Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 2 occorrenze

Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

La regione

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Sturzo, Luigi 4 occorrenze
  • 1921
  • Opera omnia. Seconda serie (Saggi, discorsi, articoli), vol. iii. Il partito popolare italiano: Dall’idea al fatto (1919), Riforma statale e indirizzi politici (1920-1922), 2a ed. Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, pp. 194-231.
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«La commissione del gruppo popolare, considerando che nelle dichiarazioni soprascritte il presidente del consiglio abbia corrisposto anche nella essenza della proposta formulata nell'emendamento aggiuntivo presentato dal gruppo popolare, ringraziò vivamente il presidente del consiglio di queste dichiarazioni che dissipano ogni possibile malinteso».

Pagina 204

Anzitutto credo opportuno sgombrare il terreno da un pregiudizio affacciato dagli antiregionalisti, che cioè non esista un serio movimento in Italia a favore della costituzione della regione e che sia un artifizio di parte, sfruttando un movimento istintivo di reazione contro il centralismo burocratico; che la regione non abbia precedenti storici, non abbia vere circoscrizioni definite; che possa divenire un movimento disgregativo dello stato e perciò politicamente pericoloso.

Pagina 205

Così si può concepire una camera economica quale corpo consultivo permanente e sintetico di tutti gli interessi economici, come verrebbe ad essere il futuro consiglio superiore del lavoro o meglio consiglio superiore dell'economia nazionale,essendovi in esso le rappresentanze paritetiche o quasi di tutta l'economia produttiva del paese; e nessuno nega che tale corpo abbia anche mansioni tecniche e regolamentari, ovvero di prescrizione legislativa su deliberazioni parlamentari di massima. Si può anche concepire (in sostituzione e non in aggiunta) un senato elettivo a base amministrativa ed economica, che legiferi di pari grado con la camera dei deputati; non si possono concepire corpi amministrativi locali specializzati, senza spezzare l'unità reale della vita e senza che divengano o enti rachitici, organi impacciati, forze avulse dalla realtà, oppure forze guidate a scopi sovvertitori dell'ordinamento politico.

Pagina 216

Chiarisco le parole in corsivo: ente elettivo-rappresentativo,perché non sia formato tramite elezioni di secondo grado di enti locali, né per via di nomina statale, ma in base a elettorato diretto, a suffragio universale, comprese le donne, e a sistema proporzionale; ente autonomo-autarchico,perché esso in base alla sua legge costitutiva governi veramente, e da tale legge derivi il suo carattere; non sia quindi un ente statale, con poteri delegati che abbia per capo un governatore; ente amministrativo-legislativo,che abbia finanza propria, con facoltà di imporre tributi; che amministri tali fondi con legge di bilancio; che, nel complesso della sua attività specifica, statuisca leggi e approvi regolamenti tali da avere vigore nell'ámbito del proprio territorio. Non nego, con ciò, il possibile intervento statale; quale esso debba essere, vedremo più innanzi.

Pagina 217

Parlamento e politica

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Luigi Sturzo 2 occorrenze

Però, perché un’idea dal campo speculativo passi a quello pratico e divenga ragion politica, occorre questo immenso lavorio dei partiti; fra i quali il nostro assume una vera posizione di battaglia in quella larga collaborazione parlamen¬tare che è ancora necessaria perché un parlamento come il nostro viva ed abbia la sua maggioranza. È questo un dovere dei partiti oggi in lotta: creare una salda maggioranza parlamentare. I blocchi, dove sono stati possibili, assolvono il cómpito di dare all’elettore un senso di unità e di resistenza; non dànno però una base programmatica: altrimenti non sarebbero blocchi. La unione negativa di difesa non basta all’opera. Le differenze create dalle altre liste più o meno ministeriali valgono quanto i blocchi stessi. Non si può dire che esista realmente una opposizione costituzionale e ciò è un male, non solo per la chiarificazione delle posizioni, ma anche per la saldezza della stessa maggioranza, alla quale certo non potranno partecipare coloro che credono di appoggiare blocchi e fasci e unioni per una politica di pura conservazione economica e di tutela capitalistica, perché falserebbero, fin dall’inizio, il significato della lotta e comprometterebbero le sorti della camera futura. Occorre avere un programma positivo, base della maggioranza, non nella confusione dei partiti ma nella specificazione di criteri, di metodi e di finalità, quando si tratta di salvare il paese. Questo noi abbiamo fatto nella XXV legislatura, cooperando al funzionamento del parlamento, alla costituzione della maggioranza e alla combinazione dei governi, quando era ben difficile superare ostacoli di diverso genere anche nel contatto con gli altri partiti; e, se sarà necessario, per il bene del paese e per la vitalità del parlamento, questo faremo domani, sulla base del nostro programma. Senza presumere e senza volerci imporre, noi crediamo che nella difficoltà di manovra dei partiti liberali e democratici ancora una volta il nostro dovrà essere il centro, il cemento, il fulcro, la forza di polarizzazione. Adempirà così ancora ad un suo cómpito, quello di concorrere con le sue forze verso un nuovo orientamento della vita politica del paese, verso una chiarificazione delle tendenze politiche, attorno ad un problema fondamentale di libertà e di elevazione dei valori morali della coscienza collettiva, attorno ai problemi del lavoro non agitati dall’odio di classe né sostenuti da una ragione politica sovver-siva, ma basati sui criteri di giustizia sociale. E nel momento che vengono a noi i fratelli delle terre redente e portano insieme alla esperienza politica l’attività intensa nel campo dell’organizzazione cristiana operaia e il geloso affetto alle loro autonomie, noi riaffermiamo, con loro, il programma veramente italiano del nostro partito, che trae il suo fondamento nella nostra storia guelfa, nella nostra civiltà latina, nel nostro fondo della coscienza religiosa e cattolica, che ha saputo nei secoli unire la genialità individualista della nostra razza con la vitalità degli organamenti locali e la concezione razionale del diritto di cui Roma è madre. Ora che la unità territoriale è compiuta con tanti sacrifici e con tante vittime; ora che abbiamo scossa la soggezione intellettuale ad una civiltà teutonica, che incombeva come elemento culturale delle nostre scuole e come concezione laica panteista del nostro stato, oggi dobbiamo tornare a rivivere un pensiero latino, dobbiamo lavorare per una civiltà latina, ritrovare nell’aspro cammino l’anima italiana, che riaffermiamo come valore della nostra civiltà, ragione della nostra bandiera, ove sta se¬gnata la croce dei comuni medievali e la parola «libertas» come la sintesi delle nostre battaglie. Avrà eco la nostra parola dal paese alla camera? Troverà ancora le tenaci resistenze di vecchie coalizioni di nuove preoccupazioni? Noi siamo sereni realizzatori, calmi lottatori, sicuri del nostro cammino, e perciò non tormentati da improvvisazioni né turbati dalle lotte. Noi speriamo che la nuova camera possa affrontare i problemi lasciati insoluti dalla vecchia, problemi di realtà e di vita. Noi vi coopereremo con tutta la nostra attività; faremo appello all’anima del popolo che ci segue; diremo la nostra parola a coloro che debbono operare nel parlamento e nel governo; perché vogliamo così contribuire alla salvezza della patria nostra, non solo come difesa da un pericolo interno, ma come rinnovamento delle sue forze economiche e come risveglio delle sue virtù morali, sulle quali fondiamo la nostra vita politica. Ed il 15 maggio, giorno assegnato per l’appello al paese, e per il partito popolare italiano un giorno sacro: è il giorno della democrazia cristiana, il ricordo trentennale dell’enciclica del papa degli operai sulla questione operaia. Dopo sei lustri torna come in visione quell’uomo diafano e quella parola solenne che era di salvezza morale e sociale; e tale è oggi quando alle masse scristianizzate e materializzate si è voluta imporre dalla Russia bolscevica la parola di Lenin, come parola di distruzione. Noi ai nostri fratelli, operai e lavoratori cristiani, ripetiamo quella che è parola di vita, nella fiducia che il lavoratore, rifatto cristiano, non sarà il nemico della patria nostra, ma colui che nelle invocate libertà tornerà col lavoro a riedificare le fortune della nostra Italia.

Durante la guerra, il nostro fu l’unico parlamento che funzionò poco o nulla, e non si può dire che in quel poco abbia funzionato in rispondenza al pensiero prevalente della nazione; anzi si cercò di tenerlo chiuso, temendo che la libera tribuna parlamentare dovesse turbare lo svolgersi della stessa guerra. Dopo l’armistizio, il resto della vita della XXIV legislatura fu fittizio; e in continua attesa della fine, non poté affrontare nessun problema di ricostruzione, né arrestare di un punto la fabbrica dei decreti-legge, la costruzione continua degli enti, dei consorzi, degli istituti di nuovo conio, fatti sotto la pres-sione degli avvenimenti, nella speranza di poter regolare un’eco¬nomia in sfacelo con il baraccamento della così detta «economia associata»; nulla che valesse a segnare una linea politica nell’ondeggiamento continuo fra la retorica e il disfattismo all’interno e all’estero. Uno dei difetti fondamentali del nostro parlamento, nell’ultimo trentennio, è stata la mancanza di partiti nel vero senso della parola. Tra gli ultimi esponenti del pensiero {{166}}borghese tradizionale liberale fu Crispi, figura oggi ingigantita dagli avvenimenti e dalla media statura dei suoi successori e dei suoi oppositori. La borghesia liberale piegò a sinistra fino al punto di non esservi più una destra o un centro nel nostro parlamento che possa dirsi un partito vivente e operante. Il partito radicale, che fu l’ala estrema di un tempo, ha invano, attraverso uomini e attraverso formule, tentato di avere un contenuto specifico differenziato dagli altri partiti: fu con i socialisti, quando il governo tentò una forma superficiale ed inefficace di reazione con Pelloux e Sonnino; fu al governo con gli altri, quando Giolitti, massimo esponente dell’adattamento parlamentare, trasportò i partiti dal terreno delle differenziazioni nominali sul terreno delle concentrazioni personali e parlamentari. Così venne meno la destra, fu scompaginata l’estrema sinistra; si confusero e si frammischiarono le democrazie costituzionali; rimasero sul terreno parlamentare (come gruppo organizzato) i socialisti, con le loro vecchie e nuove differenziazioni di riformisti, integralisti, sindacalisti, unitari e ufficiali, fermi all’opposizione, più che parlamentare, anticostituzionale. La guerra divise il parlamento e più che il parlamento il paese, in neutralisti ed interventisti; e questi in interventisti della prima e della seconda ora. Salandra capeggiò contro Giolitti, tentò la concentrazione liberale; l’episodio della sua caduta è più un fatto di politica interna che politica di guerra. L’unione sacra di Borselli e poi, dopo Caporetto, di Orlando, fu un atto opportuno; ma diede la nazione in ostaggio ai socialisti, che preparavano il loro avvento sfruttando la guerra, anche quando questa era stata conchiusa con la nostra vittoria militare. In quel momento i vecchi partiti democratici che tenevano il potere dovevano dire una parola vitale: s’incantarono nelle maglie della crisi, diplomatica prima, economica dopo, mancando loro l’anima di un partito vivo e operante, anche per il fatto che essi, errore che si ripete, confondono il loro partito con la nazione. Mentre il parlamento taceva, la diplomazia falliva a Parigi, l’economia falliva a Roma; l’unica parola era quella che veniva dalle masse agitate, turbolente e stanche, come un monito e come una forza. {{167}}Onde divenne più sensibile, dopo la guerra, il bisogno di organizzare i partiti anche parlamentarmente; e la proporzionale ebbe il significato della realtà e fu ragione di una grande riforma: essa tendeva a dare ai partiti operanti la loro adeguata espressione parlamentare e la loro legittima rappresentanza; e come tutte le leggi che sanzionano un fatto maturo nella coscienza nazionale e insieme determinano le forze ope¬ranti verso un termine di sviluppo e di valorizzazione, così la stessa legge avrebbe dovuto agevolare lo sviluppo dei partiti inorganici ed individualisti verso una qualsiasi forma anche elementare di organizzazione. È naturale il forte contrasto su questo terreno fra coloro che credono possibile e tentano attraverso lo schema dei partiti l’inquadramento delle forze popolari; e coloro che anche oggi tentano le coalizioni momentanee e le individualizzano attraverso gli esponenti della borghesia, non tanto dal punto di vista di un vero orientamento politico, quanto come una risultante d’interessi personalistici e locali. Poche volte è accaduto il fatto di un pubblico istituto, diffamato prima di essere creato; subìto al momento che la pubblica opinione lo imponeva; avversato proprio quando rendeva i primi frutti di chiarificazione politica nella vita nazionale. Le diverse lotte elettorali fatte sulla base del nuovo sistema, con tutti i difetti del resto emendabili che contiene, sono come le prove eliminatorie e di assestamento; la revisione dei programmi e delle organizzazioni, anche dei partiti liberali e democratici, è un effetto di chiarificazione assolutamente necessario; e persino la formazione di liste di coalizione, dette blocchi, arriva a far quasi superare il particolarismo paesano, che imperversava col collegio uninominale e che aveva stabilizzato quasi dappertutto, e specialmente nel mezzogiorno, le consor¬terie amministrative e le lotte delle piccole egemonie provinciali. E se la facilità di passaggio da una all’altra lista, di candidati impenitenti, per lo più sacri alla bocciatura, avviene ancora nella presente lotta, bisogna pensare che la proporzionale ha colto queste persone di là dal trentesimo anno, quando è difficile purtroppo una rieducazione politica. Il tentativo di organizzare i partiti ha avuto un effetto, sia pure schematico e formale, nel parlamento stesso con la riforma del regolamento, la costituzione degli uffici per partiti e gruppi; è stata data così una responsabilità permanente e continuativa ai dirigenti e ai rappresentanti politici, e una tal quale rispondenza verso il corpo elettorale, attraverso denominazioni che non possono restare vuote di senso. E se si arriverà nella prossima legislatura a dar vita ai consigli dell’istruzione, del lavoro, dell’agricoltura, delle industrie e dei comuni, come vere rappresentanze dirette e organiche di interessi collettivi, con funzioni delegate per i provvedimenti legislativi speciali e tecnici, sì da sgombrare l’enorme massa di lavoro meccanico delle commissioni e degli uffici delle due camere, la sensibilità politica del parlamento così organizzato si eleverà di molto e avrà vigoria e agilità. Molti hanno attribuito alla proporzionale la poca funzionalità della XXV legislatura, così repentinamente tolta... all’affetto dei deputati. È un errore grossolano, perché manca di fondatezza. Anche se fosse stata eletta sulla base del collegio uninominale, l’effetto sarebbe stato lo stesso; in tal caso, sarebbero andati a Montecitorio più di altri venti socialisti, sarebbero diminuiti i popolari e i combattenti, ma la risultante politica e morale sarebbe rimasta la stessa. I costituzionali di ogni partito avrebbero subito il ricatto e la prepotenza del socialismo in auge, senza doveri di responsabilità perché minoranza, ma te¬muto e favorito dalla stessa borghesia contro la quale combatte. La questione sostanziale, attorno alla quale si aggirano le fasi dell’istituto parlamentare (al di sopra dei metodi organizzativi dei quali si deve tener conto per la rispondenza della formula alla realtà), deve impostarsi sulla necessità della rispondenza vera, sostanziale, dell’istituto all’anima del popolo; nel suo contenuto programmatico, nelle sue salde forze, nella coscienza del divenire della nazione. Sono quindi due le questioni che occorre esaminare, alla vigilia delle elezioni politiche: a) se vi sia un vero contenuto programmatico sintetico che interessi profondamente la nazione come cardine politico; b) se la camera dei deputati, come sarà e come funzionerà, sarà capace di rappresentarlo e di realizzarlo. Un programma politico non si inventa, si vive; e per viverlo, si deve seguire nelle sue fasi evolutive, precorrerne le attuazioni, determinarne le soluzioni nel complesso ritmo sociale, attraverso i contrasti e le lotte, nell’audacia delle affermazioni, nella fermezza delle negazioni. E come gli eventi stessi, nella loro significazione reale, mettono in luce i lati positivi o manchevoli di quel che si è pensato e si è voluto, così sorge e si fa prepotente la necessità delle attenuazioni o delle smorzature, man mano che, nel complesso della vita civile, l’azione direttiva diviene decisiva e sostanziale. Di tanto in tanto una fase si sovrappone all’altra e diviene la fase storica, la fase sintetica, la espressione del pensiero dominante; ma non può essere avulsa dalla linea logica (di quella logica ferrea dei fatti che spesso è al di fuori dello stesso pensiero comune), che dà al fatto la sua naturale posizione e la sua reale giustificazione. La XXV legislatura si è chiusa quando si sentiva superato il pericolo, che per due anni ha intossicato il nostro paese, di un movimento rivoluzionario importato in Italia dall’estero, e imposto dall’estremismo socialista, come una fatale necessità, nello stato di non resistenza economica e politica della nazione. Gli ultimi fatti terroristici, la scoperta di complotti anarchici, l’eccitamento a violenze di ogni genere (i lugubri fatti di Toscana segnano il più triste episodio della barbarie) han dimostrato che il pericolo realmente esisteva; però l’infatuazione delle masse — anche le più calme e le meno avvelenate — verso una dittatura economica e politica del proletariato, dipende in gran parte da una crisi morale ed economica, che non è facile superare, e che le recenti fasi di lotta di fazioni acuiscono nell’odio e nella paura, da parte di quel proletariato, che le idee e la disciplina socialista concepisce, per diuturno lavoro di pro¬paganda, come una liberazione dal regime borghese oppressore, al quale semplicisticamente attribuisce tutti i mali che ci affliggono. L’azione antibolscevica in Italia, durante il periodo della XXV legislatura, ha tre movimenti ben determinati. Il movimento del partito popolare italiano, quello dell’azione governativa, e quello della reazione fascista: ognuno di questi movimenti e stato autonomo e qualche volta contrastante: è bene esaminarli sommariamente. Comincio dal movimento del partito popolare italiano, che fu il primo in ordine di tempo e razionalmente organico nel suo lavoro. Metodo fondamentale fu quello di creare un partito organizzato, che tentasse di levare ai socialisti il monopolio della rappresentanza diretta delle classi lavoratrici, che organizzasse queste in sindacati e in cooperative, sulla stessa, base di quadri nazionali, federali e confederali, e con le stesse rappre¬sentanze e organismi provinciali; che prendesse in mano le giuste cause dei lavoratori e ne fosse tutelatore e promotore, nelle difficili ore della trasformazione della nostra vita sociale, e nel campo legislativo e in quello pratico. Non fu necessario improvvisare né per i nuclei fondamentali — specialmente nel campo cooperativo coltivato da lungo tempo e con amore dall’azione cattolica — né per un programma cristiano-sociale, che fu, nelle sue linee morali, riassunto e prospettato autorevolmente da Leone XIII nella enciclica «Rerum Novarum», e propagandato con giovanile audacia dalla democrazia cristiana. Da quel programma, traiamo i due saldi fondamenti, dai quali mai può prescindere un qualsiasi movimento sociale, se non vuol cadere nel retorico, nel vano e nel falso: un fondamento morale, che ci pone in contrasto con i socialisti che lo negano per un materialismo fatalistico; e un fondamento economico, che contrasta con quello socialista, in quanto non sopprime, ma rafforza i diritti personali dell’uomo al lavoro, al risparmio, alla proprietà; che solo limita e corregge, in una legge morale e sociale di solidarietà, di armonia e di elevazione di classe. La nostra fatica era trasportare queste idee e queste organizzazioni dal puro ambito della iniziativa privata, assistita e protetta solo dall’azione religiosa, lanciarle nell’agone della vita pubblica, e darvi anima politica. Fatica improba per molte ragioni: anzitutto perché non solo non assistita, ma contrariata dalla pubblica opinione; che non vedeva e non vede ancora bene lo sforzo di liberazione delle masse dall’organismo socia¬lista, sforzo minuto, paziente, assiduo, fatto di mille sacrifici, misconosciuto anche da amici, turbato da apprezzamenti ecces¬sivi. In secondo luogo, tale sforzo è stato ostacolato, passo per passo, da tutta una rete d’interessi palesi e occulti, che ancora trovano protezione e vantaggi presso enti pubblici, banche, ministeri e burocrazie, nel servaggio trentennale ad un vero monopolio socialista, che solo oggi, per la forza della nostra organizzazione, comincia ad essere spezzato. Chi non ricorda l’episodio degli scioperi politici dei postelegrafonici e dei ferrovieri nel gennaio e febbraio del 1920? Per la resistenza dei bianchi gli scioperi fallirono; però mentre si raggiungeva lo scopo, e quando l’indomani in tutti gli uffici postelegrafonici si sarebbe ripreso servizio, meno che a Bologna; e quando il servizio ferroviario già andava avanti con circa duemila treni, il governo cede a discrezione, e, senza la menima solidarietà a nostro vantaggio della pubblica opinione, dà in olocausto ai rossi le nostre organizzazioni stesse; alle quali poscia fu negato anche quello che durante lo sciopero era stato promesso con impegni legali e con decreti-legge. La partita politica fu per noi in quel caso perduta; ma più che per noi, per lo stato. Ciò nonostante, il partito popolare italiano è riuscito a spezzare la coalizione nel campo della cooperazione e ad iniziare la sua partecipazione nel campo del lavoro e del collocamento; ad esistere come unità operante nella vita collettiva vicino al colosso socialista in tutta la politica del lavoro; a prendere posizione chiara, netta, precisa, nelle questioni agrarie, e promuovere leggi, decreti e provvedimenti; a discutere in commissioni e al parlamento, sicuro di rappresentare legittimi interessi di organizzazioni e di classi; a parlare a nome di esse, a contestare perfino al governo (come nel caso della occupazione delle fab¬briche e del controllo) l’obbligo di tener conto dei nostri isti¬tuti confederali, a costringere la pubblica opinione a fare atto di omaggio ai nostri amici parlamentari, che in questo campo specialmente hanno portato competenza ed iniziativa. La nostra parola, la nostra azione ora hanno diritto di cittadinanza; ma purtroppo ci son voluti due anni per arrivare al voto della pe¬nultima seduta della camera, che ci riconosceva la eguaglianza di diritto nel campo della cooperazione. Il metodo organizzativo della massa lavoratrice e la rappresentanza dei suoi interessi sindacali e cooperativi, mentre davano i risultati morali, e perciò duraturi, di una immunizzazione socialista, e di una percezione realistica dell’economia, sulla base dell’equità e della giustizia (e tralascio a questo punto tutte le accuse di episodi, o mal valutati per via di contrasti di interessi, ovvero dovuti a intemperanze o ad iniziative personali), ci impo¬nevano obblighi chiari, perché l’opera nostra non fosse confusa — sul terreno politico, nell’ámbito parlamentare e nella vitalità amministrativa — con tutta una rappresentanza di altri inte¬ressi legittimi, ma pur discordanti e anche contrastanti almeno fino a che le fasi delle attuali vertenze economiche non arri¬vino a completa soluzione. Oggi come ieri, la nostra forza organizzatrice, politica e morale sta nell’autonomia dei nostri movimenti, nella intransigenza della nostra tattica, nella libertà dei nostri atteggiamenti, nella fiducia che ciò risponda agli interessi ideali generali, ai quali sono coordinati e subordinati gli stessi interessi della nostra organizzazione. Così abbiamo serbata intatta — nonostante piccole defezioni locali — la compagine di partito, che ha nella sua caratteristica ed ha avuto nella sua azione, il compito di una vera difesa dell’ordine sociale e morale del nostro paese.

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