Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbia

Numero di risultati: 106 in 3 pagine

  • Pagina 1 di 3

Giovanna la nonna del corsaro nero

204959
Metz, Vittorio 1 occorrenze
  • 1962
  • Rizzoli
  • Milano
  • paraletteratura-ragazzi
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"Quello che voi chiamate ridicolo versaccio" ribatté l'Olandese Volante, in tono risentito "è la mia risata infernale che fa ghiacciare il sangue a chi abbia la sventura di ascoltarla dopo la mezzanotte!" "Be', la vostra risata infernale che fa ghiacciare il sangue a chi abbia la sventura di ascoltarla dopo la mezzanotte, voi, d'ora in avanti, se volete farla, la farete di giorno!" "Ma di giorno non serve a nulla!" scattò il fantasma, furioso. "Perché, di notte a che serve? A svegliare la gente per bene che sta dormendo, ecco a che cosa serve! Non sapete che dopo le dieci di sera sono proibiti gli schiamazzi notturni?" "Ma" obiettò l'Olandese Volante, domato "e se mi viene da ridere di notte?" "Ridete educatamente, sotto voce, così: 'Eh, eh, eh!'... Ecco, vedete com'è più carino?" "Sissignora" disse il fantasma. E provò a sghignazzare sottovoce come gli aveva insegnato la vecchia. "Eh, eh, eh, eh!" Il fantasma sollevò gli occhi e guardò timidamente Giovanna. "Così?" domandò. "Ecco bravo, così..." approvò Giovanna. Il macabro spettro voltò le spalle a Giovanna e si avviò verso la porta ridendo educatamente. "Eh, eh, eh, eh..." Si rese improvvisamente conto dell'assurdità della situazione e si ribellò: "Ma non ho più nessuna voglia di ridere!" protestò. "E allora non ridete, è molto meglio" disse Giovanna. "Pensate che siete morto da duecento anni... Mi pare che non ci sia proprio niente da ridere..." "È vero" dovette ammettere l'Olandese Volante colpito dalla giustezza dell'osservazione. "Scusate..." L'Olandese Volante uscì mortificatissimo. Giovanna pose la spada su un mobile e si buttò sul letto sbuffando. "Che razza di spirito, questo spirito!" L'Olandese Volante in preda ad un fortissimo choc si avviò verso il timone tentennando il capo e parlando da solo come i matti: "Incredibile! Non mi è mai accaduta una cosa simile! Maledizione!" E picchiò con stizza un gran colpo in terra. Il maggiordomo Battista e il nostromo Nicolino che stavano guardando con gli occhi sbarrati il timone della nave che si muoveva da solo, al colpo provocato dall'Olandese Volante si voltarono e lo videro. "Mamma mia bella!" esclamò Nicolino. "E quello chi è?" "Deve essere lui" disse il maggiordomo Battista. "L'Olandese Volante..." Nicolino terrorizzato si gettò in ginocchio. "Pietà, signor Olandese Volante" supplicò. "Non mi fate del male! Siamo quasi paesani!" "Paesani?" domandò l'Olandese Volante interdetto. "Sì," spiegò Nicolino "voi siete dei Paesi Bassi e io sono della Bassa Italia." Lo spettro scosse il capo avvilito. "State tranquillo, sono troppo demoralizzato in questo momento per pensare di far del male a qualcuno... Quella terribile vecchia mi ha smontato completamente... Avrei voglia di dare le mie dimissioni di fantasma..." "E perché non lo fate, signore?" domandò il maggiordomo Battista. "Perché non posso!" rispose l'Olandese Volante. "Una terribile maledizione pesa su di me! E sono condannato a vagare sui flutti con il mio vascello, spaventando la gente, finché qualcuno non riesca a spaventare me!" "E se qualcuno riuscisse a spaventarvi?" "Magari!" esclamò lo spettro. "Allora, sciolto da questo incantesimo che qui mi tiene, potrei lasciar per sempre questa nave e potrei andarmene lungi da qui... Libero!" esclamò con forza, eccitandosi al suono di quella parola. "Sarei libero di dissolvermi come immagine che puoi incontrare nel sogno... Libero!" seguitò alzando ancora la voce. "Liberissimo di sparire fra le nuvole... E i ricordi, i ricordi lasciare in fondo al mare. Libero" gridò levando le braccia al cielo. "Potrei essere, ma è impossibile, nessuno può rendermi libero! Libero! Libero! Libero!" La porta della cabina di Giovanna si aprì di colpo e ne uscì la vecchia furiosa. "Ma chi si crede di essere? Modugno?" gridò Antenato di un celebre cantante di musica leggera, vissuto nel 1667, che vinse il Festival della Canzone di Maracaibo (storico).. "Oh, Dio mio, la vecchia!" esclamò il fantasma terrorizzato. E scomparve di colpo. Giovanna si rivolse al maggiordomo e a Nicolino. "Deve essere ubriaco" disse. "Portatelo a letto." Nicolino balbettando indicò verso il punto dove avrebbe dovuto trovarsi l'Olandese Volante. "Ma... ma... ma... Non c'è più!" "Come?" disse Giovanna. Guardò anche lei, girò lo sguardo intorno, ma del fantasma nessuna traccia. "È sparito!" esclamò. "E senza prender commiato, signora" stigmatizzò Battista. "E come mai?" "Si è spaventato della signora..." opinò il maggiordomo Battista. "Ma non dite sciocchezze! Un fantasma non si spaventa!" "Lo dite voi!" risuonò una voce sepolcrale al disopra delle loro teste. "Voi fareste paura anche al diavolo! Comunque vi ringrazio di avermi liberato... Ma fate attenzione... La nave deve scomparire con me!" "La nave sta affondando!" gridò Nicolino. "Per le trippe del diavolo!" gridò Giovanna. "È vero!" E corse verso la cabina della nipote gridando: "Jolanda, Jolanda!" Mentre Jolanda usciva dalla sua cabina, Giovanna si rivolse a Nicolino e a Battista. "Presto, alle scialuppe di salvataggio!" "Inutile, signora contessa... Sono scialuppe fantasma!" disse il maggiordomo Battista. "Affonderanno anche loro!" "Possibile," esclamò Giovanna "che debba morire prima del mio mortale nemico e prima di aver effettuato la mia vendetta?" "Chissà... Siamo tutti buoni nuotatori, nonna..." disse Jolanda. "Forse qualche nave potrà raccoglierci... Infatti, guardate laggiù!" esclamò mostrando un punto all'orizzonte che cominciava a schiarire per le prime luci dell'alba. "Una nave!" "Su, seguitemi!" comandò Giovanna andando verso la murata. "Gettiamoci giù prima che il Vascello Fantasma, affondando, ci trascini nel suo gorgo." E balzò in piedi sulla murata della nave unendo Una lunga traiettoria nell'aria... le mani al di sopra della testa in posizione di tuffatrice. Una lunga traiettoria nell'aria e il corpo di Giovanna penetrò profondamente nell'acqua dall'altezza di sei o sette metri, riassommando quasi subito. La vecchia sferrò un calcio al muso di un pescecane che si ritirò guaendo, e si mise a nuotare a larghe bracciate, mentre i suol compagni si tuffavano a loro volta e il Vascello Fantasma si inabissava per sempre in un vortice che, illuminato dalla luna rossa che risplendeva nel cielo, aveva qualche cosa d'infernale.

Pagina 181

Una famiglia di topi

205122
Contessa Lara 4 occorrenze
  • 1903
  • R. Bemporad &Figlio
  • Firenze
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nella sventura si trova di rado chi abbia tanto buon cuore da starci vicino e farci coraggio), c' era la famiglia Delpiano, composta solamente d' una giovane vedova, buona come un angelo, e del suo figlioletto Vittorio, quasi coetaneo di Nello e il suo miglior amico. Si può dire che que' due ragazzi fossero a dirittura cresciuti insieme. E se fin qui non s' è ancor nominato Vittorio Delpiano, gli è che il fanciullo era stato quasi un anno presso il nonno paterno, ricco signore un po' bislacco, che lo adorava a segno da minacciar di continuo la signora Delpiano di diseredare il nipote, s' ella non glielo lasciava vicino il maggior tempo possibile. La vedova, che il nonno non vedeva di buon occhio perchè, a parer suo, aveva portata sventura al figliuolo ch' era morto dopo appena due anni di matrimonio, doveva, pensando all' avvenire di Vittorio, rassegnarsi a star tutto quel tempo priva del suo bambino; e lei si consolava passando molte ore in casa Sernici, dove i ragazzi, per il gran bene che le volevano, erano giunti perfino a chiamarla zia; e carezzava, carezzava Nello, come s' egli fosse la creatura di lei. Quando finalmente Vittorio tornava, si faceva festa, una vera festa del cuore; tutti, ridevano, s' abbracciavano, godevano come poche volte si gode nella vita. Quell' anno, quando il piccolo Delpiano lasciò il nonno, sapeva di già, dalle lettere di Nello, della famiglia de' topi; e Dio sa quanto ne aveva fantasticato presso quel vecchio originale, che si professava nemico giurato di qualunque bestiola, e si vantava che in casa sua, di bestie, entravano soltanto le mosche, perchè venivano dalle finestre, senza invito. Quando poi Vittorio vide i sorci indiani, rimase a bocca aperta dall' ammirazione. - Ma è proprio vero, che conoscono il loro nome? - domandava egli a Nello con un sorriso incredulo e curioso. - Guarda! - rispondeva l' altro, cominciando a chiamar i topini, che accorrevano ubbidienti, a uno a uno, come tanti cagnoli. - Pare impossibile! - esclamava Vittorio, rapito.

Forse pensava: - Non capisco come la Rita abbia così poca voglia d'imparare il piano, quando gli è tanto facile, ch'io lo suono senza avere imparato mai.... - Nello portò trionfalmente Moschino al padre. - Ecco chi sonava, babbo! - diss' egli ridendo come un matto. - Ma, signor Moschino, lei una ne fa e due ne pensa! - esclamò il conte prendendo in mano il topo, e tenendolo in piedi sur una tavola in atto di fargli una ramanzina co' fiocchi. E soggiunse, volgendosi a Rita, che era felice di veder il suo grave babbo occuparsi dei sorcetti con tanta bontà: - Come gli dici tu, Rita, quando lo fai star in piedi? - - La bambina ripetè, ridendo:

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- E disse alla contessa, che assentiva a quelle parole: - Questo topo, mia cara, è il più fìno diplomatico ch' io abbia conosciuto. -

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. - No, non abbia paura - dichiarò il conte che non sapeva come fare, non ostante i suoi guai, per tenersi dal ridere. Frattanto Dodò, seduto pacificamente nella libreria, si ripuliva i baffi e la testa; e ascoltando quei lamenti che non finivano mai, diceva fra sè - Strilla, strilla pure quanto ti piace; per questa volta hai avuto quel che ti meritavi, pezzo di birba che non sei altro! E con che furia veniva a portarsi via i libri de' padroni!... Tu credevi che Dodò non se n' avvedesse e ti lasciasse fare, eh, canaglia?... Capisco che adesso mi toccherà una tirata d' orecchi, perchè il padrone non vuole ch' io morda nessuno; ma me la piglio di cuore; com' è vero che sono un topo, me la piglio di cuore!... - Infatti, il conte, dopo aver chiamata la moglie e averle narrato l' accaduto, mise la mano nella scansìa per impadronirsi del topo e punirlo. Ma la contessa fu più lesta; Dodò corse da lei, che lo prese ridendo e se lo mise nel petto, scappando subito via per risparmiargli la tirata d' orecchi. Il conte, che non doveva avere una gran voglia di dar quel gastigo, si contentò di gridare: - Ah Dodò, se lo fai un' altra volta!... - Magari - pensava Dodò, ora che si sentiva al sicuro; e quando la contessa se lo trasse dal petto, egli le diè tanti baci, tanti baci, per dirle che proprio era contento d' aver morso quel soggettaccio, che tormentava gli uomini e trattava male le povere bestie.

Pagina 98

Cipí

206559
Lodi, Mario 1 occorrenze
  • 1995
  • Edizioni E. Elle
  • Trieste
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Ma Cipí era poco persuaso e brontolò: — Io ci credo poco che lui abbia un grosso becco uncinato soltanto per parlare... mi sbaglierò, ma qui sotto c'è un mistero... e se c'è lo voglio scoprire!...

Pagina 81

I ragazzi della via Pal

208192
Molnar, Ferencz 1 occorrenze
  • 1929
  • Edizioni Sapientia
  • Roma
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Anche se qualcuno di loro è stato qui, la sera del cartello, non credo he abbia potuto riconoscermi. — Perciò domani potrai andare fra loro tranquillamente? — Tranquillamente. — E non sospetteranno di nulla? — Di nulla. E se anche sospettassero qualcosa, nessuno oserebbe parlarmene perchè tutti hanno paura. Tra loro non c'è nessuno che abbia del coraggio. Una voce acuta lo interruppe: — Ce ne sono parecchi! Tutti si guardarono attorno. Franco Ats chiese stupito: — Ma chi ha parlato? Nessuno rispose; ma la voce acuta — Sì, ce ne sono parecchi! Ora capivano distintamente che la voce proveniva dalla cima di un grande albero. E poco dopo i rami scricchiolarono, qualcosa frusciava tra le foglie e un biondino scivolò giù lungo il tronco. Dopo essere saltato dall'ultimo ramo in terra, si pulì il vestito, si raddrizzò e si mise a guardare ostilmente l'adunata delle Camicie Rosse. Nessuno parlava, sbalorditi com'erano tutti da questo inatteso visitatore piovuto dall'alto. Ghereb impallidì: — Nemeciech! — disse terrificato. E il biondino rispose: — Sì, Nemeciech. Sono io. Ed è inutile cercare chi abbia preso lo stendardo nell'arsenale, perchè sono stato io. Eccolo qui. E sono io che ho il piede più piccolo di quello di Vendauer. E avrei potuto non parlare e rimanere in cima all'albero finchè tutti fossero andati via, poichè ci stavo già dalle tre e mezza. Ma quando Ghereb ha detto che tra di noi non c'è nessuno che abbia del coraggio, allora ho pensato: aspetta che to lo mostrerò io se tra quelli della via Pal ce n'è che abbiano del coraggio, se non altri Nemeciech, soldato semplice! Eccomi qui, ho sentito tutto, ho preso lo stendardo; eccomi: fate di me quello che volete, picchiatemi, strappatemi lo stendardo perchè da solo non lo consegnerò mai! Su, coraggio! Io sono solo e voi siete dieci! Arrossì, così dicendo, e stese le braccia. In una mano stringeva la piccola bandiera. Le Camicie Rosse non potevano ancora riaversi dallo stupore e fissavano immobili il piccolo biondino caduto dal cielo che aveva il coraggio di gridare in faccia a tutti, a quel modo, come se fosse forte abbastanza da battere tutti, Franco Ats compreso. I primi a riprendersi furono i fratelli Pastor. Si accostarono al piccolo Nemeciech e lo presero per i polsi, uno a destra, l'altro a sinistra. Il minore dei due aveva preso la mano di Nemeciech che teneva lo stendardo ed era pronto a torcergliela quando si udì Franco Ats dire: — Fermi! Non fategli male! I due pastor guardarono stupiti il loro comandante. — Non fategli male! Questo ragazzo mi piace! Sei coraggioso, Nameciech o come ti chiami! Eccoti la mia mano. Fatti Camicia Rossa! Nemeciech scosse la testa negando. — Io no! — disse fieramente. La sua vocina tremava, ma non di paura, di furore. Era pallido, lo sguardo cupo e ripetè: — Io no! Franco Ats sorrise. Disse: — Se non vieni con noi, per me fa lo stesso. Io non ho mai detto a nessuno di venire con noi. Tutti quelli che son presenti han sempre chiesto loro di venire ammessi. Tu sei il primo che abbia invitato io. Ma se non vuoi venire, resta... E gli voltò le spalle. — Che ne facciamo? — chiesero i due Pastor. II comandante fece un cenno del capo. Il maggiore dei Pastor strappò con una 9 storta la bandiera rossa e verde dalla mano del piccino. La storta faceva male; i Pastor avevano i pugni terribilmente duri, ma il biondino strinse i denti e non lasciò sfuggire neanche un lamento. — Fatto! — annunciò Pastor. Tutti erano ansiosi di sapere quel che sarebbe capitato ora, quale tremenda punizione avrebbe inventata il feroce Ats! Nemeciech se ne stava fiero ed immobile, le labbra serrate. Franco Ats si rivolse a lui, fece un cenno ai due Pastor: — E'troppo debole — disse —. Non conviene picchiarlo. Fategli fare un piccolo bagno... Le Camicie Rosse scoppiarono in una grande risata. Rideva anche Franco Ats, anche i due Pastor. Sèbeni gettò in aria il berretto e Vendauer si mise a saltellare come un matto e in tanta allegria un solo viso rimase serio, quello di Nemeciech. Era raffreddato e tossiva già da vari giorni. La mamma gli aveva proibito di uscire, ma il biondino non aveva obbedito. Alle tre era scappato e dalle tre e mezzo fino a sera era rimasto accoccolato in mezzo ai rami in cima ad un albero sull'isola. Doveva forse dire di essere raffreddato? L'avrebbero deriso anche di più e forse anche Ghereb l'avrebbe schernito come già stava facendo: gli si vedevano tutti i denti mentre spalancava la bocca per sghignazzare! Tra le risa generali fu condotto alla riva dell'isola e i due Pastor lo immersero nel lago, dov'era poco profondo. Erano tremendi quei due Pastor! Uno lo teneva per le mani, l'altro per la testa! Lo spinsero nell'acqua fino al collo, e in quel momento tutti esultavano sull'isoletta. Le Camicie Rosse ballavano sulla riva una danza d'allegria, e gettavano in aria i berretti gridando a squarciagola: — Uja op! Uja op! Era il loro grido. E i molti gridi di «Uja op!» si mescolarono alle grandi risate, tutto uno schiamazzo che turbò il silenzio serale dell'isola e della riva. Con occhi tristi Nemeciech guardò dall'acqua Ghereb che sulla riva se ne stava con le gambe allargate, ghignando e tentennando il capo verso il biondino. Poi i due Pastor lasciarono andare Nemeciech e questi uscì dall'acqua, ed ora l'allegrezza generale divenne frenetica alla vista del vestito gocciolante e infangato. Dalla giacchettina l'acqua colava e quando scosse il braccio zampillò fuori un getto come da una grondaia. Tutti si scostarono quando egli si scrollò come un cagnolino bagnato; e parole beffarde volarono verso di lui. — Ranocchia! — Hai bevuto? — Perchè non ti sei messo a nuotare? Non rispose. Sorrideva amaramente accarezzandosi la giacca inzuppata. Ma quando Ghereb gli si parò davanti e facendogli le boccacce gli chiese se il bagno gli fosse piaciuto, Nemeciech sollevò verso di lui i grandi occhi celesti e rispose: — Sì. Mi è piaciuto di più, molto di più che non starmene sulla riva a sbeffeggiare! Preferirei starmene nell'acqua fino al nuovo anno piuttosto che mettermi d'accordo con i nemici dei miei amici. Non m'importa niente che m'abbiate fatto fare un bagno. Già una volta ero caduto in quest'acqua, per caso allora, ma anche allora t'avevo visto qui, fra i nemici. Ma in quanto a me, potete invitarmi, darmi regali quanti volete, non mi farebbe niente lo stesso. E anche se mi metteste in acqua un'altra volta, e poi ancora cento e mille volte, ebbene io verrei qui sempre, ancora domani e dopodomani. E mi nasconderò dove non mi potrete vedere, perchè io non ho paura di nessuno di voi! E se volete venire in via Pal per usurpare il nostro campo, ci saremo noi! E vedrete che quando siamo in dieci anche noi, sarete trattati come si deve! Bella bravura vincermi! Chi è più forte, vince! I Pastor mi hanno rubato le biglie nel Giardino del Museo perchè erano i più forti. E ora mi avete buttato in acqua perchè siete i più forti! E' facile in dieci battere uno! Ma a me non importa! Potete anche picchiarmi, se volete! Bastava che io volessi ed avrei evitato d'andare in acqua e tutto! Ma io non ho voluto passare dalla vostra parte. Affogatemi pure o picchiatemi a morte, io non sarò mai un traditore come quello lì. Tese il braccio e indicò Ghereb al quale il riso s'illividiva in faccia. La luce della lampadina cadde sulla bella testolina bionda di Nemeciech e sul vestito luccicante d'umidità. Egli fissava coraggioso e fiero e col cuore gonfio gli occhi di Ghereb e Ghereb sentì l'anima diventargli pesante sotto quello sguardo. Si fece grave ed abbassò il viso. Tutti tacevano ed il silenzio era tale che pareva d'essere in chiesa e si sentivano cadere in terra, le goccie d'acqua dal vestito di Nemeciech. Nemeciech gridò, nel grande silenzio: — Posso andarmene? Nessuno rispose. Chiese di nuovo: — Non mi picchiate a morte, allora? Posso andarmene? E poichè nessuno gli rispose neanche adesso, egli si avviò lentamente verso il ponte. Nessuna mano si alzò: nessun ragazzo fiatava. Tutti sentivano che quel piccino biondo era un vero eroe, un vero uomo che meritava d'essere grande... Le guardie del ponte che erano state ad ascoltare quel che accadeva, lo fissarono senza osare di toccarlo. E quando Nemeciech salì sul ponticello, la voce profonda di Franco Ats risuonò imperiosa: — Attenti! Le due guardie s'irrigidirono, sollevando nell'aria le lancie con le cuspidi inargentate. E tutti i ragazzi sollevarono le loro lancie e batterono i tacchi. Nessuno parlò: il chiaro di luna risplendeva sulle punte delle lancie. I passi di Nemeciech risuonarono sul ponte mentre egli si allontanava. Poi si udì soltanto il tonfo di due scarpe piene d'acqua. Poi più niente. Sull'isoletta le Camicie Rosse si guardavano impacciate. Franco Ats era in mezzo alla radura, a testa bassa. Allora Ghereb gli si avvicinò ed era bianco come la calce. Balbettò: — Devi sapere... Ma Franco Ats gli voltò le spalle. Allora Ghereb si volse ai ragazzi che erano presenti; si fermò davanti al maggiore dei Pastor: — Devi... sapere... — balbettò. Ma Pastor seguì l'esempio del suo comandante, ed anch'egli voltò le spalle a Ghereb che rimase immobile e perplesso. Non sapeva che cosa fare. Poi disse con voce strozzata: — Mi pare che posso andarmene... Nessuno rispose. E s'avviò lui ora per la strada che poco prima aveva preso il piccolo Nemeciech. Ma nessuno lo salutava. Le guardie si appoggiarono al parapetto e si misero a fissare l'acqua. I passi di Ghereb si smorzarono nel silenzio dell'Orto Botanico.. Quando le Camicie Rosse furono sole, Franco Ats venne davanti al maggiore dei Pastor. E gli stava così vicino che il suo viso quasi toccava il viso del Pastor. Gli chiese sottovoce: — Sei stato tu a prendere le biglie a quel ragazzo nel Giardino del Museo? — Sì — rispose piano il Pastor. — C'era anche tuo fratello? — Sì. — Avete fatto «einstandt»? — Sì. — Non avevo proibito alle Camicie Rosse di rubare le biglie ai ragazzi più deboli? I Pastor tacevano. Nessuno osava contraddire Franco Ats. Il comandante li squadrò severo, poi disse con voce implacabile ma calma: — Prendete un bagno! I Pastor lo fissarono sbalorditi. — Non mi avete capito? Così, come siete: vestiti! Ora bagnatevi voi! — E quando s'accorse che qualcuno sorrideva, avvertì: — E chi ride, prenderà un bagno alla sua volta! Questo fece scomparire a tutti la voglia di ridere. Ats fissò i due Pastor e disse: — Su, bagnatevi! Fino al collo! Avanti! — E rivolgendosi alla truppa: — E voi, dietro front! Nessuno guardi! Le Camicie Rosse fecero un giro sui propri tacchi e voltarono le spalle al lago. Nemmeno Franco Ats guardò come i Pastor mettevano in esecuzione la pena su sè stessi. I Pastor s'incamminarono, avviliti e in silenzio fino al lago dove s'immersero fino al collo. I ragazzi non guardavano: udivano soltanto il loro diguazzare. Franco Ats si voltò, vide che i due avevano eseguiti gli ordini, ed allora disse: — Giù le armi! Partenza! E guidò la truppa via dall'isola. Le guardie spensero la lampadina e si accodarono alla truppa che passò con passi cadenzati per il ponte e si perdette nell'oscurità dell'Orto Botanico. I due Pastor uscirono allora dall'acqua. Si guardarono l'un l'altro, poi, come facevano sempre, si misero le mani in tasca e s'avviarono alla lor volta. Non dissero una parola ed erano molto vergognosi. L'isoletta rimase deserta nel plenilunio silenzioso della sera primaverile.

Lo stralisco

208515
Piumini, Roberto 1 occorrenze
  • 1995
  • Einaudi
  • Torino
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. — È fra i piú belli che io abbia veduto: meriterebbe un desiderio forte come la mia ammirazione. Ma; come ho detto, grande è la mia stanchezza: ti ringrazio di aver abbellito il mio sonno con la delizia del tuo sorriso. Shuade abbassò la fronte. — Ti imploro, signore, non mi scacciare, — disse. — Perderò ogni grazia del Sultano, se saprà che mi hai allontanato dal tuo letto. Mi farà certo riportare dai suoi cavalieri fra i pastori che allevano le greggi nelle montagne di Kamur, e mi darà in sposa al piú rozzo di loro... Una donna può essere più silenziosa di un'ombra, signore: lasciami stare qui con te, almeno questa notte. Non sentirai il mio respiro, e prima dell'alba, che non è lontana, io scomparirò: cosí non avrò sulla fronte il fango del tuo rifiuto... Gentile tacque ancora. Fece un lungo respiro. — Resta, dunque, Shuade, — disse, preso da una tristezza improvvisa, una puntura di lacrime agli occhi. — È per me un onore dormirti accanto. — Vuoi che scopra il mio corpo, signore? — lei sussurrò. — Non mortificare il mio cuore, Shuade, mostrandogli una bellezza che non sa desiderare. La donna non disse altro, e si accoccolò ai piedi del grande letto, senza fare più un movimento. Gentile spostò la torcia verso la porta, e si coricò. Davvero non percepiva il respiro di lei, sebbene ne sentisse il delicato profumo di agrumi. — Dio protegga il tuo sonno, Shuade, — disse a voce molto bassa. — Allah copra di fiori il tuo, signore, — lei rispose, invisibile. Anche ad occhi aperti, nel buio infinito della notte, Gentile vedeva il volto di Amilah, e piangeva.

Pagina 115

L'idioma gentile

209140
De Amicis, Edmondo 6 occorrenze
  • 1905
  • Fratelli Treves Editori
  • Milano
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Non ti dar la zappa sui piedi, dunque; mettiti all'opera; per qualunque via tu abbia da fare il tuo cammino nel mondo, benedirai le fatiche che avrai dedicate questo studio nei tuoi primi anni.

Pagina 17

E le parrà che non abbia a studiar la lingua la donna, che per ragione di natura e per gli uffici a cui è destinata, di madre, di consigliera, d'educatrice, di consolatrice della famiglia, avrà tanti sentimenti amorosi e pensieri gentili da esprimere, tante cose da dire, delle più difficili a dire e a sentire, e che può e sa dire essa sola, e che da lei sola si vogliono udire? E come farà, se non avrà studiato la sua lingua, a compiere con la voce e con la penna questi uffici, per i quali occorre conoscer della lingua tutte le grazie e le sfumature, possedere tutte quelle parole e locuzioni proprie, morbide, agili, sottili, che entrano quasi inavvertite nella coscienza e nel cuore, persuadono e commovono, accarezzano e consolano? Non è uno studio per la donna? Ma direi che è il primo studio che ella ha da fare, poichè la madre è la prima maestra dei suoi figliuoli, e perchè in ogni società colta sono, e non, possono esser che le donne quelle che insegnano ed impongono nella conversazione la dignità del linguaggio, la finezza dello scherzo, l'urbanità della contraddizione. E come si può far questo non conoscendo la lingua? Ah, ella scuote il capo, con un sorrisetto: ho capito. È bella, ed ha vanità femminea, non ambizione letteraria, e pensa che un viso come il suo, basterà, senza il sussidio del vocabolario e della grammatica, ad attirarle da per tutto l'ammirazione e l'ossequio. Ma s'inganna, signorina. Se sapesse che peggior effetto fa una parola brutta sur una bocca bella, e com'è più ridicola la sgrammaticatura detta con un sorriso vanitoso! E se sentisse con che barbara compiacenza le belle amiche commentano e portano in giro il piccolo sproposito dell'amica bella! Andiamo, mi confessi che ha torto, e mi conforti anche lei, almeno per un tratto di strada, della sua cara compagnia.

Pagina 23

E sebbene Dante abbia detto " lascia dir le genti - è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi pensare che tu parli di tutti i popoli della terra; e che suoi per " loro - abbia esempi classici, non toglie che sia più corretto il far concordare l'aggettivo col sostantivo; e m'ammetterai che a dire ignorante per " maleducato - si corre pericolo di calunniare dei sapientoni; e una " minestra diaccia - se vuoi esser giusto, non s' è mai portata in tavola da che mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un bacio alla torre di Giotto. E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.

Pagina 54

Mi domanda un tale se non c'è in italiano una parola che significhi " stringer molto la persona con cintura o con busto o con altro, in modo che essa paia meglio disposta, ma che non abbia più liberi i movimenti. - - Certo che c'è. Striminzire. Una ragazza striminzita nel busto. Dice anche il Giusti, per analogia, di persone striminzite in una carrozza troppo piccola. - Striminzire! Che parola strana! - Strana perchè? Per il suono? Non è mica più strana d' impazientire e d' indolenzire, che tutti dicono. - Ma questa non l'ho mai intesa. - È d'uso comune in Toscana, è in tutti i dizionari, la usano molti italiani d'ogni provincia. - Eppure, che so io? Parlando, non l'userei. - Per che ragione? - Non so.... Non oserei. - Ma per la stessa ragione si dovrebbe interdire l'uso d'una quantità d'altre parole proprie, necessarie, italianissime. Per esempio, userebbe le parole rimpulizzire, spericolarsi, spiaccicare, stintignare, baluginare, che in certi casi significano una cosa che non si può dire per l'appunto con un altro modo? - Spiaccicare! Baluginare! Stintignare! (dopo aver pensato un po', sorridendo). - No, glielo dico sinceramente, non oserei. Saranno parole italianissime, e anche usatissime in altre parti d'Italia; ma fra noi paiono strane. - E picchia sullo strane! Ma strana le parrà ogni parola che non abbia mai intesa. Quelle parole non paiono punto strane e affettate, paiono naturalissime a tutti coloro che le usano dove sono generalmente usate. La cagione dell'effetto che producono in lei non sta in esse medesime; ma nel fatto che lei non è usato a sentirle. Lei stesso adopera ora come naturali parole e frasi che, anni fa, la prima volta che le intese, le saranno parse cercate col lumicino. Il tipo dell' affettato e dell'inaffettato, in materia di lingua, ha detto un grande maestro, non è altro che l'assuefazione. - Avrà ragione. E non di meno.... che vuol che le dica? Se, parlando in famiglia o fra amici, mi venissero sulla punta della lingua le parole stintignare, striminzire, baluginare, me le terrei in bocca, perché son certo che tutti quanti, udendole da me, rimarrebbero come stupiti, e direbbero fra sè, e fors'anche forte: - Cospetto! Tu peschi nel vocabolario; tu diventi un linguista. Che lusso! - Ma se tutti ragionassero così, la lingua italiana, fra noi, rimarrebbe sempre allo stesso punto; nessuno arricchirebbe mai il suo vocabolario d'una sola parola; dai dieci anni in su si rimpasterebbero sempre lo stesso miserabile frasario elementare. Se tutti avessero sempre ceduto a codesto sentimento, nell'Italia settentrionale, in Piemonte, per esempio, si parlerebbe ancora l'italiano come si parlava quarant'anni fa. - O non si parla ora come si parlava allora? - Ah no, per fortuna. Sono usati ora anche fra noi, parlando italiano, sono anzi diventati comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che quand'ero ragazzo erano affatto sconosciuti. - Quarant'anni fa non le sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un sonno, appisolarsi, fare uno spuntino; fare ainniodo, uomo di garbo, gente per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in tasca, faticare parecchio, e via discorrendo. Ora io sento questi modi ogni momento da giovani, da signore, da gente che non pensa neppur per ombra a parlare scelto, e non c'è caso che chi li ascolta si stupisca e sorrida con l'aria di dire: - Che lusso! - Eppure, quando furono intesi qui le prime volte, tutti quei modi debbono esser parsi strani come paiono a lei quelli che ho citati.. - Le ripeto che avrà ragione; ma.... (tra sè, scrollando il capo) Striminzire! Stintignare! Baluginare! Cosi è. E l'ha detto un grande scrittore, che di queste cose s'intendeva : - La locuzione della lingua in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria, può far ridere, esclamare, urlare, dov'essa non è conosciuta in fatto; e però sono impicci da cui uno non può uscir solo: l'unico mezzo d'uscirne è d'uscirne tutti insieme. - Il che vuol dire che tutti quanti dobbiamo adoperarci a mettere in commercio, parlando, quella parte di lingua che manca al nostro uso regionale, e che ci è necessaria, anche a costo di far ridere, esclamare e urlare. Incomincia dunque tu a far la tua parte. Ricordo certe famiglie d'impiegati piemontesi e lombardi, stabilite in Firenze capitale, nelle quali i bambini, che in casa parlavano italiano, portavano ogni giorno dalla scuola una parola o una frase nuova, di cui il padre e la madre ridevano: ne ridevano la prima volta, poi ci s'avvezzavano, e poi dicevano quelle parole e quelle frasi essi medesimi, da prima come per celia, dopo senz'avvedersene; e così il bambino arricchiva il dizionario e insegnava a parlare alla famiglia. E così devi far tu nel giro delle persone fra cui vivi, usando francamente le parole insolite, come se ti venissero spontanee, vincendo la "vergogna fuor di luogo - che è la cagione principale della nostra perpetua miseria in materia di lingua. Miseria che conserviamo di conseguenza anche nello scrivere, perchè tutto quel materiale di lingua, che conosciamo ma non usiamo parlando, non ci verrà mai pronto all'occorrenza quando scriviamo, lo dovremo sempre andar a cercare, e non lo cercheremo per pigrizia, o lo useremo male, e sarà sempre per noi come quelle stoviglie di casa che non si tiran fuori dall'armadio che per i pranzi solenni, dove gl'invitati s' accorgono alla prima che non siamo assuefatti ad usarle.

Pagina 69

Che giova che la lingua italiana abbia tante parole dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se aggraviamo le leggiere e deformiamo le graziose strascicando o squarciando o strozzando le vocali, e dando all'u un suono barbaro che trapassa l'orecchio come lo stridore d'un chiavistello arrugginito? E predichiamo agli stranieri l'armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d'aver orecchio musicale! C'è da riderne, e da averne vergogna. * - Come ho da fare? - domanderai. - Ho da toscaneggiare? - Così chiamano, per canzonatura, il pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovare contenti, come se non si potesse pronunziar l'italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti, la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c'è bisogno di toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli speciali. Tu non hai che da prendere uno di. questi libri, e con la scorta delle regole e delle indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl'italiani delle regioni subalpine. Avvèzzati prima d'ogni cosa a pronunziare l'a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c'è chi dice:

Pagina 74

In fine, quello che feci e continuo a fare è un dizionario mio, del quale ho una grande padronanza, nel quale ritrovo con grande facilità ogni parola o frase di cui non abbia o tema di non avere esatta memoria; un dizionario in cui godo a tuffar le mani come in un mucchio di monete o di gemme che io mi sia guadagnate o che abbia trovate io stesso a una a una; un tesoro di lingua accumulato con gran cura, che io amo, che mi compiaccio d'arricchire e d'abbellire, come una casa piena di cose belle e utili, perfezionandone a mano a mano l'ordine e l'assetto, con sentimento di proprietario e d'artista. Ecco come studiai e studio la lingua. Mi ci volle molta pazienza in principio; poi feci il lavoro con piacere; ora lo continuo con amore. E non credo he ci sia metodo migliore: per le teste costrutto come la mia, ben inteso.

Pagina 99

Il libro della terza classe elementare

211894
Deledda, Grazia 6 occorrenze
  • 1930
  • La Libreria dello Stato
  • Roma
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Il Signore provvede il nutrimento agli uccellini; volete che non abbia cura dell'uomo che vale infinitamente di più? Il fanciullo è abituato a trovar pronto ogni giorno tutto quello che gli occorre per il sostentamento, tanto che nemmeno più ci pensa. Ma ci pensano i genitori. Ed essi in questo caso sono proprio l'immagine sensibile della Provvidenza divina. Benediciamo, dunque, la Provvidenza divina. E se talvolta qualche nostro compagno, più povero di noi, manca del pane necessario, diamo volentieri qualche cosa della nostra tavola per rallegrare la sua mensa. Noi saremo, in quel momento, la mano della Provvidenza, che non lascia mancare il necessario a nessuno. E il pio gesto sarà registrato lassù nel Cielo.

Pagina 170

Però, affinchè il Signore abbia a perdonare a noi, è necessario che noi prima perdoniamo a chi ci ha offeso. Questa è una condizione rigorosissima e necessaria. E difatti, in che modo placherà il padre quel figliuolo che non vuol fare la pace col suo fratello? Un compagno, dunque, ci ha offeso? Ebbene, cosa ci costa perdonargli? La gioia serena del perdono ci metterà il cuore in pace. E non solo si deve perdonare, ma anche pregare di cuore per i nostri offensori. E questa è tutta una carità che porta sempre buon frutto da raccogliere in Cielo.

Pagina 171

Una linea costituita da una serie di segmenti, tali che il primo di essi abbia un estremo comune col secondo, il secondo abbia l'altro suo estremo comune col terzo, il terzo abbia l'altro suo estremo comune col quarto, e così via, si dice una spezzata, che ha per lati i detti segmenti e per vertici i loro estremi.

Pagina 435

Riconosce il padrone dal rumore del passo, sa comprendere subito se chi lo guida o lo cavalca è persona esperta e, cosa stupenda in lui, sa ritornare da solo per una strada che abbia percorso anche una sola volta. E, a proposito di questo, vi dirò che una volta nel tempo antico (simili esempi ce ne sono stati anche durante la nostra vittoriosa guerra) un cavaliere era stato ferito in battaglia: il cavallo lo portò in un boschetto, lo lasciò dolcemente a terra, piegandosi sulle ginocchia anteriori, e poi di gran galoppo ritornò da solo all' accampamento. I capitani, sentendo il suo muso che con insistenza si allungava or su l'una ora sull'altra delle loro spalle, capirono e lo seguirono. Cosa meravigliosa! Li condusse nel luogo ove giaceva il suo padrone. Così fu salvato un egregio uomo.

Pagina 44

Si dice rettangolo ogni quadrangolo che abbia tutti gli angoli retti (fig. 20).

Pagina 440

Diametro di una circonferenza è ogni segmento che passi per il centro ed abbia gli estremi su di essa. Quindi ciascun diametro di una circonferenza è il doppio del suo raggio. La porzione di piano racchiusa da una circonferenza si dice cerchio. Si badi bene, pertanto, che le circonferenze sono linee, i cerchi sono superficie. Una circonferenza ed il cerchio da essa racchiuso sono divisi per metà da ciascun diametro. Nella pratica per disegnar circonferenze si adopera il compasso. 85. Un poligono si dice regolare, se ha tutti i lati e tutti gli angoli eguali.

Pagina 441

La freccia d'argento

212122
Reding, Josef 8 occorrenze
  • 1956
  • Fabbri Editori
  • Milano
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QUALCUNO SA RISOLVERE QUESTO DILEMMA CHE PARE NON ABBIA VIA D'USCITA?

A me pare che distribuendo tutti i regali tu abbia già fatto abbastanza. - Me l'ha detto anche il mio «diavoletto» nascosto, signor cappellano, e ce n'è voluto per chiudergli il becco! - Ma bene! Si vede che alle nostre riunioni serali non ti sei distratto. Però, però... Questo invito puoi accettarlo con la coscienza perfettamente tranquilla. Il vincitore del derby di quest'anno sei tu, e io non credo che un altro possa prender parte al posto tuo alla gara in America. Quanto poi alla speranza che Jörg e Hai possano venire con te, non è probabile che gli Americani sgancino così facilmente i loro dollari da mandar viaggi gratuiti a mezza tribù di San Michele! - Non è necessario. Invece del sottoscritto possono prender parte alla gara di Akron o Hai o Jörg. Il vero vincitore della corsa è la Freccia d'argento, e che sotto il casco ci sia la mia testa o quella di Jörg o di Hai, se non è zuppa è pan bagnato! - Uhm... Non so se oltreoceano si accontenteranno di questa esauriente spiegazione... Ad ogni modo, tenta! - Grazie tante, signor cappellano! Voglio tentare. Spedisco la lettera stasera stessa. - Buona notte, Stucchino! - Buona notte, signor cappellano! - Ma che ragazzo! - mormora il cappellano ridendo compiaciuto, dopo che la porta si è richiusa dietro le spalle di Stucchino. - Di una razza tutta speciale: scavezzacollo e cuor d'oro nello stesso tempo... * * *

Pagina 112

Masters, non può immaginare quanto piacere mi abbia fatto la Sua lettera del 15 maggio. È per me un grande onore essere invitato con la nostra Freccia d'argento alla gara che si disputerà ad Akron. Però vorrei pregarLa vivamente di permettermi di cedere il biglietto per l'aereo e il diritto di partecipazione alla corsa a uno dei due ragazzi di cui ora Le dirò. Questi miei compagni della tribù di San Michele hanno tutti e due sofferto molto per la guerra e meritano più di me un viaggio in America. Tra l'altro io devo per massima parte all'opera loro la mia vittoria di Amburgo. Uno è Hai Stuhm, di tredici anni, profugo del Memel: durante la fuga gli si sono congelate alcune dita. L'altro si chiama Jörg Imhoff, lui pure tredicenne: suo padre è caduto in Africa, a Tobruk, ed egli deve fare lavori d'ogni genere per riuscire a sbarcare il lunario con la sua mamma. Io spero che sul biglietto di viaggio si potrà mettere il nome di uno dei due e che gli sarà concesso di prender parte alla gara. Le sarò grato di una risposta sollecita, perché il tempo stringe. Con rinnovati ringraziamenti per la Sua cortesia, mi dico devotissimo Rolf Ramthor Ecco fatto! Con energia Stucchino verga la sua goffa firma che vorrebbe essere da uomo, scrive rapido l'indirizzo e sul retro della busta nome e indirizzo del mittente; dà poi una leccatina al lato gommato... Puah, che saporaccio! E ora via a impostare. Quando Stucchino giunge davanti alla cassetta rossa e sta per imbucare la lettera, ha ancora un attimo di indecisione: è il «diavoletto» nascosto che di nuovo si fa vivo. E che dice? - Non lo fare! Sei ancora in tempo? Ripòrtati via la lettera e scrivine un'altra. Accetta l'invito. Che ti importano gli altri? L'America ti chiama. Su, sbrigati! Rimetti la lettera in tasca! Invece... patapùnfete!... la lettera è già nella cassetta insieme con altre sue pari. Va a cascare per l'appunto su una lettera d'affari piena di boria che, furibonda, caccia un urlo. Ma ce ne sono altre della gran famiglia della corrispondenza: letterine color di rosa e, senti senti, profumate; stampe e cartoline illustrate di pessimo gusto. La lettera di Stucchino viene subito sommersa da una valanga di domande. Sorridente, si pavoneggia nel fuoco di fila degli interrogativi che incalzano. Del resto, non ha tutti i torti: non è cosa di tutti i giorni una lettera al comitato del derby delle casse da sapone di Akron, negli Stati Uniti d'America! Durante la notte, essa rivela alle altre lettere buona parte del suo contenuto. E quelle rimangono più che mai sbalordite. * * *

Pagina 113

Pagina 125

É ASSAI PROBABILE CHE IL CAPOGRUPPO ALO ABBIA SORRISO TROPPO PRESTO, PERCHÉ ED-MASTICA-GOMMA NON SORRIDE AFFATTO QUANDO SOBILLA LA BANDA DEL NORD. QUEI boys mi diventano troppo vispi. Se vanno avanti a quel ...- modo riusciranno a terminare in tempo la loro idiota Freccia d'argento! - bofonchia Ed-mastica-gomma, sputando in un angolo la solita cicca e appiccicandosi al grosso labbro inferiore un'esile sigaretta. Strofina un fiammifero, e per qualche istante una luce fumosa fruga la cantina, investe guizzando una ventina di ragazzi, lambisce una vettura verniciata di rosso scarlatto e va a cadere sulla parete dove sono appesi due pugnali incrociati e un drappo nero su cui campeggia un teschio giallo che digrigna i denti... Poi l'oscurità ripiomba improvvisa nella cantina, e solo là in fondo, rivelata sommariamente dalla brace della sigaretta, fluttua la grinta sfrontata di Ed-mastica-gomma, come una maschera diabolica. Quand'egli riprende a parlare, la sua voce suona roca: - A quei crociati bisogna mettere i bastoni fra le ruote: sono gli unici concorrenti temibili. Bulle e Janko sono riusciti a scoprire i nascondigli delle altre macchine, che quello scimunito del Municipio non aveva voluto rivelare: quelle carrette non valgono un gran che, ed è inutile occuparsene. Invece mi dà fastidio quella banda di mocciosi con la loro Freccia d'argento. Jörg, tu che ieri eri al posto di osservazione al capannone dei crociati, di' un po': a che punto è l'intelaiatura? Gli risponde una fresca voce giovanile: - È quasi terminata. La vettura di quei ragazzi è bellissima: più bella ancora del nostro Airone. Ha una linea aerodinamica, e mi pareva tal quale una macchina da corsa sul Nürburgring. - Al diavolo tutti! - Ed-mastica-gomma, furioso, dà in escandescenze. Dopo aver vuotato il sacco delle imprecazioni, sporge soprappensiero la mascella inferiore, il che gli dà un aspetto anche più volgare e brutale del solito. Ecco, pare che gli sia balenata un'idea. Con un gesto deciso che non ci si sarebbe aspettato da quel perticone smidollato, scaraventa a terra la sigaretta appena accesa, così che le faville sprizzano all'intorno. Poi con poche frasi rapide spiega come si propone di intralciare l'opera dei crociati. In qualcuno dei ragazzi si risveglia istintivo lo spirito di ribellione, ma poi i propositi velenosi di Ede finiscono con l'elettrizzare tutti quanti. Soltanto la voce di Jörg si leva contro Ed-mastica- gomma: - No, Ed, non lo dobbiamo fare! Non è giusto! I crociati non ci hanno fatto niente di male! Perché la nostra non dev'essere una gara leale? - Citrullo integrale che non sei altro! - lo investe Ed-mastica- gomma. - Qui non si fanno storie! È in gioco il buon nome della banda del Nord! Con la forza si ottiene tutto. Anche in questo caso. Per che cosa abbiamo il teschio sulla nostra bandiera? Se già hai la tremarella, vigliacco, puoi andartene quando ti pare! Il mio piano sarà attuato ad ogni modo. E fatela finita! Ve lo dico una volta per tutte: non ammetto che si intrufoli il becco nei miei progetti! Volete sapere altro? Un mormorio gli risponde che no, non han più nulla da chiedere. - Allora toglietevi dai piedi! Dunque tutto è chiaro. Mi raccomando, puntuali! Una porta cigola sui cardini arrugginiti e, poco per volta, si dileguano lo scalpiccio e le voci confuse. Soltanto un passo risuona ancora nella cantina e di nuovo si accende un fiammifero. Ed-mastica- gomma è rimasto solo. A quella luce fioca egli accarezza quasi con tenerezza il cofano rosso scarlatto dell'Airone; ma il suo ultimo sguardo è per il teschio giallo della bandiera. - Dobbiamo vincere! - sibila tra i denti. - Ed-mastica- gomma vincerà sull'Airone rosso! Così dev'essere e così sarà! Poi se ne va, arrancando pesantemente tra le nere macerie, mentre sferzate di una pioggerella minuta entrano dalle occhiaie vuote delle finestre. Lontano echeggiano dodici rintocchi di campana. Come Ed-mastica-gomma, anche un altro se ne va solo soletto verso casa. È Jörg, a cui il perfido piano di Ede non garba affatto. È mai possibile che Ede abbia ragione e che nella vita tutto si debba conquistare soltanto con la forza? In realtà Ede, negli ultimi anni, aveva fatto della banda del Nord il gruppo più temuto di tutta la città. Ma quel che ora si propone di fare!... Jörg non riesce a sbrogliare i suoi pensieri tormentosi. Sente di trovarsi a un bivio, ma non sa quale sia la strada da prendere.

Pagina 22

CHE ABBIA BUON FIUTO?

Pagina 35

. - Che la vettura abbia in lui un protettore che la difenda dagli attacchi dei nemici! Che essa possa trionfare di tutte le difficoltà e, sotto la tua guida, conseguire la vittoria! - Amen! Il cappellano tende a Stucchino il distintivo con l'effige di San Cristoforo, e il ragazzo sa bene che non si tratta di un talismano qualsiasi. Questo pezzetto di metallo gli dice che, nella lotta per la vittoria sua e dei compagni, egli ha un protettore e un difensore. E una fervida preghiera sale dal suo cuore: egli chiede a Dio di sapersi dimostrare coraggioso e leale nella gara che sta per essere disputata... Sulla via del ritorno, Cosino chiede preoccupato: - Non sarebbe bene, stanotte, cosare la nostra cosina? - Che si dovrebbe fare? - Io penso che in quest'ultima notte prima dell'eliminatoria sarebbe bene montare la guardia alla Freccia d'argento. - Ma quante storie! Uccello del malaugurio! Ora non esageriamo? Ed-mastica-gomma ha dato la sua parola d'onore, e all'infuori della banda del Nord non c'è nessuno che voglia fracassare la nostra Freccia d'argento. Io poi ho barricato il capannone a prova di bomba. Anche la finestra è sprangata con nuove imposte. Lì non c'entra né una zanzara, né un rinoceronte! Vedi che non c'è da temer nulla, profeta di sciagure! - Sarebbe da spararsi, se proprio ora dovesse succedere qualcosa alla Freccia d'argento! - sospira Winnetou 4. - Non si capisce niente, Winnetou. Alza la voce! Che cos'hai detto? Alo interviene: - Winnetou ha ragione. Sarebbe terribile se dovesse capitar qualcosa alla nostra Freccia d'argento! Già mi faceva pena oggi, quando è venuta la commissione dei ficcanaso: tira, picchia e mena, come fosse stato un elefante adulto e non una tinozza di compensato! Ma la nostra carretta ha superato brillantemente la prova. Non credo che ce ne sia un'altra così bella come la nostra! - Be', però anche l'Airone rosso non è da buttar via!

Pagina 57

Non ti pare che abbia dato una spinta con la mano a una delle altre vetture? - Davvero?! Io non ho visto niente! Dev'esser stata cosa di un attimo! - Ecco! Ed-mastica-gomma taglia il traguardo per primo, tronfio come un tacchino! È proprio vero. Però non si sa se realmente Ed-mastica-gomma abbia barato. Poiché prove non ce ne sono, il tempo realizzato da lui viene omologato. * * *

Pagina 66

Narco degli Alidosi

214035
Piumini, Roberto 3 occorrenze
  • 1987
  • Nuove Edizioni Romane
  • Roma
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«È possibile, amico mio» disse lamentosamente arrancando all'indietro sull'erba della sponda «è possibile che l'acqua del fiume abbia creato quella figura d'incanto? E non è apparsa però a me e a te nello stesso modo e tempo, come alle visioni non usa fare?» Trattenendo i cavalli, che a quelle micidiali domande di Narco tiravano a scappare, con le briglie di pelle, e se stesso con le briglie del rispetto e della volontà, Blabante rispose: «È possibile, mio signore... Quella scomparsa non è da donna vera: e non è cosa troppo rara che creature incantate, abitanti vicino alle acque, si divertano a spaventare i pellegrini, e ad ingannarli». «Inganno forse sì, amico mio, ma non spavento», disse Narco rimettendo l'elmo, poiché già vedeva piegarsi i fiori intorno. «Questa, semmai, mi ha convinto d' amore !» E ripartirono con nuovi pensieri: avvolti per Blabante nella sciarpa, per Narco nel metallo dell'elmo. Ma mentre allo scudiero, per le mosse dell'aria e le viste diverse, quei pensieri passarono assai presto, nella chiusa scatola dell'elmo quelli di Narco rimasero a lungo, come una specie di dipinto luminoso, di silenziosa canzone.

Pagina 12

Chissà se il segreto della bella dama non abbia relazione con questo? Ciò forse non ti consola, ma potrebbe servire se, come è avvenuto due volte, una terza volta la incontrerai...» Narco interruppe di bombardarsi il cranio e dichiarò: «E che altro segreto vuoi che fosse, Blabante, se non il terrore per il mio fiato maledetto? Che altro fu l'una e l'altra volta a dissolverla come un sogno, se non la pestifera aria che dal corpo mi muove? Questo ha disgregato quel corpo felice, che disgregandosi disgregò la mia felicità!» «Io sono lontano dal togliere al tuo fiato il suo nero potere, mio signore» disse Blabante. «Ma come spieghi che, se così fosse, non si disgregano attorno a te le

Pagina 20

«Perché, signore, mi duole che la cura non solo non abbia fatto miracoli, ma nemmeno opera buona... Eppure è rimedio provato e riprovato, valido dagli anni antichi, giurato dai più sapienti...» «E si vede che il mio malanno è più grave!» sospirò Narco. «Ma perché cadi ora in ginocchio, Terpione?» «Mio signore, per chiedere a Dio pietà, e buona ispirazione!» A quel punto Blabante, che aveva a giusta distanza seguito la visita, mandò la voce a dire: «Buon conte, costui non è l'ultimo scannacani del contado: se ha fallito, occorre una sapienza più grande della sua, e non ne so di vicine. Ma è certo che in Turingia, oltre le alpi e le foreste, vive un mago, un gran guaritore di nome Antolfo, celebre per le più difficili guarigioni». «Anch'io ne ho sentito i miracoli!» entrò a dire Terpione. «Vanno da lui i più inguaribili, e ne tornano salvati!» Così fu deciso il viaggio: Narco e il fido Blabante sarebbero partiti per la Turingia. La cosa si seppe, e il contado ebbe un respiro di sollievo: il fiato del conte era ormai a tal punto di pestilenza che al suo cavallo occorreva, oltre al paraocchi, il paranarici, e la gente si scostava al suo passare più degli Egiziani al passaggio del divino faraone.

Pagina 6

Tutti per una

214964
Lavatelli, Anna 3 occorrenze
  • 1997
  • Piemme Junior
  • Casale Monferrato (AL)
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Prima però abbia la cortesia di adempiere ad alcune formalità d'uso. Legga questi documenti e firmi nei punti indicati. - Se lei permette, - obiettò il professore. - preferirei guardarmeli a casa con calma. - Come vuole - rispose sorpreso il Bagliotti-Gagginis, e per la prima volta guardò il suo interlocutore con un certo interesse, anche se non proprio con simpatia. - Ma sono tenuto ad avvertirla che domani stesso, o forse già questo pomeriggio, potrei non avere più disponibilità all'interno dell'istituto. Non lo dico per metterle fretta, professore. Lo dico nel suo interesse: lei non ha idea di quanta gente bussi ogni giorno alla mia porta. Il professor Virgilio Zambelli tentennò un poco, con lo sguardo perso nell'apparente contemplazione di un gran quadro appeso alla parete, che rappresentava un'anziana nobildonna dallo sguardo penetrante, ritta al davanzale di una veranda in fiore. - La contessa Orisanda, mia zia - precisò il direttore, con una sfumatura di impazienza nella voce. Il professore si riscosse, prese gli occhiali dal taschino, pulì ben bene le lenti, le inforcò, raccolse i fogli che il direttore aveva appoggiato sulla scrivania e cominciò a leggere attentamente.

. - Signor Martelli, abbia pazienza. Forse che lei non ha mai fatto pubblicità alla sua impresa di pompe funebri? - Sì, qualche volta. Ma così, alla buona, senza tanti arzigogoli. Qui invece si sta parlando... - Mi ascolti, signor Martelli, - riprese il direttore, con voce suadente - lei deve valutare la mia proposta da un'altra angolazione. La veda come un buon investimento. La pubblicità promette, ma non è necessario che mantenga. - Però costa. - Certo. Ma le assicuro che quei soldi rientreranno rapidamente. Molto più in fretta di quanto lei si immagina. Vendere sogni non è mai stato tanto redditizio come al giorno d'oggi. E noi venderemo l'immagine di una casa protetta modello, dove l'anziano vive felice, circondato dal comfort e da cure amorevoli. Anzi, nel nostro spot pubblicitario, sarà l'anziano stesso a scegliere di venirci, vincendo le resistenze della famiglia. - Assurdo! - sbottò il signor Martelli. - E a chi vorreste darla a bere? - Mi scusi... - intervenne tranquillo il dottor Casnaghi. - Ma lei, evidentemente, ignora il potere persuasivo di certe immagini. Il testimonial del nostro spot non sarà un vecchio raggrinzito su di una sedia a rotelle. Prima di tutto sarà una donna, perché le donne vivono più a lungo. E avrà un aspetto piacevole a vedersi. Si presenterà come una persona dotata di un gran senso pratico, che non vuole essere di peso a nessuno e che quindi sceglie la nostra Villa Felice per garantirsi tranquillità e sicurezza. Capisce, signor Martelli? In questo modo noi annulliamo tutti i sensi di colpa dei figli, perché gli diciamo: «Portaci qui tua madre, tuo padre. Sono loro che te lo chiedono». Guardi che è una bellissima idea. Geniale. - Ma costosa.... - Se lei non vuole, copro io la sua parte di spesa - precisò il direttore. - Ma poi non pretenda la partecipazione agli utili. L'uscita del Bagliotti-Gagginis lasciò di stucco il signor Martelli e lo risolse ad accettare. Così, con voce più mite, si azzardò solo a chiedere: - E quanto durerà la campagna pubblicitaria? - Diciamo un mesetto circa, su tutte le tivù locali della nostra regione. E poi, chissà, se le cose andranno meglio del previsto, potremmo anche puntare a qualche rete nazionale. - Be' - frenò il dottor Casnaghi. - Non è che ci sia poi tanto posto, a Villa Felice... - C'è ancora la soffitta - osservò il direttore. - E alcune sale al pianterreno. Per non parlare delle scuderie. Se viene tanta gente, avremo anche tanto denaro per ristrutturare. La logica del Bagliotti-Gagginis era stringente, il suo convincimento tale da infondere sicurezza e generare ammirazione. Sarebbe stato un buon politico, il direttore, sapeva come tirar la gente dalla sua parte. - Perché non lo fa lei, lo spot di Villa Felice — motteggiò il dottor Casnaghi. - Scommetto che sarebbe un successo. - Eh, sì - riconobbe pensoso il signor Martelli. - Non è mica una cattiva idea... Sul volto del direttore si disegnò una smorfia di disgusto. - Lasciamo perdere, per favore. Piuttosto, vediamo gli altri punti all'ordine del giorno. Il signor Martelli prese la parola per relazionare sugli strani furti che si erano verificati negli ultimi tempi a Villa Felice. Il dottor Casnaghi disse che effettivamente anche a lui erano spariti un paio di guanti da chirurgo e il direttore ricordò che il giorno prima l'infermiera di turno gli aveva parlato a proposito di un fornellino elettrico scomparso nel nulla. Proprio in quel momento si udì bussare alla porta dello studio ed entrò trafelata la Maria Pia. - Lo sa che non voglio esser disturbato quando sono in riunione. Spero almeno che sia importante! - fece secco il direttore. - Importante? Certo che è importante! Anzi, è una cosa grave, gravissima! Un vero scandalo! - Parli, allora. Che diamine... Ma si sbrighi, però! - Loro... - e con il dito indicava le stanze di sopra. - Hanno una bambina in camera! Ce la nascondevano, sa... Ma io, proprio adesso, entrando all'improvviso.... - Una bambina? - esclamò il signor Martelli per tutti. - E dov'è il problema scusi?

Pagina 86

Ma se anche fosse, come potremmo dimostrare che abbia mai violato la legge? Chi di noi è in grado di provare una cosa simile? - Io. L'Ernesto s'era fatto avanti nello stupore generale, sicuro e deciso come non l'avevano mai visto. Li guardò tutti, uno per uno, come se sentisse improvvisamente il debito di affetto che aveva contratto con loro. - Tu? Proprio tu? - Certo, proprio io, Ernesto Fontana. È il mio lavoro: sono un avvocato! - Ah! - intervenne il maresciallo. - E non ci avevi mai detto niente... - E cosa ve ne facevate prima? - ribatté acido l'Ernesto. - Ci condivate i maccheroni? - Tentò un risolino sforzato, poi aggiunse, con amarezza: - Del resto anch'io non sapevo più che farmene. Ma adesso! Adesso è un'altra cosa. - Dunque? - chiese impaziente il dottor Pastori. - Dica come può, in concreto... - Se riesco ad entrare nello studio di quel bel soggetto... insomma... del Bagliotti-Gagginis voglio dire... Ecco, io sono quasi... quasi certo di trovare qualcosa che potrebbe aiutarci. Non dico proprio una prova provata, di quelle che l'incastrerebbero sui due piedi. Dico anche solo un vizio di forma, un appiglio, un cavillo legale... Insomma: a un buon avvocato basta poco, perbacco! E da Caino in giù siamo tutti colpevoli di qualche cosa. Volete che proprio lui sia l'eccezione? Che abbia percorso le strade della vita senza mai schizzarsi le scarpe di fango? - Ah, certo - riconobbero gli altri. - Figuriamoci se proprio - Sicuro... - si animò il maresciallo. - Lo dice anche il proverbio: «Chi cerca, trova». Quindi stanotte faremo una visita allo studio del nostro caro direttore. L'Attilio sobbalzò spaventato, rovesciando a terra tutte le sue monetine. - Sei matto? - strillò. - E se ci pesca la Maria Spia? - All'infermiera ci penso io - promise il dottor Pastori. - Ve la leverò di torno, in un modo o nell'altro. - Lei è proprio un gran bravo figliolo, non c'è niente da fare! - si commosse la Pinuccia, prendendogli affettuosamente la mano. - No, non è vero. Questo è il minimo che posso fare per voi. Proprio il minimo, ve l'assicuro. Comunque una decisione l'ho presa anch'io: me ne vado via da qui. Proprio oggi ho presentato le mie dimissioni. Non voglio più saperne di certa gente. Credetemi, ne ho fin sopra i capelli. - Allora, a stasera dottore. - A stasera. E in bocca al lupo. - Crepi il lupo! - fece pronto Melchiorre, incrociando le dita per scaramanzia.

Pagina 96

Il giovinetto campagnuolo I - Morale e igiene

215477
Garelli, Felice 5 occorrenze
  • 1880
  • F. Casanova
  • Torino
  • paraletteratura-ragazzi
  • UNICT
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Governati in questa maniera i vitelli, li vedrai crescere a vista d'occhio, e valere molto più che non abbia costato il loro mantenimento.

Pagina 101

Così si conservano bene, e piacciono molto alle vacche; quantunque la fermentazione le abbia fatte un pochino acide. Anche il fieno bruno, ossia lasciato fermentare, come è uso in molti luoghi, diventa più saporito, nutritivo, di facile digestione, sia per le vacche lattaie, e pei buoi destinati all'impinguamento, sia pei cavalli.

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Quindi eseguisci la stregghiatura del bestiame, come altrove t'ho detto; dopo la quale distendi nuovamente la lettiera in tutta la posta, perchè il bestiame abbia comodo di riposare. Al mezzogiorno, e alla sera si ripetono i pasti nella stessa maniera; abbeveri ogni volta il bestiame; lo pulisci, se occorre; porti fuori gli escrementi; distendi la lettiera, e ne aggiungi dell'altra. Governato con queste cure, il bestiame cresce, produce, e diviene una sorgente di guadagno.

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Il cuore fa festa, e vuole che tutto abbia un aspetto più gaio. Si vestono gli abiti più belli per andare a messa ed a vespro: per via, e sul piazzale della chiesa, è un ricambiarsi continuo di amichevoli saluti. Sembra che in questo giorno tutti si voglian più bene; si rammentano i cari lontani, e anche i trapassati; si scrive al figliolo, o al fratello, che andò soldato; si legge qualche pagina di un libro istruttivo o morale, e vi si ragiona sopra. Così le ore fuggono, come fossero minuti. Ma la giornata non finisce senza una qualche opera buona: si ricorda qualche vecchia ammalata, priva di tutto, e le si porta anche solo un po' di pane; ma le si reca insieme una parola di conforto, che le giova più del pane. Così si santifica la festa nelle buone famiglie campagnuole. Così la santifichi tu pure, che sei un bravo giovanotto. Or che pensi tu di quei giovinastri che profanano la festa nelle bettole, o con giuochi disonesti? Tu hai il cuore in pace: ed essi? Tu domani ti rimetterai con più lena al lavoro: ed essi? Tu diventerai un buono ed onesto coltivatore: ma essi come finiranno? Prega il Signore che li corregga, e li faccia buoni: ma fuggi la loro compagnia; essa non fa per te.

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Per quanto si abbia una tempra robusta, come si può vivere sani in luoghi sì fatti? A dormire in camere umide, scure, c'è, pei ragazzi specialmente, da perdere la salute per sempre. Quasi tutte le malattie dei contadini, le febbri, le infiammazioni, i dolori nelle articolazioni, sono cagionate dalle abitazioni malsane. Nella casa di Gian Pietro si ammalarono tutti, un dopo l'altro, dello stesso male; e due ragazzi ne morirono. Il medico dichiarò la malattia essere un tifo, e ne diede la causa all'acqua del pozzo, guasta dalle infiltrazioni del vicino letamaio: e infatti l'acqua di quel pozzo, lasciata per un giorno in un bicchiere, puzzava di marcio. Oh che! Ci vuol tanto a fare il letamaio lontano dal pozzo, e dietro casa?

Pagina 69

le straordinarie avventure di Caterina

215706
Elsa Morante 2 occorrenze
  • 2007
  • Einaudi
  • Torino
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Non è vero che io abbia fame. Non parlo di Bellissima, poi, che non ha mai fame. Non andartene, cara Rosa. Ora che la gallina è morta, chi mi farà compagnia? Bellissima non sa neppure parlare. Sa dire soltanto « sí » e « no » con la testa, e anche per questo bisogna darle una spinta. - Bellissima, - disse Rosetta, - sorveglierai bene Caterí finché io non torno? - e abbracciò la buona Bellissima. Ella disse subito di sí. Era molto buona e molto seria. Proprio una brava donnetta. - È una stupida, - disse Caterí, - non capisce nemmeno quello che le hai detto. La povera Bellissima piegò la testa in avanti, offesa. Rosetta si mise lo scialle e il cappuccio e promise di tornare subito. Caterí si sedette nel cantuccio, vicino al letto, aspettando Rosetta, e intanto, per non annoiarsi, fingeva di andarle dietro e di vedere tutto quello che Rosetta faceva. Ecco, Rosetta va al primo cancello e chiama : - Signora, avete bambini da custodire, avete calze da rammendare ? - Oh, finalmente siete venuta! Ecco qua; ho dodici e cento bambini da custodire e sedici calze da rammendare. Vi pago anticipato. - Quanto? - Arrosto, insalata e una pagnotta. — Vado subito a portarli a Caterí. - Ma un po' anche per te. - Sí, sí. - Ecco Rosetta che torna a casa e bussa. - Hanno bussato, è vero, Bellissima?

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. — Sono contenta che la brava Grigia abbia trovato marito, — dichiarò appena Tit le ebbe detto la ragione della visita. E chiamò: — Grigia! Si sentirono dei passettini, ma non si vide nessuno. — O Grigia, non essere cosí modesta, — disse la buona Regina, — e cosí paurosa. Non mi riesce di vedere che uno dei tuoi occhietti rossi, che fa capolino dall'uscio. Avanti, avanti, Grigia! Si udí uno strano borbottio. — Ma su, Grigia, — seguitò la Regina. — È possibile che tu abbia paura di mostrare qualche cosa di piú di un occhio e di una ciabatta? Coraggio, Grigia. Grigia si avanzò, nascondendosi la faccia. Aveva il solito grembiule grigio e il solito fazzoletto rosso. Tutta tremante, andò dinanzi a Caterí.

Pagina 61

Il Plutarco femminile

218330
Pietro Fanfano 4 occorrenze
  • 1893
  • Paolo Carrara Editore
  • Milano
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Ma ciò vuole intendersi dell' abuso; chè anzi, quando tale esercizio d'ingegno si faccia per una specie di sollazzo dopo studj più gravi; o si faccia fare, ogni tanto anche a' giovani per aguzzar loro esso ingegno con qualche diletto (il che sarebbe in parte miscere utile dulci, per cui l' uomo fert omne punctum), allora io, non pure nol biasimerei, ma lo loderei volentieri, posto che fosse fatto con parsimonia, nè dovesse rubare il tempo agli esereizj di utilità maggiore: nè so al tutto condannare quegli istitutori, che nel corso del loro insegnamento ci facevano entrare anche questo E ch' io non abbia a esser gran cosa lontano dal vero me ne fa quasi certo il vedere, che gente di sommo valore, non solamente nei tempi moderni, ma anche negli antichi, non reputarono vergognoso alla loro burla il dilettarsi alcuna volta, e lo scrivere di così fatte materie: e ciò mi dà speranza del pari, che non abbia a riuscire sgradito ai lettori, nè abbia ad esserne tacciato di perdigiorno io stesso, se qui, più brevemente che posso, e a modo di onesto passatempo, do un piccol cenno di bizzarrìe sì fatte, e de' loro scrittori principali, acciocchè si abbia, da chi già non l'avesse, notizia di ciò; ed anche di alcuni libretti di non piccola curiosità, bibliograficamente parlando. Gli scrittori di antica erudizione greca ci dicono, i più sommi uomini di quella gente, essersi dilettati ed avere composti enimmi, grifi scirpi, o come e'se gli chiamassero altrimenti. Sappiamo da Cicerone e da Atanco che per antico essi enimmi si proponevano anco di cose gravi e filosofiche: il che ce lo conferma Aulo Gellio in più luoghi. Poi furono più che altro usati nei conviti, dandosi così un premio a chi prima indovinava, per esempio qualcosa di ghiotto lì di sulla tavola, come una, pena agli ignoranti, per esempio una bevanda un po' ostica da tirarsi già ad un fiato. Uomini di altissima fama, come ho detto, ci si dilettarono, e ne proposero essi stessi da sciogliere; e pare che la pigliassero sul serio davvero, se non dice le bugie Plutarco quando racconta che Omero morì dalla stizza di non aver potuto indovinar quell'enimma propostogli da certi pescatori: Que' che pigliammo andarono in malora, que' che non pigliammo gli abbiamo noi. Si ricordano poi Ataneo, da Suida, e da altri parecchj, enimmi di Demetrio Falareo, di Platone, di Apollonio Tianeo, di Pitagora, d' Ansonio, di Diomede, senz' altri infiniti; ed è noto sino ai fanciulli l' enimma di Virgilio: Dic quibus in terris. Ci� mostra che simili esercizj d' ingegno non erano riputati nè vili nè dannosi, se non hanno sdegnato almeno ci sollazzarvisi uomini di tal qualità. Gli enimini più antichi sono sparsi per le opere degli eruditi; ma una formale raccolta ne fece quell'antico poeta latino, passato alla posterità sotto il nome, vero o finto che sia, di Simpòsio. Quegli enimmi sono in esametri assai eleganti, dati fuori la prima volta in Roma nel 1581, con le stampe di Zanetti, da Giuseppe Castello, dedicatola a Tommaso Avalo marchese di Pescara. Ciascuno enimma è di tre versi; ed inoltre alla eleganza vera del dettato, ve ne ha parecchi ingegnosi quanto mai si può dire. Se il lettore erudito vuol avere un saggio, ed anche eserciravi l' ingegno, eccone qui uno, preso come vien viene, che è il quarantesimo: Grande mihi caput est, intus sunt membra minuta: Pes unus solus, sed pes longissimus unus; Et me somnus amat, proprio nec dormio sommo, Ma lasciamo stare gli antichissimi Greci e Latini: lasciamo stare anche l' accenno di questi ghiribizzi, che pur si trova negli antichissimi nostri, come appresso Dante nel madrigale: o tu che sprezzi la nona figura, e presso al Barberino in quel suo giuoco di parole l' erbette son tre lettere, cioè l' R (er) B (be) T (te); per venire al secolo XVI, dove essi presero del campo e moltiplicarono, così in Italia come in Francia. Fino da' primi anni del secolo suddetto, in un libro di calligrafia stampato a Roma, si vede un bell' esempio di Rebus, un intero sonetto composto di figure da tradursi poi in parole. Questo, ch' io sappia, è il primo esempio, salvo la scrittura geroglifica, di giuoco sì fatto; ma non vi è per altro qualificato col nome di Rebus, il qual nome fu trovato in Francia non pochi anni dappoi, forse e senza forse dalla voce latina rebus, ablativo plurale di res, perchè le idee significami rebus non verbis, con cose e non con parole. Ed in Francia più che altrove ebbero corso allora tali bizzarrìe con altre simili, delle quali ci ha un proprio trattato, col titolo Bigarrures du seigneur des Auards, curioso e raro libro, di cui è pregio dell' opera il dar qui breve descrizione. È un grazioso e rarissimo volume, stampato a Parigi nel 1585, in-16, sul cui frontispizio leggesi la seguente cobbola: Tel fora la niche à ce livre, Voyant ce mot de Bigarrures, Que le lisant par adventure Dira qu' il est digne de vivre. L' autore chiama in esso a rassegna tutti i modi di enimmi, grifi, rebus, equivoci, anagrammi, logogrifi, acrostici, ed infinite altre allitterazioni usate fino d' allora; ne fa di ciascuno una breve storia, di ciascuno ne dà parecchi esempj, formando così un libro di circa 500 pagine, che certo è dei più adattati a far passare piacevolmente le ore d' ozio anche alle persone erudite. Primi sono i Rebus detti di Piccardia: poi i rebus per lettere, come sarebbe: g.a.c.o.b.i.a.l. J' ai assez obei a elle; e quelli per figura con note musicali, come appunto si vedono adesso in tanti periodici di Francia e d' Italia. Tra gli anagrammi, ve ne ha degli ingegnosissimi; e così tra' giuochi di numeri, e tra gli epitaffi giocosi, co' quali si chiude il libro. Ho accennato qua sul principio che esercizj di ingegno a questa maniera si accettarono per il passato anche nei corsi di pubblico insegnamento; e di fatto è singolare un' opera composta dal Padre Antonio Forti gesuita, e stampano, a Dillingen nel 1691 col titolo di Miles rhetoricus et poeticus, che è un vero e proprio trattato dell'arte rettorica, della quale opera è parte formale questa della materia onde qui si ragiona, e vi se ne danno precetti ed esempj. Comincia dagli anagrammi cui egli definisce un parto più della fortuna e dalla fatica che dell' ingegno: ne discorre lo stile, i vizj e le virtù; ne reca parecchi esempj, molti dei quali sono veramente curiosi, come Laudator-adulator, Stefano protomartire-santo morto fra pietre; chè santo Stefano fu veramente lapidato. Agli anagrammi seguitano gli eco, gli epitaffi, gli enimmi, ecc., il tutto co' suoi precetti, vizj e virtù, e di tutti biasimatone lo abuso. Gli enimmi per altro furono quelli che ebbero maggior corso e più largo; ed è dilettevolissima un' opera stampata a Francofort sino dal 1599 col titolo di Aenigmatographia, dove, per cura di Niccolò Reusnero, si fa una compiuta storia dell'enimma appresso gli antichi, e si raccolgono quelli de' principali autori del suo tempo, che di quel tempo sono i principali eruditi e letterati. Il volume, che si avvicina alle 500 pagine, si chiude con una parte riservata ai logogrifi, che occupano un cento di pagine, tra' quali ce ne ha de' veramente ingegnosi e graziosi, degni al certo che io ne dia qui un saggio a' letterati intelligenti: Si caput est currit; ventrem coniunge, volabit; Adde pedes comedes; et sine ventre bibes. (Muscatum - Mus - Musca - Muscatum - Mustum) Odasi anche quest'altro, il quale potrebbe chiamarsi logogrifo anagramma: Mitto tibi navem prora puppique carentem; Mitto tibi metulas; erige, si debitas; che vuol dire ti mando nell'ave, perchè navem, toltogli la prima e l'ultima lettera, resta ave, parola di salutazione; e perchè la voce metulas raddrizzata, cioè letta a rovescio, fa salutatem. Presso gl'Italiani per altro furono in voga nei passati secoli i soli enimmi poetici, il più illustre scrittore dei quali fu Antonio Malatesti fiorentino, amico di Milton, la cui Sfinge, che sono tanti sonetti e stanze enimmatiche, ebbe lodi meritate da molti valentuomini, dal Redi specialmente; ed ebbe varie edizioni, fra le quali una di Milano compiutissima, fatta pochi anni addietro, con una assai lunga prefazione dettata da me, con tutto che alla stampa del volume io non attendessi, come si dà ad intendere nel frontespizio. La Sfinge del Malatesti è cosa troppo nota, da dovermi qui brigare di darne notizia ai lettori, che già ne sapranno quanto me: dirò solamente che appena fatta quella edizione di Milano, capitommi un codicetto del secolo XVII, contenente sonetti enimmatici del Malatesti, parecchi dei quali, anzi il più, sono inediti; e non pochi di quelli, già stampati sotto forma di Stanze, si veggono quivi ridotti a Sonetti; nè dispiacerà, mi penso, di averne qui un esempio. La stanza 8ª della parte III, sezione 2ª, così dice nella stampa:

Poi la direttrice, pregando la graziosa fanciulla che aspettasse un momento ad alzarsi "C'è nessuna che abbia nulla da dire? "Io, scapp� fuori una vispa fanciulletta, la più grande delle minori, che si chiamava Egle, ed era tenuta da tutte per un sennìno. "O sentiamo! esclam� la direttrice, facendo bocca da ridere. "Mi pare che non si sia incominciato troppo bene celebrando questa Amalasunta, la quale in fin de' conti era della razza di que' barbari, che vennero a disertare l'Italia. "Apparentemente la dice bene, riprese la direttrice; ma, se ella, e tutte le altre signorine vorranno ricordarsi a che vergognosa condizione si era ridotto l'impero romano e l'Italia; se penseranno che Amalasunta pose tutto l'ingegno e lo studio a ingentilire i barbari suoi Ostrogoti, e a ricondurre in vita la morta civiltà mi penso che tutte si troveranno d' accordo ad approvare che le nostre conversazioni abbiano avuto principio da questa buona e sventurata regina, la quale pu� bene noverarsi tra coloro che diedero la vita per la civiltà italiana." Tutte le ragazze assentirono; allora la direttrice volta al maestro: Mi pare, disse, che lei, signor maestro, avesse fatto cenno come chi vuol dire qualche cosa; e che la vispa Eglina col suo pronto Io, le abbia levato la parola di bocca. E vero? È vero, rispose il maestro. Volevo anch'io rallegrarmi colla signora Elisina, accertandola che anche un letterato già fatto non si vergognerebbe di avere scritto quella vita di Amalasunta: ma volevo anche aggiungere che in essa vita mi hanno un pochino dato nel naso, non dirò tre errori, ma tre inesattezze, le quali non avrei voluto sentir dette da lei, che è tanto diligente e tanto studiosa della proprietà." La signora Elisina, a cui la lode non era dispiaciuta (mala cosa! siam tutti fatti ad un modo), non le dispiacque per altro nemmeno la benigna censura del maestro; anzi con volto lietissimo gli domand� quali fossero i tre errori, a cui il maestro rispose: "Ella ha detto che il dominio degli Ostrogoti cominciò nel IV secolo, cioè nel 493; ma questo è il quinto secolo, non il quarto. Senza dubbio l'ha tratta in errore quella voce quattrocento: se per altro penserà che un secolo e di 100 anni e conter� gli anni ad uno ad uno, vedrà che quando arriva a cento il primo secolo è già compiuto; e quando la comincia a dire cento uno, cento due, e così di seguito, siamo gia nel secondo secolo, benchè la dica cento per prima voce: detto di uno è detto degli altri secoli. Mi ha inteso bene? Sì, signore: la cosa è semplicissima, e bastava pensarci un pochino a non farsi canzonare. "La creda che in questo cascano anche di coloro che la pretendono a maestri. Altra cosa che mi ha fatto mal suono è quell' azzardoso, detto di Teodòto. Le voci azzardare, azzardo, azzardoso, non c' è dubbio che sieno state scritte da qualche valente autore; ma questo non fa che non sieno tutte francesi, e non bisognevoli alla nostra lingua, che ne ha parecchie delle buone a significare l' idea medesima: nel caso di Teodòto poteva dirsi, per esempio, audace, avventato, arrischiato o simili. Un'altra cosa che non mi è piaciuta è quel Teodòto che aveva antipatia alla civiltà qui mi pare eh' ella abbia peccato d' improprietà l' antipatia è passione che nasce spontanea e per prima impressione, e sempre può sostituirsi con la voce aversione scritta con una sola v, perchè viene da averso verbo latino, il quale significa aver orrore o ripugnanza, come appunto fa chi ha antipatia, ecc. Ma Teodòto contrariava la civiltà per suoi fini e per animo perverso, dunque la sua era aversione, era contrarietà, era odiosità, se s' ha a dir così,e non antipatia. E dopo essere stato cheto un pochino, continuò "La vede che queste sono macchie ben leggiere; ma ho voluto notargliele, perchè si avezzi, e lei e queste signorine, a fuggire anche l'ombra dell' errore." La Elisina ringraziò aramente il maestro della lezioncina datale; e la direttrice fece alzare la seconda di età, e a lei assegnò la lezione per la seguente domenica; e poi si partirono tutte liete e festose.

Due raccolte di sciarande e logogrifi ho veduto io a stampa, nè so se altre ce ne abbia, l'una di Prato stampata dal Vespri nel 1835 l'altra stampata a Firenze nel 1857. Questa del 1857 è composta di sciarade e logogrifi tutti dell' autore medesimo; l' altra di Prato è una raccolta di vari autori, che però non si nominano: e ce ne ha parecchie che sono veramente belle, così per la ingegnosa orditura, come per il pregio della poesia: nè ci è da maravigliarsene, sapendo che ed il Perticari e il Giordani, e persino il Monti si sono dilettati a fare sciarade e logogrifi. E dacchè la nominata raccolta pratese, la qual finisce appunto con un logogrifo di Vincenzo Monti, con quello vo' chiudere anch' io il presente scritto.

Pagina 288

Vero è che in questa faccenda dello stile e del periodare c'entra per una gran parte la natura; perchè giustamente si dice che lo stile è l'uomo, nè potrè mai essere eccellente in questa faccenda chi non abbia per natura la mente bene disposta, e ben chiaro il lume del discorso: il qual dono della natura ha avuto lei, signorina, che potrebbe diventare scrittrice eccellente, dove queste doti naturali continuasse a coltivare con assiduo studio, quanto le consentiranno la sua condizione e la sua qualità. Studj dunque di proposito; e così porrassi anche in grado di fuggire certi modi poco eleganti, o idiotismi come fusse per fosse, che è plebeo; e bastimento per nave, legno e simili. La signora Clelia ringraziò caramente il maestro degli avvertimenti che le aveva dato, e promise di studiare con ogni diligenza; e poi, mescolatasi alle compagne, si misero tutte a' loro consueti ragionamenti, finchè venne l'ora di andarsene.

Pagina 87

Al tempo dei tempi

219372
Emma Perodi 1 occorrenze
  • 1988
  • Salani
  • Firenze
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Credo che nessun Emiro abbia mai cavalcato un animale simile. - Costanza, al pari del tesoriere, aveva capito che la vendita del cavallo a condizione che fosse pagato con uno scudo d'oro nascondeva un tranello del re Guglielmo, e poichè non bramava altro che perdere il fratello, si sarebbe disfatta di tutti i suoi monili, che pur le erano così cari, per procurargli quello scudo. Ella attese in giardino che giungesse la sera, e quando il Muezzin, dal minareto della vicina moschea, invitando i fedeli alla preghiera, mandò il solito grido, Costanza ripetè con maggior fervore che mai: - Allah è grande, Maometto è il suo profeta, - e subito aggiunse: - e Cristo è un impostore. - Non aveva terminato di pronunziare queste parole, che il solito uccello nero si appollaiava su un ramo basso di melogranato in fiore e diceva: - Costanza, quello che vuoi domanda. - Domando che a mio fratello sia procurato uno scudo d'oro. - Che lo vada a prendere nella bocca del cadavere del Duca suo padre, dove lo mise un tempo la Duchessa sua madre. - E ce lo troverà? - Ce lo troverà e morrà, e tu avrai le sue ricchezze. - Costanza non volle saper altro. Ella andò nel vasto cortile del palazzo, circondato dal colonnato, in cui l'acqua mormorava nei bacini di porfido e le rose e i gelsomini si avvincevano ai fusti delle palme, e accostandosi al fratello, che sedeva pensoso presso una fontana, con fare mellifluo, gli disse: - Fratel mio; la tua tristezza mi ha tanto amareggiata, e in queste ore trascorse nel silenzio e nella meditazione, la mia mente s'è dischiusa ai ricordi d'infanzia. E ho ricordato d'aver udito dalla bocca della santa madre nostra, che ella stessa aveva messo nella bocca del marito morto uno scudo d'oro. Vai, scoperchia il sarcofago, fruga il cadavere e sarai consolato. - Il duca Roberto s'alzò di scatto, fece sellare il suo cavallo e con una scorta di armati andò al castello di Morvagna, ove nella cappella riposavano a fianco, nei ricchi sarcofaghi, il padre e la madre sua. Vi giunse nelle ore tarde della sera, mentre infuriava un temporale, e subito andò nelle sue stanze e ordinò a tutto il seguito d'andare al riposo. Egli, invece, accesa una torcia, e preso un piccone di ferro, scese nella cappella. La comparsa del lume in quel luogo

C'era due volte il barone Lamberto

219517
Gianni Rodari 3 occorrenze
  • 1996
  • Edizioni EL - Einaudi Ragazzi
  • Trieste
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. — Ha ragione il collega: non ricordo che il barone abbia mai usato la parola «giostra». — Anche quel «giretto», al posto di «giro», mal si addice al suo carattere, alieno da frivolezze e diminutivi. — Lo scritto, — aggiunge un altro, — contiene anche distrazioni assolutamente in contrasto con la mente lucida e concentrata del barone. Difatti, quando si accenna al Prater di Vienna, si parla della Grande Ruota, non di una qualsiasi giostra. — Una giostra è roba adatta, tutt'al piú, alla Fiera di Crusinallo. All'unanimità l'assemblea decide di respingere il messaggio, chiedendone uno in tedesco. — Perché in tedesco? — domanda il capobanda al barone, sottoponendogli la richiesta. — Evidentemente il direttore della mia banca di Vienna, essendo lui quello che deve tirar fuori materialmente i quattrini, vuol essere ben sicuro di aver capito. — Avanti, scriva. — E la penna? — Eccola lí. — No, scusi, quella è la penna con cui ho scritto il messaggio precedente. Io non ho mai usato la stessa penna per piú di un documento. Anselmo, portami una penna nuova. Anselmo obbedisce e il barone scrive, in tedesco: «Gentili signori, con la presente ordino che da tutte le mie banche siano licenziati in tronco tutti gli impiegati che non sanno ballare il tango. Firmato: Lamberto». — Cosa c'entra il tango? — domanda il capo dei Ventiquattro Elle, indicando l'unica parola del messaggio che riesce a capire. — È una parola in codice per dire «miliardo». Non vorrà mica che parli di soldi apertamente. E se il biglietto cade in mano a qualche spia? — Più che giusto, — ammette il capo, dimostrandosi comprensivo. Il messaggio arriva dove deve arrivare. I ventiquattro direttori generali lo leggono ad alta voce e la discussione è aperta. — Siamo alle solite: la calligrafia è indubbiamente quella del barone Lamberto. Anche la firma è la sua. Sono in grado di provarlo. Cosí dicendo, l'oratore mostra una cartolina postale che il barone gli ha spedito l'anno scorso da Miami, Florida. La cartolina passa di mano in mano. Tutti controllano e confrontano la firma con quella del messaggio. — Lo stile, però, rivela una personalità ben diversa da quella che conosciamo. — Esatto. Il signor barone non ama il tango. — Può darsi che non l'ami adesso, perché ha novantaquattro anni, ma che l'abbia amato in gioventú. — Lo escludo. Il signor barone, a memoria d'uomo, ha sempre amato solo i bilanci in attivo, i tassi di sconto, i libretti di assegni e i lingotti d'oro. I presenti applaudono. Anche i ventiquattro segretari cessano un istante di prendere appunti per battere le mani. All'unanimità l'assemblea decide che il messaggio non è soddisfacente e che a questo punto occorre una prova non equivoca che il barone Lamberto è ancora in vita. I banditi dovranno inviare una sua fotografia fresca di giornata. — Gli daremo la fotografia, — acconsente il capobanda. — Anselmo, — ordina il barone, — prendi dalla mia collezione di macchine fotografiche un apparecchio a sviluppo istantaneo e passa ad eseguire. Anselmo scatta la foto, aspetta qualche secondo, strappa il cartoncino. Il barone Lamberto è venuto benissimo. Pare un divo del cinema. Sorride che gli si vedono tutti i denti. Ha un ricciolo che gli ricade sull'occhio destro. — Ora, — dice il capo, — hanno tutto quello che vogliono. gliono. Se non mollano i soldi, mi dispiace per lei, ma il prossimo capitolo sarà piú doloroso. — Non si preoccupi, — risponde il barone Lamberto, ogni cosa a suo tempo. Altro viaggio di Duilio dall'isola di San Giulio al palazzotto della Comunità. I ventiquattro direttori generali si passano la foto di mano in mano senza batter ciglio, in attesa che il barcaiolo esca dalla sala. Appena è uscito, scoppia la tempesta. — Tradimento! Questo non è il barone Lamberto! — Truffa aggravata! Millantato credito e falso in atto pubblico: quest'uomo è un impostore! — Troppo bello per essere vero. — Meno male che abbiamo chiesto la foto. Pian piano la tempesta si calma. Cessano le esclamazioni e si passa alle osservazioni piú attente, alle riflessioni più meditate. — A guardarlo bene, — si sente dire, — qualche somiglianza — con il barone Lamberto c'è. — Dove? — Per esempio... nelle orecchie. — Il vero barone Lamberto è molto piú anziano. Guardino. In cosí dire l'oratore estrae dal portafoglio una fotografia che lo ritrae accanto al barone Lamberto sulla terrazza di un albergo a Lugano. In questa foto il barone si appoggia a due bastoni, ha la faccia di una tartaruga, ha gli occhi sepolti sotto le palpebre, è piú morto che vivo. Subito tutti frugano nei loro portafogli ed estraggono fotografie nelle quali fanno coppia col barone, e il barone non è un giovane sportivo dal ciuffo spavaldo, ma un vecchio signore che sta in piedi solo perché non soffiano i monsoni.

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A vederlo portare il vassoio su per le scale, si direbbe che per tutta la vita egli abbia fatto il cameriere nei grandi alberghi del Lago Maggiore. Quando arriva sul pianerottolo si ferma un attimo, fingendo di aggiustare i tovaglioli arrotolati nei bicchieri. Invece mette nella zuppiera una quantità di sonnifero che farebbe dormire sei locomotive. Eccolo a posto. — Da cosa nasce cosa, — egli canticchia, soddisfatto. — Abbiamo un nuovo cameriere, — annuncia il signor Armando ai suoi compagni. Sorride anche la signora Merlo, che è di turno: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... Nel sorridere si confonde, e dice due o tre volte: — Alberto, Alberto... Nessuno se ne accorge, per fortuna, tranne il nipote Ottavio, che le restituisce il sorriso e scherza: — Non mi chiamo né Lamberto né Alberto, mi chiamo Ottavio.

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Anche il maggiordomo Anselmo, almeno una volta ogni mezz'ora, controlla che lassú, nelle soffitte, il lavoro proceda senza interruzioni, che il nome sia pronunciato esattamente, che ogni sillaba abbia il giusto rilievo, che i sei si guadagnino onestamente il pane e le caramelle. Il barone, in principio, non è del tutto soddisfatto. — Da' retta, Anselmo, — egli si lagna, — la maiuscola non si sente. — Purtroppo, signor barone, non esiste un modo di pronunciare le maiuscole diversamente dalle minuscole. — La lingua parlata ha di queste manchevolezze. — Lo so, ma è ben fastidioso. La «Elle» iniziale del mio nome suona esattamente come la «elle» di lumaca, lucertola, lecca-lecca. È deprimente. Mi domando come abbia potuto tollerare, il grande Napoleone, che la «Enne» del suo nome imperiale avesse lo stesso suono di quella di navalmeccanico, nottolino, natica. — Naso, nausea, nittitazione, — aggiunge Anselmo. — Che vuol dire nittitazione? — L'atto di aprire e chiudere rapidamente gli occhi. Il barone riflette. — Dovrebbero almeno sforzarsi, mentre pronunciano il nome, di vederlo con gli occhi della mente, con la sua grande Elle al primo posto. — Questo si può fare, — dice Anselmo. — Metteremo su tutte le pareti delle soffitte dei cartelli con il nome scritto in stampatello, perché lo vedano mentre lo pronunciano. — Buona idea. Poi bisognerebbe avvertire la signora Zanzi di non tenere cosí lunga la seconda sillaba di Lamberto, smorzando la terza: ne risulta un effetto di belato — «bèèè bèèè» — che bisognerebbe evitare a tutti i costi. — Sarà fatto, signor barone. Se permette, allora, pregherò anche il signor Bergamini di non separare troppo nettamente le tre sillabe del nome. Ne risulta, se cosí posso esprimermi, un effetto da stadio calcistico. Sembra l'invocazione di un tifoso: Lam-ber-to — Lam-ber-to... — Provvedi, Anselmo, provvedi. E da parte loro ci sono richieste? — La signora Merlo vorrebbe il permesso di lavorare a maglia quando è il suo turno. — Concesso, purché non le venga in mente di contare i punti ad alta voce. — Il signor Giacomini vorrebbe l'autorizzazione a pescare dalla finestra della soffitta nord, che guarda a picco sull'acqua. — Ma non ci sono pesci, nel lago d'Orta... — Gliel'ho fatto osservare. Gli ho spiegato che il Cusio è un lago morto. Mi ha risposto che per lui l'importante è pescare, non prendere pesci, e che un lago morto o un lago vivo, per un vero pescatore, sono assolutamente la stessa cosa. — Allora s'accomodi. Il barone si alza, aiutandosi con i suoi due bastoni dal pomo d'oro massiccio, fa tre passi zoppicando (n. 24, zoppia) fino al divano piú vicino e vi si lascia cadere. Pigia un altro bottone e si pone in ascolto: — Lamberto, Lamberto, Lamberto... — Questa è la voce della signorina Delfina. — Sí, signor barone. — Che bella pronuncia. Si distingue benissimo ogni lettera del nome che, come tu Anselmo avrai notato, è composto di lettere tutte differenti. — Anche il mio, se il signor barone permette. — Anche il tuo. E anche Delfina. Sono belli i nomi in cui nessuna lettera compare piú di una volta. Qualche volta sono belli anche gli altri. La povera mamma, per esempio, si chiamava Ottavia, un nome in cui la «t» è raddoppiata e la «a» è ripetuta. Nel suo caso questo suonava molto bene. Però mi dispiace che mia sorella abbia voluto battezzare Ottavio il suo unico figlio. Ottavio comincia e finisce con la stessa vocale. Le due «o» fanno l'effetto di due parentesi. Un nome tra parentesi, che roba... Sarà per questo che l'Ottavio mi è tanto antipatico. Non credo che lo lascerò erede di tutte le mie ricchezze... Purtroppo non ho altri parenti... — No, signor barone. — Tutti morti prima di me, tranne l'Ottavio. E lui sarà li che aspetta il mio funerale, s'intende. Abbiamo notizie del caro nipotino? — No, signor barone. L'ultima volta ha chiesto in prestito venticinque milioni per pagare un debito di gioco. È stato un anno fa. — Ricordo, li aveva persi ai birilli, da quel vizioso che è sempre stato. Be', Anselmo, preparami una camomilla. Il barone Lamberto possiede la piú ricca collezione di camomille del mondo. Contiene camomille delle Alpi e degli Appennini, dei Pirenei e del Caucaso, delle Sierre e delle Ande, perfino delle valli himalayane. Ogni tipo è catalogato in appositi scaffali, con un cartellino su cui sono indicati il luogo, l'anno e il giorno della raccolta. — Suggerirei, — dice Anselmo, — una Campagna Romana del 1945 . — Fa' tu, fa' tu. Un giorno all'anno la villa apre cancelli e portoni e i turisti possono visitare le collezioni del barone Lamberto: quella delle camomille, quella degli ombrelli, quella dei pittori olandesi del Seicento... Arrivano i visitatori da ogni parte del mondo e i barcaioli d'Orta, che li trasportano all'isola con le loro barche a remi o a motore fanno affari d'oro e d'argento.

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Pane arabo a merenda

219806
Antonio Ferrara 1 occorrenze
  • 2007
  • Falzea Editore
  • Reggio Calabria
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A meno che ... tu ... non abbia ...? - Eh, sì. Deve proprio essere lo scarico — risponde la Nasochiuso arrossendo. - Accidenti. Una bella puzza! - Hai ragione — e sospira, fissandosi la punta delle scarpe. - Ti ricordo, mia cara, che in questi casi bisogna subito chiamare l'idraulico! — squittisce nauseata la signora Preziosi mentre infila il paltò e se ne va.