanne offriva il suo amore. E il dormente fu invaso da questa presunta evidenza nuova che Dio non è. Era una vera e propria sensazione fisica, un gelo diffuso per tutte le membra, movente lento al cuore. Egli prese a tremare, a tremare, e si destò. Mayda pendeva sopra di lui col termometro in mano. Benedetto mormorò con gli occhi sbarrati: Padre! - Padre! - Padre! - La suora suggerì: - Padre nostro che sei nei cieli ... - e avrebbe continuato con la sua voce disgraziatamente sciocca senza un brusco richiamo del professore. Questi mise il termometro a Benedetto che quasi non se ne avvide. Era tutto nello sforzo di staccare dall'intimo sé le immagini delle figure tentatrici e della orribile loro parola, di gettarsi, anima e coscienza, in seno al Padre, di aderire a Lui con l'intero essere proprio, di annientarsi in esso. Le immagini cedevano lentamente, con ritorni di assalto sempre più brevi, sempre più deboli. Il viso appariva tanto trasfigurato nella mistica tensione dell'anima che Mayda si pietrificò a contemplarlo, dimenticò di guardar l'orologio fino a che i lineamenti contratti nell'affannosa preghiera non si vennero distendendo in una compostezza di pace. Allora si sovvenne, levò il termometro. La suora, dietro a lui, reggeva la lampadina elettrica cercando pure di vedere. Egli non discerneva, sulle prime, il grado. In quei pochi secondi di silenzio e di attenzione intensa né l'uno né l'altra si avvidero che l'infermo si era voltato sul fianco e guardava il professore. Finalmente Mayda scosse lo strumento. Che grado aveva segnato? La suora non osò chiederlo e la faccia del professore era impenetrabile. L'ammalato allungò la mano senza ch'egli se ne avvedesse, lo toccò lievemente sul braccio. Mayda si volse a lui, gli lesse negli occhi sorridenti la domanda: "e dunque?" Non rispose a parole ma solo con l'ondular della mano spiegata: né bene né male. Poi sedette accanto al letto, silenzioso ancora, impenetrabile, guardando Benedetto che non guardava più lui ma guardava, rimessosi a giacere supino, i punti lucenti nell'immenso azzurro. "Professore" diss'egli "che ore sono?" "Le tre." "Alle cinque mandi ad avvertire a Bocca della Verità." "Va bene." "Sarebbe tardi?" A quest'ultima domanda il professore rispose con un "no" sonoro, vibrato. E dopo un momento di silenzio soggiunse a voce più bassa "no" come a conclusione di un ragionamento interno. Il termometro era salito a trentasette e cinque; dalla sera precedente, più d'un grado. Se l'ascensione continuasse rapida, se vi fosse pericolo di delirio avrebbe mandato a Bocca della Verità prima delle cinque. L'ascensione rapida non gli pareva probabile benché quel trentasette e cinque avesse un colore nero. Domandò all'ammalato se la luce della lampadina l'offendesse. Benedetto rispose che materialmente non l'offendeva, spiritualmente sì; gli toglieva di vedere per la finestra il cielo, la notte stellata. "Illuminatio mea" diss'egli, dolcemente. Il professore non capì, gli fece ripetere la parola, chiese quale fosse il suo lume, udì la voce fievole mormorare: "Nox" Mayda non conosceva i Salmi, la parola profonda dell'antico ebreo, al quale parve oscuro il nostro piccolo sole che occulta il mondo superiore. Intese e non intese. Tacque riverente. Benedetto cercava con gli occhi le stelle. La sua propria coscienza trapassava in esse che lo guardavano austere sapendolo presso a raccogliere, prima della morte imminente, tutta la storia morale della sua Vita per dirla con parole che sarebbero un primo giudizio pronunciato nel nome di Dio Giustizia per impulso del Dio Amore, che non si perderebbero perché nessun moto si perde, che apparirebbero, chi sa come, chi sa dove chi sa quando, per la gloria di Cristo, come testimonianza suprema di uno spirito alla Verità morale contro sé stesso. Così gli parlavano le stelle silenziose, animate del suo pensiero. E la sua Vita gli si disegnò nella mente da capo a fondo, non tanto nei punti salienti esterni, come nella linea morale interna. Egli ne vide tutta la prima parte dominata da una concezione religiosa prevalentemente egoistica, ordinata a far convergere l'amore di Dio e degli uomini a un bene individuale, a un fine di perfezione propria e di premio. Sentiva dolore di avere così obbedita solamente a parole la legge che all'amore di sé stesso antepone l'amore di Dio; ed era un dolore dolce, non perché gli fosse facile trovare scuse all'errore, imputarlo a maestri, ma perché gli era dolcezza sentire il proprio niente nell'onda di grazia che lo avvolgeva. E sentiva il proprio niente in quel passato sfacelo di una religiosità manchevole, operato dall'insorgere dei sensi, nella depressione centrale della sua Vita, tutta un tessuto di sensualità, di debolezze, di contraddizioni e di menzogne; il proprio niente anche nella Vita posteriore alla sua conversione, impulso e opera di una Volontà interna e prevalente alla sua, durante il quale ultimo tempo gli pareva di avere, per conto proprio, solamente gravato contro l'impulso buono. Anelò a deporre come una spoglia pesante tutto quel "sé" che lo tardava. Conobbe parte di questo "sé" pesante anche l'affetto alla Visione, aspirò alla Verità Divina nel suo mistero qualunque ella fosse, si donò a lei con tale violenza di desiderio da spezzarsi, quasi, nel palpito; e le stelle gli folgorarono un senso così vivo della incommensurabile grandezza della Verità Divina di fronte alla concezione religiosa sua e dei suoi amici, e insieme una fede così certa di essere avviato a quella immensità, ch'egli esclamò alzando di scatto la testa dal guanciale: "Ah!" La suora si era appisolata ma il professore no. "Cosa c'è?" diss'egli. "Vedi qualche cosa? " Sulle prime Benedetto non rispose. Il professore alzò la lampadina e si chinò sopra di lui che volse il viso a guardarlo con una espressione di desiderio intenso e dopo averlo guardato lungamente sospirò: "Ah professore, c'è che Lei deve venire dove vado io." "Ma sai" disse Mayda "dove vai, tu?" "So" rispose Benedetto "che mi separo da tutto quello che si corrompe e che pesa." Poi domandò se qualcuno fosse andato alla parrocchia. Come, se non era passato che un quarto d'ora? Si scusò, gli pareva che fosse passato un secolo. Supplicò il professore di ritirarsi, di prendere riposo, contemplò daccapo i lumi celesti; poi chiuse gli occhi, desiderò Gesù, due braccia umane che lo sollevassero e lo cingessero, un petto umano, animato di Divino, dove celare il viso entrando nell'immenso mistero. Ebbe i sacramenti alle sei. Il termometro era salito di qualche linea. Alle nove Benedetto domandò di Giovanni Selva. Seppe ch'era venuto, ch'era ripartito e che c'era invece di Leynì. Volle vederlo malgrado l'opposizione del professore. Gli disse che desiderava salutare almeno alcuni dei suoi amici delle catacombe. Di Leynì lo sapeva, gliene aveva parlato Selva. Poté annunciare che si erano dato convegno a villa Mayda verso il tocco. La suora infermiera, venuta poco prima a sostituire la sua compagna, ebbe l'imprudenza di dire che tanta gente del popolo domandava notizie. Benedetto, lì per lì, non disse nulla; ma, uscito di Leynì, fece chiamare il professore. Il professore non c'era, aveva dovuto recarsi all' Università. Il discorso della suora avea fatto prendere definitivamente a Benedetto una risoluzione pensata fin da quando la prima luce del giorno gli aveva mostrato le pareti della camera dipinte di soggetti mitologici nello stile della Casa di Livia. Desiderò di un desiderio indicibile la sua cameretta antica. Là avrebbe veduto gli amici, i popolani che volessero visitarlo, e, se fosse venuta, l'altra persona. Pregò di parlare al giardiniere e ai servi, espresse il suo desiderio; e perché coloro rifiutavano di trasportarlo, li supplicò per amor di Dio, li commosse tanto che si arresero, a rischio di venir cacciati. "Idee proprio di Santi" pensò la suora. Benedetto fece il tragitto nelle braccia del giardiniere e di un servo, avviluppato di coperte, col Crocifisso in mano. La sua consolazione di trovarsi nella cameretta povera fu così grande che parve a tutti migliorato. Ma il termometro saliva. Dopo il tocco il termometro segnava trentanove. Don Clemente era arrivato alle dieci e mezzo.

Oggi noi non abbiamo o almeno io non ho le disposizioni che Lei desidera. Sarò un cieco ma non mi sento di domandar la luce al Papa e nemmeno a un Lutero. Però, se Lei viene a Roma, troverà dei giovani disposti meglio di me, meglio di noi. Venga, parli, permetta anche a noi di udirla. Oggi abbiamo la curiosità, domani, chi sa? potremo avere il desiderio buono. Venga a Roma." "Mi dia il Suo nome" disse Benedetto. Colui gli porse una carta da visita. Si chiamava Elia Viterbo. Benedetto lo guardò, curioso. "Sì Signore" diss'egli "sono israelita, ma questi due battezzati non sono più cristiani di me. Del resto io non ho nessun pregiudizio religioso." Il colloquio era finito. Nell'uscire, il più giovane dei tre, quello dalla gragnuola di domande, tentò un ultimo assalto. "Ci dica almeno se i cattolici, secondo Lei, dovrebbero andare alle urne politiche?" Benedetto tacque. L'altro insistette: "Non vuoi rispondere neppure a questo?" Benedetto sorrise. "Non expedit" diss'egli. Passi nell'anticamera; due colpettini leggeri all'uscio; entrano i Selva con Noemi. Maria Selva entra prima e vedendo Benedetto così vestito, non può trattenere un movimento di sdegno, di compianto e di riso; arrossisce, vorrebbe dire una parola di protesta, non la trova. A Noemi vengono le lagrime agli occhi. Tutti e quattro tacciono per un momento e si comprendono. Poi Giovanni mormora: Non fu dal vel del cuor giammai disciolto e stringe la mano all'uomo che nei suoi goffi abiti gli pare augusto. "Sì ma Lei non deve portare questa roba!" esclamò Maria, meno mistica di suo marito. Benedetto fece un gesto come per dire "non parliamo di ciò!" e guardava il Maestro del suo Maestro con occhi desiderosi e riverenti. "Sa" diss'egli "quanto Vero e quanto bene mi sono venuti da Lei?" Giovanni non sapeva di avere tanto influito su quell'uomo attraverso don Clemente. Suppose che avesse letto i suoi libri. Ne fu commosso e ringraziò nel suo cuore Iddio che gli faceva sentire con dolcezza un po' di effettivo bene operato in un'anima. "Quanto sarei stato felice" ripigliò Benedetto "di lavorare nel Suo orto per vederla qualche volta, per udirla parlare!" Noemi, all'udir ricordare quella sera, si lasciò sfuggire una esclamazione sommessa piena di memorie che non si potevano dire. Giovanni ne prese occasione per offrire a Benedetto l'ospitalità, poiché don Clemente gli aveva detto che intendeva lasciare Jenne la sera stessa. Potremmo partire insieme, quando piacesse a lui, dopo il colloquio ch'egli avrebbe concesso a sua cognata. Noemi, pallida, fissò Benedetto per la prima volta, aspettando la sua risposta. "La ringrazio" diss'egli, dopo avere pensato un poco. "Se busserò alla Sua porta Ella mi aprirà. Ora non Le posso dire altro." Giovanni fece atto di ritirarsi con sua moglie. Benedetto li pregò di restare. Certo la signorina non aveva segreti per loro; almeno per sua sorella se non per il cognato. Anche questo coperto invito a Maria cadde perché Noemi osservò, imbarazzata, che non si trattava di segreti suoi. I Selva si ritirarono. Benedetto rimase in piedi e non disse a Noemi di sedere. Egli sapeva di avere a fronte l'amica di Jeanne, presentiva il discorso che verrebbe, un messaggio di Jeanne. "Signorina" diss'egli. Il modo non fu scortese ma significò chiaramente: "quanto più presto, tanto meglio." Noemi intese. Qualunque altro l'avrebbe offesa. Benedetto, no. Con lui si sentiva umile. "Ho l'incarico" diss'egli "di domandarle se sa niente di una persona ch'Ella deve avere conosciuto molto. Anche molto amato, credo. Il nome, io non so se lo pronuncio bene perché non sono italiana, è don Giuseppe Flores." Benedetto trasalì. Non si aspettava questo. "No" esclamò ansioso. "Non so niente!" Noemi lo guardò un momento in silenzio. Avrebbe voluto, prima di parlare, domandargli perdono del dolore che gli avrebbe recato. Disse a bassa voce, mestamente: "Mi è stato scritto di apprenderle che non è più di questa Vita." Benedetto piegò il viso, se lo nascose fra le mani. Don Giuseppe, caro don Giuseppe, cara grande anima pura, cara fronte luminosa, cari occhi pieni di Dio, cara voce buona! Pianse dolcemente due lagrime, due sole lagrime che Noemi non vide, si udì dentro la voce di don Giuseppe che gli diceva: non senti che sono qui, che sono con te, che sono nel tuo cuore? Noemi, dopo un lungo silenzio, mormorò: "Mi perdoni. Vorrei non averle dovuto recare un dolore così grande." Benedetto si scoperse il viso. "Dolore e non dolore" diss'egli. Noemi tacque, riverente. Benedetto le domandò se sapesse quando quella persona fosse morta. Verso la fine di aprile, credeva Noemi. Ella era allora fuori d' Italia. Era nel Belgio, a Bruges, con un'amica sua alla quale era stata scritta la notizia. Per quanto ne aveva udito dall'amica, quella persona, Noemi non ne ripeté il nome per un delicato riguardo, aveva fatto una morte santa. Le sue carte, ella era incaricata di riferire anche questo, erano state affidate al Vescovo della città. Benedetto fece un gesto di approvazione che poteva servire anche per chiusa del colloquio. Noemi non si mosse. "Non ho ancora finito" diss'ella. E soggiunse subito: "Ho un'amica cattolica ... io non sono cattolica, sono protestante ... che ha perduta la fede in Dio. Le hanno consigliato di dedicarsi a opere di carità. Vive con un fratello contrarissimo a qualunque religione. Questa novità che sua sorella si occupi di beneficenza, che si metta in relazione con gente dedita alle opere buone per principio religioso, gli è spiacente. Adesso è ammalato, s'irrita, si esalta, inveisce contro le bigotte del bene, non vuole che sua sorella si occupi di visitare poveri, né di proteggere ragazze, né di raccogliere bambini abbandonati. Dice che tutto questo è clericalismo, è utopia, che il mondo va come vuole andare, che si deve lasciarlo andare e che con questo mescolarsi alle classi inferiori non si fa che metter loro in testa delle idee false e pericolose. Ora è stato detto alla mia amica che deve o mentire a suo fratello facendo di nascosto ciò che prima faceva in palese, o separarsi da lui. Essa ha tanto bisogno di un consiglio sicuro! Mi scrive di domandarlo a Lei. Ha letto nei giornali ch' Ella consiglia qui tanta gente di queste montagne, spera che non rifiuterà." "Poiché suo fratello" rispose Benedetto "è ammalato di corpo e anche di spirito, non le si offre il bene nella sua casa stessa? Diventerà una cattiva sorella per arrivare a conoscere Iddio? Interrompa le sue opere, si dedichi a suo fratello, lo curi come del male del corpo così del male dello spirito, con tutto l'amore che ..." Stava per dire "che gli porta" si corresse per non ammettere così espressamente che conosceva la persona, " ... con tutto l'amore di cui è capace, gli si faccia preziosa, lo vinca poco a poco, senza prediche, solo colla bontà. Farà tanto bene anche a lei di cercar d'incarnare in sé la bontà stessa, la bontà attiva, instancabile, paziente e prudente. E lo vincerà, lo persuaderà, poco a poco, senza discorsi, che tutto quello che fa lei è ben fatto. Allora potrà riprendere le sue opere e le potrà riprendere anche da sola. E vi riuscirà meglio. Adesso le fa per un consiglio avuto, forse non vi riesce tanto bene. Allora le farà per quest'abitudine del bene acquistata con suo fratello, vi riuscirà meglio." "Grazie" disse Noemi. "Grazie per l'amica mia e anche per me, perché mi piace tanto questo che ha detto. E posso io ripetere i suoi consigli, il Suo incoraggiamento in Suo nome?" La domanda pareva superflua poiché incoraggiamento e consigli erano chiesti proprio a Benedetto, proprio per incarico dell'amica. Ma Benedetto si turbò. Era un esplicito messaggio che Noemi gli chiedeva per Jeanne. "Chi son io?" diss'egli. "Che autorità posso avere? Le dica che pregherò." Noemi tremò nel suo interno. Sarebbe stato tanto facile, ora, parlargli di religione! E non osava. Ah perdere una occasione simile! No, bisognava parlare ma non poteva mica pensare per un quarto d'ora a quello che direbbe. Disse la prima cosa che le venne in mente. "Scusi, poiché dice di pregare; vorrei tanto sapere se Lei proprio le approva tutte, le idee religiose di mio cognato?" Appena proferita la domanda, le parve tanto impertinente, tanto goffa, da vergognarne. E si affrettò a soggiungere sentendo di dir cosa ancora più sciocca e dicendola irresistibilmente: "Perché mio cognato è cattolico, io sono protestante e vorrei regolarmi." "Signorina" rispose Benedetto "verrà giorno in cui tutti adoreranno il Padre in ispirito e Verità, sulle cime; oggi è ancora il tempo di adorarlo nelle ombre e nelle figure, in fondo alle valli. Molti possono salire, quale più, quale meno, verso lo spirito e la Verità; molti non possono. Vi hanno piante che oltre una certa zona non fruttificano e, portate ancora più su, muoiono. Sarebbe follia di toglierle al loro clima. Io non La conosco, non posso dirle se le idee religiose di suo cognato possano, portate in Lei così, senza preparazione, dare un frutto buono. Le dico però di studiare molto molto il cattolicismo con l'aiuto di suo cognato, perché non vi è un solo protestante convinto che lo conosca bene." "Lei non verrà a Subiaco?" chiese Noemi timidamente. Qualche nascosta malinconia salì nella sua voce che fece salir nel cuore a Benedetto un senso di dolore dolce, tosto fatto sgomento, tanto era nuovo. "No" diss'egli "non credo." Noemi volle e non volle dire che n'era dolente, pronunciò alcune parole confuse. Si udì gente nell'anticamera. Noemi piegò il viso, Benedetto pure; e il colloquio si sciolse senz'altro saluto. Anche la duchessa volle parlare a Benedetto. Portò con sé compagni e compagne. Non più giovine ma galante ancora, mezzo superstiziosa e mezzo scettica, egoista e non senza cuore, voleva bene alla figliuola tisica di un suo vecchio cocchiere. Udito parlare del Santo di Jenne e de' suoi miracoli, aveva combinata la gita, un po' per divertimento, un po' per curiosità, per vedere se fosse il caso di far venire il Santo a Roma o di mandargli la ragazza. Cugina di un cardinale, aveva conosciuto presso di lui uno dei preti che villeggiavano a Jeanne. Ora colui, incontratala, le aveva già parlato a modo suo del Santo e annunciato il crollo della sua riputazione. Però siccome la duchessa non si fidava di nessun prete ed era curiosa di conoscere un uomo cui si attribuiva un passato romanzesco, e la stessa curiosità avevano i suoi compagni, una compagna in particolare, si risolse di avvicinarlo a ogni modo. Era venuta con lei una vecchia nobildonna inglese, famosa per la sua ricchezza, per le sue toilettes bizzarre, per il suo misticismo teosofico e cristiano, innamorata metafisicamente del Papa e anche della duchessa che ne rideva con i suoi amici. I quali amici, nel vedere Benedetto in quell'arnese, si scambiarono occhiate e sorrisi che per poco non diventarono sghignazzamenti quando la vecchia inglese, prevenendo tutti, prese la parola. Disse, in un cattivo francese, che sapeva di parlare a una persona colta: che lei, con amici e amiche di ogni nazione, lavorava per riunire tutte le Chiese cristiane sotto il Papa, riformando il cattolicismo in alcune parti troppo assurde che nessuno nel suo cuore credeva più buone a niente, come il celibato ecclesiastico e il dogma dell'inferno; che avevano bisogno, per fare questo, di un Santo; che questo Santo sarebbe lui perché uno spirito - ella non era spiritista ma un'amica sua lo era -anzi proprio lo spirito della contessa Blawatzky aveva rivelato questo; ch'era perciò necessaria la sua venuta a Roma e che a Roma egli avrebbe potuto con i suoi doni di santità rendere servigio anche alla duchessa di Civitella, ivi presente. Finì il suo discorso così: "Nous vous attendons absolument, monsieur! Quittez ce vilain trou! Quittez-le bientôt! Bientôt!" Benedetto, girato rapidamente lo sguardo severo per la cerchia delle facce sardoniche o stolide, dall'occhialetto della duchessa alla caramella del giornalista, rispose: "A l'instant, madame!" E uscì della camera. Uscì della camera e della casa, attraversò la piazza camminando male negli abiti disadatti, prese la via della costa senza guardare né a destra né a sinistra, portato dallo spirito più che dalle forze affievolite del corpo, pensando passar la notte sotto qualche albero e l'indomani portarsi a Subiaco e di là, con l'aiuto di don Clemente, a Tivoli dove conosceva un buon vecchio prete solito venire di tanto in tanto a Santa Scolastica. All'ospitalità dei Selva, che gli sarebbe stata cara, non pensava più. Il suo cuore era puro e in pace ma egli non poteva dimenticare che la voce soave di quella signorina straniera e l'accento mesto col quale aveva detto: "Lei non verrà a Subiaco?" gli avevano risuonato dentro in un modo strano, che un minuto secondo era bastato perché gli balenasse in mente questo pensiero: "se Jeanne fosse stata così non mi sarei sciolto." Avevano ragione i mistici: penitenza e digiuno non valgono. A ogni modo tutto era oramai dileguato. Restava solamente l'umile sentimento di una fralezza essenzialmente umana che, uscita vittoriosa da prove difficili, può ricomparire improvvisamente ed essere vinta da un soffio. Il paesello era deserto. La gente di Trevi, di Filettino, di Vallepietra, cessato il temporale, era partita commentando i fatti della mattina, la guarigione dubbia, la guarigione fallita, i moniti seminati alacremente da seconde mani contro il seduttore del popolo, il falso cattolico. All'uscita del villaggio Benedetto fu veduto da due o tre donne di Jenne. L'abito laico le fece allibire, lo credettero scomunicato, lo lasciarono passare in silenzio. Pochi passi più in là fu raggiunto da qualcuno che correva. Era un giovinetto magro, biondo, dagli occhi azzurri, intelligentissimi. "Lei va a Roma, Signore Maironi?" diss'egli. "La prego di non chiamarmi così" rispose Benedetto, spiacente di apprendere che il suo nome, chi sa in qual modo, si era divulgato. "Non so se vado a Roma." "Io La seguo" disse il giovine, impetuoso. "Mi segue? Perché mi segue?" Il giovine gli prese, per tutta risposta, una mano, se la recò alle labbra malgrado la resistenza e le proteste di Benedetto. "Perché?" diss'egli. "Perché ho il disgusto del mondo e non trovavo Dio e oggi mi pare, per Lei, di essere nato alla gioia. Permetta, permetta che La segua!" "Caro" rispose Benedetto, commosso, "non so neppur io dove andrò." Il giovinetto lo supplicò di dirgli almeno quando avrebbe potuto rivederlo, e siccome Benedetto non sapeva veramente come rispondergli, esclamò: "Oh La vedrò a Roma! Lei andrà a Roma, certo!" Benedetto sorrise. "A Roma? E dove trovarmi, a Roma, se ci vado?" Quegli rispose che sicuramente a Roma si parlerebbe di lui, che tutti saprebbero dove trovarlo. "Se Dio vorrà!" disse Benedetto con un affettuoso cenno di saluto. Il giovinetto gentile lo trattenne un momento per la mano. "Sono lombardo anch'io" diss'egli. "Sono Alberti, di Milano. Si ricordi di me!" E seguì Benedetto con lo sguardo intenso finché, a una svolta della mulattiera, disparve. Alla vista della croce dalle grandi braccia, sull'orlo della discesa, Benedetto ebbe un improvviso sussulto di commozione, dovette arrestarsi. Quando si rimise in cammino fu preso da vertigini. Fece pochi passi ancora, barcollando, fuori della via per togliersi dal passaggio della gente e si lasciò cadere sull'erba in un grembo del prato. Allora, chiusi gli occhi, sentì che non era un malessere passaggero, ch'era qualche cosa di più grave. Non smarrì del tutto la conoscenza, smarrì l'udito, il tatto, la memoria, la nozione del tempo. Al primo riaversi, la sensazione, ai dorsi delle mani, del panno grosso, diverso da quello della solita sua veste, gli mise una curiosità non tormentosa, quasi divertente, circa l'identità propria. Si andò tastando il petto, i bottoni, gli occhielli, senza capire. Pensò. Un ragazzo di Jenne che gli passò vicino sul prato, corse a Jenne, raccontò ansante che il Santo giaceva morto sull'erba, presso la croce. Benedetto pensò con quell'ombra di ragione oscura che ci governa nel sogno e al primo svegliarci. Non erano i panni suoi, erano i panni di Piero Maironi. Egli era Piero Maironi ancora. Ne fu sgomentato e rinvenne del tutto. Si levò a sedere, si mirò la persona, girò lo sguardo intorno, per il prato, per i monti velati dalle ombre della sera. Alla vista della grande croce la sua mente si ricompose. Si sentiva male, male assai. Cercò di rimettersi in piedi e vi riuscì a fatica. Si avviò verso la mulattiera domandandosi che potrebbe fare in quello stato. Vide qualcuno venir frettoloso per la mulattiera, da Jenne, fermarglisi in faccia; udì esclamare: "Dio, è Lei!" riconobbe la voce della donna che gli aveva parlato con tanta passione fra i tuoni e i lampi. Ella sola, di tanti che avevano udito a Jenne il racconto del ragazzo, era venuta. Gli altri non avevano creduto o non avevano voluto credere. Era venuta correndo, folle di angoscia. Ora si era fermata di botto, a due passi da lui, incapace di proferir parola. Egli non sospettò che fosse venuta per lui, le diede la buona sera e passò. Ella non gli ricambiò il saluto, affannata, dopo la prima gioia, di vederlo camminare male, non osando seguirlo. Lo vide fermarsi con un uomo a cavallo che saliva, parlargli; fece un balzo avanti per udire. L'uomo era un mulattiere mandato dai Selva in cerca di Benedetto. I Selva erano partiti da Jenne poco dopo quest'ultimo, con due muli per le Signore, credendo raggiungerlo sulla costa. Giunti all' Aniene senza veder nessuno, avevano interrogato un viandante che veniva da Subiaco. Colui non seppe darne notizia. Noemi che doveva prendere l'ultimo treno per Tivoli, era partita con Giovanni, nascondendo il suo rammarico; il mulattiere era stato rimandato a Jenne per cercarvi di Benedetto e anche per riportarne un ombrellino dimenticato all'osteria; Maria era rimasta ad aspettarlo sulle ghiaie dell'Infernillo. La giovine maestra udì Benedetto domandare al mulattiere, per carità, che gli portasse da Jenne un po' d'acqua. I due si parlarono ancora ma lei non attese altro, scomparve. Benedetto aveva accettato, dopo una breve conversazione col mulattiere, di raggiungere, a cavallo, la signora Selva. Rimasto solo, sedette sotto la croce aspettando il ritorno del mulattiere con l'acqua e con l'ombrello. La luna falcata si veniva dorando nel cielo chiaro sopra i monti di Arcinazzo; la sera era senza vento, tepida. Benedetto si sentiva le tempie pulsare e ardere, celere e breve il respiro. Dolore non sentiva; e l'erba odorante del prato, gli alberi sparsi, le grandi montagne ombrose, tutto gli era vivo, tutto gli era pio, tutto gli era dolce di un mistero di amore orante che inclinava la stessa falce della luna verso le cime placide nel cielo di opale. Don Giuseppe Flores gli diceva nel cuore che sarebbe soave di morire così col giorno, pregando insieme alle cose innocenti. Passi frettolosi, dalla parte di Jenne. Si fermarono un po' discosto. Una bambina si avanza verso Benedetto, gli porge timidamente una bottiglia d'acqua e un bicchiere, fugge indietro. Benedetto, meravigliato, la richiama; ella viene lenta, vergognosa. Richiesta del suo nome, tace; dei suoi genitori, tace. Una voce dice: "È la bambina dell'oste." Benedetto riconosce la voce e, al fioco lume della luna, la persona silenziosa rimasta indietro per lo stesso squisito sentimento che le ha fatto prender con sé la bambina. "Grazie" diss'egli. Ella si appressò un poco, tenendo la bambina per mano, sussurrò: "Sa che i preti hanno parlato colla madre del morto? Sa che ora questa donna accusa Lei di averlo fatto morire?" Benedetto rispose con qualche severità nella voce: "Perché mi dice questo?" Ella conobbe di avergli fatto dispiacere accusando alla sua volta, esclamò desolata: "Oh mi perdoni!" E riprese: "Posso farle una domanda?" "Dica." "Ritornerà mai a Jenne?" "No." La donna tacque. Si udirono venire, da lontano, il mulattiere e il suo mulo. Ella disse, a voce più bassa: "Per pietà, una domanda ancora. Come si figura Lei l'altra Vita? Crede che uno possa ritrovare le persone conosciute in questa?" Se il lume della luna non fosse stato così fioco, Benedetto avrebbe vedute due grosse lagrime rigar il viso della giovine. "Credo" rispose gravemente "che fino alla morte del nostro pianeta l'altra Vita sarà per noi un grande continuo lavoro sopra di esso e che tutte le intelligenze aspiranti alla Verità e all' Unità vi si ritroveranno insieme all'opera." Le scarpe ferrate del mulattiere suonano vicine sui ciottoli. La donna dice: "Addio." Stavolta le lagrime suonano anche nella voce. Benedetto le risponde: "A Dio." Egli scende sul mulo, ardendo di febbre, nelle ombre della valle. Andrà dunque a casa Selva. Sa, lo ha saputo dal mulattiere, che non troverà Noemi, ma questo gli è indifferente, non la teme, neppure ricorda quel momento di lieve emozione. Un altro pensiero si agita, infiammato dalla febbre, nell'anima sua. Vi turbinano parole di don Clemente, parole di quel giovine Alberti, parole della vecchia dama inglese, vi lampeggiano dentro immagini rotte della Visione. A casa Selva, sì, ma per poco! Egli scende e la gran voce dell' Aniene gli rugge in profondo, più e più forte: "Roma, Roma, Roma."

Ora noi abbiamo i mezzi di salvarla. Noi faremo in modo che la denuncia si ponga a dormire. Ma se Lei resta in Roma i Suoi nemici di Roma faranno un rumore così grande che non ci potremo fingere sordi. Bisogna che Lei se ne vada lontano; e subito! Meglio se va fuori d' Italia. Vada in Francia, dove c'è carestia di santità. O almeno ... non ci ha una casa, Lei, sul lago di Lugano? Adesso vi sono delle suore, vero? Suore e Santi stanno benissimo insieme. Vada colle suore e lasci passare la burrasca." Il commendatore parlava serio serio, lento lento, coprendo lo scherno di flemma più insolente. Benedetto si alzò in piedi, risoluto e severo. "Io stavo" rispose "presso un infermo che aveva bisogno della medicina illegale mia. Mi si poteva lasciare al mio posto. Lei e il Governo sono i peggiori miei nemici se mi offrono di fuggire la giustizia. Lei faccia il Suo dovere di mandare i carabinieri ad arrestarmi per il mancato servizio di giurato. Io proverò poi che non potei ricevere la citazione. Il signor procuratore del Re faccia il dovere Suo di procedere contro di me per la denuncia di Jenne; mi si troverà sempre a villa Mayda. Lo dica ai Suoi Superiori. Dica loro che non mi moverò da Roma, che temo un Giudice solo e ch'essi pure lo temano nel loro doppio cuore, perché Egli sarà più terribile al doppio cuore che alla violenza sincera!" Il commendatore, impreparato a quel colpo, livido di veleno impotente, prorompeva già in parole di collera quando si udì il rumor sordo di una carrozza ch'entrava nell'atrio. Levò allora lo sguardo da Benedetto, stette in ascolto. Benedetto afferrò la spalliera della sua seggiola per levarsi quell'impaccio a voltar le spalle. L'altro si scosse, riacceso negli occhi dall'ira un momento sopita; gettò il giornale che aveva sempre tenuto in mano, batté il pugno sul tavolo, esclamando: "Che fa? Non si muova!" I due uomini si fissarono per alcuni secondi in silenzio, uno con autorità maestosa, l'altro bieco. Poi questi riprese, veemente: "Debbo farla arrestare qui?" Benedetto durò a fissarlo in silenzio. Quindi rispose: "Aspetto. Faccia." Un usciere, che aveva bussato più volte inutilmente, comparve sulla soglia, s'inchinò al commendatore senza dir parola. Il commendatore disse subito "vengo" e alzatosi frettolosamente uscì con una faccia strana dove la collera spariva e spuntava l'ossequio. L'usciere rientrò immediatamente, disse a Benedetto che aspettasse. Passò un quarto d'ora. Benedetto, tutto fremente, con il cuore in tumulto e la testa in fiamme, eccitato e spossato dalla febbre, era ricaduto sulla sua seggiola, turbinandogli dentro alla rinfusa i più diversi pensieri. - Dio gli perdoni a quest'uomo! - A tutti! - Che gioia se il Pontefice non permette la condanna di Selva! - La persona che non mi può scrivere, come sa? - E adesso perché mi fanno aspettare? - Cosa vogliono ancora da me? - Oh, con questa febbre, se non avessi a esser più padrone dei miei pensieri, delle mie parole! - Che terrore! - Dio, Dio, non lo permettete! - Ma che orride viltà sono nel mondo, che vergogna di fornicazioni occulte fra questa gente della Chiesa e dello Stato che si odia, che si disprezza! Come, come lo permetti, Signore? - Nessuno viene ancora! - La febbre! - Dio, Dio, fa che io resti padrone dei miei pensieri, delle mie parole. Dio Verità, il tuo servo è in potere de' suoi nemici congiurati, fa ch'egli Ti glorifichi anche nel fuoco ardente! - Quelle due persone pensano a me, adesso. Io non devo pensare a loro! - Esse non dormono, pensano a me. - Non sono ingrato, non sono ingrato, ma non devo pensare a loro! - Penserò a te, vecchio Santo del Vaticano, che dormi e non sai! - Ah quella scaletta non la farò più, quel dolce viso pieno di Spirito Santo non lo vedrò più! - Però, Dio sia lodato, non lo avrò visto invano. - Ma cosa faccio qui? - Perché non me ne vado? - Potrò poi andare? - Questa febbre! Si alzò, cercò di legger l'ora sur un occhio tondo di orologio biancheggiante nell'ombra. Mancavano cinque minuti alle undici. Fuori, il temporale continuava. La potenza degli elementi furibondi e la potenza del tempo che spingeva la piccola sfera sul quadrante, parevano amiche a Benedetto nel loro prevalere indifferente sulla potenza umana che aveva sede dov'egli era e lo teneva in sua balìa. Ma la febbre, la crescente febbre! Ardeva di sete. Se almeno avesse potuto aprire una finestra, tendere la bocca all'acqua del cielo! Un tocco di campanello elettrico, passi affrettati nell'anticamera, finalmente. Ecco il commendatore, in soprabito e cappello. Chiude l'uscio dietro a sé, raccoglie delle carte sul suo tavolo, dice a Benedetto con piglio sprezzante: "Stia attento. Lei ha tre giorni per lasciare Roma. Ha capito?" Non cura di aspettare risposta, preme un bottone. Entrato l'usciere, gli ordina: "Accompagnate!" Giunto colla sua guida sullo scalone, Benedetto, credendosi oramai libero di scendere, le chiese un po' d'acqua. "Acqua?" rispose l'usciere. "Non posso andarne a prendere, adesso. Sua Eccellenza aspetta. Favorisca qui." Lo fece entrare, con sua meraviglia, nell'ascensore. "Anzi le Loro Eccellenze" diss'egli; e mentre l'ascensore saliva al secondo piano, venne guardando Benedetto come si guarda qualcuno cui è fatto un grande onore e che non pare meritarlo. Giunti al secondo piano, i due attraversarono una grandissima sala semioscura. Da questa sala Benedetto venne fatto passare in una stanza illuminata così riccamente ch'egli ne provò fastidio e sofferenza, ne rimase quasi acciecato. Due uomini, seduti ai due angoli di un largo canapè, ve lo attendevano in attitudine diversa; il più giovine con le mani in tasca, una gamba a cavalcioni dell'altra, il capo rovesciato sulla spalliera; il più vecchio col busto piegato in avanti e le mani occupate in un continuo blando maneggio alterno della barba grigia. Il primo aveva una guardatura sarcastica; il secondo l'aveva scrutatrice, malinconica, buona. Questi, evidentemente il più autorevole dei due, invitò Benedetto a sedere sur una poltrona di fronte a lui. "Non creda, sa, caro signor Maironi" diss'egli con voce armoniosa e sonora ma rispondente in qualche modo alla malinconia dello sguardo, "non creda che noi siamo qui due artigli potenti dello Stato. Noi siamo qui in questo momento due individui di una specie rara, due uomini politici geniali che conoscono bene il loro mestiere e che lo disprezzano meglio. Siamo due grandi idealisti che sanno mentire idealmente bene colla gente che altro non merita e sanno adorare la Verità; due democratici, ma però adoratori di quella Verità recondita che non è stata mai toccata dalle mani sudicie del vecchio Demos." Detto così, l'uomo dalla barba grigia fluente riprese a farvi scorrere su le due mani a vicenda e strinse gli occhi scintillanti di un sorriso acuto, pago delle proprie parole, cercando la sorpresa sul viso di Benedetto. "Siamo poi anche credenti" riprese. Allora l'altro personaggio alzò, senza levar il capo dalla spalliera, le mani distese e disse quasi solennemente: "Piano." "Lascia, caro amico" ripigliò il primo senza volgersi all'amico. "Siamo ambedue credenti, però in modo diverso. Io credo in Dio con tutte le mie forze che sono molte e lo avrò sempre meco. Tu credi in Dio con tutte le tue debolezze che sono poche e non lo avrai che al tuo letto di morte." Altro sorriso acuto e pago, altra pausa. L'amico scosse il capo alzando le sopracciglia come per una udita corbelleria che meritasse pietà e non risposta. "Io poi" continuò la voce sonora e armoniosa "sono anche cristiano. Non cattolico ma cristiano. Anzi, come cristiano, sono anticattolico. Il mio cuore è cristiano e il mio cervello è protestante. Io vedo con gioia nel cattolicismo i segni, non dico della decrepitezza ma della putrefazione. La carità si va disfacendo nei cuori più schiettamente cattolici in una melma oscura tutta vermi di odio. Vedo il Cattolicismo fendersi da ogni parte e vedo spuntare per le fessure la vecchia idolatria cui si è sovrapposto. Le poche energie giovani, sane, vitali, che vi si manifestano, tendono tutte a separarsene. So che Lei è appunto un cattolico radicale, ch'è amico di un uomo veramente sano e forte che si dice cattolico ma ch'è giudicato eretico, però, dai cattolici puri; e lo è certamente. Mi hanno detto che Lei è scolare di questo nobile eretico, che fa una propaganda riformatrice e che in pari tempo cerca di agire sul Pontefice. Ora un grande riformatore lo aspetto anch'io ma dev'essere un antipapa; non un antipapa nel piccolo senso storico; un antipapa nel grande senso luterano della parola. "Curiosità ci punge di sapere" come Lei creda possibile ringiovanire questo povero vecchione di Papato che noi laici precediamo non soltanto nella conquista della civiltà ma nella scienza di Dio, anche, e persino nella scienza di Cristo; che ci anfana dietro a grande distanza e ogni tanto si pianta sulla via, restio come una bestia che fiuta il macello, e poi, quando è tirato ben forte, fa un salto avanti per tornarsi a piantare fermo fino a un altro strappo di fune. Ci dica il Suo concetto di una riforma cattolica. Sentiamo." Benedetto rimase silenzioso. "Parli" riprese il nume ignoto che pareva imperare in quel luogo. "Il mio amico non è Erode né io sono Pilato. Noi potremmo forse diventare due apostoli della Sua idea." L'amico stese ancora le due mani aperte, senza levar il capo dalla spalliera, disse ancora, però pigiando più forte sulla prima sillaba: "Piano." Benedetto tacque. "Mi pare, caro mio" disse l'amico voltando il capo, senz'alzarlo, verso il collega "che questo sarà il primo fiasco della tua eloquenza. Qui il modello del nihil respondit è preso molto sul serio." Benedetto trasalì, atterrito dal richiamo al Divino Maestro, dal dubbio di parerne un imitatore superbo. Cessò in quel momento di sentire il suo male, la febbre, la sete, la gravezza del capo. "Oh no" esclamò "adesso io rispondo! Lei dice che non è Pilato. Il vero è invece che io sono l'ultimo dei servi di Cristo perché gli sono stato infedele e che Lei mi ripete proprio la domanda di Pilato: - Quid est veritas? Ora Lei non è disposto a ricevere la Verità, come non vi era disposto Pilato." "Oh!" esclamò il suo interlocutore. "E perché?" L'amico rise rumorosamente. "Perché" rispose Benedetto "chi opera tenebre, le tenebre lo avvolgono e la luce non gli può arrivare. Lei opera tenebre. È facile di comprenderlo, Lei è il signor ministro dell' Interno, La conosco di fama. Lei non è nato per operare tenebre, vi è stata molta luce in certe opere Sue, vi è molta luce nella Sua anima, molta luce di Verità e di bontà; ma in questo momento Lei opera tenebre. Io sono questa notte qui perché Lei ha pattuito un mercato non confessabile. Lei dice di adorare la Verità, domanda a un fratello se possiede la Verità e tace che lo ha già venduto!" Mentre Benedetto parlava, l'amico del ministro, Eccellenza egli pure ma in sottordine, alzò finalmente il capo dalla spalliera del canapè. Parve che incominciasse soltanto allora a stimar degno di attenzione l'uomo e quello che diceva. Parve anche divertirsi della lezione toccata al principale del quale ammirava l'ingegno grandissimo ma derideva in cuor suo le velleità idealistiche. Il principale rimase, sulle prime, sbalordito; poi scattò in piedi, gridando come un ossesso: "Siete un mentitore! Siete un insolente! Non meritate la mia bontà! Non vi ho venduto, non valete niente, vi regalerò! Andate! Andate via!" Cercò il bottone del campanello elettrico e non trovandolo nella cecità della collera, gridò: "Usciere! Usciere!" Il sottosegretario di Stato, avvezzo a queste scenate ch'eran poi sempre fuochi di paglia perché il ministro aveva un cuore d'oro, se la rideva, in principio sotto i baffi. Ma quando lo udì chiamar l'usciere a quel modo, conoscendo bene le indiscrezioni degli uscieri e pensando i pettegolezzi pericolosi che potevano nascere di questo incidente, il ridicolo che ne sarebbe schizzato anche sopra di lui, trattenne risolutamente il ministro imponendogli, quasi, di chetarsi, e disse brusco a Benedetto: "Lei se ne vada." Il ministro si diede a camminare per la sala, muto, a capo basso, a passi frettolosi e brevi, male vincendo in sé il bambino che avrebbe voluto battere i piedi sul posto. Benedetto non ubbidì. Ritto e severo, radiante invisibili raggi di uno spirito dominatore, che tennero a distanza il sottosegretario di Stato, egli costrinse l'altro con questo potere magnetico a voltarsi verso di lui, a fermarsi, a guardarlo in faccia. "Signor ministro" diss'egli "io sto per uscire non solo da questo palazzo ma credo anche, fra non molto, da questo mondo. Non La rivedrò più, mi ascolti un'ultima volta. Ella non è ora disposto alla Verità, però la Verità è alle Sue porte, e verrà l'ora, e non è lontana perché la Sua Vita discende, che si farà notte sopra di Lei, sopra i Suoi poteri, i Suoi onori, le Sue ambizioni. Allora Ella udrà la Verità chiamare nella notte. Potrà rispondere - parti - e non la incontrerà più mai. Potrà rispondere - entra - e la vedrà comparire velata, spirante dolcezza dal velo. Ella non sa ora come risponderà, né io lo so, né alcuno al mondo. Si prepari colle opere buone a risponder bene. Qualunque sieno gli errori Suoi, vi è religiosità nel Suo spirito. Iddio Le ha dato molto potere nel mondo; lo adoperi per il bene. Lei ch'è nato cattolico dice di essere protestante. Forse Lei non conosce abbastanza il Cattolicismo per comprendere che il Protestantesimo si sfascia sopra il Cristo morto e che il Cattolicismo evolve per virtù del Cristo vivente. Ma io parlo adesso all'uomo di Stato, non certo per domandargli di proteggere la Chiesa cattolica che sarebbe una sventura, ma per dirgli che se lo Stato non ha ad essere né cattolico né protestante, non gli è però lecito d'ignorare Iddio e voi osate negarlo in più di una scuola vostra, di quelle che chiamate alte, in nome della libertà della scienza che voi confondete colla libertà del pensiero e della parola perché il pensiero e la parola sono liberi di negare Iddio ma la negazione di Dio non ha né può avere carattere di scienza e voi solo la scienza dovete insegnare. Voi conoscete bene la piccola politica che vi fa transigere in segreto con la vostra coscienza per avere celatamente un favore dal Vaticano, nel quale non credete; ma voi conoscete male la grande politica di mantenere l'autorità di Chi è il principio eterno di ogni giustizia. Voi lavorate a distruggerla ben peggio che con i professori atei; in fondo i professori atei hanno un piccolo potere; voi uomini politici che dite spesso di credere in Dio, voi ne distruggete l'autorità molto più che quei professori, con i mali esempî del vostro ateismo pratico. Voi che vi figurate di credere nel Dio di Cristo, siete in realtà profeti e sacerdoti degli dei falsi. Voi li servite come li servivano i principi idolatri ebrei, nei luoghi alti, in cospetto del popolo. Voi servite nei luoghi alti gli dei di tutte le cupidigie terrestri." "Bravo!" interruppe il ministro, conosciuto per la sua morigeratezza, per le virtù famigliari, per la noncuranza del danaro. "Mi divertite!" E soggiunse, vôlto all'amico: "Proprio non valeva la pena." "M'intenda bene!" riprese Benedetto. "Sì, anche Lei è uno di questi sacerdoti. Parlo io forse di gaudenti comuni? Parlo di Lei e di altri come Lei che si credono gente onesta perché non cacciano le mani nel danaro dello Stato, che si credono gente morale perché non si danno ai piaceri dei sensi. Vi dirò due cose. Intanto, voi adorate piaceri più perversi. Voi fate di voi stessi i vostri falsi dei, voi adorate il piacere di contemplarvi nel vostro potere, nei vostri onori, nell'ammirazione della gente. Ai vostri dei voi sacrificate colpevolmente molte vittime umane e la integrità del vostro stesso carattere. Fra voi vi è il patto che ciascuno rispetti il falso Dio del collega e ne aiuti il culto. I più puri di voi sono colpevoli almeno di questa complicità. Voi torcete lo sguardo da torbide congiure d'interessi vili, da non confessabili intrighi di sêtte che strisciano nell'ombra e li lasciate passare in silenzio. Voi vi credete incorrotti e corrompete! Voi distribuite regolarmente denaro pubblico a gente che vi vende la parola e l'onestà della coscienza. Voi disprezzate e nutrite questa infamia sotto di voi. È più empio comperare voti e lodi che venderne! I più corrotti siete voi! Secondo peccato, voi considerate il mentire una necessità della vostra condizione, voi mentite come bere acqua, mentite al popolo, mentite al Parlamento, mentite al Principe, mentite agli avversarî, mentite agli amici. Lo so, qualcuno di voi personalmente non pratica l'abituale mentire, solamente lo tollera nei colleghi, molti di voi prendono con ripugnanza quest'abito nell'entrare dove si governa, come entrando in una miniera si prende talvolta una veste sudicia che difende la nostra; e all'uscire lo depongono con gioia. Ma costoro che sono i migliori, si diranno essi buoni e fedeli servi della Verità? Voi credete in Dio e forse al vostro letto di morte pensate di avere maggiormente offeso Iddio come uomini politici con azioni di violenza contro la Chiesa nel nome dello Stato. No, non saranno state queste le vostre maggiori offese. Se vengono in Parlamento e dal Parlamento al Governo uomini che professino come filosofi di non conoscere Dio ma che insorgano nel nome della Verità contro quest'arbitraria tirannia della Menzogna, meglio serviranno Dio e saranno più grati a Dio di voi che credete in esso come in un idolo e non come nello Spirito di Verità, di voi che osate parlare di putrefazioni del Cattolicismo, puzzolenti di falsità come siete. Sì, puzzolenti! Voi fate tanto impura l'aria delle altezze, a rovescio di quello che sarebbe naturale, da rendere ben difficile di respirarla. Voi avete un cuore religioso, signor ministro; non rispondetemi che in questo palazzo non si può servire Iddio ..." "Sa Lei ..." esclamò con ira il ministro incrociando le braccia sul petto. Il sottosegretario di Stato stese graziosamente una mano verso di lui per arrestarne la parola sdegnosa. "Piano piano piano" diss'egli. "Permetti? Perché mi ci diverto." Il sottosegretario di Stato, piccolo, rotondetto, rispettoso della propria sottosegretarietà, simile a un uovo in possesso cosciente di un sacro pulcino, ben minore uomo del ministro e ben diverso da lui, non aveva affatto le curiosità intellettuali del Superiore e non era venuto che per compiacere al Superiore. Il Superiore, luminosa intelligenza, soleva fermare il proprio lume ora sull'una ora sull'altra delle persone che gli giravano attorno e crederli allora lucenti per loro virtù come forse penserà il sole degli astri che gli fanno la corte. Il sottosegretario di Stato rifletteva luce al ministro e il ministro rifletteva ammirazione al sottosegretario di Stato. Il ministro lo aveva desiderato a quel colloquio non comprendendo affatto che il piccolo Mercurio del suo sistema planetario, avendo risoluto da giovine di sciogliersi dal soprannaturale che gl'impediva i movimenti più spontanei della sua natura egoistica, si era preso per il soprannaturale dell'odio che gl'infermi concepiscono talvolta per la persona della quale sanno che ha fatto delle infermità loro un pronostico triste. Come questi infelici vogliono persuadersi che il profeta non merita fede e più la sua profezia si viene avverando, più s'irritano, più si struggono di abbattere quell'autorità minacciosa; così colui, più sentiva declinargli il vigor giovanile e perder credito i dogmi materialistici e folgorargli nel cuore di quando in quando certe apprensioni lancinanti di una Verità formidabile che poi venivano lentamente meno, più s'inveleniva nell'odio coperto d'ironica noncuranza. "Senta un po', caro Lei" diss'egli a Benedetto dopo essersi fatto largo nella conversazione con quella parola e quel gesto. "Lei parla molto di dei falsi e di dei veri. Io non so se il Suo sia falso o vero. Sarà vero ma è certamente irragionevole. Un Dio che ha creato il mondo come gli è piaciuto, in modo che deve andare come va, e poi viene a dirci che dobbiamo farlo andare in un modo diverso, eh senta, via! non è un Dio ragionevole! Lei si è permesso di vuotare un sacco di contumelie, un sacco di accuse agli uomini politici, che sono calunnie, specialmente se le vuole applicare a quel Signore lì e a me; ma io Le concedo che la politica, per forza, non è mestiere da Santi. Chi ha fatto il mondo non ha voluto che lo sia! Se la sbrighi con lui. Ebbene, bisogna pure che qualcuno lo faccia, quel mestiere lì. Adesso lo facciamo noi che se non siamo Santi, almeno Lei vede quanto pazientemente trattiamo con i Santi. E senta." Il sottosegretario guardò l'orologio. "Si fa tardi" diss'egli "e nelle vie di Roma, a ora tarda, la santità corre qualche pericolo. È meglio che Lei se ne vada." Stese la mano al campanello elettrico per chiamare l'usciere. "Signor ministro!" esclamò Benedetto con tal vigore di accento che il sottosegretario rimase immobile a braccio steso come colto da un colpo di gelo. "Lei teme per lo Stato, per la monarchia, per la libertà, i socialisti e gli anarchici; tema molto più i Suoi colleghi schernitori di Dio, perché i socialisti e gli anarchici sono febbre, gli schernitori di Dio sono cancrena! - Quanto a Lei" soggiunse vôlto al sottosegretario "Lei deride Uno che tace. Tema il suo silenzio!" Senza che né l'uno né l'altro dei due potenti dicesse una parola, facesse un gesto, Benedetto uscì della sala. Egli discese lo scalone vibrando tutto nel contraccolpo delle parole che gli erano scoppiate dal cuore e nel fuoco febbrile del sangue. Le gambe gli tremavano, gli mancavano sotto. Fu costretto due o tre volte di afferrarsi al parapetto e di sostare. Giunto all'ultima colonna, vi premette la fronte pulsante, cercando frescura. Se ne staccò subito, sentì ripugnanza della stessa pietra di quel palazzo come se fosse infetta di tradimento, complice del commercio vile che vi si era fatto, atrocemente vile, fra ministri di Cristo e ministri della Patria. Sedette sul penultimo gradino, non potendone più, senza guardare ai fanali accesi della carrozza che aspettava lì a due passi, senza dubbio la carrozza del ministro; non curando esser veduto. Respirò un poco, lo sdegno gli si venne quietando un poco, quietando in dolore, in desiderio di piangere sulle tristi cecità del mondo. E cominciò anche a sentirsi solo, amaramente solo. Unica lei, la donna del suo passato errore, aveva vegliato, aveva scoperto, aveva agito. Solo per lei gli era stato dato di far fronte al ministro sapendo quale linguaggio fosse da tenergli. Gli altri amici suoi, gli amici devoti alle sue idee religiose, avevano dormito e dormivano. Gli piacque l'acre pensiero che non si curassero più di lui. Gli piacque di abbandonarsi almeno una volta alla pietà della propria sorte, di gustarla, almeno una volta, sino al fondo, di figurarsi la propria sorte anche più dolorosa e amara che non fosse. Tutti erano contro di lui, si accordavano contro di lui, tutti! Solo, solo, solo. E i suoi sostegni interni eran proprio buoni? Eran proprio sicuri? Quell'uomo là in alto, quel ministro di tanto ingegno, di tanto sapere, di tanta bontà personale, se avesse ragione? Se il Cattolicismo fosse veramente insanabile? Oh, ecco, anche il Signore, il Signore da lui servito, il Signore che lo colpiva nel corpo, che lo metteva in potere dei suoi nemici, adesso lo abbandonava nell'anima. Angoscia, mortale angoscia! Desiderò morire lì, aver pace. Le voci, in alto, del ministro e del sottosegretario che discendono. Benedetto si sforzò di alzarsi, si trascinò nella via, vide a sinistra, pochi passi oltre il portone, un'altra carrozza ferma. Un domestico in livrea stava sul marciapiede discorrendo col cocchiere. Al comparire di Benedetto il domestico gli si fece premurosamente incontro. Benedetto riconobbe alla luce del gas il romano antico di villa Diedo, il cameriere dei Dessalle. Gli balenò nel cervello torbido che Jeanne fosse ad aspettarlo in carrozza, diede un passo indietro. "No" diss'egli. Intanto la carrozza era venuta avanti. Benedetto immaginò di vedere Jeanne, esser fatto salire con lei, di non avere forza sufficiente a impedirlo. Preso da vertigine, retrocesse ancora e sarebbe caduto se il domestico non lo avesse raccolto nelle sue braccia. Si trovò in carrozza senza saper come, con un fastidioso lume vivo incontro e un forte ronzio negli orecchi. A poco a poco si raccapezzò. Era solo, una lampadina ad acetilene gli luceva in faccia. Lo sportello alla sua destra era aperto e il domestico gli parlava. Che diceva? Dove andare? A villa Mayda? Sì certo, a villa Mayda. Non si poteva spegnere quel lume? Il domestico spense e parlò ancora, di una carta. Quale carta? Una carta che la signora aveva fatto mettere nel taschino interno del coupé , coll'ordine di consegnarla al Signore. Benedetto non capiva, non vedeva. Il domestico prese la carta e gliela pose in tasca. Poi domandò, per ordine dei signori, stavolta disse così, come il Signore stesse di salute. Se lo avesse veduto morto, il rigido uomo avrebbe ugualmente eseguito l'ordine. Benedetto pregò, per tutta risposta, che gli fosse portata un po' d'acqua; bevette avidamente quella che il domestico gli recò da un caffè vicino, ne provò alquanto ristoro. Riprendendo la tazza vuota, il domestico credette bene di compiere la sua missione: "La signora mi ha ordinato di dirle, se Lei domanda, che i signori hanno mandato la carrozza perché sanno che Lei non sta bene e hanno pensato che qui, a quest'ora, non ne troverebbe." Il coupé aveva molle eccellenti e le gomme alle ruote. Che riposo era per Benedetto di correre silenziosamente così, solo dentro un'oscura carrozza soffice, nel cuore della notte! Di quando in quando apparivano a destra e a sinistra sfondi di vie lucenti e allora era per lui una sofferenza, come se quelle lunghe file di lumi fossero nemiche. Tornava subito l'ombra delle vie strette, la fuga, sui marciapiedi e sulle case, della luce trabalzante dai fanali del coupé . Il cocchiere mise il cavallo al passo e Benedetto guardò fuori, nel buio. Gli parve che incominciasse la salita dell' Aventino. Si sentiva meglio; la febbre, inasprita dai travagli fisici e morali di quella notte di battaglia, declinava rapidamente. Avvertì allora, per la prima volta, il sottilissimo profumo del coupé , il solito profumo usato da Jeanne, e lo morse la memoria viva del ritorno da Praglia con lei, del momento in cui, lasciata lei al piede della salita di villa Diedo, si era allontanato solo nella victoria profumata e tepida di lei; solo, ebbro del suo segreto di amore. Atterrito dalla vivezza dei ricordi, si strinse le braccia al petto, si sforzò di ritrarsi dai sensi e dalla memoria nel centro di sé, ansava a bocca semiaperta non riuscendo a spinger la immagine fuori dalla sua visione interna. E altre gliene lampeggiavano nel cuore senza vincere la sua volontà resistente ma facendola fremere come una corda tesa. Era l'idea che soltanto lei, Jeanne, lo amasse davvero, che soltanto lei soffrisse del suo soffrire. Era la voce di lei che si doleva di non essere riamata, la voce di lei che lo pregava di amore con una cantilena di Saint-Saëns, tanto dolce, tanto triste, nota ad ambedue, della quale egli le aveva detto a villa Diedo che nulla saprebbe ricusare a chi pregasse così. Era l'idea di fuggir lontano, ben lontano e per sempre, da Roma pagana e farisea. Era una visione di pace, di colloquî purissimi con la donna ch'egli conquisterebbe finalmente alla fede. Era un desiderio ardente di dire al Signore: troppo tristo è il mondo, concedi che ti adori così. Era il pensiero che in tutto ciò non vi fosse colpa, che non fosse colpa l'abbandono della sua missione a fronte di tanti nemici. Era il dubbio di non avere realmente missione alcuna, di aver ceduto a suggestioni d'inganno, di aver creduto a realtà di fantasmi, di essere stato illuso da parvenze del caso. Erano le fisionomie spirituali e morali dei suoi amici e seguaci, fatte difformi agli occhi suoi come da uno specchio convesso; era la scorata certezza che ogni speranza posta in essi gli fallirebbe. Era da capo la cantilena tenera e triste, con un senso non più di preghiera ma di pietà, di una pietà circonfusa alla sua lotta amara, dell'accorata pietà di qualche spirito ignoto che pure soffrisse e si dolesse di Dio ma umilmente, dolcemente, e parlasse per tutto che ama e soffre nel mondo. La carrozza si fermò a un crocicchio e il domestico scese dal serpe, si affacciò allo sportello. Pareva che tanto egli quanto il cocchiere non avessero un'idea chiara del posto di questa villa Mayda. A destra scendeva una stradicciuola fra due muri. Dietro quello più alto di sinistra colossali alberi neri ruggivano al tramontano che aveva spazzato le nubi. Nello sfondo nereggiavano al fioco lume stellare il Gianicolo e San Pietro. Era una stradicciuola da pedoni. Doveva il Signore scendere lì per andare a villa Mayda? No, ma "il Signore" volle scendere a ogni modo, uscire della carrozza avvelenata. Si trascinò, lottando col suo povero corpo infermo e col vento, fino a Sant' Anselmo. Rifinito, pensò a domandare l'ospitalità dei monaci ma non lo fece. Scese lungo il grande, silenzioso asilo benedettino di pace, passò sospirando davanti alla porta chiusa che dice vanamente quieti et amicis , giunse infine al cancello di villa Mayda. Il giardiniere venne ad aprirgli mezzo svestito e si meravigliò molto di vederlo. Gli disse che lo credeva in prigione perché verso le nove un delegato di P. S. e una guardia erano venuti a cercarlo. Anzi la signora, la nuora del professore, saputo questo, aveva dato senz'altro l'ordine di non lasciarlo entrare se per caso ritornasse; ma poi, con molta gioia del giardiniere, affezionato a Benedetto e al padrone quanto avverso alla signora, era venuto un fiero contrordine del professore. Udito ciò, Benedetto sarebbe ripartito subito se gliene fossero bastate le forze. Ma non era in grado di fare cento passi. "Sarà per questa sola notte" diss'egli. Abitava una cameretta nella casina del giardiniere. Sperò, nell'entrarvi, che vi avrebbe ritrovata la pace del cuore; ma non fu così. Lo cacciavano anche di là; ecco l'annuncio amaro che il suo cuore diede al povero lettuccio, ai poveri arredi, ai pochi libri, alla fumosa candela di sego. Fissi gli occhi nel Crocifisso pendente sopra uno sgabello a fianco del letto, egli gemette mentalmente con uno sforzo di volontà: "Come posso io dolermi tanto, Signore, delle croci mie?" Invano; il suo spirito non aveva senso vivo né di Cristo né della Croce. Sedette desolato, non volendo coricarsi così, aspettando una stilla di dolcezza che non veniva. Una folata di vento gli fece volgere il capo alla finestra che si era spalancata. Vide laggiù nel cielo lucidissimo, sopra i merli di Porta San Paolo e la nera punta della piramide di Cestio e le vette dei cipressi che cingono la tomba di Shelley, un grande pianeta. Il vento urlava intorno alla casina. Oh la notte nel manicomio dove sua moglie moriva, e le urla delle agitate, e il grande pianeta! Nel reclinare il capo grave di tristezza si accorse per caso della carta che il domestico gli aveva cacciata in tasca. Era una grande busta orlata di nero. La spiegò, vi lesse il nome e i titoli della sua povera vecchia suocera, la marchesa Nene Scremin, e le due semplici parole che seguivano: IN PACE. Impietrò col foglio aperto nelle mani e gli occhi fissi alle due parole anguste. Poi le mani gli cominciarono a tremare e dalle mani il tremito gli salì al petto, crescendo, crescendo, e dall'affollar del petto gli ruppe su per la gola una tempesta di pianto. Piange per il ritorno di tante memorie ricondotte a lui dalla povera morta, dolorose e soavi; piange affissandosi nel Crocifisso, in Cristo, al quale, oh certo, ella si abbandonò fidente, nel morire, come l'altra cara, come la sua Elisa; piange di gratitudine a lei che ancora dal mondo ignoto gli è pia, gl'intenerisce il cuore. Ricorda le ultime parole udite dalla sua bocca: "Allora, vederci, mai più?" Sorride nell'anima presaga, si volge alla finestra spalancata, contempla il grande pianeta.

CAINO E ABELE

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Perodi, Emma 10 occorrenze

Così, senza spesa, abbiamo sempre pesce eccellente, caccia prelibata, frutta e legumi squisiti, e quello che manca lo portano i vapori da Napoli, da Palermo, o dai porti della Spagna e dell'Inghilterra o dell'Africa. Ella non conosce ancora la casa e stasera non potrà vederla; ma domani gliela farò visitare, come il Varvaro le farà visitare lo stabilimento, e dopo ella ammirerà suo fratello per il gusto di cui ha dato prova creandosi questo piccolo Eden, e per le larghe vedute con cui dirige il suo commercio. Egli deve provare una grande soddisfazione nel poter dire a sé stesso: Tutto questo è opera mia! Franco non era permaloso, ma quegli elogi tributati al fratello lo umiliavano assai, tanto più che Velleda metteva molto calore nell'esprimerli. Il babbo è un uomo come non ce ne sono altri! disse Maria che era stata zitta e composta fino a quel momento. Franco sorrise alla nipotina e mentre ella con insistenza gli domandava notizie del carissimo assente, egli esaminava Velleda. La istitutrice di Maria aveva maniere così garbate e un fare tanto signorile che Franco pensò come erano state superflue le raccomandazioni fattegli da Roberto di trattarla con riguardo. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto fare altrimenti. Velleda era una signora, una vera dama, molto più di tante principesse. Non era giovanissima; poteva avere da trenta a trentadue anni; ma la voce, il gesto, la perfetta sicurezza che dimostrava facendo da padrona di casa, si addicevano all'età, che ella non si studiava di celare. Di statura era piuttosto piccola e sottile come una giovinetta di quindici anni e le forme della snella personcina erano poste in rilievo da un vestito bigio, di lana tagliato da un sarto inglese. Non aveva altri gioielli che una spilla d'oro opaco che le fermava il colletto del vestito. E da quel colletto semplice e un po' maschile si sprigionava un collo sottile, bianco, sorreggente una testina ricciuta. Velleda portava i capelli corti dopo una grave malattia, ma questo non le disdiceva punto, anzi dava una grazia gio vanile alla sua testina piccolissima. Non aveva tratti regolari, perché il naso invece di formare una linea retta con la fronte, era un poco rivolto all'insù ed ella scambiava leggermente un occhio, ma aveva il mento così grazioso, e gli orecchi cosi piccoli e chiusi come fiori ancora in boccio, e la pelle era così trasparente che pareva, secondo l'atteggiamento del volto, lumeggiata di argento. Tutto era luce in quel visino e senza quei cerchi profondi che le attorniavano gli occhi, sarebbe parsa una bimba, tanto aveva fresca la bocca e rotonda la linea che tal mento va fino alla nuca. Velleda non era una di quelle donne che attirano l'ammirazione della folla nelle vie, in un teatro o in un ballo. La cornice adatta per quella singolare testina era una stanza semplice ed elegante; era la casa dove la sua figurina poco ingombrante si aggirava senza far rumore. Forse vestita sfarzosamente, coperta di gioielli, non sarebbe stata bella: ma con quel vestito, che rivelava un gusto finissimo di signora, dinanzi a quella tavola di una eleganza sobria; ella appariva seducentissima anche a Franco che era buon conoscitore. Eppoi la sua voce era una musica. Aveva l'accento toscano, gentile e carezzevole all'orecchio e nel parlare sfoggiava naturalmente tutto l'incanto di quella favella, così precisa nell'espressione e così pura nei suoni Fra reo le domandò se era fiorentina. Sono nata a Fiesole, - ella rispose, - la mamma era russa e il babbo fiorentino; ma aveva passato lunghi anni ini Inghilterra esule; così in casa nostra si parlavano tutte le lingue; ma io ho avuto sempre una grande predilezione par l'italiana ed è la sola che ho veramente studiata. Qui la sento parlar poco, ma leggo molto e specialmente i classici. Se a lei non dispiace, - aggiunse con un sorriso, - noi continueremo il nostro metodo di vita. La domenica, il martedì e il giovedì parliamo italiano, perché Maria deve imparar bene la sua lingua; il lunedì e il venerdì parliamo inglese e il mercoledì e il sabato tedesco. Osservando severamente questo programma in un anno ho ottenuto che la mia piccina possa esprimersi in queste tre lingue; quando venni non sapeva altro che il siciliano, insegnatele dalla sua balia. Oggi quale lingua tocca? - domandò Franco. - Io non parlo tedesco. Oggi toccherebbe appunto il tedesco; ma faremo una eccezione. Non posso condannarla a sentirci parlare una lingua che non capisce. Maria le deve questo riguardo, tanto più che una bambina deve imparare prima l'educazione che ogni altra cosa. Il pranzo era servito dal cameriere di Roberto; vestito con una semplice livrea di tela, ma il servo era così esperto nel servizio che a Franco pareva di essere in casa propria. Mio fratello ha un cuoco eccellente, - disse il duca vedendosi servire un beli gelato di mandarino. Velleda sorrise. È un contadino di Castelvetrano, che ho preso dalla vanga pochi mesi fa, - rispose. - Con un po' di pazienza gli ho insegnato quanto occorre perché ci serva un buon pranzo tutte le sere. Ma per ottener questo abbiamo spesso mangiato otto giorni di seguito le stesse pietanze per farlo impratichire. Ci vuoi pazienza, ma poi si giunge a tutto, - ella aggiunse con una bella sicurezza. Terminato il pranzo Velleda fece salire Franco sulla terrazza del piano superiore, che guardava il mare e dove era servito il caffè. Il vento s'era calmato e Maria andava e veniva dall'ampia sala portando a far vedere allo zio i suoi ritratti e i balocchi e con quella insistenza comune nei bambini cercava di cattivarne l'attenzione ; ma Franco le rispondeva distrattamente, fumando un eccellente sigaro offertogli da Velleda e interrogandola continuamente. Il giovane signore fin dal primo momento che l'aveva veduta, aveva capito che quella colta ed elegante donnina, tutta grazia, non poteva essere una istitutrice di professione e cercava di scoprire il mistero di quella esistenza, perché parevagli impossibile che un mistero non ci fosse. E le domande che le rivolgeva miravano a questo. Ho molti amici anch'io a Firenze, - diceva egli, è molto tempo che manca da quella città? No, da un anno solamente, - rispondeva ella. Mi sorprende, continuava Franco, - che uscendo da quella città gentile e gaia, ella si sia potuta adattare a viver qui. Non mi è stato difficile punto. Per un carattere come il mio, amico della quiete e del lavoro, Selinunte è un paradiso. Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

. - Abbiamo altri undici magazzini come questo e in essi vi saranno un trecentomila ettolitri di vino, ma in quest' anno se ne esiterà appena un milione di litri e il resto deve essere invecchiato, perché acquisti pregio; ma anche ogni anno occorre allargare il campo dei nostri smerci e di questo si occupa specialmente suo fratello. Da che la Francia è chiusa per noi, il signor Roberto si è studiato di rendere più facili i trasporti con l'Oriente. Ormai il nostro vino va a Tunisi, in Egitto e nei possedimenti inglesi delle Indie. Abbiamo noleggiato vapori che fanno il servizio di quei porti, e altri che lo recano a Napoli, a Livorno, a Genova. Le spedizioni piccole si fanno per ferrovia e per risparmiare nel trasporto da qui a Castelvetrano, il signor Roberto ha già fatto fare gli studi per una ferrovia a trazione elettrica. La mattina servirebbe al trasporto degli operai fino allo stabilimento, nel giorno a quello della merce. Guardi come suo fratello pensa a tutto, - aggiunse mostrando a Franco la tappatura di una botte. - Molti negozianti che smerciano il nostro vino ne facevano venire pochi fusti di qua e poi riempivano i vuoti con altro vino di peggior qualità e lo gabellavano per nostro. Poteva nascere un discredito per noi e il Selinunte correva rischio di perdere una parte del mercato conquistato con tanta fatica. Ora sotto alla capsula che copre il tappo, si mette il bollettino di spedizione, che porta la firma del proprietario, e non è possibile togliere quello strato di piombo senza rompere il bollettino. Oh! suo fratello ha una gran testa. e degli uomini come lui ce ne vorrebbero molti in Italia. Franco sorrideva con quel sorriso che pareva una smorfia, ma dentro di se fremeva di rabbia. Perché, perché mai tutto doveva riuscire a Roberto e a lui nulla? In quel momento sentì suonare una campana e vide tutti gli operai abbandonare il lavoro e correre alle fontane del cortile a lavarsi le mani e la faccia e poi dirigersi in fila di quattro verso la porta d'uscita, di fronte al mare. Dove vanno? - domandò Franco. Vanno a desinare. Venga ad assistere al loro pasto. Franco uscì pure e seguì il Varvaro verso una tettoia addossata all'ultimo magazzino di sinistra, ma quando fu a poca distanza ristette colpito di meraviglia. Gli operai in numero di circa trecento, erano seduti davanti a tre lunghissime tavole di pietra. In fondo vi era la cucina di ferro e diverse donne erano intente a colmare di maccheroni un numero grandissimo di scodelle di maiolica, mentre altre tagliavano pezzi di carne lessa e ne mettevano due fette in ciascun piatto ove già era stato posto un contorno di sedani. Le scodelle, a mano a mano che erano ricolme, venivano collocate sopra enormi vassoi di legno bianco, che due donne giravano intorno alle tavole. Ogni operaio aveva dinanzi a se un mezzo litro di vino e due pagnottelle di pan bianco. Quando la pasta era già stata servita, giunse Velleda insieme con Maria. Gli operai si alzarono rispettosamente. Non credevo d'incontrarla qui, - disse Franco alla signora. Il signor Varvaro dunque non disimpegna bene il suo ufficio di cicerone, - rispose ella in tono scherzevole, - altrimenti le avrebbe detto che vengo qui ogni giorno ad assaggiar le pietanze e che ho assuefatto anche Maria a questa ispezione quotidiana, che si estende pure agli utensili di cucina. Voglio esser sicura che i nostri buoni lavoranti mangino roba fresca e sana, cucinata in recipienti puliti. Infatti Velleda e Maria si scostarono da Franco e andarono verso i fornelli, ove furono presentati loro due piatti con un poco di pasta, un pezzetto di carne col contorno. Franco andò incontro a Velleda domandandole: - - Mi dica, signora, è anche questa una creazione di Roberto? No, le cucine sono opera mia. Quando giunsi rimasi dolorosamente colpita vedendo che nell'ore del riposo gli operai mangiavano pane e ulive, pane e sedani, e spesso il loro companatico consisteva in un paio di arance. Allora pensai che la cucina economica sarebbe stata per loro una benedizione, e tanto dissi e tanto feci, che indussi il signor Roberto a costruire questa tettoia e a comprare la cucina economica che è là. Ma era fatto il meno; occorreva avere le derrate a un prezzo discreto. Al vino ci pensa il signor Roberto, per il pane creai un piccolo forno, gli erbaggi crescono in abbondanza negli orti dipendenti dallo stabilimento, il pesce si pesca ogni giorno qui all'amo sulla gettata o con le barche; per la carne e per il resto feci appalti con i fornitori di Castelvetrano. Da principio pochi erano gli operai che volevano pagare trenta centesimi il giorno per il desinare e i più preferivano mangiar poco e male. Ma con l'andar del tempo, tutti si sono convinti che il cibo è buono e non vi è un operaio che non venga qui a mangiare. Anzi, ora ci vengono pure quelli degli scavi, così abbiamo circa trecentoventi bocche da sfamare tutti i giorni con meno di cento lire. Ma si arriva in fondo all' anno facendo qualche economia, che servirà a dotare le figliole degli operai. Questa festa è fissata all' anniversario della fondazione dello stabilimento ed ella vedrà allora suo fratello sotto un aspetto nuovo; quello di educatore di questi uomini, educatore morale e civile. Franco si morse le labbra. Era un tormento continuo cui lo sottoponevano cantando sempre le lodi di quel fortunato. Velleda, almeno, avrebbe potuto risparmiargli quella continua umiliazione! La signora non badava al dispetto del duca; ella era andata a guardare i recipienti di cucina e poi, china sopra una piccola tavola, scriveva la lista del desinare per il giorno seguente e firmava i buoni per i fornitori. Quando ebbe terminata questa occupazione, prese Maria per la mano e la fece salire su una sedia, in testa alla tavola centrale. Gli operai, intanto, avevano terminato di mangiare e vedendo la bimba ritta, si alzarono pure. Ella, con la sua vocina chiara, disse: Fratelli nel Signore. Io v'invito a ringraziare Iddio del cibo che vi ha concesso. Uno degli operai, un vecchio con la barba bianca, intonò il "Paternostro" e tutti gli altri gli fecero coro; tenendo la testa china. Signore, riprese la bimba allorché l'ultima voce ebbe pronunziato: " Amen " - benedite questi lavoratori nel loro lavoro, confortateli nelle loro pene e infondete nei loro cuori la speranza in una vita migliore che li aiuti a sopportare le traversie. Maria tacque e lo stesso operaio con la barba bianca, che aveva recitato il " Paternostro ", il vecchio Federigo, disse: Signore, benedite questa terra, benedite il nostro Re e tutta la casa Reale, illuminate i ministri che ci governano, benedite il nostro padrone che ci da lavoro e tutta la sua famiglia, e proteggete dai mali pensieri tutti noi. " Amen " - risposero gli operai e lentamente uscirono dalla tettoia seri e composti. Franco era stato colpito dalla solennità di quella semplice cerimonia e non sapeva più in che mondo fosse. Le questioni sociali, gli odii di classe gli tornavano alla mente e domandava a se stesso con qual mezzo suo fratello era riuscito a mettere in tacere le une, a far sparire gli altri, a stabilire un legame d'affetto fra lavoratori e proprietario. Velleda leggeva in volto a Franco questi pensieri e invitandolo a seguirla alla villa per la colazione, gli disse: Suo fratello è giunto al risultato di cui è stato spettatore con la giustizia e l'affetto. Questi popolani, mal guidati, sono capaci di tutte le aberrazioni: oppressi, si ribellano atrocemente, ma, come tutti i popoli primitivi, hanno il sentimento della giustizia e della riconoscenza e a quello ubbidiscono. Non creda che siano tutti santi; undici di essi hanno scontato in galera delitti di sangue, trentadue sono ammoniti, quaranta sono ascritti a circoli socialisti: ma qui nessuno osa dire una parola. In passato accadevano ogni momento furti, eppure gli operai erano frugati all' uscire dallo stabilimento. fiancavano utensili, fusti di vino, ogni cosa. Un giorno il signor Roberto li riunì nel cortile e disse loro: " Non vi chiedo di rivelarmi il nome dei ladri, perché la delazione fra compagni è una viltà; vi chiedo soltanto di indurre i colpevoli a desistere dal furto. Se continuassere, saprei scoprirli, ma non voglio, perché mi ripugna fissar gli occhi in faccia a un ladro. Da oggi abolisco la visita alla porta, ma vi prometto che non userò più nessuna indulgenza verso i delinquenti. Vuoi credere, continuò Velleda, - che non è più mancato un chiodo, nulla? Il signor Roberto conosce la via del cuore di questi uomini e li commuove. Essi sanno del resto che nel momento del bisogno possono ricorrere a lui. Se un operaio si ammala, - e la malaria infierisce qui per più mesi, - ha il salario, medico, medicine, carne e vino; se muore, la famiglia non trema. È vero che il guadagno che da lo stabilimento è assorbito in parte da queste piccole elargizioni, ma suo fratello ha la soddisfazione di veder che trecento famiglie vivono bene, mercé la sua attività, ed è questa una gioia che non ha eguale nella vita. Ella ammira molto mio fratello? - domandò Franco a denti stretti. Lo ammiro come l'ideale fatto realtà, come si ammira l'uomo che ha un cuore capace di sentire tutti i dolori altrui e d'indovinare tutte le aspirazioni. Nessuna creatura ha mai mangiato il pane di un altro con maggior devota riconoscenza; se io credessi che la mia vita potesse essergli utile, gliela darei con la serenità di una martire, benedicendolo per il dono che si degnerebbe accettare da me. Com'è innamorata di Roberto! - pensò Franco, e come si vanta di quest'amore! Parlando erano giunti alla villa. Nel viale dei palmizi li attendeva il sotto direttore degli scavi, il Lo Carmine, che Velleda aveva invitato a colazione e che presentò subito a Franco. Era un ometto piccolo, brutto, col naso butterato e vestito semplicemente di tela; aveva in testa uno di quei caschi di paglia, coperti di tela, che usano gl'inglesi nelle Indie e i viaggiatori africani. Egli goffamente offrì il braccio a Velleda, con la quale pareva in grande dimestichezza e Franco rimasto a dietro con Maria non potè trattenersi dal dire: Come è buffo quel vostro amico! Ti pare, zio Franco? Io non me n'ero mai accorta, è tanto buono e vuol tanto bene al babbo. La signora Velleda non ti ha mai fatto osservare che era un uomo buffo, volgare, impresentabile? No, Leda mi dice che ha un carattere onesto, che è molto studioso e molto dotto, ma della sua apparenza non abbiamo mai parlato. Dunque è buffo, e in cosa consiste questa sua ridicolaggine, zio Franco? Nel modo di camminare, di salutare, di vestirsi; ti pare che somigli a tuo padre o a me? No, - rispose la bambina. - E ora che me lo fai osservare, par buffo anche a me; mi dispiace perché gli voglio bene. La colazione era preparata nella stessa sala ove avevano pranzato la sera prima. Le grandi finestre erano chiuse a motivo dello scirocco e in questa stanza protetta dalle piante e rivestita di maiolica, regnava un fresco delizioso, mentre fuori l'afa era opprimente. Franco respirò e prese il posto assegnatogli da Velleda, fra questa e Maria, che egli si divertiva a trattar da signora facendola ridere. La conversazione si aggirava sugli scavi intrapresi nell'antica cittadella di Selinunte e ai quali lavoravano in quel tempo appunto. Il Lo Carmine, che era leggermente balbuziente, nel parlare di una cosa che stavagli tanto a cuore, faceva sentir maggiormente quel difetto di pronunzia e non riuscendo a pronunziare le parole speditamente, s'inquietava e diventava rosso. A un certo momento, in cui il professore non riusciva a dire che in quella mattina appunto aveva scoperto il cardine della porta della cittadella che metteva al mare, Franco guardò Maria, e la bimba si mise a ridere. Velleda aveva capito tutto; con una occhiata la richiamò al dovere e poi continuò la conversazione, alla quale Franco restava indifferente. Però accorgendosi che Velleda se ne affliggeva per il buon professore, si rivolse a Lo Carmine, e gli disse bonariamente : Io, caro professore, sono un grande ignorante e le chiedo scusa di non averle prestato tutta quella attenzione che meritava. Giungo da una terra classica per eccellenza, ma noi, romani moderni, del classicismo ci occupiamo poco e non guardiamo neppure i ruderi che attestano il grande passato della nostra città. Qui è peggio ancora; vedo colonne abbattute, sento parlare di scavi, di acropoli e di cittadelle, ma non so neppure che cosa fosse Selinunte in antico; vuole farsi mio maestro e mia guida attraverso l'antica città? Quando mi avrà istruito un poco, le prometto che non sarò più distratto come dianzi. Il duca aveva posto tanta grazia signorile nel confessare la propria ignoranza, che il professore ne rimase soggiogato e si affrettò a mettersi a disposizione del giovane. La prima visita ai templi fu fissata per la mattina dopo alle sette, poiché il sole era troppo caldo nelle ore successive. Zio Franco, - disse Maria quando si furono alzati da tavola, - perché non insegni anche tu qualcosa al professore? Che cosa potrei insegnargli? Egli è tanto dotto e io non so nulla. Insegnargli a mangiar meglio. Ah! birichina, te ne sei accorta anche tu della sua goffaggine. Oggi per la prima volta, zio; prima no. Come mai ridevi a tavola? - domandò Velleda alla piccina quando furono sole. Non lo so, - rispose arrossendo Maria. Vedrai che se ci pensi, te ne rammenterai. Ah! si; ridevo perché lo zio mi aveva guardato. Ridevi di lui? No; sai il Lo Carmine balbettava, e io non potevo star seria. Ma ha sempre balbettato e tu non hai mai riso ; mi dispiace veder mettere in ridicolo una persona per bene; tuo padre sarebbe dispiacentissimo se lo sapesse. Leda, non glielo scrivere, non lo farò più. Lo zio Franco mi aveva fatto osservare che il Lo Carmine era tanto buffo e quando l'ho visto arrossire, ho riso. Quella influenza malsana, che Roberto temeva per Maria, ecco che già manifestavasi. Oh quel Franco! Bisognava tenerlo lontano, assolutamente lontano, se no avrebbe avvezzata falsa la piccina; avrebbe disseccato in lei ogni sentimento di generosità, sviluppando gl'istinti malvagi che sono allo stato latente nel cuore di ogni bimbo. Toccava a Velleda a difenderla, quella piccina; toccava a lei; ma come fare? In preda a questi pensieri ella rimase triste tutto il giorno e non ebbe la forza di scrivere a Roberto una lettera serena. Aveva il presentimento che la presenza di Franco sarebbe stata fatale a tutti e non voleva che la penna la tradisse. Per questo annunziò con un telegramma l'arrivo di Franco e spedì la lettera tedesca di Maria, senza farvi nessuna postilla, riserbandosi a scrivere il giorno seguente.

Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

- esclamò il direttore appena lo vide; che cosa abbiamo fatto con questa, elezione! Avete letto anche voi? - domandò lo scienziato alludendo all'articolo della Trinacria. Altro che letto! La signora Velleda è stata colpita da una febbre! Da più ore è sul letto e trema senza che si riesca a riscaldarla. Avete chiamato il dottore? No, non avevo la carrozza, che è tornata adesso. Sono un poco medico io stesso e le ho fatto dare il chinino, il cognac e applicare senapismi; ma essa non migliora; Maria non vuole uscir di camera e la chiama incessantemente, Costanza l'assiste. Il Lo Carmine dette allora al Varvaro il discorso dell'Orlando e gli narrò la scena avvenuta in piazza. A che cosa giungeremo? - domandò il direttore sgomentato. - In questi quindici giorni si dibatterà anche il processo contro Alessio al tribunale: avremo altri attacchi dall'OrIando, altre scene ... . Purché non si veda scemare il numero dei partigiani del signor Roberto! - rispose Io scienziato. - Questo discorso mira a ciò. Per ora sono fedeli, - osservò il Varvaro, - ma sono così mobili! Pochi giorni fa gli operai adoravano la signora Velleda come si adora la Madonna; ora rifiutano il pranzo perché è lei che ha istituito le cucine, e la insultano. Il Varvaro tacque, udendo i passi di Roberto sulle scale. Egli scendeva insieme con Maria e aveva scritto sul volto il dolore che lo torturava. Perché mi avete nascosto tante cose? - domandò al Varvaro e al Lo Carmine severamente. - Eicevo ora, insieme con la biografia della signora, due numeri dello stesso giornale che io dovevo aver letti da più giorni! Oggi hanno avuto l'accortezza d'inviarmeli in busta chiusa, se no li ignorerei ancora; chi lotta deve essere informato di tutto. La signora, - rispose il Varvaro per iscusarsi, voleva che le fosse risparmiata questa pena e noi le abbiamo ubbidito. Roberto non parlò quasi mai durante la colazione, ma si vedeva che egli ruminava un pensiero. Prima di alzarsi disse: Sentite, Varvaro: io vi affido una missione delicata o spero la compirete. Andate a Palermo; il treno passa alle tre e minuti da Castelvetrano e giungerete in tempo; a Palermo vi recherete alla dirczione del giornale e sappiate intendete, sappiate farvi dire chi è l'autore dell'articolo. Intanto da Castelvetrano spedite il dottore: la signora Velleda sta male. Il Varvaro andò a preparar le valigie, e il buon Lo Carmine, pentito di essere stato lui la causa involontaria di tanti dolori, rimase a divertire Maria, mentre Roberto risaliva in camera della malata, che era tuttavia scossa dal tremito della febbre.

Roberto non lo conosceva, ma appena gli fu presentato, l'avvocato disse strusciandosi le mani: Li abbiamo acchiappati tutti, vivi o morti. Ma; quell' Alessio è un osso duro; non vuoi dir nulla e assicura che la scala di corda non è sua e che egli era entrato nel giardino attiratevi dal desiderio di veder da vicino le lampade dalla luce elettrica. Dunque, continuò il Bottoni, - si avrebbero qui tre fatti isolati : l'attacco allo stabilimento, un tentativo di ratto, provato dalla scala corda, attaccata alla finestra, e la presenza di Alessio, che nega qualsiasi complicità con altri. Se ella riuscisse a farlo parlare; meriterebbe d'esser subito messo al mio posto; io ci rimetto il fiato inutilmente. Proverò, - disse Roberto, - ma ci spero poco. Il Bottoni e il giovine signore si alzarono e dopo poco erano nella stanza dell' ospedale, dove era stato 0134 trasportato Alessio. Da un lato del letto era una guardia di pubblica sicurezza, dall'altro sonnecchiava una suora di carità. Il ferito con la gola fasciata fino all' altezza della bocca, pareva die dormisse. Al rumore dei passi aprì gli occhi, fissò prima il giudice istruttore e poi Roberto. Quest'ultimo sì accostò al letto e disse con la sua voce dolce, cui la commozione dava toni profondi e solenni come le note di un organo : Alessio, sii sincero; per il male che ti voglio, desidero che tu possa lavarti da una accusa grave che pesa su di te. Dimmi che cosa facevi nel giardino della villa, armato, a mezzanotte? Nulla, - rispose il ferito fissando l'antico padrone. So che il mio passato mi accusa, ma io non avevo nessuna intenzione cattiva: lo giuro. Nella voce di Alessio vi era una intonazione di verità, che colpì Roberto. Ma la scala di corda? - domandò. Non è mia; non è stata mai mia e non ho mai comprato un pezzo di corda; magari l'avessi comprata per impiccarmi! Ma a che scopo entrasti in giardino? Per curiosità. Vagavo col fucile in ispalla per tirare alle quaglie che giungevano in quei giorni. Ne avevo già ammazzate diverse per venirle a vendere e me ne hanno trovate in tasca; vidi tutta quella luce ed entrai. A un tratto mi sentii addosso i cani, feci fuoco per difendermi; uno cadde, ma l'altro fuggì per tornare subito e afferrarmi, non so altro perché mi raccolsero mezzo morto. Povera farfalla notturna, attirata dalla luce elettrica! - esclamò in tono di scherno il Bottoni accostandosi, - trovati un mezzo di difesa più abile, se no earai condannato. Che mi condannino pure, io sono innocente! 0135 Alessio, - riprese Roberto con una calma veramente sublime, - dimmi: che volevi tu fare della mia bambina? Nulla. Io non ho mai pensato a torcerle un capello, mai. Vedi, Alessio, non è il tuo antico padrone che ti prega di esser sincero, è un padre. Parla e la mia protezione non ti mancherà mai. Io non sono un ladro, ne un malandrino, - rispose fieramente il ferito. - Le apparenze mi condannano, ma io sono innocente. Povero agnellino bianco! - disse il Bettoni. - , Credi che non si sappia che tu spendevi biglietti da cento e da cinquanta lire nei mesi che eri disoccupato! Ti piovevano dal cielo quei danari! Io spendevo il mio, - replicò il ferito, - e nessuno può dire che io abbia rubato. Del resto, che la polizia cerchi; tocca a lei a trovare. Troverà, - rispose il Bettoni. Roberto, sconfortato da quelle risposte, uscì dalla camera dell'ospedale più afflitto di quando vi era entrato. Non sperava di saper nulla di più e una voce interna gli diceva che, nonostante le apparenze, Alessio era innocente. Ma tutto quel mistero lo turbava, tutte quelle complicazioni lo agitavano e in esse si perdeva la sua mente serena, come lo sguardo più acuto si perde in una foresta intricata e tenebrosa. I Moltedo lo attendevano ansiosi e salì solo dai suoi amici, ai quali narrò tutto. Se alla villa vi fossero altre donne che la signora Velleda e Costanza, direi che Alessio in quella notte si recava a un convegno d'amore, - osservò il Moltedo. Roberto scrollò il capo. Conosco Costanza, - disse, - non è capace di amare. Sono otto anni che è in casa e non ha mai 0136 avuto certe debolezze. La signora poi che cosa può aver di comune con un operaio? Vedete, mio buon Moltedo, la vostra mente come la mia si affatica in supposizioni. Per me Alessio è innocente e questa è la sola verità che mi apparisca chiara. Mi risponderete che tutto cospira contro di lui, ed avete ragione, ma nessuno sa per quali vie misteriose un uomo riesca a comunicare a un altro uomo una convinzione; Alessio me l'ha infusa; ed io ubbidirò a quel sentimento strano quando sarò chiamato a deporre contro di lui. Si riderà di me, ma non importa. La conversazione si aggirò ancora su quell'avvenimento, che aveva tanto turbato i due vecchi amici della famiglia Frangipani. Essi raccomandarono a Roberto di condurre loro Franco che non avevano più veduto da quando era un ragazzino, e augurandosi la buona notte, si separarono. Donna Giovannina accompagnò in camera l'ospite e gli disse: Sorvegliate Costanza, don Roberto. Quello che una donna non ha fatto per tanti anni, lo può fare un giorno, inaspettatamente; ma sorvegliatela senza che se ne accorga. È una supposizione, vedete, che mio marito mi ha fatto balenare nella mente. Dove tutto è buio pesto, bisogna seguire qualunque lumicino, anche un fuoco fatuo. Sorvegliatela. Seguirò il vostro consiglio, donna Giovannina, ma non credo che mi porterà a nessun risultato; Alessio è innocente! La mattina dopo la carrozza di Roberto, una specie di giardiniera di paglia, tirata da due vivaci cavalli, si fermava a casa Moltedo. I due vecchi erano ancora a letto e Roberto, che aveva udito il rumore delle sonagliere da lungi, era già sulla porta ad attendere. Ne scese il Varvaro, cui il signore stese affettuosamente la mano. I cavalli partirono e Roberto acceso un sigaro prese a parlare dello stabilimento, delle spedizioni fatte, 0137 come un uomo occupato soltanto degli affari. Ma il cuore di lui volava anelante alle villa e avrebbe voluto che i cavalli divorassero la strada per condurlo più presto. Per via incontravano gruppi di operai, che si fermavano per salutarlo ed egli dava loro il buon giorno sorridendo. Un ciuffo di mandorli, una spianata di terreno circondato da fichi d'India, la cupola di una carrubba; una palma spiumata erano per lui altrettante pietre miliari che indicavangli l'avvicinarsi alla mèta sospirata. Allorché udì il rumore del mare, e vide la grande colonna del tempio di Apollo biancheggiare sull'azzurro diafano dell' orizzonte, fu invaso da una tenerezza ineffabile, da un sentimento nuovo, dolcissimo. Quando altre volte aveva lasciato la casa, vi era tornato senza commozione; ora che sentivasi così spiritualmente unito a Velleda, quel ritorno, dopo la confessione del suo affetto, era per lui un grande avvenimento. Che cosa si sarebbero detti i loro sguardi, incontrandosi? Che cosa si sarebbero dette le loro mani unendosi? Il sole era già alto e copriva la pianura di un manto aurato, di una ricchezza favolosa. Sotto i raggi caldissimi la sabbia prendeva un tono d'oro antico e le pale dei fichi d'India parevano lame d'acciaio scintillante. Oltre i templi, oltre l'acropoli, oltre la necropoli, al di là del Selino, Roberto scorgeva i pennacchi delle palme del viale. A uno svolto della via scorse lo stabilimento con i camici fumanti e poi la casa. Allora il cuore gli dette un balzo e si fermò per un istante. Come gli parve tranquilla, lieta, ridente quella casa tutta bianca, con le allineate colonne marmoree, sorreggenti la terrazza del primo piano, ombreggiata dalle palme, con la terrazza superiore, che formava intorno all'edifizio un coronamento di maiolica a fondo azzurro 0138 e oro e dalla eguale gli oleandri rosa e rossi emergevano in ciuffi fioriti! Come gli parve cara e desiderata quella dolce casa! La carrozza entrò nel viale dei palmizj, e il rumore delle ruote sulla ghiaia fece accorrere Maria, Franco, Velleda e il Lo Carmine. Bianca, sottile, quasi diafana per il pallore che le copriva il viso, Velleda fu la prima a trovarsi accanto alla carrozza, quando Roberto ne scese. Ella lo fissò intensamente e gli stese le due manine, che egli si portò alle labbra. Maria tenne a lungo suo padre abbracciato, avviticchiandosi a lui con tenerezza appassionata. E a me? - domandò Franco stendendo le braccia al fratello. - Io debbo farti più festa che gli altri; non è per me che sei stato assente? Il Lo Carmine si era posto in disparte, per lasciare sfogo alle prime effusioni e Roberto lo andò a cercare e gli dette una buona stretta di mano. La porta della casa era vagamente adorna di festoni di lauro su cui le grosse margherite e i pelargoni staccavano per chiaro; in terra era formato un tappeto di petali di rose e di fior d'arancio; tutta la casa era vestita a festa e una ghirlanda di rose circondava il bacino marmoreo in cui riversavasi l'acqua della fontana che manteneva una dolce frescura al piede della scala. Grazie, - disse Roberto rivolgendosi a Velleda. Tutta questa festa di fiori mi dice che era desiderato il mio ritorno. Ella alzò su di lui i dolci occhi e con uno sguardo eloquente gli fece intendere le ansie della separazione e la gioia di quel momento. Franco sorprese quello sguardo e abbassò gli occhi indispettito. Non era possibile illudersi; l'anima di quella donna si trasfondeva in quella di Roberto interamente: essi si amavano. 0139 Maria saliva le scale portando al babbo la borsa da viaggio, per non staccarsi da lui; Velleda invitò il duca, il Lo Carmine e il Varvaro a entrare nella stanza da pranzo. In quella calda mattina di maggio la signora aveva dismesso le attillate vesti di Lina, così eleganti e dal taglio un poco maschile, che Franco avevate veduto portar sempre. Ella indossava un abito di una morbida stoffa orientale, color avorio, disseminato di piccoli fiori rosei, e un'alta cintura rosa ricadente in lunghi lembi sulla sottana, le disegnava una lista più viva intorno alla vita sottilissima. Il collo non era più stretto del colletto insaldato e appariva bianco e delicatissimo attraverso le trine che lo circondavano, e la testina bruna e ricciuta s' ergeva gloriosa da quelle stoffe morbide e chiare. Franco notò che Velleda non volle sedersi a tavola prima che Roberto scendesse. In atteggiamento disinvolto ella rimase a parlare ritta nella sala, senza accostarsi alla tavola su cui era steso un tappeto di fiori silvani, un gaio tappeto rosso e giallo. Roberto si fece poco attendere e discese insieme con Maria, la quale teneva fra le braccia una bambola paffuta e rosea, vestita di velluto, dalla quale non staccava gli occhi. Vedi, Leda, che cosa mi ha portato il babbo? disse mostrandola alla signora. Hai pensato, prima di accettare il dono, se lo avevi meritato? Mi pare, - rispose la bambina, - Non ho fatto capricci e ho studiato. Allora, se la tua coscienza ti dice questo, tieni pure la bambola. Roberto aveva ascoltato quel piccolo dialogo e sorrise a Velleda. Quel sorriso non sfuggì a Franco. Come si amano! - ripeteva dentro di sé. La signora era seduta di fronte a Roberto e faceva 0140 gli onori della tavola, ma con maggior riserva che per il pacato e parlava poco, quasi punto, ascoltando Roberto, con quel gaudio infinito con cui si ascolta una melodia cara, non più udita da molto tempo. Durante la colazione, non fu parlato ne del fatto doloroso avvenuto a Selinunte, ne degli affari del duca; ma ormai Velleda non era più ansiosa di notizie. Tutta la sua sovreccitazione era svanita a un tratto ed ella era calma e felice. L'arrivo di Roberto aveva acquetato i suoi nervi, le aveva dileguato dalla mente ogni ricordo. Tutto era pace, era letizia e alzando ogni tanto gli occhi su Roberto pareva dirgli : Sono felice! felice! Soltanto un'ora dopo l'arrivo, Roberto e Velleda si trovarono soli nella sala del piano superiore. Mentre i loro cuori volavano uno verso l'altro per confondersi in una carezza spirituale, essi rimasero distanti, senza stringersi neppur la mano, guardandosi, e la commozione loro si manifestò in un dolce sorriso, nel quale scambievolmente si avvolsero. E dopo quella fugace concessione fatta al loro affetto, ognuno riprese il lavoro: "Velleda condusse Maria nella biblioteca per farla studiare; Roberto andò allo stabilimento, girò nei magazzini e nelle officine e quando il lavoro stava per cessare all'avvicinarsi del mezzogiorno, egli salì nel quartiere di Franco, ove gli aveva detto di attenderlo. Il duca non era punto impaziente; disteso sopra una poltrona di bambù, sfogliava un numero della Vie Parisienne giuntogli quella mattina, e fumava una sigaretta. Quando vide il fratello, non si alzò e gli fece cenno di sedersi di fronte a lui. Franco, vuoi udire il mio rapporto? - disse Roberto. Se è proprio necessario; lo ascolterò; ma se puoi risparmiare di dirmi tante cose die mi faranno pena, te ne sarò grato. 0141 Sobbarcati a questa noia, - disse Roberto, - Ko bisogno della tua approvazione per esser tranquillo. Ebbene, parla allora. La vendita del palazzo, gli oggetti che aveva voluto fossero tolti prima di entrare in trattative con l'aquirente, l'impiego che aveva fatto della somma, pagando prima di tutto i creditori che avevano ipoteche su quello e poi estinguendone altre su case che avrebbe venduto in seguito, i piccoli debiti liquidati, tutto espose brevemente e con chiarezza, ricorrendo due o tre volte soltanto agli appunti del suo taccuino, dal quale terminato che ebbe il rapporto cavò un vaglia di alcune migliala di lire sul Banco di Sicilia e disse al fratello: Ecco che cosa ti riporto; è poco, ma ti basterà per le spese minute in questo tempo di transazione. Dopo, liquidato tutto, confido che ti rimanga abbastanza da vivere; se non riuscissi a questo, la mia casa sarà sempre la tua e i beni di nostra madre ti appartengono come a me. La povertà dunque non ti spaventi, Franco; ti spaventino le azioni inconsiderate che possono distruggere l'opera mia. Perché scrivere alla marchesa quella lettera così triste e affettuosa? Non sai che ella voleva venire qua ad ogni costo e offrirti la consolazione del suo amore? Povera Paola! - disse Franco lusingato nell'amor proprio. - Avrebbe fatto questo? Non scherzare con quel cuore appassionato di donna: l'amore per te è la sua malattia, e di quella morirà, tè lo assicuro io. Sii circospetto, scrivile quel tanto che basta a tenerla calma, ma non le fare sfoghi per intenerirla. La fuga di lei dalla casa del marito sarebbe la più grande sventura che potrebbe capitarti in questo momento. Sarebbe per me il colpo di grazia! Io non voglio fastidj, non voglio seccature e qui si vive così bene, in questo nuovo mondo dove mi hai trasportato! 0142 Dunque la signora Velleda e i pochi amici miei ti hanno affezionato a questo luogo? Mi pare di esservi stato sempre e di non potermene più allontanare. È la vita nel Paradiso terrestre e non manca neppure l'Eva adorabile. Roberto fu offeso da quella ammirazione espressa in tono fatuo e non rispose. Poi parlò della zia, della buona duchessa, che era rimasta così afflitta della lontananza del suo Franco e alla quale la marchesa Paola aveva fatto una visita, la prima dopo la sua malattia, per parlarle dell'assente. Grazie a te, - disse Franco rinchiudendo il vaglia nella scrivania, - non sono stato mai così ricco come adesso. Ho una piccola somma e nessun conto da pagare, nulla da spendere. Mi pare un sogno. Prima potevo avere in cassa migliata e migliala: il dare superava sempre la riserva e a giorni non avevo da pagare una carrozza ; che vita tranquilla che tu mi hai preparata! In questa gratititudine, che il duca si compiaceva di esprimere al fratello, non v'era mai un accento che partisse dal cuore, una parola calda e sentita. E anche la gratitudine si limitava alla parte materiale dell'esistenza, non al lato morale di essa, al quale Roberto aveva pensato soprattutto nell' addossarsi gli affari di Franco. Come farò a destare in lui il sentimento della dignità, come farò ad assuefarlo ad anteporre i beni morali a quelli materiali? - pensava Roberto e si convinceva che l'opera più difficile cominciava appunto ora. La campana dello stabilimento annunziò la pausa nel lavoro e Roberto si alzò prontamente. Vuoi venire ad assistere al pranzo degli operai? disse. - Oggi è il primo maggio e la signora Velleda ha preparato loro una piccola festa. Franco si alzò anch'egli e i due fratelli scesero nello stabilimento. Nel vederli passare; tutti gli operai che 0143 stavano aggruppati intorno alla fontana si voltarono. Il duca vestito di lana bianca, sottile, nervoso, elegante, con lo sguardo freddo, distratto, e l'andatura stanca pareva un gran signore capitato per caso in quel centro di attività; Roberto, con l'abito di tela da lavoro, le forti spalle, l'occhio animato e vigile, era uno di loro, il primo e il più attivo. Gli operai notavano quel contrasto fra i due fratelli e alcuni dicevano: Vedi, don Franco non avrebbe la mano di ferro del padrone! Si, - rispondevano gli altri, - ma con lui si chiuderebbe subito lo stabilimento. Non è un uomo! A poco a poco la tettoia delle cucine si era riempita. Roberto e Franco stavano in disparte, gli operai andavano ad occupare i loro posti, e le donne incominciavano la distribuzione dei maccheroni. Dalle grandi caldaie scoperchiate uscivano nuvole di vapore e dalle teglie di rame saliva nell'aria l'odore del sugo di carne. Quando i maccheroni erano già distribuiti giunse Velleda sola; a poca distanza la seguiva Maria insieme con la nutrice. Questa pareva invecchiata di parecchi anni in quegli ultimi giorni e camminava con andatura stanca. La signora sorrise ai due fratelli e si diresse verso i fornelli; Maria corse vicina al babbo e Costanza rimase sola. Ella cercò con l'occhio il posto dell'operaio col quale aveva parlato due sere prima sotto la carrubba, e vedutolo fece diversi giri fra una tavola e l'altra, scambiando parole con questo e con quello e accostandosi sempre a lui senza dar nell'occhio. Che ne dite eh, del ragout? - domandò la nutrice quando fu accanto a Giovanni, atteggiando le labbra a un sorriso. Dico che è buono, ma non posso dir altro. Tutto è mistero, Costanza. Il sorriso svanì dalle labbra della donna e i suoi occhi espressero un'ansia straziante. 0144 Oggi, - aggiunse l'operaio; - tutti fanno sciopero negli stabilimenti di Marsala, e noi siamo qui a mangiare un buon piatto di maccheroni. Chi soffre e chi gode; chi è rinchiuso e chi è libero così è la vita. Da quelle vaghe parole Costanza aveva capito che Giovanni non aveva notiza del prigioniero e s'allontanò a testa bassa, sconsolata. Gli operai mangiavano avidamente le buone pietanze ordinate da "Velleda. Molti, già sazj, rinvoltavano in un foglio il pesce e il formaggio, pensando alla cena e già stavano per alzarsi e ritornare al lavoro, quando Roberto si accostò alla tavola centrale e disse con la sua bella voce sonora: Figliuoli, i vostri compagni d'Italia e di tutto il mondo hanno voluto che questo giorno fosse santificato ovunque. Ma invece di trascorrerlo nel riposo, lo impiegano a contare le forze, a chiedere con minacce una riduzione delle ore di lavoro. Prima che voi mi faceste questa domanda, io vi proposi di limitare a ott'ore il vostro lavoro quotidiano, sicché su questo punto non vi sono stati fra noi malintesi. Oggi non mi avete chiesto il riposo, ma io ve lo concedo da mezzogiorno in poi; e se stamane vi ho fatto venire al lavoro, è stato soltanto per dimostrare agli altri proprietari di stabilimenti che voi mi ubbidite e che fra noi non sussistono attriti. Questa ubbidienza io sento di doverla all'amore e alla giustizia con la quale vi guido. Talvolta mi accuserete di durezza, ma per guidare trecento uomini ci vuole severità ed io vi spingo a lavorare e ad esser disciplinati per non avere il dolore di licenziarvi, poiché io vi voglio bene e mi separo con rincrescimento dai miei cooperatori, e non è neppure la sete di guadagno che mi fa lavorare più duramente di voi, no. Io ho bisogno di poco e le mie terre mi darebbero da vivere: è il desiderio di rendermi utile, di far prosperare questa regione, di dar lavoro a voi che vi siete nati. Se domani, disgustato 0145 dagli ostacoli che incontro, io chiudessi lo stabilimento, voi dovreste andare in altri paesi, in cerca di lavoro, e forse emigrare in America, abbandonare le vostre famiglie. È dunque soprattutto l'interesse vostro che mi spinge a volere che l'attività non cessi a Selinunte. Aiutatemi, lavorate con amore, e invece di guardare quei pochi più fortunati di voi, fermatevi a considerare i più infelici, quelli ai quali il lavoro manca, che a turbe debbono abbandonare tutto ciò che amano, per recarsi a chiedere a una terra lontana quel pane che rifiuta loro la patria. Figliuoli, a quegli infelici pensate e il lavoro vi parrá lieve e forse lo spettacolo di tante miserie profonde vi farà benedire la mia operosità. Gli occhi di molti operai erano umidi di lacrime e il vecchio Federigo, quegli che soleva intonare la preghiera quotidiana, si alzò e fissando Roberto, disse: Non abbiamo bisogno di guardare i più infelici di noi, per benedirvi, padrone. Quanti sciagurati voi avete trattenuti sull'orlo del precipizio, quanti avete salvati! Questi fatti sono scritti nei nostri cuori. Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

Una buona signora, che tutti abbiamo pianto, sinceramente. Era bella? Come sono belle le donne di Castelvetrano, come è bella la signorina Maria. Franco rivolgeva tutte queste domande; tanto per entrare in discorso e saper qualcosa di Velleda. Non sa se mio fratello pensi a riprender moglie? Non credo perché lo avrebbe già fatto. Ormai la signorina ha otto anni e non sarebbe facile che si affezionasse a una matrigna. Ma pure si è affezionata alla sua istitutrice! La signora Velleda ha una manierina e una pazienza che pochissime posseggono e bisognava che la bambina fosse d'indole ribelle davvero, per non volerle bene. È vero che la sua balia, la Costanza, è una donna gelosa e diffidente, che la voleva serbare tutta per sé, ma la signora Velleda ha cominciato per conquistare la balia, e allora la bimba si è arresa subito. Dunque è una sirena quella signora? Non dico questo, - rispose il Varvaro sorridendo, ma non vede quanta grazia emana dalla sua persona, quanta dolcezza da quella bocca! Eppoi, quando parla incanta addirittura, non solo per la voce, ma per i sentimenti che esprime. Appena una disputa sorge fra due operai, - e se sono fieri e vendicativi Dio solo lo sa, io la mando ad avvertire, e quando si presenta e parla loro con la sua angelica dolcezza, della necessità di perdonare le offese, del dolore che recherebbero alle loro famiglie continuando nell'inimicizia, essi si calmano, ritornano in sé e il pericolo di un ferimento o di una uccisione è scongiurato. L'ha presa forse da qualche famiglia di sua conoscenza mio fratello? No; egli conosce a Firenze un professore dell'Istituto di Studi Superiori, che occupava prima il posto del Lo Carmine. Il signor Roberto voleva una istitutrice toscana, affinchè la bambina imparasse a parlar bene, e si rivolse a lui. Il professore rispose che, nuovo di Firenze, aveva poche conoscenze, ma aveva incaricato una signora molto colta e capace di fare una buona scelta, di trovargli l'istitutrice adattata. Passò del tempo e non giunsero altre lettere. In capo a tre o quattro mesi il professore scrisse che la signora stessa, alla quale aveva dato incombenza di trovar l'istitutrice, offrivasi di venir lei e che il signor Roberto doveva considerare questa come una vera fortuna. L'offerta fu accettata e, stabilite le condizioni, la signora giunse a Palermo, ove io stesso andai a riceverla e l'accompagnai qua. Come mai la signora Velleda si fece istitutrice, perché si vede bene che non è persona che abbia fatto quel mestiere? Aveva perduto prima una bambina e poi il marito e il soggiorno di Firenze le era divenuto odioso. Ella non avrebbe bisogno di stare in casa d'altri, perché ha da vivere; anzi ogni tre mesi riceve dall'avvocato suo un paio di migliata di lire, frutto di certi poderi e di una villa che possiede a Fiesole. Qui ha messo per patto di non ricevere salario. Credo che il signor Roberto abbia intenzione di darle una somma quando avrà terminato l'educazione di Maria, ma sono certo che ella la destinerà a scopi di beneficenza, perché è molto caritatevole e le cucine vanno avanti mercè le sue elargizioni. Io lo so bene; rivedo i conti mensili e mi accorgo che le spese superano di molto le entrate, ma questo resti fra noi. Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

Non sempre abbiamo la forza di attuare i forti propositi che la mente concepisce, specialmente quando s'incontra in chi dovrebbe secondarci, una forza negativa: l'inerzia. Io credo che ella non possa rimproverarsi nulla; ma il duca, oltre la forza che ella gli riconosce, e contro la quale si smussano tutte le iniziative, e che è propria del romano moderno, ne ha un'altra: la perfidia. Egli esulta quando può recare danno a qualcheduno. Vede, per affliggermi, destava in Maria la vanità; per affliggere lei frequenta quella casa del Purpura, si fa compagno indivisibile dell'Orlando. Ammetto che certi caratteri bassi soffrano trovandosi a contatto con nature più elevate e cerchino i loro simili; ma un riguardo glielo poteva usare, in questi giorni almeno. Non creda che io parli per aizzarla contro di lui, no, mio buon signore; ma se potesse allontanarlo di qui farebbe bene per mille ragioni. Glielo ho proposto e Franco mi ha detto che rimarrà finché io non lo manderò via; questo non posso farlo. Velleda fu sul punto di aprire il suo cuore ad una confessione completa. Si sentiva opprimere dal peso di tutti quei fatti, di tutte quelle minacce di Franco, ma le parole le spirarono sulle labbra. Sapeva che se avesse parlato, l'ira di Roberto sarebbe scoppiata fulminea, che egli avrebbe punito severamente colui che aveva osato perseguitarla e offenderla, e non volle destare quel leone dormente, armare un fratello contro l'altro. Che cosa mi nasconde, Velleda? - le domandò Roberto, leggendole negli occhi e sulle labbra tremanti l'interna lotta. Presentimenti, - rispose ella con un triste sorriso; presentimenti sinistri. Lei sa che io sono un fagottino di nervi; la fantasia lavora sempre irrequieta ora che non la occupo più nell'architettare romanzi, e trae pretesto da qualunque lieve indizio per rappresentarmi pericoli forse immaginar!. Poi tacque, ma di li a poco, pentendosi della spiegazione data, si alzò e ponendo una mano sulla spalla di Roberto, che era tuttavia seduto, disse : Però sia vigilante, mio buon signore: io credo che abbia attirato in casa sua un serpente, - e come se non volesse dir altro, gli augurò da lontano la buona notte. Un sospetto balenò nell'animo di Roberto. Velleda mi nasconde qualcosa, - egli pensò, ma un momento dopo quel dubbio era distrutto dalla sicurezza che ella non potesse celargli nulla, assolutamente nulla, e attribuì anch'egli a un sovreccitamento nervoso, cagionato forse dalla lunghissima estate, quella tendenza che aveva riscontrata in lei negli ultimi tempi, di dar corpo alle ombre. Rammentava il loro recente dissidio rispetto ad Alessio e lo sgomento di Velleda, trovandosi discorde con lui nel giudicare quell'infelice. Non era anche quella una prova di una specie d'iperestesia del sentimento che aveva una causa morbosa? E allora egli, l'uomo casto, il castissimo amante, che aveva però indagato i misteri fisiologici, capì che il loro amore, fatto tutto di rinunzia, doveva fiaccare quel delicato organismo muliebre e maledì l'ostacolo, che impediva di farla sua, di ristabilire l'equilibrio in quella creatura adorata, che soffriva per lui, priva della vita fisica, alla quale non si rinunzia impunemente. La sua camera, testimone di tante lagrime versate in silenzio, di tante lotte acerbe fra la passione che lo spingeva a far di Velleda la sua amante, la donna sua, e l'affetto e il rispetto che gl'ingiungevano di non avvilirla, di risparmiarle ogni dolore e ogni rimorso, gli parve deserta, fredda, vuota di lei. Quante volte in quella camera, dove riducevasi stanco del duro lavoro giornaliero che si imponeva, non aveva saputo procurarsi il sonno! Quante volte non aveva desiderato ardentemente di sentire la guancia di Velleda sul proprio petto, di vedersela dormire accanto, di stringersela fra le braccia fremente di passione! Tante volte, invece, si destava di soprassalto sognando lei avviticchiata alla sua carne, ed allora balzava dal letto spaventato della sua solitudine e in tutta la notte non poteva liberarsi dai fremiti che il sogno gli aveva messi nel sangue. Allora spalancava la finestra e si affacciava a contemplare il mare, il solo confidente delle sue insonnie e dei suoi spasimi. In quelle notti, egli, nel pieno vigore della gioventù, invocava la vecchiaia, la decrepitezza, che avrebbegli impoverito il sangue, indebolito i muscoli, costringendo al silenzio tutti i desideri, che non erano in lui destati dalla donna, ma da una sola donna, l'unica che avrebbe potuto calmarlo, l'unica che gli faceva sentire la vita. Come erano terribili quelle notti, e ora un'altra se ne preparava. Era bastato l'eccitamento nervoso di Velleda, la ricerca della cagione, per fargli sentire quanto era incompleto il loro amore, quanto era relativa la loro felicità! Ebbe una ribellione contro la dura legge che costringe una creatura onesta a rimanere unita a un colpevole, che costringe una donna a rinunziare all'amore o a farsi colpevole se ha la sventura di esser la moglie di un forzato. E questo pensiero lo condusse a esaminare tanti lati ingiusti della nostra legislazione, eredità di altri tempi in cui le creature attingevano nella speranza di un premio futuro la forza di sopportare le sventure, in cui si credeva che un disgraziato fosse un eletto. Ora che la fede in quel premio è quasi morta, che la vita presente ha acquistato un valore molto maggiore, che ognuno sente il diritto di avere sulla terra la sua parte di felicita, la legislazione appariva a Roberto, una mostruosità e la missione del legislatore gli si presentava dinanzi agli occhi più utile di ogni altra, e assai più bella, poiché abbracciava un campo estesissimo, immenso. E a mano a mano che pensava alla sua missione futura, a tutto il bene che poteva fare, il cuore palpitava di nobile ambizione, e i sensi si calmavano come per incanto, sotto la tensione del pensiero, i desideri si trasformavano e si purificavano in un solo desiderio: quello di diminuire il numero degli sventurati, di aumentare quello dei felici. La mattina dopo il suo volto non serbava traccia delle lotte della notte e quando scese a colazione appariva calmo è sereno. Velleda, anch'ella, era più calma. Il Lo Carmine le aveva mancato la Trinacria con la dichiarazione del Bonaiuto ed ella credeva di aver ridotto al silenzio quel giornale, che si guardò bene dal far vedere a Roberto. Ella, con cura costante, cercava di non largli sentire le pene che procura ad ogni candidato una elezione e a questo lavorava la buona creatura pazientemente. Saverio disse che il signor Franco era ancora malato e non si sarebbe alzato. Fra Velleda e Roberto fu stabilito di mandar la carrozza a prendere il medico, e intanto la signora ordinò a Costanza di recarsi allo stabilimento por curare il malato. Quando la sottana rossa della contadina comparve fra le portiere chiare della camera del duca, questi, come mosso da una molla invisibile, alzò la testa dai guanciali e il suo viso livido si animò tutto. Costanza si accorse che la sua presenza faceva piacere al signore e accostandosi al letto gli augurò il buongiorno e si diede a raccomodargli le coperte, con quell'aria di padronanza che sogliono prendere le donne quando un malato viene affidato alle loro cure. Non puoi credere, Costanza, - disse il duca, tanto per attaccar discorso, - quanto ti vedo con piacere! Me ne accorgo, - rispose ella abbassando le lunghe palpebre con una mossa civettuola della tosta. - Volete che vi faccia un complimento? Vi siete portato bene con lei in questi ultimi giorni: ora vi temerà meno. No, Costanza, mi teme lo stesso. Tutte le mie gite a Castelvetrano sono state inutili. Sappiate aver pazienza, - diss'ella, - chi sa aspettare vince sempre: vinceremo tutti e due, non dubitate. Senti, - disse il duca; cui balenò un pensiero malvagio, - lei vuoi far eleggere deputato mio fratello e deve aver le sue mire. Le conoscete? - domandò Costanza. Le indovino. Qui tutti son venuti a sapere molte cose sul suo passato; molte cose brutte. Ella sente che non è più terreno per lei e si vuoi far condurre a Roma; capisci ora? E Maria? - domandò la contadina impallidendo. Maria andrebbe con loro: non è forse il preteste col quale ella copre il suo amore? E io? Tu rimarrai a Selinunte; ti lasceranno a guardia della villa; Velleda non condurrà nessuno di qui per tema che parli. Signorino, - disse la donna stringendo i denti, signorino non fate eleggere il padrone. Io non posso far nulla, Costanza, ma tu puoi far molto. Fá capire agli operai che Roberto, una volta a Roma, avrà altre mire e lo scopo della sua vita non sarà più la prosperità dello stabilimento. Lontano lui, tutto andrà a rotoli qui e in capo a poco tempo dovranno chiudere. Ho capito, - disse Costanza, lasciate fare a me, signorino. Quella perfida non porterà a Roma la cara figlia mia! Queste parole furono pronunziate con un accento di così profonda sicurezza, che Franco trasalì di gioia. Senti, Costanza, ti voglio rivelare una cosa, disse il duca prendendola per la manica e attirandola a sé. - Sai, quella superba, quella che fa la padrona in casa di mio fratello, ha il marito in galera per ladro! Oh! Gesù mio! - fece la donna coprendosi la faccia. Il duca aveva calcolato giustamente l'effetto di quelle parole. Per il popolo siciliano, che al pari di molti altri popoli d'Italia, ha tanta indulgenza per i colpevoli di delitti di sangue, il furto è il più infamante di ogni reato, perché non è scusato dal risentimento o dalla vendetta. Gesù mio! - esclamò ella, - la moglie di un ladro! Si, di un ladro, - ripetè Franco per imprimerle bene nella mente quelle parole. Quella rivelazione fece esultare Costanza. Ah! ora avrebbe preso tutte le rivincite possibili, ora avrebbe sfogato liberamente tutto l'odio contro di lei! Franco vide che ella stava per uscir di camera e la richiamò per raccomandarle di non dire che la notizia veniva da lui. Oh! non dubitate! - esclamò ella, - voi non sarete compromesso, ma in cambio del piacere che mi procurate, io ve la darò nelle braccio; fidatevi di me! E mentre il duca rimaneva a letto fidente nella promessa di Costanza, questa scendeva sul piazzale dello stabilimento in cerca di Giovanni, del suo alleato. Ella sapeva comporsi in volto così indifferente che non pareva più la stessa di pochi istanti prima, e Roberto che la vide credè che la curiosità sola di guardare i carrozzoni della tramvia elettrica l'avesse attratta in quel luogo. Ella girava e rigirava intorno ad essi sperando che dal portone aperto dell'officina ove si fabbricavano i fusti, Giovanni vedesse la smagliante sottana rossa di lei; ed egli la vide infatti, mentre con le braccia nude e le maniche rovesciate batteva col martello pesante i cerchi di ferro intorno alle doghe, e dinanzi a lui le fiamme del forno s'inalzavano rossastre facendo apparir pallidi i raggi del sole, che dal portone spalancato entravano nell'officina. L'operaio finse di non aver veduto Costanza e continuò a battere finché il cerchio giunto al punto più stretto del fusto scivolò giù da sé. Dopo aver dato un colpo al nuovo cerchio più stretto, Giovanni posò il martello e asciugandosi con il palmo della mano la fronte grondante sudore, uscì nel piazzale dirigendosi verso una delle fontane. Costanza avealo atteso e si trovò sul suo passaggio. Senza guardarlo, ella disse : Oggi nella grotta. Dirai ai compagni che ti trattieni a fare il bagno. Giovanni fece un cenno lieve col capo per dirle che aveva capito e si accostò alla fontana. Costanza ritornò in camera di Franco e accostatesi al letto gli prese una mano portandosela alle labbra: Che siate benedetto! - disse piangendo di gioia

Non v' era più giardino, le sorgenti erano dissecate, l'erba era gialla e le palme, tutte coperte di polvere, parevano scolpite nell'arenaria, ma una lieta primavera circondava Velleda, e se Franco talvolta si lamentava del caldo e diceva che quella spiaggia gli metteva addosso la tristezza, ella, con atto incredulo, rispondevagli : Non c'è il refrigerio del mare, non abbiamo lo sua brezza che ci ristora, le creste argentee delle sue onde sparse sulla superficie azzurra che ci tengono luogo di fiori candidi? Che cosa ci manca? 0148 A me, - le disse il duca un giorno, quasi brutalmente, - manca tutto; manca la donna, una donna. Quella risposta cruda ferì la signora; perché era evidente che egli aveva voluto darle un significato offensivo. Velleda tacque e non riferì Quelle parole al suo buon signore. S'era accorta fino dai primi giorni, che un profondo dissenso latente era fra loro. E questa, era la sola spina che la offendesse fra le molte gioie che le rendevano cara la vita. Dopo il ritorno di Roberto, questi aveva cercato d'iniziare Franco al lavoro e lo aveva messo al corrente dei suoi affari, e poi avevagli affidato la corrispondenza inglese e francese. Non era una occupazione grave; sette o otto lettere al giorno da scrivere, lettere brevi, concordate prima col fratello. Ma anche questa piccola incombenza, Franco la disimpegnava di malavoglia, senza regola, accumulando le risposte e se Roberto lo sollecitava a sbrigarla, rispondeva: È tanto caldo, come si può parlare di lavoro! Non s'era mai potuto assuefare ad alzarsi presto la mattina, e nelle ore in cui tutti erano a fare il bagno ed a respirare l'aria fresca, Franco dormiva. Appena alle dieci scendeva nello stabilimento, e nel dopo pranzo, se il " Selino " approdava in qualche seno della costa, egli restava disteso in una amaca, rifiutando di seguire gli altri. Dopo pranzo, insieme col Varvaro, o più spesso solo; tornava allo stabilimento, e i molti giornali francesi e i romanzi che si faceva spedire da Roma, non lo aiutavano a sopportare la noia della veglia, ne a scacciargli dalla mente il pensiero che suo fratello in quel momento era felice. Roberto era stato quasi profeta nello scrivere a Velleda che Franco non avrebbe capito la purezza del loro affetto. Il cuore ha talvolta certe divinazioni. Franco, difatti, fin da quando suo fratello era a Roma ed aveva inteso Velleda parlare di lui con tanto calore, si era 0149 convinto che essi si amassero completamente. Quando poi li vide insieme, lei cosi felice, e Roberto tanto deferente, tanto fiero della sua compagna, ritenne che la sua convinzione avesse la conferma dei fatti, e invece di essere commosso dalla purezza di un sentimento che essi potevano dimostrarsi senza arrossire, credette che fossero due sfrontati che non si curassero punto di celare i loro rapporti. E questa convinzione, che Velleda appartenesse a Roberto, invece di staccarlo da lei, di farlo rinunziare a una impresa quasi impossibile, acuì il suo desiderio, gliela fece maggiormente bramare. Voleva trovarsi sempre fra di loro, per disputare a Roberto un istante di felicità, per far capire a Velleda che aveva tutto indovinato. Difatto, fino dalle prime sere, allorché la signora domandava a Roberto quale lettura doveva fargli, Franco si sdraiava in una poltrona, accendeva una sigaretta e prendeva l'atteggiamento dell'ascoltatore. Le riviste, i libri si erano accumulati sulla tavola nell'assenza di Roberto, e le prime sere, egli, per non annoiare il fratello, indicava a Velleda di leggergli quelle. Franco ascoltava da prima, poi incominciava a sbadigliare e spesso addormentavasi. Allora la signora posava la rivista in grembo, accennava ridendo il dormente a Roberto, e incominciavano a parlare come se fossero soli. Erano quelli momenti deliziosi, nei quali le loro anime si univano e i pensieri scaturivano abbondanti dalla mente, sotto l'impulso di un prepotente e reciproco desiderio di sparger tesori intellettuali sull'altare del loro affetto. Era quella una voluttà tutta morale, un piacere sublime, che infiammava i loro volti e dava agli occhi lappeggi amenti insoliti. Franco, nel destarsi, s'accorgeva della commozione di Roberto, dell'estasi di Velleda, e con un pensiero triviale figuravasi che quello non fosse altro che il prologo di una notte d'amore. E si tratteneva ancora, credendo di sottoporli e una tortura e poi con la testa infiammata usciva, attardandosi sulla spiaggia 0150 deserta, voltandosi ogni tanto a guardare se il lume era spento in sala, quasi che l'oscurità di quella stanza fosse il segnale dei ludi amorosi. Invece, appena il duca usciva, Velleda posava il libro e dalla terrazza seguiva con l'occhio Roberto in giardino, mentre faceva insieme con Saverio, la solita ispezione, ora che i carabinieri non stavano più alla villa; e quando vedeva che il buon signore si avvicinava alla porta per tornare a casa, di lassù gli augurava la buona notte e andava in camera di Maria per evitare un momento di debolezza e d'intenerimento che avrebbe potuto spingerli a una stretta di mano e forse allo scambio di un bacio. Allorché le riviste furono esaurite, Velleda prese a leggere un libro pubblicato di recente dal Brunetti, direttore degli scavi, sugli oggetti rinvenuti nell'acropoli selinuntina, libro noioso per quelli che non si appassionano nello studio dell'archeologia, lavoro paziente di ricostruzione della storia di una città, fatto su poche terrecotte, su pochi bronzi, su poche pietre rinvenute negli avanzi di case, nelle tombe di un'epoca posteriore. Quella lettura dilettava immensamente Roberto; egli che era cresciuto in quei luoghi e che aveva veduto dissotterrare quegli oggetti, li spiegava a "Velleda, glieli disegnava e ogni tanto andava a cercare un libro che si riferiva agli scavi dell'antica colonia di Megara, le dimostrava la traccia lasciata dai seguaci di Ermocrate, dai Romani durante la prima guerra punica, dai cristiani, e in seguito dai maomettani, che vi si fortificarono contro il conte Ruggero. Con ogni mezzo egli la illuminava e pareva che volesse infonderle tutta la sua erudiziene, tutto il suo amore per la città dormente da secoli sotto la sabbia. Franco, durante quella lettura, si annoiava mortalmente. La prima sera dormì, la seconda, appena vide prendere il libro, addusse il pretesto di aver lettere da scrivere e andò via, sorridendo malignamente al pensiero che 0151 appena lui lontano, il libro sarebbe stato gettato sul! tavola. È un ripiego per allontanarmi, - borbottava fra i denti percorrendo il viale dei palmizj. Il cancello era spalancato e Franco vide ritta su quello una figura femminile. Ah! sei tu Costanza! - disse il duca. - Che cosa fai? Prendo il fresco, signore, in casa si soffoca. E Vosi-gnoria perché ritorna così presto allo stabilimento? Mio fratello e la signora Velleda si divertono leggere certi libri che mi fauno dormire, e io li lasci soli al loro divertimento. La donna sorrise malignamente. Non credi che essi si divertano? Altro! Sono sempre felici quando sono soli. E come Io sai? Non ho occhi forse? - disse la donna fissando le pupille lampeggianti in faccia al duca. Ma da quanto dura questo amore? Dal giorno che lei è arrivata, lo ha stregato subito forse gli ha fatto la fattura. Franco rise a quella supposizione della contadina. Iso, creda, signore, è proprio questo; il padrone non aveva mai guardato in faccia una donna: appena venuta lei è cambiato da così a così, - e presentava ; Franco il palmo della mano, e poi lo voltava subito mostrando la parte superiore. Lei comanda, lei è padrona e guai a chi non le ubbidisce, - continuava Costanza. - Pare delicata debole, ma è di ferro e impone a tutti la sua volontà Franco aveva già capito che Costanza non poteva soffrire Velleda, ma non supponeva mai che la nutrice fosse così intollerante del giogo impostole da lei. Tu sei gelosa del bene che le vuoi Maria. - si capisce, - disse il duca per incitarla. 0152 Fosse quello solo! - rispose la donna. - Non posso vedere che abbia preso il posto della padrona una donna che non si sa di dove venga, se abbia marito o no, una principessa che fa l'istitutrice e che un bel giorno si farà sposare dal padrone. Sposare poi! Sì, se gli dicesse di buttarsi nel fuoco per lei, il padrone ci si getterebbe subito. Ma tu lo saprai: è vedova? La donna si strinse nelle spalle. Chi lo sa! Porta il nome di Bianchi e poi un giorno le venne di lontano lontano una lettera tutta bolli ed era diretta alla signora Crespi. Sai leggere tu? No, ma la busta l'aveva presa Maria e ci lesse quel nome. Le dico, signore; è tutto un mistero. Faresti bene a scoprirlo, Costanza. Oh! se potessi! - esclamò la donna. Franco aveva notato nella mente quel nome, e l'ammontando il proposito fatto di chiedere notizie su Velica al Signorini a Firenze; vinse la naturale inerzia e quella sera stessa commise la vigliaccheria di domandare a uno sfaccendato, a un ciarlone, informazioni sopra usa signora che lo trattava da amico e non aveva fatto nulla per meritare quell' affronto. Non gli disse che Velleda era a Selinunte, anzi finse di averla incontrata a Palermo e ne fece un ritratto fisico così lusinghiero; che pareva curato dalla mano delicata di un amante gentile. Ella non ha nulla di appariscente, - scriveva Franco, - pare una di quelle dolci figurine di Carlo Dolci, tutte soffuse di luce e dagli occhi vaganti in una continua visione. Quando le stringo la mano, temo di stritolarla fra la mia, tanto è morbida e sottile. I capelli corti e ricciuti le formano sulla fronte un nembo scuro, a riflessi d'oro. Per caratterizzarle meglio quel 0153 viso le dirò che la signora Velleda Crespi o Bianchi che sia, ha un nasetto tutt' altro che greco e che scambia leggermente un occhio; ma questi difetti invece d' imbruttirla, le danno una grazia singolare e lo sguardo li ricerca a preferenza dei pregi. Essi sono la vita, l'espressione di quel volto, la fisonomia di quella fisonomia. La signora di cui le parlo ha la grazia del linguaggio toscano e la fine eleganza delle donne fiorentine, ma si vede che nelle vene le scorre un altro sangue, perché la sua pelle è delicata e diafana come le nifee che sbocciano nei laghi gelati del settentrione e non ha quella tinta giallastra, così seducente alla luce artificiale, che è propria delle discendenti del bilioso Alighieri. Questa donnina debole, all'aspetto modesta, ha una volontà recisa e quando discute di letteratura, d'arte, di questioni sociali, s'infiamma ed accampa una sicurezza, che forse le viene dal lungo uso di sapersi ascoltata. Conosce tutte le eleganze, tutte le raffinatezze del lusso, ed è semplicissima di gusti e in casa non si vergogna di compiere umili uffici. Insomma, è un mistero vivente ed ha talvolta sulle labbra un sorriso franco di bambina. Mi dica chi è, che cosa faceva, quali erano i suoi amanti, quale la sua posizione; le assicuro che mi preme di sapere tutto questo e anche di più. " Franco chiuse la lettera e si coricò tranquillo per averla scritta e soprattutto per essersi procurato un alleata nella villa. La noia lo divorava e in quello stato d'irritazione continua in cui si dibatteva, si faceva prepotente l'invidia per Roberto e il desiderio di togliergli Velleda, di privarlo almeno di una delle cose che costituivano la felicità di lui. Non v'era occasione in cui le poche persone che avvicinava non gli facessero sentire la superiorità di Roberto, non per umiliarlo, - a questo non pensavano neppure, - ma per esprimere l'ammirazione che Roberto aveva saputo destare in tutti quelli che lo circondavano, per 0154 dar sfogo a un sentimento che non si può tener celato e che le anime buone manifestano con effusione. E quelle ferite al suo amor proprio, riaperte og'ni giorno, ogni momento quasi, lo rendevano smanioso e cattivo. Certi sentimenti buoni o malvagi dormono talvolta in noi lunghi anni, talvolta tutta la vita, come alcuni semi nella terra e alcuni germi nell'aria, e non si sviluppano altro che per un lungo lavorìo occulto che li pone in condizione di destarsi. Nella sua vita facile e spensierata i malvagi sentimenti che erano nel cuore di Franco avevano sonnecchiato; l'invidia non l'aveva mai tormentato, perché ovunque andasse era sempre il primo, e la ricchezza, il prestigio del nome e la liberalità nello spendere coprivano con un manto tutte le deficienze del carattere e della mente del giovane duca. Ma appena quel travestimento concessogli dall'opulenza gli cadde di dosso, appena non ebbe per tutto ornamento altro che il suo valore personale, senti la propria inferiorità di fronte al fratello, e anche ai pochi uomini modesti con i quali aveva rapporti. Il Lo Carmine, benché goffo e balbuziente, aveva una cultura seria, era una specie di autorità nella sua branca, il Varvaro stesso era competente nella fabbricazione e nel commercio dei vini, aveva studiato, s'era fatto un nome: e lui che cos'era, che cosa gli sorrideva? Appena sparito da Roma, tutti lo avevano dimenticato, tutti, meno donna Paola, che gli scriveva ogni due o tre giorni lettere appassionate; ma quella creatura così tenera non aveva attrattive per lui, lo annoiava mortalmente e invece di confortarsi nell' affetto di lei, quell'affetto gli faceva meglio sentire l'abbandono generale. Dunque, senza il palazzo, senza la sua prodigalità da gran signore, senza i prestiti a una turba di parassiti, senza lo sfarzo, non era più nulla, non contava più nulla? Gli pareva di sentire le sue amiche e i suoi amici di una volta, riuniti in casa di madame de Louvois, parlare di lui ogni tanto come di un morto, chiamandolo " quel povero duca " e la voce di donna Guendalina specialmente lo feriva, poiché figuravasi che ella affettasse di compatirlo più d'ogni altro, rimproverandosi ostensibilmente la crudeltà usata a quel disgraziato. Certe menti limitate hanno la facoltà di concentrarsi in un pensiero unico e di farsi dominare interamente da quello. Il mondo scompare ai loro occhi, non vedono nulla, non sentono nulla altro che il martellante pensiero, spesso perfido, che le tortura. Per Franco, il pensiero della superiorità del fratello era divenuto un incubo e sotto l'oppressione di quell'incubo l'invidia cresceva, cresceva sempre e lo rendeva capace di ogni perfidia. Strappargli Velleda, umiliarlo, ecco che cosa voleva. Sapeva che Roberto in lei aveva concentrato tutti gli affetti, che non erano quelli di famiglia; che lei era il suo orgoglio e in lei voleva colpirlo, sfogando il desiderio di farla sua che ogni giorno si faceva più prepotente. Questo egli voleva, fortemente voleva, e metteva in quella volontà una tenacia che non aveva mai sfruttata nella vita. Ma i mezzi per giungere a quel risultato non li vedeva chiaramente. Peraltro sperava che la risposta del Signorini e Podio di Costanza lo avrebbero aiutato a scoprirli. Ma per più giorni, dopo avere spedito la lettera attese inutilmente questi due aiuti, sempre più offeso, sempre più torturato dal desiderio. Un dopo pranzo, dopo un violento temporale che aveva rinfrescato sensibilmente l'aria, Roberto aveva proposto di andare a Castelvetrano a fare una trottata. Franco aveva accettato, non perché gli sorridesse l'idea della gita, ma perché non si voleva staccare dal fratello ne da Velleda, la quale naturalmente li accompagnava insieme con Maria. Salirono in una carrozza di paglia, coperta da una tenda. Il duca era accanto a Velleda, Maria e Roberto di fronte. La pioggia abbondante, caduta nella notte, 0156 aveva lavato i mandorli, le carrubbe e gli aranci. La campagna era un incanto; i fichi dindia scintillavano sotto i raggi del sole sfoggiando i loro frutti carnosi, e i grappoli delle vite lambivano la fertile terra rossastra, cui la pioggia aveva reso il suo colore caldo. Velleda era fresca e sorridente. Quella corsa attraverso la campagna le aveva colorito il volto, che appariva più bello sotto un largo cappello coperto di fiori di campo. Ella era felice e ogni tanto fissava Roberto e con uno sguardo breve, ma affettuosissimo, gli accarezzava il volto. Ed egli la sentiva tutta la soavità della blanda, spirituale carezza e la ringraziava sorridendole. Franco rise guardando Maria. Perché ridi, zio? Sono allegro, ti dispiace forse? Penso alle critiche che faranno i castelvetranesi sul mio vestito bigio, sulla forma del mio cappello, sul colore della mia cravatta. Velleda aveva abbassato gli occhi e non era più lieta A Castelvetrano Roberto li lasciò. Voleva andare dal giudice istruttore a sapere a che punto era l'istruttoria. Velleda salí dal Moltedo, insieme con Franco e Maria. Il passo dei cavalli vivaci era stato riconosciuto da don Achille e da donna Giovannina e tutti e due erano andati in cima alla scala a ricevere i cari ospiti di Selinunte. Prima che Velleda potesse presentar Franco, don Achille gli aberrava la mano e gridavagli : Benvenuto, caro duca, è tanto tempo che vi aspettavo! Maria alzò la testa sentendo dare allo zio quel titolo e appena furono seduti nella stanza quasi oscura, attorno alla poltrona di don Achille; ella domandò a Franco : Dimmi, zio, sei duca tu? Sì, piccina, sono duca d'Astura. - E il babbo non è duca? 0157 - No; io, come maggiore, ho diritto a quei titolo, ma lui se volesse sarebbe marchese di Cevoli, conte di Pelerà. La bambina tacque, ma dopo un momento chiese sottovoce: Perché il babbo non ti chiama duca e non si fa dare quei titoli? Perché è democratico, e i democratici ambiscono a illustrare da sé il loro nome e sdegnano i titoli trasmessi dagli antenati. Anch'io dunque sarei marchesa e contessa? Franco capì che in quella bambina destavasi a un ti atto la vanità di casta e per recar pena a Roberto, che la voleva serbare semplice di modi e modesta, le disse : Mia cara nipotina, tu hai tutti questi titoli, ma un giorno ne avrai uno anche più bello. Io non prenderò mai moglie e il dì delle tue nozze regalerò a te e a tuo marito il mio titolo, tu sarai la sola duchessa d'Astura. Maria rimase pensosa e sbalordita dall' annunzio di quel dono ed evocando il ricordo delle novelle udite raccontare da Velleda, si figurò che le duchesse si vestissero diversamente dalle altre signore e portassero sempre la corona in testa. Dopo una lunga pausa, ella tirò per la manica lo zio e gli domandò : Com'é fatta la corona ducale? Franco cavò di tasca un portasigarette di cuoio bianco con una corona formata da piccoli brillantini in un angolo, e gliela fece vedere. Benché Velleda si accorgesse del dialogo fra Maria e Franco non potè afferrare le parole che si scambiavano. I Moltedo avevano fatto servire dei rinfreschi agli ospiti e Franco nell'offrire una granita alla piccina le disse con fare manierato : 0158 Questa è per te, duchessina! Maria sorrise lungamente a Franco, lusingata da quel titolo che le dava. Don Achille, col suo fare amichevole, narrava a Franco tanti piccoli incidenti sulla sua famiglia e notava la grande somiglianza fra la madre e lui. Siete un vero siciliano! - gli diceva con molta compiacenza. - Dovete venire spesso da noi; vi farò conoscere molta gente; a Selinunte siete troppo isolato ; voi non avete cola le occupazioni di vostro fratello, voi dovete annoiarvi. Non credo, - disse Velleda rispondendo per lui. Il signor Franco ha saputo adattarsi alla nuova esistenza e lavora anch'egli. Ora siamo nella stagione più triste, ma nel settembre la caccia e la vendemmia gli offriranno distrazioni. Il duca non capiva il sentimento delicato che spingeva Velleda a farlo apparire contento della suo sorte e la fissò senza aggiungere parola a quelle che ella aveva dette. L'arrivo di Roberto rianimò la conversazione, che languiva nel salotto quasi buio, attorno alla poltrona del vecchio infermo. Maria era andata a vedere una cova di canarini e Roberto potè parlare. Nulla di nuovo si è scoperto, - diss' egli. - Fra pochi giorni si farà il processo ai malandrini che hanno attaccato lo stabilimento; per quello di Alessio si aspetta di scoprire qualcos'altro. Egli è guarito e lo hanno trasportato alle carceri, in una cella segreta e non ha rivelato nulla, nulla; sempre più mi convinco che quell'uomo è innocente della intenzione che gli si attribuisce. Velleda non era del parere di Roberto e lo disse francamente. A mezzanotte non si entra armati in un giardino per divertimento. Quella corda, quella scala, perché cosa 0159 erano lì? Certo nessuno voleva rapire Costanza o rapir me! Alessio non parlerà, perché è sicuro che i suoi compiici non sono stati scoperti, ma se la convinzione mia, io potessi infonderla nei giudici, sarebbe condannato. Meno male che qui nessuno può udirvi, signora, disse don Achille, - ma in altro luogo vi consiglio a non esser tanto franca; voi non conoscete la Sicilia e potreste scontare dolorosamente il vostro zelo nel far condannare Alessio. Io non ho paura, e i colpevoli debbono essere puniti, - rispose la signora guardando Roberto e cercando negli occhi di lui l'approvazione, ma quella volto Roberto evitò lo sguardo della sua cara e un velo di tristezza gli oscurò la fronte. L'accanimento di Velleda gli dispiaceva. Roberto volle far visitare la città a suo fratello e chiamata Maria, disse addio ai Moltedo e uscì. La bambina aveva preso la mano del babbo e Velleda si trovò accanto a Franco, il quale le offrì il braccio. Camminavano per le vie deserte in quell'ora e ogni tanto Velleda si soffermava per riportare l'attenzione del duca sopra i cortiletti interni delle case, fioriti di oleandri, e sulle donne belle, sedute e intente al lavoro. Vede, sono greche, greche addirittura per le forme eleganti della persona e per la linea della fronte e del naso. Nessuna siciliana ha come queste un colorito più bello. Guardi come sono bianche e rosee, - diceva soffermandosi per accennargli ora una figura che passava con un'anfora posata sui capelli; ora un'altra con la testa curva sul lavoro. Franco non rispondeva e guardava indifferente. A un certo punto, vedendo che Roberto era avanti e non poteva udirlo, si fermò e fissando Velleda negli occhi, le disse: Mia cara signora, io non ho nessuna tendenza 0160 classica, e queste donne possono parere statue greche viventi. ma non fanno per me. Eppure son tanto belle! - esclamò Velleda con accento d'ammirazione. La sua natura d'artista era cosi possente, che dimenticando la sua qualità di donna, guardava le donne belle con una insistenza e con un compiacimento tutt'altro che femminile. La bellezza sola non mi basta: io sono un decadente, come hanno battezzato in Francia gli uomini della mia risma e del mio conio. La bellezza basta agli uomini semplici, ai caratteri che sentono l'entusiasmo. Per me ci vuole di più, e forse di meno. Più che la bellezza mi attrae l'eleganza, quel certo non so che delle donne che hanno veduto molto, che hanno amato, che capiscono tutte le depravazioni tutti i pervertimenti del gusto. Velleda ritrasse il braccio che appoggiava su quello di Franco e arrossì, ma egli, sfiorandola col suo soffio, aggiunse : Per me ci vuoi lei, Velleda. La piccola signora rabbrividì. Le faccio orrore, - disse il duca a denti stretti, senza smettere il sorriso un po' stupido. - Ma non è colpa mia se non c'intendiamo; lei ci mette così poca buona volontà! Del resto, quando il nostro orecchio è attratto da una voce prediletta, tutte le altre non si odono che come un ronzìo noioso. L'allusione non poteva sfuggire a Velleda, ma ella finse di non capirla. Non voleva mettersi in urto col duca per non affliggere Roberto, per evitare che egli le chiedesse spiegazioni. Tacque dunque, ma in cuor suo soffrì uno stazio atroce. Roberto s'era fermato con un signore del paese che ella non conosceva e dovette per questo restare accanto a Franco, il quale riprese a dire: Non vede quale vita insulsa io faccio? Io non ho 0161 a Selinunte i conforti che vi trova mio fratello. Dal viso stesso si vede la mia noia, la mancanza di ogni sollievo, di ogni consolazione, anche fugace. Ingrasso, imbolsisco, divento uno stupido, e tutto per colpa sua, Velleda. La signora fremeva; quelle offese le arrivavano dritte al cuore e in un impeto di ribellione esclamò: Senta: se non cessa di perseguitarmi, io vincerò ogni ritegno e dirò tutto a suo fratello. Mi pare di non aver fatto nulla per meritare i suoi insulti. Insulti li chiama? - rispose Franco. - Io non ho altro desiderio che quello di entrare nelle sue buone grazie, e sarei felice se volesse farsi la consolatrice della mia esistenza. Le ripeto che dirò tutto a suo fratello. Non lo farà mai. Io non sono profondo osservatore, ma scommetterei qualunque cosa che dalla sua bocca non uscirà mai una parola; non vuoi turbare la quiete di Roberto; gli vuoi troppo bene per dargli un dispiacere. Vile! - esclamò Velleda. - Doppiamente vile se crede quello che dice. Ne sono convinto, - rispose il duca con calma. Ma allora, quali consolazioni vorrebbe da me? Tutte quelle che io sono capace di sognare; se adora mio fratello, che me ne importa? L'amore, come lo intendo io, non ha nulla che vedere con i sentimenti. È l'appagamento di un desiderio, è l'unione di due corpi attratti da una irresistibile simpatia. L'odore che emana dalla sua pelle, le movenze del suo corpo, la sua bocca fresca, la sua voce, le sue mani, mi mettono la febbre addosso: io la desidero, io la voglio! Il duca non s'era esaltato punto nel parlare a Velleda. Ella invece era in preda a un parossismo di rabbia e alzando gli occhi su Franco, due occhi che avevano una guardatura sinistra e ai quali lo strabismo leggero dava una espressione minacciosa, disse : 0162 Basta; glielo impongo! - e senza curarsi di quello che avrebbe potuto pensare Roberto entrò in una botteguccia, di mercerie e rimase ritta, rigida dinanzi al banco, senza saper quello che chiedere. Roberto, quando ebbe lasciato l'amico, si volse per cercare Velleda. Dov'è? - domando a Franco. Sono forse il guardiano della signora? - rispose egli con dispero. - Mi ha lasciato da molto tempo. Roberto camminava ansioso per la via deserta spingendo l'occhio in ogni cortiletto e in ogni bottega. Quando la scorse con uno slancio di affetto le corse incontro, domandandole: Che cosa fa? Perché è sparita? Non vede? Compro nastri per Costanza: me ne ha chiesti. Franco; dalla porta della bottega seguiva la piccola scena e ripeteva fra sé: Non gli dirà nulla mai, ne sono sicuro! Quando uscirono tatti insieme per continuare la visita alla citta, Velleda aveva preso per la mano Maria. Le oro afose, le ore morte erano passate e la gente usciva dalle case. Ogni uomo si toglieva rispettosamente il cappello vedendo Roberto; ogni donna gli sorrideva, e quei saluti e quei sorrisi erano una consolazione per Velleda, la quale diceva a Maria: Vedi come tutti vogliono bene e rispettano tuo padre; tu puoi essere altera di lui; non v'è nulla di più bello che ispirare stima. Maria non rispondeva ed era straordinariamente distratta. Ella pensava alla promessa dello zio di farla duchessa e già parevate di veder d'intorno a sé, in atto umile, una corte di signori e di dame che le prestassero omaggio. A che pensi, Maria? - domandò Velleda. - Penso che è una bella cosa portare una corona ducale. 0163 Ma come mai ti vengono in testa certi pensieri? Non sono forse l' erede dello zio Franco, duca d'Astura? Ah! è un'infamia! - susurrò Velleda fra i denti. E in quel momento, forse per la prima volta, ebbe la visione precisa, delle sinistre intenzioni del suo persecutore.

Essi si rinchiudevano in un convento per meditare e pregare, preparandosi a una vita migliore, a una vita felice; noi, che poco speriamo, che non abbiamo la pazienza di attendere una consolazione lontana, ci gettiamo nel lavoro che ci distrae la mente e ci affatica il corpo. Stanchi, dormiamo, e così di ora in ora, di giorno in giorno il dolore viene ricacciato in fondo al cuore, dove rimane in una specie di letargo, finché un nuovo dolore non lo desta; ma almeno in quel periodo di sonno ci lascia tregua, ci da agio di prepararci alla nuova lotta, come certi rimedi che somministrano i medici, non perché abbiano virtù curativa, ma solo perché infondono all'organismo la forza necessaria per vincere la malattia. La fatica della mente e del corpo, la tensione dei nervi e dei muscoli, è la vera consolatrix afflictorum degli uomini d' oggigiorno ; fa che sia anche la tua. Ebbene lavorerò! - disse il duca d'Astura, - ma tu dovrai avere con me una pazienza da santo, perché non solo sono disadatto a qualsiasi occupazione, ma non ho neppure nel lavoro quella bella fede che ti anima, nè per il lavoro quell'amore che è la condizione prima per riuscire. Vieni dal mio avvocato subito; voglio farti una procura generale, e quello che salverai dal mio patrimonio, sarà tutto trovato. Nel mio studio troverai tutte le carte, il maestro di casa ti metterà al correlile degli affari. Credo che sia un ladro. - aggiunse Franco con un ironico sorriso, - perché mi hanno scritto molte lettere anonime in cui lo accusano di giocale alla Borsa, di mantenere una bellissima donna e di far vita dispendiosa col mio. Io non l' ho mandato via per tante ragioni, ma soprattutto perché mi trovava sempre le somme di cui avevo bisogno. Questa volta, però, mi ha detto che non poteva far nulla. Dunque è divenuto inutile e tu gli puoi chiedere i conti da oggi a domani, - aggiunge sorridendo. Il cinismo e l'indifferenza assoluta di Franco urtavano Roberto, ma egli voleva esser buono col fratello e soprattutto indulgente, voleva non accorgersi dei suoi difetti, che credeva frutto di una educazione sbagliata, e sperava, sorvegliandolo, guidandolo, di rigenerarlo. Come tutti i caratteri generosi, Roberto non si sgomentava degli ostacoli che offriva l'opera cui voleva dedicarsi; il fine lo seduceva anzi e sperava di vincerli, come aveva vinto il suo carattere violento, e come ora vinceva l'amore che voleva tiranneggiarlo. I due giovani stabilirono che Franco sarebbe partito la mattina dopo per Napoli e, giunto là, si sarebbe imbarcato poche ore più tardi per Palermo, Roberto rimaneva per licenziare la servitù, trattare con i creditori e sorvegliare l'avvocato, che aveva in mano tutte le fila intricatissime di quell' arruffata matassa. Poi avrebbe raggiunto il fratello a Selinunte. Dopo uno colazione che essi fecero in comune, andarono dall'avvocato per la procura generale, pranzarono insieme e durante tutto il giorno non fecero altro che parlare d'affari; e a mano a mano che Franco esponeva i ripieghi usati per aver denari, che enumerava le ipoteche messe da più creditori sullo stesso possesso, che diceva quali terreni aveva comprati, quante case erano in costruzione, quante sfittate, Roberto si faceva più serio, ma nessuna parola di biasimo gli usciva dalla bocca. Fidati a me, - gli disse la sera lasciandolo, - e sta pur sicuro che se vi sarà qualcosa da salvare, la salverò. Poi aprendo il portafoglio mise in mano al fratello un biglietto da mille lire per le spese del viaggio e promettendogli di andare la mattina seguente alla stazione, ritornò all'albergo. Non gli pareva vero di essere in camera sua, solo, e di poter scrivere all'assente, alla donna, cui viveva castamente vicino, amandola con passione, per prepararla all'arrivo del duca; ma tutte le commozioni di quella interminabile giornata lo avevano affranto e fece uno sforzo per prendere in mano la penna. Roberto Frangipani a Velleda Bianchi. Castelvetrano per Selinunte. Mia buona signora signoraLe mandai un telegramma appena sbarcato a Napoli e uno la sera del mio arrivo a Roma e ho avuto da lei due risposte brevi, ma esse sono state la mia sola consolazione da che sono qui. Maria dunque sta bene e domanda che io torni presto a lei, spera che la mia assenza sia breve. Come fanno bene queste parole affettuose a un cuore straziato come il mio! Le nascosi lo scopo del mio viaggio a Roma, perché speravo che le notizie che me lo avevano fatto imprendere tanto a malincuore fossero false; ma ora mancherei con lei di franchezza se non le dicessi tutto. In codesta solitudine; in mezzo al mio assiduo lavoro, mi pervenne la nuova della rovina di mio fratello, duca d'Astura. Le avevo parlato poco di questo fratello col quale non ho passato altro che la prima infanzia e non ho avuto nulla di comune nella giovinezza, e poi parlandogliene avrei dovuto rivelarle un dolore che mi ha sempre angustiato atrocemente. Ora che Franco sta per giungere costà e si rassegna a incominciare una nuova vita, conviene peraltro che io glielo faccia conoscere per impedire anche che egli possa avere una influenza perniciosa sul carattere di Maria. Mio padre era il fratello minore del duca d'Astura e lo stesso divario che corre fra Franco e me, sussisteva fra quei due fratelli. Lo zio Giovanni era un uomo che si drappeggiava con compiacenza nelle glorie passate della famiglia Frangipani, - era guelfo nell'anima e si vantava che l'ultimo degli Hohenstaufen fosse stato congegnato da essi a tradimento agli Angioini, - e credevasi un gran personaggio perché occupava diverse cariche alla Corte pontificia. Del suo valore personale non gl'importava nulla e parevagli cosa superflua, dal momento che all'annunzio del suo nome, accompagnato dal titolo, vedeva spalancare dinanzi a sé tutte le porte. Mio padre, invece, fino da giovane aveva dimostrato un grande amore allo studio, un desiderio vivo di essere il creatore di se stesso. Educato semplicemente, perché non era il primogenito e non poteva sperare in un vistoso patrimonio, seguì i corsi universitarj, s'addottorò in legge e non potendo esercitare a Roma, dove la sua famiglia era fra le prime, viaggiò molto creandosi numerosi amici ovunque. In uno di questi viaggi conobbe mia madre a Palermo. Ella era una Monteleone, di un ramo cadetto, e possedeva alcune terre fra Castelvetrano e il mare, che però non costituivano una ricchezza. Era molto bella, abbastanza colta, elegante, e mio padre se ne invaghì e la sposò. Non credo peraltro che la loro unione fosse felice, perché se rievoco la mia infanzia, vedo mio padre sempre solo nel suo studio, in mezzo ai libri, e la mamma circondata da molte signore e da molti amici, fra i quali non mancava mai il duca d'Astura, nè la moglie. Essi non avevano figli e Franco viveva più in casa loro che in casa nostra. Anzi, ricordo diverse dispute fra mio padre e mia madre per questo fatto, dispute che ella troncava dicendo che Franco era l'erede naturale delle ricchezze e dei titoli del duca e occorreva lasciarlo allo zio, dal momento che desiderava di vederselo crescere accanto. Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

Non abbiamo la sua deposizione? Io, per conto del mio cliente, rinunzio volentieri a udirla di nuovo. Con un certificato di malattia si rimedia a tutto. L'Orlando, dopo essersi fatto dare un'acqua di soda; uscì e il medico rimase a far preparare alcune medicine per la malata. Dalla porta aperta della farmacia egli vedeva, tornare a frotte gli operai e afferrava in parte i loro discordi. Morirà! - dicevano essi, - così la moglie del forzato non farà più la commedia. Oggi, meno che quel vigliacco del vecchio Federigo; nessuno ha mangiato il pranzo; e così sarà sempre; noli. vogliamo più elemosine da quella sgualdrina, - dicevano alcuni passando. Perché non facciamo sciopero? - proponeva Giovanni. - Uno sciopero, in questa stagione, rovinerebbe il Frangipani. Sciopero no, - rispondeva un altro, - ci roviniamo; noi lavoriamo poco; e poi, se vorrà il voto, dovrà venire a patti e farci un regalo. Non bisogna far nulla per nuIla. Sentito! - diceva il Sarno a don Calogero. Questi sono gli elettori più fidi del vostro don Roberto; che fedeltà! L'altro, che era di sangue caldo, s'infiammò. La medicina fu dimenticata e fra i due nacque una vivace discussione che forse sarebbe Inuta male se il Bonaiuto, giungendo; non avesse mosso la pace fra i contendenti. E inutile riscaldarsi; ci sono ancora quattordici giorni all'elezione, e da qui ad allora possono nascere tante cose! Ieri questi operai erano per il Frangipani; oggi per un dispetto gli si sono voltati contro: domani potrebbero di nuovo proclamarlo il migliore fra i padroni; sono banderuola, che si volgono secondo il vento. Don Roberto è ricco e ali' ultimo potrebbe averli dalla sua; forse i loro discorsi sono un' astuzia per ispremergli denaro. Conosco don Roberto, - rispose il Sarno, - non darà loro un soldo. Allora non sarà eletto, - sentenziò il Bonaiuto. Di questi discorsi, tenuti fra due elettori dell'Orlando e anche delle parole sorprese in bocca agli operai, fece tesoro don Calogero; e la sera, dopo aver visitato i malati, andò a consigliarsi con lo zio. Ti aspettavo, - gli disse don Achille turbato, anch' io so molte cose che Roberto non deve ignorare. Ritorna subito a Selinunte. Intanto che attaccheranno il bagher, ti dirò tutto. Sai, è venuto un agente elettorale da Roma per l'Orlando, - susurrò il vecchio a bassa voce; - indovina chi è? Non saprei. Quel malanno del Marvuglia, che è impiegato al Ministero dell'Interno. Finge d'esser venuto in licenza a passar l'autunno qui, ma è mandato, lo so. E da chi io sapete? Da Rosalia, che è amica di Lucia la serva del Purpura. Stamani è giunto e subito è andato da don Ciccio, ove è rimasto a pranzo insieme con l'Orlando; il Sarno; il Torres e il Bonaiuto; tutta la combriccola, e hanno bevuto e fatto brindisi al candidato loro. Lucia, che era tutta disperata che Franco non le desse più le belle mance; perché non si fa più vivo, ora è contenta di questo Marvuglia, perché da lui spera. Gli ha sentito dire, mostrando un portafoglio pieno: " Con questi argomenti si vince sempre! " Roberto bisogna che spenda, - aggiunse il vecchio. - Tu gli devi rappresentare la necessità, ormai che è in ballo, di trionfare. Ma voi lo conoscete, egli si ribellerà. Purtroppo. Certi caratteri come quello non sono fatti per la vita politica. Se ci avessi pensato prima. non mi sarei tanto rallegrato di averlo a nostro rappresentante. Il cavallo era già attaccato e il cocchiere schioccava la frusta per chiamare il dottore. Questi scese tutto rannuvolato per la difficoltà della missione che doveva compiere, e, percorrendo di notte quella via monotona, le parole degli operai tornavano a sonargli dolorosamente all'orecchio e non sapeva come riferirle a Roberto. Allorché don Calogero giunse alla villa, il pranzo era terminato e il professore Angelini passeggiava nel viale dei palmiti insieme con Franco, fumando il sigaro. Parlavano di Roma e di alcuni medici che entrambi conoscevano. Don Calogero li salutò e poi corse in cerca di Roberto; il quale era in conferenza col Lo Carmine, nella sala superiore. Come sta la malata? - domandò. Molto meglio: la febbre declina; il dolore alla testa ha ceduto: ella dorme tranquilla. Lanciamola riposare, - disse il dottore, - e parliamo dei nostri affari; dell'elezione. Don Roberto, preparatevi a sentirne delle brutte; i vostri operai vi si rivolteranno se non comprerete i loro voti. Non potete creder l'effetto che hanno prodotto le parole dell'Orlando che tutti hanno lette. Comprare i loro voti, io! - esclamò Roberto. Diventar lo schiavo di trecento padroni, il servo di trecento operai, che non si stancherebbero, dopo la prima volta, di chiedere ancora! Amico, non mi conoscete. Io non abbandono il campo, perché, quando mi sono messo in una impresa, anche disastrosa, vado fino in fondo, ma mendicare i voti degli operai, no. Allora non sarete eletto e la tirannìa dell'Orlando si aggraverá su noi per altri cinque anni. Pazienza, - rispose Roberto. - Se questa tirannìa. vi pesa, collegatevi con altri cui questo giogo riesce grave ed eleggetemi. Non siete di questo parere, Lo Carmine? Io non supponevo mai tanta perfidia nell'avversario, rispose lo scienziato, - se l'avessi supposto non vi avrei dato quel fatale consiglio. Perché fatale? - domandò Roberto. - Che sapete d'altro, parlate! La ribellione serpeggia fra i vostri operai; le parole dell'Orlando non hanno fatto tutto quel male che dice don Calogero. Sabato essi erano già stati subordinati, sabato hanno dichiarato che non avrebbero più accettato il pranzo delle cucine economiche. Io non sapevo questo fatto. Assicuratevi, don Roberto, che è vero. Fra di essi vi è qualche malvagio, istigato forse dal di fuori. Sorvegliate e ve ne accorgerete. Credete, è ben triste, - diceva Roberto, rivolto agli amici, - di non sapere da qual parte vi vengono i colpi che ricevete. Di qua, di là, mi trovo bersagliato e non veggo il nemico. Ma chi mi ha scatenato contro tutta questa inimicizia? Don Calogero e lo scienziato tacquero; ma un nome era corso alle loro labbra e con uno sguardo si comunicarono il loro pensiero, in quel punto il professore Angelini salì insieme con Maria, e il Lo Carmine prese commiato. Roberto accompagnò a letto la piccina e quindi seguì i due medici nella camera dell'inferma. Questa dormiva ancora, ma al rumore dei passi aprì gli occhi e, riconosciuto nella penembra Roberto, gli sorrise. Mi sento meglio, - disse, - ma ho tanto sofferto. Mi dica, come è andata radunanza elettorale? Benone. Mi farà leggere il suo discorso, l'avrà fatto stampare? Non ancora; non ho pensato a nulla; lei stava così male, che io non poteva rivolgere la mente ad altro. Lo so, mio buon signore, - rispose Velleda ma ora bisogna riprendere la lotta, fare stampare a migliala e migliaia di copie il discorso, girare, darsi moto, accaparrare voti oltre quelli già sicuri. Se sapesse quanto mi affliggevo di essere così malata, perché capivo che la distraevo dal suo scopo! I due medici erano rimasti a parlare sotto la porta, mentre Yelleda e Roberto si comunicavano a voce bassa i loro pensieri. Come le voglio bene! - disse egli, coprendo con la mano quella di lei, che era abbandonata sulla rovescia. E io ... . - rispose Yelleda, avvolgendolo in uno sguardo d'amore. Non la faccia parlar tanto, - ordinò l'Angelini; accostandosi al letto. - Si rammenti che la febbre potrebbe tornare gagliarda se si eccitasse. Ma non è fuori di pericolo? - domandò Roberto. Sì, ansi il miglioramento continua e fra pochi giorni sarà rimessa, ma bisogna evitarle eccitamenti e commozioni; i nervi sono sempre scossi. Il professore tornò presso don Calogero per indicargli la cura da seguire; Roberto rimase presso l'inferma. Velleda, povera amica, so tutto, - le disse, - mi e divenuta doppiamente cara da che sono informato di quanto ha sofferto per me. Sì, ho sofferto tanto, ma ora non possono impormi più nessuna tortura, poiché hanno detto tutto, tutto. Ma basta, - disse il professore, - la signora ha bisogno di calma e di silenzio! Velleda sollevò la testa ricciuta dai guanciali e, rivolta all'Angelini, disse: Crede, signor professore, che nel silenzio io sia più calma? Non è vero, anzi, quando tutto tace d'intorno a me, la mia fantasia lavora febbrilmente. Ora la crisi morale, che ha determinato il mio male; è superata, non corro più nessun pericolo. Non ostante questa assicurazione, Roberto tacque pensando che ella ignorava ancora il peggio: l'allusione velenosa contenuta nel discorso dell'Orlando, il voltafaccia degli operai e le perfidie che forse si ordivano in quel momento in casa Purpura. E, nel pensare a tutto questo; il volto di Roberto si rannuvolò e una ruga profonda gli solcò la fronte. Fino a ora tarda i due medici e Roberto rimasero in camera di Velleda; don Calogero avrebbe voluto vegliarla fino a giorno e Roberto non si sarebbe allontanato da quella camera per proteggere il sonno della sua cara, ma ella non lo permise. Mi sento bene, - disse, - e dormirò profondamente. Andate a riposare e grazie, grazie di tutto. Nel dir questo, stese ai due medici la mano per stringere anche quella di Roberto. Questi accompagnò i suoi ospiti nelle camere destinato loro, ma non si coricò. Egli rimase tutta la notti' in sala a pensare a quel che avrebbe fatto il giorno seguente e ogni tanto andava a origliare alla porta di Yelleda. Ma nel pensare a quello che doveva fare, per togliere fin da principio ogni speranza negli operai sul lucro che potevano ricavare dal loro voto, egli si affannava a cercare chi poteva avere scatenato contro di lui e contro Yelleda tanto odio, tanto livore; chi poteva avere svisato le sue oneste intenzioni, chi era la vipera che si teneva celata e all' improvviso lanciava contro di loro il suo veleno. Ma per quanto cercasse non trovava nessuno su cui appoggiare i suoi sospetti; e quella incertezza, quel buio pesto nel quale si sentiva avvolto, lo sgomentavano. Se lo avesse conosciuto quel nemico vigliacco, sarebbe stato più calmo; ma così come poteva difendersi? Roberto passò angosciosamente la notte e sul far del giorno s'addormentò in un seggiolone, in sala, e dormì un paio d'ore di un sonno pesante; avrebbe dormito anche più lungamente se non avesse sentito due manine che gli cingevano il collo e una bocca che si posava sulla sua. Babbo, stamane sono io che ti vengo a destare con un bacio, - disse Maria. Come, sei già alzata? Si, sono stata anche da Leda, che sta benino; vieni, vieni a vederla. Roberto seguì l'invito della bambina e tutti i pensieri angosciosi, che gli erano ritornati a un tratto alla mente nel destarsi; svanirono vedendo la sua cara seduta sul letto, pallida ancora, ma col viso composto e il dolce suo sorriso sulle tenui labbra. Sono guarita - esclamò ella. - Oggi starò ancora a letto; ma domani, Maria, voglio alzarmi e poi riprenderemo le nostre dolci consuetudini. Piccina mia, ti ho tanto trascurata in questi giorni! - e se l'attirava a sé e la baciava. Roberto; nel vederle così abbracciate; stese le mani per avvolgerle tutte e due in un amplesso, ma le lanciò ricadere sulle spalle di Maria. Perché, perché non poteva realizzare il sogno di dare una madre alla sua piccina e alla sua cara una famiglia? Nessuno avrebbe osato insultare Velleda se portava il suo nome; egli avrebbe avuto il diritto di difenderla; mentre ora doveva lasciarla coprire di fango, senza raccogliere l'insulto. Che orribile situazione! - Scenda a far colazione, - dissegli Velleda vedendolo pensoso; - Maria deve aver fame. Egli scese di fatto e poco dopo, raccomandando alla. piccina di non parlar troppo e di non far rumore, se voleva stare presso la malata, andò allo stabilimento. I pennacchi di fumo s'inalzavano dai diversi edifizi, un vapore era ormeggiato poco distante dalla banchina; ma nessuna barca si accostava a quello recandogli il carico, nessun rumore di martelli partiva dalle officine. I carri erano allineati senza essere attaccati, le botti piene di catene non erano rotolate, perché non si udiva quel cigolìo del ferro che batte contro il ferro. Roberto capì che il lavoro era sospeso, che il nembo si addensava. bisognava esser calmi e lottare. Egli entrò nel piazzale dal lato di terra e si fermò sotto la vòlta. Crii operai erano tutti lì, col breve mantello sulle spalle e il cappuccio sulla testa, com'eran giunti, e parlavano fra di loro a voce bassa; quando lo videro, tacquero. Roberto fece alcuni passi e giunto nel centro volge in'rorno uno sguardo e disse con voce sonora: Che vuoi dire che non lavorate? Giovanni, il solito caporione, volse uno sguardo ai compagni, come se chiedesse loro il permesso e vedendo cenni d'incoraggiamento, disse: Padrone, prima di riprendere il lavoro, vogliamo una promessa. Gli occhi di Roberto lampeggiarono, ma si dominò. Avrai voluto dire desideriamo? - domandò. No; - rispose l'operaio facendo due passi avanti per essere più vicino a Roberto, - ho detto vogliamo; e così intendevo dire. Quelle promesse tu me le hai chieste anche ieri, replicò Roberto, - e io te le ho negate, perché non vaglio mi si detti legge. Oggi sono della stessa opinione. Ebbene, padrone, voi non avrete i notri voti. Chi ve li ha chiesti? - rispose Roberto gettando uno sguardo altero intorno a sé. - Siete venuti ad offrirmeli. È vero, ma non si fa nulla per nulla. Voi volete essere deputato e noi vogliamo assicurato il pane, i nostri voti valgono qualcosa; non vogliamo regalarli. Roberto si sentiva accecare dalla collera, da una di bielle, collere tremende che raramente scoppiavano, ma erano violente come i temporali dopo un lungo periodo di tempo sereno. Egli fremeva in tutta la persona e la voce stessa era divenuta aspra e stridula. Offriteli al migliore acquirente, vendeteli altrove ma non qui; - rispose alteramente. Sta bene, - rispose Giovanni. - Compagni, avete udito? li padrone rifiuta il nostro appoggio. Noi gli diamo tre giorni di tempo per riflettere; poi, se non cede, peggio per lui. Roberto avrebbe voluto mandarli via subito tutti; ma si dominò per il timore che si dicesse che egli aveva cacciato i suoi operai perché non volevano eleggerlo. Andate al lavoro; oggi avete perduto tre ore in conciliaboli: vi saranno trattenute sulla settimana. Anche questo. - esclamò Giovanna digrignando i denti e volgendo sui compagni uno sguardo significante. Andate a lavorare! - ordinò Roberto cui nulla sfuggiva. Il vecchio Federigo; che era rimasto in disparte insieme con pochi compagni; scrollando mestamente la testa canuta, si accostò a Roberto e gli disse: Padrone, io sono un ignorante, non so ne leggere. ne scrivere e non posso votare, ma se potessi vi eleggerei re, perché siete giusto e buono. Pecora! Vile! - gridarono i caporioni degli insubordinati; e dalla massa, che stava loro dietro, partirono fischi prolungati. Federigo si era avviato verso il magazzino in cui era solito lavorare, i suoi compagni erano andati chi di qua chi di là; Giovanni era ancora in atteggiamento di sfida dinanzi al padrone. Al lavoro! - gridò .Roberto. Noi non lavoreremo, - risposero diversi. Non lavoreremo; se non ci rimettete le tre ore di lavoro; è una prepotenza! In quel momento giunse la carrozza alla porta dello stabilimento e ne scese il Varvaro; il quale; vedendo gli operai assembrati; corse a fianco di Roberto. Al lavoro! - gridò Roberto, - Se non mi ubbidite, chiudo lo stabilimento e lo riapro con operai forestieri. Alcuni, intimoriti da quella minaccia, borbottarono, ma a testa china si diressero verso i magazzini o lo officine. Quell'esempio fu seguito da altri; Giovanni e i suoi amici accompagnarono con fischi quelli che si allontanavano e rimasero nel centro del piazzale. Roberto e il Varvaro scambiarono poche parole e quest'ultimo, volgendosi a Giovanni, gli disse: Da un pezzo il padrone ed io siamo malcontenti di te. Lascia subito lo stabilimento. Ah! mi cacciate come un ladro! - esclamò. No, come un insubordinato. I cattivi elementi vanno eliminati. Passa dalla cassa e ti sarà data la settimana. Compagni! - urlò, - se non siete vili, seguitemi. Nessuno si mosse, ed egli traversò solo il piazzale, bestemmiando; si fermò un momento allo sportellino del cassiere e uscì; gli altri ritornarono al lavoro. Narratemi l'esito della vostra gita, - domandò Roberto al Varvaro, quando furono soli. Ieri l'altro sera, appena giunto, andai alla TrinaCria In redazione non v'era che un cronista, il quale non sapeva nulla di nulla e m'invitò a tornare la mattina dopo, quando il direttore soleva essere in ufficio; all'ora stabilita lo incontrai infatti e mi ricevè con molta cortesia e, quando gli esposi il perché della mia visita, si mostrò meravigliato e, facendomi rileggere l'articolo, voleva persuedermi che era pieno di lodi per la signora. Altro che lodi i - esclamò Roberto. Io non lo lasciai continuare e gli domandai quanto aveva avuto dall' Orlando per inserirlo. Si turbò e volle negare, ma io che m'ero accorto di aver colpito giusto con la mia supposizione, gli asserii che lo sapevo e che era inutile facesse misteri, che, se non mi rivelava tutto, lo avrei costretto a battersi alla pistola. Non credete che mi arrischiassi; mi ero accorto di aver a che fare con un vile. Infatti, rivelò che il Bonaiuto, l'antico corrispondente, non era l'autore dell'articolo; ma il Sarno. quel velenoso farmacista, e che le correzioni erano di pugno dell'Orlando, il quale aveva fatto ottenere un sussidio mensile alla Trinacria per il tempo delle elezioni, ed era perciò padrone lui. Che mi rimaneva a fare? Smentire l'articolo era peggio, e così sono tornate per consigliarmi con voi. E il mistero perdura! - esclamò Roberto. - Ma chi può aver fornito quei dati all'Orlando? Chi? Il Varvaro involontariamente alzò gli occhi alle finestre di Franco e stette per tradirai. Rifletteremo, - disse Roberto; - ora occorre invigilare gli operai: il licenziamento di Giovanni avrà uno strascico, - e con passo sollecito entrò nei magazzini. Nessuno lavorava, meno il vecchio Federigo; che portava una piccola bigoncia piena di vino sulla spalla destra e andava a versarla in una botte più piccola di quella da cui lo aveva tolto. Gli altri stavano a gruppi. ciarlando e; quando lo vedevano passare, gli gridavano : Pecora! Vile! Perché lo insultate? - domandò Roberto. - Seguitene l'esempio; egli non sciupa il tempo che è danaro per me, e guadagna coscienziosamente la giornata Andate a lavorare. A quella voce, cui erano soliti ubbidire, i facinorosi si dispersero e incominciarono anch'essi a andare in su e in giù per il lungo magazzino oscuro, nel quale a sciami ronzavano le mosche e le vespe attratte dalle forti esalazioni del vino. Roberto si era fermato dinanzi a una botte che gli pareva gemesse da un lato; così volgeva le spalle agli operai che passavano senza far rumore, poiché sul terreno di quelle specie di gallerie. fiancheggiate da una doppia e talvolta triplice fila di botti, era sparga una sabbia sottile. A un tratto, mentre Roberto stava così curvo, udì in fondo al magazzino un grido seguito da un tonfo. Ebbe un sinistro presentimento e corse verso il punto dal quale era partito il grido; verso quel punto correvano pure tutti gli operai. Quando ebbe fatto un centinaio di passio si fermò. In terra giaceva il vecchio Federigo con la bocca spalancata, vuota di denti, gli occhi vitrei, con quel viso buono, solcato di rughe, che parevano scavate dalle fatiche e dalle lagrime, con i capelli canuti, più bianchi della camicia che lasciava scoperto un collo tutto solchi, come la corteccia di un vecchio castagno. Gli è preso un colpo! È caduto! - dicevano gli operai. Roberto non credeva a tutto questo; era convinto che si trattasse di un assassinio, di uno di quei colpi dati a un infelice, scelto come vittima, e che sono un avvertimento e una minaccia per altri. Difatti, allorché più braccia si protesero per rialzare il vecchio, Roberto, avendo orrore che fra quelli che fingevano pietà si trovasse l'assassino, ordinò : Fermatevi! - e tremante e commosso passò le braccia sotto le ascelle del vecchio e lo sollevò, cercando con l'occhio la ferita. È stato assassinato! - urlò, vedendo dal lato sinistro della schiena, all'altezza del cuore, una macchia di sangue; e sperando che Federigo vivesse ancora lo alzò da terra e lo portò sul piazzale. Ai guardiani, che erano accorsi, ordinò di chiudere le porte dello stabilimento, di frugare a uno a uno tutti gli operai, di scoprire l'assassino; al Varvaro disse di chiamare i medici dalla villa e intanto accostava l'orecchio al cuore di Federigo; ma quel cuore non batteva più, non poteva più battere. Un sottilissimo stile lo aveva perforato da parte a parte, in un momento. Il professore Angelini disse questo appena ebbe esaminata la ferita. Gli operai furono allineati sul piazzale, dinanzi al cadavere. Tutti si lasciarono frugare, stesero le mani all'esame del medico e di Roberto, ma nessuno le aveva macchiate di sangue, nessuno aveva acido - o l'arme tremenda; che non fu trovata in alcun luogo. L'assassino l'aveva gettata in uno dei pozzi del vino. Dinanzi al cadavere di quel vecchio, barbaramente ucciso senza rancore, senza la truce attenuante della vendetta, di quel vecchio pio, onesto e fedele, che Roberto aveva ammesso per il primo nello stabilimento; perde la calma; perde il dominio di sè e urlo : Assassini, perché non avete ucciso me, perché non osate uccidermi? Che cosa vi ha fatto il vecchio Federigo? Nulla! Noi non siamo assassini, - dissero alcuni operai. Si; tutti assassini e vili, se non vendicate il compagno morto, indicando chi lo uccise. Un silenzio profondo regnava sul piazzale. Dunque? - domandò Roberto, facendosi pallidissimo dalla rabbia. - Dunque? Se denunziassimo un compagno, saremmo spie! dissero alcuni. - Non siamo sbirri noi! Roberto incontrava ovunque l'omertà, quella lega del silenzio, quel mistero impenetrabile che avvolge ogni atto vergognoso; infame; ovunque s'imbatteva nell'indifferenza apparente, contro la quale doveva infrangersi la sua potente volontà. Che cosa poteva fare, egli solo col Varvaro e quattro guardiani, contro trecento uomini? Tenerli sequestrati fino all'arrivo dei carabinieri? Questa idea gli balenò nella niente; ma la respinse. Si sarebbero ammutinati, avrebbero dato fuoco agli alcools, sarebbe stata la rovina. E intanto il cadavere di quel povero vecchio; con gli occhi spalancati, pareva che chiedesse a Roberto di esser vendicato. L'orologio dello stabilimento suonò mezzogiorno e gli operai ruppero le file, andarono in cerca dei loro mantelli e uscirono salutando il padrone, il quale non osò trattenerli. Signor Frangipane - disse il professor Angelini, che aveva assistito a quella scena, - la vostra vita non è lieta; ne la vostra missione facile. Non è stato sempre così; - rispose Roberto. Da qualche tempo tutto misi scatena contro; ci deve essere qua dentro qualcuno che mi odia, - e, chinatesi sul cadavere del vecchio, le cui labbra avevano tante volte invocata su di lui la benedizione del ciclo, i cui occhi lo avevano per tanti anni fissato con riconoscenza; li chiuse e ordinò che il cadavere fosse composto sul letto di un guardiano. Poco dopo il professore partiva insieme con don Calogero, il quale doveva far la denunzia alla giustizia. Il professore, prima di salire in carrozza, disse a Roberto: Se le è cara la vita della signora, le nasconda questo fatto e l'allontani di qui. Ha un temperamento nevrastenico e queste scosse potrebbero esserle fatali. Mentre il medico oculato faceva questa raccomandazione a Roberto, Costanza entrava in camera della signora, urlando: Hanno assassinato Federigo! Hanno assassinato Federigo! Velleda a quel grido era balzata dal letto, s'era gettata addosso, una veste e scendeva barcollando le scale. Roberto, che era accorso alla villa per raccomandare a tutti il silenzio su quel fatto, la raccolse fra le broccia mentre stava per cadere e la riportò in camera. È troppo! - gridò Velleda avvitichiandoglisi al collo.

Le Fate d'Oro

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Perodi, Emma 5 occorrenze

. - Mamma cara, piangi forse perchè abbiamo fatto tardi? - disse Felice. - Abbiamo le tasche piene di dia- manti, - aggiunse Nennella. La madre si alzò e li guardò come se non li conoscesse. Il babbo entrò, ed egli pure era canuto. I diamanti scintillavano, allorchè li mi- sero sulla tavola, alla debole luce della lu- cerna. Felice si scosse e Nennella mandò un grido. - Perchè siamo cresciuti? Perchè non siamo più bambini? - Come mai, mamma, siamo così cambiati? Eppure siamo stati assenti soltanto alcune ore. - Il babbo e la mamma li abbracciarono piangendo dalla gioia. La sera passata nella caverna era durata vent'anni, e il pesca- tore e la moglie, per vent'anni continui, avevano pianto per morti i loro bambini. Essi venderono i diamanti e lasciarono la casupola per stabilirsi in un palazzo dì marmo. Ma poco dopo rimpiangevano la vita passata, perchè erano ricchi senza es- sere felici. Nennella e Felice rimpiangevano l'in- fanzia spensierata. Essi tornarono alla ca- verna, bussarono alla porta di cristallo con il battente d'argento. La vecchia aprì e domandò che cosa voleva il signore, che cosa voleva la si- gnora. - Desideriamo che il babbo e la mamma tornino felici come prima. - Entrate subito, purchè beviate il mio vino, che sa di pesce, nei bicchieri di chioc- ciole marine. - Essi erano felici davvero di beverlo. - Perchè ci avete preso vent'anni di vita in ricompensa di aver ridato la libertà alla Sirena? - No, signore; - disse la vecchia - no davvero, signora. Ho voluto dimostrarvi che i diamanti non possono fare felici e che è una bella cosa l'esser bambini. Ora andatevene. - Quest'ultima parola fu pronunziata con molta durezza. Nennella e Felice, ciò nono- stante ringraziarono la vecchia e si affret- tarono ad uscire. La porta di cristallo si chiuse subito dietro a loro, ed essi ritorna- rono piccini e scalzi, e corsero giù per gli scogli verso casa, felici di esser ritornati bambini. Il babbo e la mamma li aspettavano sulla porta della loro casupola; essi non erano più canuti; avevano la faccia alle- gra e felice, e sulla tavola c'era la bar- chettina e la vecchia bambola.

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Le nozze si celebra- rono con gran pompa, e in quel giorno stesso ser Marco, povero e scorbacchiato, imbarcavasi per tornare in patria, e ser Orlando piangeva nella sua caverna, ama- ramente, sulla sorte che lo privava di una sposa bella e pietosa, dalla quale avrebbe potuto sperare conforto nei giorni di sven- tura, che sempre abbiamo nella vita. Ma il bene non si acquista nè col de- naro, nè spargendo il sangue altrui, sia pure quello delle belve; il bene sboccia soltanto dai suoi stessi semi: dai semi della bontà e della carità.

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- Perché non abbiamo da dar loro nulla. Non c'è di che sfamarli, di che ri- vestirli, di che farli felici.... - Ma pensa al loro dolore se doves- sero rinunziare alla solita festa! Non hanno altra gioia durante i dodici mesi dell'anno; ci sono assuefatti, crescono con quel desi- derio.... Poveri piccini! Venderò qualche cosa in questi giorni, ma essi avranno il pranzo, i doni, meno belli forse, ma li avranno. - Vorrei sapere che cosa venderai, - disse la Contessa. - Mi pare che ci siamo privati di tutto il superfluo. - Ci rimane però l'antico letto di famiglia, che è molto grande; è fatto di legno prezioso, intarsiato d'oro e d'argento. Ce lo pagheranno bene. - Vuoi vendere il letto di famiglia? - esclamò la Contessa. - Quel letto in cui dormirono e morirono tante generazioni di antenati tuoi; l'unico letto che ci ri- mane! - A questo non ci pensare; tu dor- mirai sul sofà, io mi coricherò per terra. - Per terra, alla tua età! Ma vuoi - dunque morire? - Ma se quei poveri bambini non avessero il pranzo, i doni?... - La Contessa tacque. La mattina di quello stesso giorno un giovane Gigante s'inoltrava nella foresta non molto distante dal castello del Conte, quando vide una Fata piccina che, da un ramo di una querce, gli saltò sull'indice della mano destra. - Ora ti trovi distante dugento mi- glia da casa tua. Dimmi perché fai que- sto gran viaggio? - domandò costei al viaggiatore. - Per una ragione potente. A casa mia non ho da mangiare, ed io viaggio per procacciarmene. - In qual modo? - Vado a vedere se è morto lo zio del mio nonno. Sono uno degli eredi; e quel vecchio è molto ricco. Se posso pren- dere la mia parte d'eredità non tremo più a questo mondo. - Mi pare, - disse la Fata - che si viva male aspettando il danaro altrui. - Questo è vero, - rispose il Gi- gante. - Ma attendo da quando ero pic- cino. - La Fata guardò meravigliata il suo compagno. - Mi pare impossibile che tu sia stato piccino. - Eppure un tempo non ero più alto di un cavallo. - Ed io ero grossa come un pisello. - Il Gigante si mise a ridere. Ma par- lando di piselli si rammentò che aveva fame. - Dobbiamo fermarci a chieder qual- che cosa da mangiare? - Fermiamoci pure, ma non nello stesso posto, - disse la Fata - tu devi avere una fame da lupi. - Ebbene, nel fondo della valle, a cinquanta miglia di qui, c'è una casona molto grande. Io anderò a mangiare in quella là, e tu puoi andare dal Conte. Ti accompagnerò fino al limite della foresta. Quando hai mangiato, torna su questa querce e faremo la strada insieme. Il Conte è povero povero, ma per te avrà sempre a sufficienza da mangiare. - Il Gigante depose la Fata in terra, e Il Gigante depose la Fata in terra, e mentre essa andava al castello, egli si di- rigeva alla casona nella valle. Dopo due o tre ore si ritrovarono nello stesso luogo: il Gigante riprese sull'indice la Fata e continuarono il viaggio insieme. - Mi raccontasti che il Conte era povero; ma vorrei che tu vedessi coi tuoi occhi quanto è mai povero. Quando sono arrivata, lui e la moglie avevano appunto terminato di desinare ed erano davanti al camino spento. Stavano parlando intima- mente fra loro, perciò non ho voluto di- sturbarli e son saltata sulla tavola per trovar da mangiare. Devono aver fatto un desinare molto misero. Per sfamarmi c'era a sufficenza, perché io mi contento dei mi- nuzzoli; ma anche quelli erano tanto duri e risecchiti che potevo appena mangiarli. Ma quando sentii quel che dicevano, com- presi meglio la loro miseria. - Ti par cosa ben fatta di spiare i discorsi altrui? - Forse no, - rispose la Fata. - Ma senti: parlavano della festa del Capo d'an- no, e dei regali che davano ai ragazzi gli anni passati. Benché poveri faranno lo stes- so anche quest'anno. - Come faranno? - Il Conte vende il letto della pro- pria famiglia. - Il Gigante esclamò stordito: - Come, il celebre letto della fami- glia Ruggiero, servirà a fare i regali ai bambini? - Sicuro. - Davvero? Non ho mai inteso una cosa simile dacché son nato. Fa pietà. Bi- sognerebbe impedirla. - E così lamentando la sorte del po- vero Conte, giunsero ad un crocicchio. - Addio Fatina, - disse il Gigante. - Ti lascio colle tue compagne. Ci rive- dremo quando ripasserò. - Se ti contenti ti accompagno. Vo- glio vedere come vanno le cose laggiù nel castello dello zio del tuo nonno. Non ti accorgerai neppure della mia presenza. - Vieni pure. - Dopo poco il Gigante e la Fata giun- gevano alla porta del castello, che era cu- stodita da un guardiano. - Guardiano! - urlò il Gigante. - Come sta lo zio del mio nonno, il vecchio gigante Tannoreg? - Egli è morto da un mese e i suoi beni sono stati divisi fra gli eredi. - Non può essere; io sono uno degli eredi e non mi è toccato nulla. - Non so altro; - disse il guardiano - mi hanno detto di dare questa risposta a quanti venivano. - Chi te lo ha detto? - Il mio padrone Sommareg, l'erede principale del vecchio Gigante. - Sommareg! - esclamò il Gigante - Che impudenza! Egli è cugino in nono grado per parte di donna. Dov'è? Con- ducimi da lui. - Non credo che oggi riceva, - ri- spose il guardiano. - Apri la porta o ti stritolo! - urlò il Gigante. Il guardiano impallidì e spalancò la porta per lasciar passare il Gigante e la Fata. In una gran sala interna, dinanzi ad un bel fuoco, stava seduto un Gigante vec- chio vecchio. - Come mai, Sommareg, vi siete ap- propriato questo castello? - urlò il gio- vine Gigante. - Ero amico del vecchio, - balbettò spaventato Sommareg. - Dite piuttosto che avete respinti i cento eredi e vi siete preso ogni cosa. - No davvero; ognuno ha avuto la sua parte. - Io sono uno di quelli che non - hanno avuto nulla, e voglio ciò che mi spetta. Venite con me acciocché io possa scegliere. - Non posso; mi sento male. Vi man- derò un intendente. - Sommareg suonò e comparve un uomo piccolo piccolo, con un testone di capelli arruffati, da una parte bianchi come la neve e dall'altra neri come l'inchiostro. - Ecco un altro erede. Dategli la sua parte e lasciatelo scegliere. - L'intendente lo guidò in molte sale piene di armature d'acciaio. - Se le prendessi ci vorrebbero carri e carri per portarle via. Non c'è altro nel castello? - Tutto il rimanente appartiene al mio padrone. - Fammi scegliere, se no.... - L'intendente, lo condusse in molte al- tre sale riccamente addobbate. - Qui c'è del buono, - disse il Gi- gante. - Io segnerò col gesso quel che voglio e tu me lo manderai. - Sicuro, - rispose l'intendente. - Vi manderò tutto dopo che sarete partito. - E il Gigante segnava, segnava ogni cosa; aveva già segnato a sufficienza per ammobiliare un castello. - Dov'è il denaro? - domandò. - Signor mio! - esclamò l'intendente tutto sgomento. - Denaro non ce n'è. - Il Gigante non rispose, ma prese l'o- mìno per le gambe e lo capovolse. Una chiave grossa grossa gli uscì di tasca. - Ecco la chiave del denaro. Non ti disturbare; lo troverò da me. - Ma mentre si dirigeva verso la parte più bassa del castello, l'intendente gli cor- reva dietro tutto disperato. Il Gigante aprì la porta e entrato nella stanza trovò sac- chi d'oro e d'argento ammonticchiati lungo le pareti. Col solito pezzo di gesso ne se- gnò dozzine e dozzine. - Bene, signore; ve li manderò dopo che sarete partito. - Che cosa c'è in questi sacchetti piccoli? - Sono diamanti, signore; segnatene quanti volete. - Ne segnerò uno, - disse il Gi- gante alla Fata che stava nascosta nel suo colletto - e quello sarà per te. - Per me? - esclamò l'intendente che non vedeva la Fata. - Grazie, - rispose essa tutta felice. - Mi piaccion tanto i diamanti! Sono molto contenta che lo zio del tuo nonno sia morto. - Non lo dire, - rispose il Gigante - non sta bene dir certe cose. - E dopo che ebbe finito di segnare, si rivolse all'in- tendente: - Non voglio disturbarvi, - aggiunse. - Porterò con me quel che ho scelto. - Quindi postosi in tasca il sacchetto coi diamanti, si caricò sulle spalle i sacchi di monete, e se ne andò via senza neppur vol- tarsi indietro. Quando giunse nella gran sala dove stava il Gigante vecchio, seduto dinanzi al fuoco, si fermò un momento per dirgli: Porto meco la mia parte di denaro; ho segnato quel che ho scelto e dovete mandarmi tutto dentro la settimana. Avete capito? - Il Gigante vecchio gettò uno sguardo sui sacchi di denaro che l'erede aveva in spalla e sospirò. - Che farai nel mondo con tutte que- ste ricchezze? - domandò la Fata. - Ne porterò un sacco al Conte per che offra una bella festa ai bambini. Il resto lo riporrò nel mio castello. - Il primo giorno dell’anno sorse chiaro e sereno. Il Conte si alzò di buon umore e affacciandosi alla finestra vide una lungi processione di bambini, preceduta dalla musica, che si avvicinava al castello. Chiamò la Contessa e la condusse sulla terrazza. - Sono più numerosi del solito! - esclamò la povera signora. - Come fare- mo a sfamarli; saranno un centinaio. —- Intanto la processione giungeva al ca- stello. Primo veniva il Gigante colla pic- cola Fata sul dito; poi quattro o cinque suonatori, e in ultimo una lunga proces- sione di bambini vestiti a festa, che cam- minavano a due a due. - Viva il Conte! - gridò il Gi- gante; e le vôlte grandiose del castello echeggiavano dei suoi gridi e del suono degli strumenti. - Entrate, cari miei, —disse il Conte ai bambini. - Son contento di ospitarvi. Ma voi, caro Gigante, come potrete pas- sare dalla mia porta? - - Conte! - esclamò la Fata ritta sul dito del Gigante. - Ho una cosa da proporvi. - Il buon signore la guardò meravi- gliato. - Che bella Fatina! - disse. - Esponetemi pure le vostre idee. - Bene. Ci permettete di entrare nella gran sala del castello? Abbiamo voglia di ballare. - Temo che ci starete male: è tutta piena di polvere e di ragnatele. Son tanti anni che non c'entra nessuno. - Mi farebbe tanto piacere di cam- minare in quella sala a suon di musica. - Se è così, - disse il Conte - en- trateci pure. - Il Conte e la Contessa si unirono alla processione, traversarono la corte, salirono lo scalone e giunsero alla sala. Il Gigante aprì la porta. Nessuno a questo mondo è stato mai tanto sorpreso quanto lo furono il Conte e la Contessa. Nel mezzo della sala c'era una lunga tavola, e su quella monti interi di chicche, balocchi e oggetti di vestiario. Il Conte non poteva parlare, la Contessa neppure. Il Gigante li prese per mano e li con- dusse giro giro a veder tutti i doni. Ogni dono portava scritto il nome della persona a cui era destinato. Un sacchetto di broc- cato, tutto luccicante, conteneva i brillanti per la Fata. Ci volle però del tempo a guardare tutti quei doni. - Ora ballate, - disse la Fata colla sua vocina. La musica si mise a suonare e tutti i bambini a ballare. Il Conte, la Contessa, il Gigante e la Fata, guardavano quei bambini allegri e felici, ed erano felici essi pure. Ma ad un tratto la faccia del Conte si offuscò, pensando al magro pasto che aveva da offrir loro. Quando la musica cessò, il Gi- gante aprì una porta dicendo: - Entrate nella sala del banchetto! Questa è la festa che i bambini ricono- scenti offrono al Conte ed alla Contessa. Li hanno resi così spesso felici che adesso è il loro turno. - I bambini spinsero gentilmente il Conte e la Contessa nella gran sala ov'era im- bandita una lunghissima tavola con ogni sorta di cibi e di vini delicati. Dopo il banchetto ricominciarono le danze e non cessarono che verso sera. Il Conte, prima che partissero i bam- bini, rivolse loro poche parole. Il Gigante poi disse: - Non potrò mai ricompensarvi.... - Il Gigante aveva incominciato a dire qualche cosa tutto confuso, quando la Fata l'interruppe. - Sì, caro Conte, potete ricompen- sarlo. Voi non avete figli e vi avvicinate alla vecchiaia. Egli è solo, ricco, e voi, col vostro bel cuore potete giovargli molto. Potrebbe venire a star qui, dove le stanze son grande e tutti sareste felici. - Il Conte piangeva. - Volete adottarmi per figlio? - do- mandò il Gigante. - Sicuro! - fu la risposta. Allora il Gigante s'inginocchiò e il Conte salì sulla tavola e gli pose le mani sulla testa. - Ora adottate anche la Fatina, - disse il Gigante, dopo aver abbracciato il Conte e la Contessa. - Io non posso essere adottata; ma verrò spesso a veder come siete felici, ed i bambini faranno sempre un bel Capo d'anno. - Finchè vivremo, - dissero il Conte e la Contessa. - Finchè vivrò, - aggiunse il Gi- gante. Quando il Conte e la Contessa anda- rono in camera, trovarono l'antico letto di famiglia al posto, tutto luccicante. - Che bel Capo d'anno! - esclamò il buon Conte.

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. - Tua figlia è sparita; abbiamo tro- vato la camera vuota, i suoi gioielli, le sue vesti, tutto è sparito con lei. - La fiera testa di Hamid s'incurvò a quella notizia e una lacrima gli cadde sulla barba. Quel giorno non andò al bazar; quel giorno non ebbe la forza di moversi, e nel suo dolore neppur si rammentò della mi- naccia che aveva fatta alle donne di Fatima. Verso sera entrò la Sventura e gli si mise accanto. - Perché non mi scacci? - gli disse. - I tuoi tesori sono inghiottiti dal mare, sepolti nelle sabbie, distrutti dal fuoco; i tuoi figli, tua moglie sono morti; Fatima, rubata dai corsari, sarà a quest'ora ven- duta su un pubblico mercato come schiava; Fatima sarà battuta da un padrone duro come te.... perchè non mi scacci? - Il mercante era scivolato ginocchioni. - Pietà! - diceva - pietà! non per me, ma per Fatima, per la figlia mia. - La Sventura lo respinse sogghignando, e sparì in un attimo com'era venuta. Hamid non si mosse da quella stanza; Hamid non aveva più forza. Gli schiavi, temendo la sua collera, fuggirono a uno a uno; il suo palazzo rimase aperto ai ladri, aperto alle intemperie, aperto agli animali vaganti. I primi lo saccheggiarono; il vento, il sole, la pioggia vi entrarono schiantando, bruciando, putrefacendo i legnami e gli ornamenti preziosi; gli animali vi presero stanza. Alcuni anni dopo, quando Fatima, di- ventata libera, volle sapere quel che era avvenuto di suo padre e volle tornare al palazzo paterno, lo trovò devastato e po- polato di immondi animali di ogni specie. Il cadavere di Hamid, intatto, era an- cora nella camera dove l’aveva colpito la notizia tremenda, e il suo capo, umiliato dalla Sventura, toccava la terra.

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Il principe Duolo aveva studiato un po' più del fratello minore, ma non era molto istruito, perchè, come abbiamo detto, sua madre era morta mettendolo al mondo, ed egli aveva imparato da lei soltanto quelle cose che le mamme insegnano ai bambini. Pensa e ripensa, rispose: - Il cielo è la cosa più grande che vi sia, perchè non c'è uccello che possa raggiungerne i confini, ed è tanto potente da tener la terra sotto i piedi e da abbrac- ciare il sole e la luna: dunque il cielo deve essere la cosa più forte, più potente del mondo. - Appena Duolo ebbe pronunziate queste parole, fu afferrato dal Nano e trascinato sott’acqua. Intanto Celeste aspettava il ritorno dei due fratelli; ma vedendo che il tempo pas- sava ed essi non tornavano, si spaventò e mosse in cerca di loro. Presso il ruscello egli si diede a cercare le orme dei loro piedi, e vide che queste cessavano sulla sponda, ove scoprì l’impronta di una mano, a guisa d’artiglio. - Queste non sono le impronte delle mani dei miei fratelli, - pensò Celeste, e prima di fare altre indagini, s'inginocchiò per guardare nel fondo del ruscello. Appena il Nano vide che Celeste non metteva le mani nell'acqua, temendo gli sfuggisse, si trasformò in una vecchia con- tadina, salì alla superficie e gli disse: - Buon giorno, Principe. Dovete aver camminato molto, perché avete l'aspetto stanco. Perché non fate un bagno in que- sto ruscello così chiaro? L'acqua è fresca e i frutti di queste piante di loto sono ec- cellenti per saziar l'appetito. - Celeste ringraziò cortesemente la vec- chia, e mentre le parlava non perdeva d'oc- chio le mani dalle unghie acuminate che ella cercava di nascondere sotto il grem- biule. Egli suppose che fosse lei che aveva tratto in perdizione i suoi fratelli, e saltò su gridando: - Strega maledetta! Perché non ti disseti con quest'acqua e non ti sfami con queste frutta invece d'impossessarti di crea- ture umane? Se non mi rendi i miei fra- telli saprò ben io vendicarli e punirti. - La vecchia tremò dalla rabbia e get- tando la veste che la impacciava, disse: - Siccome siete tanto accorto da in- dovinare quel che ho fatto dei vostri fratelli, salvateli. Ma per riaverli dovete ri- spondere a questa domanda: Qual'è la potenza maggiore del mondo? - Celeste volse gli occhi al cielo e ri- flette un momento; quindi, sorridendo, si volse alla vecchia e disse: - Ecco qual'è possanza, ecco qual'è valore: La purezza del cuore, che sfida ogni timore, La fedeltà, l'onore, che sfida anche la morte; Ecco qual'è possanza, ecco qual'è valore, Ecco quel che il mortale, venera come forte. - Quando il Nano del ruscello ebbe udito queste parole si diede per vinto, e inginoc- chiandosi dinanzi al Principe lo proclamò maestro di saggezza e gli offrì di render- gli i fratelli, purché gli concedesse di vi- vergli a fianco. Celeste non seppe ricusargli questo fa- vore a condizione che egli non molestasse più nè lui nè altri. Allora il Nano si tuffò nel ruscello e ne trasse fuori il principe Sole e il prin- cipe Duolo, i quali, sbalorditi come erano, non capivano nulla di ciò che era loro succeduto. I tre Principi vissero per un certo tempo nella foresta. Il Nano li serviva con amorosa cura, recava loro i frutti profumosi del loto e le uova delle gallinelle acquatiche. Un giorno ai tre fratelli giunse la no- tizia che la gelosa Regina era morta. Allora il principe Celeste capì che non era più necessario di rimaner nascosto nella foresta, e partì in fretta, insieme con i fra- telli, alla volta della capitale. Il Re, che viveva ancora, fu molto fe- lice di rivederli, ma era tanto vecchio e debole che non campò a lungo. Dopo la sua morte, Celeste fu fatto Re e governò saggiamente e onoratamente, amato dai fratelli e dal popolo. E il Nano? Il Nano aveva preso a voler bene ai tre Principi, e quando essi tornarono alla Corte, si stabilì nelle fontane del palazzo.

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