Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNIFI

Risultati per: abbia

Numero di risultati: 40 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Racconti 3

662747
Capuana, Luigi 16 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
  • w
  • Scarica XML

Prendetene uno che abbia cinque, sei legislature; è miracolo se si rammenta di essere legalmente marito. Io sono stato a Roma parecchie volte, ho frequentato il caffè Aragno, il Salone Margherita, l'Olimpia, l'Orfeo ... accademicamente, come si dice, soltanto per averne un'idea; capisce, certe cose non sono piú per me; poi, ci vogliono troppi quattrini. Ed ho visto! ... Ho visto! ... E sono stato anche a Montecitorio, nelle sale dove i signori deputati ricevono gli amici, gli elettori postulanti ... Ed ho visto! ... Ho visto! ... Perché dovrebbero divorziare? Ripeto: essi sono già divorziati di fatto! ... Mi fa ridere! Quando una legge non giova, prima di tutti, a colui o a coloro che devono farla, è naturale, naturalissimo che nessuno mai pensi a farla. E poi, questo divorzio chi lo vuole in Italia? Zanardelli, che è scapolo, se non sbaglio, e qualche altro scapolo come lui ... È curioso che i piú ardenti fautori del divorzio si trovino appunto tra coloro che non hanno moglie e che, a quanto pare, non mostrano neppure l'intenzione di prenderla ... Se fosse perché vogliono sposare le mogli altrui ... O c'è forse bisogno di sposarle? Se le prendono egualmente ... - E gli altri mariti? Non contano dunque gli altri mariti? - A questa vigorosa interruzione, l'avvocato Ponteri tornò a grattarsi piú lungamente la nuca; e con l'aria di chi avventura un'osservazione scabrosa - era timido, molto timido quell'avvocato, che pure, in tribunale o alla corte di appello, investiva con gran violenza i giudici, forse perché convinto di recitare una specie di commedia da darla a bere ai clienti - soggiunse: - Ma il divorzio è anche contro i mariti! Arma a due tagli, caro signore! Io sono disinteressato della quistione. Dovrei esser matto, se pensassi a prender moglie all'età mia ... Secondo il mio debole parere, per certe professioni assorbenti bisognerebbe proclamare il celibato obbligatorio, come ha fatto la chiesa pei preti! Questo non impedirebbe ... e infatti non impedisce ... Porrebbe però, se non assoluto rimedio a certi guai sociali, qualche attenuamento o m'inganno. Forse - c'è da riflettere - i mariti non potrebbero dichiararsene contenti; ma il mondo è fatto cosí: c'è sempre qualche inconveniente anche nei provvedimenti piú savi. Che possiamo farci? È cosí ... perché è cosí ... Secondo il mio debole parere, il meglio sarebbe lasciare le cose come stanno. Che si immagina lei? Sí, col divorzio, lei si libererebbe dalla sua signora, poiché c'è tra loro ... incompatibilità di carattere ... - C'è ben altro signor avvocato! - lo interruppe il cliente. - Dicevo cosí per non richiamarle alla memoria la sua disgrazia,.. E poi? Prenderebbe un'altra moglie? Giacché, come suol dirsi, chi ha bevuto berrà; chi ha sposato, sposerà. Il maggior contingente nelle liste dello stato civile è fornito da vedovi e da vedove che ritentano spensieratamente la prova ... E lei si troverebbe - non è improbabile - daccapo! Che sugo c'è? Me lo dica. - Dunque, neppure divisione di beni e persona? - Niente, secondo il mio debole parere. Vede? Parlo contro il mio interesse. Dovrei incoraggiarlo a far la causa. Non è di quelle che si spicciano in quattro e quattro otto; e lei, fortunatamente, è fra coloro che possono spendere. Mi ha detto: «Combini lei, faccia tutto lei; accetto anticipatamente quel che lei avrà stabilito». Un bel margine per un avvocato di coscienza elastica. Ma io, dev'essersene accorto, sono avvocato sui generis. Prima che ai miei onorari, penso ai clienti. Torni a sedersi; ragioniamo -. Il signor Costa cedette, suo malgrado, all'invito, e posò sui ginocchi il cappello a cencio per aver qualcosa tra le mani con cui sfogarsi mantrugiandolo durante la discussione. - Sissignore, ragioniamo - riprese l'avvocato che intanto si era messo a rassettare alcune carte su la scrivania, quasi dall'ordine di esse dovesse egli attingere uguale ordine nelle idee. - In primis et ante omnia, lei non ha prove lampanti. - Ho qualche cosa di meglio: la confessione di mia moglie! - Confessione! In un impeto di sdegno, ella ha esclamato: «Sí, sí! Ti ho fatto ... !» Ma è proprio vero? Le donne, dovrebbe saperlo, sono capaci di tutto, anche di accusarsi di colpe che non hanno mai commesso, pur di vendicarsi di qualche torto o preteso torto. Infine, gliel'ha confessato soltanto a quattr'occhi. - A quattr'occhi, ma non avrà l'impudenza di negarmelo in faccia. - L'avrà; ne stia certo. So di mogli sorprese in circostanze tali che il negare parrebbe impossibile, e che pure hanno negato ... Le donne! Chi ne capisce niente? E poi, lei ha avuto la debolezza di perdonare una prima volta ... - Pro bono pacis. - Forse non aveva la coscienza netta neppur lei ... M'inganno? - Questo non vuol dire! Il marito ... è altra cosa. - Ragionamento interessato, da mariti, e che per le mogli non ha valore. Non ha valore anche moralmente. Diritti uguali, doveri uguali ... C'è la quistione dei figli introdotti surrettiziamente, come diciamo noi legali, nella famiglia. La cosa è dubbia. So di fisiologi che pretendono di aver scoperto un bell'artificio della natura per impedire questo inconveniente. Secondo costoro, una donna è fecondata, una volta per sempre, dal primo che la possiede. In questo caso, niente figli adulterini. Anche i figli del secondo marito appartengono, fisiologicamente, al primo ... La sapienza della natura è infinita; sembra che essa abbia preso le piú solide precauzioni contro il malvolere degli individui. In questo caso, i mariti di che possono lagnarsi? Sono anticipatamente assicurati. Accade soltanto, per dirla col codice, un momentaneo turbamento di possesso; cosa da niente. Nel suo caso, non si tratta d'altro; lei non ha figli. Ha perdonato una prima volta ... ? E torni a perdonare! - Ma i miei guai provengono appunto da cotesta mia debolezza. Mia moglie non sa perdonarmi di averle perdonato. Da quel giorno non ho avuto piú pace! La mia vita è un continuo inferno. La piú dolce parola che ella mi regala è: «vigliacco!» ... Dice che avrei dovuto ammazzarla e ammazzar lui, il suo complice. Ecco perché mi chiama vigliacco! Non è piacevole, punto, sentirselo ripetere cento volte al giorno, a ogni minima occasione. Da quella volta, io non sono piú marito, sono un essere spregevole per lei, un povero diavolo continuamente in cimento di commettere davvero l'eccesso che mi si rimprovera di avere evitato. Fortunatamente, non sono di natura sanguinaria io. - La picchi per lo meno; a qualche cosa gioverà. - Gentiluomo, mi vergognerei di aver alzato la mano a percuotere una donna. Lei non conosce mia moglie. È tale, che l'accopperebbe un buffetto. Magra, allampanata, pelle e ossa ... Ha forte la lingua. Oh! tutta la sua vitalità si è radunata nella lingua. Voglio dirglielo, in confidenza: io compiango il suo complice; non capisco ... Ho dovuto ricorrere alla ipotesi che mia moglie abbia qualità amatorie nascoste, e che io non ho potuto scoprire, per spiegarmi che c'è stato un uomo capace di farle la corte e di diventare suo amante ... Ho perdonato per questo, probabilmente. Il mio rivale mi è parso castigato a bastanza dal solo essere potuto diventar mio rivale! E se ho rimorso, è di aver interrotto quella relazione ... Giacché mia moglie è ridivenuta virtuosa, eccessivamente virtuosa; ha onta del suo passato. Dice che non sa spiegarsi neppur lei come sia avvenuto che ... E per ciò non sa perdonarmi di averle perdonato! Potrei andar via di casa; ridurmi, come quand'ero studente, in una camera mobigliata, a mangiare in trattoria o in una pensione ... Sarebbe peggio. Per ora, le scenate accadono in famiglia; hanno per testimoni la cameriera, le persone di servizio ... È impossibile evitare che essi non odano e non veggano. Mia moglie non mi rispetta neppur davanti a loro; è inesorabile! «Vigliacco! Vigliacco!» Cento volte al giorno ... e anche la notte! Dormiamo divisi; lei, nel letto matrimoniale; io, in un lettuccio, tre stanze piú in là. Ebbene, una notte sí e una notte no, spesso tutte le notti, per settimane di seguito, la sciagurata viene a urlarmelo dietro l'uscio: «Vigliacco! Vigliacco!» E dice che mi inseguirebbe fin in capo al mondo, se io andassi via ... Legalmente, posso impedirle di venirmi dietro, finché non intervenga la legge per dividerci di beni e persona? Allora ci saranno le guardie di questura, i carabinieri che le faranno intendere ragione. «Ha perdonato! Perdoni un'altra volta! ... » Ma io le perdonerei anche cento volte, se potessi chiuderle la bocca! Oramai, quel che è stato è stato! Momentaneo turbamento di possesso, dice lei. Sia! Veramente non si tratta d'un fondo, d'una casa, di un mobile; la moglie è parte di noi, metà, talvolta piú di tre quarti ... Io le volevo tanto bene! ... Se le ho fatto qualche torto, è stato quasi senza accorgermene ... Una o due volte ... . per non recitar la parte del casto Giuseppe ... Avrei voluto veder lei nel cimento! ... E dopo, non me ne davo pace. La colmavo di regali, per compensarla ... Si compensava da sé, e non lo sapevo! La tresca, per sua confessione, è durata piú di un anno. Mi ha confessato pure che la mia cecità le faceva rabbia ... Che quando, finalmente, apersi gli occhi, lei si sentí sollevata da un gran peso ... Si attendeva il gastigo ... Lo voleva, lo esigeva ... per sé e per colui che l'aveva indotta a fallire! ... E, vistasi delusa, sentitasi perdonata, potevo capitar peggio? «Vigliacco! Vigliacco!» Caro avvocato, non ne posso piú! È vero: sono stato vigliacco, ma non voglio sentirmelo dire! ... E certe volte m'incito da me: «Vuol essere ammazzata? E ammazzala, e falla finita!» Sono risoluzioni che si prendono lí per lí, nel caldo del momento, o non si prendono piú. - La picchi! E per bene! Vedrà! Vedrà! - suggeriva tranquillamente l'avvocato. - Si provveda di un poderoso nerbo di bue; sua moglie - l'ho bell'e capito - è di quelle che per stimarsi amate han bisogno di essere picchiate. Una, due volte la settimana, da lasciare i lividi. Vedrà! - «Ah! sí? Vigliacco?» «E donde vieni?» «Vengo dal mulino». Non c'è altro rimedio. Il signor Costa lo guardava come chi non intende se uno dica per scherzo o per davvero. Ma l'avvocato Ponteri era serissimo. - E, ove neppure il nerbo di bue giovasse? - domandò il signor Costa, esitante. - Me ne darà notizie da qui a un mese. Se però il mio consiglio avrà portato buon frutto, pensi che un onorario sarebbe poco; ci vorrà il palmario. Lo pretendo -. Due mesi dopo il signor Costa gli presentava un bel cronometro con doppia cassa in oro e pesante catena. - È il suo palmario, avvocato! Ma per lei - soggiungeva - varrà assai piú la mia gratitudine. È immensa!

Questo però non vuol dire che Emilio Roxa non abbia potuto scoprire o creder di scoprire in lei qualità tali ... L'amore consiste appunto in cotesta virtú, diciamo, creativa; nel vedere quel che gli altri non vedono, nell'indovinare quel che gli altri non sospettano neppure; nel tirar fuori ex nihilo cose che acquistano esistenza soltanto per chi ama, e che diventano reali perché reale è quel che noi, sia pure per effetto di allucinazione, stimiamo reale; psicologia positiva che voi stesso, metafisico arrabbiato, non potrete negare. Intanto passano due anni di matrimonio senza che un figlio o una figlia vengano a rallegrare la loro unione. Voi ed io avremmo pensato: «Tanto meglio!» Ma noi siamo corrotti dalla civiltà. Emilio Roxa, al contrario, è un barbaro, un primitivo, un uomo perfettamente naturale: vuole un figlio o una figlia. Stima che il matrimonio sarebbe un atto senza scopo se non dovesse produrre altri esseri e perpetuare la specie ... Nei due anni di vana attesa che il lieto avvenimento si compisse, il desiderio diventava angosciosa fissazione. Egli pensava spesso alla grande gioia da lui provata parecchi anni addietro quando gli era nato un figlio da una relazione equivoca, e al profondo dolore prodottogli dalla morte di quel bambino ... Dunque il difetto non stava in lui ... Gli repugnava però di condurre sua moglie in un gabinetto di medico per accertarsi ... Voi ed io, in simile circostanza, ci saremmo contentati di attendere ... Lui no. Pensava che la scienza forse aveva mezzi di correggere le imperfezioni dell'organismo, di rimuovere ostacoli, di provocare attività addormentate. E un giorno ... Accade spessissimo cosí. Si cerca una spiegazione che avvalori un nostro sospetto, e se ne trova un'altra precisamente opposta, che vi fa cascare dalle nuvole. Qui Roxa si rizzò sul busto, si passò rapidamente le mani sul viso e sí ficcò le dita tra i capelli, quasi si sentisse assalito da commozione improvvisa e ne avesse stizza. Io che, mentre egli parlava, non avevo cessato un solo istante di tener d'occhio il suo naso rivelatore, scorgevo in un replicato arricciamento di esso la vivace espressione di quella stizza, e n'ero stupito. Roxa si accasciò nuovamente, piú abbattuto di prima. Povero Roxa! Non aveva neppur forza di proseguire. Avrebbe mai potuto imaginare che quella magra, quasi brutta e assolutamente insignificante, non ostante ch'egli si fosse lasciato indurre a sposarla e le volesse bene ancora dopo due anni di matrimonio e dopo la delusione dell'agognata genitura ... ? Avrebbe egli mai potuto imaginare che vi sarebbe stato al mondo un altr'uomo capace di farsene un'amante, come egli se n'era fatta una moglie? Avrebbe mai potuto imaginare che quella donna concepisse la maligna risoluzione di dimostrargli che l'ostacolo, no, non era in lei? ... Infelicissima idea, in verità, la viva insistenza di Emilio: «L'ostacolo è in te! L'ostacolo è in te!» Pur troppo la vanità (non la tentazione diabolica, com'egli supponeva) perde sovente un galantuomo! Eppure io non credo che la signora Roxa abbia avuto la perversa intenzione di una vendetta; credo piuttosto che ella abbia agito con animo sicuro, convinta dal marito che appunto l'«ostacolo» stesse in lei e che quindi non c'era da temere, in ogni caso, che ne venisse fuori la dimostrazione contraria. Quell'altro era inquilino della stessa casa, uscio a uscio, scapolo e collega di Emilio nella quarta divisione al ministero della guerra. Passavano le serate insieme, distraendosi con interminabili partite di scopa, fumando, bevendo qualche bicchiere di vino, chiacchierando, facendo un po' di maldicenza ... L'occasione, dicono, fa l'uomo ladro. Veramente il proverbio non mi sembra giusto, perché i veri ladri cercano l'occasione; ma lasciamo andare! Senza dubbio fu l'occasione che fece prevaricare la signora Roxa. E quando ella ebbe la sorpresa e la certezza ... A questo punto, caro professore, Emilio Roxa, oh! non raccontò piú, rappresentò la tragica scena. Io assistei a qualcosa di scespiriano interpretato dal Salvini dei migliori tempi! Scena indimenticabile, caro professore! Riveggo Emilio con quel viso di stupore animalesco, quasi la ragione gli si fosse annientata nel cervello, mentre mi ripeteva, imitandone fin la voce, le parole di sua moglie: «Sai, Emilio? ... Credo ... che il Signore ci ha fatto la grazia!» «Proprio, il Signore! Proprio, la grazia!» Le donne hanno a dirittura la privativa di certi mirabili eufemismi! Che cosa poteva risponderle? ... Avrebbe dovuto saltarle al collo, strozzarla per quella sfacciataggine! ... E allora? Egli si sarebbe smentito da sé. E c'era inoltre il fatto - Emilio non aveva resistito alla vanità di ripeterglielo parecchie volte - c'era il fatto del bambino avuto, nella prima giovinezza, da una di quelle donne che non si sposano e della paternità del quale egli non poteva dubitare ... - bambino bello come un angiolo e che pareva precisamente il suo ritratto ridotto in piccole proporzioni. - Poteva egli confessarle ora che, dopo una sciagurata malattia ... ? A quell'età si è imprudenti, non si bada a pericoli «Ma, dottore, è possibile? Non s'inganna?» «Ormai è un fatto accertato dalla scienza. Sí! Sí!» Gli tornava in mente la consultazione di due anni avanti, e rivedeva la seria figura del dottore che insisteva: «Sí! Sí! ... » Ed ecco, caro professore, la terribile situazione presente! Che dovrà fare il povero Emilio? Il figlio ... di quell'altro ... sta per nascere ... Emilio non ha forza né coraggio di disdirsi, dopo aver quasi rinfacciato tante volte alla moglie: «L'ostacolo è in te!» né trova modo di far valere la sua dignità offesa. «La colpa è mia! ripete, la colpa è mia!» E, in verità ... Per ciò egli lascia correre per ora. E con sua moglie finge di credere che il Signore, finalmente, gli abbia fatto la grazia; e non osa di chiudere in viso a quell'altro la porta di casa! Io mi atterrisco pensando quel che può accadere da un momento all'altro: una strage, forse! Un suicidio, forse! - Forse niente di tutto questo, dite voi, caro professore. Indovino? In certi momenti, riflettendo bene, quel naso mi rassicura. Non mi par naso da suicida o da assassino. Son sicuro che esso mi darà occasione di scrivere le piú belle e piú profonde pagine della mia Psicologia positiva del naso ... A questo mondo, caro professore, c'è sempre qualcuno che guadagna con le disgrazie degli altri!

Mettiamo pure, semplice ipotesi, che mia moglie - in un momento di debolezza femminile - abbia commesso il fallo che le si addebita! Giudice naturale, inappellabile, dovrei essere io, suo marito ... Marito da cinque anni, non da tre come il suo corrispondente si è incaponito a sbagliare; ma, de minimis non curat prætor ! Cinque anni di felicità domestica, rallegrati da due figli, un maschio e una femmina, e da un disgraziatissimo aborto, mi danno il diritto - seguito la ipotesi - di giudicare a modo mio quel che può essere accaduto nel santuario della mia famiglia. C'è stata profanazione? Sia. Ma se io non volessi accorgermene? È precisamente come se non ci fosse stata. E quando non me ne accorgo o fingo di non accorgermene io, gli estranei dovrebbero riflettere: «Giacché lui ... etc.!» Ragionamento che non fa una grinza. «Ma la suocera ... !» scrive il corrispondente. Ah! Lei non conosce che terribile animale sia mia suocera. Pur d'infamare me, costei non guarda se infama peggio sua figlia. Lo so, essa pretende che io abbia spinto al mal passo quella buona creatura coi miei vizi, coi miei maltrattamenti, con la mia inqualificabile trascuranza. Mettiamo anche - per semplice ipotesi - che ciò sia vero. Sarebbe una scusa per una moglie onesta? Un'attenuante forse; e concedo troppo. E una mamma che conosce il suo dovere non cercherebbe simili attenuanti, quando si tratta della propria figlia; negherebbe, negherebbe arditamente, assolutamente. Le attenuanti, come mi insegna lei che è avvocato, sono una conferma bell'e buona! Da questo giudichi mia suocera! Già, se lei la vedesse, se la sentisse strillare e sbraitare, costei non parla; strilla, sbraita ad ogni occasione, in ogni circostanza, sgranando gli occhiacci, agitando mani che sembrano granfie, Dio ne scampi! - lei esclamerebbe: «È una diavolessa!» Io, piú remittente di lei, la chiamo: strega. E mi basta. E il suo corrispondente ha la faccia tosta di scrivere: «quella gentile e affettuosa signora!» Egli mentisce, sapendo di mentire, come suol dirsi! «Ma c'è il ... terzo incomodo, l'amico intimo!» scrive il corrispondente. Se sia incomodo o no, dovrei saperlo io. Incomodo non è e non è mai stato, altrimenti lo avrei preso per le spalle e lo avrei messo fuori dell'uscio da un pezzo. Siamo amici d'infanzia, indivisibili. Io ho preso moglie, lui no. Che vuol farci? È rimasto scapolo impenitente, per le sue strambe idee intorno al matrimonio e alle donne, idee che non sono riuscite a convincermi in tant'anni, pur sentendogliele ripetere ogni giorno. L'amicizia, la vera amicizia è fatta di tolleranza reciproca. Io l'ho lasciato pensare e agire a verso suo; e quando gli annunciai la mia risoluzione: «Prendo moglie!» il mio carissimo amico non fiatò per tentare di dissuadermi. Mi rispose soltanto: «Prendiamola pure!» Intendeva di dire: «Prendila, e fa' il comodo tuo!» Ma il suo corrispondente scorge in queste parole una malignità anticipata, una cattiva premeditazione. «Datemi due righi di un galantuomo e ve lo faccio impiccare!» diceva ... diceva ... chi? Voltaire? Insomma, qualcuno che conosceva bene i suoi polli, cioè la gente. E cosí mi si vorrebbe spingere ad impiccare il mio amico per due innocenti parole che proverebbero piuttosto la nostra grande intimità, se non fossero un semplicissimo modo di dire: «Prendiamo!» Chi l'ha presa infatti? Io, al municipio; io, in chiesa. Colui era là, da testimone; ma il «sí», il famoso «sí» l'ho pronunciato io. Lui non ha aperto bocca. Per ciò quel «prendiamo» non significa niente. Doveva egli attendere cinque anni per finalmente giustificarlo? Sono cose che possono passare soltanto per la testa bislacca d'un imbecille come il suo corrispondente o di una strega come mia suocera di lui ispiratrice! Penso: «Che cosa avrebbero detto, se per caso avessero saputo ... ?» Apprenda che mia moglie è stata un anno e mezzo, diciamo cosí, indecisa, prima di allietare la nostra casa con la procreazione di un bambino. Io n'ero addolorato; no, non è la parola; n'ero estremamente mortificato. Si prende moglie appunto per la gran sodisfazione di poter esclamare: «Ecco qua!» Ed era già un anno e mezzo che questa esclamazione mi rimaneva in gola, quasi a soffocarmi. Mi compatisca. Veramente bisogna esser mariti per comprendere certi sentimenti, e lei, tuttora scapolo, non potrà figurarsi la mia gioia quando ebbi la certezza che mia moglie si era, tutt'a un tratto ... decisa. Ebbene, allora io dissi al mio caro amico: «Terrai a battesimo il bambino o la bambina, quel che sarà!» Rispose con un gesto di rifiuto. Creda, me lo ebbi a male e volli una bella spiegazione. Dovetti insistere per ottenerla. «Ma, sciocco - egli mi disse - come non capisci che, con la nostra intimità, mi parrebbe di tenere a battesimo il mio proprio figliuolo? La chiesa lo vieta». E gli diedi piena ragione. «Scrupoli di coscienza! ... Rimorsi! ... » avrebbero certamente comentato quella strega di mia suocera e il suo pappagallo della «Gazzetta». Non dubiti, vedrà, lo diranno ora. Ed ecco con che fragile materiale vengon rizzati certi edifizi che proiettano la fosca ombra della calunnia su la reputazione di un galantuomo! Ed ecco con quali miserabili induzioni si sconvolge la pace d'una famiglia, e si tenta di spezzare i solidi anelli della forte catena di un'amicizia d'infanzia rimasta intatta durante le varie vicende di lunga serie di anni! Eh! Non sono piú giovane, signor direttore; e neppur lui, il mio intimo amico. Stiamo per volger le spalle alla quarantina. Io, se lei mi conoscesse di persona, le sembrerei un po' piú vecchio. L'apparenza inganna; invece, il mio amico, che sembra meglio conservato, ha tre mesi e mezzo piú di me. Ma ogni volta che gli dico: «Non puoi levarteli d'addosso neppur col rasoio!» si arrabbia, sul serio, tanto che mia moglie, giorni fa, dovette intervenire, in mia difesa ... Oh, un altro equivoco! Mia moglie lo ha sempre trattato con deferenza, sí, ma insieme, con un che di rigidezza, secondo me, alquanto inopportuna, e che avrebbe dovuto essere sufficiente per tagliar corto a tutte le calunnie messe in giro dalla strega e dal suo pappagallo. (Non voglio piú chiamarli altrimenti, lei deve permettermelo). Sicuro, un altro equivoco. Se essi lo sapessero! ... Lo apprenderanno da me. Dunque, giorni fa, io, che talvolta divento un po' seccante, (lo confesso!) per ridere, si capisce, ripetevo al mio amico: «Neppur col rasoio!» Chi sa che diamine d'impressione gli producono queste parole! È inesplicabile che un uomo serio come lui, un uomo che ha letto tanti romanzi ed altri libri, e che divora almeno cinque o sei giornali la mattina e altrettanti la sera (io n'ho d'avanzo del «Messaggero») è inesplicabile, dico, che un uomo serio come lui possa prender cappello per quelle insignificantissime sillabe: «Neppur col rasoio!» Ma è un fatto; egli prende diabolicamente cappello; e allora gli scappano di bocca ... Insomma, giorni fa, mia moglie fu talmente colpita da questa stranezza che dovette intervenire in mio favore, lanciandogli in viso sdegnosamente e replicatamente: «Sei uno stupido!» E siccome io non seppi frenare un movimento di sorpresa e di maraviglia a quell'insolito «sei», mia moglie si corresse subito e si scusò con l'amico: «Mi sembrava, perdoni, di parlare con lui!» Lui ero io! Che risate! ... E piú di tutti ridevo io che avevo visto l'amico far certa faccia all'esplosione di mia moglie. Non se l'aspettava ... Che risate! Ma veniamo al fatto, al gran fatto, cagione dell'ultima sbrodolatura del corrisp ... no, del pappagallo di quella strega di mia suocera. Badi, signor direttore; mi stampi questa rettifica senza cangiarvi una virgola. Rispondo io di tutto, caso mai, carcere e multa; non abbia timore. C'è Alfredo Rocca qui presente e scrivente che assume ogni responsabilità ... Veniamo dunque al gran fatto! Sí, è vero, ho gridato, ho chiamato gente! E molte persone sono accorse, credendo che si trattasse di ladri o d'incendio. Ma, premetta che ci si vedeva poco a quell'ora, e che in casa non avevano ancora pensato ad accendere i lumi. Premetta anche che la donna di servizio era scesa giú e avea lasciato l'uscio aperto. Non ne fa mai una diritta quella cretina! Io tornavo a casa col penultimo numero della «Gazzetta» in tasca. Se volessi darle a intendere che non ero agitato, mentirei. La lettura di quel; Ci scrivono da Brusca (quarto o quinto Ci scrivono? ) mi aveva indignato ... Infilo l'uscio aperto ... Inciampo, nell'anticamera, allo scuro, in quell'ammasso di carnaccia floscia che è mia suocera ... Urli! Strida! Quasi io lo avessi fatto a posta! ... E allora, uno strillo di là, in salotto! ... Si metta un po' nei miei panni, signor direttore! Tornavo a casa con la fantasia sconvolta, perché certe accuse, appunto perché calunniose e stimate tali, fanno maggior effetto sur un galantuomo. Si metta un po' nei miei panni ... Un forte strillo di là, nel salotto, e un gran rimescolio di seggiole, di tavolini! ... Che avrebbe creduto lei, dopo aver trovato aperto il proprio uscio tenuto abitualmente chiuso? Un quarto d'ora dopo, tutto era spiegato! Mia moglie e il mio amico - arrivato allora allora in cerca di me - oh! cose da bambini - stavano combinando di farmi un po' di paura appena sarei entrato, al buio, in salotto ... - Oh! cose da bambini! - Ma, per mia suocera, tutto è stato un bieco tranello ordito da me, da lunga mano ... Perché? Per disonorarmi da me stesso? Per vendicarmi? ... E poi? ... Se non mi son vendicato di nulla, vuol dire che non avevo da vendicarmi di nulla! È chiaro? Il corrispondente ... mi è scappato! Volevo chiamarlo unicamente pappagallo della strega; ma sono sempre in tempo: il pappagallo della strega e la strega possono essere ben contenti dell'opera loro! Io sono felice di essermela tolta, in questa occasione, di fra' piedi! Sono felice di veder già resi piú solidi i nodi della mia amicizia d'infanzia, e di veder sparita - mi faceva rabbia - quella rigidezza inopportuna con cui mia moglie trattava il mio amico. «A dispetto dei calunniatori - gli ho detto - datevi del tu, fraternamente!» E già se lo danno, a tutto pasto! Dopo questa lezione - La capirà? Ne dubito! - il pappagallo della strega non aprirà piú becco. In quanto ad essa, strilli, sbraiti pure! Mi dispiace solamente che io sia stato tirato pei capelli a far questa rettifica che mette le cose a posto, e a ingombrare per forza parecchio spazio della «Gazzetta». È la prima volta che mi capita, e spero che sia anche l'ultima. Pel giornalismo, non me la sento; ci vogliono degli imbecilli come colui che le ha scritto da Brusca. Lei, oh! lei è un'altra cosa; lei è giornalista per ... forse non lo sa nemmeno lei perché. È qualcosa di meglio: avvocato! Con ringraziamenti ed ossequi dev. ALFREDO ROCCA

Appunto ho ricercato in parecchi vocabolari se mai vi si trovasse una parola che non significhi soltanto la cosa, ma che abbia la stessa forma. - C'è: «Piantime», voce generica. Vorrei qui un fiorentino, un senese, un toscano qualunque per domandargli se esiste un vocabolo simile a quello con cui s'indica, nel dialetto siciliano, piú precisamente, il piantime dei cavoli e delle lattughe. Noi diciamo: «cavolina», «lattughina» le pianticelle nate dal seme e che poi, sbarbate, si ripiantano. La «mulierina» indicherebbe le ragazzine da tirar su per amanti a tempo opportuno. Non è fina, gentile e anche supremamente espressiva? E ora intenderete bene quel che il mio amico faceva. Era un famoso inseguitore di popolanine, di quelle che già mostravano piú palese l'istinto della civetteria. Ne aveva per le mani piú di mezza dozzina alla volta. Se no, avrebbe egli potuto parlare di «mulierina»? E con che serietà ragionavamo di tali ... conquiste per modo di dire! Uscivamo di scuola, coi libri sottobraccio - egli aveva sedici anni, io quindici! Si tratta di storia antica, di piú di mezzo secolo fa! - e ci appartavamo subito dagli altri ragazzi per discorrere dei nostri ... affari di cuore. - Fermiamoci qui - egli mi disse una mattina. - Vedrai che scoperta! - Un'altra? - Bellissima. Ripassa per questa via, tutti i giorni, alla stessa ora. - Ecco la «bruna!» - feci io. - Fingiamo di non accorgercene; potrebbe darsi che sopravvenisse l'altra ... - La «bruna» era una ragazzina di quattordici anni, la meglio addestrata tra quelle che formavano la «mulierina» del mio amico. Aveva già vinto il ritegno di fermarsi a discorrere con lui; lo attendeva al passaggio, quando egli tornava da scuola a casa; sapeva l'ora, e indugiava a riportare alla sua mamma la risposta per cui essa l'avea mandata in qualche posto o l'oggetto che era stata incaricata di andar a comperare. Scambiavano poche parole, quasi sempre le stesse. - Come stai? D'onde vieni? Mi vuoi bene? Ci rivedremo piú tardi? - E lei andava via contenta, orgogliosa di quella scappatella; e lui si dava con me certe arie! ... Aveva ragione. Io sarei stato incapacissimo di fare altrettanto. Egli diceva di prepararsi cosí «l'avvenire». - Un giorno o l'altro quelle ragazzine sarebbero cresciute, avrebbero preso marito -. Calcolo diabolico! penserete. Vi assicuro che non n'è seguito mai niente di male. La «mulierina» venne poi trapiantata ... e non fu il mio amico colui che, per modo di dire, mangiò la pianta assiduamente coltivata. Sic vos non vobis ! Sapeva anche Emilio quest'emistichio virgiliano, ma non si curava di riflettere se le circostanze lo avrebbero applicato a lui. Il suo gran diletto consisteva nel coltivare la «mulierina». Ve lo ripeto: fanciullaggini! - Fingiamo di non accorgercene - aveva detto. Ma la «bruna», niente intimidita dalla mia presenza, si accostò per comunicargli sotto voce non so che cosa. Emilio rispose un po' brusco, con gli occhi in fondo alla via. Aveva già visto l'altra, la «bellissima», che veniva avanti, avvolta nella mantellina di panno blu scuro, col vestitino di mussola azzurra picchiettato di pisellini bianchi, e un mazzolino di rose in mano che metteva una macchia sanguigna tra l'azzurro della veste e il blu scuro dei lembi della mantellina. La «bruna» si era allontanata diffidente, voltandosi piú volte addietro; si era fermata un istante a discorrere con la «bellissima» - si conoscevano - e le aveva domandato di quel mazzolino di rose; lo capimmo dal gesto con cui l'altra lo nascose rapidamente, quasi per sviare quella curiosità. Emilio fremeva; io ero ansioso come allo spettacolo di un gran dramma. A certa età, cose insignificanti prendono importanza che ora ci fa sorridere di compassione. La «bruna» già sospettava? Fatti pochi passi fermatasi di nuovo si era voltata addietro a osservare. E la «bellissima» - Emilio non aveva esagerato - passò via, con tal sorriso negli occhi - soltanto negli occhi - che io non l'ho piú dimenticato. Nel passarci dinanzi però, lasciava cascar per terra il mazzolino delle rose. - Grazie! - disse Emilio. E si chinò a raccoglierlo. La «bruna» aveva visto tutto; s'era mossa quasi per venire a chiedere spiegazioni; poi fatta una spallucciata, avea continuato per la sua strada. - E ora? - feci io. - Non me n'importa! - esclamò Emilio. - Come le sorridevano gli occhi! - È la sua gran bellezza. La chiameremo «Sorrisino», per intenderci quando parleremo di lei -. Fanciullaggini! Intanto è vero, pur troppo, che non bisogna scherzare, non che col fuoco, nemmeno con la «mulierina», che parrebbe la cosa piú sciocca e piú innocente di questo mondo. Ed è anche vero che le ragazzine, non ostante l'età, sono donne compiute. Come sia accaduto ora non lo ricordo bene, ma ricordo che qualche settimana dopo la «bruna» si vendicava del mio amico mettendosi a civettare con me. Io avevo esitato ad accettare le sue piccole grazie di occhiatine dolci, di saluti ... Ma Emilio, da ricco signore ... e anche per togliersi un impiccio, mi aveva incoraggiato a corrisponderle e a intraprendere, come lui, la coltivazione della «mulierina». La mia invincibile timidezza m'impedí di fare altra prova. «Sorrisino?» Oh! Era precoce piú di tutte le altre. Queste civettavano, quasi giocavano all'amore, come per fare il verso alle adulte; lei, invece, si era subito innamorata davvero ... E quando vedeva Emilio diventava tutto un sorriso, negli occhi, nelle labbra, direi nell'intera personcina esile e slanciata. Pareva che il sorriso le svampasse come una bella fiammata accesasi nel cuore e che avvolgesse da capo a piedi il suo delicato corpicino. Io dicevo ad Emilio: - Dovresti contentarti soltanto di lei! - Ma ormai egli aveva preso quell'aire; aveva istinti da sultano, che turbavano la mia ingenuità ... Quanto eravamo diversi allora dai giovinetti del giorno d'oggi! E di quanto poco ci appagavamo! Emilio, quando dopo molti stenti riusciva a strappare un bacio a qualcuna, credeva di aver fatto una prodezza da gran seduttore. Al giorno d'oggi, c'è giovanini di sedici anni, che prendono posa di stanchi, di seri, di nauseati delle donne! ... Ha progredito la società, non c'è che dire! Eravamo in progresso anche noi, come si lamentava mio nonno. Ai suoi tempi - egli assicurava - giovanottoni dai diciotto ai vent'anni, facevano il chiasso per le vie e le spianate, giocando alle piastrelle, a capanniscondere ... Io non mi lamento; ricordo soltanto ... Il mondo muta: lasciamolo fare! «Sorrisino» dunque s'era innamorata davvero. Non aveva atteso che Emilio le rubasse un bacio come alle altre. Gli avea buttato lei le braccia al collo, una sera, in un cantuccio di via deserta - allora non c'era fanali - ed era scoppiata in pianto dirotto, annunciandogli che non si sarebbero piú trovati insieme. Era cresciuta e la sua mamma aveva deciso di non mandarla piú attorno cosí sola! - Passerò io per la via, tutti i giorni, dopo scuola. La domenica ci rivedremo alla messa cantata! - E quel via vai durò un anno! Io accompagnavo Emilio. Bisognava vedere «Sorrisino» alla finestra e davanti l'uscio! Quegli occhi brillavano, sorridevano come non ho mai piú visto brillare o sorridere occhi di ragazza o di donna. Se non che il roseo colorito delle sue guance cominciava a sbiadire, e gli occhi si cerchiavano di pavonazzo, e il viso si affilava, e il corpicino delicato dimagriva, dimagriva ... Ma il sorriso persisteva piú bello, piú espressivo che mai. Io lo invidiavo al mio amico. E accadde che un bel giorno mi rifiutai di accompagnarlo. Tutt'a un tratto mi ero accorto di essere innamorato di «Sorrisino» piú seriamente di lui. Ero geloso, soffrivo ... Non ho mai sofferto tanto, e cosí chiusamente, in vita mia! E quando seppi da Emilio che «Sorrisino» era malata, che ora si trovava raramente alla finestra, e non poteva piú andare alla messa cantata - l'amore rende spietati - sentii una cattiva gioia, un malvagio sollievo. Passai piú volte, solo, inutilmente, per quella via. Una mattina però rividi «Sorrisino», accoccolata in una seggiola, davanti a la porta, al sole, avvolta nella mantellina come una freddolosa ... Era irriconoscibile, consunta dal mal d'amore, ma sempre con quel divino sorriso nei begli occhi, su le labbra, quasi fosse lieta di morire cosí, «per lui!» E mi accennò arditamente, come per invocare che io avvertissi Emilio che l'avrebbe trovata là, forse per l'ultima volta. Sorrideva intanto, sorrideva! ... Mi par di vederla! Nessuna immagine di donna me l'ha piú scancellata dalla memoria! Fui spietato. Volli serbare tutto per me il divino sorriso di quel giorno ... Ed Emilio non ha mai saputo che io piansi «Sorrisino» come se fosse morta di amore per me! ... Gli ho fin portato rancore per parecchi anni. - Povero Emilio! Con tutta la sua «mulierina», non riuscí un don Giovanni. Fu anzi buon marito e buon padre. Quando si dice: - Dall'alba s'indovina il giorno! - Tutti i proverbi falliscono qualche volta. E se vi è parso - concluse Pietro Carrara commosso, - che io vi abbia raccontato una storiella insignificante, peggio per voi. Niente consola tanto nella vecchiaia quanto il rivivere mentalmente le ingenuità di una volta! -

La natura lo aveva riccamente dotato d'ingegno e di notevoli qualità fisiche; la sorte gli aveva dato una discreta agiatezza; ma nessuno oserebbe affermare ch'egli abbia realmente goduto di questa sua situazione un po' privilegiata. Parecchi, con assai minore ingegno di lui, sono saliti in gran fama quand'egli rimaneva in basso, nell'ombra; molti altri sono divenuti ricchi e potenti quando egli cadeva, prima a poco a poco e poi ruinosamente, nella miseria. I suoi quadri, in questi ultimi anni, si vendevano a stento, a prezzi derisori, o non si vendevano affatto; ingombravano il suo studio o giacevano dispersi pei negozi di belle arti, assieme con la ignobile produzione commerciale. Eppure erano pregevolissimi, specialmente per l'assai rara, oggi, sincerità di impressione e di fattura. Egli, che aveva piena coscienza del suo valore, si sentiva avvilito dall'indifferenza del pubblico sviato dietro certe lustre d'arte di pessimo gusto; ma non se ne lagnava nemmeno con noi, suoi intimi amici. Da qualche anno, voi lo sapete, lavorava per strappar di mano ai negozianti, giorno per giorno, tanto da non morir di fame. Dipingeva quadretti di piccole dimensioni, scenette di genere, paesaggi, che era costretto ad offrire e che per ciò gli fruttavano scarso compenso. Stanco, scoraggiato, finalmente non ne ha potuto piú; ha preferito di morire. Le rare volte che si lasciava sfuggir di bocca qualche sfogo, sentivamo esclamarlo: - Io sono jettato! - E sorrideva tristamente. Noi tutti gli abbiamo invidiato la sua ultima avventura. Parlandone, egli si trasformava, diventava poeta, tanto calore di affetto e tanto splendore di immagini gli sgorgavano dal cuore. Era orgoglioso di aver fatto una buon'azione, di aver salvato da morte e da qualcosa di peggio la bella, virtuosa e intelligente creatura da noi conosciuta nel suo studio e che vi diffondeva un sorriso di serenità e di dolcezza da imporre ammirazione e rispetto. Se in questo mondaccio le buone azioni fossero degnamente rimeritate, Eligio Norsi avrebbe dovuto avere sorte ben diversa! - Dopo brevissima pausa, Bertini riprese: - Io sono stato incaricato di radunare parecchi suoi amici nello studio dov'egli si è fracassato con un colpo di pistola il cervello, per comunicar loro la lettera da lui scrittami poche ore prima di attuare il triste proposito: ma non ho avuto coraggio di rivedere quel luogo dove noi abbiamo passato deliziosissime ore in lieti e nobili ragionamenti, mentr'egli continuava a dipingere pur prendendo parte alle vivaci discussioni, illuminandole con frasi brevi, dense di pensiero, anche quando sembravano una bravata da artista di buon umore. Ho pensato meglio di invitare in casa mia voi altri che siete stati tra i piú intimi e piú fidi. Giacché molti, in questi ultimi anni, aveano fatto come il pubblico; si erano allontanati da lui, forse anche perché le circostanze della vita sono grandi disgregatrici di cuori. Io eseguisco la sua ultima volontà parlandovi dell'episodio che conferma la mia opinione, cioè: che vi siano creature umane destinate unicamente a nuocere agli altri e a se stesse. So particolari da voi ignorati, sono stato testimone di scene che mi hanno attristato profondamente e che possono modificare il vostro giudizio, se per caso esso è risultato, in certe occasioni, poco benevolo per Efigio Norsi e per colei che ha voluto seguirlo, con una settimana di distanza, nella tomba, non ostante che egli le avesse «ordinato - sono sue parole - di vivere perché ella aveva davanti a sé il ridente avvenire che la giovinezza, la bellezza e l'intelligenza le avrebbero facilmente permesso di raggiungere». Per sua fortuna, Eligio Norsi ha avuto risparmiato il dolore di assistere a quest'altra rovina di cui è stato involontaria cagione. Io capitai nel suo studio il giorno dopo in cui egli vi aveva fatto trasportare la giovane balzata, in un momento di disperazione, dal parapetto del ponte Margherita, nei gorghi del Tevere. Nuotatore abilissimo, egli non aveva esitato un istante a buttarsi nell'acqua per salvare la sciagurata. La lotta con l'impeto della corrente era stata tremenda. «Per questo ella mi è parsa cosa mia! - egli mi disse - E non ho voluto mandarla all'ospedale». La bionda creatura era assopita sul divano, sotto una coperta di lana, pallida, coi capelli in disordine, ma con una dolcissima serenità nell'aspetto. «Non ha ancora vent'anni! È sola al mondo ... Mi ha rimproverato di averla salvata. Oh! Mi son fatto giurare che non ritenterà di ammazzarsi.» «Ebbene? - gli dissi. - Che ne farai?» «Quel che bastava per uno basterà per due! Se avessi una figlia? ... » Gli splendeva negli occhi un'intensa gioia. Sembrava improvvisamente ringiovanito al contatto di quella giovinezza che riprendeva a vivere là, sul divano, nel ristoro del placido sonno. «Guarda!» E mi mostrò una tela, dove egli aveva già fissato con larghe e magistrali pennellate la scena che avevo davanti. La giovine sembrava respirasse dolcemente nella tela come io la vedevo respirare sul divano. «Ne farai un bel quadro?» gli domandai. «No; lascerò l'abbozzo qual è, lo guasterei». Infatti, messo in ricca cornice, noi abbiamo potuto ammirarlo nel suo studio; e non vi parrà esagerazione se aggiungerò che esso è forse il capolavoro di Eligio Norsi. Un giorno che dissi questo anche a lui, egli mi rispose seriamente: «Il capolavoro, eccolo qua!» E mi mostrò un disegno, inespertamente tracciato, ma cosí rassomigliante - era il suo ritratto - e cosí pieno di vita, che io stentai a crederlo opera di persona che non aveva mai maneggiato un pezzo di fusain, né copiato un modello. «È un portento. Ne farò una gran pittrice!» Lo aveva disegnato lei, la sua Moseina, come scherzando soleva chiamarla, alludendo al nome di Mosè che significa: «Salvato dalle acque» Quel che poi accadde vi è noto. Egli l'amò come si ama talvolta nell'età in cui parrebbe che certe illusioni non dovessero piú prodursi: e fu riamato, né soltanto per gratitudine, ma per le buone qualità del suo cuore e del suo ingegno. Ella era di un'ammirabile saggezza precoce, capace di qualunque sacrificio; e non fu tanto la sua affettuosa compagna, quanto la sua consigliera, la sua severa ammonitrice, la sua ispiratrice anche. Erano bastati pochi mesi perché in lei si sviluppasse un finissimo senso di arte, un gusto delicato sotto le prime lezioni di disegno impartitele da lui. Egli n'era orgoglioso. «Non passerà molto, che dovrò io apprendere da essa». Gliel'abbiamo udito ripetere piú volte. E cosí trascorsero due anni, tra le prime avvisaglie di quella lotta economica ch'egli si sforzava di nasconderle, ma che la bella creatura indovinava, e che le velavano gli occhi con leggiera nebbia di rassegnata tristezza. Appunto in quel tempo parve che la forte fibra dell'artista desse visibili segni di stanchezza, dopo un lieto periodo di geniale produzione. Io credo che si trattasse di una di quelle mude in cui l'ingegno, come gli uccelli, butta via le vecchie penne e dà tempo di crescere alle nuove. In tale stato, anche gli uccelli sembrano malati, perdono la loro vivacità, non fanno piú udire un solo gorgheggio. L'ingegno si concentra, rimugina tacitamente nuovi ideali di arte che si maturano in un'inconsapevolezza strana, sotto forme diverse o di lassezza o di scoraggiamento o di smania che non sa ancora che cosa voglia e a che tenda. Ma ella non poteva indovinare se quella lassezza, se quello scoraggiamento nascondessero un prossimo risveglio; e sapendo per prova che la sua parola incitatrice esercitava grande efficacia su lui, lo assaliva con rimproveri nei quali le parole avevano una calcolata esagerazione che costava tanto al suo povero cuore. E appena le sembrava che esse avessero ottenuto un qualche effetto, gli buttava le braccia al collo, lo copriva di baci, di carezze e per poco non gli chiedeva perdono di essersi mostrata, pel bene di lui, quasi cattiva ed ingrata. Eligio Norsi, in quei momenti, si sentiva - ed era infatti - un fanciullo che promette di essere buono, ma che sa di non potere facilmente mantenere le promesse. Sopraggiunsero presto giorni tristissimi. Egli, per una specie di pudore, le aveva celato i gravi imbarazzi in cui si trovava per la sua quasi assoluta inettezza negli affari. Caduto in mano di rapacissimi strozzini, aveva perduto, per sodisfare gli impegni presi, il suo piccolo patrimonio, i frutti del suo lavoro, vivendo ogni giorno in continua lotta di espedienti, lusingandosi sempre di uscire con qualche colpo di fortuna, da quello stato di precarietà che lo esauriva per lo sforzo di nasconderlo non solamente a lei, ma ai suoi amici e agli invidiosi della sua fama di artista. E quando non fu piú possibile fingere con lei e si credette simile a un reo davanti al suo giudice e non osò piú di farle la proposta di darle il suo nome da lei tante volte ricusato perché non voleva essere sospettata di calcoli interessati sotto sembianze di gratitudine e di affetto, egli fu stupito di sentirsi dire le piú dolci, le piú carezzevoli parole che fossero mai uscite da labbro di donna; le parole piú confortevoli e piú incoraggianti; parole di dedizione completa, di sacrifizio assoluto, quasi la colpevole di quel disastro fosse stata lei. Eligio me lo raccontò, con le lagrime agli occhi, lo stesso giorno, pregandomi d'intervenire, di fare opera da amico, da fratello. «Ella vuole abbandonarmi, ella vuol morire, capisci? per lasciarmi libero, per non gravare su me, capisci?» E, cosí dicendo, si torceva dolorosamente le mani. Intervenni. Non ho mai udito in vita mia parole piú savie, piú ferme e piú affliggenti di quelle che mi rispose la bella e buona creatura che anch'io avevo appreso a chiamare Moseina. «Bisogna che io lo liberi - ella mi disse. - Egli ha messo in pericolo la sua vita per salvare la mia quando io non sapevo che cosa farne, perché non avevo piú nessuna ragione di vivere. So bene come mi giudicano parecchi dei dei suoi intimi amici, lei stesso, forse ... ». Protestai ed ero sincero. «Grazie - ella riprese. - Questo non toglie che per tanti altri amici o conoscenti io non abbia l'apparenza di essere stata la rovina di Eligio Norsi, rovina materiale e morale. È un dolore di cui non so consolarmi. Che posso fare? Avrebbe dovuto abbandonarmi alla mia sorte; la sua pietà, la sua bontà gli hanno impedito di agire cosí. Non è stato sincero con me, per eccesso di buon cuore. E quando penso che non ho saputo indovinare prima d'ora i sacrifici che gli sono costata, sento rimorso di questo male involontariamente cagionato piú che se lo avessi operato con malvagia intenzione. Come vuole che io non cerchi un rifugio nella morte? Quali speranze possono allettarmi? Se mi risolvessi ad uscire di qui, dovrei chiedere soltanto alla mia giovinezza mezzi di vivere che ora mi ripugnano piú che mai; non sono nata per questo. Appunto per tale repugnanza ho tentato di ammazzarmi a vent'anni. Mi ero lusingata di trovare una risorsa nella pittura per la quale mi riconosco anch'io qualche attitudine; ma occorre parecchio tempo prima che questo possa avvenire. Ogni giorno che passa, mi rivela piú chiaramente che terribile cosa è quest'arte. Quando ignoravo le difficoltà, ero tranquilla ... Ora, oh! ... Solo, egli può lottare e vincere. Io gli sono d'impaccio. Perché ritardare una soluzione inevitabile? Se egli mi avesse lasciato nella mia ignoranza ... Invece mi ha inoculato la smania dell'arte, mi ha fatto assaporare le sue lusinghe ... Credeva di farmi del bene, e si è ingannato. Mi sono ingannata anch'io, immaginandomi di potergli essere di aiuto e conforto ... Ecco perché voglio ... !» E non poté finire, interrotta da un grande scoppio di pianto. «L'ammiro - le dissi - ma non posso approvarla. Non bisogna mai disperare della vita!» «Belle parole!» esclamò tra i singhiozzi. «Se gli vuole veramente bene ... ». M'interruppe con un'occhiata che non dimenticherò mai e mi tese le mani in segno di ferma promessa. Ah, se fossi stato ricco! Cercai e trovai un generoso che prestò ad Eligio Norsi mille e cinquecento lire perché uscisse dai piú cocenti imbarazzi e avesse modo di lavorare con un po' di tranquillità. Bastarono appena per opporre un momentaneo argine alle necessità piú imperiose. Ella volle sacrificare gli orecchini, i braccialetti, gli anelli regalatile da lui nel primo anno della loro unione. Stremata fin di abiti, si rassegnò a vivere chiusa in casa per mesi e mesi, sottoponendo la sua giovinezza a una volontaria prigionia nelle stanze accanto allo studio o nello studio, quando non c'era nessun altro che lui intento a un frettoloso lavoro che doveva provvedere alle urgenze del domani. Il gran quadro ideato e disegnato rimaneva là con pochi imbratti di colore; ed ogni sua speranza di risorsa intanto era riposta in esso! Ora era Moseina che mi confidava i suoi terrori, le rare volte che avevo la forza di presentarmi nello studio di Eligio Norsi e nei brevi intervalli che mi avveniva di restar solo con lei. Cosí io ho assistito, impotente di apportarvi un riparo, alla straziante agonia di quei due poveri cuori, che pur recavano sul viso una maschera di sorridente rassegnazione per ingannarsi l'un l'altro, fingendo di credere a speranze di prossimi aiuti, a rivolgimenti improvvisi di buona fortuna ... finché lui che avrebbe dovuto essere il piú forte ... Bertini s'interruppe; la commozione gli aveva troncato la parola. Tutti eravamo rimasti silenziosi egualmente commossi, attendendo la lettura della lettera ch'egli aveva davanti sul tavolino. L'aperse senza dir altro e lesse con voce tremante: «Caro Bertini, Vorrei sparire senza che nessuno se n'accorgesse. Spero che Moseina , la mia buona e adorata Moseina , vorrà perdonarmi l'atto disperato che sto per compire e accogliere la mia estrema parola che le impone di vivere. Sappi, non sono un vigliacco; ci vuol coraggio a morire. Un solo pensiero mi addolora in quest'istante: che la mia buona e adorata Moseina sarà mal giudicata. Tu che sei stato messo a parte di tante confidenze, raduna nel mio studio i comuni amici e giustificala innanzi a loro, perché essi la giustifichino presso i maligni e gli ignari. Io non ho bisogno di esser scusato in faccia a nessuno; la mia coscienza è serena. La vita ha fatalità che nessuno può vincere! ... Addio!». - Povera Moseina ! - continuò Bertini - Che può importarle di essere giustificata? Pur troppo, la vita ha fatalità che nessuno può vincere! Povero Eligio Norsi, a cui l'arte non ha saputo all'ultimo dar tanto da sfamarlo ogni giorno! Con che ironico sorriso hai tu forse appreso nell'altro mondo che ieri uno dei quadri da te ceduto per cento lire, è stato comprato per ventimila da un tuo postumo ammiratore!

Ecco: mi dispiace ch'egli possa credere che io abbia paura. Dovrei andare, e resistere e dirgli: «Sono stata leggera, sciocca, prestando orecchio alle vostre lusinghe. Voi affermate di amarmi ... e non è vero; ormai ne sono convinta. Io ... io mi sono illusa di amarvi; e ora ... Per ciò, finiamola. Restiamo, se è possibile, buoni amici. Pel vostro capriccio di uomo galante, pel vostro svago di signore che non sa occupare il suo tempo altrimenti che con le frivolezze delle conquiste, voi siete in caso, oh, altro! di trovare donne piú belle, piú facili ... e piú sciocche di me; dovrebbe bastarvi. Una di piú, una di meno da segnare nel vostro calendario di scapolo non significa niente ... Non so se piú siete capace di pentimenti o di rimorsi. Voglio risparmiarvene uno, se mai!» Ma ... Ma quando sarò là, faccia a faccia con lui, da solo a solo, avrò coraggio di tenergli questo bel discorso, questo stupido discorso? Egli mi prenderà per le mani, mi guarderà negli occhi sorridendo un po' ironico, come sa sorridere lui, mi ripeterà quel che mi ha ripetuto tante volte, quel che tante volte ho tentato di non ascoltare o di non credere e ciò non ostante, mi ha ammaliato, mi ha reso fiduciosa come una bambina, sottomessa come una schiava e felice di sentirmi tale ... Che miseria questa nostra debolezza! Che umiliante stato di animo questo bisogno di essere adulate e illuse! Questo delirio di dominazione che poi si accontenta del piú basso asservimento e fa le viste di non accorgersene! ( Si alza, contrariata, agitata ). Ebbene, avrei dovuto ragionare cosí prima di oggi! Come mai, perché mai sei diventata savia tutt'a un tratto? ... Eri già bella e abbigliata. Due ore di minuziosa cura per renderti piú piacente ... e piú seducente. Il timore di non giungere in tempo, di farti attendere ti rendeva nervosa, impazientissima. Accorrevi colà come a una festa ... E sarebbe stato il crollo della tua dignità, della tua reputazione, della tua vita tranquilla e quasi felice! Hai dovuto fare uno sforzo per toglierti il cappello, per cavarti i guanti, ed hai ancora indosso la pelliccia! Vuoi far presto a riabbigliarti, se ti risolvessi, se ti decidessi di nuovo ad andare? ( Si toglie rapidamente la pelliccia ). Via! ... Potrebbe essere una tentazione ... Tutto ci tenta quando siamo disposte! ( Osservando l'orologino d'oro ). Le tre meno un quarto! Avevo le traveggole poco fa. Credevo di essere in ritardo ... ( Sorride con compiacenza ). Mi par di vederlo, col viso incollato ai vetri della finestra, dietro le tendine, spiando il mio arrivo dalla via di faccia! Oh, non dubiterà che io possa mancare all'appuntamento! Ha voluto che giurassi questa volta, perché - diceva - non era cosí sicuro dell'amor mio da accontentarsi di una semplice promessa ... Ha ragione. Non sono certa neppur io di amarlo. Infatti, se lo amassi davvero, non ragionerei, non sarei qui a esitare, a farmi la predica. C'è stato però un momento ... Un momento? Via una settimana, un mese, si - forse un mese e mezzo se facessi calcoli esatti - che ho avuto anch'io la convinzione di essere amata e di amarlo cosí profondamente, cosí pazzamente - è la parola giusta! Mi par di vederlo ... È strano! Mi sembra quasi ridicolo, povero barone, con quell'aria di contrarietà che deve assumere a ogni minuto che passa. E aveva preparato, certamente, uno splendido ricevimento, da pari suo: fiori da per tutto, i fiori che io prediligo, le rose bianche, i garofani bianchi, che egli prima non poteva patire e che ora ama per consenso - mi ha assicurato - perché li amo io. Ha sempre, da qualche tempo in qua, un garofano bianco all'occhiello, da vero cavaliere che porti i colori della sua dama ... Per questo, non c'è che dire, è proprio compito! ... Nessuno è piú raffinato di lui nel suo mestiere di seduttore. Ne sa tutte le astuzie, tutti i segreti. l mariti dovrebbero apprendere questa irresistibile arte ... Colpa loro, se noi ci lasciamo ingannare dagli altri, visto che essi non sanno ingannarci. Hanno il possesso legale, si credono difesi, preservati per virtú delle parole del sindaco e del parroco ... E non fanno niente per sviare i pericoli. Il mio ... peggio di tutti! Ci vuole una gran forza per resistere. In coscienza, io ho resistito anche troppo. So di certe mie amiche! ... Ma già stavo per fare come loro! Fortunatamente ... ( Guarda di nuovo l'orologino ). Le tre! ... Infine, che cosa gli ho promesso? Una visita «Certe cose - egli dice - non si strappano, si vogliono liberamente concesse. Se anche non si ottengono, il pensiero di averle fortemente desiderate e di non aver potuto ottenerle dà un piacere squisito per la intensa smania che il desiderio non soddisfatto produce». Raffinatezza che pochi sanno apprezzare. Oh, sí! Galanti parole, galantemente ripetute ... Eppure! ... Eppure! ... Sarebbe un bel trionfo dimostrargli che io non sono come le altre, che posso scherzare col pericolo e non soccombere. Dovrei dargli questa lezione. Egli è già orgoglioso di esser giunto a farmi perdere per qualche settimana ... per qualche mese - la testa. Me l'ha confessato e ha soggiunto che con me si sarebbe fermato e per sempre! ... Io rappresento per lui l'ideale inseguito e non mai potuto raggiungere ... Finalmente! Dovrei perciò essere altera di aver operato questo miracolo! ( Sorride tristemente ) .E gli ho creduto! Intanto, se fosse? ... Ma non è vero. Per questo sarebbe giusto infliggergli una lezione. Se la merita, anche per conto di tutte le altre che gli hanno spensieratamente sacrificato quel che sacrifica una donna quando dà il cuore ad un uomo che non è suo marito, ed hanno sofferto! ( Guardando per la terza volta l'orologino ) .Le tre e un quarto! ... Sarei ancora in tempo ... Quasi quasi! ... Entrerei severa, calma; mi fermerei su la soglia del salottino, e direi: «Ho promesso, e mantengo quantunque certe promesse si ha piuttosto il dovere di non mantenerle. Ho mantenuto unicamente per dimostrarvi che son sicura di me e per dichiararvi qui, nel posto che dovrebbe essere il campo della vostra nuova e non ultima vittoria ... per dichiararvi nel modo piú perentorio e assoluto ... » No, non bisogna preparare il discorsetto, ma improvvisarlo, secondo le circostanze; se si scorge che è stato appreso a memoria, non fa effetto. E, terminato di parlare, avvolta nella pelliccia, senza stendergli la mano e facendogli un piccolo inchino, voltar le spalle e uscire, severa, calma, solenne. Vorrei che mio marito mi vedesse in quel momento, per apprendere qual pericolo ha corso e quanto dovrebbe essermi grato. Povero barone! Non se l'attende davvero. Si consolerà presto, probabilmente. ( Fa un gesto di risoluzione, comincia a rimettersi il cappello, poi infila i guanti e intanto prosegue a parlare ) . Non dico che non potrà accadere diversamente ... Allora! Vuol dire ... Sono un po' fatalista io! ... Ma quando si è fermamente risoluti, come sono io ... E poi ... Voglio cavarmi una curiosità, vedere questo famoso quartierino, questo tempietto pronto a ricevere la dea ... preparato unicamente per me ... Bugiardo! ... ( Indossa la pelliccia ) .Peccato che non potrò andare oltre il salottino ... Sarebbe grave imprudenza! ... Ritta sulla soglia di esso, severa, calma, solenne. ( Guarda l'orologino, dà affrettatamente gli ultimi colpi di ravviamento alla gonna e si ferma a specchiarsi, chiusa nella pelliccia ). Che cosa significa? ... Sono cosí turbata, cosí commossa, quantunque voglia fare la spavalda! ... ( Atteggiandosi, quasi parlasse con lui ) .«Ho mantenuto, per mostrarvi che sono sicura di me!» Ma se la mia voce tremerà come in questo atto di prova? ... ( Riprende, declamando un po' ) .«Ho mantenuto per mostrarvi che sono sicura di me!» Benissimo! ... E un inchino, un lieve inchino, significativo, di condensata ironia ( Eseguisce ) e uscirò ... Cosí! - ( Si avvia lentamente ).

. - Abbia il coraggio di affermare qualunque enormità ad alta voce. È un modo come un altro di far progredire l'umanità. Lei dunque sosteneva ... - Che un giorno noi ci sbarazzeremo delle nostre gallerie d'arte, vendendole ai selvaggi del centro dell'Africa, della Nuova Zelanda, della Papuasia, agli esquimesi, agli abitatori dei poli, se ce ne sono. Quadri e statue serviranno loro da giocattoli, fino a che quei selvaggi non si saranno anch'essi inciviliti; se pure, da fanciulli grandi, non li sciuperanno prima, per vedere come sono fatti, precisamente come praticano i nostri fanciulli coi giocattoli di Parigi e di Norimberga. - S'inganna - riprese il dottore sorridendo. - Cosí le avrebbe risposto il mio vecchio professore di fisiologia, se lei gli avesse espresso questo suo convincimento. Tra quattro o cinque secoli - egli metteva una lunga data per precauzione - i veri capilavori di pittura e di scultura non esisteranno piú, cioè non staranno piú chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno pel mondo, vivi, immortali, e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro; e formeranno, forse, il nucleo dell'umanità futura. - Questa, sí, è un'enormità! - esclamò la baronessa. - Lo credevo anch'io; ma ho dovuto ricredermi. E morrò col dispiacere di non poter assistere alla «redenzione dei capilavori» come il mio professore la chiamava. - Ci sarà dunque pure un Cristo per le opere d'arte? - Sí, baronessa; e sarà quella stessa divina forza che le ha create: il pensiero! - Vuole sbalordirci, dottore! - Quando avrò raccontato quel che ho visto con questi occhi, lei penserà diversamente. - Quante stranissime cose ha viste! - esclamò la baronessa con fine espressione di malizia. - Privilegio della vecchiaia! Quel mio professore di fisiologia aveva un gran difetto; era eccessivamente modesto. Soleva dire: «Piú la scienza va avanti e piú diviene ignoranza!» Modo suo speciale per indicare che ogni mistero schiarito ce ne mette subito innanzi parecchi altri e maggiori. La modestia di quel grand'uomo proveniva dalla sua immensa dottrina. Diceva pure: «Una verità precoce può esser utile assai meno di una menzogna opportuna». Ed è vero. Ma se io dovessi riferire tutti i sapienti aforismi del mio vecchio professore non la finirei fino a domani. Per arrivare al concetto della «redenzione dei capilavori», egli era partito dall'idea che il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura. Secondo lui, si trattava anzi dell'identica forza creatrice con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente; indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte. Io, materialista in quel tempo, sorridevo sotto il naso udendo queste metafisicherie dalla bocca di un professore che, appunto per la scienza da lui coltivata, la fisiologia, giudicavo avrebbe dovuto essere piú materialista di me. Lo ascoltavo però con rispetto, perché infine le sue metafisicherie si abbarbicavano sempre a un fatto, a parecchi fatti che gli esperimenti rendevano indiscutibili. Pensavo: «È un gran poeta costui!» e ignoravo di dire una profonda verità, giacché poeta significa: creatore o, meglio, rivelatore. Egli stimava che le figure umane dipinte dai grandi artisti o scolpite in marmo, quando raggiungevano un alto grado di bellezza, dovevano essere certamente qualche cosa di piú che semplici figure con la sola apparenza della vita. Figure voluttuose, figure severe, figure pensose, figure dai cui occhi e atteggiamenti traspariscono l'anima e la volontà, no, non potevano essere soltanto un gioco di linee e di colori, se poi provocavano sensazioni e sentimenti che sono arrivati in certi individui fino alla passione e alla pazzia. Piuttosto creature con organismi incompleti, o, meglio, con organismi piú raffinati, piú perfetti del nostro, ma rimasti come in incubazione su la tela o nel marmo, in attesa dell'alito risvegliatore della loro vita latente. «È una bella fantasia!» gli dissi un giorno. «Sarà una realtà, giacché mi costringi a rivelartelo» egli rispose. E mi condusse in una stanza appartata del suo vasto laboratorio. A una parete era appeso un ritratto di donna. Mi parve di riconoscerlo; avevo una confusa idea di averlo visto e ammirato non ricordavo piú dove, quantunque ora - per accorta disposizione di luce, credevo - mi sembrasse assai piú bello. Quell'attraentissima mezza figura cinquecentesca produceva una straordinaria illusione di rilievo, quasi di distacco, dal fondo grigio oscuro. Gli occhi avevano vividi lampi, come se nella pupilla si riflettessero le persone e gli oggetti circostanti; le labbra, un umidore, come di fiato che passasse a traverso della sottile apertura della bocca, donde s'intravedeva una fila di denti bianchissimi: la pelle una colorazione, una morbidezza, come se sotto la epidermide palpitassero, con impercettibile movimento, le vene che la rendevano fresca, rosea, quasi fosforica. «Che capolavoro!» esclamai. «È di Sebastiano del Piombo. Siedi là e sta a osservare». Si sedette pure lui davanti al quadro a mezzo metro di distanza, e tese le braccia con le mani aperte, al modo che usano i magnetizzatori coi soggetti da ipnotizzare. Oh, quel che avevo notato poco prima non era stato una illusione ottica, prodotta dai chiaroscuri e dalla luce! A poco a poco, sotto la influenza della corrente magnetica che si sprigionava dalle mani del professore, la figura dipinta si animava sempre piú, s'agitava con lieve fremito, prendeva un'incredibile espressione di benessere, di piacere e, talvolta, anche di sofferenza, di smania repressa o che non riusciva a manifestarsi compiutamente. Dopo un'ora, e fino a che le braccia rimasero tese verso di essa, io potei credere che la figura di donna, immortalata su la tela dal prodigioso pennello di Sebastiano del Piombo, sentisse circolare dentro di sé un alito di vita assai diverso da quello ricevuto dalla potenza dell'arte. E quando le braccia del professore, cadendo stanche ed estenuate pel lungo sforzo fatto, interruppero la miracolosa operazione, dovetti accertarmi che qualche cosa era rimasto là, su la tela, qualche cosa di piú di quel che vi avevo notato entrando, quantunque assai meno di quel che era apparso sotto i miei occhi mentre l'opera di vivificazione durava. Sfinito, col respiro ansante, col viso livido di pallore, il professore teneva china la testa sul petto e gli occhi socchiusi. Gli presi una mano; era diaccia come quella di un cadavere. Dopo alcuni istanti, però, egli si riaveva, alzava la fronte rugosa e mi guardava tentando di sorridere. «È mai possibile?» esclamai. «Dubiti ancora! - mi rimproverò. - Sei dunque di coloro che preferiscono di dar torto alla testimonianza dei loro sensi, se questi contradicono un'opinione da essi stimata certezza?» Non lo nego, ero di questi! Dopo un quarto d'ora di riflessione, io credevo di essermi lasciato vincere dalla violenza suggestiva di lui; ma la sicurezza di tale convincimento veniva subito scossa, appena volgevo lo sguardo al ritratto. L'impressione che ne sentivo era stranissima: di cosa equivoca, non piú opera d'arte e non ancora persona viva. «Dovresti aiutarmi; sei giovane, robusto, e persona seria, di cui posso fidarmi», soggiunse il professore rizzandosi da sedere. E mi raccontò la storia di quel ritratto d'ignota. Qualcuno di voialtri forse ricorderà lo scalpore che levarono i giornali parecchi anni addietro pel furto di un quadro della Galleria degli Uffizi. Lo aveva fatto rubare lui. «Per tentare la prova - continuò - occorreva un capolavoro che esercitasse vivissima impressione su l'operatore; mi sembrava condizione indispensabile, ed io non potevo chiedere di averne uno a mia disposizione, senza farmi giudicare impazzito. Questo ritratto lo avevo visto piú volte e n'ero rimasto profondamente scosso. Ne avevo anche ordinato una coppia quattr'anni prima, ma era riuscita cosí male che avevo dovuto rifiutarla. Quando mi fissai nell'idea di questo esperimento, la «ignota» di Sebastiano del Piombo mi si presentò cosí insistentemente davanti agli occhi, che decisi di averla qui, a ogni costo. Non ho rimorso di aver fatto commettere un furto; lo scopo scientifico assolve d'ogni peccato. Tu non andrai a denunziarmi - soggiunse. - Mi denunzierò da me stesso, quando sarà l'ora». Ahimè, quell'ora non arrivò, perché le cose di questo mondo sono in gran parte rette dal caso. La morte colpí all'improvviso il professore, quando il suo esperimento era appena a un terzo di strada. Due giorni avanti, io avevo potuto assistere, ancora mezzo incredulo ma stupito, alla progressiva animazione del ritratto dell'ignota; ed ero uscito dal laboratorio domandandomi: «È possibile?» e rispondendo a me stesso: «Sei peggio di San Tommaso!» Infatti, avevo osato di accostare la punta delle dita a quel volto che si animava, che palpitava; e, provata la sensazione di toccare non un freddo dipinto ma carne tiepida e molle che si sollevava, come una bolla, dal fondo della tela, avevo tratto indietro la mano con rapido gesto di terrore e di ripugnanza. Il giorno della morte del professore, dopo averlo adagiato con l'aiuto di altre persone sul lettino di ferro dove egli aveva dormito, per tanti anni, poche ore della notte - non si permetteva, da quasi mezzo secolo, piú di quattr'ore di sonno - io volli rivedere il ritratto dell'ignota. Un doloroso presentimento mi agitava: che la interruzione di quella vita avesse dovuto guastare i resultati ottenuti. Un orribile spettacolo mi fece indietreggiare. Il capolavoro di Sebastiano del Piombo era irrimediabilmente deformato; quasi la pelle di quel florido viso femminile fosse stata ridotta una vescica sgonfiata, raggrinzita e appiccicatasi, seccando, su la tela -.

La prima volta che si troverà da solo a solo col barone di Pietrerase - e sarà presto, forse in settimana - abbia il coraggio di dire a lui quel che ha avuto la sincerità di accennare a me. Troverà lui, dovrà trovare lui una soluzione dignitosa per tutti, perché non è possibile che voglia ostinarsi nella sua richiesta dopo quel che lei gli avrà confidato ... Faccia a modo mio ... Dio l'aiuterà ... E in questa maniera ella eviterà a sé e ai suoi genitori gravissimi dispiaceri ... Faccia a modo mio! - La marchesina si era subito pentita di essersi lasciata indurre ad accettare il consiglio del confessore. Avrebbe ella avuto la forza d'animo di aprire il suo cuore a una persona che si sarebbe trovata davanti a lei la prima volta e in un momento che doveva decidere irrimediabilmente del suo avvenire? Si era sentita già condannata vedendo entrare nella camera inaspettatamente il marchese: - Godo che state meglio, marchesina -. La marchesa, che era venuta assieme con lui, non aveva detto nulla; ma gli occhi materni avevano cercato di leggere sul viso della figlia una risposta piú sincera di quella recata da don Paolo Forti. E appena rimasta sola con lei, le domandava: - È vero? ... È vero? - Sí, mammà . - E sei contenta? - Sí, mammà -. La povera signora esitò qualche istante; gli occhi le si empirono di lagrime; ed abbracciò e baciò la figlia; poi, ponendole le mani sul capo, pronunciò commossa: - Dio ti faccia felice! - C'era una gran tristezza in quelle parole. La marchesa, infatti, si era rivista giovane come sua figlia, quando sotto il tormento di una costrinzione per volontà dei parenti, come sua figlia, aveva invidiato la sorte delle piú umili creature che potevano liberamente secondare gli impulsi del loro cuore, e non accusare nessuno della loro infelicità nel caso che il cuore si fosse ingannato. Si era rivista sposa, madre, quasi schiava di un uomo che ella aveva rispettato senza mai poter arrivare ad amarlo; e pensava, tremando, che forse sarebbe accaduto cosí anche a sua figlia, a cui la parola del confessore aveva probabilmente imposto una rassegnazione che le avrebbe contristato tutta la vita. A che insistere intanto per sapere se «era vero»? Se la marchesina si fosse decisa a confidarsi con lei, che cosa avrebbe potuto ella fare per impedire la disgrazia? Dio aveva disposto cosí: i signori dovevano scontare a quel modo la vanità dei titoli delle loro ricchezze, e vedersi invidiati quando avrebbero dovuto essere compatibili! In quei giorni la marchesina parve presa da un furore di musica; il pianoforte tacque soltanto a intervalli. Le melodie piú tristi e piú cupe piansero, ulularono, si lamentarono sommessamente, ripresero a ululare e a piangere nel salottino, quasi la nervosità delle dita della suonatrice partecipasse alle note un'espressione tutta personale da farle diventare pianto, ululo, lamento del suo cuore straziato. Di tratto in tratto, esse venivano improvvisamente interrotte; melodie dolcissime, sognanti, si elevavano allora, sospiravano, simili a invocazioni, simili a richiami, smorivano quasi andassero lontano lontano dove il cuore della sonatrice le inviava; e si sarebbe detto che esse recassero contristanti risposte, se, poco dopo, le desolatissime note riprendevano con impeto, prolungatamente; e il silenzio che seguiva finalmente, per stanchezza, produceva infatti un senso di disperato abbandono alla marchesina proprio come se colui al quale ella inviava, a quel modo, il grido del suo cuore, le avesse risposto: - Non c'è piú speranza! È finita! - E rivedeva, quasi in sogno, l'albergo di Catania dove era andata, pochi mesi dopo di essere uscita dal convento, per assistere la marchesa che doveva subire una difficile operazione chirurgica. Questi stanzoni del vecchio palazzo signorile trasformato in albergo erano severi e malinconici come gli stanzoni del suo palazzo a R***. Un via vai di medici, di chirurgi, di persone di servizio ... Un silenzio greve, un raccoglimento malauguroso, una segregazione ... E al balcone accanto alla sua camera, quel giovane pallido, biondo, malato anche lui, che un giorno aveva ardito di chiederle notizie della signora marchesa che doveva essere operata e della quale tutti nell'albergo s'interessavano. Poi, nelle ore in cui il male concedeva qualche riposo alla sofferente, un piú lungo scambio di parole, e d'intensi sguardi che, dalla parte del giovane, dicevano assai piú che non le parole, anzi quel che esse non osavano di esprimere, ella se n'era subito accorta. - Ora che sua madre sta meglio, lei partirà ... e non la rivedrò piú! Anch'io sto meglio ... È doloroso conoscere una persona e non aver speranza di rivederla piú. - Chi non muore si rivede. - Perché desiderare di rivedersi? È sciocco quel che io dico ... - Ella aveva interrotto la conversazione col pretesto che l'avevano chiamata; ma le era rimasta negli occhi la desolazione di quel viso pallido che già stava per dirle quel che ella aveva indovinato, quel che l'aveva turbata profondamente nei giorni avanti e nelle notti senza sonno, dandole insieme col turbamento una sensazione nuova, un fremito di vita, la sodisfazione ineffabile di un inconsapevole bisogno del suo cuore e della sua giovinezza, una nova coscienza di se stessa. Quante volte non aveva ella evocato questi ricordi nella solitudine della sua camera, e quel che le era accaduto poche ore prima di lasciare l'albergo e ripartire per R***! - Poiché non ci rivedremo piú ... Mi perdoni, non posso fare a meno di dirglielo ... quantunque sia convinto che lei dimenticherà presto le mie parole ... - Ella gli aveva accennato di tacere, tremante di commozione, ma con negli occhi un tal sorriso di felicità da rendere inutile il divieto ... E appena colui avea finito di parlare, uno scoppio era avvenuto nel cuore di lei, uno scoppio che le aveva fatto dimenticare ogni ritegno, che l'aveva violentemente spinta a dire quel ch'ella si era immaginato dovesse restarle sepolto nel profondo petto, come un segreto da portar con sé nella tomba. Poche e semplici parole, ma esaurienti, definitive, chiamandolo per nome, dandogli del tu, quasi per fargli cosí un'affettuosa carezza, per stringere un patto infrangibile, urgente, giacché qualche ora dopo sarebbero stati divisi, ma legati almeno da quel patto, ma sostenuti almeno da un barlume di speranza! - Ti scriverò io; troverò io il modo con cui tu possa farmi pervenire le tue lettere! - E la marchesina era sparita dal balcone, con lo spavento di chi ha commesso un atto di audacia incredibile, e nello stesso tempo con l'intima gioia di aver operato quell'incredibile atto di audacia. Non rileggeva piú le tre lettere da lui ricevute per mezzo di una povera donna che aveva acconsentito, dopo molte preghiere e molte promesse, a ritirarle dalla posta indirizzate al marito. C'era mancato poco che costui non l'avesse picchiata quando avea saputo dell'incarico assunto da sua moglie, per pietà della marchesina, d'impostare cioè le lettere di lei e ritirare quelle dell'«altro» e portargliele a palazzo nelle rare occasioni che vi andava. Quelle lettere ella non le rileggeva piú; già le sapeva a memoria: lettere infiammate, sconsolatissime, nelle quali egli tornava a domandarle perdono di averle svelato il suo amore servito unicamente a renderla infelice, mentre da parte sua non avrebbe mai osato di pensare che la marchesina di Santacroce potesse un giorno abbassare gli occhi fino a lui e concedergli il suo cuore. Per disgrazia, quella povera donna era morta da quattro mesi; e la marchesina non aveva potuto trovar altro mezzo di comunicazione col lontano; che però era stato avvisato della probabilità di una lunga interruzione della loro corrispondenza e incoraggiato a non sospettare di lei. Ella si dichiarava sempre pronta a combattere contro ogni resistenza dei genitori quando il momento opportuno fosse arrivato. Ed ora si lusingava che la disperazione l'avrebbe resa fin temeraria, quantunque la remissione al consiglio del confessore non sembrasse a lei stessa buon indizio, oh, no! Il barone di Pietrerase non era una figura signorile. Aveva qualcosa tra di maggiordomo o di cocchiere di buona famiglia, con la folta chioma spartita da lato e le fedine all'austriaca. All'entrata della marchesa, che teneva ancora per mano la marchesina quasi avesse temuto di vederla tornare addietro attraversando il largo corridoio per recarsi nel salone di ricevimento, egli le aveva fatto un profondo inchino e le aveva baciato la mano; un altro inchino aveva fatto alla marchesina, che rispose abbassando un po' il capo e squadrandolo con rapida occhiata indagatrice. - Cilia , - disse il marchese - il barone di Pietrerase ci ha fatto l'onore di chiedere la vostra mano, ed io e la marchesa siamo stati lieti di fargli sapere che la sua richiesta vi è gradita quanto a noi. - L'onore, marchese, è tutto mio. Ringrazio la marchesina del suo benigno acconsentimento, e voglio credere che ... e voglio augurarmi che ... - Cosí parlando, cercava nelle tasche posteriori dell'abito nero qualche cosa che doveva compire la frase imbarazzata e rimasta interrotta. Ne cavò due astucci di velluto azzurro, e presentandoli alla marchesina, con aria di volgare compiacenza, soggiungeva - E voglio augurarmi che accetterà gentilmente questo piccolo segno di affetto che mio fratello il principe ed io ci permettiamo di offrirle -. La marchesina balbettò qualche parola di ringraziamento intanto che la marchesa, aperti gli astucci, ammirava il regalo e ringraziava da parte sua. - Gioie di famiglia - disse il marchese - e per ciò di maggior valore. È stato delicatissimo pensiero. - Ricordo della principessa mia madre. Il principe mio fratello è dispiacente che uno dei soliti attacchi di podagra a cui va soggetto - fa pena a vederlo soffrire, inchiodato su una poltrona, come l'ho lasciato ieri! - gli abbia impedito di accompagnarmi per conoscere personalmente la futura cognata -. E tutt'a un tratto, mutando tono, aggiungeva: - Bisogna essere allegra in casa mia, cara marchesina! Io sono sempre di buon umore. Bado ai miei affari; non m'impaccio di cose pubbliche; e non amo certi contatti con certa gente venuta su a galla al giorno di oggi. Mio fratello il principe è di parere diverso ... È però appassionato della musica, come voi; so che siete una pianista di prima forza. Mio fratello è bravo suonatore di violoncello; la principessa mia cognata canta discretamente ... Vi troverete in buona compagnia con loro ... Io ... io faccio qualcosa di piú utile; bado agli affari di casa mia, che non sono pochi ... Per la musica ho l'orecchio duro ... Stono terribilmente cantando. Non sembro della razza dei Cavanna che sono stati tutti, chi piú chi meno, musicisti. Non vi dispiacerà. Sono sincero; è meglio farsi conoscere subito per quel che si è. Con me bisogna stare sempre allegri; le barzellette mi piacciono, lecite, s'intende. Non posso patire i collitorti. «Servite Domino in laetitia», come diceva mio zio il vicario capitolare, che non volle esser vescovo per non avere troppi grattacapi. Io rassomiglio a lui ... - Pareva che, preso l'aire, non potesse fermarsi; e parlando, si stropicciava le mani, contento di sé e di quel che diceva. E non si accorgeva dell'impressione di repugnanza e di nausea che la marchesina non riusciva a nascondere, seria, impallidita un po', con le labbra lievemente contratte da un lato, e gli occhi socchiusi. Oh, si sentiva salir dal cuore una forza inattesa! Davanti a quell'uomo ella avrebbe parlato forte, dignitosamente, da vincerlo in pochi istanti, da abbatterne la sciocca vanità. Che confronto con l'«altro», col lontano, con l'amato! Tutta l'anima sua si protendeva verso l'assente, e la persona secondava il moto dell'anima, inchinando il busto, irrigidendo il collo, quasi rapita dalla visione che le sorrideva davanti. Piú tardi, poco prima di andare a pranzo, si erano trovati soli sul terrazzino del salone che guardava verso la cittaduzza sottoposta, gran mucchio di case addossato alla collina, con le punte dei campanili e le cupole delle chiese indorate dagli ultimi raggi del sole prossimo a tramontare. - Bella vista! - egli disse. La marchesina approvò con la testa. Poi cominciò: - Per scrupolo di coscienza e confidando nella vostra generosità ... - Siccome egli aveva fatto un gesto di sorpresa alle prime parole di lei, cosí la marchesina si era arrestata. - Quale scrupolo? - egli fece dopo breve pausa. - Dicono che una Santacroce deve rassegnarsi alla volontà dei parenti; mi sono rassegnata. A voi però, non posso né devo nascondere ... che il mio cuore ... - E si arrestò di nuovo a un piú vivo gesto di sorpresa del barone, che, rizzandosi su la persona, appoggiate le mani sul ferro della ringhiera, la fissava curiosamente, quasi egli non avesse capito bene ... - ... che il mio cuore non è libero, da due anni ... I miei parenti lo ignorano - riprese la marchesina. - Tutte le ragazze, alla vostra età, hanno il segreto di un amoruccio ... senza conseguenze. Grazie della confidenza. Questo intanto non influisce ... Eh, via! Se si dovesse tener conto di simili picciolezze! ... - Picciolezze? Barone, v'ingannate ... - Eh via! Io conosco la vita ... Va bene! ... Non vi affliggete per ciò. Il matrimonio è un'altra cosa. Il matrimonio scancella ben piú che un amoruccio ... di convento, mi figuro. Non c'è da avere scrupoli ... Io conosco la vita! - Dovreste fare un atto degno di voi ... Rinunziare alla mia mano; trovare una scusa, un pretesto qualunque ... - Anzi! Anzi! Questa vostra confessione, mi fa anzi capire che ho scelto bene, molto bene. Un'altra, nel vostro caso, avrebbe taciuto. Inezie! Io mi ritengo un confessore in questo momento; dimenticherò ... Non ne parliamo piú! - Rideva, si stropicciava le mani; e la marchesina lo guardava sbalordita, con un fiotto di sdegno che la soffocava e le strozzava le parole in gola. - Parliamone piuttosto - ella balbettò - mentre siamo in tempo. Ho fatto appello alla vostra lealtà, alla vostra generosità. Io, ve lo dico schiettamente, non potrò esser felice con voi. Voglio risparmiarvi l'umiliazione di un rifiuto; l'accetto, la invoco da voi. Trovate un pretesto qualunque.,. - Ma queste cose si fanno nei romanzi francesi! - egli la interruppe - La gente riderebbe di voi e di me, se mai arrivasse a sapere ... - Nessuno saprà niente. Sarà un segreto tra noi due ... Come potrete sposarmi, ora che conoscete che il mio cuore appartiene a un altro? - Eh, via, marchesina! Parlate sul serio? - Come se fossi in punto di morte! - ella rispose. - Ho detto cosí non perché io dubiti della vostra sincerità, ma perché i vostri scrupoli, scusate, mi sembrano puerili. Voi siete inesperta. Siete vissuta in convento fino a diciotto anni. La vostra casa è peggio di un convento ... Io non sono d'accordo col principe mio fratello, che ... liberaleggia; ma non approvo neppure il marchese vostro padre che si è chiuso in questo palazzo come in una prigione ... Io batto la via di mezzo. In casa mia si prende il mondo com'è; tanto, il mondo va senza di noi; è inutile affannarsi per esso. Dobbiamo badare ai fatti nostri. Chi ha tempo da perdere ... Io non ne ho, e voglio vivere tranquillo, come mio zio il vicario capitolare che rinunziò di esser vescovo ... Vescovo di casa mia, sí ... Ho pensato sempre cosí. Penserete cosí anche voi, perché il matrimonio accomuna ... E gli amorucci ... di convento, svaniscono presto ... Avrete altro a cui badare quando sarete baronessa di Pietrerase! - Ma voi mi giudicate male ... - Vi giudico benissimo. Lasciate fare a me. Se il vostro amoruccio fosse una cosa seria, già sarebbe un matrimonio, o un principio di matrimonio; non avreste avuto ritegno di confessarlo ai vostri parenti ... Uno studentucolo, mi figuro! Ah! Ah! Vi ammiro, per l'ingenuità ... Vapori! Nebbia! Un soffio di vento porta via ogni cosa! E poi, e poi ... farei una bella figura presso il marchese vostro padre e presso la marchesa! E perché? Per una fisima! Se ne aveste parlato a vostra madre, l'avreste veduta sorridere, vi avrebbe risposto come me: Non c'è d'avere scrupoli, figlia mia! ... Zitta! Eccola ... Per me è come se non sapessi niente. E non ve ne riparlerò mai; contate su la mia parola -. Quasi le fosse cascato un macigno addosso! Quasi tutto quel rosso che tingeva cupamente il cielo là di faccia fosse stato il sangue del suo cuore sgorgato dalla ferita ch'ella si sentiva fatta dalla barbara mano del barone! ... - Fa un po' fresco; sei pallida - le disse la marchesa. - Bella vista! - esclamò il barone, per rompere il silenzio. - I polmoni si dilatano nel respirare tant'aria. - Non abbiamo altro qui - rispose la marchesa. La marchesina trambasciava e sfuggiva gli sguardi di sua madre che sembrava volessero interrogarla. Aveva perduto ogni ardire, ogni forza. Era inutile ribellarsi contro il destino. Si vedeva già in balia di quell'uomo che si accarezzava stupidamente le fedine, che appariva pago di sé per la risposta data a lei poco prima, quasi assaporasse la vittoria, poiché sorrideva senza nessun motivo, mentre tutti e tre tacevano e anche la marchesa sembrava assorta da qualche dolorosa riflessione. - Ho avuto torto di non confidarmi con mammà! - pensava la marchesina. - Ma ormai ... è troppo tardi! ... - A tavola, il barone avea parlato per dieci. Don Paolo Forti, unico commensale estraneo alla famiglia, si era creduto in obbligo di applaudire, ridendo, le volgari spiritosità del futuro marito della marchesina. Certamente essa non aveva ancora avuto l'occasione di parlargli da solo a solo, altrimenti il barone non sarebbe stato di umore cosí allegro - pensava don Paolo. - Ma pensava anche che i signori sogliono prendere le cose in modo diverso dagli altri. Poteva darsi benissimo che quell'allegria fosse finta, per mascherare la sconfitta. - Cappellano, siete di poco appetito oggi! - Ah, signor barone! La mia tavola ordinaria non va piú in là di due pietanze alla buona. - Ma quando capita ... - Lo stomaco ha le sue abitudini. - Io non ho preferenze né repugnanze in fatto di mangiare. In campagna mangio anche pane e cipolla come i contadini, se occorre. «T'invidio» mi dice sempre il principe mio fratello. Lui, con la podagra, deve privarsi di questo, di quello; non sa piú che cosa mangiare. Stomaco di ferro ci vuole. Io digerirei anche i ciottoli, come gli struzzi. La marchesina non dovrà impazzire per la mia tavola. - Dovrà pensarci il maestro di casa o il cuoco - disse la marchesa con lieve punta di ironia. - Certamente; ma le redini della casa - è tradizionale nella famiglia Cavanna - stanno in mano della padrona. La principessa mia cognata bada a tutto, ha occhio per tutto; una vera massaia. Se non si fa cosí, specialmente oggi che l'Italia ci scortica, anche le piú solide famiglie vanno giú -. Il marchese scosse la testa, confermando. Durante il pranzo, la marchesina Cilia aveva detto poche parole. Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

. - Francamente, mi sembra che tu abbia paura. - Paura di che? Sarebbe bella! ... - Paura di dover mutare opinione. Hai detto: «Io non credo agli spiriti». E se, dopo, fossi costretto a crederci? - Ebbene, sí; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo cosí noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l'intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l'intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti. - Oh!… esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. - Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti - e non dico che avessero torto - anch'essi badavano, piú che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti piú da quell'anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato «caro poeta!». L'etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c'è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: e talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta. - Ecco come siete voialtri letterati! Cominciate sempre ab ovo ! - Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non avevo piú avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell'eredità di uno zio che non s'era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra ... e con dugentomila lire di cartelle della Banca d'Inghilterra volai qui ... dove mi attendeva il piú doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l'amavo piú di prima! ... La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui ... Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirgliela per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l'enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui. «Vengo a restituirle questa lettera - mi disse. - Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto cosí. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica». Era impallidito parlando e gli tremava la voce. «Chiedo perdono dell'imprudenza - risposi. - E per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi». Dovevo essere piú pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: «Sono vedova. T'amo sempre. E tu?» Suo marito era morto da due mesi. - Il mondo è cosí: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro. - È quel che egoisticamente pensai anch'io; ma non è sempre vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di «colui». Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l'ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l'intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggí dalle labbra. «Come sono felice - esclamò - che questo sia avvenuto soltanto ora!» Si udí un gran colpo all'uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c'era nessuno. - Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell'uscio dal calore della stagione. - Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla. - E cosí, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda. - Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l'eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch'essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l'aveva ripresa. La notte, tutt'a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. «Che cosa hai? Ti senti male?» le domandavo ansioso. «Ho paura ... Non hai udito?» «No». «Non odi? ... » insistette la sera appresso. «No». Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giú, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di piú. Levavo il capo, guardavo ... «Dev'essere entrato qualche topo in camera ... » «Ho paura! ... Ho paura!» Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell'inesplicabile andare e venire, su e giú, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo. - E le fantasie riscaldate facevano il resto. - Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora ... Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giú, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: «È lui! È lui!» - Scusa - lo interruppe Mongeri - non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sí. «È lui! È lui!» Non già, come crede tua moglie, l'anima del defunto. È quel lui , cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia. - Sia pure. Ma io - riprese Lelio Giorgi - come c'entro con la tua fisiologia? - Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo. - Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa? - L'attenzione aspettante, oh! fa prodigi. - E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto? - Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L'incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch'esso. - Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l'identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d'impedirle di gridare: «È lui! È lui!» quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandomisi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: «Ha parlato!» «Che dice?» «Non ho sentito bene ... Odi? Ha detto: "Sei mia!"» E siccome anch'io la stringevo piú fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva. - Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza? - Va bene ... Ma ho sentito l'ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei ... Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta ... Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente ... Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lí a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio ... Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui . Non m'udiva piú, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti ... Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. «Che colpa ho io, se tu sei morto? - Oh! no, no! ... Come puoi pensarlo? Avvelenarti io? ... Per sbarazzarmi di te? ... È un'infamia! - E il bambino che colpa ha? - Soffri? Pregherò per te, farò dire delle messe ... - Non vuoi messe? ... Me, vuoi? ... Ma come mai? Sei Morto! ... » Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell'allucinazione ... Luisa si ricomponeva tutt'a un tratto. «Hai sentito? - mi diceva. - Mi accusa di averlo avvelenato. Tu non ci credi ... Tu non mi sospetterai capace ... oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito?» Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava ... Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui . Come faremo? Come faremo? - Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi. - Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente piú solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene ... Ma nel mio caso e sotto l'influenza delle parole di mia moglie: «Farò dire delle messe» pensai naturalmente all'intervento di un prete. - L'hai fatta esorcizzare? - No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta ... anche per impressionare l'immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d'immaginazione esaltata, di nervi sconvolti ... Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni. - E l'acqua benedetta? - Inefficace. Come se non fosse stata adoperata. - Non l'avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l'operazione, con tutto l'apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature ... e il malato guarí. - L'acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo ... Oh! ... Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l'odio di colui era rivolto contro il bambino ... Come proteggerlo? ... Appena Luisa vedeva ... - O le sembrava di vedere ... - Vedeva, caro mio, vedeva ... Vedevo anche io ... quasi. Giacché mia moglie non poteva piú avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva ... Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui - me lo diceva Luisa - chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue ... Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino ... non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! Come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo. - Si tratta dunque? ... - Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po' sarcastico e un po' compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Giorgi parlava, si era spento tutt'a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l'amico che lo guardava con ansiosissima attesa, e ripeté: - Si tratta dunque? ... Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere piú schietto di cosí. Ma posso darti un consiglio ... empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me ... Fanne l'uso che e credi. - Lo eseguirò subito, oggi stesso. - Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel piú breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l'aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all'infuori di questo mondo materiale. Lo spirito ... Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti.… Per la scienza c'è di reale soltanto l'organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l'individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi ... Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, piú o meno lungamente dopo la morte ... Si comincia a sospettarlo ... E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d'accordo con la credenza popolare ... Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore ... Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire ... La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, piú probabilmente, di quell'istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L'uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie piú che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe; e l'uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l'istinto; nell'uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtú primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono piú tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell'ignoranza ... Perdonami questa lunga digressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l'atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell'esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare - ci serviamo di questa parola - lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità piú persistenti delle altre, casi rari, sí, ma possibili anche senza ammettere l'immortalità dell'anima, dello spirito ... Non spalancar gli occhi, non crollare la testa ... È fatto, non insolito, intorno al quale la cosí detta superstizione popolare - diciamo meglio - la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d'accordo con la scienza ... E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l'essenza vitale delle persone sane? ... L'affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano ... È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa ... Tu dici che il tuo bambino ... - Vieni a vederlo; non si riconosce piú. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore ... Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto ... Ma ... Invano mi ripeto: «Non è vero! Non può esser vero! ... » Invano ho tentato di confortarmi pensando: «E dato pure che fosse vero? ... È una gran prova d'amore. Si è fatta avvelenatrice per te! ... » Invano! Non so né posso piú difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui ! ... Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta: «Avvelenarti? Io? ... Come puoi crederlo? ... » Oh! Non viviamo piú, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate ... Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo ... E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che cosí strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina. - Fate cremare il cadavere. È una prova che m'interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non piú vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all'empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente - soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante. - E il bambino intanto? - esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. - Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: «Va' via! Va' via, maledetto! ... » Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio ... Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare ... - Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte ... - Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza ... - T'inganni. - Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva ad irritarlo di piú, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani ... - E il giorno dopo, egli tornò cosí spaventato, cosí disfatto che il Mongeri concepí qualche dubbio intorno all'integrità delle facoltà mentali del suo amico. - Egli sa! - balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. - Ah, che nottata d'inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo. - Tanto piú dobbiamo osare - rispose il Mongeri. - Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: «Sí, sarò tua, tutta tua! ... Ma risparmia quest'innocente ... » E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch'ella non fosse davvero piú mia, ma sua, di colui ! - Calmati! ... Vinceremo. Calmati! ... Voglio esser con voi questa notte -. Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: - Accade quasi sempre cosí. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre cosí. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare -. E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com'egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l'orecchio ... Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l'agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto. Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio. Bel parlatore, senza nessun'affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare cosí l'attenzione di quei due, e intanto non perderli d'occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi; e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell'istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov'era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi. Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava. - Eccolo! - ella gridò. - Oh, Dio! Povero figliuolino! - Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov'era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla. - Non è niente! - disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa. La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito piú violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei. - Perché dici che voglio continuare a farti del male? ... Ho pregato per te! ... Ho fatto dir delle messe! ... - Ma non si può sciogliere! Tu sei morto ... - Non sei morto? ... Dunque perché mi accusi di averti avvelenato? ... - D'accordo con lui? Oh! ... - Ti aveva promesso, sí; ed ha mantenuto ... Per finzione? C'intendevamo da lontano? Lui m'ha spedito il veleno? ... È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità ... - Va bene. Non ti stimerò morto ... Non te lo ripeterò piú. - È in istato di trance spontanea! - disse Mongeri all'orecchio di Lelio. - Lasciami -. Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò - Signora! ... - Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri diè un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisonomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita. - Che cosa vuoi? Perché t'intrometti tu? - Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L'abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l'influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente: - Finiscila! Te l'ordino! - Aveva messo nell'espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all'esaltamento nervoso della signora, superarlo - egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel «te l'ordino», lo scosse, lo fece titubare un istante. - Finiscila! Te l'ordino! - replicò poi con maggior forza. - Ah! Ah! Vuoi essere il terzo ... che gode ... Avvelenerete anche lui? - Mentisci! Infamemente! - Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po' turbata, non ostante gli sforzi ch'egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentí battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare. - Vedi? Vedi? - gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce. Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance, quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s'interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l'oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare ... improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde piú altro. La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti al suo amico: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo». Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l'esperimento fino all'ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente), la sua reputazione di scienziato dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l'esperimento abbia confermato la credenza popolare, e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere, i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: «I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza; il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato». No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione, tanta suggestione, tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l'altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d'abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato. Il piú curioso è che non si è mostrato piú coerente come uomo. Egli che proclamava: «Non sposerei una vedova per tutto l'oro del mondo» ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: - Ma come? ... Tu! ... - rispose: - A quest'ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni! - senza accorgersi che, parlando cosí, contraddiceva l'autore della memoria scientifica Un preteso caso di Vampirismo , cioè, se stesso.

Viosci non mi ha piú riparlato di Enrichetta, ed io mi son lusingato, per carità umana, che come tutti i proverbi, anche «In vino veritas» abbia questa volta mentito!

. - Io ho creduto finora, che il nostro organismo, cosí semplice e cosí delicato, abbia invece una forza di resistenza veramente straordinaria. - E appunto qui consiste il suo mistero! Urti, colpi violentissimi, spesso non vi producono nessuna notevole impressione; e quel che in confronto di essi potrebbe dirsi un soffio, una lieve spinta, vi fa avverare, come nel caso di cui parlerò, un grave disastro. - Ma voi non siete impazzito! - Ero già su la via, altrimenti l'atto da me commesso sarebbe proprio inesplicabile. Ho reagito in tempo; ecco tutto. - Insomma, che cosa avete fatto? - domandò la baronessa resa impaziente dalla curiosità. - Ho distrutto un capolavoro, o per parlare con precisione, un'opera d'arte che certamente, stava per riuscire un capolavoro. - Perché? - Perché? ... Il mio amico Doneglia, scultore valentissimo che sarebbe salito in gran fama se fosse stato meno modesto e meno incontentabile, mi tormentava da parecchi anni: «Voglio fare il tuo ritratto!» «Se io fossi meno brutto!» rispondevo. «Sarai bellissimo nel marmo o nel bronzo» insisteva. - Si era fitto in mente che io avessi una testa da filosofo greco con quella lunga barba che m'ero lasciato crescere allora e i capelli folti e arruffati di cui piú non c'è quasi vestigio. A me però sembrava troppo onore per la mia barba e pei miei capelli l'essere immortalati da un grande artista come lui. Pensavo ch'egli avrebbe impiegato meglio il suo ingegno e il suo tempo terminando quel suo centauretto che ruzzava tra l'erba e pareva uscito dalle mani di uno scultore ateniese dei tempi di Fidia, quantunque lasciato non finito con la scusa che il ragazzo servitogli da modello era morto ed egli non aveva piú trovato chi potesse sostituirlo. Glielo ripetevo ogni volta che tornava a tentarmi. «Ebbene - mi rispose un giorno - ti do la mia parola d'onore che finirò il centauretto, se prima mi lascerai cavare il capriccio di fare il tuo busto!» Era premio troppo grande da non vincere tutti i miei scrupoli. E misi la pretesa mia testa da filosofo greco a sua disposizione. Cosí vidi di giorno in giorno, sotto il nervoso pollice del mio amico e sotto l'abilissima opera della sua stecca, uscir fuori dall'informe cumulo di creta ammassata sul cavalletto la mia figura cosí viva e parlante, che la guardavo con stupore quasi mi fossi sdoppiato, o quasi qualche cosa di me si fosse trasfuso in quell'immagine dalle cui labbra mi attendevo di sentir scappare da un momento all'altro il suono della mia voce, come già c'era il lieve bonario sorriso che, a detta del mio amico, formava la caratteristica della mia fisonomia. I doveri di medico non mi permettevano di accordargli frequenti e lunghe pose. Spesso passavano due, tre settimane senza che io mettessi piede nel suo studio. «Oh, Dio! Ti sei un po' ingrassato! - o pure: - Oh, Dio! Sei alquanto dimagrito!» Come avvenissero questi cambiamenti piccoli ma percettibili, giacché egli li notava subito, non saprei dire. «Non lo faccio a posta» rispondevo scusandomi. Ne ero dispiacente perché gli inopportuni cambiamenti ritardavano molto l'esecuzione del busto. L'incontentabile artista doveva togliere qualche cosettina qua, supplirla là; e quel po' di creta, tolta o aggiunta in un posto, determinava altre aggiunte o soppressioni, delle quali egli cercava di spiegarmi l'intima ragione per indurmi a pazientare nel martirio della posa. Ogni volta allora, riprendendo la seduta, mi sembrava ch'egli scancellasse l'impronta della straordinaria rassomiglianza, ma alla fine, sul punto di accomiatarmi, mi maravigliavo che la rassomiglianza e l'alito di vita animatore del busto fossero col paziente lavoro divenuti piú evidenti. Un giorno gli dissi scherzando: «Non mi accadrà, spero, come alla amata di quel pittore di cui si parla in una novella del Poe. Io non morrò perché la mia vita si sarà trasfusa tutta nel ritratto quando esso sarà finito». Rispose con un brontolio. Passava e ripassava il dito su la fronte del busto, ed io mi accorsi che egli si sforzava di spingere un po' in dentro qualche cosa di duro che la creta copriva appena. «C'è un sassolino?» domandai. «No, il cranio vien fuori ... Ho messo qui un cranio per meglio modellare la testa». «Un cranio? Proprio un cranio?» «Ti stupisce?» Non potei nascondergli che il sapere incastrato nella testa del mio busto il cranio di un morto ignoto mi produceva repugnante impressione. «Molti scultori fanno cosí» egli mi disse. Rimessomi a posare, mi sentivo impacciato. Fanciullaggine! Ora lo comprendo; ma quel cranio che, vivente, aveva contenuto un cervello pensante diversamente dal mio, mi faceva fantasticare stranissime cose. Mi pareva che l'impronta di vita del mio ritratto dovesse ridestare le funzioni intellettive della vuota cassa cerebrale, e produrre un turbamento che poteva oltrepassare l'opera d'arte e influire su l'originale, su me che mi vedevo rivivere in essa. Mi pareva anche di sentirmi un che di estraneo dentro la testa, quasi quel cranio non fosse solamente incastrato nella creta, ma si fosse sostituito al mio, o almeno tentasse di sostituirsi al mio, come per opera di magia. Fanciullaggine! ripeto. E tale la giudicavo da principio. Infatti, nelle sedute dei giorni appresso, scherzando, dissi all'amico scultore: «Chi sa che diamine pensa il mio ritratto con quel cranio altrui! Vi sarà rimasta qualche impressione dei pensieri là avvenuti una volta, e forse la forma esteriore può produrre il miracolo di metterli in moto. È una cosa macabra». Intanto, durante le sedute di posa mi affondavo sempre piú in questa fissazione. Un crescente malessere mi invadeva. Non osavo piú di scherzare intorno a quel cranio. La preoccupazione dello spirito alterava l'espressione della mia fisonomia, facendomi corrugare la fronte, e togliendo alle mie labbra la caratteristica del lieve, bonario sorriso che lo scultore era riuscito a rendere, con molto stento, nell'opera sua. «Che cosa hai? - mi domandava. - Muoviti, parla; non prendere quest'aria mutriona che ti disdice!» Ed io non avevo il coraggio di confessargli che tutto proveniva dal maledetto cranio di cui egli aveva avuto la funebre idea di servirsi per modellare piú facilmente la testa del busto. Ormai quel senso di malessere non era piú momentaneo, durante soltanto le poche ore di posa; lo portavo via con me tutta la giornata, e, la notte, mi impediva di addormentarmi subito appena entrato in letto, come solevo, quantunque le visite e le occupazioni giornaliere mi facessero rientrare a casa non meno stanco di prima. Non mi sentivo piú io, ma un po' quell'altro che doveva pensare dentro la testa del busto sotto l'involucro di creta che lo copriva. Ed era una smania acuta, una sofferenza tormentatrice a cui non riuscivo di sottrarmi. Mi sembrava ridicolo che mi fossi ridotto fino a questo estremo; mi davo dell'imbecille e peggio; ma nello stesso tempo provavo una vivissima attrazione verso il busto che di giorno in giorno diveniva sempre piú rassomigliante e piú vivo con l'amorosa, assidua carezza del pollice dell'artista, dal quale vedevo affinare maravigliosamente la modellatura. Per parecchi giorni di seguito ero andato a posare. «Poche altre sedute - mi diceva il Doneglia - e poi sarai libero». Egli, l'incontentabile, cominciava ad essere soddisfatto dell'opera sua. Ma io vedevo aumentare, con una specie di terrore, l'espressione di persona proprio viva che il busto aveva già assunto in quelle ultime sedute. Mi voltavo a ogni istante per guardarlo, irrequieto, con la sensazione di una dolorosa pressura al cranio mio e del busto, quasi fossero divenuti un cranio solo; con la sensazione di una lotta, di un contrasto di pensieri opposti che vi tumultuassero dentro per prendere gli uni sopravvento su gli altri. E mi mordevo le labbra, e increspavo le mani conficcandomi le ugne nelle carni, facendo grandi sforzi per non far scorgere all'artista la mia interna angoscia. Egli dava gli ultimi tocchi di stecca agli occhi, facendovi la pupilla, dove quasi sprizzava una luce che animava il busto straordinariamente; e lavorava intento, con estrema delicatezza, mentre io sentivo piú e piú invasarmi dall'idea che stessi per perdere la mia personalità ed essere interamente asservito a quell'altro ... «No! No!» gridai, slanciandomi addosso al busto e rovesciandolo con le due mani dal cavalletto. «Oh, Dio! Che hai fatto! Perché? Perché?» Ma io non badavo al desolato grido dell'artista che vedeva distrutta l'opera sua; e coi piedi deformavo la testa rimasta intatta nella caduta, facendone schizzar fuori quel cranio con le occhiaie, con la dentiera e il buco triangolare delle narici imbrattati di creta che sembrava carne imputridita e rimastavi appiccicata nello sfacelo; poi, con la punta di un piede lo facevo ruzzolare in un angolo. «Perché? Perché?» «Perché?- risposi, rinvenendo dal furore che mi aveva improvvisamente assalito. - Mi sentivo impazzire. Oh, quel cranio! Perdonami! Mi sentivo impazzire». Capivo l'enormità a cui ero trasceso, e la contristata figura dell'artista, che guardava stupito la distruzione da me operata, mi faceva pietà. Ma io rivivevo, io provavo l'immensa gioia della liberazione dall'incubo che per poco non mi aveva fatto perdere la ragione; e stringendo affettuosamente le mani del mio povero amico, gli mormoravo: «Perdonami! ... Pensa ora al tuo centauretto; non castigarmi col lasciarlo non finito!» È un gran rimorso. Il Doneglia non ha piú ripreso la gentile statuina, e la moderna scultura italiana non può contare, per mia colpa, un capolavoro di piú.

- gli disse il pretore - Ne sono contento anch'io, quantunque essa mi abbia dato torto. Un giudice di tribunale ha piú lumi che non un pretoruccio mio pari. Ora piú non sospetterete del magistrato ... Non me ne lagno; ai litiganti che perdono è permesso qualunque sfogo ... So quel che avete detto ... Non me ne lagno, vi ripeto. E ora giacché siamo su questo discorso, voglio farvi una confidenza. Quel vecchio imbecille del Liscari o non s'era figurato di poter corrompere l'integrità dell'arbitro? ... Ebbe la sfrontataggine, sí, sí ... E il giudice dovette contenersi per non fargli ruzzolare le scale! Persuadetevene, caro don Tano, la giustizia non si vende. Il magistrato alza la bilancia e dove il piatto trabocca ... trabocca! - Precisamente! - rispose don Tano, con un equivoco sorriso su le labbra. - Precisamente! Poteva confessare al pretore quel ch'egli aveva fatto? La sera di quel giorno, arrivato a casa, don Tano era stato illuminato di un lampo di genio. Aveva preso uno dei piú belli anelli, con diamante, da lui posseduti, e si era sfrontatamente presentato dal giudice, all'albergo. - Ecco l'anello smarrito. L'ha ritrovato, fortunatamente, uno dei miei contadini. - Grazie! - aveva risposto il giudice mettendoselo al dito. - Non mi dispiaceva tanto pel valore, quanto perché l'anello era un carissimo ricordo. Mille grazie, don Tano -. E quel brav'uomo del pretore che voleva dargli a intendere: - Il magistrato alza la bilancia e dove il piatto trabocca trabocca! - Secondo don Tano, tra i magistrati ce n'è sempre qualcuno che ha smarrito un anello; nessuno può piú levarglielo di testa.

Sia che egli abbia operato la puntura nel lato destro invece che nel sinistro, o in un altro impercettibile punto non ancora scrutato dalla scienza, il resultato fu terribile. E prima ad accorgersene fu la dolce signora von Schwächen, che il marito, chiamato per non so quale seduta coi suoi colleghi di università, aveva dovuto lasciar sola a guardia dell'addormentato. Ella era entrata nella camera, assai commossa dal caso; e si era permesso un castissimo gesto di carezza alla fronte del giovane, quando lo vide saltar giú dal letto ... Ah Signore Iddio! E non ebbe tempo di indignarsi, di gridare al soccorso. Non aggiungerò altro, - s'interruppe il dottor Maggioli, a un vivissimo gesto della baronessa - quantunque, se veramente avesse voluto, nelle tre ore che passarono - egli soggiunse subito, sornione - prima che il professore fosse tornato a casa, la onesta signora avrebbe potuto indignarsi, gridare al soccorso e fare ben altro! Il professore trovò il giovane già desto, un po' abbattuto, e gli sorrise col piú ipocrita dei sorrisi che mai labbro umano avesse abbozzato. E sicuro del fatto suo, trionfante, sprezzante, da quel giorno permise che il giovane Hart rinnovellasse piú frequentemente le visite alla signora, e acconsentí anche che l'accompagnasse qualche volta, e solo, al passeggio. La signora von Schwächen scoprí un giorno, fra gli appunti dei cartolari scientifici del marito, la spiegazione della sua sicurezza e della sua tranquillità, e fu indignata dell'infamia commessa contro quei poveri otto o nove timidi adoratori di lei. Palesò la scoperta al suo Hart; il quale sospettando quel che doveva essere accaduto con lui, si dié segretamente a fare esperienze che lo condussero a verificare, in modo assolutamente scientifico, quel che il caso aveva fatto operare al ferocissimo sterilizzatore. I due amanti, per ciò, stimandosi troppo protetti dalla sicurezza del professore, non presero piú, da allora in poi, tante precauzioni nelle loro gioie, e un bel giorno si fecero sorprendere. Ma allora si vide quel che può la passione scientifica in un alto intelletto. Invece di buttarsi addosso al vituperatore del suo talamo e strozzarlo, il professore von Schwächen volle persuadersi come mai la sua operazione fosse fallita. Si mise a discutere con lo scolare, quasi niente di male fosse accaduto, quasi si trovassero rinchiusi nel laboratorio. Il professore espose la sua scoperta e le sue otto o nove esperienze in anima vili ; Hart riferí i resultati opposti, ottenuti per via delle ricerche da lui iniziate, e addusse in prova se stesso. E di accordo, come contratto di pace, professore e scolare stabilirono di non propalare le loro rispettive scoperte. «La mia è malefica!» conchiuse il professore. «La mia è peggio; è superflua!» conchiuse il discepolo -.

Vi scrivo soltanto per farvi sapere che oggi sono calmo, rassegnato alla mia sorte di «uccello da richiamo», di allumeur di amore come mi sembra abbia qualificato lo Stendhal coloro che le donne destinano maliziosamente a tal ridicolo ufficio. Non sono ben sicuro della citazione stendhaliana; ma in questo momento mi sembra inutile riscontrarne l'esattezza. E poi ricordo che le citazioni non vi piacciono; le stimate pedantesche. So che c'è stato qualcuno che è andato ad informarsi dal mio portiere se ero ancora in città o se ero partito e per qual posto. Il portiere era stato prevenuto di spedirmi le lettere, ferme in posta, a Parigi. La mia prima risoluzione, dopo il fiero colpo ricevuto con la vostra inattesa lettera, era stata appunto quella di mettere quanto piú spazio potevo tra voi e me; e avevo scelto Parigi, città ricca di distrazioni per un deluso di amore come me. Avrei potuto darvi ad intendere che la vostra lettera mi ha lasciato indifferente e che vi sono anzi grato di non aver atteso che la mia passione fosse maggiormente divampata per poi buttarvi il freddo getto di acqua destinato a spegnerla evidentemente tutt'a un tratto. La mia grande sciocchezza mi induce ad esser sincero, e a confessarvi che ho sofferto terribilmente, quattro o cinque giorni, come innamorato e come uomo. L'amor proprio, il sentimento della dignità non sempre rimangono sopraffatti dall'impeto selvaggio della passione. E il mio era proprio selvaggio contenuto e represso da quasi un anno, quando non osavo di manifestarvi neppure con un accenno di quale amore vi amavo. Cinque giorni di mortale angoscia, di sconvolgimento dell'intelletto e del cuore molto vicino alla pazzia, non dovrebbero sembrar pochi al vostro orgoglio femminile. Certi sentimenti vanno giudicati, piú che dalla durata, dalla loro intensità. E la intensità di quel che ho sofferto in quei cinque giorni potrebbe soddisfare le pretese eccessive di qualunque donna anche piú vanitosa di voi. Se il mio dolore fosse stato meno intenso forse durerebbe ancora; ed io vi avrei scritto da Parigi una lettera probabilmente molto diversa dalla presente. L'eccesso mi ha salvato; e per questo, invece che dalla capitale della Francia, vi scrivo da una deliziosa villetta della riviera ligure dove potrò serenamente riflettere sul mio caso, se il lavoro, a cui mi son rimesso dopo un'interruzione di sei mesi, mi concederà il tempo di abbandonarmi a tale meschina occupazione psicologica. La villetta è quasi in riva al mare, circondata da tre lati da un giardinetto dove la mite temperatura di questo aprile ha già fatto esplodere una vigorosa fioritura che voi mi invidiereste, se poteste vederla, voi che amate tanto i fiori, dato pure che il vostro cuore possa amare qualcosa. Dall'altro lato, verso il mare, si stende un morbido tappeto di arena gialliccia a cui le onde rinnovano continuamente la loro ricca frangia di spuma. Sono solo solo, perché la vecchietta che ho presa per servirmi non m'importuna affatto con la sua presenza. È persona primitiva; non sa leggere né scrivere, e si stupisce della vita eremitica che io meno, specialmente del sapermi intento a scrivere da mattina a sera; giacché non faccio altro. Difficilmente avrei potuto trovare un posto piú adatto per continuare e finire il mio romanzo Primavera, che non dedicherò piú a voi, per non farvi immaginare che io voglia destarvi in petto qualche fugace rimorso. Voi, ne sono certo, non mi addebiterete a colpa questa mancata promessa. Senza la premurosa compiacenza di un amico, non saprei ancora spiegarmi il mistero della vostra lettera di rottura. Sarei stato cosí sciocco da stentare lungamente a trovarne la chiave, e chi sa? forse avrei finito con credervi sincera. Debbo soggiungere, per scrupolosità di esattezza, che in certi momenti, nel vostro salotto, ho avuto piú volte una sfumatura di presentimento di quel che stava per accadere. Ricordate? Vi ho manifestato in parecchie occasioni la mia istintiva avversione verso quella stupida figura di belloccione - se si può cosí tradurre il francese bellâtre - che voi, nella nostra intimità, chiamavate: «manichino da gran sarto», per convincermi che lo avevate destinato a servirvi da schermo contro i sospetti e la malignità dei frequentatori della vostra casa, specialmente delle vostre amiche. Ricordate? Una sera fin mi rimproveraste: - Non mancherebbe altro che essere oltraggiata dalla vostra gelosia per costui! - Oltraggiata! E pronunziaste questa parola con tale accento di disgusto, che io, dopo quella sera non ebbi piú ardire d'insistere. E avrei dovuto subito capire come mai quel belloccione poteva servirvi da schermo, se poi sdegnavate di prendere qualche precauzione per nascondere alle amiche, e a tutti coloro che in casa vostra avevano occhi per vedere, la vostra apparente predilezione per me; la quale poteva benissimo far sospettar ben altro di quel che, con sapiente indugio, vi eravate degnata di concedermi. Poco o niente, ahimè! e che pure sembrava molto alla facile contentatura (piena di dolci speranze, non lo nego) del mio cuore d'innamorato. Vi supponevo maestra nell'arte degli indugi che costituiscono, a quel che pare, la miglior maniera di accendere maggiormente gl'ingenui e di protrarre piú a lungo la natural durata dell'amore. Ingenuissimo, avevo ben altra idea di esso, giudicando da quello che sentivo per voi. Sono stato in adorazione, non ai vostri piedi, ma davanti alla vostra immagine che portavo nel cuore; era la prima volta che mi accadeva di amare davvero, e i miei trent'anni e la mia esperienza mondana non bastavano a difendermi dal commettere le inevitabili sciocchezze di un primo amore. Se avessi avuto il doppio di età e di esperienza, le avrei commesse egualmente. Infatti! Qualunque altro (io stesso forse, se avessi provato soltanto un passeggero capriccio per voi), si sarebbe quasi subito accorto del vostro gioco e vi avrebbe guastato le carte in mano. Non tutti i calcoli di una astuta e poco scrupolosa signora - è il caso vostro - riescono bene. Con un tantino dell'audacia che, in altre circostanze, mi ha fatto superare ostacoli per lo meno uguali a quelli che, certe sere, voi mi opponevate sorridendo e supplicando, a quest'ora io potrei stropicciarmi le mani dalla soddisfazione di essermi cavato un capriccio e di aver trovato l'imbecille che mi ha salvato dal pericolo di una incomoda relazione. Vi assicuro, Signora (e, se volete, posso confermarvelo con giuramento) che sono anzi lietissimo di non aver avuto quell'audacia. Voi, cosí fina, cosí intelligente, capirete che, affermandovi questo, intendo di farvi un altissimo elogio. Rimpiangerei oggi qualche cosa, e non saprei consolarmene, come ho rimpianto qualche volta, e me ne sono consolato a stento, il non aver prolungato la durata di un capriccio che forse meritava di divenire qualcosa di meglio. Spero non mi stimerete un vanesio leggendo queste che non vogliono essere poco modeste parole. Dovrei rimpiangere il tempo sprecato oggi a scrivervi; avrei potuto impiegarlo piú utilmente attorno agli ultimi capitoli del mio romanzo, Ma, che volete farci? non ostante l'indegno modo con cui mi avete trattato, io persisto a credervi migliore di quella che non volete apparire. La fatuità della perversione è difetto esclusivamente femminile. Per ciò non rimpiango affatto il tempo impiegato intorno a questa lettera. Voi forse sareste capace di foggiarvi l'acre delizia del rimorso di avermi reso infelice, e vorreste servirvene a insaporire piú ghiottamente la conquista del belloccione pel quale mi avete fatto recitare la parte di «richiamo», di allumeur stendhaliano. Forse avreste potuto avere, perché no? qualche giorno, qualche ora di sincero rimorso; ho voluto risparmiarvelo. Se alla vostra vanità può sembrare sufficiente la confessione di aver molto sofferto per quattro o cinque giorni, non ci trovo niente da ridire. Ma non abbiate nessun rimorso sul serio; io non mi sento infelice. E se soggiungessi che vi sono grato di avermi guarito un po' spietatamente, non importa, di una passione che minacciava di diventar pericolosissima, credetelo, Signora, non mentirei. Non vi accadrà tanto facilmente di far del bene senza volerlo. Vi lascio. È l'ora in cui, ogni giorno, esco a passeggiare su la spiaggia per riempirmi i polmoni di benefica salsedine di aria marina prima di riprendere a lavorare. Vi sono immensamente grato anche di questo beneficio. Sappiate conservarvi intanto ... il vostro «manichino da gran sarto»! E perdonatemi la piccola malignità di rammentarvi, finendo, questa veramente pittoresca frase che fa onore al vostro buon gusto, se non alla vostra sincerità. Cordiali saluti. RICCARDO

Cosí io ricevei da Rossi la confidenza che allora mi parve una delle sue solite bizzarrie e che, pur troppo, da lí a un mese, doveva essere la piú terribile impressione che io abbia mai sofferto in vita mia. Egli aveva cominciato a ripetere brontolando: «Quasi fosse tua proprietà! ... Di chi dunque? Io me n'infischio della natura e della specie, quando non ne posso piú della vita! Chi ha chiesto alla natura, alla specie: Fammi vivere?" Almeno riconoscetemi il diritto di buttar via con un calcio il triste regalo che mi è stato fatto!» «No, no, abbi pazienza, il diritto no ... In ogni caso ... Si fanno tante e tante cose senza averne punto il diritto!» «Perché poi possiate dire: "Era matto! ... " Il suicidio dovrebbe essere ammesso dal codice, come uno dei piú alti diritti umani». «Pretendi un po' troppo!» «Ci dovrebbe essere un'opera pia, un istituto governativo dove ognuno potesse trovare pronti a sua disposizione i mezzi piú rapidi per ammazzarsi. Sarebbe l'unica benefica istituzione sociale». «Io credo che tu esageri un po'!» risposi sorridendo. «Nell'avvenire, quando la scienza avrà completamente trionfato contro i pregiudizi religiosi e civili, la carità pubblica dovrà provvedere a questo. Oggi siamo in piena barbarie. Ci si vuole annegare in un fiume?.. Ed ecco le barche di salvataggio! Ci si butta da un quarto piano? E si sopravvive storpiati! Si prende un veleno? E i medici si affrettano a lavarci lo stomaco, se la sventura vuole che parenti od amici o guardie di pubblica sicurezza ci portino a un ospedale! Ci si dà un colpo di pistola? E la palla devia, ci fa stare qualche mese tra la vita e la morte infliggendoci tormenti ineffabili, per poi lasciarci in vita e toglierci il coraggio di ritentare! ... È un'infamia! E parliamo di civiltà!» Non sorridevo piú, ma ridevo, tanto mi sembrava buffo quel che Rossi diceva con indignazione e disprezzo, serissimo. «Ho letto che in America e in Inghilterra abbiano messo su qualcosa di simile!» «Tentativi di speculazione privata, a pagamento! - rispose Rossi. - E chi ha bisogno di ammazzarsi spesso non possiede un soldo! Siamo sempre là! Privilegi! Ingiustizie!» «Ma perché ti scalmani tanto? Non hai intenzione di ammazzarti spero» soggiunsi io. «Sí, e l'idea di non riuscire il colpo mi fa esitare, mi tormenta ... quantunque ... » «Quantunque ... » «Quantunque l'occupazione di scegliere il miglior modo di ammazzarsi sia l'ultima, anzi l'unica ineffabile gioia del suicida; l'assaporo da due mesi. E voialtri asini, che credete nel famoso istinto della conservazione, vi figurate intanto che chi si ammazza operi in un istante di sconvolgimento mentale! Da due mesi, giorno e notte, io non mi occupo d'altro che di trovare il miglior mezzo, cioè il piú rapido, il piú sicuro - questo è l'importante - di farla finita ... » «E sei come quel condannato a cui era stato concesso di sceglier lui l'albero dove dovevano impiccarlo, e non ne trovava uno di suo gusto!» «Non era un suicida costui!» rispose Rossi trionfalmente. «Hai ragione! Voglio augurarti però che ti accada come a costui». «Non ti sembra una mostruosità questa di non avere la certezza di potersi ammazzare in santa pace?» «Che ragione hai tu di volerti ammazzare! Sei giovane, sei ricco, sei colto, con la lieta prospettiva di un bel avvenire ... » «Ah! tu non sai, tu non puoi sapere!» egli esclamò dolorosamente. «Confidati con me; forse posso aiutarti a superare facilmente ostacoli e difficoltà che ti figuri insormontabili. Che diamine! Io credo che tutti i suicidi, se potessero rivivere, riconoscerebbero il loro torto di aver diffidato della vita!» Rossi ammutolí. Scrollava la testa, sorrideva ironicamente, e camminava assorto in quella sua trista fissazione. Io, al suo fianco, mi perdevo in mille congetture per indovinare che cosa potesse afflíggerlo tanto da spingerlo a pensare al suicidio. Ero ormai convinto che egli parlava seriamente, e ne sentivo gran pena. Lo conoscevo molto bene da poter applicare a lui il proverbio: «Chi la dice non la fa!» Né mi passava pel capo che un odiatore delle donne, come Rossi soleva orgogliosamente proclamarsi, potesse essere caduto nella pania di un amore, di una passione tale ... Eppure egli si è ucciso per un amore infelice! ... Lo avevo incontrato una mattina, elegantissimo, allegro, sto per dire, piú giovane - aveva trenta anni! - Mi era venuto incontro, stendendomi la mano, quasi avesse sentito gran piacere nel vedermi per caso: «Sai? - mi disse. - Ho trovato, finalmente!» «Che cosa?» «Niente. Vieni a casa mia, domani, alle 10@. 10. Non mancare; t'attendo». E mi lasciò con una lunga stretta di mano. I suoi occhi brillavano di contentezza. Egli era cosí tranquillo, che io non badai a riflettere intorno a quelle oscure parole: «Ho trovato, finalmente!» E poi ero soprappensiero per un mio affare. Povero Rossi! Non dimenticherò mai l'orrendo spettacolo del suo corpo carbonizzato dalla corrente elettrica. Dalla sua finestra, egli aveva steso due capi di fil di ferro al filo di trazione del tranvai! ... Oh! ... Era irriconoscibile! Carbonizzato a dirittura! Fortunatamente il suo testamento poté essere annullato. Egli lasciava tutta la sua sostanza, parecchia, allo stato, per l'istituzione dell' Opera Pia dei suicidi ! Ma forse, riflettendo bene - poiché nessuno potrà mai impedire che piú avvengano suicidii - l'istituzione di quell' Opera pia ... Non vorrei dire una sciocchezza ... Sto zitto! - Pietro Lavigna fece anche meglio. Accese un sigaro e andò via.

Tu credi ancora che io abbia fatto ciò per invincibile curiosità di studiare, a modo mio, le misteriose forze della nostra psiche in un soggetto che presentava le migliori condizioni per tale studio. Disingànnati, caro Blesio. Sin dai primi giorni del mio matrimonio, nello stordimento prodottomi dalla felicità di vedere e di sentire accanto a me quell'esile figura di bruna il cui possesso mi era sembrato, per quattro lunghi anni, irrealizzabile sogno, sin dai primi giorni mi ero lentamente sentito invadere da un indefinito inesplicabile senso di sgomento, che mi rendeva pensoso e distratto. «Che cosa hai?» mi domandava Delia, allacciandomi le braccia attorno al collo con gesto di suprema grazia affettuosa. «Niente! La troppa felicità, vedi? mi stordisce come un potente liquore». Non mentivo, rispondendo cosí, ma non dicevo intera la verità. Non avrei saputo dirla in quei giorni, fino al mattino in cui, svegliatomi prima di lei, e contemplandola, al fioco lume della lampadina da notte, abbandonata sui guanciali, coi nerissimi capelli disciolti e il petto lievemente ansante pel respiro, contemplandola piú come deliziosa visione d'arte che come realtà, all'improvviso ebbi coscienza della natura di quell'indefinito sgomento che da parecchie settimane mi rendeva pensoso e distratto. - Mi ama davvero? Per quale nascosto scopo vuol darmi a intendere che mi ama? - Ora mi pareva impossibile che la dolcissima creatura che avrebbe potuto aspirare per bellezza, per bontà, per intelligenza, a un'unione piú degna di lei, si fosse lasciata indurre a sposare me non ricco, quasi brutto, con l'unico prestigio di un po' di abilità ... o di qualcosa di piú, via, nella mia arte di scultore, e di una discreta cultura che, secondo certi critici, ha molto nociuto al mio ingegno di artista. - Questa botta tocca anche a me! - disse Blesio, ridendo. - Tu hai avuto sempre il torto di badar troppo a quel che scriviamo noi pretesi critici d'arte. Lasciaci cantare! Lavora -. Si scorgeva però che il riso di Blesio era sforzato, e che tentava di nascondere il triste presentimento di quel che poteva da un momento all'altro accadere, se l'eccessivo perturbamento del suo amico non si fosse arrestato. Raimondo fece una spallucciata, e continuò: - Da prima scacciai via sdegnosamente come indegno di me e di lei l'importuno pensiero. Ma già un'intima voce tornava insistente a sussurrarmelo a ogni nuova manifestazione di affetto prodigatami da Delia. Allora, la prendevo per le mani, la fissavo tenendola ferma innanzi a me, interrogandola: «Mi ami davvero? Di': mi ami davvero?» e lo stupore che si manifestava sul bel volto di Delia e il doloroso sorriso che le spuntava su le labbra prima della timida risposta: «Perché me lo domandi?» invece di farmi comprendere la sciocchezza e la villania della mia interrogazione, mi sembravano involontaria conferma di quel dubbio anche quando ella, liberatasi rapidamente dalla stretta delle mie mani, aggrappandomisi al collo con l'abituale gesto di suprema grazia affettuosa, mi baciava e ribaciava, senza aggiungere una sola parola. Pareva volesse dirmi: «Sei contento? ... Si bacia cosí soltanto quando si ama davvero!» Quella muta risposta però non mi appagava; né avrei saputo dire intanto qual'altra avrebbe potuto ella darmene per disperdere il mio dubbio. Mi tornava in mente il motto di quel diplomatico, che la parola ci è stata data per nascondere il nostro pensiero. Quei baci erano meno della parola, o qualcosa di eguale, o anche qualcosa di poco piú; non me n'importava. Sapevo, caro Blesio, che il pensiero di una persona può irridersi facilmente di qualunque altrui violenza per scoprirlo. Passarono parecchi mesi prima che mi balenasse l'idea di servirmi dell'azione magnetica per ottenere, all'insaputa di lei, la schietta rivelazione della verità. E anche dopo concepitone il disegno, esitai ancora per altri mesi, temendo di poter produrre irrimediabili disturbi in quel sensibilissimo organismo, che alle minime impressioni vedevo sobbalzare quasi fosse stato punto da uno spillo, o toccato da un carbone ardente. Mi trattenne pure, dopo che ero già risoluto, il leggero velo di tristezza che le mie ripetute domande: «Mi ami davvero? ... Di' mi ami davvero?» avevano steso sul volto di Delia, e il lieve tremito della sua voce che mi pareva rivelasse, invece della parola, la protesta del suo cuore: «Perché dubiti di me?» Infatti, perché dubitavo? Perché - e questo era il peggio - non ricevendo risposte che mi soddisfacessero, perché mi sentivo, a poco a poco, distaccare da Delia, quasi la sua bella manina mi allontanasse e volesse tenermi a distanza? Dall'ampia vetrata del mio studio, la vedevo comparire ogni mattina nel giardinetto, con la preferita vestaglia color crema, ornata di larghi nastri rossi, coi capelli nerissimi appena ravviati e che le davano intanto un'aria di arcaica eleganza seducentissima. Si aggirava lentamente pei viali, si fermava, riprendeva ad andare o a cogliere fiori dai vasi e dalle aiuole che ella stessa coltivava con arte di giardiniera provetta. Di tanto in tanto, alzava il capo verso la vetrata, guardava intenta, quasi si attendesse di vedermi col viso incollato ai vetri per osservarla; e crollava la testa, delusa, mortificata. Lo capivo, perché potevo benissimo vederla senz'essere visto. Perché fingevo la sorpresa com'ella entrava nel mio studio, esitando su la soglia con la cestina colma di fiori, quasi simile alla bionda Flora tizianesca della Galleria degli Uffizi? ... Cominciavo a sentire, e ne avevo dispetto, un senso di lieve rancore per quella che mi sembrava sua ostentazione d'ingannarmi. Non so che cosa avrei poi fatto, se Delia mi avesse risposto: «No, non t'amo! Meriti forse di essere amato?» Da due settimane, notte per notte, mentr'ella dormiva al mio fianco, io m'ingegnavo di saturarla del mio fluido, come avevo appreso dai libri letti e studiati per tale scopo. Ella non doveva accorgersi della mia intenzione di addormentarla; temevo che, richiesta di accondiscendere, si rifiutasse. E durante la giornata spiavo se mai apparisse in lei qualche sintomo da rivelarmi che la mia azione magnetica fosse riuscita a dominarla. Niente! Già disperavo del buon resultato, quando un pomeriggio ... Oh, tu non puoi farti un'idea della profonda commozione che mi assalí in quel momento! Delia avea voluto posare da modello per una figurina di donna commissionatami da un americano. «Sta' ferma, cosí!» le dissi vivamente, lieto dell'atteggiamento da lei preso appena sedutasi davanti a me poco lontana dal cavalletto. La vidi irrigidirsi, chiudere gli occhi, impallidita, col respiro ansante ... Era entrata, quando meno me l'aspettavo, nel piú profondo sonno magnetico. Ne fui spaventato, come se avessi compiuto su lei il piú vile dei delitti colpendola a tradimento. Rinfrancatomi un po' e presala pei pollici con mani tremanti, mi affrettai però a interrogarla: «Dormi?» «Sí». «Sei lucida?» «Lucidissima». «Potresti leggermi nel pensiero?» «Sí. Tu dubiti ... » «Ecco - la interruppi, facendo gli opportuni passaggi. - Ecco la mano di una persona che tu non conosci: è moglie di un mio amico. Ama il marito? ... Osserva bene». E cosí dicendo le avevo messo in una mano l'altra sua mano. Vidi che la stringeva forte, corrugando la fronte, abbassando la testa in atto di scrutare. «Lo ama tanto!» «Non t'inganni?» «No. Il cuore di costei è come un limpidissimo fonte di cui si scorge nettamente il fondo. L'ama. Oh, tanto!» replicò. «Osserva meglio» insistei. «Non occorre. Povera donna! Ha già capito che egli dubita, e piange spesso, in segreto. È dunque cieco costui da non accorgersi che quegli occhi hanno pianto? È strano: io provo la stessa sofferenza di lei ... Devo piangere, come lei ... Lasciami piangere!» E copiose lacrime le inondarono il volto accompagnate da singhiozzi. Attesi che si sfogasse un po'. «Ora ti sveglio - la suggestionai. - Non dovrai ricordarti di niente». «Non mi ricorderò di niente». Le ripresi i pollici, aspirando, perché sapevo che cosí doveva farsi per riattirarmi il fluido; e nel momento in cui ella riapriva gli occhi, finsi, sorridendo, di aggiustarle la testa per la posa. «Cosí!» E mi misi a lavorare come se niente fosse stato. Avrei dovuto esser pago dell'esperimento; ma sapevo che i soggetti, come li chiamano, possono mentire anche durante la inconsapevolezza del sonno magnetico. Non era il caso di Delia? Per ciò ripetei per un'intera settimana, col pretesto delle pose, due o tre volte il giorno, l'esperimento e sempre con l'identico resultato, quantunque io avessi fatto ogni sforzo per indurre Delia ad essere veramente sincera. E questo, forse - anzi senza forse, ora ne sono convinto - ha prodotto gli incredibili fenomeni che per un intero anno mi han dato l'impressione di una vita fuori della vita, d'una vita che non so distinguere se sia stata sogno o realtà, e che aggiungerà presto un'altra catastrofe a quella avvenuta tre mesi addietro. - Eh, via! Non dire cosí! - esclamò Blesio. - A furia d'immaginare la possibilità di una disgrazia, noi contribuiamo spessissimo a farla accadere davvero -. Raimondo Palli portò le mani alla fronte e alle tempie, premendo, quasi volesse impedire che gli scoppiassero: poi, rigettati indietro, con vivace movimento della testa, i folti capelli, e socchiudendo gli occhi, riprese: - Una mattina, dovetti accorgermi che Delia mi sfuggiva di mano, resistendo alla mia volontà, non cadendo piú nel sonno magnetico cosí facilmente provocato ed ottenuto fino allora. Posava per gli ultimi tocchi della mia figurina, che era e non era il suo ritratto perché io avevo sentito ripugnanza di vendere a un estranio la precisa immagine di mia moglie. Le solite parole: «Sta' ferma! Cosí!» che le altre volte erano bastate a farla istantaneamente addormentare, riuscivano inefficaci quantunque replicate piú volte. «Che cosa vuoi farmi? ... Che cosa mi hai fatto?» ella domandò, diffidente, guardandomi fisso negli occhi. E siccome io non avevo saputo risponderle, stupito di sentirla parlare a quel modo, ella soggiunse: «Mi sembra di avere qualcosa di strano dentro di me, qualcosa che mi scote, che m'eccita ... Non so come esprimermi ... Oh! oh! ... Veggo, ma non cogli occhi, lontano, fin in fondo al giardino ... Laggiú, nell'aiuola a destra, un gatto raspa la terra e danneggia le pianticine di violette! ... È possibile? ... Vieni; andiamo a vedere!» E mi trascinò per mano fuori dello studio, laggiú, dove un gatto faceva precisamente quel ch'ella aveva visto stando a sedere presso il cavalletto, da un punto dove si scorgevano appena le cime degli alberi del giardino smosse dal vento dietro la vetrata. «Sei diventata una veggente» le dissi con tono di voce che voleva essere scherzoso e non nascondeva intanto il mio stupore. «Male! - ella rispose con improvvisa serietà. - È assai meglio non vedere! ... È assai meglio ignorare!» Non aggiunse altro, né io le seppi dir altro -. Blesio, impensierito dell'esaltazione del suo amico, resa piú manifesta dalla crescente irrequietezza delle mani e dai rapidi alteramenti della voce in evidente contrasto con la minuziosa limpida narrazione, tentò novamente d'impedirgli di proseguire. - Non stancarti; ho già capito, sei stato un po' imprudente, forse. - Forse? ... Troppo dovresti dire. - riprese Raimondo Palli. - Troppo! E, implorando con lo sguardo, continuò: - Da quel giorno in poi, caro Blesio, io ho assistito a tali portenti di chiaroveggenza da far perdere l'equilibrio a qualunque piú solido intelletto. Non osai piú d'interrogarla: «Mi ami? Di', mi ami davvero?» Ma Delia sentiva anche da una stanza all'altra le vibrazioni del mio pensiero, come se le nostre anime, fuse insieme, pensassero la stessa cosa, nello stesso momento. La vedevo apparire su la soglia del mio studio, col viso contratto da dolore intenso; e la sua voce piena di lacrime mi rimproverava: «Perché dubiti di me? Lo sento; non negarlo! Che cosa dovrei fare, parla! per darti la prova suprema dell'immenso amore mio?» Pietà, o vigliaccheria, io mi ostinavo a negare. Inutilmente. La vedevo andare via niente convinta delle affettuose parole, delle carezze, dei baci che - lo capivo dopo - non producevano su lei l'effetto voluto per l'esagerazione a cui mi induceva la paura di non poter piú sfuggire a quell'ispezione che mi aveva ridotto in uno stato peggiore di ogni peggiore schiavitú. Come? Non sarei piú stato libero di formolare un'idea, un desiderio, una speranza, senza che Delia non venisse a dirmi: «Sí, è una buona idea; dovresti attuarla». O pure: «Dipende da te, perché quel bagliore di fantasia diventi realtà». O pure: «No, quel desiderio è troppo ambizioso per noi; non lasciartene lusingare». O pure: «Dici bene, questa speranza è un gran conforto anche per me!». E ciò come se io l'avessi messa a parte di tutto con le piú precise parole, per consultarla, per averne l'approvazione o la disapprovazione? ... Oh! Non aver niente da nasconderle! Nei primi mesi della nostra unione, era stata anzi gran delizia per me comunicarle i piú riposti pensieri, chiederle consigli, suggerimenti che mi rivelavano sempre piú squisite delicatezze d'animo, sempre piú fine penetrazioni d'intelligenza in ricambio del mio cordiale abbandono. Volevo cosí dimostrarle la mia profonda gratitudine per la gioia, la felicità, la nuova essenza di vita che ella era venuta a diffondere attorno a me, tanto da farmi credere divenuto un altro, quando mi accorgevo dell'agile sviluppo di alcune mie facoltà artistiche rimaste fin allora quasi latenti. E provavo un senso di mortificazione, se Delia, con delicata modestia, mi diceva: «Che bisogno hai tu di consultarmi? Tutto quel che tu fai lo giudicherò sempre ben fatto, anche quando gli altri potranno giudicarlo altrimenti». Non avevo dunque proprio niente da nasconderle. E intanto ora stimavo violato il sacro penetrale del mio pensiero, di cui prima le spalancavo a due battenti le porte. Una cupa irritazione mi invadeva a ogni nuova manifestazione della sua inevitabile chiaroveggenza e nello stesso tempo una viva indignazione per quello che, in certi momenti, mi sembrava atto di ingrato ribelle. Non avrei dovuto essere piuttosto felicissimo per l'assoluta compenetrazione delle nostre anime, della quale la chiaroveggenza di Delia era mirabile testimonianza? «No! - riflettevo subito. - Ella rimane chiusa, impenetrabile. Io, soltanto io, sono in sua compiuta balia!» Tentai di difendermi con lo stesso mezzo servito, involontariamente, a produrre l'incredibile fenomeno. Ma Delia non sentiva piú il mio influsso; era già piú forte di me. - Avresti dovuto ricorrere ad uno specialista - lo interruppe Blesio. - Un magnetizzatore di professione, probabilmente avrebbe domato quelle forze ancora non bene conosciute e che la tua malaccortezza aveva scatenate ... Ma, te ne prego, rimandiamo a qualche altro giorno questi dolorosi ricordi ... Nella foga del parlare, non ti accorgi che essi ti commovono fortemente. - Li ripenso quando non parlo; vale lo stesso. Lasciami proseguire - rispose Raimondo, stirandosi nervosamente i baffi e la barba. - Sopravvennero intanto alcuni mesi di sosta. Credei che la eccitazione nervosa da me provocata, si fosse finalmente esaurita, e che la cura consigliatami da un dottore consultato all'insaputa di Delia avesse realmente contribuito a fortificarne l'organismo. Era un po' dimagrita in quei mesi, e aveva perduto la vivace tinta che coloriva le sue guance di bruna con lieve sfumatura rosea. Soltanto lo splendore degli occhi era rimasto immutato. Vedendola rifiorire, non sospettando affatto che quella tregua potesse essere passeggera, avevo ripreso a lavorare alla statua La Giovinezza, quasi suggeritami da lei, un mattino di primavera, passeggiando insieme tra la splendida esplosione dei fiori delle aiuole che fiancheggiavano i brevi viali del nostro giardinetto. La Giovinezza, nella mia intenzione, doveva essere Delia trasformata in dea, idealizzata, se pure ci fosse stato bisogno d'idealizzare una figura che era, pei miei occhi, un'idealità artistica in atto. Il lavoro mi assorbiva talmente che le lunghe ore di quella giornata di estate sembravano insufficienti alla mia smania di condurre a termine la statua in brevissimo tempo. Delia veniva spesso a tenermi compagnia, seduta in un angolo, leggendo e ricamando zitta zitta per non distrarmi: ed io mi accorgevo della sua presenza soltanto nei momenti di riposo della modella. Mi accorgevo pure, con doloroso stupore, che mai Delia mi era parsa cosí lontana da me, come in quelle lunghe giornate che piú mi stava silenziosamente vicina. Eppure quella statua che mi si vivificava sotto la stecca e il pollice era la libera traduzione del bozzetto improvvisato con insolita rapidità mentre ella, che me n'aveva quasi suggerito l'idea, posava perché io fissassi nella creta il movimento delle linee della sua persona, cosí come l'immaginazione me la andava trasformando in fantasia d'arte. Una sera, tutt'a un tratto, Delia mi disse: «Ah, Raimondo! ... Tu stai per cessare di amarmi!» «Non pensare assurdità!» risposi bruscamente. «Tu però in quest'istante mentre neghi, pensi: "Oh, Dio, ella indovina!"» Tornai a negare: ma era vero. In quell'istante pensavo proprio: «Oh, Dio, ella indovina». «Come avvenga non so - riprese Delia. - C'è dentro di me o una anima nuova, o qualcosa che direi malia, se potessi credere alla malia. Strana malia, Raimondo; malefica malia che mi fa vedere quel che non vorrei vedere, che mi fa udire quel che non vorrei udire, quasi il tuo pensiero parli per me ad alta voce ... E sto in ascolto, da mesi, costretta, decisa di non dirti niente, di soffrire in silenzio perché mi sembra che anche tu soffri ... Ah, Raimondo! Tu stai per cessare di amarmi ... Mi sento impazzire!» Non ricordo piú quel che dissi per consolarla, per confortarla. Dovetti essere efficacissimo, se Delia mi si gettò tra le braccia scoppiando in pianto dirotto, balbettando tra i singhiozzi «Perdonami! Ti faccio soffrire!» Ma il giorno dopo e cosí tutti i giorni, per parecchi mesi, si ripeté la stessa scena, fino a che Delia quasi estenuata dallo sforzo inconsapevolmente fatto dall'organismo, non parlò piú, e si ridusse a fissarmi, a fissarmi a lungo, crollando dolorosamente la testa, sorridendo con tale tristezza che io ero forzato ad abbassare gli occhi, o a rivolgerli altrove avvilito da quella luminosità di cui ti ho parlato, che mi pareva scendesse a illuminare le piú riposte profondità del mio cuore ... Che terribili mesi di sofferenza, caro Blesio! Noi vivevamo isolati, per deliberato disegno, sin dai primi giorni del nostro matrimonio, entrambi orgogliosi di bastare a noi stessi. E la gente, che per maligna o benevola curiosità si occupava dei fatti nostri, ci giudicava felici! Tali avremmo potuto essere, certissimamente, se le mie stesse mani non avessero distrutto, con imperdonabile caparbietà, il magnifico immeritato dono benignamente concessomi dalla sorte. Giacché io era stato caparbio, stupidamente caparbio nel volermi accertare, a ogni costo, se il mio dubbio: «Mi ama davvero? Perché vuol darmi a intendere che m'ama?» corrispondesse o no alla realtà. Che terribili mesi, caro Blesio! Tu non potrai mai formartene neppure un'idea approssimativa. Invano cercavo un rifugio nel lavoro; invano la mia coscienza di artista mi confortava con attestarmi che la statua ormai quasi compiuta, sotto l'impulso di tante agitazioni, fosse riuscita piú bella di quanto io, incontentabile, non l'avevo sperata. Lavoravo febbrilmente, quasi la mia mano fosse stata mossa da un altro me stesso che conviveva dentro di me assieme con quello che si tormentava, e smaniava e delirava, sí, a volte delirava, intanto che la mano dell'altro dava gli ultimi tocchi alle estremità della figura con meticolosa accuratezza ... Fu allora ... Oh, non aveva badato alla nuova espressione degli sguardi con cui Delia osservava il mio lavoro, aggirandosi attorno al cavalletto, muta, intenta, in visibile ammirazione, mi pareva, di quella Giovinezza in parte sua geniale ispirazione. Ne ero lusingato, anche perché in quel punto non provavo l'impressione scrutatrice di quelle nere pupille luminosissime, che mi rivelavano quanto il mio cuore fosse mutato, vinto da grave stanchezza di amare per aver troppo amato -. Raimondo si arrestò quasi volesse riprendere forza. La sua voce infatti si era andata affievolendo; le ultime parole gli erano uscite dalle labbra seguite da un profondo sospiro. Blesio osservava con pena il rapido movimento delle palpebre e il tremito delle labbra che rendevano piú triste quella pausa. Raimondo alzò le mani, come per rimovere qualche ostacolo davanti a sé, e tratto un altro profondo sospiro, riprese: - Quella splendida mattina di maggio, lo studio era invaso da tale giocondità di luce, che i gessi dei miei precedenti lavori sembravano inattesamente scossi da misteriosi brividi di vita. La creta della dea, assai piú di essi, prendeva cosí mirabili chiaro scuri, riflessi cosí formicolanti da darmi l'illusione che sotto le carni del seno e delle braccia ignude si avverasse il miracolo della pulsazione del sangue. Delia, entrata con lievi passi, si era fermata dietro di me, senza che io me ne fossi accorto ... Tutt'a un tratto, mi sentii afferrare violentemente pel braccio; e prima che, spinto da lei vigorosamente da parte, potessi accorrere e impedire l'atto di quelle furibonde mani, Delia ... Oh! oh! «No, non è cosí! - balbettava con voce roca, che io non avrei saputo riconoscere se l'avessi udita senza veder lei. - No, non è cosí!» E le esili mani, tese come artigli, si affondavano nella creta, disformando braccia, seno, volto alla dea che mi era costata tanti mesi di lavoro! ... Ero rimasto impietrito davanti a quell'orrore. «No, non è cosí! ... Non è cosí!» E Delia brancicava la creta, quasi tentasse di rimodellarla, voltandosi verso di me con gli occhi sbarrati dall'improvviso scoppio di pazzia, le labbra sformate da un terribile sorriso, balbettando con voce aspra e roca: «Ecco! ... Ecco come dev'essere! ... Ecco! Tu non hai saputo ... Io, io sí!» E cadde riversa sul pavimento in violenta convulsione. Quando rinvenne, non mi riconosceva piú! La ho assistita, la ho vegliata per tre eterni mesi, giorno e notte, istupidito dal dolore, attanagliato dal rimorso di aver prodotto lo sfacelo di quella povera creatura con lo stolto esperimento che avrebbe dovuto disperdere il mio sospetto, e invece ... invece! «Mi amava davvero?» Ho ancora integra la mia ragione continuando a domandarmelo? E quel che è accaduto è stato colpa mia o inesorabile opera di quella fatalità che regge la nostra esistenza? ... Dimmelo tu! Rischiarami tu! - E Raimondo Palli, convulso, singhiozzava, torcendosi le mani tese supplichevoli verso l'amico. Blesio aveva anche lui le lacrime agli occhi e non riusciva a trovare una sola parola di conforto, incerto se Raimondo fosse già pazzo o sul punto di divenir tale.

IL Santo

667999
Fogazzaro, Antonio 12 occorrenze

. - E non hai ancora saputo dirmi che male veramente abbia, cosa legga, dove andrà se non passa l'estate con voi, se scrive lettere o libri, e di cosa parlate fra voi; perché è impossibile che non parliate insieme qualche volta. Non ripetermi la tua scusa che quanto meno mi si parla di lui, tanto meglio è per me. È una scusa comoda che hai trovato ma è sciocca; perché, mi si parli o non mi si parli, è la stessa cosa. La mia speranza è ben morta. Non rinasce. Dunque scrivi a lungo. Sono certa ch'egli ti vuole convertire, che avete insieme delle conversazioni intime e che mi parli poco di lui per questo. Sarebbe una piccola gloria, sai, di convertire te perché in religione tu sei una sentimentale, non hai la visione chiara, fredda e sicura della Verità che ho pur troppo io senz'avere studiato e che tanto non vorrei avere. Quando pensi di ritornare nel Belgio? I tuoi interessi non ti richiamano lassù? Mi hai parlato una volta di un tuo agente che non t'ispirava molta fiducia. Pare che in agosto viaggeremo. Almeno così dice ora Carlino che poi cambia facilmente assai. Mi piacerebbe vedere l' Olanda in settembre, con te. Addio. Dunque scrivi. S'egli legge molto potresti farti prestare un libro da lui e lasciarvi dentro il mezzo foglietto per segno. Insomma, trova! O questo o altro; sei donna. Trova, se pure mi vuoi bene. Penso del resto che non me ne vuoi più niente. È così, di' la Verità. Invece qui all'albergo c'è una signora innamorata di me. Ridi pure, è proprio vero. Vive a Roma. Suo marito è sottosegretario di Stato. Vuole a ogni costo che io passi l'inverno venturo a Roma. Dipenderà da Carlino. La signora lo assedia ed egli si lascia assediare, né ben resiste né ben capitola. Addio, scrivi, scrivi e scrivi. Noemi a Jeanne (dal francese ). Subiaco, 8 luglio ... Ho fatto meglio. Mio cognato gli disse a memoria, in presenza mia, un passo latino che lo colpì, un passo su certi monaci del tempo antico, prima di Cristo. Egli pregò Giovanni di scriverglielo. Eravamo nell'uliveto sopra la villetta, seduti sull'erba. Io porsi prontamente a Giovanni una matita e il mezzo foglietto, presentandogliene il lato bianco. Egli scrisse e Maironi prese il mezzo biglietto, vi lesse il passo latino, se lo pose in tasca senza guardare l'altra facciata. È stato un vero tradimento e ho tradito per amor tuo. Dubiterai ancora di me? Cosa ti potrei dire della sua malattia più che non ti abbia già detto? Per due settimane, circa, gli è stata addosso la febbre. Un giorno il medico diceva ch'era tifoide, un giorno diceva che non era. Cessò ma le forze non sono ancora interamente ritornate, la magrezza è grande, pare che qualche disordine interno persista, il medico è rigoroso riguardo alla qualità dei cibi, egli ha rinunciato al suo regime, prende carni e anche un po' di vino. È venuto ieri da Roma a trovare Giovanni un suo amico, un professore famoso, il professore Mayda. Giovanni lo ha pregato di vedere Maironi, di consigliare qualche cosa. Ha consigliato una cura di acque che Maironi certamente non prenderà. Mi pare di conoscerlo abbastanza per poterlo dire. Da otto giorni in qua ha migliorato sensibilmente, del resto. Lavora nell'orto qualche poco la mattina e qualche poco la sera. Stamani si è levato per tempissimo e non gli è venuto in mente di lavare la scala? Maria rimproverò ieri la sua vecchia fantesca perché la scala non era pulita. Questa vecchia, che dorme a Subiaco, quando venne alle sette trovò il lavoro fatto da Maironi. Mia sorella e mio cognato lo rimproverarono, quest'ultimo quasi aspramente, forse perché è tanto diverso da Maironi e non gli verrebbe in mente di pigliare la granata neppure se si trovasse dentro una nuvola di ragnatele. Cosa Maironi legge? A me di letture sue non parlò che una volta e per breve tempo, come ti dirò. Ti ho scritto che forse passerà l'estate con noi, perché so che Maria e Giovanni lo desiderano. Il mio presentimento è che ora non resterà e che andrà a Roma. Però è una mia idea, niente di più, non ne so niente. Quanto a volermi convertire, io non so se la cosa sia facile né se Maironi ci pensi. Bada, io lo chiamo Maironi scrivendo a te; parlando a lui lo chiamo Benedetto senz'altro, perché il suo desiderio è questo. Sono sicura che a convertirmi ci pensava Giovanni. L'ha trovato tanto facile che non me ne parla più. Di Maironi non lo crederei. Mi pare che per lui il Cristianesimo sia sopra tutto azione e Vita secondo lo spirito di Cristo, del Cristo risorto che vive sempre in mezzo a noi, del quale noi abbiamo, com'egli dice, l'esperienza. Mi pare che la sua propaganda religiosa non abbia per oggetto il Credo di una Chiesa cristiana piuttosto che di un'altra, benché senza dubbio la santità del suo vivere sia rigorosamente cattolica. Quando l'ho inteso parlare di dogmi con Giovanni non era mai per discutere le differenze fra Chiesa e Chiesa, era piuttosto per aprire certe formole della Fede e mostrare la luce grande che n'esciva aprendole in un certo modo. In questo Giovanni è Maestro ma quando parla Giovanni si sente sopra tutto che nella sua mente vi ha un sapere immenso, e quando parla Maironi si sente sopra tutto che nel suo cuore vi ha il Cristo vivo, il Cristo risorto, e ci si accende. Per essere interamente, scrupolosamente sincera, ti dirò che se non credo ch'egli desideri di convertirmi, però non posso esserne certissima. Eravamo un giorno nell'uliveto. Egli e Giovanni discorrevano di un libro tedesco sull'essenza del Cristianesimo che pare aver fatto rumore ed è stato scritto da un teologo protestante. Maironi osservava come questo protestante, quando parla del Cattolicismo, ne parli colla più onesta attenzione d'imparzialità, ma come in fatto non conosca la religione cattolica. Secondo lui nessun protestante la conosce, son tutti pieni di pregiudizi, giudicano essenziali al Cattolicismo certe alterazioni della sua pratica, esteriori e sanabili. C'era lì un panierino di albicocche ed egli ne tolse una bellissima, però un poco guasta. "Ecco" disse "un frutto guasto. Se io offro questo frutto a uno che non conosce ma vuole esser gentile, mi dice che vi è del sano e del buono ma che pur troppo vi è anche del malato e che perciò egli, con dispiacere, non lo prenderà. Così parla del Cattolicismo questo protestante insigne. Ma se io offro il frutto a uno che conosce, egli lo accetterà quand'anche fosse tutto putrido e porrà il nocciuolo immortale nel proprio terreno con la speranza di avere albicocche bellissime e sane." Il discorso era rivolto a Giovanni, ma gli occhi guardavano sempre me. Devo soggiungere che anche a Jenne egli mi aveva detto d'imparare a conoscere il Cattolicismo. A ogni modo se io rimango protestante non è per il conoscere e il non conoscere, è perché così vogliono i miei sentimenti più sacri. Mia cara Jeanne, vi ha un'altra cosa che ti voglio schiettamente dire. Sospetto che tu sia gelosa. Ho paura che tu non possa comprendere il dolore indicibile che mi faresti se lo fossi veramente; ho paura che tu non possa comprendere la gravità immensa dell'offesa che faresti a lui prima e poi anche a me. Adesso io ti apro il mio cuore. Avrei rimorso di non farlo, amica mia; rimorso rispetto a te, rispetto a lui, rispetto a me stessa. Quanto a lui, egli è buono e dolce a tutti coloro che avvicina ma in modo particolare ai più umili, e forse tu potresti esser gelosa della vecchia di Subiaco che viene in casa per i bassi servizî. Con Maria e con me la sua bontà e dolcezza si mostrano silenziosamente più che con parole. Con noi egli è sereno, semplice, affabile; non ha mai l'aria di sfuggirci ma non è mai accaduto che si trattenesse a parte né con l'una né con l'altra. Io sono agli occhi di lui un'anima e le anime sono per lui tutte come erano per mio Padre le menome pianticelle del suo grande giardino, ch'egli avrebbe voluto difendere dal gelo col calore del suo cuore, far crescere e fiorire colla comunicazione della sua Vita. Ma sono un'anima come un'altra, forse appunto colla differenza sola ch'egli mi giudica più lontana dalla Verità e perciò più minacciata dal gelo; benché questo non si vede nel suo contegno. Quanto a me, cara, io provo certamente un sentimento profondo per lui; ma sarebbe abbominevole dire che il mio sentimento somigli anche da lontano a quello che gli uomini chiamano col solito nome. Il mio sentimento è riverenza, è una specie di timore devoto, una specie di awe per cui io sento intorno alla sua persona come un circolo magico che non oserei passare. Nella sua presenza il mio cuore non ha un battito di più. Non lo so, direi piuttosto che ne abbia uno di meno. Non potrei essere più sincera di così, cara Jeanne. Dunque ti prego, ti supplico di non immaginare altra cosa. Per ora non penso al Belgio. Può darsi che vi faccia una corsa più tardi. Salutami tuo fratello, del quale vorrei sapere se ha finalmente portato il vecchio prete e la signorina in Fomalhaut. Ci penso anch'io qualche volta, alla sua Fomalhaut. Digli che se quest'inverno verrete a Roma faremo musica insieme. Addio, ti abbraccio. Benedetto a don Clemente. (Non spedita ) Padre mio, il Signore si è ritirato dall'anima mia, non dico per abbandonarmi al peccato ma per togliermi ogni senso della presenza Sua, e il desolato grido di Gesù Cristo sulla croce freme, a momenti, in tutto il mio essere. Se mi sforzo di richiamare ogni mio pensiero nel pensiero della Presenza Divina, ogni mio sentimento in un atto di abbandono alla Divina Volontà, non ne ho che pena e scoramento, mi par di essere una bestia caduta sotto il carico, che a un primo colpo di frusta fa uno sforzo, ricade; a un secondo colpo, a un terzo, a un quarto trasalisce appena, neppure tenta rialzarsi. Se apro il Vangelo o l' Imitazione, non vi trovo sapore. Se ripeto preghiere mi vince il tedio e ammutolisco. Se mi prostro sul pavimento, il pavimento mi gela. Se mi lamento a Dio di essere trattato così, il Suo silenzio mi par diventare più ostile. Se con l'autorità dei grandi mistici mi dico che ho torto di avere tanto affetto alle dolcezze spirituali, di soffrire tanto per la loro privazione, mi rispondo che hanno torto i mistici, che nello stato di grazia sensibile si cammina sicuri e che invece in questa notte spirituale senza stelle il cammino non si vede, non c'è altra regola che ritrarre il piede quando si sente molle l'erba, e ciò non basta, ch'è anche possibile di porlo addirittura, il piede, nel vuoto. Padre, Padre mio, mi apra le Sue braccia, ch'io senta il calore del Suo petto pieno di Dio! Vi sono cento ragioni per me di non venire a Santa Scolastica, ma in ogni modo preferirei scrivere. Ella è qui presente a me più che nel corpo; io mi unisco, mi confondo meglio a Lei col pensiero che se Le fossi davanti; e ho bisogno di confondermi a Lei col pensiero, ho bisogno di costringere l'anima mia dentro la Sua. Forse Le manderò questa lettera, forse neppure la manderò. Padre mio, Padre mio, mi fa bene di scriverti più che di parlarti, non ti potrei parlare colla foga che ora mi viene alla penna e non mi verrebbe alle labbra. Scrivendo, io parlo, io grido a te immortale, io ti spoglio dalle mortalità che sono anche nell'anima tua e che mi romperebbero, nella tua presenza, questa foga, delle mortalità di conoscenze incomplete delle cose, di prudenze che ti consiglierebbero veli al tuo pensiero. No, non te la spedirò questa lettera, eppure tu l'avrai; l'arderò, eppure tu l'avrai, sì, tu l'avrai, non è possibile che il mio tacito grido non ti raggiunga, forse adesso nelle tenebre della notte, mentre dormi, forse fra due ore, ancora nelle tenebre della notte, mentre preghi con i fratelli nella dolce Chiesa dove tanto abbiamo adorato insieme. Io so perché sono arido, io so perché Dio mi abbandona. Sempre quando Dio mi abbandona, quando tutte le sorgenti vive dell'anima mia inaridiscono e i germi vivi si disseccano e il mio cuore diventa un mare morto, io so perché. Perché ho udita una musica soave alle mie spalle e mi sono voltato, oppure perché il vento mi recò fragranze dai prati in fiore a lato della mia via e mi arrestai, oppure perché la nebbia mi è salita di fronte e ho temuto, oppure perché uno spino mi offese il piede e ne ho concepita ira. Istanti, baleni, ma intanto l'uscio si apre, un soffio maligno entra. È sempre così, basta uno sguardo raccolto, una lode gustata, una immagine trattenuta, una offesa rimeditata, il soffio maligno entra. E adesso è tutto questo insieme! È scesa la notte sul mio cammino, ho messo il piede nell'erba molle, la ho sentita, ho ritratto il piede ma non subito. Perché adopero figure? Scrivi scrivi, mano mia vile, la nuda Verità! Scrivi che questa casa è un nido di mollezza e che se ho gustato il letto soffice, la biancheria fine, l'odore di lavanda, ho molto più gustato la conversazione del signor Giovanni e le letture assorbenti nel diletto della mente, l'aura di due giovani donne pure, intellettuali, piene di grazia, la loro ammirazione segreta, il profumo di un sentimento che una di esse mi è parsa chiudere in sé, la visione di una Vita nascosta in questo nido fra queste persone, lontana da tutto ch'è volgare, ch'è basso, ch'è immondo, ch'è schifoso. Ho sentito il male del mondo con il ribrezzo che se ne ritrae e non con il focoso dolore che lo affronta per strappargli le anime. Istanti, baleni; mi rifugiai come un tempo nell'abbraccio della Croce ma la Croce, poco a poco, altrimenti da un tempo, mi diventò nelle braccia legno insensibile e morto. Mi sono detto: spiriti di nequizia, male volontà sapienti e forti che sono nell'aria, congiurano contro di me, contro la mia missione. Mi sono risposto: superbia, giù! E poi la prima idea mi riprese, ondeggiai cieco in questa vicenda trista, ogni giorno, tutto il giorno. E poiché niente ne ho lasciato trasparire, poiché capivo che il signor Giovanni e le Signore non dubitavano che io non fossi nell'interno così sereno, così puro come il mio esterno pareva, mi disprezzai, certi momenti, come un ipocrita, per dirmi, il momento dopo, che invece il mio esterno puro e sereno mi aiutava a vivere, parlo della Vita spirituale; che il parer forte mi obbligava a esser forte. Mi paragonai a un albero che ha il midollo divorato dai vermi, il legno consunto dalla putrefazione e vive per la corteccia, può dare foglie e fiori per lei, può dare ombra benefica. E poi mi dissi che questo era buono per gli uomini; ma davanti a Dio, davanti a Dio? E poi mi dissi ancora che Dio mi potrebbe sanare perché l'albero divorato nel midollo non è sanabile ma l'uomo sì; e allora mi torturai per la impotenza di fare quello che Dio avrebbe chiesto a me come cooperazione della mia volontà alla Sua: fuggire, fuggire. Dio è nella voce dell' Aniene che dalla sera della mia partenza da Jenne mi dice: "Roma, Roma, Roma"; e Dio è pure nella forza dei vermi invisibili che mi hanno rosô le virtù vitali del corpo. E allora e allora e allora? Signore, ascolta il mio gemito che Ti domanda giustizia. Ho detto tante volte che certamente partirò appena ne avrò la forza e qui mi vorrebbero trattenere e come potrò io dir loro: amici miei, voi mi siete nemici? Ecco, viltà mia! Perché non potrei dirlo? Perché non lo dirò? Ho letto un giorno nello sguardo della giovine protestante: - Se Lei parte che sarà dell'anima mia? Non deve Lei desiderare di condurmi alla fede Sua? Io non mi lascio condurre ancora. - No, non posso, non debbo scrivere tutto. E come scrivere l'espressione di uno sguardo, l'intonazione di una parola per sé indifferente? Non sono sguardi come quello per il quale San Girolamo s'immerse nell'acqua gelata o almeno la commozione mia non somiglia alla sua. Non vale acqua gelata contro uno sguardo puro nella sua dolcezza. Solo il fuoco vi arriva, il fuoco dell'Amore supremo. Oh chi mi libera dal mio cuore mortale che non si move di un solo picciol moto senza movere tutte le fibre del corpo, chi mi libera il cuore immortale che gli è interno come il germe al frutto e si prepara un corpo celeste? Non posso, non debbo scrivere tutto, ma questo sì lo voglio scrivere: il Signore mi tende insidie e lacci! Caduto, mi deriderà! Perché è avvenuto che io scrivessi il passo latino sulla gente che vive in penitenza fra il Mar Morto e il deserto, "sine pecunia, sine ulla femina, omni venere abdicata, socia palmarum" su quel pezzo di carta che recava sull'altra faccia parole di J. D., calde ancora del mio peccato antico e del suo, delle memorie più terribili? Perché una persona così timida ha osato impormi una comunicazione segreta? Il vento mi ha spalancata la finestra. Oh Aniene Aniene, come non ti stanchi di ruggirmi il tuo comando! Che io parta sul momento? Impossibile, le porte sono chiuse. E poi sarebbe indegno di partire così. Disonorerei Dio, farei dire: che qualità di servi ingrati e pazzi ha il Signore? Vieni, spirito del mio Maestro, vieni, vieni, parla, io ti ascolto. Che mi dici? Che mi dici? Ah tu sorridi delle mie tempeste, tu mi dici di partire, sì, ma di partire nobilmente, di annunciare che il Signore me lo comanda. Tu mi dici di obbedire alla voce di Dio nell' Aniene. Ecco che il vento si allontana, pare chetarsi, contento. Sì, sì, sì, con lagrime. Domani, domattina. Lo annuncierò. E so a chi andrò in Roma. Oh luce, oh pace, oh sorgenti redivive dell'anima mia, oh mare morto che ti gonfii in una calda ondata! Sì, sì, sì, con lagrime. Grazie, grazie. Gloria a Te, Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il nome Tuo, venga il regno Tuo, sia fatta la Tua volontà! _______________________

Cosa puoi dirmi che tu non abbia già detto in quattr'ore?" Il tuono ruggì ma Jeanne oramai non se ne curava più. "Domattina andremo al monastero" diss'ella. "Ma sì, va bene!" "Andremo noi due sole?" "Ma sì, è già inteso!" La voce piagnolosa tacque un momento e riprese: "Tu non mi hai mica promesso, ancora, che qui in casa non dirai niente?" "Dieci volte te l'ho promesso!" "Sai, non è vero, cosa devi dire per quello svenimento di ieri sera, se ti domandano?" "Lo so!" "Devi dire che quel Padre non è lui, che ho perduta una illusione e che mi sono sentita male per questo." "Ma mio Dio, Jeanne, queste son venti, delle volte!" "Come sei cattiva, Noemi! Come non mi vuoi bene!" Silenzio. La voce di Jeanne riprende: "Dimmi quello che pensi. Credi proprio che mi abbia dimenticata?" "Non rispondo più." "Rispondi, invece! Una parola sola! Dopo ti lascio dormire." Noemi pensa un poco e poi risponde asciutta, per finirla: "Ebbene, credo di sì. Credo che non ti abbia mai amata!" "Questo lo dici perché te l'ho detto io" ribatte Jeanne, aspra, senza lagrime nella voce. "Tu non puoi saperlo!" "Bon, ça!" brontolò Noemi. "C'est elle qui me l'a dit et je ne dois pas le savoir!" Silenzio. La voce flebile: "Noemi." Nessuna risposta. "Noemi, ascolta." Niente. Jeanne si mette a piangere e Noemi cede. "Ma, Santo cielo, cosa vuoi?" "Piero non può sapere che mio marito è morto." "bene. E allora?" "Allora non può sapere che sono libera." "E dunque?" "Stupida! Mi fai venire una rabbia!" Silenzio. Jeanne sa bene quale specie di rabbia è la sua. L'amica pensa troppo come lei stessa che vorrebbe tanto essere contraddetta nel suo presentimento doloroso, avere una parola di speranza. Rise un riso lieve, forzato: "Noemi, fai l'offesa, adesso, apposta, per non parlare." Silenzio. Jeanne riprende, mansueta: "Senti. Non credi che avrà della tentazioni?" Silenzio. Jeanne non si cura, stavolta, che Noemi non risponda. Esclama: "Sarebbe bella che proprio adesso non avesse più intenzioni!" Il suo sdegno è tanto comico che Noemi, pure molto scandolezzata, non può a meno di ridere; e ride anche lei. Noemi ride; però anche la sgrida di queste sciocchezze enormi che dice senza riflettere. Perché Noemi conosce Jeanne e sa che Jeanne in questo momento non è la vera Jeanne, conscia e signora di sé; o forse è la Jeanne più vera ma non certo quella che starà a fronte di Piero Maironi se mai s'incontrano. Il tuono tace e Jeanne vorrebbe vedere il tempo che fa, ma le pesa di scendere dal letto, teme di sentirsi male, teme il dubbio di non poter salire fra qualche ora al monastero. Teme poi anche le difficoltà che gli ospiti farebbero se il tempo fosse troppo cattivo; le preme dunque di sapere come si dispone il cielo. Bisogna che scenda Noemi, la schiava cui ben di rado riescono vittoriose le ribellioni. Noemi scende, apre la finestra, esplora il buio con la mano distesa. Minute frettolose goccioline le titillano la mano. Il buio si varia un poco agli occhi di lei. Ella distingue, lì sotto, Santa Maria della Febbre, grigia sul campo nero. Le si rischiara la nuvolaglia pesante, vi nereggiano su le braccia della quercia imminente a destra, i profili delle montagne. Le minute frettolose goccioline titillano titillano la mano distesa, che si ritrae. Jeanne domanda: "Dunque?" "Piove." Ella sospira: "che noia!" come se avesse a piovere in eterno. E le goccioline prendono maggior voce, riempiono di sommesse parole la camera, si affiochiscono ancora. Jeanne non ha inteso le sommesse parole, non ha inteso che l'uomo di cui ha pieno il cuore giace svenuto sulla petraia deserta che la pioggia lava. A mattina inoltrata la signora Selva, un po' inquieta per non avere ancora veduto comparire né l'una né l'altra delle due Signore, entrò pian piano nella camera di sua sorella. Noemi era quasi vestita e le accennò di tacere. Jeanne dormiva, finalmente. Le due sorelle uscirono insieme, si recarono nello studio di Giovanni che ve le attendeva. Dunque? Don Clemente era proprio l'uomo? Marito e moglie desideravano sapere, per regolarsi. Giovanni non dubitava più e sua moglie dubitava ancora. Noemi Noemi doveva sapere! Giovanni chiuse l'uscio, mentre Maria, interpretando il silenzio di sua sorella per una conferma, insisteva: "ma davvero? ma davvero?" Noemi taceva. Avrebbe forse tradito il segreto dell'amica nell'intento di cospirare con i Selva per la sua felicità, se non l'avesse trattenuta il dubbio di un disaccordo con i Selva e anche il senso di qualche cosa di malfermo in sé stessa. Probabilmente i Selva, cattolici, non desideravano che l'uomo fuggito dal mondo vi ritornasse. Lei, protestante, non poteva pensare così. Almeno non lo avrebbe dovuto. Lei doveva pensare che Iddio si serve meglio nel mondo e nel matrimonio. Lo pensava, ma non si nascondeva che se il signor Maironi adesso sposasse Jeanne non lo potrebbe stimare molto. Insomma era meglio tacere la strana Verità. "Cosa pensate?" diss'ella." Che quell'ecclesiastico di ieri sera, che è passato davanti a noi dopo tutta quella vostra mimica, fosse l'amante antico? È quello il vostro don Clemente? bene, non è lui." "Ah! Proprio no?" esclamò Giovanni fra sorpreso e incredulo. Sua moglie trionfò. "Ecco!" diss'ella. Ma Giovanni non si diede per vinto. Domandò a Noemi se fosse ben certa di quello che diceva, e come potesse spiegare il tramortimento della signora Dessalle. Noemi rispose che non c'era da spiegar niente. Jeanne soffriva di anemia ed era soggetta ad accessi di spossatezza mortale. Giovanni tacque, poco persuaso. Se proprio era stato così, come poteva Noemi affermare con tanta sicurezza che don Clemente non era l'uomo? Nelle parole, nel fare, nel viso di sua cognata, Giovanni sentiva qualche cosa di poco chiaro, di poco naturale. Maria s'informò della notte. Come l'aveva passata la signora Dessalle? Inquieta? Ma di quale inquietudine? "È stata inquieta! Che vi debbo dire?" fece Noemi, un po' seccata. E si accostò alla finestra aperta come per spiare le intenzioni delle nuvole. Giovanni fece un passo verso di lei, risoluto di venire a capo delle sue reticenze. Ella lo presentì e si affrettò ad un rifugio, a chiedergli il suo pronostico del tempo. Il cielo era tutto coperto, grandi nuvole basse traboccavano dai dorsi di Monte Calvo sopra i Cappuccini e la Rocca. L'aria era tepida, il fragore dell' Aniene, forte. Giù in basso il curvo nastro della strada di Subiaco traspariva fosco di mota fra i fogliami degli ulivi. Giovanni rispose: "Pioggia." Noemi domandò subito quanta strada ci fosse dal villino ai Conventi. A Santa Scolastica venti minuti. Perché lo domandava? Udito che Jeanne intendeva andarvi con Noemi quella mattina stessa, Maria protestò. Con un tempo simile? L'ultimo tratto bisognava farlo a piedi. Non potevano aspettare, rimandare a domani, a dopo domani? "Quando te l'ha detto?" chiese Giovanni, quasi brusco. Noemi esitò e poi rispose: "Stanotte." Comprese, nel dire la parola, che suggeriva sospetti, specie dopo quell'attimo di esitazione; e attese un assalto, incerta se resistere o cedere. "Noemi!" esclamò Giovanni, severo. Ella lo guardò, soffusa il viso di un lieve rossore. Non disse neppure - che c'è? -; tacque. "Non negare!" ripigliò suo cognato. "Questa signora ha riconosciuto don Clemente. Non negare, dillo, è un dovere di coscienza per te! Non è possibile di permettere che s'incontrino!" "Quello che ho detto è vero" rispose Noemi, ferma oramai della via che terrebbe. Nella sua voce senza sdegno, quasi sommessa, era una implicita confessione di non aver detto la Verità intera. "Non lo ha riconosciuto? Però tu, qualche cosa sai!" "So qualche cosa" rispose Noemi "sì, ma non posso dire quello che so. Vi dico solo di far avvertire subito don Clemente che la signora Dessalle e io si va stamane a visitare i Conventi. Altro non vi dico e vado a vedere se Jeanne si è svegliata." Ella uscì di volo. I Selva si guardarono. Che significava questo voler avvertire don Clemente? Maria lesse nel pensiero di suo marito qualche cosa che le dispiacque, che non avrebbe voluto gli venisse alle labbra. "Scrivi questo biglietto a don Clemente, intanto" diss'ella. Ma Giovanni, prima di scrivere, volle pur dire quello che pensava. Per lui vi era una sola spiegazione possibile. Don Clemente era veramente l'uomo. Noemi aveva promesso alla signora Dessalle di non dirlo ma voleva impedire l'incontro. Maria esclamò vivacemente: "Oh Noemi, mentire, no!" e poi arrossì, sorrise, abbracciò suo marito come se temesse di averlo offeso. Perché appunto Giovanni si era offeso una volta di certe parole sfuggite a lei sulla poca sincerità degl'italiani e adesso un'ombra di quella nube poteva forse ritornare per effetto della sua esclamazione. Egli fu punto infatti, più dall'abbraccio che dalla protesta, e arrossì pure, ricordando, e sostenne che al posto di Noemi anche Maria avrebbe negato. Maria tacque, uscì dallo studio, brillandole negli occhi una lagrima importuna. Giovanni si compiacque, in principio, di avere rintuzzata una tenerezza offensiva e si mise a scrivere il biglietto per don Clemente. Non l'aveva finito di scrivere e il suo corruccio gli era già diventato rimorso. Si alzò, uscì in cerca della moglie. Era nel corridoio con Noemi che discorreva piano. Volse tosto il viso a lui, lo intese, gli sorrise con gli occhi ancora umidi, gli fé cenno di accostarsi e di parlar sotto voce. Che c'era? C'era che Jeanne voleva partire subito per Santa Scolastica. Noemi avvertì ch'era appena svegliata e che questo subito significava un'ora e mezzo, almeno. Ma bisognava mandare a Subiaco per una carrozza, poiché Jeanne non era in grado di fare a piedi che lo stretto necessario, l'ultimo tratto di via. Un tocco di campanello richiamò Noemi. Jeanne l'aspettava, impaziente. "Che cameriera pettegola!" diss'ella, tra sorridente e crucciata. "Cosa sei andata a raccontare a tua sorella?" Noemi la minacciò di andarsene. Jeanne giunse le mani, supplichevole. E le domandò fissandola negli occhi, scrutandone l'anima: "Come mi pettino? Come mi vesto?" Noemi rispose sbadatamente: "Ma come vuoi!" L'altra batté il piede a terra, sbuffando. Allora Noemi capì. "Da contadina" diss'ella. "Sciocchissima creatura!" Noemi rise. Jeanne gemette il solito ritornello: "Non mi vuoi bene! Non mi vuoi bene!" Allora Noemi si fece seria, le domandò se volesse proprio riprenderselo, il suo Maironi. "Voglio esser bella!" esclamò Jeanne. "Ecco!" Ella era veramente bella così, nella sua veste da camera di un giallo ardente, con il suo fiume di capelli bruni, cadenti un palmo sotto la cintura. Era molto più bella e più giovine che la sera prima. Aveva negli occhi quella intensità di Vita che prendevano un tempo quando Maironi entrava nella stanza dov'era lei, quando anche solo ella ne udiva il passo nell'anticamera. "Vorrei la mia toilette di Praglia" diss'ella. "Vorrei comparirgli davanti col mio mantello verde foderato di pelliccia, adesso in maggio. Vorrei che vedesse subito quanto sono ancora la stessa e quanto voglio essere la stessa. - Oh Dio Dio!" Gettò le braccia, con un subito slancio, al collo di Noemi, le impresse la bocca sulla spalla, soffocando un singhiozzo, mormorò parole che Noemi non poteva distinguere. "No no no" diceva "sono pazza, sono cattiva, andiamo via, andiamo via." Alzò il viso lagrimoso. "Andiamo a Roma" diss'ella. "Sì sì" rispose Noemi, commossa "andiamo a Roma, partiamo subito. Adesso domando a che ora c'è un treno." Jeanne l'afferrò di colpo, la trattenne. No, no, era una pazzia, cos'avrebbe detto sua sorella? Era una pazzia, era una cosa impossibile. E poi, e poi, e poi ... Si coperse il viso, si mormorò dentro le mani che le bastava di vederlo, di vederlo un solo momento, ma che partire senza vederlo non poteva, non poteva, non poteva. "Andiamo!" diss'ella, dopo un lungo silenzio, scoprendosi il viso. "Vestiamoci! Mi vestirò come vorrai tu; di sacco, se vorrai, di cilicio." Ell'aveva ricuperato il suo sorriso cruccioso di prima. "Chi sa?" disse. "Forse mi farà bene di vederlo vestito da contadino." "Io guarirei subito" mormorò Noemi; e arrossì, sentendo di aver detto una grossa falsità. Quando la signora Selva bussò all'uscio per avvertire che la carrozza era pronta, Jeanne pregò Noemi, con umiltà comica, di lasciarle mettere il grande cappello Rembrandt che prediligeva. Le nere ali piumate, curve sul viso pallido, sui neri fuochi degli occhi, sull'alta persona avvolta in un mantello scuro, parevan vive dell'anima stessa di lei, cupa, appassionata e altera. Ella sentì, nel dare il buongiorno a Maria Selva, l'ammirazione che destava. La sentì anche negli occhi di Giovanni, ma diversa, non simpatica. Appena lasciatolo per scendere con Noemi al cancello dove la carrozza aspettava, le domandò se avesse detto niente, proprio niente, a suo cognato. Avutane una risposta rassicurante, mormorò: "Mi pareva." Fatti pochi passi, le strinse forte il braccio, esclamò lieta come per una scoperta improvvisa: "Però sono ancora bella!" Noemi non le dava retta. Noemi si domandava: il nome Dessalle avrà detto qualche cosa al quel frate? Lo avrà egli udito da Maironi? Se Maironi gli ha raccontato di questo amore, non potrebbe avere taciuto il nome della signora? In fondo ell'aveva un'acuta curiosità di conoscere l'uomo che aveva ispirato a Jeanne un sentimento così forte ed era scomparso dal mondo in un modo così strano. Ma lo avrebbe voluto vedere da sola. Era uno sgomento di pensare che i due s'incontrassero senza qualche preparazione. Almeno poter prima parlare a questo frate, a questo don Clemente, accertarsi che sa, informarlo se non sa, apprendere da lui qualche cosa di quell'altro, il suo stato d'animo, le sue intenzioni! Basta, pensò salendo in carrozza, faccia la Provvidenza! E assista questa povera creatura! Nel metter piede a terra dove comincia la mulattiera, Jeanne propose timidamente, come chi prevede un rifiuto e lo riconosce ragionevole, di salire ai Conventi sola, colla guida di un monello corso da Subiaco dietro la carrozza. Il rifiuto venne infatti e vivacissimo. Non era possibile! Che mai le veniva in mente? Allora Jeanne supplicò di essere almeno lasciata sola con lui, se lo avesse trovato. Noemi non seppe che rispondere. "E se ti precedessi?" diss'ella. "Se domandassi del Padre Clemente? Se cercassi di capire cos'è, cosa fa e cosa pensa il tuo..." Jeanne la interruppe, esterrefatta. "Il Padre? Parlare al Padre?" esclamò squadernandole ambedue le mani sul viso come per turarle la bocca. "Guai a te se parli al Padre!" S'incamminarono lentamente per la sassosa mulattiera. Jeanne si fermava spesso, presa da tremiti, vibrando come un filo teso al vento. Porgeva allora in silenzio a Noemi le mani gelate perché sentisse e le sorrideva. Nel mare delle nebbie correnti a monte comparve, curioso anche lui, l'occhio smorto del sole.

Lo strascico lento dei curiosi si avvia dietro alla folla, i due apprendono come il tram abbia ricondotto sei cittadini del quartiere che, motu proprio , si erano recati dal Questore. I sei discesero fra la turba impaziente di udire, di sapere. Non parevano lieti. Alla tempesta delle domande rispondevano di chetarsi. Avrebbero parlato, avrebbero riferito, ma non lì nella strada. E già la gente protestava, l'ingiuria fremeva su molte labbra. Colui che pareva il capo dei sei, un tabaccaio, si fece levar sulle spalle dei colleghi e arringò brevemente la folla. "Abbiamo notizie" diss'egli. "Possiamo assicurarvi fin d'ora che il Santo non è in carcere!" Scoppiarono dei viva, dei bravo, degli applausi. "Ma dov'egli sia" proseguì l'oratore "propriamente non si sa." Urla e fischi. L'oratore allibbì e dopo essersi debolmente provato di parlare, cedette alla burrasca e calò dai suoi rostri viventi. Ma un'altro dei sei, più gagliardo e ardito, balzò su a rispondere violentemente. Allora le urla, le invettive raddoppiarono. "Vi hanno infinocchiato!" gridava la gente. "Scemi che siete! In prigione lo hanno cacciato! In prigione!" Il grido si diffonde, l'odono i lontani che altro non hanno udito e persino coloro che né questo né altro udirono, sentono attraversarsi il petto dalle magnetiche onde oscure dell'ira. Parecchi urlano: "abbasso!" senza sapere chi vogliano giù. Ed ecco da capo i grandi cappelli dei carabinieri, da capo le guardie. Invano i sei si sgolano a protestare, le grida di abbasso e di morte ne coprono la voce. Un delegato fa dare gli squilli. Al terzo succede un fuggi fuggi. Fugge anche la Deputazione col tabaccaio a capo; ma, fuggendo, i sei riescono a trar con sé chi l'uno e chi l'altro dei popolani meno infuriati, con la promessa di dare in un luogo opportuno spiegazioni che non si possono gridare in piazza. Riparano in un deposito di materiali da fabbrica, cinto di un assito. Parecchi li seguono, filtrano, a uno a uno, per l'uscio dell'assito; e il tabaccaio, pensando avere nel petto cose da far crollare il mondo, parla in cospetto della piramide di Caio Cestio, che aspetta indifferente il passar dei secoli fino al silenzio, alle rovine, alla Selva. Il tabaccaio parla, con voce misurata, fra una trentina di facce attente. Dice che il Santo di Jenne non è sicuramente in prigione, che non si sa dove sia, ma che si sanno altre cose, pur troppo. E dice le altre cose. Se le avesse dette alle turbe scendendo dal tram, lo avrebbero fatto a brani. In Questura ridono del Santo e di chi gli crede. Raccontano ch'egli ha un amante, una signora molto ricca; che nella notte è stato interrogato dal Direttore generale della P. S. per ragioni non tanto belle; che quando è uscito del ministero, ha trovato l'amante che lo attendeva in carrozza ed è partito con lei. "Io non volevo credere" conchiude il tabaccaio "ma ecco! Adesso dica lui." Uno dei sei, oste a Santa Sabina, si fece a raccontare che sua moglie aveva udito nel cuore della notte una carrozza fermarsi presso l'osteria; che si era alzata e aveva veduta la carrozza, un legno signorile, con il cocchiere e il domestico in tuba; che il domestico stava allo sportello e aiutava una persona a scendere; che la persona scesa di carrozza era passata a piedi sotto la finestra andando verso Sant' Anselmo e ch'ella aveva riconosciuto il Santo di Jenne. L'oste soggiunse che non aveva creduto al riconoscimento perché non c'era luna ed era piovuto fin dopo le undici, per cui la notte doveva essere stata molto buia; che non avendo creduto neppure aveva parlato; ma che poi, all'udire il racconto della Questura, si era dovuto persuadere. E sua moglie aveva dell'altro a raccontare. Si era alzata alle sei. Fra le sette e le otto era passata una botte andando verso Sant' Anselmo. Poco dopo, la botte era ripassata. Questa volta sua moglie ci aveva veduto dentro il Santo di Jenne. Era pronta ad attestarlo con giuramento. Qui, alcuni fra gli uditori sgattaiolarono dal recinto, corsero a sussurrare le notizie nel quartiere. Ne successe che mentre il tabaccaio e l'oste e i loro amici stavano ancora nel recinto, si fece gente sulla strada di Santa Sabina e un grosso gruppo salì, seguito da due guardie, verso l'osteria. Entrarono nel cortile. L'ostessa ciarlava con un cliente, sotto il pergolato. La interrogarono ed essa rifece il racconto che aveva fatto al marito. La interrogarono ancora, volevano sapere questo e quello, tanti particolari. La donna finì con rispondere di non ricordar bene. Avrebbe portato da bere, da rinfrescare ad essi l'ugola, a sé la memoria. Che! Quelli non erano venuti per bere, glielo dissero bruscamente. Due ferrovieri, attavolati sotto il pergolato, poco discosto, si seccarono di quell'interrogatorio. Uno di essi chiamò l'ostessa, le parlò a voce alta: "Che voglion sapere? L'ho veduto io l'uomo che cercano. è partito stamattina alle otto, con una ragazza, per la linea di Pisa." La gente si volse a lui, lo interrogò e quegli giurò incollerito che aveva detto la Verità, che il loro Santo di Jenne era partito alle otto in una vettura di seconda classe con una bella bionda, conosciutissima. Allora coloro, mogi mogi, se n'andarono. Usciti che furono tutti, una guardia travestita si avvicinò al ferroviere, gli domandò alla sua volta se fosse ben certo di quello che aveva detto. "Io?" rispose colui. "Se sono certo? Che si ammazzino! Non so nulla di nulla, io. Le ho fatte chetare, le ho fatte andare al diavolo, quelle bestiacce. Corrano almeno fino a Civitavecchia, adesso, e affoghino tutti in mare, loro e il loro Santo!" "E allora?" fece l'ostessa. "Dove sarà andato?" "Vada a cercarlo in cantina" rispose il ferroviere "che il fiasco è vuoto e noi si ha sete ancora."

Dite come avete vissuto, spiegate la vostra pretensione che Iddio vi abbia chiamato, giustificatevi di essere venuto a mangiare il pane dei frati a ufo, perché frate non avete voluto essere e quanto a lavorare avete lavorato ben poco!" "Padre" rispose Benedetto e il tôno severo della voce, la severa dignità del volto mal si accordavano con la mansuetudine umile delle parole, "questo è buono per me peccatore che da tre anni vivo, per lo spirito, nella mollezza e nelle delizie, vivo nella pace, vivo nell'affetto di persone sante, vivo in un'aria piena di Dio. Le Sue parole sono buone e dolcissime all'anima mia, sono una grazia del Signore, mi hanno fatto sentire con le loro punte quanto orgoglio vi è ancora in me che non lo sapevo, perché nel disprezzarmi da me sentivo piacere. Come servo, poi, della santa Verità, le dico che la durezza non è buona neppure con uno che inganna, perché forse la soavità lo farebbe pentire del suo inganno; e che nelle parole della Paternità Vostra non è lo spirito del nostro Padre solo e vero, al quale sia gloria." Nel dire "al quale sia gloria" Benedetto cadde ginocchioni, acceso in viso da un fervore augusto. "Sei tu, peccatore tristo, che vuoi fare il Maestro?" esclamò l' Abate. "Ha ragione, ha ragione" rispose Benedetto di slancio, affannosamente e giungendo le mani. "Ora Le dico il mio peccato. Desiderai l'amore illecito, mi compiacqui della passione di una donna ch'era d'altri come d'altri ero io e l'accettai. Lasciai ogni pratica di religione, non curai di dare scandalo. Questa donna non credeva in Dio e io disonorai Dio presso di lei colla mia fede morta, mostrandomi sensuale, egoista, debole, falso. Iddio mi richiamò colla voce dei miei morti, di mio Padre e di mia madre. Mi allontanai allora dalla donna che mi amava, ma senza vigore di volontà, ondeggiando nel mio cuore fra il bene e il male. In breve ritornai a lei, tutto ardente di peccato, conoscendo di perdermi e risoluto a perdermi. Non vi era più un atomo di volontà buona nell'anima mia quando una mano morente, cara, santa, mi afferrò e mi salvò." "Guardatemi bene" disse allora l' Abate senza farlo alzare. "Avete mai fatto sapere a nessuno ch'eravate qui?" "A nessuno. Mai." L' Abate rispose secco: "Non vi credo." Benedetto non batté ciglio. "Voi sapete" ripigliò l' Abate "perché non vi credo." "Lo suppongo" rispose Benedetto piegando il viso. "Peccatum meum contra me est semper." "Alzatevi!" comandò l'inflessibile Abate. "Io vi caccio dal monastero. Ora vi recherete a salutare don Clemente nella sua cella e poi partirete per non ritornare mai più. Avete inteso?" Benedetto assentì del capo, ed era per piegare il ginocchio all'omaggio di rito quando l' Abate lo trattenne con un gesto. "Aspettate" diss'egli. Rinforcò gli occhiali, prese un foglio di carta e vi scrisse, stando in piedi, alcune parole. "Cosa farete" disse scrivendo "quando sarete fuori?" Benedetto rispose piano: "Il bambino preso in braccia dal Padre mentre dormiva, sa egli cosa il Padre farà di lui?" L' Abate non replicò niente, finì di scrivere, pose il foglio in una busta, la chiuse, la tese, senza voltare il capo, a Benedetto che gli stava dietro le spalle. "Prendete" disse "portate a don Clemente." Benedetto gli chiese il permesso di baciargli la mano. "No, no, andate via, andate via!" La voce dell' Abate tremava di collera. Benedetto ubbidì. Appena fu nel corridoio udì l'uomo incollerito strepitare sul piano. Prima di entrare nella celletta di don Clemente, Benedetto si fermò davanti alla grande finestra che termina il corridoio. Ivi si era trattenuto, poche ore prima, il Maestro a contemplare i lumi di Subiaco pensando la nemica, la creatura di bellezza, d'ingegno, di naturale bontà, venuta forse a contendergli il suo figliuolo spirituale, a contenderlo a Dio. Ora il figliuolo spirituale era misteriosamente certo che la donna male amata da lui nel tempo del suo gravitare cieco e ardente sulle cose inferiori, aveva scoperto la sua presenza nel monastero e sarebbe venuta a cercarlo. Disceso dentro lo Spirito interno al proprio cuore, egli vi attingeva un pio sentimento del Divino ch'era pure in lei, ascoso a lei stessa, una mistica speranza che per qualche oscura via ella pure arriverebbe un giorno al mare di Verità eterna e di amore, che attende tante povere anime erranti. Don Clemente lo aveva udito venire e aperse a mezzo l'uscio della cella. Benedetto entrò, gli porse la lettera dell' Abate. "Debbo lasciare il monastero" diss'egli, sereno. "Subito e per sempre." Don Clemente non rispose, aperse la lettera. Letta che l'ebbe, osservò a Benedetto, sorridendo, che la sua partenza per Jenne era stata decisa fin dalla sera precedente. Vero, ma l' Abate aveva detto: per non ritornare mai più. Don Clemente aveva le lagrime agli occhi e sorrideva ancora. "Lei è contento?" disse Benedetto, quasi dolente. Oh, contento! Come avrebbe potuto dire il suo Maestro, quel che sentiva? Partiva il discepolo diletto, partiva per sempre, dopo tre anni di dolce unione spirituale; ma ecco, l'ascosa Volontà si era manifestata, Iddio lo toglieva dal monastero, lo chiamava per altre vie. Contento! Sì, afflitto e contento, ma della sua contentezza non poteva dire il perché a Benedetto. La parola Divina non avrebbe avuto valore per Benedetto s'egli non la intendeva da sé. "Contento, no" diss'egli. "In pace, sì. Noi c'intendiamo, vero? E adesso raccogliti per le mie parole ultime, che spero ti saranno care." Don Clemente, nel dir così a voce bassa, si colorò tutto di rossore. Benedetto piegò il capo a lui che gl'impose ambo le mani con dignità soave. "Desideri" disse la virile voce piana "dare tutto te stesso alla Verità Suprema, alla sua Chiesa visibile e invisibile?" Come se si fosse atteso a quell'atto e a quella domanda, Benedetto rispose pronto con voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu, da uomo a uomo, vivere senza nozze e povero fino a che io ti sciolga della tua promessa?" La voce ferma: "Sì." La voce piana: "Prometti tu essere sempre obbediente all'autorità della Santa Chiesa esercitata secondo le sue leggi?" La voce ferma: "Sì." Don Clemente attirò a sé il capo del discepolo e gli parlò sulla fronte: "Ho chiesto all' Abate di poterti dare un abito di converso, perché uscendo di qua tu porti sopra di te almeno il segno di un umile ministero religioso. L' Abate, prima di decidere, ha voluto parlarti." Qui don Clemente baciò il discepolo in fronte, significando così il giudizio dell' Abate dopo il colloquio, chiudendo in quel bacio silenzioso parole di lode, non credute convenienti al suo carattere paterno né alla umiltà del discepolo. E non si avvide che il discepolo tremava da capo a piedi. "Ecco" diss'egli "quel che l' Abate scrive dopo averti parlato." Mostrò a Benedetto il foglio dove l' Abate aveva scritto: "Concedo. Fatelo partire subito perché io non sia tentato di trattenerlo." Benedetto abbracciò di slancio il suo Maestro e gli appoggiò la fronte a una spalla, senza parlare. Don Clemente mormorò: "Sei contento? Adesso te lo domando io." Ripeté due volte la domanda senza ottenere risposta. Venne finalmente un sussurro: "Posso non rispondere? Posso pregare un momento?" "Sì, caro, sì." Accanto al lettuccio del monaco, alta sopra l'inginocchiatoio, una grande croce nuda diceva: Cristo è risorto, configgi ora tu a me l'anima tua. Infatti qualcuno, forse don Clemente, forse un suo predecessore, vi aveva scritto sotto: "omnes superbiae motus ligno crucis affigat. " Benedetto si stese bocconi a terra, posò la fronte ov'eran da posare le ginocchia. Per la finestra aperta della cella uno scialbo lume del cielo piovoso batteva, di sghembo, sul dorso dell'uomo prosteso e dell'uomo ritto in piedi con la faccia levata verso la croce grande. Il mormorio della pioggia, il rombo dell' Aniene profondo avrebbero detto a Jeanne uno sconsolato compianto di tutto che vive sulla terra e ama. A don Clemente dicevano un consenso pio della creatura inferiore con la creatura supplice al Padre comune. Benedetto non li udiva. Egli si alzò, pacato in viso, vestì, a un cenno del Maestro, la tonaca di converso stesa sul letto, cinse la cintura di cuoio. Vestito che fu, si mostrò, aprendo le braccia e sorridendo, al Maestro, che si compiacque di vederlo così dignitoso, così spiritualmente bello in quell'abito. "Lei non ha inteso?" disse Benedetto. "Non ha pensato una cosa?" No, don Clemente aveva pensato che quella gran commozione di Benedetto fosse stata effetto di umiltà. Adesso capiva che altro gli sarebbe dovuto venire in mente; ma cosa? "Ah!" esclamò a un tratto. "Forse la tua Visione?" Certo. Benedetto si era visto morire sulla nuda terra, all'ombra di un grande albero, nell'abito benedettino; e argomento di non credere nella Visione giusta i consigli di don Giuseppe Flores e di don Clemente gli era stata la contraddizione di ciò con la sua ripugnanza strana per i voti monastici, venutagli sempre crescendo da quando aveva lasciato il mondo. Ora questa contraddizione pareva dileguarsi; pareva quindi risorgere la credibilità di un carattere profetico della Visione. Don Clemente ne conosceva questa parte e avrebbe potuto leggere nel cuore di Benedetto il suo sbigottimento al riaffacciarsi di un misterioso disegno Divino sopra di lui, il suo terrore di cadere in peccato di superbia. Non ci aveva pensato. "Non pensarci neppure tu" diss'egli. E si affrettò a mutar discorso. Gli diede una lettera e dei libri per l'arciprete di Jenne. Intanto l'arciprete lo avrebbe ospitato. Se dovesse restare a Jenne o no, ritornare, in questo caso, a Subiaco o recarsi altrove, glielo farebbe sapere la Divina Provvidenza. "Padre mio" disse Benedetto "proprio non penso cosa sarà di me domani. Penso unicamente questo: "magister adest et vocat me" ma non come una voce sovrannaturale. Ho avuto torto di non capire che il Maestro è presente sempre e chiama sempre: me, Lei, tutti. Basta farsi un po' di silenzio nell'anima, la sua voce si sente." Un raggio fioco di sole entrò nella cella. Don Clemente pensò subito che, se cessasse di piovere, la signora Dessalle verrebbe probabilmente a visitare il monastero. Non disse niente ma la sua inquietudine interna si tradì con un trasalire della persona, con un'occhiata al cielo, che significarono a Benedetto come fosse tempo di partire. Egli domandò in grazia di poter pregare, prima nella Chiesa di Santa Scolastica e poi al Sacro Speco. Il sole si nascose, ricominciò a piovere, Maestro e discepolo scesero insieme nella Chiesa, vi si trattennero in preghiera l'uno accanto all'altro e fu quello il loro solo addio. Benedetto prese la via del Sacro Speco alle nove. Uscì di Santa Scolastica inosservato, mentre fra Antonio stava confabulando col messo di Giovanni Selva. In quel momento, il lume del sole redivivo riaccese rapidamente i vecchi muri, la via, il monte; acuto gioire, ali veloci di uccelletti ruppero in ogni parte il verde, e alle sue labbra salì spontanea la parola: "Vengo."

Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!" Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte. "Va" diss'egli. "E Lei pregherà per me?" "Sì, nunc et semper. " Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un'ombra. Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d'inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il Padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l'alloggio dell' Abate e, poco discosto, la sua cella stessa. L' Abate, Padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d'uomo, due piccole tavole con teste d'angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L' Abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni. Don Clemente gli s'inginocchiò davanti, gli baciò la mano. "Che mode avete voialtri a Subiaco?" disse l' Abate. "Fate venire le dieci alle undici?" Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L' Abate lo fece sedere. "Figlio mio" diss'egli. "Voi soffrite il sonno?" Don Clemente sorrise, non rispose. "Ebbene" riprese l' Abate "voi ne avete buttato via un'ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?" Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa: "Eh, sì!" "bene bene bene" fece l' Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. "Io non conosco questi signori Selva, ma c'è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l'ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono - un pezzo grosso, capite, - che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perché se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c'è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?" Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti né eretici, né scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso Padre Abate avrebbe potuto parlarne. "No, figlio mio" rispose l' Abate. "Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perché ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!" Passando paternamente così dal voi al tu, l' Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l'indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo. "Sono cristiani aurei" diss'egli con voce sommessa, dolente. "Lo credo" rispose l' Abate "Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu a, casa Selva, non ci ritornerai." Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio. "Adesso all'altro argomento!" disse costui. "Apprendo che qui nell' Ospizio dei pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro, ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del mio predecessore, s'intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora nell'orto, vero che mostra una pietà grande, ch'è di edificazione a tutti, ma però, siccome non pare che abbia intenzione di farsi religioso, questo suo soggiorno nell' Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo." Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l'ospitalità concessa dall' Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l'aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch'era suo dovere e suo desiderio d'informarlo. "Questo giovine" diss'egli "è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell'avrà udito nominare la famiglia. Suo Padre, don Franco Maironi, sposò una donna senza nobiltà né ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa." "Oh!" esclamò l' Abate. "L'ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo! "Io non l'ho conosciuta che per fama" ripigliò don Clemente, sorridendo, mentre l' Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio gutturale il cattivo sapore di quell'antipatica memoria. "La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana. Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco dopo le nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse Vita ritirata fino a che s'incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando, pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa. Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una malattia di mio Padre, e sapeva ch'ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una Vita di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell' Ordine. Egli mi disse invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io ne parlai subito al Padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell' Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all'ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch'egli desiderava. In tre anni non ha preso né vino, né caffè, né latte, né un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua Vita è stata una Vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!" "Hm!" fece l' Abate, pensoso. "Hm! Capisco! Ma perché non entra nell' Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori." Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso. "In preghiera" diss'egli. "Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante: "Sempre a quel ch'ha faccia di menzogna Dee l'uom chiuder la bocca quant'ei puote, Però che senza colpa fa vergogna." "Oh!" esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto. "Scusate, figlio mio" disse l' Abate. "Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?" Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell'aria. "Hm! Hm!" fece ancora l' Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. "Avete detto che si chiama? ... Il nome proprio?" "Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d'imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato." L' Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l'indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perché appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L' Abate s'inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l'incontro colla signora Dessalle, l'antica amante, quel ch'era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolîo sordo. "Qui" esclamò finalmente "si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!" Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo. Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell'altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l'aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell' Abate, il timore ch'egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell' Abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la Vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se ... Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. "Magister adest et vocat te." Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco. Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella Chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull'inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo. Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell'anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore. Era là e pregava come un'altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: - venite a me, voi dolenti; voi cui la Vita è grave, tutti venite a me. - Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l' Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l'invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me. E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sé stesso. Sentiva nell'antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell'organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell'aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell'atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della Vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell'anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell'esercito regolare, impedito dall'uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo? Ah non era egli già quasi sull'orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull'inginocchiatoio, s'immerse nell' Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell'alzarsi con un naturale defluire dell'onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all'altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell'altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d'incolpare sé, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del Padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la Chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, né l'uno né l'altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo. Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell' Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di Santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d'estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perché le pietre durassero vive, un continuo fiume di Vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in Chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl'insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l'avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. "Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus." E si avviò alla sua cella. Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all'uscio dell' Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole "fiat voluntas tua" che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge Divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l' Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità? La sua cella era l'ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall' Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l' Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch'egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro. Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all'altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l'oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell' Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l' Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell'ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un'altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell' Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d'animo. Allora sorse in lui l'idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sé fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sé il vaporare di un veleno, sentiva un'assenza di amore, un'assenza di dolore, un tedio, un peso, l'aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sé stesso. Ecco ancora l'automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell'erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell'odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l'ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli batté forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell'abbandono all'invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorché del fiume. Il cuore gli si venne chetando. "Dio mio, Dio mio" mormorò, inorridito del pericolo corso, dell'abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l'anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l'ombre e i tetti, attrasse in sé la visione della Chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto poté, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell'obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell'anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell'Imitazione: "Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit." Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell'ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d'erba che le mani giunte odoravano ancora. L'aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull'erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch'egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell'anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores. Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l'obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell' Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl'indici verso Castel Sant'Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un'ondata lo travolgeva con sé acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull' Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: "Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!" E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la Vita, la pace ardente dell'anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l'erbe intorno. "Sei Tu" egli gemette "sei Tu, sei Tu?" Il vento tacque. Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L'anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L'anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l'ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perché rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perché non scendo a dormire? Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell'alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a' suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent'ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell'erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell' Aniene, questo? No, il ruggito dell' Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: "devo potere!" esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò. "Cosa faccio?" si diss'egli, cercando raccapezzarsi. "Perché voglio scendere?" Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perché la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui: "Io tento Iddio!" Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l' Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: "Non tentare il Signore Iddio tuo." Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come poté, con l'ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l'aria, piegò lentamente all'indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto. Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell'erba. L'anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l' Essere senza tempo e senza spazio, perché Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso né del luogo né dell'ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell'aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della Vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sé del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell' Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell'odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un'ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, con l'aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perché della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l'esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all'anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall'alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l'ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all' Ospizio dei pellegrini no perché il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto né sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all' Arco d'ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito. Desiderava un po' di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L'aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all'ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l'impero, benché non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l' Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall'uno e dall'altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l'Arco. Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell'ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all'udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte. "Oh, Benedè!" esclamò riconoscendo Benedetto. "Qui, siete?" Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio. "Lo racconterete ai padri" diss'egli. "Direte ch'ero sfinito e che vi ho chiesto un po' di latte per amor di Dio." "Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!" fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. "Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!" Benedetto bevve. "Benedico Iddio" diss'egli "per la bontà vostra e per la bontà del latte." Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s'inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: "ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro." Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s'incamminò egli stesso verso Santa Scolastica. La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell' Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.

"Ma Lei" disse Maria "perché crede che ci abbia interesse?" "Eh" rispose di Leynì "ho un messaggio per lei, che riguarda lui, capirà!" Di Leynì, devoto a Benedetto di una devozione senza confini, non aveva mai creduto alle voci calunniose sparse sul suo conto, le aveva respinte sempre con appassionato sdegno. Non ammetteva del suo Maestro né amori colpevoli né amori ideali. Nel fare quella domanda non gli era potuto passare per la mente che fra la Dessalle e Benedetto vi fosse una relazione non confessabile. Giovanni troncò il discorso dicendo che la Dessalle avrebbe anche potuto tardare molto e che intanto di Leynì parlasse. Di Leynì parlò. Egli aveva visitato Benedetto. Arrivando in via della Polveriera da San Pietro in Vincoli, aveva riconosciuto due guardie travestite che passeggiavano. Poteva essersi ingannato oppure anche poteva essere stato un caso. Però era cosa da farne menzione. Il senatore lo aveva fatto pregare, appena entrato in casa, di passare nel suo studio. Là, parlando con molta cortesia ma con un manifesto imbarazzo, gli aveva detto ch'era lieto di vedere, proprio in quel momento, un amico del suo caro ospite; che Benedetto era fortunatamente senza febbre e, secondo lui, avviato alla guarigione; che un telegramma lo avvertiva dell'arrivo imminente di una sua vecchia sorella; ch'egli aveva una sola camera da letto, nel suo alloggio, oltre alla propria e a quella della fantesca; che gli era impossibile di mandare sua sorella all'albergo e anche impossibile oramai di telegrafarle che ritardasse la sua venuta perché era già in viaggio; quindi ... Il senatore aveva lasciato a di Leynì la cura di venire alla conclusione. Di Leynì ch'era con altri pochi fedeli nel segreto delle trame contro Benedetto, era rimasto sbalordito. Cosa rispondere? Che il senatore era solo padrone in casa sua? Era forse l'unica risposta possibile. Di Leynì aveva osato esprimere riguardosamente il dubbio che un trasloco riescisse fatale all'ammalato. Il senatore si teneva certo del contrario. Credeva che un cambiamento di aria gli sarebbe utilissimo. Non aveva ancora potuto parlare al medico ma non ne dubitava. Suggeriva Sorrento. Siccome di Leynì né sapeva più che dire né si muoveva, il senatore lo aveva congedato pregandolo di recarsi in nome suo al Gran Hôtel dalla signora Dessalle, per le istanze della quale egli aveva ospitato Benedetto, e di invitarla a voler provvedere perché sua sorella sarebbe arrivata la sera stessa, prima delle undici. Di Leynì si era poi recato da Benedetto. Dio, in quali condizioni lo aveva trovato! Senza febbre, sì, forse; ma con l'aspetto e la guardatura di un moribondo. Il giovine aveva le lagrime agli occhi nel parlarne. Benedetto non sapeva di dover partire. Gliene aveva parlato lui come di una cosa non sicura ma possibile. Benedetto lo aveva guardato in silenzio per leggergli nell'animo, e poi gli aveva detto sorridendo: devo andar in prigione? Allora di Leynì si era pentito di non aver aperto subito a un uomo tanto forte e sereno in Dio tutta la Verità e gli aveva riferito per intero il discorso del senatore. "Egli mi prese" disse il giovine con voce rotta dalla commozione "la mano e tenendomela e accarezzandomela pronunciò queste parole precise: "Da Roma non parto. Vuoi che venga a morire da te? " Io mi turbai tanto che non ebbi la forza di rispondergli, perché poi non so nemmeno se il pericolo dell'arresto non ci sia veramente, se l'atto incredibile del senatore non sia appunto un pretesto per evitare che glielo arrestino in casa e come si potrebbe portarlo in un altro asilo sfuggendo alle guardie. Lo abbracciai, borbottai qualche parola senza senso e corsi via, corsi qua per parlare a questa signora Dessalle. Potrebbe forse venir lei dal senatore e persuaderlo." I Selva avevano spesso interrotto di Leynì con esclamazioni di sorpresa e di sdegno. Finito ch'egli ebbe il suo racconto, tacquero, sbalorditi. Prima a interrompere il silenzio fu la signora Maria. "Questa Jeanne che non viene!" diss'ella, piano. Fece un segno impercettibile a suo marito e gli propose di andare insieme a vedere se fosse rientrata e non l'avessero avvertita. Nell'attraversare il jardin d'hiver gli disse che le pareva necessario di far sapere a di Leynì chi fosse veramente la signora Dessalle. Jeanne non era rientrata. Giovanni prese a parte il giovine, gli parlò sotto voce. Maria, che lo guardava, lo vide trasalire, spalancare gli occhi, impallidire; quindi parlare alla sua volta, domandare qualche cosa. Jeanne Dessalle entrò frettolosa, sorridente. Il portiere le aveva consegnato un biglietto del medico. Diceva: "Non credo di poterci ritornare. Stamane era sfebbrato. Speriamo che l'accesso non si rinnovi." Jeanne notò subito che non vi si parlava di portare l'ammalato altrove. Ell'abbracciò la signora, stese la mano a Selva che le presentò di Leynì. Ella si scusò poi con tutti di doverli lasciare per cinque minuti. Suo fratello l'aspettava. Uscita che fu promettendo di ritornare subito, di Leynì si affrettò ad appartarsi ancora con Selva. Maria gli vide ricomparire in viso l'ansia di prima, vide che faceva molte domande e che alle risposte di suo marito si andava ricomponendo. Vide finalmente suo marito posargli le mani sulle spalle, dirgli qualche cosa ch'ella indovinò, una segreta cosa, ancora non conosciuta da Jeanne; vide negli occhi del giovine una commozione, una riverenza profonda. Un cameriere entrò a dire che la signora Dessalle aspettava i signori nel suo alloggio. Vi era molto movimento nell'albergo. Sussurri di strascichi e sordi tocchi di passi si confondevano sui tappeti dei corridoi, sommesse voci straniere, gaie, crucciose, lusinghiere, indifferenti, andavano e venivano, agli ascensori si faceva ressa. Ciascuno della piccola comitiva silenziosa aveva in cuore lo stesso senso amaro di quella mondanità indifferente. Jeanne era nel suo salotto, attiguo alla camera di Carlino che vi stava accompagnando al piano il violoncello di Chieco. Ella venne incontro ai suoi amici con un sorriso che insieme alla musica, un'antica musica italiana semplice e serena, strinse loro il cuore. Parve un po' sorpresa di vedere di Leynì, del quale non attendeva la visita. Li aveva fatti salire per parlare più libera; disse invece che aveva pensato di offrir loro un concerto di Chieco, il quale però non voleva che si aprisse l'uscio. Del resto si udiva egualmente abbastanza bene. Giovanni l'avvertì subito che il cavaliere di Leynì aveva un messaggio per lei del senatore. "Mentre Loro parlano" diss'egli "noi ascolteremo la musica." E si scostò con sua moglie da Jeanne ch'era diventata pallida e nascondeva male malgrado estremi sforzi l'angosciosa impazienza di udire questo messaggio. Seduto presso a lei, di Leynì cominciò a parlarle sottovoce. Il violoncello e il piano scherzavano insieme sopra un tema pastorale, pieno d'ingenua tenerezza ilare e di carezze. Maria non poté a meno di mormorare: "Dio, poveretta!" E suo marito non poté a meno di seguire sul viso di Jeanne, al suono della tenera musica ilare, le parole affliggenti del suo interlocutore. Osservava pure il viso del giovine, il quale, parlando alla signora, guardava spesso lui come per significar pena e attingere consiglio. Jeanne lo ascoltava con gli occhi fissi a terra. Quando egli ebbe finito, li alzò ai Selva, i grandi occhi pietosamente addolorati; guardò l'una, guardò l'altro, dicendo muta, involontariamente: "voi sapete?" Gli occhi tristi dell'uno e dell'altra le risposero: sì, sappiamo. La musica ebbe uno scoppio sonoro di gioia. Maria ne approfittò per mormorare al marito: "Le avrà riferito anche il discorso del voler morire a Roma?" Il marito rispose che sarebbe stato meglio, che lo sperava. Jeanne pose gli occhi all'uscio onde veniva il fragore della musica, attese un poco e poi accennò ai Selva di avvicinarsi, disse con voce tranquilla che il senatore avrebbe dovuto far avvertire loro, che non sapeva perché si fosse rivolto a lei. Vedessero loro, adesso, che fosse a fare. La musica tacque, si udirono Carlino e Chieco discorrere. Di Leynì, che abitava un quartierino di scapolo alla salita di Sant' Onofrio, l'offerse. Ma se c'era un mandato di arresto? Se non si attendeva, per eseguirlo, che l'uscita di Benedetto da quella casa? Jeanne smentì, pacatamente, la possibilità dell'arresto. I Selva la guardavano pieni di ammirazione per quella calma voluta. Jeanne aveva supposto da un pezzo ch'essi sapessero il nome vero di Benedetto; come non sarebbe sfuggita una parola a Noemi, malgrado tutti i divieti? E un istante prima, nel tacito scambio di sguardi dolorosi, i Selva e lei si erano intesi. Giovanni e sua moglie comprendevano che Jeanne si faceva eroicamente violenza non per loro ma per di Leynì. E adesso anche di Leynì, per le confidenze di Giovanni, sapeva! Parve loro di avere quasi commesso un tradimento. Essi si tennero certi che se Jeanne diceva di non credere alla possibilità dell'arresto doveva averne ragioni da loro non conosciute. Osservarono che Benedetto avrebbe potuto accettare l'ospitalità loro. Jeanne ricordò pronta che Benedetto stesso aveva espresso un desiderio e che la salita di Sant' Onofrio pareva più adatta di via Arenula per il soggiorno di un ammalato bisognoso di pace. Però, secondo lei, non era possibile ammettere che il trasporto avesse luogo senza un'espressa licenza del medico. In questo si accordarono tutti. I Selva diedero incarico a di Leynì di riferire al senatore che gli amici di Benedetto avrebbero provveduto a trovargli un altro asilo ma però a condizione che il medico curante autorizzasse in iscritto il suo trasporto. Mentre Giovanni parlava, irruppe dalla stanza vicina un tumultuoso allegro del piano, tutto singhiozzi e grida. Egli tacque, non volendo alzar troppo la voce, lasciò passare l'impeto della musica straziante. E straziante fu la parola che gli occhi di lui e gli occhi del giovine si dissero durante quel silenzio delle labbra. Di Leynì non aveva tempo da perdere, prese congedo. Gli spiaceva di andare solo, avrebbe desiderato presentarsi al senatore con qualcuno fra gli amici di Benedetto che potesse mettergli un po' di soggezione, perché il suo contegno non si capiva. Giovanni Selva mormorò qualche cosa circa una vicepresidenza del senato cui quel vecchio aspirava e che non otterrebbe. Amaro dolore, scoprire miserie tali dove meno si sarebbe creduto! Maria si alzò, offerse a di Leynì di andare con lui. "Lei resta?" chiese Jeanne, vivacemente, a Giovanni. L'accento diceva: Lei deve restare. Selva rispose che sarebbe rimasto a ogni modo e l'espressione della sua voce, del suo viso fu tale da significare a Jeanne che gli pesavano sul cuore parole tristi non ancora dette. Oh, pensò Jeanne, se adesso Chieco uscisse, se Carlino chiamasse e non fosse più possibile di parlarsi! Perché anche lei doveva parlare a Selva. Gli doveva riferire il discorso del ministro. I due musicisti avevano nuovamente smesso di suonare, discorrevano. Jeanne bussò discretamente all'uscio, vi soffiò dentro due paroline gaie: "Bravi! Già finito?" "No, bella mia" rispose Chieco, di dentro. "Accidenti a Voi se vi seccate!" E modulò un fischio infernale, da forare l'uscio. Jeanne batté le mani. Piano e violoncello attaccarono un grave andante. Ella si volse a Selva che rientrava dall'avere accompagnato fuori sua moglie per dirle di telegrafare a don Clemente. Gli andò incontro a mani giunte, colle lagrime agli occhi. "Selva" mormorò con voce soffocata, "Lei già sa tutto, a Lei non posso nascondermi. Vi è qualche cosa di peggio, mi dica la Verità." Selva le prese le mani, gliele strinse in silenzio mentre il violoncello rispondeva per lui, amaro e grave: "Piangi, piangi, perché non è sorte di amore e di dolore come la tua sorte." Egli stringeva le povere mani di ghiaccio, non riuscendo a parlare. Lo capiva bene, di Leynì non aveva osato riferirle le parole terribili - vengo a morire da te -; toccava a lui di darle il primo colpo. "Cara" diss'egli dolcemente, paternamente, "non Le ha egli detto al Sacro Speco che in un'ora solenne La chiamerebbe a sé? L'ora è venuta, egli la chiama." Jeanne diede un balzo, le parve di non aver capito. "Oh, come? No!" diss'ella. Poi, tacendo Selva con la stessa pietà negli occhi, ebbe un lampo al cuore, fece "ah!", si porse tutta in una muta angosciosa domanda. Selva le strinse le mani ancora più forte, un singhiozzo represso gli scosse il petto, gli contorse le labbra serrate. Ella non disse niente ma cadeva se non la sorreggevano le mani di lui. La sorresse, la pose a sedere. "Subito?" diss'ella. "Subito? È una cosa imminente?" "No, no, La chiama per domani. Lui crede che sia domani, ma può essere che s'inganni, speriamo che s'inganni!" "Dio, Selva, ma se il medico scrive ch'è senza febbre!" Selva fece il gesto di chi è costretto ad ammettere una sventura senza comprenderla. La musica taceva, egli parlò sotto voce. Benedetto gli aveva scritto. Il medico lo aveva trovato senza febbre ma egli presentiva un nuovo accesso dopo il quale sarebbe venuta la fine. Iddio gli faceva la grazia di un'attesa quieta e dolce. Aveva una preghiera da fargli. Sapeva che la signora Dessalle, amica della signorina Noemi, era in Roma. Egli aveva promesso a questa signora, davanti a un altare del Sacro Speco, di chiamarla a sé, prima di morire, per un colloquio. Molto probabilmente la signorina Noemi gliene potrebbe dire il perché. Selva s'interruppe. Aveva in tasca la lettera, fece l'atto di cavarla. Jeanne se n'avvide, fu presa da un tremito convulso. "No no" diss'egli. "Le ripeto che può ingannarsi." Aspettò che si chetasse e invece di trarre la lettera, ne disse l'ultima parte a memoria: "L'accesso ritornerà stasera o stanotte, domani sera o dopodomani mattina sarà la fine. Desidero vedere domani la signora Dessalle per una parola nel nome del Signore, al quale vado. Ho testé pregato il senatore di ottenermi questo colloquio ma egli si scusò. Mi rivolgo dunque a Lei." Jeanne si era coperto il viso colle mani e taceva. Selva credette bene di suggerire speranze. L'accesso poteva non ritornare, poteva esser vinto. Ella scosse violentemente il capo ed egli non osò insistere. A un tratto le parve udire Chieco prender congedo. Trasalì, scostò le mani dal viso spettrale fra i capelli scomposti. Invece scoppiarono le prime allegre note del Curricolo napoletano il pezzo che Chieco suonava sempre per ultimo. Ella balzò in piedi, parlò convulsa, senza lagrime: "Selva, so che Piero muore, so che non s'inganna. Lo faccia restare dov'è, s'è possibile. Gli conduca i suoi amici, me lo giuri che glieli condurrà, che gli procurerà questo conforto. Dica tutto ad essi di me, dica loro la Verità, dica loro quanto è puro, quanto è Santo, Piero. Io aspetto qui. Non mi muovo. Andrò quando Lei mi dirà, dove lei mi dirà. Sono forte, vede, non piango più. Telegrafi a don Clemente che il suo discepolo muore e che venga. Facciamo tutto quello che dobbiamo fare. È tardi, vada. E Lei già in un modo o nell'altro lo vedrà, Piero, stasera. Gli dica ..." Qui un colpo di spasimo ruppe la parola. Chieco entrò zufolando, battendo palma a palma nella sua bizzarra maniera e Selva scivolò fuori dell'uscio. Jeanne gli corse dietro nel corridoio scuro, gli afferrò una mano, v'impresse un bacio frenetico. Qualche ora dopo, verso le dieci, Jeanne stava leggendo il Figaro a Carlino sprofondato in una poltrona con le gambe avvolte in una coperta, e sulle ginocchia, strettavi a due mani, una gran tazza di latte. Jeanne leggeva talmente male, talmente noncurante di punti e di virgole, che suo fratello la interrompeva ogni momento, s'impazientiva. Leggeva da cinque minuti quando la cameriera venne ad avvertirla che c'era la signorina Noemi. Jeanne gettò il giornale, balzò in un lampo fuori della camera. Noemi raccontò frettolosamente, in piedi, premendole per l'ora tarda di ripartire, che mentre Giovanni e Maria stavano al Grand Hôtel il professor Mayda, reduce da Napoli, era venuto a casa Selva, fuori di sé, a chiedere spiegazioni della scomparsa di Benedetto da casa sua; che allora ella gli aveva raccontato tutto; che Mayda era andato direttamente in via della Polveriera; che ci aveva trovato Maria, di Leynì, il senatore e il medico, il quale era di opinione che Benedetto si potesse trasportare; che fra il medico e Mayda vi era stato un diverbio a proposito di ciò e che Mayda lo aveva troncato dicendo: "ebbene, piuttosto di lasciarlo qui, me lo riporto via io." Ed era ritornato più tardi con una carrozza piena di guanciali e di coperte, se lo era portato via. Pareva che il viaggio fosse andato bene. Udito il racconto, Jeanne abbracciò silenziosamente l'amica, stretta stretta. E l'amica, palpitante, lagrimosa, le sussurrò: "Senti, Jeanne. Per domani, preghi?" "Sì" rispose Jeanne. Tacque, lottando contro l'insorgere di una tempesta di pianto. Quando ebbe vinto, riprese sotto voce: "Non so pregar Dio. Sai chi prego? Prego don Giuseppe Flores." Noemi le posò il viso sur una spalla, disse con voce soffocata: "Vorrei che dopo egli ci vedesse lavorare insieme per la sua fede." Jeanne non rispose ed ella partì. Jeanne ritornò da Carlino per la lettura e Carlino l'accolse aspramente. Le dichiarò che ne aveva abbastanza di quella Vita e ch'ella doveva prepararsi a partire con lui l'indomani per Napoli. Jeanne rispose che era una follia e che non sarebbe partita. Allora Carlino diede in escandescenze, le afferrò i polsi, la scosse a segno da farle male. Doveva assolutamente partire! Poiché resisteva, era venuto il momento di dirle che si sapevano i motivi dei suoi andirivieni, dei suoi misteri, dei suoi occhi rossi, del suo leggere male e anche, ora, del suo non voler partire da Roma. Egli n'era stato informato da lettere anonime. Guai a lei se non la rompesse con quel pazzo! Guai a lei se gli sacrificasse le sue idee, se si lasciasse conquistare dalla superstizione, dal bigottismo, dalla religione dei preti! Non l'avrebbe mai più guardata in faccia. L'avrebbe rinnegata per sorella, da libero pensatore come voleva vivere e morire. No no, troncare, troncare, Napoli, Palermo, l' Africa, se occorresse! "Libero pensatore? Certo. E la libertà mia?" disse Jeanne senza sdegno, a ricordo di un diritto e non per il proposito di usarne. Carlino intese invece che proprio volesse usarne come a lui non piaceva e perdette addirittura il lume degli occhi. Jeanne tramortì nell'udire quell'uomo nervoso ma creduto da lei buono e gentile scagliar tante ingiurie con tanto fiele. Non rispose niente, si ritirò, tutta tremante, nella sua camera, gli scrisse due righe per dirgli che la sua dignità non le permetteva di restare con lui fino a che non si fosse disdetto delle sue offese, che se ne andava, che s'egli avesse una parola per lei la mandasse a casa Selva. Non prese con sé che una piccola borsa e uscì accompagnata dalla cameriera lasciando la lettera sulla scrivania. Non vide carrozzelle presso l'albergo e si avviò verso l'esedra per prendervi il tram. Infuriava il tramontano, i lecci del viale si dibattevano stridendo, era buio, si camminava malissimo sul suolo tutto sossopra, la cameriera esclamò sgomenta: "Gesummaria, signora, dove andiamo?" Jeanne, col capo in fiamme, col cuore e i polsi in tumulto, continuò la via senza rispondere; parendole venir portata dai flutti di un mare ignoto, nelle tenebre, verso lui. Verso lui, verso lui. Anche verso il suo Dio? Il vento potente la stordiva ruggendole sopra e ai lati. Le parole di Noemi, le parole di Carlino le straziavano l'anima con opposta violenza. Anche verso il suo Dio? Ah che ne poteva sapere? Intanto verso lui!

Non abbia questo dubbio. Prima Le ripeto che il signor Maironi non ha niente a temere da nessuno e poi aggiungo che noi sappiamo tutto. Sappiamo ch'è in Roma, che sta, per poche ore ancora, presso un senatore del Regno, in via della Polveriera. Sappiamo pure ch'è ammalato ma ch'è in grado di viaggiare; anzi Lei può dire al signor Selva che io gli farò avere, se vuole, dal mio collega dei Lavori Pubblici un coupé riservato." Jeanne, tremante, fu per interromperlo, per esclamare: poche ore ancora? Si contenne appena e prese congedo per correre al Senato, sapere. "Forse il signor Selva lo ignora" disse il ministro, accompagnandola verso l'uscio "ma il senatore aspetta non so quali parenti e non potrà più alloggiare il signor Maironi. Gli rincresce. Gran brav'uomo! Siamo vecchi amici." Jeanne tremava di avere intravveduta la Verità. A palazzo Braschi che il senatore congedasse Piero; un'altra spinta per allontanarlo da Roma! Ma possibile che il senatore si fosse lasciato persuadere? Congedare un infermo in quello stato? Salì nel suo coupé , si fece portare a palazzo Madama, chiese del senatore. Non c'era. L'usciere che le rispose così le parve un po' imbarazzato. Aveva una consegna? Non osò insistere, lasciò una carta colla preghiera di passare dal Grand Hôtel prima di pranzo. Ella stessa partì per il Grand Hôtel fremendo, e gemendo insieme nel suo cuore, battendo colla punta del piede il libretto contro la Massoneria, dimenticato da donna Rosetta. Avrebbe voluto che i due sauri volassero. Erano le quattro e tre quarti e il suo dovere quotidiano era di preparare la medicina per Carlino alle quattro e mezza.

"No, non così presto, ma desidero che tu abbia questa consolazione subito." In un salottino della villa, Giovanni Selva, guardato l'orologio, disse a sua moglie: "Andate." L'intelligenza era che con Jeanne andassero da Benedetto Maria e Noemi. Questa stese le mani a suo cognato. "Sai" diss'ella, tutta tremante " vado a dargli una notizia che riguarda l'anima mia. Non ti offendere se la do a lui prima che a te." Jeanne intuì la notizia che Noemi avrebbe portato al morente: la sua prossima conversione al Cattolicismo. Tutta la forza ch'ell'aveva raccolto in sé per il momento supremo l'abbandonò. Abbracciò Noemi e scoppiò in lagrime. I Selva le fecero animo, ingannandosi circa quel pianto. Ella pregò, fra i singhiozzi, che andassero, che andassero; a lei era impossibile di venire. Noemi sola intese. Jeanne non voleva venire perché aveva indovinato e non poteva fare quanto avrebbe fatto lei. La supplicò, la scongiurò, le mormorò tenendola abbracciata: "perché non cedi, in questo momento?" Jeanne rispose solamente, singhiozzando: "Oh tu mi capisci!" E perché Noemi protestava di non voler più andare, la supplicò alla sua volta di andare, di andare subito, di non tardare a dargli questa consolazione. Ella non poteva, non poteva, non poteva! Non ci fu verso di smuoverla. Un domestico venne a chiamare Selva. Maria e Noemi uscirono. Rimasta sola, Jeanne ebbe un momento l'idea di raggiungerle, di arrendersi, di andargli a dire ella pure una parola di gioia. Cadde ginocchioni, stese le braccia, quasi a lui che le stesse davanti, singhiozzò: "caro, caro, come ti potrei ingannare?" Aveva lottato più volte col proprio scetticismo imperioso e sempre invano. Uno slancio di dedizione alla fede, lo sapeva, non sarebbe stato durevole. "Perché non mi vuoi sola?" gemette ancora, sempre ginocchioni. "Perché non mi vuoi sola? Perché le coscienze pie non si offendano? Perché la mia disperazione non ti turbi? Perché non mi vuoi sola? Posso io dire davanti a loro quello che ho dentro di me? Tu che sei buono come il tuo Signore Gesù, perché non mi vuoi sola? Oh!" Ella scattò in piedi, convinta che se Piero la udisse risponderebbe "sì, vieni." Stette un attimo come impietrata, colle mani alle tempie; e mosse poi lentamente, simile a una sonnambula, uscì del salotto, attraversò il vestibolo, scese in giardino. Pioveva tanto dirottamente, il cielo, corso tuttora di tempo in tempo dal tuono, era tanto fosco che prima delle sei, quella sera di febbraio, pareva già quasi notte. Jeanne entrò come stava, a capo scoperto, nella pioggia fitta e fredda, prese, senz'affrettar il passo, non il viale degli aranci a destra ma il sentiero che scende a sinistra fra due righe di grandi agavi a un boschetto di lauri, di cipressi e di ulivi cui si aggrappano rose. Passò dal gran pino che guarda il Celio e girando al basso verso destra per un lungo arco di via, si condusse alla fonte che un avello antico raccoglie nel pendìo ripido fra una cintura di mirti, pochi passi più giù che la casina del giardiniere. Ivi si fermò. Una finestra della casina luceva; certo la finestra di Piero. Vi passò un'ombra; forse Noemi!Jeanne sedette sull'orlo marmoreo della vasca. Era possibile di affogare lì dentro? Avrebbe cercato di morire se non ci fosse Carlino? Pensieri vani; non vi si trattenne. Attese, attese, sotto la pioggia fredda, con gli occhi e l'anima fermi alla finestra lucente. Altre ombre. Partono, adesso? Sì, forse partono Maria e Noemi ma non lasceranno Piero solo. Ci sarà Mayda, ci sarà il benedettino, ci sarà la suora. Ebbene, ella tenterà. Un passo frettoloso nel viale degli aranci; qualcuno che si avvia alla casina. Jeanne, che si era alzata, torna a sedere. Ecco, quell'ignoto è entrato. Movimento di ombre alla finestra. Due persone escono parlando vivacemente; le voci del professore e di Giovanni Selva. Pare che parlino di qualcuno venuto a prendere notizie. Altre persone escono, l'acqua delle grondaie mormora sugli ombrelli. Devono esser loro, Maria e Noemi. Jeanne si alza da capo, si avvia. Passa l'uscio della casina, vede gente nella cucina del giardiniere, prega una ragazza di salire a vedere presso l'ammalato, chi ci sta. Quella esita, cerca schermirsi, ma poi va, scende subito. Ci stanno il prete e la suora. Jeanne domanda un po' di carta, una matita, un lume. Comincia a scrivere: "Padre - Mi rivolgo ..." S'interrompe, sta in ascolto. Qualcuno scende la scaletta di legno. Un passo d'uomo; dunque il Padre. Allora gli parlerà. Butta via la matita, gli va incontro sulla scaletta. È scuro, don Clemente la scambia per Maria Selva. "È quieto" dice, prima ch'ell'apra bocca. "Pare che dorma. Gli ha fatto tanto bene quello che Sua sorella gli ha detto. Il professore crede che passerà la notte. Faccia venire anche l'altra signora. L'ha domandata. Credevo che fossero andate a prenderla." Jeanne tace, si fa da banda. Egli dice "permesso" e passa senza guardarla, va in cucina per avere un po' di pane e un po' d'acqua, digiuno com'è dalla sera precedente. Jeanne trema come una foglia. Egli l'ha domandata! Queste parole, il favore del caso le danno le vertigini. Sale piano piano, spinge l'uscio piano piano. La suora la vede, fa per alzarsi. Ella le accenna, col dito alla bocca, di non si muovere, si accosta piano piano al letto, vede una lunga cosa nera distesa sulle coltri, si arresta esterrefatta, non comprende. Ode un lievissimo gemito. Il giacente alza la mano destra con un gesto vago, come se cercasse qualche cosa. La suora si alza ma Jeanne, più pronta, è di slancio al guanciale, si china su Piero che ha ripreso a gemere, ad agitar la mano. Jeanne lo interroga affannosa, egli non risponde, geme, guarda qualche cosa accanto al letto e Jeanne offre un bicchiere d'acqua, gli vede scotere il capo, si dispera di non capire. Ah, il Crocifisso, il Crocifisso! La suora alza il lume da terra, Jeanne porge il Crocifisso a Piero che gli affligge le labbra e la guarda, la guarda con gli occhi grandi, vitrei, dov'è la morte. La suora getta un grido, corre a chiamare il Padre. Piero guarda Jeanne, guarda Jeanne, si sforza di prendere il Crocifisso a due mani, di alzarlo verso lei, le sue labbra si agitano, si agitano, non ne esce suono. Jeanne si raccoglie nelle proprie le mani di Piero, bacia il Crocifisso di un bacio appassionato. Egli chiude allora gli occhi, il suo volto s'irradia di un sorriso, si piega un poco sulla spalla destra, non si move più. FINE.

Divide il pane con pezzenti, assiste malati, pare che ne abbia guarito qualcuno con l'imposizione delle mani e la preghiera. È divenuto tanto popolare che la nuora del professore Mayda, benché sia credente e praticante, lo avrebbe licenziato volentieri per non avere la seccatura di tanta gente che viene a cercarlo; ma il suocero, che non è né praticante né credente, non ha voluto. Il suocero gli ha riguardi grandissimi. Se sopporta di vederlo rastrellare i viali, annaffiare i fiori, è solo per rispetto alle sue idee di Santo, e non glielo permette oltre una certa misura di tempo, molto breve. Vuole che attenda liberamente alla sua missione religiosa. Egli stesso scende sovente in giardino a parlare di religione con lui. Benedetto, per compiacergli, ha smesso il regime di pane, erbaggi e acqua che teneva a Jenne, prende carne e vino. E per compiacere a Benedetto il professore ne fa distribuire molto largamente agli ammalati del quartiere. Vi ha chi ride di lui e magari lo ingiuria, ma dal popolino è venerato come, in principio, a Jenne. Ed esercita la carità delle anime più ancora che l'altra. Ha levato certi disordini morali di famiglie, fu minacciato di morte per questo da una mala femmina, ha fatto ritornare in Chiesa gente che non ci aveva più messo piede dalla fanciullezza in poi. Lo sanno i benedettini di Sant' Anselmo. La sera poi, due o tre volte la settimana, parla nelle catacombe." La signorina matura esclamò: "Nelle catacombe?" E si porse, palpitante, verso il narratore. Una delle quacchere mormorò: "Mon Dieu! Mon Dieu!" e un'altra voce, grave di stupore riverente: "Che senso!" "Ecco" riprese il giovine, sorridendo "Porretti ha detto "nelle catacombe" ma intendeva in un luogo privato, conosciuto da pochi. Adesso lo conosco anch'io." "Ah!" fece la signorina matura. "Lei lo conosce? Dov'è?" Guarnacci tacque ed ella sentì la sua indiscrezione. "Scusi, scusi!" disse, frettolosa. "Lo sapremo, lo sapremo" fece la marchesa. "Ma senti un po', figliuolo mio, questo tuo Santo che predica in segreto, non sarebbe una specie di eresiarca? Cosa ne dicono i preti?" "Stasera" rispose il professore Guarnacci "ne avrebbe veduto qui tre o quattro e sono andati via contentissimi." "Saranno preti poco preti, preti mal cotti, pretoidi. Ma cosa dicono gli altri? Vedrai che gli altri, presto o tardi, gli daranno il torcibudella." E con quest'allegra profezia la marchesa se n'andò seguita da tutte le spalle scoperte. La signorina matura e le quacchere, felici che quello spregevole sciame mondano se ne fosse andato, assalirono il professore con domande. Non si poteva proprio sapere il posto delle nuove catacombe? Quante persone vi si radunavano? Anche donne? Quali erano i temi dei discorsi? Cosa dicevano i frati di Sant' Anselmo? E della Vita passata di quest'uomo si era venuti a sapere nulla? Il professore si schermì quanto poté, riferì solamente le parole di un Padre di Sant' Anselmo: "un Benedetto per ogni parrocchia di Roma e Roma diventa davvero la Città Santa." Ma quando, partite tutte le altre Signore, si trovò solo con l' Albacina e con la Silenziosa che aspettavano la loro carrozza, siccome all' Albacina era legato di amicizia, lasciò capire a questa che avrebbe parlato ma che la presenza di una signora sconosciuta lo imbarazzava, pregò l' Albacina di presentarlo. L' Albacina non ci aveva pensato. "Il professore Guarnacci" diss'ella. "La signora Dessalle, mia buona amica." La "catacomba" era proprio la sala stessa dove stavano in quel momento. Prima, le riunioni avevano luogo nell'alloggio dei Selva, in via Arenula. Quel posto non pareva molto adatto, per diverse ragioni. Guarnacci, fattosi discepolo egli pure, aveva offerto la casa propria. Le riunioni vi si tenevano due volte la settimana. Ci venivano i Selva, una sorella della signora, alcuni ecclesiastici, quella stessa signora veneta ch'era partita poc'anzi, alcuni giovani fra i quali certo Alberti, prediletto dal Maestro che quella sera era venuto e partito con lui, e anche un ebreo, certo Viterbo, già prossimo a farsi cattolico e dal quale il Maestro sperava cose grandi; un operaio tipografo, qualche artista, persino due membri del Parlamento. Lo scopo delle riunioni era di far conoscere a persone attratte da Cristo ma ripugnanti al Cattolicismo, ciò che il Cattolicismo è veramente, la essenza vitale, indistruttibile della religione cattolica e il carattere umano di quelle sue diverse forme che la rendono appunto ripugnante a molti, che sono mutabili e mutano e muteranno per una elaborazione dell'interno elemento divino combinata con le reazioni dell'esterno, della scienza e della coscienza pubblica. Benedetto era severissimo nell'ammettere alle riunioni perché nessuno più di lui sapeva trattare delicatamente colle anime, rispettarne i candori, farsi piccino alle piccine, alto alle alte, usare con le timide il linguaggio riguardoso che istruisce e non turba. "La marchesa" continuò il professore "dice: sarà un eresiarca, i preti che lo seguono saranno eretici. No. Con Benedetto non c'è a temere di eresie né di scismi. Proprio nell'ultima riunione egli ha dimostrato che scismi ed eresie, oltre ad essere condannabili per sé, sono funesti alla Chiesa non solamente perché le sottraggono anime, ma perché, anche, le sottraggono elementi di progresso, perché se i novatori restassero nella soggezione della Chiesa gli errori loro perirebbero e quell'elemento di Verità, quell'elemento di bene che quasi sempre è unito, in qualche misura, all'errore, diventerebbe vitale nel corpo della Chiesa." L' Albacina osservò che questo era molto bello e che se le cose stavano a questo modo la sinistra profezia della marchesa non si sarebbe avverata. "La profezia del torcibudella, no!" disse il professore, ridendo. "Queste cose non accadono e io non credo che sieno accadute mai. Sono calunnie. Bisogna essere la marchesa e certa gente come la marchesa che si trova qui a Roma per crederle. Un prete romano, capisce, un prete ha osato avvertire Benedetto che si guardasse! Ma Benedetto gli ha levato il coraggio di parlargliene un'altra volta. Dunque, torcibudella no; ma persecuzione sì. Quei tali due preti di Roma ch'erano a Jenne non hanno mica dormito. Io non volli dirlo prima perché la marchesa non è persona cui raccontare queste cose, ma ci sono in aria dei guai grossi. Si è spiato ogni passo di Benedetto, si è adoperata anche la nuora di Mayda, a mezzo del confessore, per avere informazioni dei suoi discorsi, si è saputo delle riunioni. La sola presenza di Selva dà loro il carattere che quella gente abborre e siccome contro un laico non può far niente, così pare che si cerchi l'aiuto del braccio secolare contro Benedetto, l'aiuto dei carabinieri e dei giudici. Loro si meravigliano? Eppure è così. Finora non c'è niente di positivo, niente di fatto, ma si macchina. Siamo stati avvertiti da un ecclesiastico straniero che un'altra volta ha chiacchierato male ma stavolta ha chiacchierato bene. Si preparano e si fabbricano materiali per un'azione penale." La Silenziosa trasalì, uscì finalmente del suo mutismo. "Come è possibile?" diss'ella. "Signora mia," disse il professore "Lei non sa di cosa sieno capaci alcuni intransigenti in tonaca. Gl'intransigenti laici sono agnelli, in paragone. Si vuol servirsi di un disgraziato caso successo a Jenne. Ora però noi speriamo in un fatto nuovo, che non occorre di raccontare a molti, senza discernimento, ma ch'è importantissimo." II professore tacque un momento, assaporando l'acuta curiosità che aveva destato e che, muta sulle labbra, sfavillava dagli occhi intenti delle due dame. "L'altro giorno" riprese "il segretario del cardinale. ... un giovine prete tedesco, si recò a Sant' Anselmo e parlò coi frati. In seguito a questa visita Benedetto fu chiamato a Sant' Anselmo dove i benedettini gli hanno un grande affetto e un grande rispetto. Gli fu chiesto se non avesse intenzione di rendere omaggio a Sua Santità, di domandare udienza. Rispose ch'era venuto a Roma con questo desiderio nel cuore, che aspettava un cenno dalla Provvidenza, e che questo era il cenno. Allora gli fu detto che Sua Santità lo avrebbe ricevuto certamente volentieri ed egli domandò l'udienza. Questo fu raccontato a Giovanni Selva da un benedettino tedesco." "E quando ci va?" chiese l' Albacina. "Posdomani sera." Il professore soggiunse che da parte del Vaticano la cosa era tenuta segretissima, che si era imposto a Benedetto di non parlare con alcuno, che niente ne sarebbe trapelato senza l'indiscrezione di quel frate tedesco, e che gli amici di Benedetto speravano grandi cose da questa visita. L' Albacina domandò cosa si proponesse Benedetto di dire al Pontefice. Il professore sorrise. Benedetto non se n'era aperto con nessuno e nessuno aveva osato interrogarlo. Secondo il professore, Benedetto parlerebbe a favore di Selva, pregherebbe che i suoi libri non fossero posti all'Indice. "Sarebbe poco" disse l' Albacina, sottovoce;Jeanne ebbe un fremito di consenso. "Pochissimo!" esclamò, quasi pigliandosela col professore che parve sorpreso di quel subito scatto dopo tanto silenzio. Egli si scusò. Non aveva inteso dire che Benedetto non parlerebbe anche di altre cose, al Papa. Aveva inteso dire che, secondo lui, di quell'argomento gli parlerebbe certo. L' Albacina non sapeva spiegarsi il desiderio del Papa di vedere Benedetto. Come lo spiegavano i suoi amici? Come lo spiegava Selva? Eh, nessuno lo sapeva spiegare; né Selva né gli altri. "Io lo spiego!" disse Jeanne, impetuosa, compiacendosi di capire quello che nessuno capiva. "Il Papa, non è stato vescovo a Brescia?" Guarnacci sorrise di un sorriso fra l'ammirativo e l'ironico, rispose. Ah, la signora era molto informata del passato di Benedetto! La signora sapeva con certezza cose che a Roma si dicevano ma che però trovavano anche degli increduli! Solo una cosa non sapeva. Il Papa non era mai stato vescovo a Brescia, aveva coperto due sedi vescovili nel Mezzogiorno. Jeanne irritata con se stessa, vergognosa di essersi quasi tradita, non replicò. L' Albacina voleva sapere quale opinione Benedetto avesse del Papa. "Oh lui" rispose il professore "nel Papa non considera e non venera che l'ufficio. Almeno credo. Della persona non l'ho inteso parlare mai. Dell'ufficio sì. Ne ha discorso una sera magnificamente, contrapponendo il Cattolicismo al Protestantesimo, svolgendo il suo ideale di governo della Chiesa: principato e giusta libertà. Del resto il nuovo Papa non si sa ancora cosa sia. Si dice che sia Santo, intelligente, malato e debole. Nell'accompagnare le Signore alla carrozza, sulla scala buia, il professore uscì a dire sospirando: "Quello che pur troppo si teme è che Benedetto non viva. Almeno Mayda lo teme." L' Albacina, che scendeva a braccio del professore, esclamò senza fermarsi: "Oh poveretto! Di che soffre?" "Ma!" rispose il professore. "Di un male inguaribile, pare; conseguenza della tifoide ch'ebbe a Subiaco e sopra tutto della Vita disagiatissima che ha fatto, delle penitenze, dei digiuni." E continuarono la lunga discesa in silenzio. Soltanto in fondo alla scala si avvidero che la loro compagna era rimasta indietro. Il professore risalì rapidamente e trovò Jeanne ferma sul penultimo pianerottolo, aggrappata alla ringhiera. Sulle prime non si mosse né parlò. Poi mormorò: "Non ci si vede." Guarnacci non sapeva e non fece attenzione né a quel momento di silenzio né al tôno sommesso e incerto della voce. Le offerse il braccio e discese con lei, scusando sé del buio, accusandone l'avarizia del padrone di casa. Jeanne salì nella carrozza dell' Albacina che la portò al Grand Hôtel Nel tragitto l' Albacina parlò con rammarico della notizia che le aveva dato il Guarnacci. Jeanne non aperse bocca. Il suo mutismo dispiacque all'amica. "Lei non è stata contenta del discorso?" diss'ella. Non conosceva affatto le idee religiose di Jeanne. "Sì" rispose questa. "Perché?" "Così. Mi pareva. Allora non Le dispiace di essere venuta?" L' Albacina si sentì, con molta sorpresa, prendere una mano e rispondere: "Le sono tanto grata!" La voce fu sommessa e quieta, la stretta della mano quasi violenta. "Nientemeno!" pensò l' Albacina. "Questa è una futura dama dello Spirito Santo." "Per conto mio" riprese ad alta voce "capisco che mi terrò la mia religione vecchia, quella degl'intransigenti. Saranno farisei, saranno tutto quello che vi piace, ma ho paura che a volerla tanto ritoccare e ristaurare, la religione vecchia, essa crolli e non resti più niente in piedi. E poi volendo seguire i Benedetti bisognerebbe cambiare troppe cose. No no. Però l'uomo m'ispira un interesse straordinario. Adesso bisognerebbe cercare di vederlo. Bisogna che lo vediamo. Molto più se proprio è condannato a morire presto. Non Le pare? E come si fa? Pensiamo." "Io non desidero di vederlo" s'affrettò a dire Jeanne. "Davvero?" esclamò l'amica. "Ma come? Mi spieghi questo enigma." "Così. Non desidero." "Curiosa!" pensò l' Albacina. La carrozza si fermò davanti all'entrata del Grand Hôtel Nell'atrio Jeanne s'incontrò con Noemi e suo cognato, che uscivano. "Finalmente!" disse Noemi. "Va, corri, tuo fratello è arrabbiatissimo con questa Jeanne che non arriva mai. Noi siamo discesi ora perché è venuto il medico." I Dessalle erano a Roma da quindici giorni. Un principio di ottobre umido e freddo, preoccupazioni di salute, il progetto di uno studio sul Bernini seguito al progetto di romanzo, avevano persuaso Carlino ad accontentare la signora Albacina più presto che non avrebbe voluto, a lasciare villa Diedo per i tepori di Roma prima dell'inverno, con molta chiusa gioia di sua sorella. Due o tre giorni dopo l'arrivo fu preso da una leggera bronchite. Si diede per tisico, si tappò in camera con il proposito di starci tutto l'inverno, volle il medico due volte al giorno, tiranneggiò Jeanne con un egoismo spietato, le numerò i minuti di libertà. Ella si fece sua schiava, parve godere di quell'irragionevole soprappiù di sacrificio, che passava la misura del suo affetto fraterno. Lo donava mentalmente, con dolce ardore, a Benedetto. Vedeva spesso i Selva e Noemi, non a casa loro, al Grand Hôtel Anche i Selva erano soggiogati dal suo fascino di donna superiore, bella, gentile e triste. Tutto che aveva udito di Benedetto in casa Guarnacci lo sapeva già da Noemi. Solo non sapeva che Mayda avesse espresso quel giudizio. Noemi, pietosamente e anche per non lasciar trasparire la commozione propria, gliel'aveva taciuto. Carlino l'accolse male. Il medico, che gli aveva trovato il polso frequente, capì subito che era un polso collerico. Scherzò un poco sulla gravità del male e se ne andò. Carlino, burbero, volle sapere dove Jeanne si fosse tanto indugiata ed ella non glielo nascose. Solamente gli nascose il nome vero di Benedetto. "Non ti sei vergognata" diss'egli "di star ad ascoltare alle porte?" E senza lasciarle il tempo di rispondere inveì contro le nuove tendenze che le aveva scoperte. "Domani andrai a confessarti! E posdomani reciterai il rosario!" Sotto la usuale tolleranza cortese del suo linguaggio, la benevolenza che mostrava pure a non pochi ecclesiastici, si nascondeva una vera fobìa antireligiosa. L'idea che sua sorella potesse un giorno accostarsi ai preti, alla fede, alle pratiche, gli faceva perdere il lume degli occhi. Jeanne non rispose, si offerse mansuetamente per la solita lettura serale. Carlino le dichiarò netto di non volerne sapere, pretese di sentire degli spifferi, la tenne un quarto d'ora colla candela in mano a scrutar usci, finestre, pareti, pavimento, e poi la mandò a dormire. Ma Jeanne entrata nella sua camera, non pensò a dormire né a coricarsi. Spense la luce e sedette sul letto. Strepiti di carrozze sonavano nella via, passi e fruscii di vesti femminili nei corridoi; immobile fra le tenebre, ella non udiva. Aveva spento la luce per pensare, per non vedere che il proprio pensiero, l'idea balenatale nello scender la scala di casa Guarnacci al braccio del professore dopo che, udite le parole sinistre "si teme che non viva" aveva quasi smarriti i sensi. In carrozza con l' Albacina, in camera con suo fratello, mentre doveva pur parlare e con l'una e con l'altro, fare attenzione a tante diverse cose, era stato un balenar continuo, nel suo profondo, di quest'idea, di questa proposta offerta dal cuore ardente alla volontà. Adesso non balenava più. Jeanne la contemplava in sé, ferma. Nella figura seduta sul letto, immobile fra le tenebre, due anime si stavano tacite a fronte. Una Jeanne umile, appassionata, persuasa di poter tutto sacrificare all'amore, si misurava con una Jeanne inconsciamente orgogliosa, persuasa di possedere una dura e fredda Verità. Gli strepiti delle carrozze si fecero più radi nella via, i passi e i fruscii più radi nei corridoi. A un tratto le due Jeanne parvero riconfondersi in una che pensò: "Quando mi annuncieranno la sua morte, mi potrò dire: almeno hai fatto questo." Si alzò, accese la luce, sedette alla scrivania, prese un foglietto e scrisse: "A Piero Maironi, la notte del 29 ottobre ... "Credo. "Jeanne Dessalle." Scrisse e guardò a lungo, a lungo, la parola solenne. Più la guardava, più le due Jeanne si venivano lente ridividendo. La Jeanne inconsciamente orgogliosa soverchiò, oppresse l'altra quasi senza lotta. Tutta amara di amarezza mortale, lacerò il foglio macchiato della parola impossibile a mantenere, impossibile a scrivere sinceramente. Spenta da capo la luce, accusò di crudeltà Iddio se mai esistesse, pianse, pianse nelle volontarie tenebre, senza freno.

Abbia consiglieri pubblici e siano i vescovi raccolti spesso nei Concilii nazionali e faccia partecipare il popolo alla elezione dei vescovi scegliendo uomini amati e riveriti dal popolo, e i vescovi si mescolino al popolo non solamente per passare sotto archi di trionfo e farsi salutare dal suono delle campane ma per conoscere le turbe e per edificarle a imitazione di Cristo, invece di starsene chiusi da principi orientali negli episcopii, come tanti fanno. E lasci loro tutta l'autorità che è compatibile con quella di Pietro! Santità, posso parlare ancora?" Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

"Credo che Giovanni abbia ragione, sai" diss'ella. "Questo don Clemente è di Brescia." Allora Jeanne, presa da un impeto di dolore, cinse con un braccio il collo dell'amica, ruppe in singhiozzi. Noemi, atterrita, la supplicò di chetarsi. "Per amor di Dio, Jeanne!" Questa le domandò, fra un singhiozzo soffocato e l'altro, se Carlino sapesse. Oh no, ma che direbbe adesso? "Qui non può vedere" singhiozzò Jeanne. Erano nell'ombra della Chiesa. Noemi ammirò che Jeanne, in preda a quell'emozione, se ne fosse accorta. "Per carità, non sappia niente! Per carità!" Noemi promise di non parlare. Jeanne si venne a poco a poco chetando e fu la prima a muoversi. Ah esser sola, esser sola nella sua camera! La vista della torre di Notre Dame saettante il cielo con la guglia affilata le fece male come la vista di un nemico vincitore e implacabile. Lo comprendeva bene adesso, si era illusa per tre anni di non avere più speranza. Come soffriva e si dibatteva la sua speranza creduta morta, come si ostinava a tempestarle nel cuore: no, no, non si è fatto frate, non è lui! Ella strinse con uno spasimo di desiderio il braccio di Noemi. Lo voce consolatrice si affievolì, venne meno. Probabilmente era lui, probabilmente tutto era proprio finito per sempre. Il silenzio della notte, la tristezza della luna, la tristezza delle vie morte, un'aria gelida che si era levata, consentivano con i pensieri amari. Oltrepassata di poco Notre Dame ecco ancora scivolare lungo il muro, dalla parte ombrosa della via, l'uomo sinistro. Noemi affrettò il passo, desiderosa ella pure di arrivare a casa. Quando Carlino si avvide che le Signore andavano diritte alla villetta invece di pigliare il ponte che conduce all'altra sponda del Lac d'amour , protestò. Come? E l'ultima scena? Avevano dimenticato? Noemi voleva ribellarsi, ma Jeanne, trepidante che Carlino venisse a scoprire qualche cosa, la pregò di cedere. "Sul ponte" gridò Carlino "fermatevi due minuti!" Si appoggiarono alla sbarra, guardando l'ovale specchio dell'acqua immobile. La luna si era nascosta dietro le nuvole. "Questa illunità è Divina per me" disse Carlino "Ma ora io darei metà della mia gloria futura perché nelle nuvole si aprisse una piccola finestra con una piccola stella nel mezzo, che si potesse veder nell'acqua. Voi non sapete immaginare come mi verrà quest'ultimo capitolo. Sentite. Sul quai du Rosaire voi guardavate i cigni." "Ma non c'erano" interruppe Noemi. "Non importa" riprese Carlino "voi guardavate i cigni illuminati dalla luna." "Ma la luna non batteva sull'acqua" fece ancora Noemi. "Ma che importa?" replicò Carlino, seccato. E siccome Noemi osservò che allora era inutile di trascinarle attorno per Bruges a quell'ora, egli paragonò poeticamente il suo studio preparatorio, le sue note quasi fotografiche, all'aglio che in cucina serve ma in tavola non si porta. E continuò a dire dei cigni e della luna. "Voi avete allora paragonato il candor vivente e il candor morto. Il vecchio prete viene fuori con questa squisita cosa che forse il candore vivo della giovinetta s'irradia ai suoi pensieri scolorati come i suoi capelli da un principio di morte e ch'egli si sente ora nell'anima un'alba di candore tepido. Mormora poi fra sé involontariamente: "Abisag". Allora la fanciulla dice: "Chi è Abisag?" perché è ignorante come voi due che non conoscete chi è Abisag, il mio primo amore. Il prete non risponde, si avvia con la ragazza per la rue des Laines . Ella domanda ancora chi sia Abisag e il vecchio tace. Ecco quell'ombra torva, nera, che va, che viene, che si dilegua al suono delle ventiquattro campane. "Non è esatto" mormorò Noemi. Carlino fu per dirle: stupida! "Il prete" proseguì "paragona quell'ombra nera a uno spirito maligno che va e viene intorno agli spiriti candidi, voi non capite il legame ma il legame c'è, avido di cacciarvisi a star dentro, lui con altri peggiori di lui. Poi, qui il legame non l'ho ancora trovato ma lo troverò, si viene a parlar dell'amore. Voi avete traversato la Grande Place Questa sera non c'era la musica, ma di solito c'è, e suppongo che allora vi si faccia molto all'amore cogli occhi come in tutto il mondo. Il vecchio torrione e il vecchio prete mostrano certa indulgenza; invece la giovinetta trova stupide queste forme dell'amore, le sdegna. È l'amore della terra, dice il prete. Ed ecco l'Hôtel de Flandre la musica del ballo di nozze. "Come?" esclamò Noemi "Era un ballo di nozze?" Carlino strinse, scrollò i pugni, soffiando dall'impazienza; e proseguì, dopo un sospiro: "La giovinetta domanda: vi è un amore del cielo? Allora io vi ho detto di fermarvi sotto gli alberi di Saint-Sauveur e voi vi siete invece fermate all'entrata della piazza. Fa niente, si vedeva la cattedrale, basta. Il prete risponde: sì, vi è un amore del cielo. La maestà della cattedrale antica, della notte, del silenzio, lo esalta. Egli parla. Io non posso dirvi adesso la sua tirata, l'ho in mente assai confusa, ma insomma il succo è questo che anche l'amore del cielo nasce sulla terra e che non vi matura mai. Il vecchio si lascerà andare quasi a delle confessioni. Confesserà col petto ansante, colla parola accesa, di aver sentito, non particolari inclinazioni a persone, né inclinazioni da doversene vergognare, ma un'aspirazione intellettuale e morale a congiungersi con una femminilità incorporea che fosse complemento dell'essere suo incorporeo, restandone però insieme tanto divisa da poter intercedere amore fra l'una e l'altro." "Misericordia!" mormorò Noemi. Carlino si era tanto riscaldato che non la udì. "Pare al vecchio" diss'egli "d'intravvedere in questa unione una trinità umana simile alla Trinità Divina e trova quindi giusto, trova Santo che l'uomo vi aspiri. Finalmente egli tace, tutto pieno, tutto fremente delle cose che ha dette; e s'incammina verso Notre Dame La fanciulla gli prende il braccio. Ecco l'uomo sinistro, lo spirito tentatore. Lo avete ben veduto! Dite se tutto questo non è ben trovato, non è combinato bene! Il vecchio e la fanciulla lo sfuggono, ma, come il cielo, anche il loro cuore si oscura. Adesso mi occorrerebbe un finestrino nelle nuvole, una stellina nel mezzo. Il vecchio e la fanciulla guarderebbero silenziosi la stellina tremolare nel Lac d'amour e tanti movimenti segreti dei loro pensieri metterebbero capo a quest'idea: forse, oltre le nuvole della Terra, là, in quel mondo lontano!" Jeanne non aveva mai detto parola né mostrato di fare attenzione al racconto di suo fratello. China sulla sbarra, guardava nell'acqua scura. A questo punto si rizzò impetuosamente. "Ma tu non lo credi!" esclamò. "Tu lo sai che sono illusioni, sogni! Tu non vorresti mai che io credessi così! Saresti capace di cacciarmi!" "No!" protestò Carlino. "Sì! E per fare della bella letteratura ti metti a fomentare anche tu questi sogni che snervano già tanto la gente, che sviano già tanto dalla Vita vera! Non mi piace niente! Un incredulo come te! Uno persuaso, come sono persuasa io, che noi siamo bolle di sapone, che si brilla un momento e poi si ritorna non nel niente ma nel Tutto!" "Io?" rispose Carlino, intontito. "Io non sono persuaso di niente. Io dubito. È il mio sistema, lo sai bene. Se adesso uno mi dicesse che la religione vera è quella dei Cafri o quella dei Pelli Rosse, direi: forse! Non le conosco! Io vedo la falsità di quelle che conosco e per questo non vorrei certo che tu diventassi cattolica sul serio. Cacciarti di casa, poi...!" "Intanto ci posso andare, prima di esserne cacciata?" Così dicendo, Jeanne prese il braccio di Noemi. Carlino pregò che facessero il giro del Lac d'amour . Chi sa, forse intanto si aprirebbe il finestrino nel cielo. Ci teneva. Noemi espresse il dubbio, ricordando la conversazione di poche ore prima, che alla finestra ci venisse proprio la signorina Fomalhaut. "Già" fece Carlino, pensieroso. "Non avevo più pensato a Fomalhaut. Se non sarà Fomalhaut adesso, sarà Fomalhaut allora." Ma Noemi non aveva finito con le sue difficoltà. Se alla finestra non ci venisse nessuna stella, né grande né piccola? A questo, Carlino trovò subito rimedio. La stella ci sarà. Potrà essere telescopica, perduta in una profondità immensa, ma ci sarà. La fanciulla non la vede; la vede il prete, con i suoi occhi di presbite decrepito. Dopo la vede anche la fanciulla, per fede." "E così quella povera fanciulla" disse Jeanne amaramente "sulla fede di un vecchio prete mezzo cieco vedrà delle stelle che non ci sono, perderà il suo buon senso, la sua giovinezza, la sua Vita, tutto. La farai bene seppellire lì al Béguinage , dopo?" E si avviò con Noemi senz'attendere la risposta. Fatto il giro del Lac d'amour , le due Signore si trattennero lungamente sull'altro ponte; ma nessun finestrino si aperse nel cielo. Il torrione lontano delle Halles, il campanile enorme di Notre Dame una tozza torre imminente allo stagno, gli acuti comignoli del Béguinage si disegnavano, venerabile concilio di alti vecchioni, sulle nubi lattee. Carlino, non potendo far di meglio, incominciò un ragionamento ad alta voce sul posto più opportuno per la sua finestra. "Che giorno è oggi?" chiese Jeanne all'amica, sotto voce. "Sabato." "Domani parlo a Carlino, lunedì e martedì si regolano tante cose, mercoledì si fanno i bagagli e giovedì partiamo. Puoi scrivere a tua sorella che saremo a Subiaco l'altra settimana." "Non decidere così! Pensaci!" "Ho deciso. Voglio sapere. Se è lui, non lo impedirò nel suo cammino. Ma voglio vederlo." "Ne riparleremo domani, Jeanne. Non decidere ancora." "Ho pensato e ho deciso." Mezzanotte suonò al torrione delle Halles; suonò nelle nuvole, a lungo, il solenne canto malinconico delle innumerevoli campane. Noemi, che prima voleva insistere, tacque, piena il cuore di sgomento; come se quelle malinconiche voci del cielo notturno parlassero a lei di un destino dell'amica sua, di un destino di amore e di dolore, che si dovesse compiere.

"È quasi meglio, cara" si arrischiò a dire Noemi "è quasi meglio che tu sappia, che tu non possa illuderti; è quasi meglio che tu lo abbia veduto con quell'abito!" Stavolta udì rispondersi, fra i singhiozzi, tanti appassionati "no, no" così strani nel loro impeto quasi non doloroso, che ne rimase interdetta. Riprese quindi i suoi conforti ma più timidamente. "Sì, cara, sì, cara, perché non essendoci più rimedio ..." Jeanne alzò il viso tutto lagrimoso. "Non capisci che non è lui?" diss'ella. Noemi si sciolse, stupefatta, dalle sue braccia. "Come, non è lui? Tutto questo perché non è lui?" Ancora Jeanne le si lanciò al collo. "Non è quel frate che mi è passato davanti" disse fra i singhiozzi "è l'altro!" "Chi, l'altro?" "Quell'uomo che lo seguiva, che è partito con lui!" Noemi neppure se n'era accorta, di quest'uomo. Jeanne le strinse il collo da soffocarla, con un riso convulso.

CAINO E ABELE

678774
Perodi, Emma 10 occorrenze

Pare che Selinunte abbia fatto buona impressione al signor Franco; ride volentieri, si da da fare visitando lo stabilimento e gli scavi, e a vederlo così sereno non si direbbe davvero che egli sia colpito dalla rovina. Mi accorgo che anche i dolori sono relativi, come le gioie. Le anime sensibili, che giudicano da se stesse, hanno torto spesso d'impietosirsi sui casi altrui; il signor Franco, per esempio, che non ha sentito quand'era ricco la potenza che gli dava il denaro e l'utile che ne poteva trarre, non sente ora l'umiliazione di aver dovuto fuggire la sua città, di essere il vinto, il debellato. Gli basta di non soffrire privazioni, di sedersi a una buona tavola, di ammazzare il tempo e si crede felice. Io l'ho veduto poco per ora; soltanto due volte a colazione e due volte a pranzo, ma per quanto mi studi di esser cortese e preveniente con lui, di avviare la conversazione sopra un terreno che lo interessi, lo vedo sempre sorridere indifferentemente e non sento mai uscir dalla sua bocca una esclamazione, non vedo mai nei suoi occhi un lampo d'entusiasmo. Oh! quegli occhi come sono freddi e spesso sonnolenti! Si rammenta quali impressioni destò in me la vista di questo mare, di questa città che dorme da secoli sotto i cumuli obliosi di sabbia, di queste colonne sparse in riva al mare, di questa ricca vegetazione! Rimasi come ebra per tanto tempo e anche adesso, dopo un anno di consuetudine, sono ripresa ogni tanto dalla meraviglia. Ebbene, il signor Franco passeggia qui indifferente, come se passeggiasse sul marciapiede del Corso, e il buon Lo Carmine, che lo condusse ieri attraverso la città dissepolta dalla sabbia e fra le colonne dei templi, mi diceva tornando: " Il signor Franco non ha amore per i nostri ruderi, non ha amore per nulla! Il nostro Roberto, invece ! ... È un artista e un archeologo: vede, sente, osserva; che differenza fra questi due fratelli! " In queste brevi parole si riassume, anche il mio giudizio. Io non credo che di questo elegante sfaccendato riusciremo a far mai qualcosa. Se rimane qui lo farà per non saper dove andare, perché non ha più nè casa nè tetto, perché anche un cambiamento qualsiasi è una noia per quel carattere debole. Ma se rimane peggiorerà, invece di migliorare e l'isolamento lo inasprirà. Per ora questa vita nuova esercita su di lui, blandamente, il proprio fascino, ma con l'andar del tempo gli diverrà tediosa e allora ... ? Ma non facciamo pronostici. Se ella ritorna, è probabile che il suo esempio operi il miracolo. Io ho fede in lei, in lei soltanto. Il Varvaro le avrà scritto che non vi è nulla da temere per il primo maggio. I nostri operai hanno detto di lavorare. Io ho suggerito al direttore di promettere loro che lavoreranno tre ore meno del consueto, ma il Varvaro aspetta un suo telegramma per annunziare questa risoluzione. Per conto mio farò sì che abbiano un pranzo migliore del solito e che benedicano il loro padrone Maria oggi non le scrive perché deve studiare un brano di poesia inglese, che non vuole entrarle in mente. L'arrivo del nostro ospite l'ha un poco distratta; ella è carina e affettuosa con lui, e il signor Franco fa di tutto per distrarla. Io mi studio di tenerla vicino a me, ma egli, che è corruttore senza volerlo forse, cerca d'insinuarsi nelle buone grazie di lei destando quelle tendenze malvagio, che dormono nell'animo di ogni bimbo. Ieri la spingeva a canzonare il professor Lo Carmine per la sua goffaggine; oggi le insegnava a esser crudele con una povera quaglia raccolta nel giardino, stanca dal viaggio. Maria è stata senza frutta per questo, e quando le scrive, le faccia una paternale. Io non oso metterla in diffidenza contro lo zio e mi trovo combattuta fra il desiderio di mantenerla buona e rispettosa verso di lui, e la necessità di porta in guardia, contro l'influenza che egli cerca di esercitare su di lei per inconsideratezza. Come sono vuote e lunghe le serate senza leggere! Finché ella era qui, quelle serate, erano il compenso di una giornata di lavoro; quando rimasi sola le impiegavo a scrivere o a rileggere libri letti in comune; ora sono costretta a sciuparle in compagnia di un indifferente, che non sa parlare se non di futilità. Credo che egli sia molto curioso di leggere nella mia esistenza e provoca continuamente delle confidenze che non voglio fargli. Soltanto le persone volgari sciorinano i loro dolori dinanzi a tutti; io ho saputo tacere quand'ero sola, sola senza un amico; ora mi parrebbe di commettere un tradimento verso di lei, confidando ad altri ciò che il suo cuore solo è degno di custodire. Del resto da stasera in poi mi ritirerò insieme con Maria poco dopo le nove, per evitare quelle domande che m'irritano, e gli farò prendere la consuetudine d'invitare allo stabilimento il Lo Carmine e due architetti tedeschi, che sono qui per disegnare i ruderi. Veglio su Maria, veglio su tutto con la devozione che le ho dedicata e che morirà solo che con me. Mi scriva, mio buon signore, mi consigli, mi guidi, che io sarò sempre felice di ubbidirla. Sua affezionatissima affezionatissimaVELLEDA BIANCHI. Franco quella sera tornò tutto ilare dalla sua gita in mare e annunziò subito il proposito di farne altre, più lunghe, a Porto Empedocle, a Sciacca, a Mazzara, a Marsala, a Favignava e a Trapani. Parlava più del solito, vantando la velocità del Selino e raccontava di aver molto navigato sulle coste della Francia e dell'Inghilterra con un yacht suo, insieme con alcuni amici e con due allegre compagne, due drôlesses parigine. Maria era tutt'orecchi per ascoltarlo e Velleda guardò fissamente Franco per invitarlo a non parlare così in presenza della bambina. Che cosa vuoi dire drôlesse? - domandò Maria. Vuoi dire gente buffa, che cerca di far ridere, rispose Velleda seriamente. La converzione languì per un po' di tempo finché non giunse il Varvaro, recando lettere per Franco e per Velleda. - Sono tutte e due del signor Roberto, - disse consegnandole. - Erano rinchiuse dentro una a me diretta, nella quale mi dava molte istruzioni. Il Varvaro voleva andarsene, ma Velleda lo trattenne. Prenda il caffè con noi e poi farà la strada insieme col signor Franco. È sabato ed io debbo fare i conti settimanali col cuoco e quelli delle cucine operaie e non potrei far compagnia al nostro ospite. Il Varvaro obbedì e col suo fare cerimonioso si informò se il signor Franco era soddisfatto della gita in mare. È stata un incanto ed è un peccato che la signora e Maria non ne abbiano approfittato. Non potevo accompagnarlo e non potrò finché non ritorna il signor Roberto. Egli mi ha fatto promettere di non avventurare Maria in mare senza di lui, e io ubbidisco. Non c'era nessuna intonazione dura in queste parole, ma Franco capì benissimo che ella voleva trovarsi il meno possibile con lui, arguendolo da quel rifiuto e dal desiderio di esser presto sola che aveva espresso poco prima, e si morse le labbra dal dispetto. Più la vedeva e più sentiva un desiderio irritante di non staccarsi mai dal suo fianco, di averla a compagna sempre nelle escursioni e nelle passeggiate, e invece accorgevasi che Velleda cercava di tenerlo lontano e non lo trattava con quella affettuosa naturalezza con cui trattava il Varvaro e il Lo Carmine. Andiamo, - disse il duca alzandosi appena ebbero preso il caffè. Domattina ascoltiamo la messa alle dieci in una piccola cappella, a metà strada da Castelvetrano. La carrozza sarà pronta alle nove; se vuol venire, passerò a prenderlo, - disse Velleda stringendogli la mano. Grazie, - rispose Franco, - verrò. Ella aveva sperato che egli rifiutasse e si pentì dell'invito. Mi dica, caro Varvaro, - domandò il duca quando fu salito nel suo salotto ed ebbe offerto dei sigari al direttore, - ha conosciuto la moglie di mio fratello? Sì, ho avuto questo onore. E com'era? Una buona signora, che tutti abbiamo pianto, sinceramente. Era bella? Come sono belle le donne di Castelvetrano, come è bella la signorina Maria. Franco rivolgeva tutte queste domande; tanto per entrare in discorso e saper qualcosa di Velleda. Non sa se mio fratello pensi a riprender moglie? Non credo perché lo avrebbe già fatto. Ormai la signorina ha otto anni e non sarebbe facile che si affezionasse a una matrigna. Ma pure si è affezionata alla sua istitutrice! La signora Velleda ha una manierina e una pazienza che pochissime posseggono e bisognava che la bambina fosse d'indole ribelle davvero, per non volerle bene. È vero che la sua balia, la Costanza, è una donna gelosa e diffidente, che la voleva serbare tutta per sé, ma la signora Velleda ha cominciato per conquistare la balia, e allora la bimba si è arresa subito. Dunque è una sirena quella signora? Non dico questo, - rispose il Varvaro sorridendo, ma non vede quanta grazia emana dalla sua persona, quanta dolcezza da quella bocca! Eppoi, quando parla incanta addirittura, non solo per la voce, ma per i sentimenti che esprime. Appena una disputa sorge fra due operai, - e se sono fieri e vendicativi Dio solo lo sa, io la mando ad avvertire, e quando si presenta e parla loro con la sua angelica dolcezza, della necessità di perdonare le offese, del dolore che recherebbero alle loro famiglie continuando nell'inimicizia, essi si calmano, ritornano in sé e il pericolo di un ferimento o di una uccisione è scongiurato. L'ha presa forse da qualche famiglia di sua conoscenza mio fratello? No; egli conosce a Firenze un professore dell'Istituto di Studi Superiori, che occupava prima il posto del Lo Carmine. Il signor Roberto voleva una istitutrice toscana, affinchè la bambina imparasse a parlar bene, e si rivolse a lui. Il professore rispose che, nuovo di Firenze, aveva poche conoscenze, ma aveva incaricato una signora molto colta e capace di fare una buona scelta, di trovargli l'istitutrice adattata. Passò del tempo e non giunsero altre lettere. In capo a tre o quattro mesi il professore scrisse che la signora stessa, alla quale aveva dato incombenza di trovar l'istitutrice, offrivasi di venir lei e che il signor Roberto doveva considerare questa come una vera fortuna. L'offerta fu accettata e, stabilite le condizioni, la signora giunse a Palermo, ove io stesso andai a riceverla e l'accompagnai qua. Come mai la signora Velleda si fece istitutrice, perché si vede bene che non è persona che abbia fatto quel mestiere? Aveva perduto prima una bambina e poi il marito e il soggiorno di Firenze le era divenuto odioso. Ella non avrebbe bisogno di stare in casa d'altri, perché ha da vivere; anzi ogni tre mesi riceve dall'avvocato suo un paio di migliata di lire, frutto di certi poderi e di una villa che possiede a Fiesole. Qui ha messo per patto di non ricevere salario. Credo che il signor Roberto abbia intenzione di darle una somma quando avrà terminato l'educazione di Maria, ma sono certo che ella la destinerà a scopi di beneficenza, perché è molto caritatevole e le cucine vanno avanti mercè le sue elargizioni. Io lo so bene; rivedo i conti mensili e mi accorgo che le spese superano di molto le entrate, ma questo resti fra noi. Sempre più quella donna appariva a Franco un enigma; era bellina, era abbastanza ricca, era giovane e sola e qual ragione mai la spingeva a sotterrarsi viva su quella spiaggia abbandonata? Se avesse conosciuto Roberto, prima, se lo avesse amato, era naturale che fosse andata presso di lui; ma non lo aveva mai visto e come mai s'era imposta quel sacrifizio volontario, senza esservi neppure spinta dal bisogno? Il duca rivolse altre interrogazioni al Varvaro, senza ottenere maggiori notizie di quelle che già sapeva. Velleda aveva saputo ispirare tanto rispetto in quell'uomo semplice, che si sarebbe vergognato di nutrire un sospetto sulla sua esistenza precedente, e Franco si accorge che aveva sbagliato strada per giungere a scoprir terreno. Poco dopo il Varvaro augurò a Franco la buona notte e questi, rimasto solo, aprì la lettera del fratello. Roberto scrivevagli lungamente, narrandogli che nei primi giorni, al palazzo, non cessava mai la processione dei creditori. Informati dai giornali della sua partenza, sarti, calzolai, carrozzieri, fiorai, orefici, fornitori delle scuderie e delle cucine, tappezzieri, tutti eran corsi e volevano essere pagati. Ma i servi erano andati via, i cavalli erano stati venduti, e il guardaportone aveva ordine di mandar tutti dall'avvocato, che li aveva calmati con alcune migliata di lire, ricavate dalla vendita dei cavalli e delle carrozze e con l'esazione di alcune pigioni arretrate. Lo scandalo volgare, dei piccoli e clamorosi creditori era stato dunque evitato e Roberto sperava di evitare anche quello grosso. Aveva, dai direttori d'istituti di credito, ottenuto una dilazione per il rinnovo delle cambiali e ora trattava con un proprietario di albergo la vendita del palazzo. Con la somma che sperava ottenerne, avrebbe soddisfatto i debiti ipotecare che su quello gravavano e gli sarebbe bastata anche a pagare gl'interessi delle cambiali. Voleva ad ogni costo evitare il fallimento, per non vendere disastrosamente. Egli invitava Franco a farsi animo, assicurandolo che da quel disastro gli sarebbe rimasto qualcosa. Intanto, appena venduto il palazzo, sarebbe partito da Roma, per tornarvi alla nuova scadenza delle grosse cambiali; a regolare le altre minori bastavano le pigioni delle case affittate. Terminava dicendo: Credo di aver interpretato un desiderio tuo non denunziando il maestro di casa come ladro. Egli non ha saputo rendermi i conti di più migliaia di lire. I giornali si sarebbero valsi di quella notizia per dire il vero e il falso sul conto tuo, e il silenzio, in questo momento vale più di ogni altra cosa. Le rose fioriscono sempre e la marchesa Salvati ne riceve ogni giorno. Ella sta meglio. Ancora non ha saputo della tua partenza e ogni giorno ti manda a ringraziare. Scrivile per annunziarle che sei costà, affinchè risorgendo non lo sappia da altri e preparati con serietà di proposito alla nuova esistenza, che potresti rivolgere a utile tuo e di altre persone. Questa lettera consolò Franco rispetto ai suoi interessi. L'arrivo del fratello a Roma in quel momento disastroso era stata una fortuna per lui. Senza Roberto tutto, tutto sarebbe stato inghiottito, senza soddisfare chi avanzava. È una potenza quel Roberto! - esclamò il duca e riepilogando tutto ciò che aveva veduto in due giorni e che era opera soltanto di suo fratello, questi gli apparve potente e saldo come una delle colonne gigantesche che rimanevano erette sulle sabbia, una di quelle colonne che nè commozioni telluriche, nè furia d'intemperie, nè rabbia d'uomini avevano potuto abbattere. Oh! che invidia ispiravagli quel colosso, che dominava gli eventi, che lo vinceva nella forza, nel sapere, nell'intelligenza, nella bontà, in tutto, in tutto, anche nella bellezza fisica, perché Roberto era la vera espressione della bellezza maschile! Ma non può non avere un lato vulnerabile, - diceva Franco a se stesso, - e quel lato io lo scoprirò certo; so volere tenacemente anch'io! Mentre il duca sfogava nella sua camera l' invidia contro il suo salvatore, Velleda, in atteggiamento umile, di devota, dinanzi a una sacra reliquia, rileggeva per la terza volta la lettera di Roberto e giunta alla firma, posava su quella le labbra. Ella aveva gli occhi pieni di lagrime, ma un sorriso di beatitudine le illuminava il volto delicato, curvo sui fogli coperti di una scrittura unita e marcata. Nessuna lettera di Roberto l'aveva fatta piangere, perché nessuna era più dolce, più cara di quella. Mia buona amica, - diceva quella lettera, - lasci che io le dia questo nome che riassume i sentimenti di stima profonda e di affetto vero che nutro per lei. Nessuna donna, credo, abbia mai avuto nel cuore di un uomo onesto il posto che ella occupa nel mio. Non le ho fatto mai questa confidenza, poiché non volevo che vicino a lei la commozione mi vincesse, e perché potevo esser debole anch'io e noi dobbiamo esser forti; ma ora, da lontano, posso farle questo sfogo, posso aprirle il mio cuore di cui ella è signora. E questo dominio che ella ha preso su di me, non sussiste da che le sono lontano, da che sento la mancanza di lei ad ogni istante, no. Rammenta la lunga lettera che mi scrisse appena io ebbi accettato la sua offerta di essere per Maria una seconda madre? Spinta da un sentimento di delicatezza sublime, ella volle farmi una confessione generale e mi narrò la sua triste infanzia fra una madre, gran signora, dissipatrice, capricciosa, una di quelle russe che hanno tutte le superstizioni delle razze corrotte e tutti gli ardimenti di quelle primitive, pietosa e barbara, entusiasta e calcolatrice, nevrotica e dispotica sempre; e un padre, artista di piccola ambizione e di modesta fama, gretto, schiavo della moglie, incapace di farsi valere dagli estranei e di farsi rispettare in famiglia. E accennava alle scene disgustose, ributtanti, fra la dama che rinfacciava al suo schiavo la propria inettezza a conquistare un nome e una fortuna, che il più delle volte sorride soltanto agli auduci. Quelle scene straziavano il suo cuore di bimba ed ella si faceva protettrice dell'oppresso, del debole e inimicavasi la madre, la quale per fuggire la noia, pentita di avere sposato un oscuro artista, lo abbandonava, lasciandogli come elemosina la villa di Fiesole e i poderi acquistati, allorché del povero artista ella si era foggiata un ideale molto diverso dal vero, credendolo dotato di attitudini straordinariamente felici. Quella lettera io l'ho bruciata perché nessuno potesse mai leggerla, ma mi è rimasta scolpita nel cuore e posso citargliela periodo per periodo; da quello in cui mi descriveva la tristezza di suo padre dopo l'abbandono, e lo strazio della sua anima di bimba nel vedersi dimenticata assolutamente dalla madre, all'altro nel quale dipingevami la reazione che nacque in lei, l'amore allo studio dei classici italiani, destato dall'amore per Firenze, il desiderio di soffocare nel lavoro le malinconie languide della giovinezza, di conquistare quella fama che suo padre non aveva saputo conseguire e ornarne, a guisa di gloriosa corona, la canizie del vecchio sfiduciato. Il titolo dei suoi primi scritti, i passi penosi nel campo delle lettere, le sfiducie, gli entusiasmi, distratti dalla critica inesorabile, tutto, tutto rammento fino a quel grido di gioia, che il ricordo di un grande trionfo riportato dal suo romanzo: Vincitori e vinti dava a quel brano della sua lettera un colorito, che mancava al resto della narrazione. Poi sobriamente ella mi accennava all'amore per un giovane avvocato, più innamorato della sua fama che di lei, al loro matrimonio, alla morte del padre e alla nascita di una creatura. Qui la narrazione si faceva angosciosa e io nel leggerla capivo lo sforzo che doveva esserle costato lo scriverla. Ella parlava più lungamente dei suoi lavori, che continuavano a portarla sempre più in alto, che di quel dissipatore egoista, il quale aveva in odio il lavoro e avrebbe voluto vivere alle sue spalle oziosamente e signorilmente, che della lotta sostenuta per difendere il piccolo patrimonio della sua bambina, che delle minaccie e delle percosse per ottenere da lei denaro che correva a spendere in orgie e a sciupare nel giuoco. Su tutto questo ella sorvolava quasi, ma io indovinai più di quello che ella mi diceva, come capii quanto insopportabile doveva esser diventato per lei quel giogo, per ricorrere ai tribunali e chiedere una separazione legale. Ma ottenutala ella non ottenne la calma. Quel vile continuava a perseguitarla e mentre la diffamava con tutti, ricorreva poi a lei per aver soccorsi, l'aspettava sulla via per intimorirla e giungeva fino a rubarle la sua bimba, che moriva lontana da lei, in un paese del Mugello. Tutti quei dolori, sopportati senza sfogo, alteramente, la tennero più mesi fra la morte e la vita, e quando tornò in sé seppe che il marito scontava in un bagno penale il delitto di aver strappato una donazione a un ebete a danno degli eredi naturali. Allora un sentimento di vergogna la vinse; ripudiò il nome di quel vile, riprese il casato di suo padre, non ebbe più sogni di gloria, affittò la villa e cercò, mutando paese, di dimenticare a di farsi dimenticare. Quando io ebbi terminato di leggere quella confessione, Velleda, io provavo già una profonda stima per lei, un'ammirazione viva, per quell'alto sentimento di dignità che aveva saputo conservare in mezzo a tante sventure; ero già l'amico disinteressato che erale mancato nella vita, ero già penetrato da un senso di tenerezza per quell'anima afflitta, ma forte, che cercava nel lavoro l'oblìo, che non si sgomentava al pensiero di ricominciare a trent'anni l'esistenza, e pieno di fiducia le dissi di venire presso la mia bambina. La mia fantasia ha poco agio di correre dietro a visioni; e io non vestii di nessuna delle forme muliebri quell'anima afflitta; ma quando la vidi, se ne rammenta? scendere dal treno e stendermi le mani senza arrossire, capii che la sua figurina era il degno involucro dell'anima sincera e buona che aveva parlato alla mia, e il suo sguardo sereno mi scese al cuore. Da quel giorno l'affetto; nato spiritualmente, si accrebbe sempre, ma non ha mai degenerato, mai. Ella, invece di cadere nelle volgarità che è difficilissimo evitare nella vita in comune, si è sempre più inalzata nella mia stima ed ha costretto la mia ammirazione a convertirsi in una venerazione quasi sacra, in un culto ardende e rispettoso. Quando la vedo accanto a Maria pazientemente intenta a educarla, mi pare l'angelo della mia casa; quando poi la incontro nelle case degli operai malati, o la vedo presiedere ai loro pasti frugali, mi appare come il genio della carità, e allorché la sento accanto a me nelle lunghe e silenti serate, curva sopra un libro, o la odo parlare, allora mi pare la compagna invocata nella solitudine, la fata misteriosa che mi legge nel cuore e nel pensiero, la donna ideale, che si compiace di elevarmi, di schiudermi una nuova esistenza: quel paradiso riservato agli eletti dello spirito, nel quale è difficile penetrare senza aver fatto una lunga sosta nel regno del dolore. Questa fusione perfetta che riscontro in lei di tutte le qualità del carattere e della mente, racchiuse in un involucro di una bellezza tutta ideale, che sfugge allo sguardo di chi cerca nella donna la femmina, hanno determinato il mio affetto per lei. Badi che parlo d'affetto e non d'amore, perché non voglio offenderla con una espressione alla quale si dà in genere un significato materiale, di cui è scevro il mio sentimento. Affetto! ecco la parola vera, la parola santa di cui non possiamo arrossire. Non le ho mai chiesto se il mio sentimento fosse corrisposto, ma son certo da molto tempo che ella mi vuole un bene immenso. L'ho capito da quel linguaggio misterioso che si parlavano i nostri cuori, mentre le labbra restavano chiuse, dalla perfetta comunione dei nostri pensieri, dalla facilità con cui io leggevo in lei ogni moto dell'anima, dal desiderio di farsi umile dinanzi a me, da quel dolce riposo che le procura la mia presenza. Senza la catena che la lega a un essere che sconta tutti i misfatti commessi contro di lei, io l'avrei supplicata di accettare il mio nome, non perché il mio affetto avesse bisogno di questa sanzione legale per sussistere, ma soltanto per avere il diritto di starle sempre vicino e di proteggerla da ogni dolore. Questo non può accadere e io ricaccio il sogno in fondo al cuore, e mi stimo beato del legame spirituale che ci unisce. Mantenendo il nostro affetto in questi limiti, noi non abbiamo ragione di arrossire dinanzi al mondo, non offendiamo Maria, e la nostra coscienza non ci rimprovera nessuna azione turpe. So bene che la gente crederà poco a un affetto che non abbraccia altro che una parte della nostra vita, quella immateriale; che si ritempra nella rinunzia; che si alimenta nei sacrifizii. Essa ci getterà alle spalle le sue turpitudini, cercherà d'insozzarci col suo fango, ma noi serenamente procederemo per la via che ci siamo tracciati, facendo del bene e tenendo l'occhio rivolto in quell'etere profondo ove non giungono le volgarità del mondo e nel quale forse si ricongiungono le anime pure. Fra quelli che meno capiranno il carattere elevato del nostro affetto, sarà Franco. Egli è vissuto troppo male, fra gente troppo profondamente corrotta per credere alla idealità di un sentimento fra persone di sesso diverso, giovani ancora, ma è troppo signore, e mi dovrà tanta gratitudine per quello che faccio per lui, per amareggiarmi la vita. A lei sola lo dico. Per impedire il fallimento, ho impegnato la mia firma per una somma vistosa che non le preciso. È stato uno sforzo, perché ella sa che noi industriali immobilizzando dei capitali ci tagliamo le gambe. Ma il dovere me lo imponeva e quando saremo alla liquidazione finale, Franco mi pagherà. Ma egli non potrà mai compensarmi del sacrificio che faccio stando lontano da lei, o mia gentilissima, privandomi della sublime consolazione di vederla e di udirla. Mi voglia bene, me ne voglia molto e pensi a me condannato a vedermi passare sotto gli occhi tante turpitudini di avidi speculatori, a lottare con loro accanitamente per salvare le briciole di un patrimonio regale. Baci teneramente la nostra Maria. Il suo ROBERTO Egli ha ragione, - pensava Velleda - la confessione che mi fa in questa lettera, non mi cagiona nessuna sorpresa, nessuna. Anche se non avesse mai parlato, io ne sarei stata certa; l'affetto di Roberto non poteva essere un mistero per me. Ella si alzò e portò alla bimba addormentata il bacio paterno, poi toltasi il severo vestito di lana grigia, indossò un accapatoio di trasparente batista e andò sul terrazzo a respirare l'aria fresca della sera. Com'era beata per quella lettera affettuosa! Dal suo pensiero sparivano tutte le piccole contrarietà di quegli ultimi giorni e s'immergeva nel ricordo dell'assente carissimo. Le pareva che il vento agitando i palmizi, le onde lambendo la sabbia, le parlassero di altre serate egualmente felici, trascorse insieme con Roberto nella contemplazione di quello spettacolo sublime del mare, del quale i loro occhi non si stancavano mai. Il mare si associava a tutti i ricordi della nuova esistenza di Velleda; esso accompagnava col rumore scrosciante della burrasca le loro letture invernali, esso li alliettava col suo azzurro nei tepidi giorni primaverili, esso, col morniorìo cadenzato delle onde che andavano a morire al piede delle dune, interrompeva le loro meditazioni nelle serate calde. Trepidavano insieme allorché vedevano partire un vapore carico durante una tempesta; si facevano una festa di abbandonarsi al mare in una barca nei giorni in cui il lavoro taceva nello stabilimento; facevano insieme lunghe passeggiate sulla riva mentre Maria raccoglieva le conchiglie, e sempre sul mare si posavano i loro sguardi allorché temevano che s'incontrassero. Nè Velleda nè Roberto in quelle passeggiate, in quelle ore che passavano insieme, parlavano mai della loro vita anteriore. I loro discorsi sì aggiravano sul periodo di tempo di quell'ultimo anno, come se entrambi non volessero confessar di vivere altro che dal momento che s'erano incontrati. E mentre si parlavano la loro voce acquistava un tono carezzevole, che non aveva per solito, e i loro occhi una espressione di infinita dolcezza. Essi evitavano di stringersi la mano, di star vicini quando erano soli e i loro atteggiamenti erano sempre rigidamente casti. Pareva che sprezzassero tutte le manifestazioni materiali dell'affetto per rinchiuderle nel cuore e dare maggiore intensità al sentimento che li univa. Velleda non aveva mai permesso che Roberto leggesse un libro scritto da lei e firmato col pseudonimo di "Melusina", sotto il quale era nota nel mondo delle lettere. Una volta egli le aveva chiesto I Vincitori e i Vinti Vintied ella avevagli risposto: Ora non scriverei più in quella maniera, i miei sentimenti sono cambiati; non provo più certi risentimenti, non vedo più l'amore sotto lo stesso aspetto, mi sono fatta più calma e più umana; mi faccia il piacere di non leggere quel libro, che rinnego. Roberto aveva ubbidito, ma per giudicare il suo valore di romanziera, non aveva avuto bisogno di leggere libri di lei; gli era bastato di ascoltarla mentre narrava a Maria le avventure commoventi di poveri bimbi, le novelle meravigliose delle fate per convincersi della ricca fantasia di quella creatura eletta, nella quale vibrava alta la corda del sentimento, e queste qualità essenziali per chi deve dipingere la vita andavano unite a un gusto finissimo, a una perfetta dizione che accarezzava dolcemente l'orecchio e che scendeva nel cuore di Roberto commovendolo. Velleda, in quella sera di dolcissima meditazione; aveva dimenticato di scendere, come faceva sempre, a chiùdere il cancello e a sguinzagliare i due mastini che vegliavano sulla villa solitaria, nella quale dormivano il cuoco, Costanza, la bambina e la signora soltanto, ora che Saverio stava presso Franco. I rintocchi della mezzanotte, suonati dall'orologio dello stabilimento, la fecero balzare in piedi e senza chiamare Costanza, che doveva essere in camera di Maria, ella scese in giardino e s'avviò al canile. In quel momento i cani si misero ad abbaiare e Velleda vide un' ombra sgattaiolare fra i palmizj a poca distanza da lei e perdersi sotto il fogliame scuro delle folte piante d'arancio. Ella tremò, ma vinta la paura, sciolse presto i cani dicendo : Cerca Lampo! cerca Etna! E i due cani, col muso in terra, abbaiando, s'allontanarono di corsa. Per Velleda fu quello un momento di suprema angoscia. Non sapeva che fare, se risalire in camera di Maria, o correre a suonar la campana per chiamare aiuto dallo stabilimento, quando un colpo di fucile ruppe l'alto silenzio della spiaggia, e uno solo dei cani tornò a lei spaventato latrando. I malandrini! - esclamò la signora atterrita, e senza riflettere più gettò un sasso contro la finestra della camera del cuoco e salendo a precipizio le scale si attaccò alla corda della campana. Costanza era andata sulle scale, pallida e tremante, il cuoco era corso su col fucile in mano, mezzo vestito; Maria sola dormiva placidamente. Velleda collocò Costanza accanto al letto della bambina, chiuse a chiave le porte e preso che ebbe un revolver di Roberto, incominciò a perquisire la casa, insieme col cuoco, premendo ovunque i bottoni della luce elettrica, affinchè se vi era qualcuno nascosto, fosse subito visto a quel chiarore vivo. Ella era ancora al piano superiore, allorché giunsero due guardiani armati, Saverio e il Varvaro. Quest'ultimo aveva in mano la lanterna e avanzandosi nel viale dei palmizj guardava a destra e a sinistra, proiettando in basso e in alto la luce e intanto gridava per annunziare il suo arrivo. Velleda udi quei gridi e scese incontro al direttore. Ma che cosa è avvenuto? - domandò questi. Non so precisamente" - diceva con voce interrotta cercando di ritrovare il filo delle idee, - mi ero un po' attardata prima di sciogliere i mastini e quando sono scesa per isguinzagliarli ho veduto un'ombra nera fra gli alberi. Allora immediatamente ho sciolto Lampo ed Etna. I cani certo debbono avere scoperto il malfattore, perché ho sentito un colpo di fucile e Lampo solo è tornato verso di me ed è rifuggito subito. Ponetevi a difesa della casa sulla terrazza e non lasciate avvicinare alcuno, - ordinò il Varvaro ai guardiani, - Saverio e il cuoco cercheranno insieme con me. Velleda risalì in camera di Maria e vi si rinchiuse ; Costanza, in preda a un cieco terrore, aveva acceso tante candele a una immagine della Vergine, e balbettava : Maria, bedda matri aiutatemi! Salvatemi! Maria dormiva sempre e Velleda, con l' orecchio teso, spiava ogni lieve rumore. La camera di Maria, che era pure la sua, non guardava sul viale dei palmizj ne su quella parte del giardino in cui erasi svolta poco prima la rapida scena, e per questo ella non poteva seguire le indagini del Varvaro. Però a un certo momento sentì un rumore di passi nell'anticamera terrena e non reggendo più, corse sul pianerottolo, spenzolandosi nel vano della scala per veder chi era. Saverio! Saverio! che cosa è successo? - diceva scorgendo il cameriere, che correva verso la cucina. Lampo ha fatto il suo dovere! - rispose il servo nel passare. Poco dopo Saverio ripassava portando una spugna e una catinella piena d'acqua. Ma Saverio, per carità, spiegatevi! - diceva Velleda che lo aveva atteso trepidante. Signora, un malandrino ferito. Laconico nelle risposte come ogni siciliano, non disse altro e tornò verso i suoi compagni nel giardino. Suonate! - gridò Velleda ai guardiani affacciandosi al terrazzo. - Sparate i fucili, fate che vi odano dalla Casa dei Viaggiatori. Lo Carmine con i suoi ci verrà in aiuto. Oh se i carabinieri fossero in perlustrazione, se i doganieri accorressero; sparate! Partirono quattro colpi di fucile a breve intervallo e poi la campana suonò a distesa. A un tratto s'illuminò la Casa de' Viaggiatori, s'illuminò il " Selino " e da quello partì un colpo per avvertire che l'appello era stato udito. Lampo abbaiava furiosamente e i cani dello stabilimento pareva che gli rispondessero. Velleda correva ansiosa dalla camera di Maria alla terrazza e il suo pensiero volava a Roberto. Oh.' come lo invocava in quel momento; come sentiva il bisogno di averlo accanto a sé, a difesa della casa! A un tratto vide Costanza, che rompendo la consegna, scendeva le scale e le ingiunse di tornare dalla bimba. Sotto la chiara luce lunare, la signora scorse una lancia del " Selino " accostarsi alla banchina e vide dalla Casa de' Viaggiatori uscire un gruppo scuro, che correva in direzione della villa. Ma intanto che tutti quei soccorsi si avvicinavano, e Velleda ne affrettava col desiderio l'arrivo, più colpi di fucile erano sparati nel cortile dello stabilimento. I marinari del "Selino, che erano giunti al cancello della villa, retrocessero di corsa, i due guardiani che erano sul terrazzo della villa traversarono la sala; gridando a Velleda : Era una finta per allontanarci; il pericolo è là. Il pericolo! - ripeteva la signora atterrita. Dunque attentavano alla proprietà di Roberto, al frutto paziente del suo lavoro? Il Varvaro anch'egli s'era unito ai guardiani e correva verso il luogo più minacciato. Velleda non sapeva più che cosa fare e le fucilate che continuavano a turbare l'alto silenzio della notte, le ferivano dolorosamente gli orecchi. Ella scese incontro al Lo Carmine e ai due tedeschi e non seppe dire altro che : Maria! Lo stabilimento! Anche il sottodirettore degli scavi e i suoi due compagni erano armati di fucile e nella cintura portavano il revolver. revolver.Signori, - ella disse ai due giovani architetti tedeschi, conducendoli sulla porta della camera di Maria, restino qui, non si muovano, non lascino uscir nessuno, veglino per me. Io devo correr là. Non si muovano! Ella aveva preso in mano il revolver e trascinava seco il Lo Carmine verso il cancello, quando s'imbattè in Saverio e nel cuoco che portavano sopra un asse un uomo con la gola aperta e sanguinante. Velleda si fermò un momento, lo fissò con raccapriccio e poi esclamò: Alessio, il capo degli scioperanti di quest' inverno! Proprio lui! - rispose Saverio. - Ma Lampo gli ha levato la voglia di ricominciare. Lo rinchiudo in camera mia e dopo frugheremo la casa. Lampo seguiva il ferito mandando latrati feroci annunzianti che non era soddisfatto dell'opera sua. La fucilata era cessata allo stabilimento e il Lo Carmine, che vedeva con dispiacere Velleda dirigersi verso quel punto più minacciato, la trattenne quando stava per varcare il cancello. Resti qui, - le disse. - Se Maria si destasse, non avrebbe forse bisogno della sua parola rassicurante? Pensi che questa bimba è quello che di più caro ha il signor Roberto. Là vi è il Varvaro, vi sono tanti uomini. A quel nome, invocato da un amico, Velleda non seppe resistere e dopo aver chiuso a chiave il cancello, disse : Frughiamo il giardino, Ella aveva preso nella sinistra la lanterna abbandonata da Severio e col revolver nella destra, coraggiosa e cauta, si avanzava sotto le piante di arancio e sulla sua testina piovevano i petali bianchi. A un tratto si fermò, In una pozza di sangue giaceva Etna, con la testa squarciata da una palla, gli occhi spalancati e vitrei e intorno, mescolati al sangue, i soliti fiori profumati. Povera bestia! - esclamò, - mi voleva tanto bene ed è andata incontro alla morte per ubbidirmi. Più là vi erano altre tracce di sangue; il sangue di Alessio e sempre fiori, ovunque fiori nivei. Una corda abbandonata era attaccata con un arpione alla sommità del muro del giardino. Velleda l'accennò al suo compagno, il quale la staccò. Camminavano in silenzio esplorando. In un altro punto era stata tagliata un'alta pianta di fico d'India, in terra trovarono un altra corda avvoltolata. Velleda e Lo Carmine andavano sempre avanti, senza scambiare una parola. Quando ebbero esplorato tutta la parte anteriore del giardino, passarono in quella a tergo della casa. Velleda alzò la lanterna e mandò un grido. Attaccata al davanzale della finestra di Costanza, attigua alla camera di Maria, stava una scala di corda, e in terra, sulle aiuole di margherite e di pelargoni si vedevano tracce di pedate e piante calpestate. Velleda impallidì. Ormai il complotto era palese. Volevano rubare Maria per esigere poi da Roberto una somma prima di restituirla. Sventato il colpo avevano tentato di penetrare nello stabilimento, per rifarsi, rubando i denari che vi erano sempre. Quando la signora ebbe la percezione esatta del pericolo corso dalla bambina, impallidì e rimase irrigidita senza poter fare un passo. Se i malandrini avessero avuto tempo di mandare ad effetto il rapimento, che sarebbe avvenuto di Maria? Come avrebbe lei, Velleda, sostenuto la vista di Roberto? Oh! si sentiva impazzire a pensarvi. Pochi momenti più che si fosse indugiata nella meditazione della lettera di Roberto, e il colpo era fatto. Posò la lanterna; strappò la scala con un atto repentino e poi invasa dal terrore di un nuovo pericolo, corse in casa, salì in fretta le scale e penetrata in camera di viaria s'inginocchiò accanto al letto di lei e pianse, pianse lungamente. Costanza, inginocchiata pure e con aspetto truce pareva pregasse. Così Franco vide Velleda giungendo, così la vide il Varvaro, che andava a dirle quello che era accaduto. Ella fece loro cenno di non fiatare per non turbare il sonno della bambina, e senza accorgersi dei due tedeschi che facevano sempre la guardia, come sentinelle, andò in sala e lasciandosi cadere sopra una poltrona; disse al Varvaro: Ora mi racconti tutto! L' attacco allo stabilimento non era preparato, disse il direttore, - ma appena i malandrini hanno udito il suo appello, hanno veduto che io mi dirigevo qui con i guardiani e che i marinari del " Selino " venivano pure alla villa, hanno dato la scalata al muro di cinta e senza esser visti dal solo guardiano che era rimasto là, si son diretti alla segreteria, ove sanno che vi sono danari. I cani hanno dato l'allarme, il guardiano ha incominciato a tirare schioppettate e s'è attaccato alla campana. Allora io, destato all' improvviso, - continuò Franco, ho preso il revolver e, spalancata la finestra, ho mirato su quello dei malandrini che stava dietro a tutti e gli ho messo due palle nella schiena. Gli altri - erano sette - hanno rivolto i fucili verso la mia finestra facendo un fuoco di fila. Io sono andato a quella accanto e di dietro la persiana ho continuato a tirare. I marinari del " Selino " allora sono entrati nel cortile insieme col signor Varvaro ed i guardiani ed hanno fatto fuoco. Due altri malandrini sono caduti, i quattro rimasti illesi, mettendo mano ai coltelli hanno attaccato i difensori per aprirsi un varco e fuggire. Due vi sono riusciti; due sono stati presi e legati. Velleda con gli occhi pieni di lagrime che le scendevano sul dolce visino coperto da un pallore mortale, narrò quello che era accaduto alla villa e come avesse acquistato la convinzione che il colpo era diretto contro Maria. Era una imprudenza di restar qui quasi sola, disse Franco, - da stasera in poi mi permetterà di occupare la camera di mio fratello, e Saverio ed io faremo una ispezione nel giardino prima di coricarci. Il Varvaro approvò quella risoluzione, ma Velleda che non dimenticava mai Roberto, rispose: Farò avvertire i carabinieri, grazie; essi veglieranno nella villa. Franco non rispose, e non insistè perché sapeva che era inutile. Intanto erano giunti i doganieri, i quali trovandosi in perlustrazione verso il porto di Palo, avevano udito la fucilata, e quando l'alba rosea già illuminava le imponenti rovine, la villa e lo stabilimento, nessuno pensava ancora a cercare il riposo, e Velleda, con gli occhi sempre pieni di lagrime vegliava onde sparisse dal giardino ogni traccia dell'assalto notturno e Maria potesse ignorare il pericolo che aveva corso. Alessio, il ferito, era vegliato da un guardiano, il cadavere di Etna era stato sotterrato nella sabbia, i due tedeschi e il Lo Carmine erano tornati alla Casa dei Viaggiatori, e quando Maria aprì gli occhi sorrise vedendo Velleda da un lato del suo letto e dall' altro Franco. Oh! zio che sorpresa! - disse e cinse con un braccio il collo del duca, mentre con l'altro attirava a sé Velleda. gàra sui capelli. Sì, amore, - le rispose, - la mattinata è tanto bella! Anzi faremo il primo bagno di mare. I carabinieri dovevano giungere presto e Velleda era impaziente di allontanare la bambina dalla villa. Non voleva che sentisse parlare di quell' eccidio, come non avrebbe voluto che quella notizia giungesse a Roma a Roberto. Ma come fare? Ella affidò Maria alla balia; che aveva ancora gli occhi rossi, e fatto cenno a Franco di seguirla nella sala, gli disse: I giornali di Roma avranno probabilmente stasera la notizia del fatto, suo fratello la leggerà; non sarebbe meglio avvertirlo con un lungo telegramma? Non so, - rispose Franco. - Forse è più prudente di avvertire le autorità di tener celato l'acccaduto. Certe cose non si nascondono; sono troppi i testimoni e a quest' ora una cinquantina di persone sanno tutto. Io non posso celar nulla al signor Roberto; egli ha diritto di saper quello che avviene in bene e in male e io non meriterei più la sua stima se tacessi. Telegrafi allora; ma gli dica che il pericolo è scongiurato, - rispose Franco il quale non pensava ad altro che ai suoi interessi che sarebbero rimasti abbandonati se Roberto fosse partito.

. - Bisogna che ignori per molti giorni che ella è partito, bisogna che abbia sempre da lei delle rose. Mi lasci delle carte da visita e dia ordine al suo giardiniere di mandare tutte le rose qui. Questo pietoso inganno è necessario per mantenerla in vita. Franco chinò la testa e aperto il portafogli consegnò alla cameriera i biglietti e poi dopo aver baciata la coltre, prese una delle rose che erano posate accanto alla mano della marchesa, e uscì, serio, irritato con se stesso, dolente di partire senza aver dissetato le labbra della marchesa, ardenti di passione, con un bacio suo. Oh la necessità! come si ribellava a tutto, come odiava tutti coloro che gli parlavano di danari, di obblighi da adempire! Il capriccio! ecco la sola legge che aveva sempre seguita e alla quale avrebbe voluto ubbidire anche adesso! La carrozza percorreva il Corso al trotto. Non c'era cenasi una casa, un negozio elegante che non gli ridestasse una memoria futile; lì aveva passato ore di commozione dinanzi al tappeto verde; più là ore di eccitamento nel salotto di una bella russa, più in là ancora serate noiose nelle sale severe di un palazzo aristocratico. Sia la vista di quei palazzi, di quelle case, gli destava nell'animo ricordi che non poteva discacciare. - Ero ricco allora, ero potente! - diceva a denti stretti pensando alle poche centinaia di lire che aveva in tasca e che erano tutto ciò che gli rimaneva. Ma anche in quel momento di distacco dalla città in cui era nato e cresciuto, in quella separazione straziante da un passato splendido, non si pentiva; era impenitente e tanto parevagli bella l'esistenza trascorsa, che dopo un altro periodo di riflessione, esclamava: Ma almeno ho goduto! Peraltro, di mezzo alla filastrocca dei suoi godimenti e delle figure che a quelli erano associate, rivedeva Paola pallida, dall'aspetto di morta, circondata di fiori, e si mordeva le labbra dal dispetto di non averla fatta per breve tempo felice, di non aver provato tutte le dolci commozioni e tutte le ebrezz che da all'uomo la passione fatta donna e bella e giovane e seducentissima. Il movimento che fece la carrozza fermandosi lo scosse da questi pensieri, e guardando a destra vide Karl ritto in mezzo alle valigie sulla porta della sala dei biglietti e più in là Roberto mescolato nella folla. Franco aprì lo sportello e saltò giù ordinando al cocchiere di attendere il fratello e poi andò lentamente a stringer la mano a Roberto. Non hai nulla da dirmi? - gli domandò questi. No, - rispose il duca. - Fa, in tutto e per tutto quello che credi. Soltanto ti prego di mandare ogni giorno, finché fioriranno rose, una canestra delle più belle alla marchesa Salvati, facendo domandar notizie di lei. È tanto malata e adora le rose! Roberto sorrise lievemente e gli parve strano che Franco, partendo per non tornar più, gli lasciasse quella sola raccomandazione, e non gli domandò se la marchesa era la signora che attendeva il giorno prima alle undici, poiché era certo che fosse lei. Quando essi furono passati nella sala d'aspetto, Roberto disse con fare un po' impacciato : Tu troverai presso mia figlia una signora molto colta, distinta, che si occupa dell'educazione di lei e guida la mia casa. Ella è davvero una signora e ti prego di trattarla con tutta la deferenza possibile. - Non dubitare, - rispose Franco col solito tono fatuo, e se non ti dispiace, le farò anche un pò di corte, purché non abbia gli occhiali e il fintino. - La signora Velleda Bianchi non è nè vecchia nè brutta, ma è istruita, coscienziosa, ed io le tributo molta stima e una profonda gratitudine per le cure di cui attornia Maria - disse Roberto seriamente. - A lei ho dato tutte le istruzioni per farti riuscire meno noioso il soggiorno a Selinunte, e col suo tatto squisito ella completerà le lacune che può contenere la mia lettera. Se avrai bisogno di danaro, scrivi a me, darò gli ordini al cassiere, poiché prevedo che dovrò restare molto tempo a Roma. Povero Roberto, quanto ti sacrifichi per me! disse Franco. L'altro non rispose e i pochi momenti dell'attesa furono impiegati dal duca nel raccomandare al fratello di vendere tutto quello che si poteva, per estinguere a mano a mano le ipoteche e disfarsi del resto. Non dubitare, - gli rispose Roberto, - io considererò i tuoi interessi come se si trattasse di quelli di mia figlia. Tu sorveglia un poco il mio stabilimento, fatti iniziare dal direttore Varvaro alle faccende nostre e non dir nulla a nessuno dell'essere tuo. Rammentati, per evitare pettegolezzi, che tu sei Franco Frangipani e non il duca d'Astura. I due fratelli si abbracciarono e Franco salì nel compartimento di prima classe, ove già si trovava una giocane signora, molto bionda e molto profumata. -Il treno si mise in moto, e il duca sedutosi in un angolo guardava distrattamente la campagna senza pensare che la sua partenza era l'epilogo doloroso di una vita scioperata, e si compiaceva di aver riveduto Paola, di averla circondata di rose e di aver ordinato che quel dono profumato le fosse recato per molti giorni, da parte sua. Pensava però con una specie di ribrezzo alla solitudine cui andava incontro, in mezzo a quelle rovine e al rumore di uno stabilimento industriale, cioè allo spettacolo di una distruzione che gli avrebbe continuamente ricordato quella compiuta da lui, e alle volgarità della esistenza moderna, che egli odiava. Eppoi quella istitutrice per tutta compagnia; quella donna molto colta, molto noiosa; quella educatrice che avrebbe avuto sempre davanti agli occhi a pranzo, in casa; quella rappresentante del dovere che lo perseguitava anche laggiù. Oh! l'avvenire non era lieto davvero! Per iscacciare questi pensieri noiosi, volle accendere una sigaretta e nel cavar fuori l'astuccio si accorse che nell'angolo apposto vi era una signora. Mi permette di fumare? - le domando. Fumi pure, mi fa un gran piacere, fumo anch'io, rispose quella in francese. Allora Franco alzandosi le presentò il portasigarette aperto, le accese il cerino e mentre ella si chinava per avvicinare la Sullivan alla fiamma, egli, che era rimasto in piedi, l'avvolgeva con uno di quegli sguardi maschili, così generici, eppure così profondi, che rivelano a un uomo non solo la condizione della donna, oggetto della sua attenzione, ma spesso anche il grado di moralità di lei. E Franco dopo quello sguardo che gli aveva fatto capire di aver trovato un'allegra compagna di viaggio, invece di tornare al suo posto, sedè di fronte alla signora, e tanto per attaccar conversazione, le domandò se andava per la prima volta a Napoli. Oh! no, - rispose ella, - ci sono stata tante volte, ho tanti amici a Napoli, - e gli nominò tre o quattro signori, che passavano una parte dell'anno a Parigi. Ma lei non troverà nessuno di loro; sono venuti a Roma per il Derby e iersera vi erano ancora. Ella fece una smorfia e disse: Mi annoierò dunque molto e sarò costretta a non uscir di casa ed a guardare il mare, perché non so una parola d'italiano e neppure la mia cameriera lo capisce. Naturalmente quella dichiarazione era fatta per invitare Franco a offrirsi per servirle di guida; ma il duca non s'impegnò. Non c'era nulla in quella magra ed elegante parigina che lo seducesse; come lei ne aveva vedute tante e tante. Ma la viaggiatrice, cambiando tono, si chinò verso il duca e gli domandò, fissandolo con due occhi verdastri, pieni di promesse: Non è vero che mi farà compagnia lei, signore? Io devo partir subito per la Sicilia, - rispose Franco. Due o tre giorni di fermata a Napoli non danneggeranno i suoi affari; e quella breve sosta farà tanto piacere a me. Franco sorrise, ma non rispose. Questa scenetta avveniva a Velletri; a Ceprano Lois e il giovane signore dividevano la colazione, riposta da Karl in un paniere di vimini; a Napoli scendevano al medesimo albergo e poche ore dopo navigavano placidamente nelle insenature della costiera di Posillipo, mentre un marinaio seduto a prua spingeva la barca. Franco restò una settimana insieme con la francese facendo escursioni nei dintorni, spendendo senza contare le ultime lire che gli restavano, dimenticando accanto a quella donna la sua rovina, la promessa fatta al fratello, e anche la marchesa Paola. Egli si stordiva alle monellerie, all'allegria artificiosa di Lois, la quale sperando di aver trovato in Franco un ricco signore da spennacchiare, perché lo vedeva elegantissimo e assuefatto a una vita di lusso, cercava di divertirlo per tenerlo lungamente con sè. Alla fine della settimana, quando al duca fu portato il conto dell'albergo, che saliva a una bella somma e che egli non aveva, rientrò in se stesso e disse alla graziosa francese : Mia cara, io debbo partire. Lois, con mille moine, fingendosi dolente per quel distacco, voleva persuaderlo a condurla in Sicilia, ma egli disse che non poteva assolutamente e uscì mettendosi in tasca alcuni gioielli che voleva vendere. Fu quello un momento di vera angoscia per il duca. Prima andò a Toledo e si fermò dinanzi a un ricco negozio d'orefice e stette un pezzo a considerare la vetrina e poi entrò. Un commesso premuroso, fiutando nel giovane signore un acquirente, gli andò incontro con molte cerimonie, domandandogli in che cosa poteva servirlo. Franco rimase impacciato, con la mano nella tasca in cui aveva riposto i gioielli, e dalla bocca non voleva uscirgli l'umiliante parola che era andato lì per vendere; no non poteva dirla e tremava tutto. Il commesso gli ripetè la domanda. Desidero vedere un braccialetto da signora, - disse alla fine dominandosi. Gliene furono messi davanti tanti, ma Franco fingeva di non sapersi risolvere; uno era troppo meschino, un altro non aveva la montatura abbastanza elegante, un terzo era troppo materiale e intanto il duca stava sulle spine per andarsene. Glieli possiamo mandare a casa perché li esamini con più comodo, - disse il commesso e già aveva preso un libro d'appunti per scrivere l'indirizzo. Il signore abita ... ? No, tornerò con la signora, - disse risolutamente il duca e uscì con passo celere dal negozio; ingolfandosi nei vicoli di Toledo. Bisognava che vendesse i gioielli; ma come fare, come dirlo? Girando leggeva tutti i cartelli sulle botteghe e finalmente ne vide uno su cui stava scritto: "Banca di facilitazioni e di pegni sopra oggetti di valore. " Senza riflettere più, tirandosi il cappello sugli occhi, entrò in una specie di andito buio e lurido. Una mano dipinta in nero sulla parete, all'angolo della scala indicava che la Banca era su al primo piano, e Franco salì di corsa gli scalini. Gli pareva che tutti lo avessero veduto, che tutto il vicinato lo segnasse a dito. Spinse una bussola verde, unta e bisunta, e si trovò in una stanzetta bassa, divisa per tutta la lunghezza da un bancone alto di legno, su cui erano posate le bilance. Un uomo ben pettinato, giovane, con una cravatta rossa sopra una camicia sporca e con le mani coperte d'anelli, registrava delle polizze in un libro grandissimo; un altro esaminava una spilla di brillanti che gli porgeva una donna pulita, che all'apparenza pareva una cameriera. Franco sudava freddo. L'uomo del registro, che lo aveva sbirciato, alzò gli occhi e gli domandò che cosa voleva. Allora il duca cavò di tasca i gioielli e con mano tremante si lasciò cadere sul banco lurido e lustro ove migliala di mani si erano posate e migliaia di oggetti, dagli stracci ultimi del povero alla collana della patrizia. Erano bottoni di perle, un anello con un ricco solitario. gioielli ricchi, da gran signore, comprati dai primi ore fici, e pagati somme vistose. Il padrone della banca lo capì sabito; fece il saggio delle montature, esaminò le perle sogguardandole, con una punta d'acciaio spinse il brillante fuori della galleria d'oro, lo pesò, pesò le perle facendo ogni cosa con cura minuziosa. Franco era sulle spine; non vedeva il momento d'intascare il danaro e di andarsene, e in cuor suo malediceva quella Lois, che lo aveva trattenuto e lo sottoponeva a quel supplizio. Duemila lire, - disse l'uomo dopo un lungo esame. Franco si morse le labbra, ma chinò la testa in segno di annuenza. L'anello solo gli costava tre volte quella somma. Che sperpero! Il suo nome? - gli domandò l'uomo. Il duca esitò, l'altro lo fissava e quello sguardo turbavalo. Francesco Frangipani, - rispose tremando. E l'indirizzo? - domandò l'altro che registrava gli oggetti sul grande libro. Mergellina 33, - disse Franco rammentando un numero letto il giorno prima andando a Posillipo. Finalmente il padrone aprí una cassaforte, ripose i gioielli e contò duemila lire in tanti biglietti di diverso taglio, trattenendosi circa duecento lire per i meriti del Monte di Pietà e i diritti proprj. Poi consegnò la somma a Franco insieme con gli scontrini, raccomandandogli di tornare entro quindici giorni a ritirare le polizze e pagare la differenza, qualora il Monte avesse dato una somma minore. Quel supplizio era durato una mezz' ora e nella stanza buia erano entrate molte persone, che attendevano il loro turno, squadrando quel signore che impegnava. Una donna con un fagottino sotto il braccio, cenciosa. spettinata, lo aspettò sull'uscio e stendendogli la mano, gli disse: Eccellenza, datemi una lira; risparmiatemi d'impegnare questa vesticciuola della figlia mia; abbiate pietà di me! Franco si sentiva morire: lasciò cadere in mano alla mendicante gli spiccioli e scese le scale a precipizio, e guardò a destra e a sinistra prima di uscire da quella casa. Ed appena tornò a Toledo entrò da un parrucchiere col pretesto di farsi arricciare i baffi, ma in realtà per vedere se i capelli gli erano imbiancati. La perdita del suo patrimonio, le visite ai direttori di Banche per ottenere imprestiti e dilazioni, tutta la via crucis della rovina, non gli era parsa tanto amara quanto quella mezz'ora passata dinanzi al bancone nero, che pareva inghiottisse tutte le superfluità, tutte le ricchezze degli sciuponi a vantaggio di quell'uomo azzimato, con la cravatta rossa e i ricchi anelli e i ricchi bottoni sulla camicia sudicia. Ma i capelli del duca erano sempre neri ed egli disse fra sé : Vuoi dire che gli strazj non fanno incanutire, altrimenti ... . - e si mise a passeggiare per Toledo, fermandosi dinanzi alle botteghe. Prima delle due era all'albergo, pagava il conto, regalava a Lois un anello di molto valore, e senza lasciarsi intenerire dalle suppliche di lei, imbarcavasi prima di sera per Palermo, nervoso, agitato ancora da quella sosta nella casa della miseria, da quell'angoscia che non sapeva dimenticare. E per chi poi! - esclamava con disprezzo, ripensando a Lois,

. - Non posso vedere che abbia preso il posto della padrona una donna che non si sa di dove venga, se abbia marito o no, una principessa che fa l'istitutrice e che un bel giorno si farà sposare dal padrone. Sposare poi! Sì, se gli dicesse di buttarsi nel fuoco per lei, il padrone ci si getterebbe subito. Ma tu lo saprai: è vedova? La donna si strinse nelle spalle. Chi lo sa! Porta il nome di Bianchi e poi un giorno le venne di lontano lontano una lettera tutta bolli ed era diretta alla signora Crespi. Sai leggere tu? No, ma la busta l'aveva presa Maria e ci lesse quel nome. Le dico, signore; è tutto un mistero. Faresti bene a scoprirlo, Costanza. Oh! se potessi! - esclamò la donna. Franco aveva notato nella mente quel nome, e l'ammontando il proposito fatto di chiedere notizie su Velica al Signorini a Firenze; vinse la naturale inerzia e quella sera stessa commise la vigliaccheria di domandare a uno sfaccendato, a un ciarlone, informazioni sopra usa signora che lo trattava da amico e non aveva fatto nulla per meritare quell' affronto. Non gli disse che Velleda era a Selinunte, anzi finse di averla incontrata a Palermo e ne fece un ritratto fisico così lusinghiero; che pareva curato dalla mano delicata di un amante gentile. Ella non ha nulla di appariscente, - scriveva Franco, - pare una di quelle dolci figurine di Carlo Dolci, tutte soffuse di luce e dagli occhi vaganti in una continua visione. Quando le stringo la mano, temo di stritolarla fra la mia, tanto è morbida e sottile. I capelli corti e ricciuti le formano sulla fronte un nembo scuro, a riflessi d'oro. Per caratterizzarle meglio quel 0153 viso le dirò che la signora Velleda Crespi o Bianchi che sia, ha un nasetto tutt' altro che greco e che scambia leggermente un occhio; ma questi difetti invece d' imbruttirla, le danno una grazia singolare e lo sguardo li ricerca a preferenza dei pregi. Essi sono la vita, l'espressione di quel volto, la fisonomia di quella fisonomia. La signora di cui le parlo ha la grazia del linguaggio toscano e la fine eleganza delle donne fiorentine, ma si vede che nelle vene le scorre un altro sangue, perché la sua pelle è delicata e diafana come le nifee che sbocciano nei laghi gelati del settentrione e non ha quella tinta giallastra, così seducente alla luce artificiale, che è propria delle discendenti del bilioso Alighieri. Questa donnina debole, all'aspetto modesta, ha una volontà recisa e quando discute di letteratura, d'arte, di questioni sociali, s'infiamma ed accampa una sicurezza, che forse le viene dal lungo uso di sapersi ascoltata. Conosce tutte le eleganze, tutte le raffinatezze del lusso, ed è semplicissima di gusti e in casa non si vergogna di compiere umili uffici. Insomma, è un mistero vivente ed ha talvolta sulle labbra un sorriso franco di bambina. Mi dica chi è, che cosa faceva, quali erano i suoi amanti, quale la sua posizione; le assicuro che mi preme di sapere tutto questo e anche di più. " Franco chiuse la lettera e si coricò tranquillo per averla scritta e soprattutto per essersi procurato un alleata nella villa. La noia lo divorava e in quello stato d'irritazione continua in cui si dibatteva, si faceva prepotente l'invidia per Roberto e il desiderio di togliergli Velleda, di privarlo almeno di una delle cose che costituivano la felicità di lui. Non v'era occasione in cui le poche persone che avvicinava non gli facessero sentire la superiorità di Roberto, non per umiliarlo, - a questo non pensavano neppure, - ma per esprimere l'ammirazione che Roberto aveva saputo destare in tutti quelli che lo circondavano, per 0154 dar sfogo a un sentimento che non si può tener celato e che le anime buone manifestano con effusione. E quelle ferite al suo amor proprio, riaperte og'ni giorno, ogni momento quasi, lo rendevano smanioso e cattivo. Certi sentimenti buoni o malvagi dormono talvolta in noi lunghi anni, talvolta tutta la vita, come alcuni semi nella terra e alcuni germi nell'aria, e non si sviluppano altro che per un lungo lavorìo occulto che li pone in condizione di destarsi. Nella sua vita facile e spensierata i malvagi sentimenti che erano nel cuore di Franco avevano sonnecchiato; l'invidia non l'aveva mai tormentato, perché ovunque andasse era sempre il primo, e la ricchezza, il prestigio del nome e la liberalità nello spendere coprivano con un manto tutte le deficienze del carattere e della mente del giovane duca. Ma appena quel travestimento concessogli dall'opulenza gli cadde di dosso, appena non ebbe per tutto ornamento altro che il suo valore personale, senti la propria inferiorità di fronte al fratello, e anche ai pochi uomini modesti con i quali aveva rapporti. Il Lo Carmine, benché goffo e balbuziente, aveva una cultura seria, era una specie di autorità nella sua branca, il Varvaro stesso era competente nella fabbricazione e nel commercio dei vini, aveva studiato, s'era fatto un nome: e lui che cos'era, che cosa gli sorrideva? Appena sparito da Roma, tutti lo avevano dimenticato, tutti, meno donna Paola, che gli scriveva ogni due o tre giorni lettere appassionate; ma quella creatura così tenera non aveva attrattive per lui, lo annoiava mortalmente e invece di confortarsi nell' affetto di lei, quell'affetto gli faceva meglio sentire l'abbandono generale. Dunque, senza il palazzo, senza la sua prodigalità da gran signore, senza i prestiti a una turba di parassiti, senza lo sfarzo, non era più nulla, non contava più nulla? Gli pareva di sentire le sue amiche e i suoi amici di una volta, riuniti in casa di madame de Louvois, parlare di lui ogni tanto come di un morto, chiamandolo " quel povero duca " e la voce di donna Guendalina specialmente lo feriva, poiché figuravasi che ella affettasse di compatirlo più d'ogni altro, rimproverandosi ostensibilmente la crudeltà usata a quel disgraziato. Certe menti limitate hanno la facoltà di concentrarsi in un pensiero unico e di farsi dominare interamente da quello. Il mondo scompare ai loro occhi, non vedono nulla, non sentono nulla altro che il martellante pensiero, spesso perfido, che le tortura. Per Franco, il pensiero della superiorità del fratello era divenuto un incubo e sotto l'oppressione di quell'incubo l'invidia cresceva, cresceva sempre e lo rendeva capace di ogni perfidia. Strappargli Velleda, umiliarlo, ecco che cosa voleva. Sapeva che Roberto in lei aveva concentrato tutti gli affetti, che non erano quelli di famiglia; che lei era il suo orgoglio e in lei voleva colpirlo, sfogando il desiderio di farla sua che ogni giorno si faceva più prepotente. Questo egli voleva, fortemente voleva, e metteva in quella volontà una tenacia che non aveva mai sfruttata nella vita. Ma i mezzi per giungere a quel risultato non li vedeva chiaramente. Peraltro sperava che la risposta del Signorini e Podio di Costanza lo avrebbero aiutato a scoprirli. Ma per più giorni, dopo avere spedito la lettera attese inutilmente questi due aiuti, sempre più offeso, sempre più torturato dal desiderio. Un dopo pranzo, dopo un violento temporale che aveva rinfrescato sensibilmente l'aria, Roberto aveva proposto di andare a Castelvetrano a fare una trottata. Franco aveva accettato, non perché gli sorridesse l'idea della gita, ma perché non si voleva staccare dal fratello ne da Velleda, la quale naturalmente li accompagnava insieme con Maria. Salirono in una carrozza di paglia, coperta da una tenda. Il duca era accanto a Velleda, Maria e Roberto di fronte. La pioggia abbondante, caduta nella notte, 0156 aveva lavato i mandorli, le carrubbe e gli aranci. La campagna era un incanto; i fichi dindia scintillavano sotto i raggi del sole sfoggiando i loro frutti carnosi, e i grappoli delle vite lambivano la fertile terra rossastra, cui la pioggia aveva reso il suo colore caldo. Velleda era fresca e sorridente. Quella corsa attraverso la campagna le aveva colorito il volto, che appariva più bello sotto un largo cappello coperto di fiori di campo. Ella era felice e ogni tanto fissava Roberto e con uno sguardo breve, ma affettuosissimo, gli accarezzava il volto. Ed egli la sentiva tutta la soavità della blanda, spirituale carezza e la ringraziava sorridendole. Franco rise guardando Maria. Perché ridi, zio? Sono allegro, ti dispiace forse? Penso alle critiche che faranno i castelvetranesi sul mio vestito bigio, sulla forma del mio cappello, sul colore della mia cravatta. Velleda aveva abbassato gli occhi e non era più lieta A Castelvetrano Roberto li lasciò. Voleva andare dal giudice istruttore a sapere a che punto era l'istruttoria. Velleda salí dal Moltedo, insieme con Franco e Maria. Il passo dei cavalli vivaci era stato riconosciuto da don Achille e da donna Giovannina e tutti e due erano andati in cima alla scala a ricevere i cari ospiti di Selinunte. Prima che Velleda potesse presentar Franco, don Achille gli aberrava la mano e gridavagli : Benvenuto, caro duca, è tanto tempo che vi aspettavo! Maria alzò la testa sentendo dare allo zio quel titolo e appena furono seduti nella stanza quasi oscura, attorno alla poltrona di don Achille; ella domandò a Franco : Dimmi, zio, sei duca tu? Sì, piccina, sono duca d'Astura. - E il babbo non è duca? 0157 - No; io, come maggiore, ho diritto a quei titolo, ma lui se volesse sarebbe marchese di Cevoli, conte di Pelerà. La bambina tacque, ma dopo un momento chiese sottovoce: Perché il babbo non ti chiama duca e non si fa dare quei titoli? Perché è democratico, e i democratici ambiscono a illustrare da sé il loro nome e sdegnano i titoli trasmessi dagli antenati. Anch'io dunque sarei marchesa e contessa? Franco capì che in quella bambina destavasi a un ti atto la vanità di casta e per recar pena a Roberto, che la voleva serbare semplice di modi e modesta, le disse : Mia cara nipotina, tu hai tutti questi titoli, ma un giorno ne avrai uno anche più bello. Io non prenderò mai moglie e il dì delle tue nozze regalerò a te e a tuo marito il mio titolo, tu sarai la sola duchessa d'Astura. Maria rimase pensosa e sbalordita dall' annunzio di quel dono ed evocando il ricordo delle novelle udite raccontare da Velleda, si figurò che le duchesse si vestissero diversamente dalle altre signore e portassero sempre la corona in testa. Dopo una lunga pausa, ella tirò per la manica lo zio e gli domandò : Com'é fatta la corona ducale? Franco cavò di tasca un portasigarette di cuoio bianco con una corona formata da piccoli brillantini in un angolo, e gliela fece vedere. Benché Velleda si accorgesse del dialogo fra Maria e Franco non potè afferrare le parole che si scambiavano. I Moltedo avevano fatto servire dei rinfreschi agli ospiti e Franco nell'offrire una granita alla piccina le disse con fare manierato : 0158 Questa è per te, duchessina! Maria sorrise lungamente a Franco, lusingata da quel titolo che le dava. Don Achille, col suo fare amichevole, narrava a Franco tanti piccoli incidenti sulla sua famiglia e notava la grande somiglianza fra la madre e lui. Siete un vero siciliano! - gli diceva con molta compiacenza. - Dovete venire spesso da noi; vi farò conoscere molta gente; a Selinunte siete troppo isolato ; voi non avete cola le occupazioni di vostro fratello, voi dovete annoiarvi. Non credo, - disse Velleda rispondendo per lui. Il signor Franco ha saputo adattarsi alla nuova esistenza e lavora anch'egli. Ora siamo nella stagione più triste, ma nel settembre la caccia e la vendemmia gli offriranno distrazioni. Il duca non capiva il sentimento delicato che spingeva Velleda a farlo apparire contento della suo sorte e la fissò senza aggiungere parola a quelle che ella aveva dette. L'arrivo di Roberto rianimò la conversazione, che languiva nel salotto quasi buio, attorno alla poltrona del vecchio infermo. Maria era andata a vedere una cova di canarini e Roberto potè parlare. Nulla di nuovo si è scoperto, - diss' egli. - Fra pochi giorni si farà il processo ai malandrini che hanno attaccato lo stabilimento; per quello di Alessio si aspetta di scoprire qualcos'altro. Egli è guarito e lo hanno trasportato alle carceri, in una cella segreta e non ha rivelato nulla, nulla; sempre più mi convinco che quell'uomo è innocente della intenzione che gli si attribuisce. Velleda non era del parere di Roberto e lo disse francamente. A mezzanotte non si entra armati in un giardino per divertimento. Quella corda, quella scala, perché cosa 0159 erano lì? Certo nessuno voleva rapire Costanza o rapir me! Alessio non parlerà, perché è sicuro che i suoi compiici non sono stati scoperti, ma se la convinzione mia, io potessi infonderla nei giudici, sarebbe condannato. Meno male che qui nessuno può udirvi, signora, disse don Achille, - ma in altro luogo vi consiglio a non esser tanto franca; voi non conoscete la Sicilia e potreste scontare dolorosamente il vostro zelo nel far condannare Alessio. Io non ho paura, e i colpevoli debbono essere puniti, - rispose la signora guardando Roberto e cercando negli occhi di lui l'approvazione, ma quella volto Roberto evitò lo sguardo della sua cara e un velo di tristezza gli oscurò la fronte. L'accanimento di Velleda gli dispiaceva. Roberto volle far visitare la città a suo fratello e chiamata Maria, disse addio ai Moltedo e uscì. La bambina aveva preso la mano del babbo e Velleda si trovò accanto a Franco, il quale le offrì il braccio. Camminavano per le vie deserte in quell'ora e ogni tanto Velleda si soffermava per riportare l'attenzione del duca sopra i cortiletti interni delle case, fioriti di oleandri, e sulle donne belle, sedute e intente al lavoro. Vede, sono greche, greche addirittura per le forme eleganti della persona e per la linea della fronte e del naso. Nessuna siciliana ha come queste un colorito più bello. Guardi come sono bianche e rosee, - diceva soffermandosi per accennargli ora una figura che passava con un'anfora posata sui capelli; ora un'altra con la testa curva sul lavoro. Franco non rispondeva e guardava indifferente. A un certo punto, vedendo che Roberto era avanti e non poteva udirlo, si fermò e fissando Velleda negli occhi, le disse: Mia cara signora, io non ho nessuna tendenza 0160 classica, e queste donne possono parere statue greche viventi. ma non fanno per me. Eppure son tanto belle! - esclamò Velleda con accento d'ammirazione. La sua natura d'artista era cosi possente, che dimenticando la sua qualità di donna, guardava le donne belle con una insistenza e con un compiacimento tutt'altro che femminile. La bellezza sola non mi basta: io sono un decadente, come hanno battezzato in Francia gli uomini della mia risma e del mio conio. La bellezza basta agli uomini semplici, ai caratteri che sentono l'entusiasmo. Per me ci vuole di più, e forse di meno. Più che la bellezza mi attrae l'eleganza, quel certo non so che delle donne che hanno veduto molto, che hanno amato, che capiscono tutte le depravazioni tutti i pervertimenti del gusto. Velleda ritrasse il braccio che appoggiava su quello di Franco e arrossì, ma egli, sfiorandola col suo soffio, aggiunse : Per me ci vuoi lei, Velleda. La piccola signora rabbrividì. Le faccio orrore, - disse il duca a denti stretti, senza smettere il sorriso un po' stupido. - Ma non è colpa mia se non c'intendiamo; lei ci mette così poca buona volontà! Del resto, quando il nostro orecchio è attratto da una voce prediletta, tutte le altre non si odono che come un ronzìo noioso. L'allusione non poteva sfuggire a Velleda, ma ella finse di non capirla. Non voleva mettersi in urto col duca per non affliggere Roberto, per evitare che egli le chiedesse spiegazioni. Tacque dunque, ma in cuor suo soffrì uno stazio atroce. Roberto s'era fermato con un signore del paese che ella non conosceva e dovette per questo restare accanto a Franco, il quale riprese a dire: Non vede quale vita insulsa io faccio? Io non ho 0161 a Selinunte i conforti che vi trova mio fratello. Dal viso stesso si vede la mia noia, la mancanza di ogni sollievo, di ogni consolazione, anche fugace. Ingrasso, imbolsisco, divento uno stupido, e tutto per colpa sua, Velleda. La signora fremeva; quelle offese le arrivavano dritte al cuore e in un impeto di ribellione esclamò: Senta: se non cessa di perseguitarmi, io vincerò ogni ritegno e dirò tutto a suo fratello. Mi pare di non aver fatto nulla per meritare i suoi insulti. Insulti li chiama? - rispose Franco. - Io non ho altro desiderio che quello di entrare nelle sue buone grazie, e sarei felice se volesse farsi la consolatrice della mia esistenza. Le ripeto che dirò tutto a suo fratello. Non lo farà mai. Io non sono profondo osservatore, ma scommetterei qualunque cosa che dalla sua bocca non uscirà mai una parola; non vuoi turbare la quiete di Roberto; gli vuoi troppo bene per dargli un dispiacere. Vile! - esclamò Velleda. - Doppiamente vile se crede quello che dice. Ne sono convinto, - rispose il duca con calma. Ma allora, quali consolazioni vorrebbe da me? Tutte quelle che io sono capace di sognare; se adora mio fratello, che me ne importa? L'amore, come lo intendo io, non ha nulla che vedere con i sentimenti. È l'appagamento di un desiderio, è l'unione di due corpi attratti da una irresistibile simpatia. L'odore che emana dalla sua pelle, le movenze del suo corpo, la sua bocca fresca, la sua voce, le sue mani, mi mettono la febbre addosso: io la desidero, io la voglio! Il duca non s'era esaltato punto nel parlare a Velleda. Ella invece era in preda a un parossismo di rabbia e alzando gli occhi su Franco, due occhi che avevano una guardatura sinistra e ai quali lo strabismo leggero dava una espressione minacciosa, disse : 0162 Basta; glielo impongo! - e senza curarsi di quello che avrebbe potuto pensare Roberto entrò in una botteguccia, di mercerie e rimase ritta, rigida dinanzi al banco, senza saper quello che chiedere. Roberto, quando ebbe lasciato l'amico, si volse per cercare Velleda. Dov'è? - domando a Franco. Sono forse il guardiano della signora? - rispose egli con dispero. - Mi ha lasciato da molto tempo. Roberto camminava ansioso per la via deserta spingendo l'occhio in ogni cortiletto e in ogni bottega. Quando la scorse con uno slancio di affetto le corse incontro, domandandole: Che cosa fa? Perché è sparita? Non vede? Compro nastri per Costanza: me ne ha chiesti. Franco; dalla porta della bottega seguiva la piccola scena e ripeteva fra sé: Non gli dirà nulla mai, ne sono sicuro! Quando uscirono tatti insieme per continuare la visita alla citta, Velleda aveva preso per la mano Maria. Le oro afose, le ore morte erano passate e la gente usciva dalle case. Ogni uomo si toglieva rispettosamente il cappello vedendo Roberto; ogni donna gli sorrideva, e quei saluti e quei sorrisi erano una consolazione per Velleda, la quale diceva a Maria: Vedi come tutti vogliono bene e rispettano tuo padre; tu puoi essere altera di lui; non v'è nulla di più bello che ispirare stima. Maria non rispondeva ed era straordinariamente distratta. Ella pensava alla promessa dello zio di farla duchessa e già parevate di veder d'intorno a sé, in atto umile, una corte di signori e di dame che le prestassero omaggio. A che pensi, Maria? - domandò Velleda. - Penso che è una bella cosa portare una corona ducale. 0163 Ma come mai ti vengono in testa certi pensieri? Non sono forse l' erede dello zio Franco, duca d'Astura? Ah! è un'infamia! - susurrò Velleda fra i denti. E in quel momento, forse per la prima volta, ebbe la visione precisa, delle sinistre intenzioni del suo persecutore.

Ammetto che l'esilio volontario in America ti abbia spaventato. Che avresti fatto tu, là, preso nell'ingranaggio della lotta disperata per la vita? Nulla, nulla. Ma io ti offro un lavoro certo, ti offro l'esistenza onorata e il mio affetto. Vieni meco in Sicilia. Io svilupperò ancor più il mio commercio vinicolo e t'inizierò ai segreti del mestiere. Viaggerai nell'isola, e anche all'estero, e io intanto, con la pratica acquistata negli affari, cercherò di salvare in parte il tuo patrimonio. Non ti offro cosa che ti possa offendere. Rammentati che il nucleo di quella azienda è costituito dai beni dotali di nostra madre, ai quali tu rinunziasti quando lo zio ti istituì suo erede. Accetta questa soluzione onorifica per te; tu sarai in casa tua e la mia Maria ti allieterà l'esistenza. È una cara bambina la mia Maria. Franco sorrise. Rammentava di essere stato una volta con sua madre a Castelvetrano, nella piccola città quasi orientale, situata in mezzo a una solitudine ridente e solenne, e rivedeva le donne accorrere al rumore d'una carrozza, sulla porta delle case; da cui si scorgevano i cortili fioriti di gelsomini e di oleandri all'uso arabo. Che avrebbe fatto mai in quella solitudine? Senti, - continuò il fratello che leggevagli nell'animo le esitazioni, ma che incominciava a sperare, io non abito la città, come sai. A pochi passi dalle imponenti rovine di Selinunte ho costruito una villa; lo stabilimento è in riva allo splendido mare africano; vapori vanno e vengono, ho buoni cavalli, le campagne sono bellissime, l'attività non cessa mai nei magazzini e sul molo, e si può vivere piacevolmente e utilmente in quella solitudine, visitata da persone colte e intelligenti. Un uomo che ami i cavalli e il mare, non si può mai annoiare nel mio deserto. E vedi, - aggiunse in tono affettuoso, - io farò di tutto per renderti più lieta la esistenza. Inviterò amici di Palermo e di Trapani, ti farò prendere amore al lavoro, che da tante soddisfazioni, e forse un giorno ti sentirai più felice in quell'asilo che ti offro, che qui dove forse non hai un amico. Ma ho delle amiche, - disse Franco con una certa fatuità, - e tu mi rammenti che ne attendo stamani una appunto; una bella e buona creatura che mi ama con passione. Perché l'avevi invitata stamani appunto? Perché coprisse il mio cadavere di rose e piangesse accanto al mio letto di morte" Roberto aggrottò le sopracciglia, urtato da tanta fatuità e disse: Tu non ami quella signora; se tu l'amassi avresti avuto pietà del suo dolore e per un capriccio non l'avresti spinta a compromettersi irreparabilmente. - Di fatto, non l'ho mai amata e non l'ho neppur desiderata, - rispose Franco. - Se avessi voluto, Paola mi avrebbe seguito in capo al mondo, ma io non le ho chiesto nulla ... mai nulla. Ma allora tu commettevi una vera infamia facendola venir qui, in mezzo ai curiosi e agli indiscreti che sarebbero penetrati in camera tua per assistere alla tua agonia o per vederti morto. Non hai pensato che quella signora sarebbe stata screditata per sempre, che non avrebbe più potuto porre il piede nella casa del marito? No; ho pensato soltanto che mi avrebbe portato dei fiori e avrebbe pianto. Scrivile subito, - disse Roberto in tono fermo. Trova il pretesto che io sono qui e pregala di non venire. Non sciupare la vita di una creatura che ti vuoi bene. Non la precipitare nella rovina. Franco si alzò, e dominato dallo sguardo imperioso del fratello scrisse a Paola poche righe e suonò perché fossero recapitate. Quando i due fratelli furono di nuovo soli, Roberto, con molta serietà, disse al duca: La morte, come ti ho dimostrato, non rimedia a nulla. Occorre che tu viva, ma la tua esistenza bisogna che cambi. Se accetti la proposta che ti ho fatto, io ti risparmierò tutte le noie di una liquidazione. Io sarò il tuo mandatario, tratterò con i creditori, venderò quello che potrò, ma intanto che io mi occupo a salvarti abbastanza da vivere, tu devi prepararti al lavoro, alla nuova esistenza che t'impone la tua situazione. Ti senti la forza di rinunziare al lusso, di sparire per alcuni anni, di rompere tutti i rapporti con la gente che conosci, di divenire un altr'uomo? Tenterò, - rispose l'altro a occhi bassi, - e se questo sforzo sarà troppo duro per me ... . Che farai allora? Ricorrerò a quel rimedio infallibile, che tu non hai voluto che usassi stamane. Oh! non vi ricorrerai più! - esclamò Roberto in tono di sicurezza. - Io so che potenza di attrattiva ha il lavoro. Discaccia ogni pensiero che a lui non sia rivolto, e gli afflitti gli devono quelle pause al loro dolore che hanno sull'anima lo stesso effetto benefico che il sonno produce sui corpi stanchi. Ma per ottenere dal lavoro questo sollievo, bisogna amarlo profondamente, bisogna ricorrere a lui come all'amico più fido. Il lavoro mi salvò allorché dopo un anno di felicità assoluta io vidi morire la mia bella Maria nel mettere al mondo la nostra bambina. Se non volevo compromettere gli affari, bisognava lavorar subito e non concedermi il lusso di piangere. Al ritorno del camposanto mi mescolai di nuovo agli operai, sorvegliando i carichi, entrai nei magazzini e vedendo che ovunque v'era bisogno del mio consiglio e del mio ordine, perché la grande macchina camminasse, potei distrarmi, riprendere le consuetudini interrotte per pochi giorni, e il dolore mi diede ore di tregua e così potei vincerlo. Vedi, il lavoro tiene, nella vita di noi uomini moderni, il posto che avevano la religione e la fede in quella degli antichi: è il nostro conforto, la nostra àncora di salvezza, il nostro rifugio. Essi si rinchiudevano in un convento per meditare e pregare, preparandosi a una vita migliore, a una vita felice; noi, che poco speriamo, che non abbiamo la pazienza di attendere una consolazione lontana, ci gettiamo nel lavoro che ci distrae la mente e ci affatica il corpo. Stanchi, dormiamo, e così di ora in ora, di giorno in giorno il dolore viene ricacciato in fondo al cuore, dove rimane in una specie di letargo, finché un nuovo dolore non lo desta; ma almeno in quel periodo di sonno ci lascia tregua, ci da agio di prepararci alla nuova lotta, come certi rimedi che somministrano i medici, non perché abbiano virtù curativa, ma solo perché infondono all'organismo la forza necessaria per vincere la malattia. La fatica della mente e del corpo, la tensione dei nervi e dei muscoli, è la vera consolatrix afflictorum degli uomini d' oggigiorno ; fa che sia anche la tua. Ebbene lavorerò! - disse il duca d'Astura, - ma tu dovrai avere con me una pazienza da santo, perché non solo sono disadatto a qualsiasi occupazione, ma non ho neppure nel lavoro quella bella fede che ti anima, nè per il lavoro quell'amore che è la condizione prima per riuscire. Vieni dal mio avvocato subito; voglio farti una procura generale, e quello che salverai dal mio patrimonio, sarà tutto trovato. Nel mio studio troverai tutte le carte, il maestro di casa ti metterà al correlile degli affari. Credo che sia un ladro. - aggiunse Franco con un ironico sorriso, - perché mi hanno scritto molte lettere anonime in cui lo accusano di giocale alla Borsa, di mantenere una bellissima donna e di far vita dispendiosa col mio. Io non l' ho mandato via per tante ragioni, ma soprattutto perché mi trovava sempre le somme di cui avevo bisogno. Questa volta, però, mi ha detto che non poteva far nulla. Dunque è divenuto inutile e tu gli puoi chiedere i conti da oggi a domani, - aggiunge sorridendo. Il cinismo e l'indifferenza assoluta di Franco urtavano Roberto, ma egli voleva esser buono col fratello e soprattutto indulgente, voleva non accorgersi dei suoi difetti, che credeva frutto di una educazione sbagliata, e sperava, sorvegliandolo, guidandolo, di rigenerarlo. Come tutti i caratteri generosi, Roberto non si sgomentava degli ostacoli che offriva l'opera cui voleva dedicarsi; il fine lo seduceva anzi e sperava di vincerli, come aveva vinto il suo carattere violento, e come ora vinceva l'amore che voleva tiranneggiarlo. I due giovani stabilirono che Franco sarebbe partito la mattina dopo per Napoli e, giunto là, si sarebbe imbarcato poche ore più tardi per Palermo, Roberto rimaneva per licenziare la servitù, trattare con i creditori e sorvegliare l'avvocato, che aveva in mano tutte le fila intricatissime di quell' arruffata matassa. Poi avrebbe raggiunto il fratello a Selinunte. Dopo uno colazione che essi fecero in comune, andarono dall'avvocato per la procura generale, pranzarono insieme e durante tutto il giorno non fecero altro che parlare d'affari; e a mano a mano che Franco esponeva i ripieghi usati per aver denari, che enumerava le ipoteche messe da più creditori sullo stesso possesso, che diceva quali terreni aveva comprati, quante case erano in costruzione, quante sfittate, Roberto si faceva più serio, ma nessuna parola di biasimo gli usciva dalla bocca. Fidati a me, - gli disse la sera lasciandolo, - e sta pur sicuro che se vi sarà qualcosa da salvare, la salverò. Poi aprendo il portafoglio mise in mano al fratello un biglietto da mille lire per le spese del viaggio e promettendogli di andare la mattina seguente alla stazione, ritornò all'albergo. Non gli pareva vero di essere in camera sua, solo, e di poter scrivere all'assente, alla donna, cui viveva castamente vicino, amandola con passione, per prepararla all'arrivo del duca; ma tutte le commozioni di quella interminabile giornata lo avevano affranto e fece uno sforzo per prendere in mano la penna. Roberto Frangipani a Velleda Bianchi. Castelvetrano per Selinunte. Mia buona signora signoraLe mandai un telegramma appena sbarcato a Napoli e uno la sera del mio arrivo a Roma e ho avuto da lei due risposte brevi, ma esse sono state la mia sola consolazione da che sono qui. Maria dunque sta bene e domanda che io torni presto a lei, spera che la mia assenza sia breve. Come fanno bene queste parole affettuose a un cuore straziato come il mio! Le nascosi lo scopo del mio viaggio a Roma, perché speravo che le notizie che me lo avevano fatto imprendere tanto a malincuore fossero false; ma ora mancherei con lei di franchezza se non le dicessi tutto. In codesta solitudine; in mezzo al mio assiduo lavoro, mi pervenne la nuova della rovina di mio fratello, duca d'Astura. Le avevo parlato poco di questo fratello col quale non ho passato altro che la prima infanzia e non ho avuto nulla di comune nella giovinezza, e poi parlandogliene avrei dovuto rivelarle un dolore che mi ha sempre angustiato atrocemente. Ora che Franco sta per giungere costà e si rassegna a incominciare una nuova vita, conviene peraltro che io glielo faccia conoscere per impedire anche che egli possa avere una influenza perniciosa sul carattere di Maria. Mio padre era il fratello minore del duca d'Astura e lo stesso divario che corre fra Franco e me, sussisteva fra quei due fratelli. Lo zio Giovanni era un uomo che si drappeggiava con compiacenza nelle glorie passate della famiglia Frangipani, - era guelfo nell'anima e si vantava che l'ultimo degli Hohenstaufen fosse stato congegnato da essi a tradimento agli Angioini, - e credevasi un gran personaggio perché occupava diverse cariche alla Corte pontificia. Del suo valore personale non gl'importava nulla e parevagli cosa superflua, dal momento che all'annunzio del suo nome, accompagnato dal titolo, vedeva spalancare dinanzi a sé tutte le porte. Mio padre, invece, fino da giovane aveva dimostrato un grande amore allo studio, un desiderio vivo di essere il creatore di se stesso. Educato semplicemente, perché non era il primogenito e non poteva sperare in un vistoso patrimonio, seguì i corsi universitarj, s'addottorò in legge e non potendo esercitare a Roma, dove la sua famiglia era fra le prime, viaggiò molto creandosi numerosi amici ovunque. In uno di questi viaggi conobbe mia madre a Palermo. Ella era una Monteleone, di un ramo cadetto, e possedeva alcune terre fra Castelvetrano e il mare, che però non costituivano una ricchezza. Era molto bella, abbastanza colta, elegante, e mio padre se ne invaghì e la sposò. Non credo peraltro che la loro unione fosse felice, perché se rievoco la mia infanzia, vedo mio padre sempre solo nel suo studio, in mezzo ai libri, e la mamma circondata da molte signore e da molti amici, fra i quali non mancava mai il duca d'Astura, nè la moglie. Essi non avevano figli e Franco viveva più in casa loro che in casa nostra. Anzi, ricordo diverse dispute fra mio padre e mia madre per questo fatto, dispute che ella troncava dicendo che Franco era l'erede naturale delle ricchezze e dei titoli del duca e occorreva lasciarlo allo zio, dal momento che desiderava di vederselo crescere accanto. Non so quando nè come, ma rammento bene che Franco un giorno andò via di casa per non tornarvi più e che ogni tanto io andava a visitarlo al palazzo Astura e lo trovavo sempre in compagnia di un abate francese; che lo trattava con una deferenza da servo a padrone. Appena mio fratello non fu più insieme con noi, mio padre, forse per un accordo preso con mia madre, si diede a dirigere la mia educazione e mi fece studiare seriamente il greco e il latino e volle che ogni ora della mia giornata fosse dedicata allo studio. Mia madre mi abbandonava interamente e io non ero infelice per questo, anzi ero lieto sentendo che nuovi legami si stabilivano fra mio padre e me quanto più io rimaneva nella sua biblioteca e imparava da quell' uomo, che m'incuteva tanto rispetto, mille cose che un professore non avrebbe saputo insegnarmi. Egli era versatissimo non solo nel diritto, ma anche in letteratura, in istoria e in archeologia, e tutto ciò che sapeva voleva che io pure lo apprendessi, ripetendomi: " Queste cognizioni saranno un giorno la tua ricchezza " e sospirava forse pensando alla mia povertà relativa e al cospicuo patrimonio che avrebbe ereditato mio fratello, il quale montava a cavallo, guidava una pariglia di bellissimi sauri, aveva la sua servitù ed era educato con quel fasto proprio delle famiglie principesche romane, mentre io crescevo senza lusso, senza idee di grandezza, sgobbando sui libri e assuefacendomi a considerare il lavoro come una necessità della vita. Mia madre si ammalò gravemente mentre io avevo quindici anni, e dopo una lunga malattia, morì. Mi duole il confessarlo, ma io non provai un dolore profondo vedendola mancare, prima di tutto perché non ero assuefatto a lei, e la sua perdita non lasciava un vuoto nella mia vita, in secondo luogo perché ella mi feriva sempre vantando la disinvoltura, l'eleganza, l'intelligenza di Franco, per stabilire fra noi un paragone, nel quale io scapitavo molto; Franco era il suo figlio d'elezione. Ella mi tacciava di essere calcolatore, gretto d'animo, sornione e se osavo farle osservare che speravo crearmi una posizione col lavoro e occorreva che studiassi, ella faceva una risata assicurandomi che non sarei mai stato nulla, e che quelle fisime andavano lasciate ai plebei, ai borghesucci. " Del resto, - concludeva, - tuo fratello ti aiuterà; egli sarà tanto ricco! " Anche al suo letto di morte, negli ultimi momenti della vita, ella riuscì a ferirmi. Se mio fratello era assente, era rosa dall'impazienza che tornasse; appena entravo io in camera, con un cenno impaziente della mano, con una parola che tradiva la noia che io le procuravo, mi indicava l'uscio, e io chinavo il capo e obbedivo. E queste scene si ripeterono molte volte, perché l'agonia fu lunga e straziante. Durante quella agonia io avevo sperato che ella mi chiedesse un bacio; ma non lo fece. Ella spirò guardando Franco, accarezzandogli il volto, e io non ho mai potuto ripensare a quell' estremo disprezzo senza soffrire. Dopo la morte di mia madre, il babbo lasciò Roma e mio fratello rimase in casa del duca; noi ci stabilimmo a Castelvetrano. Mio padre continuò a farmi studiare i classici, a istruirmi nell' archeologia, ma volle pure che a queste cognizioni io unissi quelle dell'agricoltura e della chimica. Prese dunque presso di noi una specie d'intendente molto abile e nell'inverno mi faceva passare alcuni mesi a Palermo per seguire il corso di chimica. Mio fratello scriveva raramente e sempre più io mi avvicinava a mio padre e mi staccavo da Franco. Non avevamo nulla di comune e le nostre lettere erano fredde e insulse. Quando avevo appena ventidue anni, mio padre morì, ed io che sentivo in me tanto bisogno di attività, fondai lo stabilimento vinicolo di Selinunte, costruendo la villina che ella abita, per portarvi la giovane e bellissima Maria, che fu la mia compagna per un anno solo. Vi è un periodo nella vita in cui l'ammirazione per il bello, rappresentato dalla donna, vince ogni altro sentimento, ogni altra considerazione. Maria era una mezza popolana, incolta, senza educazione, ma era divinamente bella, bella come la piccola Maria, ed io la sposai, nonostante i sarcasmi di mio fratello, nonostante l'opposizione di mio zio, che giurò di non volermi più vedere. Queste ostilità servirono d'impulso alla mia voglia di lavorare. Volevo crearmi una posizione indipendente. I beni di mia madre, indivisi con mio fratello, non erano una base di ricchezza e bastavano appena a una modesta esistenza. Io volevo esser ricco, non per procurarmi le soddisfazioni che la ricchezza offre, ma soltanto per lasciare un patrimonio ai miei figli, per vedere la mia Maria nella cornice elegante che richiedeva la sua bellezza. Ella mi amava con una dolcezza da schiava, e la sua adorazione per me, la sua sottomissione, non mi facevano accorgere quanto le mancava per esser davvero la mia compagna. Ed io che ero soltanto innamorato della sua bellezza, non le chiedevo quelle soddisfazioni dello spirito che ella non poteva darmi. Quell'anno fu un sogno di felicità completa, troncato dalla morte, ma io mi domando se ora che gli anni mi hanno reso più esigente, io l'avrei amata egualmente, se sarei stato abbastanza generoso per non farle sentire la mia superiorità. Il dolore mi straziò, ma non mi vinse. Da quel giorno ho esteso il mio commercio, sono diventato possessore di molti terreni, ho lavorato con maggior lena pensando all'avvenire del fiore delicato, che avevo visto crescere sulla tomba della mia cara morta, alla quale rivolgo la mente come si ripensa a una bella e lieta primavera. Ella mi conosce bene, poiché è un anno che si è offerta per vegliare sulla mia Maria e che mi vede al lavoro e nella vita di famiglia, dunque è inutile che le parli di me. Ma è necessario che le parli di Franco, che sarà nostro ospite e che giungerà costà il giorno successivo a questa mia. La prego di fargli preparare il quartiere dei forestieri, che è nel centro dello stabilimento. Quelle quattro stanze basteranno a mio fratello. Vi faccia portare i tappeti che sono in camera mia e alcuni libri. Mi affido al suo gusto per dare a quelle stanze un aspetto allegro ed elegante. Al servizio di Franco destinerà il mio cameriere, che dormirà nella retrostanza, accanto al bagno. Mio fratello giungerà col treno delle cinque a Castelvetrano. Gli mandi la carrozza e faccia preparare un buon pranzo e una tavola elegante. Franco è assuefatto a tutte le raffinatezze del lusso e siccome voglio affezionarlo a Selinunte, egli non deve provare impressioni penose al suo arrivo. Prepari anche Maria a riceverlo affettuosamente, ma non permetta che egli passi tutto il giorno alla villa. Il suo tatto le sarà di guida per tenerlo distante di costì fin dal primo momento. Ponga a sua disposizione l' yacht i miei cavalli, lo spinga a far gite in terra e in mare, lo occupi, ma non gli faccia prendere la consuetudine di vivere fra noi e non gli affidi mai Maria. Mi dispiacerebbe che la bambina interrompesse per lui la sua vita metodica e che noi fossimo privati di quella libertà di leggere e di studiare che è il conforto delle nostre serate. Faccia conoscere Franco al sotto direttore degli scavi, al buon Lo Carmine, e lo conduca dai Moltedo a Castelvetrano, dove troverà sempre gente. Però la prego di non presentarlo come duca d'Astura, nè dargli in casa il titolo cui mi pare non abbia più diritto dal momento che ha sprecato il patrimonio che a quello andava unito. Non mi dilungo su questo tasto doloroso; ella si accorgerà che Franco manca assolutamente di educazione morale, come d'istruzione. Il mondo si compone di edificatori e di distruttori; a quest'ultima categoria appartiene mio fratello; ma io spero con l'esempio, con la dolcezza di piegarlo al lavoro, di fare di lui, che è passato fin qui nella vita come un flagello, un uomo utile. E forse in quest'opera di rigenerazione, ella mi aiuterà. Dovrò stare a Roma forse per settimane, forse per mesi; è un sacrifizio immenso che compio, ma non sarei degno della stima degli onesti, se non lo facessi. Si tratta di salvare dal disonore il nome di mio fratello. Se non riuscirò a salvare altro, avrò già compiuto un'opera buona. Mi accompagni col pensiero in questa difficile e dolorosa missione che m'impongo e vegli sulla mia Maria, cui mando mille teneri baci. Il suo affezionatissimo "ROBERTO FRANGIPANI. "

Pare che il caso abbia fatto sì che il tentativo 0115 di ratto coincidesse con l'attacco allo stabilimento. Addosso a uno degli arrestati si sono trovate lime e grimaldelli. Quel ladro, messo alle strette, ha confessato tutto. I malandrini, sapendo che il signor Roberto era a Roma, e che io avevo fatto delle riscossioni importanti, si suppone avessero stabilito di penetrare nello stabilimento nel cuor della notte, d'impossessarsi dei guardiani e di svaligiare l'amministrazione. Essi erano già nello stabilimento, rimpiattati in un magazzino, quando hanno udito le fucilate alla villa e il suono della campana. Vedendo uscire i guardiani, hanno creduto di poter meglio compire il furto, mentre lo stabilimento era quasi abbandonato. Ecco quello che ha confessato il malandrino e a questa rivelazione lo ha spinto il timore di esser complicato in un affare più grave: quello del rapimento della signorina. Inoltre, pare provato che i malandrini non avessero nessun rapporto con Alessio, il quale la sera del fatto fu visto fino alle nove in un osteria a Castelvetrano, mentre gli altri erano già a quell' ora nei dintorni dello stabilimento e non si sa che sieno mai stati in città negli ultimi tempi. Ma Alessio allora? Probabilmente avrà altri compiici; ma il giudice istruttore è sicuro che il movente dell'attacco allo stabilimento era il furto, mentre qui era invece la vendetta. Ma come è possibile che tanta gente congiuri contro di noi! - esclamò Velleda presa dallo sgomento. I carabinieri, mentr'ella parlava, si mostrarono nel viale, tornando da una perlustrazione. Oh! se si potesse vivere in pace come prima! disse la signora. - Tutti questi timori che ci agitano di continuo, questo malvolere che ci circonda, queste cupidigie insensate che si manifestano con tentativi di rapine e con uccisioni, disgustano della vita e del 0116 soggiorno in questo luogo. Povero signor Roberto! Egli si studia con ogni mezzo di fare il bene e raccoglie invece dolori! E per il primo maggio, a proposito? Ha ricevuto istruzioni? Sì, doman l'altro gli operai lavoreranno fino a mezzogiorno soltanto. Questo è l'ordine. In quel giorno però scemeranno una parte delle sue responsabilità, aggiunse il Varvaro. Come mai? - domandò Velleda. La sera giungerà il signor Roberto: domattina egli parte da Roma. E non me lo diceva! - esclamò Velleda. Avevo ordine di non rivelare a nessuno l'arrivo di lui. Egli non vuole neppure la carrozza alla stazione. Andrà a dormire dai Moltedo; nella sera parlerà con il giudice istruttore e forse con Alessio, che domani sarà tolto dalla corsia comune dell'ospedale, perché nessuno assista alle interrogazioni che vuol rivolgergli il signor Roberto. Da Roma egli ha disposto tutto. Oh! creda, se fosse stato qui, nessuno avrebbe osato turbare la nostra quiete. Egli incute timore e rispetto; egli sa far rispettare la sua persona e i suoi averi. Maria corse sulla terrazza per chiedere un pezzo di zucchero e Velleda si alzò per darglielo. Avrebbe voluto interrogare ancora il Varvaro, sentirlo ancora parlare di Roberto con affetto e ammirazione, ma parevate di aver lasciato troppo tempo solo il duca e rientrò in sala. Ella prese un ricamo: una portiera di raso sulla quale trapuntava grandi fiori in seta, e curva su quella rimase a parlare con Franco. La felicità la rendeva eloquente, e senza dire che Roberto sarebbe tornato tra due giorni gli dipingeva con vivaci colori l'esistenza lieta che avrebbero menato allorché suo fratello fosse stato in mezzo a loro. - Tutto langue ora in questo luogo, - ella diceva, 0117 perché l'anima manca; ma vedrà come ogni piccolo avvenimento si cambia in festa, come ogni cosa risorge. Mentre parlava pareva a Franco che dietro la pelle alabastrina del volto di Velleda si accendesse una face, illuminandola dall'interno. Quella face è l'amore, - pensava Franco fissandola con sorda gelosia. - Basta che senta parlar di lui, che ne parli, perché ella si trasformi. Le spariscono dal volto le tracce delle sofferenze, le svaniscono dalla mente i timori e le ansie; ella rivive, palpita e ogni sguardo contiene un inno di adorazione, ogni parola è una carezza per l'assente. Oh! che adorabile, che unica amante deve essere quella donnina, che si concede tutta col pensiero, che non ha finzioni, non ha reticenze! E la guardava sempre più avidamente, fingendo di seguire con l'occhio i fiori delicati che pareva sbocciassero sotto le sue manine bianche, senza anelli, trasparenti come il volto; quelle manine di cui Franco sognava le carezze blande sulla faccia e nei capelli. A un certo momento il Varvaro si alzò per ritornare alla sua casa e il duca dovette seguirne l'esempio. Tutti e due, ogni sera prima di andarsene, facevano una ispezione al giardino dalla parte interna e poi da quella esterna, insieme coi carabinieri e affidavano a Saverio, che ora dormiva alla villa, la cura di chiudere le porte. Soltanto dopo essersi assicurati che non vi era nulla da temere, andavano allo stabilimento. Essi non permettevano che Velleda si esponesse più, e la signora, per non lasciare sola Maria in camera, vi si rinchiudeva insieme con lei e mentre la bambina dormiva, ella scriveva o leggeva. Costanza dormiva, come si è visto, nella camera accanto, e Saverio, sul ripiano della scala, sopra una materassa che poneva attraverso all'uscio della camera in cui Velleda vegliava. 0118 La felicità quella notte impedì alla signora di sentir la stanchezza. Ella rimase lungamente seduta a una scrivania, rileggendo la lettera memorabile di Roberto, quella cui ella non aveva potuto rispondere subito. Gli aveva scritto però il giorno dopo, senza reticenze, senza false vergogne, col cuore. Non s' era mostrata sorpresa della confessione dell'affetto di Roberto, ne della sicurezza che egli dimostrava di esser corrisposto. Accettava i voleri di lui perché non aveva più volontà propria, ne vita propria; perché soltanto accanto a lui poteva vivere. Dal momento che questo grande affetto mi ha soggiogata, - avevagli scritto, - io ho sentito che nel mondo sussisto la felicità, che la vita ha le sue gioie; come il deserto ha i suoi fiori, e che sui ruderi di una esistenza barbaramente angosciata; può costruirsene una nuova. E la felicità che provo io non la vedo limitata al presente, ali' età delle illusioni, alla breve gioventù che ci riinane; ma io la vedo estesa ai tardi anni della vecchiaia, la vedo raggiare dai nostri volti rugosi, estrinsecarsi in una grandiosa opera d'amore in cui i nostri cuori si rinnoveranno sempre, sempre giovani fino alla pausa suprema, alla quiete della tomba. In questi giorni stessi di angosce continue, io sento la carezza del suo affetto, sento la forza che m'infonde, la lucidità che presta al mio cervello; sento il legame che stabilisce fra noi, a tanta distanza, e che mi sostiene e mi sprona a proteggere tutto ciò che le è caro. L' assicurazione che ella mi da, che senza un ostacolo vivente mi avrebbe fatto il dono del suo nome, mentre mi strappa lacrime di tenerezza, non desta in me nessuna meraviglia. La stima di cui mi circonda; il dominio assoluto che mi ha dato sulla sua casa, la fiducia che ha in me, grande, completa, mi dicono ben chiaro che, liberi entrambi, ella mi avrebbe affidato il suo nome che io avrei accettato umilmente, sentendo tutta la grandezza 0119 del dono e tutta la felicità di riceverlo. Perché io non mi sento umiliata del mio passato. Se sono stata vittima delle colpe altrui, non ho fatto nulla che la coscienza mi rimproveri. E in mezzo alle tentazioni di una esistenza agitata credo mi abbia salvato il presentimento che un giorno avrei incontrato un uomo buono, onesto, dinanzi al quale dovevo poter alzare serenamente gli occhi, cui volevo poter offrire un cuore degno del suo. E questo giorno è venuto e io ho ora un premio insperato che mi compensa della vita solitària, dolorosa; che mi compenserebbe di mille martirj più atroci di quello sofferto. Io sono, mio buon signore in atteggiamento umile dinanzi a lei, come Maria all'annunzio dell'angelo, perché mi piace ringraziarla di tutti i doni che sparge sul mio capo, perché sono commossa; ma non chino la fronte contrita come la Maddalena dinanzi al Signore, il rossore non mi copre le guance; io sono degna di lei. Questo aveva scritto Velleda al suo buon signore, come ella lo chiamava qualche volta soltanto, ma le pareva di non aver saputo esprimere tutta la gioia che provava il suo cuore, di non aver saputo sciogliere l'inno di riconoscenza, che, come melodia divina, sentiva fluttuare nell'anima, e ripensando a quella lettera, guardava la penna posata accanto al calamaio, considerandola come strumento insufficiente a esprimere con parole un sentimento più grande delle cose che si prestano alla descrizione. E intanto che ella affrettava col pensiero il ritorno di Roberto e pregustava la gioia di rivederlo senza rammentare che le ore trascorrevano mentr' ella meditava, un'altra creatura vegliava, a pochi passi da lei; vegliava agitata, rosa dall'amore e dall'odio, due sentimenti che s'erano imposessati del suo cuore. Quella vegliante era Costanza. Da otto anni, cioè dal tempo della nascita di Marla 0120 ella era in casa di Roberto Frangipani. Egli l'aveva fatta venire dalla Piana de' Greci, il paese che dà le più belle nutrici alle famiglie signorili della Sicilia. Costanza aveva perduto il suo bambino un mese prima di partire da casa, e il buon posto che aveva trovato parve a lei e al marito una fortuna. La balia aveva allora diciotto anni ed era un fiore. La morte della signora, il grande affetto che Roberto aveva per la sua piccina, crearono a Costanza una situazione invidiata e comoda alla villa. Ella abitava al primo piano, era servita, pranzava sola e il padrone le faceva continui regali. Ebbe la fortuna che Maria crescesse bella e forte, e di questo si faceva un merito alla nutrice. Chiese un aumento di salario e l'ottenne; era vana ed ebbe vesti sfarzose, ricamate d'oro alla foggia del suo paese, e gioielli come ne portano le paesane della Piana dei Greci. Il benessere, la vita comoda, la speranza di non lavorare più la fecero affezionare alla casa e alla bambina; anzi l'amore per Maria si fece dispotico ed esclusivo; non voleva altre donne in casa, e al marito, che la richiamava supplichevolmente in famiglia, rispondeva inviando denaro perché comprasse terre, ma non movevasi di dov'era. Nell'esser sempre vicina al giovane signore, Costanza vagheggiò il pensiero di farsene amare, di essere la distrazione, se non la consolazione della vita vedovile di lui, ma dovette convincersi che Roberto non la guardava neppure e se non l'allontanava era soltanto perché credeva che nessuna donna avrebbe potuto voler bene alla bambina quanto lei, che avevale dato il suo latte. Di questo disprezzo della sua bellezza, Costanza sentì sempre una ferita alla sua vanità muliebre, ma la speranza di sanarla un giorno e il tornaconto che trovava nel rimanere in quella casa, la indussero a celarla con cura. Durante tutta l'infanzia di Maria, ella dominò alla villa. Il padrone, per non staccarla dalla bambina, la conduceva 0121 seco nelle gite in mare, in carrozza e se andava a Palermo, a Napoli o altrove, Costanza lo accompagnava sempre. Il marito di lei, vedendo aumentare ogni anno i loro possessi, aveva finito per consolarsi della lontananza della moglie e non la richiamava più. Spesso, fino dal tempo in cui Maria aveva cinque anni, Robetto aveva voluto a fianco una signora, ma Costanza aveva tanto pianto, si era tanto disperata, che il padrone commosso avevale lasciato la cura esclusiva di Maria. Ma quando la bambina ebbe circa sette anni Roberto chiamò un giorno Co' stanza e le disse: La signorina deve essere educata ed istruita. Se volete continuare a starle vicina, dovete assuefarvi al pensiero che in casa venga una istitutrice. Se vi opponete, se istigate la bambina contro di lei, vi rimanderò alla Piana de' Greci. Questa volontà ferma fu significata con un tono calmo; che non ametteva replica e Costanza chinò il capo e non dette in ismanie. Fu allora che Roberto scrisse a Firenze per avere una istitutrice. Per più mesi non si parlò più dell'arrivo di quella, ma in quel tempo sopravvenne un cambiamento notevole nei sentimenti di Costanza. Alla villa era stato chiamato a lavorare il più abili: falegname dello stabilimento: Alessio, al quale il padrone voleva molto bene. A lui, per dargli un salario maggiore e anche per poterlo meglio sorvegliare; aveva affidato un lavoro importante, che consisteva nel rivestire di scaffali il suo stadio per collocarvi la biblioteca, che. cresceva continuamente, poiché Roberto riceveva invidi libri quasi ogni giorno. Quelli che si riferivano alla vinicoltura, alla chimica erano tutti allo stabilimento ma i libri di arte, di letteratura, di storia di archeologia stavano alla villa, perché il giovane studioso aveva diviso in due parti la sua vita: una dedicandola al lavoro 0124 - Addio, e tu come ti chiami? - domandò Alessio. Costanza Arcanica. Costanza la strega, ti chiamerò io. Perché? Non lo so; a te, mi pare, debban somigliare le streghe. Tu sarai orribile da vecchia, Costanza. E tu sarai sempre bello, Alessio. La voce di Maria si fece udire dalla sala, e Costanza uscì in fretta dalla stanza. La mattina dopo- l'operaio s'era appena rimesso al lavoro che la donna comparve. Buon giorno, Alessio, - disse. Buon giorno, strega. Ti ho stregato forse? Oh! no, - ribattè il giovane con fare sprezzante, Ci vogliono altre donne che te per un pari mio. Costanza abbassò il capo umiliata. Nessuno mi ha detto mai che fossi brutta. Bella non sei, - disse l'operaio avvolgendola in uno sguardo freddo sotto il quale Costanza tremò da capo a piede e non ebbe più coraggio di restare in quella stanza. A mezzogiorno trovò il mezzo di andargli a portar la colazione nel tinello e lo serviva attentamente. Alessio la lasciava fare e ogni tanto le gettava una parola dura, sprezzante per vederla fremere da capo a piede, per fissarla negli occhi lampeggianti. Perché non te ne vai, come dianzi? - le domandò a un certo punto. Perché preferisco il tuo sprezzo alla tua lontananza ; perché mi hai messo il fuoco addosso. E come lo vuoi spegnere quel fuoco? Con le carezze, - rispose ella, - e con un gesto rapido del braccio destro, gli cinse il collo e lo baciò sugli occhi. Poi fuggì ansante in giardino premendosi il cuore, allargandosi il colletto dalla camicia, come se si sentisse soffocare. 0125 In tutto il giorno non ritornò nella stanza in cui lavorava Alessio, ma la sera era ad attenderlo sul viale della villa, mentre Maria giocava alla palla a poca distanza. Addio strega! - le disse l'operaio quando le fu vicino, - L'hai spento il fuoco? No, ardo più che mai da che ho posato la bocca sul tuo volto, Alessio. Egli fece una mossa indifferente con la spalla e si mosse per andarsene. Ella lo trattenne e gli disse: Alessio, abbi compassione di me; sarò la tua schiava, amami. Ti farò felice. Ho in serbo tesori di tenerezza e li spargerò tutti sul tuo petto. Alessio, amami! Ne riparleremo, - rispose lui e avvolgendosi nel mantello breve, si mise a camminare cantarellando. Costanza rimase a guardarlo per un pezzo, mentre si allontanava fra le piante d'appio e le palmette, ferma e rigida come una statua; poi umiliata, a testa bassa tornò accanto a Maria. Nella notte seguente non dormì mai. Stendeva le braccia in cerca di lui, protendeva le labbra e lo vedeva nelle tenebre sempre dinanzi, con quel ghigno di sprezzo sulle labbra, quegli occhi affascinanti e quei muscoli di uomo forte. Se le veniva fatto di figurarsi che la stringesse fra le braccia poderose, sentiva un brivido correrle per la schiena e intravedeva mille voluttà ignorate nella breve vita coniugale. Oh! se mi amasse! - diceva mordendosi le mani, e le parole sprezzanti di lui tornandole alla memoria acuivano i suoi spasimi amorosi. Era "una febbre violenta che l'aveva assalita, uno di quei ribollimenti improvvisi del sangue che si verificano nelle nature ardenti, condannate a una lunga castità. Così smaniò tutta la notte e all'alba girava per la casa silenziosa iu attesa di Alessio, da cui non osava sperare 0126 conforto, spinta da un desiderio prepotente a rivederlo a implorare da lui la felicità. Nella mattina non potè mai parlargli, perché il padrone era insieme con Alessio, sorvegliandone e dirigendone il lavoro, e in quell'attesa la smania di Costanza si convertì in spasimo. Appena ella vide il padrone uscir fuori della villa, entrò di corsa nella stanza ov' era Alessio, e, senza parlargli, gli buttò le braccia al collo, baciandolo furiosamente sulla bocca. Strega, vattene! - le diceva Alessio senza però respingerla, lusingato da quell' ardente passione che aveva destato nella donna e infiammato dai baci di lei. Costanza non gli dava retta e continuava a coprirlo di carezze. Ora lo baciava sul collo, su quella linea scura che lo circondava come un nastro e diceva fra i baci : Come sei bello! Amore! Vita mia! Da quel momento die ella non si vide più respinta, correva di continuo da Alessio a baciarlo. Ma quei baci non smorzavano il fuoco che la consumava; erano a quella fiamma nuovo alimento. Un giorno Alessio le disse fissandola: Dimmi, strega, quando si fanno le nozze? Ella credè impazzire, benché fosse preparata a quella domanda. Stasera, durante il pranzo del padrone; aspettami nella grotta dopo la capanna del bagno; non ti far vedere da nessuno, sii prudente. Egli fece un gesto come per dire che lasciasse fare a lui: non era un novizio, e con la testa le indicò la porta. Al tramonto s'incontrarono nella grotta, ove l'acqua del mare penetrava nei giorni di burrasca, lasciandovi un letto d'alghe. E su quel letto umido, odoroso e cosparso di conchiglie e di frammenti marmorei, quelle due creature quasi selvagge si unirono senza pronunziare 0127 una parola. Costanza tenne tutte le sue promesse, e quando si lasciarono ebri ancora, egli le disse brevemente : - A domani sera, strega. Ah! dunque tu mi desideri ancora! - ella esclamò trionfante. Alessio non rispose e si allontanò sollecitamente per raggiungere la distesa delle alte piante di fichi d'India, fra le quali era più facile camminare senza esser veduto. Costanza lentamente tornò a casa pallida, con gli occhi ardenti; e salita in camera sua si gettò in ginocchio a pregar la Madonna che proteggesse il suo amore e le serbasse Alessio. Ella non aveva neppure il sospetto di commettere un sacrilegio, tanto la sua religione era impastata di reminiscenze pagane penetrate nella sua coscenza col sangue e di superstizione alimentata giornalmente dalla ignoranza. Nei primi tempi Alessio non mancò mai ai convegni e ora s'incontrava con la Costanza nella grotta marina, ora sotto le lunghe rame di una carrubba, che li avvolgeva col suo fogliame scuro, ora in una casupola abbandonata a poca distanza della villa. Poiché egli fu sazio delle carezze ardenti della donna, si fece pregare, supplicare, e quelle suppliche sollecitavano la sua vanità. Spesso le dava un convegno e poi mancava. Costanza dava in ismanie, pregava la Madonna, poi faceva le carte per vedere se era tradita e non riacquistava la pace altro che quando lo stringeva fra le sue braccia frementi di passione e lo vedeva desideroso di lei. In questo tempo Velleda giunse alla villa e Costanza non l'accolse ostilmente, perché sperava di avere maggior libertà ora che la signora si sarebbe occupata di Maria. Velleda, con la sua grazia tranquilla esercitò subito una specie di fascino su quella creatura quasi 0128 selvaggia. La signora era inoltre delicata, e la bellezza parla sempre alle anime meridionali e le induce alla simpatia. Poi Velleda non era superba; anzi parlava a Costanza con bontà e non le diceva di uscire quando talvolta divertiva Maria narrandole novelle meravigliose, che la contadina ascoltava a bocca aperta, che la distraevano dal pensare ad Alessio e l'aiutavano a trascorrere meno angosciosamente le ore in attesa dei convegni. Alessio aveva terminato di lavorare alla villa e Roberto lo aveva generosamente ricompensato. Ma la generosità del padrone invece di commuovere quell' anima pervertita; gli dette sete di maggiori guadagni. Allo stabilimento lavorava di più e era pagato meno. Fu allora che si diede a sobillare i compagni, spingendoli a chiedere un aumento di salario. Il malcontento, nato nell'officina dei fusti, si propagò ben presto ai magazzini, e un sabato sera, mentre Roberto era occupato a firmar lettere nello studio, si presentò un guardiano ad annunziargli che una deputazione di otto operai chiedeva di parlargli. A Roberto non erano sfuggite le mene e i chiacchierii di quegli ultimi giorni e capì subito di che si trattava, ma dette ordine che passassero. Alla testa degli operai era Alessio ed a lui gli altri lasciarono la parola. - Noi non possiamo continuare a lavorare alle condizioni di prima. - disse. - Vogliamo un aumento di salario. Lo stabilimento prospera e noi abbiamo diritto a viver meglio. Roberto s'era alzato e dominava tutti con l'alta persona. La sua bella calma non lo abbandonava. Non posso dare aumenti e anche se potessi non cederei mai dinanzi al tuo " voglio ". Alessio. Tu guadagni più degli altri e mi fa specie che tu osi lamentarti. - Io difendo i diritti dei miei compagni e sono con 0129 loro solidale. Se non abbiamo la promessa di un aumento, lunedì nessuno di noi si presenterà al lavoro. Ebbene; lo stabilimento rimarrà chiuso, - rispose Roberto. - Potete andare, e con un gesto della mano indicò agli operai la porta. Fuori gli altri attendevano e quando Alessio riferì la risposta avuta, si udirono fischi e grida. Roberto non s'intimorì per questo. Uopo aver firmato le lettere, guardò la pendola sospesa al muro e vedendo che indicava l'ora del desinare, si alzò, prese il cappello e traversato il piazzale uscì dalla porta dello stabilimento, passando in mezzo alla turba eccitata. Nessuno lo salutò, ma nessuno osò torcergli un cappello. Il lunedì mattina neppur un operaio andò al lavoro; ma il giovedì già cento si erano raccomandati per venire riammessi e il lunedì successivo anche Alessio tornava, insieme con gli altri della deputazione. In quella settimana aveva fatto baldoria e spesso alla sera era andato a cercar Costanza nella grotta per chiederle danaro, che ella gli dava tutta lieta, dicendogli : Prendi; tutto quello che ho è tuo: non sono tua io? Pochi giorni dopo che era terminato lo sciopero, Roberto aveva trovato Alessio in combriccola insieme con altri operai nell'ora del lavoro e aveva sorpreso queste parole : Abbiamo dovuto chinar la testa, ma verrà il giorno che la chinerà lui. Il padrone aveva fissato Alessio per fargli intendere di aver capito tutto, ma non aveva aperto bocca. Però, essendosi accorto in seguito che molti lavoravano svogliatamente, aveva chiamato Alessio e gli aveva detto : Se l'ordine e la disciplina non ritornano nello stabilimento, tu sarai licenziato. 0130 Perché io? - aveva domandato sfrontatamente Alessio. Perché tu sei il mal seme, che occorre estirpare. Ti ho ammonto più volte, ho cercato di ricondurti sulla buona via; tutto è stato inutile, peggiori sempre. Alessio era andato via borbottando. La sera dopo Roberto, tornando da Castelvetrano a cavallo seguito da un guardiano aveva sentito due palle fischiargli all'orecchio. Non aveva fatto denuncia, anzi aveva ingiunto al guardiano di tacere, ma la mattina dopo s'era rinchiuso insieme con Alessio nello studio e gli aveva detto : Tu hai voluto uccidermi ieri sera. Se ritenti il colpo e sei più fortunato, vai in galera, perché io ho scritto un rapporto del fatto, designandoti come colpevole. Per ora non ti denuncio, ma ti mando via. Esci subito. Alessio non aveva detto una parola a sua discolpa e se n'era andato. Alla fine della settimana erano licenziati i suoi amici, e da quel giorno l'ordine, la disciplina e il rispetto per il padrone avevano regnato nello stabilimento. Però da quel momento era incominciata una vita d'inferno per Costanza. Alessio non aveva trovato lavoro non voleva andarne a cercare a Marsala e viveva alle spalle di lei. Prima le aveva finito tutti i risparmj, poi le aveva preso le gioie, e se la donna non si mostrava arrendevole, egli stava giorni e giorni senza farsi vedere. Più volte le aveva chiesto di farlo entrare di notte alla villa, per non esser sorpresi nella grotta o in aperta campagna, ma ella si era sempre rifiutata per timore d'essere scoperta dal padrone. Dopo la partenza di Roberto aveva ceduto ed Alessio era stato diverse notti nella camera di Costanza, salendo da una scala di corda che ella gettava già dopo le undici prima che la signora sciogliesse i cani e si ritirasse in camera. Un indugio di Velleda nella sera fatale aveva 0131 portato all'arresto d'Alessio, e ora nella camera che le rammentava tante voluttà, la selvaggia contadina in preda alla smania malediceva la signora e con la mano alzata in alto minaccioso, diceva: Madonna, fate che possa soffrire quanto soffro io!

Io, io non so neppur quello che sono; le circostanze della vita mi hanno gettato nella politica e seguo la corrente, ma ciò non esclude che abbia un profondo rispetto per l'uomo che farò di tutto per distruggere come competitore. Sono sincero con te, siilo con me pure. L'altro esitava e l'Orlando riprese : Ragazzo, da me hai tutto da guadagnare; ma le tremila lire che esigi non le avrai mai. Piuttosto ti faccio una proposta; che cosa vuoi quando sarò deputato? Una piccola somma si finisce presto, specialmente quando si ha il vizio di giocare; un impiego resta, sentiamo, quali sono le tue ambizioni? Il Bonaiuto riflette un poco. - Ho la licenza tecnica, - disse, - vorrei un posto nell'amministrazione delle finanze. L'avrai, ma parla. I Buonaiuto narrò tutto quello che sapeva. - Pettegolezzi! - esclamò l'Orlando per deprezzare il valore del segreto comunicategli; ma in cuorsuo esultava. Il colpo, il gran colpo lo avrebbe fatto assai prima delle elezioni, e così egli sarebbe rimasto padrone del campo. L'avvocato scrisse tutta la notte, seduto comodamente sulla poltrona nel suo studio, pensando alla quarta medaglia d'oro che avrebbe aggiunto alle altre, mentre Franco, spinto sulla via del male, vegliava anche lui. Nel tornare a Selinunte contento della perfidia commessa, rivelando al Bonaiuto un segreto che riguardava Velleda, aveva trovato una lettera di donna Paola. L'innamoratissima signora scriveva spesso al duca ed era indulgente con lui anche quando non riceveva risposta. In quella lettera ella gli raccontava di essere stata a Vallombrosa un mese senza ottener nessun giovamento alla sua salute. Molti medici mi hanno visitata - continuava, - ma chi attribuisce il mio deperimento e la mia spossatezza a una malattia interna, che mi cagiona tutti questi disturbi nervosi, chi a una tisi lenta, ma progressiva. I primi non li ascolto, i secondi li accarezzo affinchè mi prescrivano di passar l'inverno in un paese senza venti freddi e senza geli, in un tepido paese come la Sicilia. Già il pensiero di un inverno nell' isola dove lei si è rifugiato, mi rende un barlume di vita e di energia. Ella, mio caro don Franco, molto probabilmente dunque riceverà fra un paio di mesi l'invito di recarsi a Palermo e mi allieterà, spero, quel soggiorno. Se il sogno si realizzerà, io sarò accompagnata soltanto da Lavinia e dalla mia cameriera, e non vorrò veder altri che lei. Non può credere quanti importuni disoccupati si mettano d'intorno a una malata. A Vallombrosa, per mia disgrazia, ho incontrato l'on. Gelsi, l'elegante sottosegretario al Ministero dell'Interno, che non mi lasciava un momento e ora, appena tornata a Roma, mi assedia di visite. E un uomo insulso che mi annoia, ma che debbo ricevere perché mio marito ha la fisima della deputazione e naturalmente vuole l'appoggio del Governo. Quando glielo avrò assicurato, chiamerò a raccolta i medici che mi credono etica e mi farò prescrivere l'aria di Palermo. Oh come sarò felice il giorno in cui partirò lasciando mio marito a consolare l'on. Gelsi! "Non le porterò, caro amico, un viso afflitto; la gioia della partenza e l'ineffabile piacere di posare il piede sulla terra siciliana faranno di me un'altra donna. Ella mi vedrà sorridere sempre, mi vedrà sempre in moto, allegra e attiva, mi vedrà molto diversa dal passato. Si sarà accorto che noi donne siamo tali quali vogliamo apparire e che la volontà di piacere rende belle anche le brutte. Io voglio essere per lei un' allegra compagna di escursioni, una amica lieta e così sarò, stia sicuro. A presto dunque. " Franco leggeva sbadatamente le lettere della marchesa e spesso le dimenticava appena lette. Non fu così di quella. L'accenno ai rapporti fra il sottosegretario agli Interni e la sua devota adoratrice, lo fecero a lungo riflettere. Le idee perverse, dopo sorta la prima, scaturivano nel suo cervello, come i funghi dalla terra dei boschi dopo le piogge autunnali. Sorgevano, tina accanto all'altra, e tutte nascondevano in se maggiore o minor dose di veleno. Roberto, Velleda, quei due nomi che gli venivano sempre uniti alla bocca, quelle due figure die vedeva sempre avvinte in un abbraccio d'amore, alimentavano i suoi malvagi sentimenti, non lo facevano l'idre dinanzi ad alcuna bassezza. Perché non avrebbe tratto partito dall'amicizia dell'onorevole Gelsi per donna Paola, a fine di ottenere che il Governo combattesse la candidatura di Roberto? Non esitò un istante e prese la penna : "All'amica devota nella sventura, alla cara e buona amica, posso fare una confidenza, " scriveva alla marchesa dopo alcune parole di compianto per lo stato di salute di lei ". Mio fratello, spinto da una ambizione che, certo, qualche malvagio deve avergli soffiato nell'ammo, s'è ingolfato nella politica e non pensa ad altro che a farsi eleggere a Castelvetrano, contro l'onorevole Orlando, amico del Ministero e antico deputato di qui. Dirle tutti i danni che questa elezione recherà a Roberto e a me, è inutile; li capirà da sé. Mio fratello è alla testa di un importantissimo stabilimento industriale e si era addossato la liquidazione del mio patrimonio. Una volta deputato trascurerà il primo e abbandonerà i miei affari. È dunque la rovina che ci aspetta. Inoltre, se sarà eletto, io dovrò sostituirlo qui e allora addio ai ridenti disegni per l'inverno, addio riunione vagheggiata a Palermo! Se lei, cara marchesa, ha veramente affetto per me e se desidera vedermi per più mesi nel suo salotto, usi di tutto il potere che ha sull'on. Gelsi per ottenere che il Governo appoggi la candidatura dell'Orlando. Tutti gli amici del Governo e dell'ordine lo applaudiranno, perché Roberto ha fatto un programma assolutamente sovversivo, per assicurarsi i voti del partito operaio. Io rimetto la mia, la nostra causa nelle sue mani che bacio lungamente con affetto. Il giorno dopo questa lettera partiva dalla posta di Ca. stelvetrano, nel medesimo sacco in cui erano quelle dell'Orlando e le dimissioni del Bonaiuto da corrispondente della Trinacria TrinacriaSe le lettere parlassero fra loro durante il viario esse avrebbero potuto fare un dialogo abbastanza animato.

Portate la carta bollata, perché il foglio abbia più valore, e se domani sera mi consegnerete ciò che voglio, vi darò cento lire. Non potreste darmene subito la metà? Devo figurare domani in certo modo; pagare il nolo del cavallo ... . Ma se avete detto che ve lo imprestava un amico? Si, ma anche lui ha diritto a qualcosa. Eppoi, non posso presentarmi come uno straccione! Va bene! va bene! - disse l'Orlando per tagliar corto, - eccovi cinquanta lire e le altre al ritorno; so non riuscite non avrete altro. La mattina dopo il Torres mandava il suo biglietto, fregiato da una corona comitale, al duca d'Astura. Egli si rammentava bene dell' individuo, ma tremò; ogni messaggio che gli giungeva da quella combriccola genia, fra la quale aveva un creditore di giuoco, turbava immensamente. Il polso si alterò di nuovo, sangue gli salì alla testa. Fate salire quel signore, - disse a Saverio. Pettinato come un garzone di parrucchiere, con i capelli che gli formavano una frangetta sulla fronte bassa, andando a toccare le sopracciglia folte, riunite, e nere come gli occhi, che parevano prolungati col kolk, con i baffi arricciati, il Torres, serio e grave si presentò in camera di Saverio, e lo salutò battendo insieme i tacchi guarniti di sproni. Un paio di calzoni celestini a grandi quadri, una sottoveste di velluto a fiori su cui ricadeva una cravatta rossa e un vestito color nocciola, davano a quella figura snella, ma stanca, un aspetto strano. Il Torres in città sarebbe stato guardato con disprezzo da quanti lo avessero incontrato di sera in una via deserta. Pareva uno di quegli individui che vivono alle spalle delle donne perdute e si sarebbe detto che non solo si tingesse le ciglia, ma s'impiastricciasse il viso con la polvere di cipria, tanto era bianco. In tutta la persona poi aveva un so che di molle, di effeminato che ripugnava. Franco era a letto e rispose con un breve saluto a quello inchinevole del visitatore, il quale prese posto sopra una poltrona bassa e incominciò recitare molto abilmente la lezione, con voce alquanto nasale e monotona Finché il Torres parlò delle apprensioni dell'onorevole Orlando e di tutta la nobile compagnia - le parole "nobile" e "gentiluomo" erano quelle che più spesso uscivano di bocca a quel figuro - per la preziosa salute del duca, questi, che da principio si era turbato, rimase calmo; ma quando con una lunga circonlocuzione venne a dire del debito, Franco divenne livido e troncandogli la parola, dimandò imperiosamente. Dunque, che cosa vuole? Eccellenza, - rispose allora facendosi umile umile il Torres, - per la morte o per la vita, l'onorevole Orlando desidera due righe, due rigue soltanto ... . Sono pronto a fargliele, - e prese il taccuino per vedere la cifra precisa del suo debito, che ammontava a mille e ottocento lire. L'altro, tutto umile a servizievole, portò una cartella e un calamaio a Franco e gli stese davanti la carta bollata. Date, - disse il duca. Due righe soltanto, - rispose il Torres; e prese a dire: " Io sottoscritto dichiaro di esser debitore verso l' onorevole Orlando, per una differenza di giuoco ... . " qui si fermò perché anche a lui pareva enorme. Avanti! - ordinò Franco che aveva terminato di scrivere. " ... per una differenza di giuoco, - ripetè l'altro; di tremila lire. Franco ebbe voglia di accennare la porta a quell' antipatico mandatario di uno strozzino, ina si trattenne. Era assuefatto a vedersi mangiar vivo, e quella scenetta era una meschinità in confronto a tante altre di cui era stato l'attore principale. Però, con voce ferma, disse: Il mio debito reale è di mille e ottocento lire; si vede che l'aggio del danaro e molto alto a Castelvetrano. Siamo in momenti di elezioni, - rispose l'altro spudoratamente, - e i quattrini scarseggiano. Quella parola fu un lampo per Franco; il quale indovinando a che cosa doveva servire la lettera, scrisse la cifra richiesta e firmò senza esitare. Il Torres lo ringraziò e volle stendergli la mano prima di uscire. Franco finse di essere occupato a riordinare alcuni fogli nella cartella, per salutarlo soltanto col capo. Ma il Torres seppe fare a meno del saluto, e nel consegnare più tardi la dichiarazione all'Orlando; gli strappò non solo cinquanta, ma cento lire. Potete darmele, - gli disse; - cerche questa leiterina non solo vi fa guadagnare più di mille lire, ma vi porta cento voti. L'altro sorrise e ripose la carta nel portafogli. Era un sabato, giorno in cui Velleda non voleva mancare al pranzo degli operai, e nonostante ella avesse la morte nell'anima e si sentisse sopraffatta dal timore di vedere svelata a tutti la sua vergogna, pure si diresse insieme con Maria verso il capannone della cucina quando già mezzogiorno era suonato allo stabilimento. Gli operai erano seduti dinanzi alle tavole e mentre per solito tutti si alzavano vedendola comparire e la salutavano sorridendole, quel giorno molti rimasero seduti, fingendo di essere intenti a mangiare. Velleda impallidì e mentre quel fatto non l'avrebbe forse colpita se fosse accaduto un altro giorno, in quello le ghiacciò il sangue. Quale nuova perfidia avevano inventata per alienarlo l'animo di quella gente primitiva e impressionabile? Ella era coraggiosa però e con passo sicuro si diresse verso la cucina, passando attraverso le tavole. Alcuni operai; sentendola avvicinare, non avevano potuto ostinarsi a non vederla e si alzarono; molti, invece, voltarono la faccia da un altro lato sfacciatamente e fra questi erano tutti i lavoranti all'officina dei fusti, i compagni di Giovanni, e di Alessio. Il vecchio Federigo, che soleva intonare ogni giorno le preghiere, si accorse del fatto e rimanendo ritto, dopo aver salutata la signora guardava ora gli operai seduti ora quella, senza sapersi spiegare il perché di quell'insolito sgarbo. Velleda aveva voglia di piangere e celava le lagrime sotto un forzato sorriso diretto al vecchio. Passò rigida e si accostò ai fornelli per assaggiare al solito le pietanze; ma non polo mettersi nulla in bocca; presa da una nausea fisica e morale. Scrisse però i buoni per il lunedì e la lista del desinare e per non ripassare attraverso gli operai; come faceva sempre, usci subito da una porta a fianco dei camino, trascinandosi dietro la bimba, e invece di tornare alla villa, dove Roberto l'attendeva, entrò nello stabilimento, rifugiandosi nell'ufficio del Varvaro. La prego, faccia accompagnare Maria da suo padre, io ho bisogno di rimaner qui un momento, - disse con voce soffocata. Il direttore eseguì l'ordine e, tutto turbato; tornò presso la signora, la quale, accesa in viso, con gli occhi pieni di lagrime, gli narrò la scena avvenuta poco prima, commossa, offesa dalla ingratitudine di quella gente. Oh! Dio, com'è dura la vita! - diceva Velleda. Non ci sarà dunque mai, mai pace per me! Signora, - rispose il Varvaro, - sorveglierò gli operai, sorprenderò i loro discorsi per indovinare il motivo di quest'improvvido cambiamento rispetto a lei, che ieri ancora era il loro idolo. Io non capisco più nulla! Qui bisognerebbe credere a un potere occulto, perché avvengono cose che non si spiegano. Come mai essi, siciliani, cioè cavaliereschi per tradizione e per indole, sono scortesi e villani con una signora? Pareva che il Varvaro facesse tutte queste interrogazioni a se stesso, quando le tre donne, che cucinavano per gli operai, si affacciarono sull' uscio della direzione e stavano per entrare, ma nel veder Velleda, ristettero. Che cosa succede? - domandò il Varvaro. Direttore, - dissero le tredonne a una voce. Quasi tutti gli operai hanno ricusato d'inscriversi alla cucina per la settimana ventura. Si lamentano forse del cibo? - domandò egli. No, anzi, dicono di preferire il pan solo alle pietanze che sanno di furto. Velleda; che era rimasta in fondo alla stanza, balzò in piedi. E chi dice questo? - chiese imperiosamente. Giovanni e gli altri suoi compagni. Dugento son quelli che hanno ricusato il vitto per la prossima settimana. Andate pure. - ordinò Velleda, - il direttore darà domani gli ordini. Quando fu rimasta sola con lui, esclamò: Ma questa è una congiura, una congiura che parte di là! - e accennava le finestre di Franco, tutte chiuse. Lo credo, purtroppo, - disse il Varvaro, - ma la sventerò. Velleda scrollò mestamente il capo. Non lo spero, - diss'ella. - La lealtà non ha mai trionfato dell'inganno ne della perfidia. Ma è orribile di sentirsi avvolti in una rete d'insidie; di temer sempre, senza poter sventare i colpi! Cento volte meglio una pugnalata che vi fredda, piuttosto che quest'agonia continua che vi fa soffrire nel presente e nell'avvenire. E che diremo al signor Roberto? - soggiunse ella, dimenticando sé per pensare all'amato, all'idolo suo al quale avrebbe voluto risparmiare ogni pena. La verità! - esclamò il Varvaro. - Egli è il padrone e deve sapere tutto quello che avviene fra i suoi operai. No! no! - rispose Velleda. - Per il momento serbi con lui un silenzio assoluto; ho bisogno prima di riordinare le idee, e se deve sapere quello che accade, lo saprà da me. Mi aspetterà, - disse subito, - debbo correre alla villa, - e ricomponendo il viso usci dalla porta che dava sul mare, per non incontrare alcuni operai che ritornavano in città. Come mai questo ritardo? - domandò Roberto che l'attendeva ritto sulla porta della sala da pranzo, che metteva in giardino. Avevo alcuni affari da regolare col direttore, disse quella sublime creatura, atteggiandola bocca a un sorriso, e dominando l'orribile agitazione che le faceva martellare le tempie e le mozzava a momenti il respiro, si sedè a tavola e mangiò come nei giorni lieti. Ma ogni boccone che inghiottiva era come una pietra che le cadeva nello stomaco e parevale di morire. Nonostante, ebbe l'eroismo di parlare, di sorridere. Se Roberto avesse saputo quanto le costava ognuno di quei sorrisi, si sarebbe sgomentato della profondità del sacrifizio che compieva per lui; ma Roberto, in quel giorno, non pensava ad altro che alla ferrovia elettrica di cui dovevano farsi le prime prove nel dopopranzo. Vuole assistervi? - domandò a Velleda. Me ne dispensi. Debbo andare a Castelvetrano per fare alcune spese, - diss'ella, Ebbene, assisterà alle seconde; faccia voti perché riescano, - disse Roberto. - Non può credere quanto io sia felice di risparmiare ai miei buoni operai la fatica giornaliera di una lunga gita sotto la sferra del sole. Velleda non rispose e pensava fra se: Se sapesse! Se sapesse! Verso le cinque ella faceva attaccare e insieme con Maria andava in città, salendo subito da don Achille Moltedo. Voleva un consiglio dal vecchio aulico di Roberto e gli chiese un momento di colloquio. Senza esitazioni, senza false vergogne, gli narrò tutto: la sua vita, le sue sventure, le persecuzioni del duca, gli attacchi della Trinacria e quell'ultima sanguinosa offesa inflittale dagli operai. Pianse la povera donna lagrime di dolore e di vergogna; pianse tanto che i suoi occhi non vedevano più neppure la faccia bonaria di don Achille sulla quale si rispecchiavano tutti i dolori di lei. È Franco, l'istigatore di tutte lo perfidie. Era un inetto a Roma; qui nella solitudine è divenuto un malvagio. L'ho presentito subito quando ho visto quella faccia scialba e notata. Qui egli è capitato in mezzo a una masnada d'intriganti, in mezzo all' elemento peggiore del paese, dove hanno solleticato le sue vanità e i suoi vizi, ed ecco l'opera sua. Esso la tortura sicure di colpire anche suo fratello. Ma io conosco Roberto. Velleda, lo conosco fino da bambino, e la sua dolcezza, la sua mansuetudine sono uno sforzo di volontà. È di una violenza tremenda e vedendo offesa, perseguitata una donna che rispetta altamente, non so di che sarebbe capace. La prego, se anche si accorge del disprezzo che le dimostrano gli operai; non gli palesi i suoi sospetti; non gli dica mai che Franco è l'agitatore di tutto per dispetto amoroso, non gli riferisca la scena della. barca. Sono vecchio, mi ascolti se non vuoi veder il sangue bagnare la spiaggia di Selinunte; se non vuoi che Roberto divenga fraticida! Ma che devo fare allora, che devo fare? - disse in atto di supplica Velleda, sgomentata più che mai dalle parole di don Achille. -Resti in casa; è abbastanza ammalata, abbastanza scossa per dire che si sente male; non esca dalla sua camera. Così eviterà gl'insulti di quei traviati e le persecuzioni di Franco, al quale io le prometto di parlare richiamandolo al dovere. Sia il giornale che promette la mia biografia? Lasci che la stampi. Roberto conosce la sua vita; gli onesti la compiangeranno, ai disonesti non pensi, essi non sono capaci di apprezzare una vita come lausa. Oh! l'inutilità dei sacrifizi! - esclamò Velleda. Si asciughi le lagrime. Sento che mia moglie si avvicina insieme con Maria. Si calmi.

Poi tacque, ma di li a poco, pentendosi della spiegazione data, si alzò e ponendo una mano sulla spalla di Roberto, che era tuttavia seduto, disse : Però sia vigilante, mio buon signore: io credo che abbia attirato in casa sua un serpente, - e come se non volesse dir altro, gli augurò da lontano la buona notte. Un sospetto balenò nell'animo di Roberto. Velleda mi nasconde qualcosa, - egli pensò, ma un momento dopo quel dubbio era distrutto dalla sicurezza che ella non potesse celargli nulla, assolutamente nulla, e attribuì anch'egli a un sovreccitamento nervoso, cagionato forse dalla lunghissima estate, quella tendenza che aveva riscontrata in lei negli ultimi tempi, di dar corpo alle ombre. Rammentava il loro recente dissidio rispetto ad Alessio e lo sgomento di Velleda, trovandosi discorde con lui nel giudicare quell'infelice. Non era anche quella una prova di una specie d'iperestesia del sentimento che aveva una causa morbosa? E allora egli, l'uomo casto, il castissimo amante, che aveva però indagato i misteri fisiologici, capì che il loro amore, fatto tutto di rinunzia, doveva fiaccare quel delicato organismo muliebre e maledì l'ostacolo, che impediva di farla sua, di ristabilire l'equilibrio in quella creatura adorata, che soffriva per lui, priva della vita fisica, alla quale non si rinunzia impunemente. La sua camera, testimone di tante lagrime versate in silenzio, di tante lotte acerbe fra la passione che lo spingeva a far di Velleda la sua amante, la donna sua, e l'affetto e il rispetto che gl'ingiungevano di non avvilirla, di risparmiarle ogni dolore e ogni rimorso, gli parve deserta, fredda, vuota di lei. Quante volte in quella camera, dove riducevasi stanco del duro lavoro giornaliero che si imponeva, non aveva saputo procurarsi il sonno! Quante volte non aveva desiderato ardentemente di sentire la guancia di Velleda sul proprio petto, di vedersela dormire accanto, di stringersela fra le braccia fremente di passione! Tante volte, invece, si destava di soprassalto sognando lei avviticchiata alla sua carne, ed allora balzava dal letto spaventato della sua solitudine e in tutta la notte non poteva liberarsi dai fremiti che il sogno gli aveva messi nel sangue. Allora spalancava la finestra e si affacciava a contemplare il mare, il solo confidente delle sue insonnie e dei suoi spasimi. In quelle notti, egli, nel pieno vigore della gioventù, invocava la vecchiaia, la decrepitezza, che avrebbegli impoverito il sangue, indebolito i muscoli, costringendo al silenzio tutti i desideri, che non erano in lui destati dalla donna, ma da una sola donna, l'unica che avrebbe potuto calmarlo, l'unica che gli faceva sentire la vita. Come erano terribili quelle notti, e ora un'altra se ne preparava. Era bastato l'eccitamento nervoso di Velleda, la ricerca della cagione, per fargli sentire quanto era incompleto il loro amore, quanto era relativa la loro felicità! Ebbe una ribellione contro la dura legge che costringe una creatura onesta a rimanere unita a un colpevole, che costringe una donna a rinunziare all'amore o a farsi colpevole se ha la sventura di esser la moglie di un forzato. E questo pensiero lo condusse a esaminare tanti lati ingiusti della nostra legislazione, eredità di altri tempi in cui le creature attingevano nella speranza di un premio futuro la forza di sopportare le sventure, in cui si credeva che un disgraziato fosse un eletto. Ora che la fede in quel premio è quasi morta, che la vita presente ha acquistato un valore molto maggiore, che ognuno sente il diritto di avere sulla terra la sua parte di felicita, la legislazione appariva a Roberto, una mostruosità e la missione del legislatore gli si presentava dinanzi agli occhi più utile di ogni altra, e assai più bella, poiché abbracciava un campo estesissimo, immenso. E a mano a mano che pensava alla sua missione futura, a tutto il bene che poteva fare, il cuore palpitava di nobile ambizione, e i sensi si calmavano come per incanto, sotto la tensione del pensiero, i desideri si trasformavano e si purificavano in un solo desiderio: quello di diminuire il numero degli sventurati, di aumentare quello dei felici. La mattina dopo il suo volto non serbava traccia delle lotte della notte e quando scese a colazione appariva calmo è sereno. Velleda, anch'ella, era più calma. Il Lo Carmine le aveva mancato la Trinacria con la dichiarazione del Bonaiuto ed ella credeva di aver ridotto al silenzio quel giornale, che si guardò bene dal far vedere a Roberto. Ella, con cura costante, cercava di non largli sentire le pene che procura ad ogni candidato una elezione e a questo lavorava la buona creatura pazientemente. Saverio disse che il signor Franco era ancora malato e non si sarebbe alzato. Fra Velleda e Roberto fu stabilito di mandar la carrozza a prendere il medico, e intanto la signora ordinò a Costanza di recarsi allo stabilimento por curare il malato. Quando la sottana rossa della contadina comparve fra le portiere chiare della camera del duca, questi, come mosso da una molla invisibile, alzò la testa dai guanciali e il suo viso livido si animò tutto. Costanza si accorse che la sua presenza faceva piacere al signore e accostandosi al letto gli augurò il buongiorno e si diede a raccomodargli le coperte, con quell'aria di padronanza che sogliono prendere le donne quando un malato viene affidato alle loro cure. Non puoi credere, Costanza, - disse il duca, tanto per attaccar discorso, - quanto ti vedo con piacere! Me ne accorgo, - rispose ella abbassando le lunghe palpebre con una mossa civettuola della tosta. - Volete che vi faccia un complimento? Vi siete portato bene con lei in questi ultimi giorni: ora vi temerà meno. No, Costanza, mi teme lo stesso. Tutte le mie gite a Castelvetrano sono state inutili. Sappiate aver pazienza, - diss'ella, - chi sa aspettare vince sempre: vinceremo tutti e due, non dubitate. Senti, - disse il duca; cui balenò un pensiero malvagio, - lei vuoi far eleggere deputato mio fratello e deve aver le sue mire. Le conoscete? - domandò Costanza. Le indovino. Qui tutti son venuti a sapere molte cose sul suo passato; molte cose brutte. Ella sente che non è più terreno per lei e si vuoi far condurre a Roma; capisci ora? E Maria? - domandò la contadina impallidendo. Maria andrebbe con loro: non è forse il preteste col quale ella copre il suo amore? E io? Tu rimarrai a Selinunte; ti lasceranno a guardia della villa; Velleda non condurrà nessuno di qui per tema che parli. Signorino, - disse la donna stringendo i denti, signorino non fate eleggere il padrone. Io non posso far nulla, Costanza, ma tu puoi far molto. Fá capire agli operai che Roberto, una volta a Roma, avrà altre mire e lo scopo della sua vita non sarà più la prosperità dello stabilimento. Lontano lui, tutto andrà a rotoli qui e in capo a poco tempo dovranno chiudere. Ho capito, - disse Costanza, lasciate fare a me, signorino. Quella perfida non porterà a Roma la cara figlia mia! Queste parole furono pronunziate con un accento di così profonda sicurezza, che Franco trasalì di gioia. Senti, Costanza, ti voglio rivelare una cosa, disse il duca prendendola per la manica e attirandola a sé. - Sai, quella superba, quella che fa la padrona in casa di mio fratello, ha il marito in galera per ladro! Oh! Gesù mio! - fece la donna coprendosi la faccia. Il duca aveva calcolato giustamente l'effetto di quelle parole. Per il popolo siciliano, che al pari di molti altri popoli d'Italia, ha tanta indulgenza per i colpevoli di delitti di sangue, il furto è il più infamante di ogni reato, perché non è scusato dal risentimento o dalla vendetta. Gesù mio! - esclamò ella, - la moglie di un ladro! Si, di un ladro, - ripetè Franco per imprimerle bene nella mente quelle parole. Quella rivelazione fece esultare Costanza. Ah! ora avrebbe preso tutte le rivincite possibili, ora avrebbe sfogato liberamente tutto l'odio contro di lei! Franco vide che ella stava per uscir di camera e la richiamò per raccomandarle di non dire che la notizia veniva da lui. Oh! non dubitate! - esclamò ella, - voi non sarete compromesso, ma in cambio del piacere che mi procurate, io ve la darò nelle braccio; fidatevi di me! E mentre il duca rimaneva a letto fidente nella promessa di Costanza, questa scendeva sul piazzale dello stabilimento in cerca di Giovanni, del suo alleato. Ella sapeva comporsi in volto così indifferente che non pareva più la stessa di pochi istanti prima, e Roberto che la vide credè che la curiosità sola di guardare i carrozzoni della tramvia elettrica l'avesse attratta in quel luogo. Ella girava e rigirava intorno ad essi sperando che dal portone aperto dell'officina ove si fabbricavano i fusti, Giovanni vedesse la smagliante sottana rossa di lei; ed egli la vide infatti, mentre con le braccia nude e le maniche rovesciate batteva col martello pesante i cerchi di ferro intorno alle doghe, e dinanzi a lui le fiamme del forno s'inalzavano rossastre facendo apparir pallidi i raggi del sole, che dal portone spalancato entravano nell'officina. L'operaio finse di non aver veduto Costanza e continuò a battere finché il cerchio giunto al punto più stretto del fusto scivolò giù da sé. Dopo aver dato un colpo al nuovo cerchio più stretto, Giovanni posò il martello e asciugandosi con il palmo della mano la fronte grondante sudore, uscì nel piazzale dirigendosi verso una delle fontane. Costanza avealo atteso e si trovò sul suo passaggio. Senza guardarlo, ella disse : Oggi nella grotta. Dirai ai compagni che ti trattieni a fare il bagno. Giovanni fece un cenno lieve col capo per dirle che aveva capito e si accostò alla fontana. Costanza ritornò in camera di Franco e accostatesi al letto gli prese una mano portandosela alle labbra: Che siate benedetto! - disse piangendo di gioia

Eppoi non crede ella che l'ambiente abbia poca influenza sull'animo nostro! I noiati, gl'infelici, portano seco ovunque il loro tedio e il loro dolore, e sono essi soli che incolpano il paese in cui vivono, la gente che li circonda, di esser cagione della tristezza della loro esistenza. Spesso ci rammentiamo con piacere di un luogo e ci pare bello e ridente, perché nel breve tempo che vi abbiamo passato eravamo lieti e predisposti all'ammirazione. Se ci torniamo in condizioni d'animo diverse, non ci par più quello. Ovunque si lavora, ovunque c' è attività, ovunque mi posso rendere utile, io sono felice, relativamente, e mi sento vivere, come qui. Bisogna che io impari da lei; voglio farmi suo scolaro anch'io; qual lavoro mi assegna? - domandò Franco in tono leggermente ironico. Per ora nessuno; domattina, se le annoia di venir qui per la seconda colazione, posso fargliela servire allo stabilimento, come la faccio servire al Varvaro. Visiti i magazzini, s'imbarchi se vuole, sull'yacht, monti a cavallo. Il Varvaro penserà a darle una buona guida. Nel dopopranzo, se non le dispiace, andremo a Castelvetrano. No, no, - rispose Franco, - odio le piccole città dove siamo guardati come bestie feroci. Mi lasci vedere la villa, passeggiare e montare a cavallo; a Castelvetrano vi andrò il meno possibile. Allora lo aspetterò a mezzogiorno. Franco non aveva nessuna voglia di andarsene e Velleda, che vedeva Maria mezza addormentata sopra un sofà, in sala, la prese fra le braccia e presentatala allo zio, perché la baciasse, alzò il volto della bambina fino a quello di lui e poi si allontanò per portarla alla balia e farla mettere a letto. La signora in quell' atteggiagiamento affettuoso, quasi materno, con gli occhi fissi sulla Maria, era cosi graziosa, che Franco la seguì con lo sguardo e quando la vide ritornare, non seppe resistere al desiderio di domandarle: È maritata? ha figli? Sono vedova e ho perduto una cara bambina, che avrebbe l'età di Maria e portava lo stesso nome, - rispose Velleda brevemente. Ho capito subito che ella era stata madre, - osservò Franco. - Non si vuol bene ai bambini altrui, se non si è imparato a voler bene ai proprj. Non sono del suo parere, - replicò Velleda che voleva riportare la conversazione sopra un terreno generale. - L'affetto della donna per le creature deboli non è soggettivo, come ella afferma. La donna ama i piccini per istinto, e le giovanissime maestre degli asili d'infanzia e delle classi elementari adorano i loro scolaretti obbedendo a quell' istinto. Una madre, anzi, separata dai proprj figli o privata di loro dalla morte, deve essere o molto indifferente o molto forte di carattere per affezionarsi ai figli degli estranei. Dunque lei è molto forte? Forse. Non è una virtù, nè un pregio per una donna. Se tornassi bambina e potessi dirigere la mia educazione, invece di studiarmi di esser forte, vorrei esser debole, inetta a ogni lavoro della mente, superstiziosa, devota: una donna vera insomma. Noi, che abbiamo studiato, che abbiamo una personalità, un carattere proprio, siamo generalmente molto infelici, se non sappiamo assuefarci alla ostilità e alla gelosia degli uomini, che vedono in noi altrettanti pericolosi concorrenti, e al disprezzo delle donne ignoranti. È vero che la coscienza del nostro valore, della nostra forza, ci da compensi talvolta sublimi, ma è anche vero che siamo prive di tante soddisfazioni veramente femminili e che dobbiamo camminar sole nella vita per non correre il rischio di cadere sotto il dominio di un uomo volgare, il quale fa pagare alla povera creatura che riduce sua schiava, tutte le ferite alla sua vanità maschile, che egli ha sofferto non solo per lei, ma per colpa di tutte le donne che hanno fatto sforzi per inalzarsi. Peraltro, se noi incontriamo un uomo di sentimenti generosi, privo d'insulse vanità, che ci stima e ci ama appunto per il nostro valore, gustiamo una felicità che la comune delle donne non sogna neppure; ma gli uomini di quel genere sono rari,rarissimi; sono nature quasi divine, e crescendo, come fa ogni giorno, il numero delle donne che anelano ad avere la loro parte nella vita del pensiero e del lavoro, cresce quello delle infelici. Queste teorie non mi pare che le applichi; perché istruisce Maria? Perché il signor Roberto così vuole e per questo mi ha posto a fianco di sua figlia. Per credere alla verità della mia massima, bisogna aver lottato e aver sofferto; bisogna essersi trovate in mezzo alla fiera battaglia fra uomini e donne, combattuta da queste per rivendicare il loro diritto al lavoro dell'umanità; da quelli per impedire soprattutto che questo diritto sia riconosciuto e che nella divisione i loro interessi vengano lesi da una falange di volonterose, che portano nel nuovo campo della loro attività forze giovanili e quello zelo proprio dei neofiti. Ma vedrà quante vittime cagionerà questa battaglia! Il vero debellato sarà l'amore, perché gli uomini, meno quei pochi eletti di cui ho parlato prima; non lo capiscono altro che come un sentimento da padrone a schiava e quando vedranno nella donna la loro eguale, non sapranno amarla e le unioni legittime o no saranno determinate dall'interesse soltanto, senza poesia, senza passione; saranno vere associazioni costituite da due persone capaci di menare avanti col loro lavoro la costosa baracca della famiglia. L'eguaglianza dei diritti porta all'uguaglianza degli obblighi e la donna in questa associazione avrà la soma più pesante; perché oltre a quelli nuovi, non potrà rifiutare i vecchi, che la natura le impone, i suoi doveri verso i figli. Franco ascoltava attentamente Velleda, fissandola. Quella donnina, che pensava ai problemi sociali, che parlava con quella voce armoniosa e con quella grazia femminile di cose che egli non aveva mai sentito trattare da altre donne, lo incuriosiva e lo meravigliava. Questa meraviglia peraltro non era suscitata da un sentimento alto di stima e d'ammirazione, ma da una curiosità quasi infantile di scoprire per quale occulto congegno il cervello di lei presentava certe anormalità, mentre l' involucro esterno era cosi seducente, poiché fino dal primo momento ella eragli piaciuta moltissimo. E quella sera Franco l'avrebbe lasciata parlare lungamente di cose che a lui poco premevano, ma che acquistavano un valore udendole esprimere da lei, se Velleda, sentendo suonar le undici dall'orologio della torre dello stabilimento, non gli avesse fatto capire che quella era l'ora in cui ella doveva coricarsi, per essere alzata alle sei. Franco le augurò la buona notte e le baciò la mano. Saverio, il cameriere di Roberto, con una lanterna rischiarava la via al giovane signore sino allo stabilimento silenzioso, dove col fucile in ispalla vegliava un guardiano, che gli dette la buona sera. Franco dispensò Saverio dall'aiutarlo a spogliarsi e si mise alla finestra di camera sua. Da quella vide chiudere le finestre della villa, spegnere i lumi e poco dopo udì abbaiare festosamente i cani, come se qualcuno li avesse sciolti. Dinanzi a Franco si stendeva il mare illuminato dalla luna e sulle onde si cullavano barche e vaporetti ancorati vicino alla gettata. Un silenzio solenne regnava su quella spiaggia deserta: nessun grido turbavalo, ora che i cani avevano sfogata la gioia di sentirsi liberi nel giardino. Capisco che Roberto possa viver qui, - pensava Franco, - egli si è procurata una esistenza comoda, signorile, allietata dalla presenza di una graziosa donnina; è molto molto abile quel caro fratello! E l'immagine di Velleda gli s'imprimeva negli occhi e la rivedeva ora a tavola, signorilmente composta, ora con Maria fra le braccia, sorridente e affettuosa, ora parlando eccitata della questione femminile, sempre carina sotto quegli aspetti diversi di dama, di madre e di pensatrice. Sapro chi è, conoscerò il mistero di quella esistenza, - disse fra sè Franco, invaso da una malsana curiositá. - Non è una donna comune e a Firenze non può esser passata inosservata. Il Signorini deve conoscerla certo, conosce tutti! E ruminando nella mente il disegno di scrivere a quello sfaccendato fiorentino, che lo distraeva quando passava per Firenze, Franco si coricò e dormì saporitamente.

Io spendevo il mio, - replicò il ferito, - e nessuno può dire che io abbia rubato. Del resto, che la polizia cerchi; tocca a lei a trovare. Troverà, - rispose il Bettoni. Roberto, sconfortato da quelle risposte, uscì dalla camera dell'ospedale più afflitto di quando vi era entrato. Non sperava di saper nulla di più e una voce interna gli diceva che, nonostante le apparenze, Alessio era innocente. Ma tutto quel mistero lo turbava, tutte quelle complicazioni lo agitavano e in esse si perdeva la sua mente serena, come lo sguardo più acuto si perde in una foresta intricata e tenebrosa. I Moltedo lo attendevano ansiosi e salì solo dai suoi amici, ai quali narrò tutto. Se alla villa vi fossero altre donne che la signora Velleda e Costanza, direi che Alessio in quella notte si recava a un convegno d'amore, - osservò il Moltedo. Roberto scrollò il capo. Conosco Costanza, - disse, - non è capace di amare. Sono otto anni che è in casa e non ha mai 0136 avuto certe debolezze. La signora poi che cosa può aver di comune con un operaio? Vedete, mio buon Moltedo, la vostra mente come la mia si affatica in supposizioni. Per me Alessio è innocente e questa è la sola verità che mi apparisca chiara. Mi risponderete che tutto cospira contro di lui, ed avete ragione, ma nessuno sa per quali vie misteriose un uomo riesca a comunicare a un altro uomo una convinzione; Alessio me l'ha infusa; ed io ubbidirò a quel sentimento strano quando sarò chiamato a deporre contro di lui. Si riderà di me, ma non importa. La conversazione si aggirò ancora su quell'avvenimento, che aveva tanto turbato i due vecchi amici della famiglia Frangipani. Essi raccomandarono a Roberto di condurre loro Franco che non avevano più veduto da quando era un ragazzino, e augurandosi la buona notte, si separarono. Donna Giovannina accompagnò in camera l'ospite e gli disse: Sorvegliate Costanza, don Roberto. Quello che una donna non ha fatto per tanti anni, lo può fare un giorno, inaspettatamente; ma sorvegliatela senza che se ne accorga. È una supposizione, vedete, che mio marito mi ha fatto balenare nella mente. Dove tutto è buio pesto, bisogna seguire qualunque lumicino, anche un fuoco fatuo. Sorvegliatela. Seguirò il vostro consiglio, donna Giovannina, ma non credo che mi porterà a nessun risultato; Alessio è innocente! La mattina dopo la carrozza di Roberto, una specie di giardiniera di paglia, tirata da due vivaci cavalli, si fermava a casa Moltedo. I due vecchi erano ancora a letto e Roberto, che aveva udito il rumore delle sonagliere da lungi, era già sulla porta ad attendere. Ne scese il Varvaro, cui il signore stese affettuosamente la mano. I cavalli partirono e Roberto acceso un sigaro prese a parlare dello stabilimento, delle spedizioni fatte, 0137 come un uomo occupato soltanto degli affari. Ma il cuore di lui volava anelante alle villa e avrebbe voluto che i cavalli divorassero la strada per condurlo più presto. Per via incontravano gruppi di operai, che si fermavano per salutarlo ed egli dava loro il buon giorno sorridendo. Un ciuffo di mandorli, una spianata di terreno circondato da fichi d'India, la cupola di una carrubba; una palma spiumata erano per lui altrettante pietre miliari che indicavangli l'avvicinarsi alla mèta sospirata. Allorché udì il rumore del mare, e vide la grande colonna del tempio di Apollo biancheggiare sull'azzurro diafano dell' orizzonte, fu invaso da una tenerezza ineffabile, da un sentimento nuovo, dolcissimo. Quando altre volte aveva lasciato la casa, vi era tornato senza commozione; ora che sentivasi così spiritualmente unito a Velleda, quel ritorno, dopo la confessione del suo affetto, era per lui un grande avvenimento. Che cosa si sarebbero detti i loro sguardi, incontrandosi? Che cosa si sarebbero dette le loro mani unendosi? Il sole era già alto e copriva la pianura di un manto aurato, di una ricchezza favolosa. Sotto i raggi caldissimi la sabbia prendeva un tono d'oro antico e le pale dei fichi d'India parevano lame d'acciaio scintillante. Oltre i templi, oltre l'acropoli, oltre la necropoli, al di là del Selino, Roberto scorgeva i pennacchi delle palme del viale. A uno svolto della via scorse lo stabilimento con i camici fumanti e poi la casa. Allora il cuore gli dette un balzo e si fermò per un istante. Come gli parve tranquilla, lieta, ridente quella casa tutta bianca, con le allineate colonne marmoree, sorreggenti la terrazza del primo piano, ombreggiata dalle palme, con la terrazza superiore, che formava intorno all'edifizio un coronamento di maiolica a fondo azzurro 0138 e oro e dalla eguale gli oleandri rosa e rossi emergevano in ciuffi fioriti! Come gli parve cara e desiderata quella dolce casa! La carrozza entrò nel viale dei palmizj, e il rumore delle ruote sulla ghiaia fece accorrere Maria, Franco, Velleda e il Lo Carmine. Bianca, sottile, quasi diafana per il pallore che le copriva il viso, Velleda fu la prima a trovarsi accanto alla carrozza, quando Roberto ne scese. Ella lo fissò intensamente e gli stese le due manine, che egli si portò alle labbra. Maria tenne a lungo suo padre abbracciato, avviticchiandosi a lui con tenerezza appassionata. E a me? - domandò Franco stendendo le braccia al fratello. - Io debbo farti più festa che gli altri; non è per me che sei stato assente? Il Lo Carmine si era posto in disparte, per lasciare sfogo alle prime effusioni e Roberto lo andò a cercare e gli dette una buona stretta di mano. La porta della casa era vagamente adorna di festoni di lauro su cui le grosse margherite e i pelargoni staccavano per chiaro; in terra era formato un tappeto di petali di rose e di fior d'arancio; tutta la casa era vestita a festa e una ghirlanda di rose circondava il bacino marmoreo in cui riversavasi l'acqua della fontana che manteneva una dolce frescura al piede della scala. Grazie, - disse Roberto rivolgendosi a Velleda. Tutta questa festa di fiori mi dice che era desiderato il mio ritorno. Ella alzò su di lui i dolci occhi e con uno sguardo eloquente gli fece intendere le ansie della separazione e la gioia di quel momento. Franco sorprese quello sguardo e abbassò gli occhi indispettito. Non era possibile illudersi; l'anima di quella donna si trasfondeva in quella di Roberto interamente: essi si amavano. 0139 Maria saliva le scale portando al babbo la borsa da viaggio, per non staccarsi da lui; Velleda invitò il duca, il Lo Carmine e il Varvaro a entrare nella stanza da pranzo. In quella calda mattina di maggio la signora aveva dismesso le attillate vesti di Lina, così eleganti e dal taglio un poco maschile, che Franco avevate veduto portar sempre. Ella indossava un abito di una morbida stoffa orientale, color avorio, disseminato di piccoli fiori rosei, e un'alta cintura rosa ricadente in lunghi lembi sulla sottana, le disegnava una lista più viva intorno alla vita sottilissima. Il collo non era più stretto del colletto insaldato e appariva bianco e delicatissimo attraverso le trine che lo circondavano, e la testina bruna e ricciuta s' ergeva gloriosa da quelle stoffe morbide e chiare. Franco notò che Velleda non volle sedersi a tavola prima che Roberto scendesse. In atteggiamento disinvolto ella rimase a parlare ritta nella sala, senza accostarsi alla tavola su cui era steso un tappeto di fiori silvani, un gaio tappeto rosso e giallo. Roberto si fece poco attendere e discese insieme con Maria, la quale teneva fra le braccia una bambola paffuta e rosea, vestita di velluto, dalla quale non staccava gli occhi. Vedi, Leda, che cosa mi ha portato il babbo? disse mostrandola alla signora. Hai pensato, prima di accettare il dono, se lo avevi meritato? Mi pare, - rispose la bambina, - Non ho fatto capricci e ho studiato. Allora, se la tua coscienza ti dice questo, tieni pure la bambola. Roberto aveva ascoltato quel piccolo dialogo e sorrise a Velleda. Quel sorriso non sfuggì a Franco. Come si amano! - ripeteva dentro di sé. La signora era seduta di fronte a Roberto e faceva 0140 gli onori della tavola, ma con maggior riserva che per il pacato e parlava poco, quasi punto, ascoltando Roberto, con quel gaudio infinito con cui si ascolta una melodia cara, non più udita da molto tempo. Durante la colazione, non fu parlato ne del fatto doloroso avvenuto a Selinunte, ne degli affari del duca; ma ormai Velleda non era più ansiosa di notizie. Tutta la sua sovreccitazione era svanita a un tratto ed ella era calma e felice. L'arrivo di Roberto aveva acquetato i suoi nervi, le aveva dileguato dalla mente ogni ricordo. Tutto era pace, era letizia e alzando ogni tanto gli occhi su Roberto pareva dirgli : Sono felice! felice! Soltanto un'ora dopo l'arrivo, Roberto e Velleda si trovarono soli nella sala del piano superiore. Mentre i loro cuori volavano uno verso l'altro per confondersi in una carezza spirituale, essi rimasero distanti, senza stringersi neppur la mano, guardandosi, e la commozione loro si manifestò in un dolce sorriso, nel quale scambievolmente si avvolsero. E dopo quella fugace concessione fatta al loro affetto, ognuno riprese il lavoro: "Velleda condusse Maria nella biblioteca per farla studiare; Roberto andò allo stabilimento, girò nei magazzini e nelle officine e quando il lavoro stava per cessare all'avvicinarsi del mezzogiorno, egli salì nel quartiere di Franco, ove gli aveva detto di attenderlo. Il duca non era punto impaziente; disteso sopra una poltrona di bambù, sfogliava un numero della Vie Parisienne giuntogli quella mattina, e fumava una sigaretta. Quando vide il fratello, non si alzò e gli fece cenno di sedersi di fronte a lui. Franco, vuoi udire il mio rapporto? - disse Roberto. Se è proprio necessario; lo ascolterò; ma se puoi risparmiare di dirmi tante cose die mi faranno pena, te ne sarò grato. 0141 Sobbarcati a questa noia, - disse Roberto, - Ko bisogno della tua approvazione per esser tranquillo. Ebbene, parla allora. La vendita del palazzo, gli oggetti che aveva voluto fossero tolti prima di entrare in trattative con l'aquirente, l'impiego che aveva fatto della somma, pagando prima di tutto i creditori che avevano ipoteche su quello e poi estinguendone altre su case che avrebbe venduto in seguito, i piccoli debiti liquidati, tutto espose brevemente e con chiarezza, ricorrendo due o tre volte soltanto agli appunti del suo taccuino, dal quale terminato che ebbe il rapporto cavò un vaglia di alcune migliala di lire sul Banco di Sicilia e disse al fratello: Ecco che cosa ti riporto; è poco, ma ti basterà per le spese minute in questo tempo di transazione. Dopo, liquidato tutto, confido che ti rimanga abbastanza da vivere; se non riuscissi a questo, la mia casa sarà sempre la tua e i beni di nostra madre ti appartengono come a me. La povertà dunque non ti spaventi, Franco; ti spaventino le azioni inconsiderate che possono distruggere l'opera mia. Perché scrivere alla marchesa quella lettera così triste e affettuosa? Non sai che ella voleva venire qua ad ogni costo e offrirti la consolazione del suo amore? Povera Paola! - disse Franco lusingato nell'amor proprio. - Avrebbe fatto questo? Non scherzare con quel cuore appassionato di donna: l'amore per te è la sua malattia, e di quella morirà, tè lo assicuro io. Sii circospetto, scrivile quel tanto che basta a tenerla calma, ma non le fare sfoghi per intenerirla. La fuga di lei dalla casa del marito sarebbe la più grande sventura che potrebbe capitarti in questo momento. Sarebbe per me il colpo di grazia! Io non voglio fastidj, non voglio seccature e qui si vive così bene, in questo nuovo mondo dove mi hai trasportato! 0142 Dunque la signora Velleda e i pochi amici miei ti hanno affezionato a questo luogo? Mi pare di esservi stato sempre e di non potermene più allontanare. È la vita nel Paradiso terrestre e non manca neppure l'Eva adorabile. Roberto fu offeso da quella ammirazione espressa in tono fatuo e non rispose. Poi parlò della zia, della buona duchessa, che era rimasta così afflitta della lontananza del suo Franco e alla quale la marchesa Paola aveva fatto una visita, la prima dopo la sua malattia, per parlarle dell'assente. Grazie a te, - disse Franco rinchiudendo il vaglia nella scrivania, - non sono stato mai così ricco come adesso. Ho una piccola somma e nessun conto da pagare, nulla da spendere. Mi pare un sogno. Prima potevo avere in cassa migliata e migliala: il dare superava sempre la riserva e a giorni non avevo da pagare una carrozza ; che vita tranquilla che tu mi hai preparata! In questa gratititudine, che il duca si compiaceva di esprimere al fratello, non v'era mai un accento che partisse dal cuore, una parola calda e sentita. E anche la gratitudine si limitava alla parte materiale dell'esistenza, non al lato morale di essa, al quale Roberto aveva pensato soprattutto nell' addossarsi gli affari di Franco. Come farò a destare in lui il sentimento della dignità, come farò ad assuefarlo ad anteporre i beni morali a quelli materiali? - pensava Roberto e si convinceva che l'opera più difficile cominciava appunto ora. La campana dello stabilimento annunziò la pausa nel lavoro e Roberto si alzò prontamente. Vuoi venire ad assistere al pranzo degli operai? disse. - Oggi è il primo maggio e la signora Velleda ha preparato loro una piccola festa. Franco si alzò anch'egli e i due fratelli scesero nello stabilimento. Nel vederli passare; tutti gli operai che 0143 stavano aggruppati intorno alla fontana si voltarono. Il duca vestito di lana bianca, sottile, nervoso, elegante, con lo sguardo freddo, distratto, e l'andatura stanca pareva un gran signore capitato per caso in quel centro di attività; Roberto, con l'abito di tela da lavoro, le forti spalle, l'occhio animato e vigile, era uno di loro, il primo e il più attivo. Gli operai notavano quel contrasto fra i due fratelli e alcuni dicevano: Vedi, don Franco non avrebbe la mano di ferro del padrone! Si, - rispondevano gli altri, - ma con lui si chiuderebbe subito lo stabilimento. Non è un uomo! A poco a poco la tettoia delle cucine si era riempita. Roberto e Franco stavano in disparte, gli operai andavano ad occupare i loro posti, e le donne incominciavano la distribuzione dei maccheroni. Dalle grandi caldaie scoperchiate uscivano nuvole di vapore e dalle teglie di rame saliva nell'aria l'odore del sugo di carne. Quando i maccheroni erano già distribuiti giunse Velleda sola; a poca distanza la seguiva Maria insieme con la nutrice. Questa pareva invecchiata di parecchi anni in quegli ultimi giorni e camminava con andatura stanca. La signora sorrise ai due fratelli e si diresse verso i fornelli; Maria corse vicina al babbo e Costanza rimase sola. Ella cercò con l'occhio il posto dell'operaio col quale aveva parlato due sere prima sotto la carrubba, e vedutolo fece diversi giri fra una tavola e l'altra, scambiando parole con questo e con quello e accostandosi sempre a lui senza dar nell'occhio. Che ne dite eh, del ragout? - domandò la nutrice quando fu accanto a Giovanni, atteggiando le labbra a un sorriso. Dico che è buono, ma non posso dir altro. Tutto è mistero, Costanza. Il sorriso svanì dalle labbra della donna e i suoi occhi espressero un'ansia straziante. 0144 Oggi, - aggiunse l'operaio; - tutti fanno sciopero negli stabilimenti di Marsala, e noi siamo qui a mangiare un buon piatto di maccheroni. Chi soffre e chi gode; chi è rinchiuso e chi è libero così è la vita. Da quelle vaghe parole Costanza aveva capito che Giovanni non aveva notiza del prigioniero e s'allontanò a testa bassa, sconsolata. Gli operai mangiavano avidamente le buone pietanze ordinate da "Velleda. Molti, già sazj, rinvoltavano in un foglio il pesce e il formaggio, pensando alla cena e già stavano per alzarsi e ritornare al lavoro, quando Roberto si accostò alla tavola centrale e disse con la sua bella voce sonora: Figliuoli, i vostri compagni d'Italia e di tutto il mondo hanno voluto che questo giorno fosse santificato ovunque. Ma invece di trascorrerlo nel riposo, lo impiegano a contare le forze, a chiedere con minacce una riduzione delle ore di lavoro. Prima che voi mi faceste questa domanda, io vi proposi di limitare a ott'ore il vostro lavoro quotidiano, sicché su questo punto non vi sono stati fra noi malintesi. Oggi non mi avete chiesto il riposo, ma io ve lo concedo da mezzogiorno in poi; e se stamane vi ho fatto venire al lavoro, è stato soltanto per dimostrare agli altri proprietari di stabilimenti che voi mi ubbidite e che fra noi non sussistono attriti. Questa ubbidienza io sento di doverla all'amore e alla giustizia con la quale vi guido. Talvolta mi accuserete di durezza, ma per guidare trecento uomini ci vuole severità ed io vi spingo a lavorare e ad esser disciplinati per non avere il dolore di licenziarvi, poiché io vi voglio bene e mi separo con rincrescimento dai miei cooperatori, e non è neppure la sete di guadagno che mi fa lavorare più duramente di voi, no. Io ho bisogno di poco e le mie terre mi darebbero da vivere: è il desiderio di rendermi utile, di far prosperare questa regione, di dar lavoro a voi che vi siete nati. Se domani, disgustato 0145 dagli ostacoli che incontro, io chiudessi lo stabilimento, voi dovreste andare in altri paesi, in cerca di lavoro, e forse emigrare in America, abbandonare le vostre famiglie. È dunque soprattutto l'interesse vostro che mi spinge a volere che l'attività non cessi a Selinunte. Aiutatemi, lavorate con amore, e invece di guardare quei pochi più fortunati di voi, fermatevi a considerare i più infelici, quelli ai quali il lavoro manca, che a turbe debbono abbandonare tutto ciò che amano, per recarsi a chiedere a una terra lontana quel pane che rifiuta loro la patria. Figliuoli, a quegli infelici pensate e il lavoro vi parrá lieve e forse lo spettacolo di tante miserie profonde vi farà benedire la mia operosità. Gli occhi di molti operai erano umidi di lacrime e il vecchio Federigo, quegli che soleva intonare la preghiera quotidiana, si alzò e fissando Roberto, disse: Non abbiamo bisogno di guardare i più infelici di noi, per benedirvi, padrone. Quanti sciagurati voi avete trattenuti sull'orlo del precipizio, quanti avete salvati! Questi fatti sono scritti nei nostri cuori. Voi siete il nostro padre severo e amoroso e i morenti si confortano pensando che voi non abbandonate le loro famiglie. Le vostre opere danno frutto, padrone; noi vi siamo devoti e l'azione malvagia di un perverso, di un compagno che rinneghiamo, ci ha fatto sentire meglio quanto vi siamo affezionati. Che Iddio vi benedica, o padrone, e benedica l'opera vostra! Un grido uscì da tutte le bocche, un grido lungo che commosse Roberto e riempì di lacrime gli occhi di Velleda. Le labbra di Giovanni rimasero chiuse e Costanza si fece livida. Franco aveva abbassato gli occhi. Una doppia razione di vino fu distribuita agli operai, i quali sotto il cocente sole meridionale uscirono lieti dallo stabilimento a frotte. E mentre in tante parti del mondo un grido di ribellione e d'odio usciva dal petto 0146 dei lavoratori, e tante fabbriche erano in fiamme, e tanti ribelli cadevano colpiti dalle palle dei soldati, su quella spiaggia della lontana Sicilia un nuovo vincolo d'affetto era creato fra il padrone e gli operai. L'opera d'amore li un cuore buono e di una mente illuminata trovava la sua alta ricompensa. Velleda s'era accostata a Roberto e gli parlava sommessamente, fissandolo. Franco li avvolgeva con uno -sguardo invidioso, che non sfuggi a Costanza. Ella fremè li gioia e disse fra se: Ah! so come vendicarmi!

Le Fate d'Oro

678854
Perodi, Emma 2 occorrenze

Non si è trovato neppure una persona felice che abbia potuto salvare con un saluto la nostra Regina. - In quel momento scese dal cielo una stella cadente, e col suo splendore abbagliò talmente le api, che dovettero chiudere gli occhi. La morente Regina in quello stesso istante si alzò, aprì le ali e volò all’alveare abbandonato, seguìta dalle suddite meravi- gliate. - Ho avuto il saluto dall’alto! - esclamò ella. - Mi è giunto dal cielo, dove stanno i veri felici! -

Pagina 105

- Signore, - aggiunse il commesso - l'uomo in cui tu avevi riposto tutta la tua fiducia, è fuggito stanotte sopra una nave montata dagli infedeli, e si dice che abbia vuotato i tuoi scrigni. - Le merci che recheranno le caro- vane che traversano i deserti, i tesori di cui sono carichi i miei bastimenti, riempi- ranno gli scrigni. Va', e attendi al tuo la- voro. - Quel giorno Hamid andò al bazar, come al solito, e la gente che lo guardava cu- riosa non scoprì sulla sua fronte una ruga di più. Nella notte, mentre egli giaceva sugli spessi tappeti della sua camera, vide en- trare la solita vecchia lacera e sporca. - Che vuoi? - le domandò Hamid. - Sono la Sventura, non mi ricono- sci? Ho preso dimora qui, in casa tua. - Vattene! - Tu dovrai chinare il capo da- vanti a me. - Vattene, strega! Io non chino il capo altro che dinanzi ai decreti di Allah, che adoro. Vattene! - La Sventura sedè in un cantuccio e si accomodò dietro le spalle un guanciale. Hamid si alzò e brandì una scimi- tarra. Alla fioca luce di una lampada rossa- stra egli vide la scimitarra entrare nelle carni della vecchia, ma quando la cavò fuori non era macchiata di sangue. La vecchia fece una risataccia. - Le tue armi sono inutili; - disse - esse non possono colpirmi. Ora lasciami riposare in pace e prega il tuo Dio che riposi lungamente. - Dopo pochi istanti, la vecchia, col capo sorretto dal guanciale, livida ed este- nuata, dormiva e pareva morta. Hamid chiuse a chiave la stanza, e la notte stessa ordinò ai suoi schiavi che ne murassero ogni uscita. Essi ubbidirono ai suoi comandi, e in poche ore la stanza era murata. La mattina seguente, il solito com- messo bussò presto alla porta della nuova camera del suo padrone. - Signore, - disse l'uomo, tremante - signore, preparati a ricevere una noti- zia funesta. - Parla. Hamid non trema. - Stamani un temporale ha fatto sommergere tre dei tuoi bastimenti, che erano in vista del porto. Merci e uomini, tutto è perito. - Farò costruire altri bastimenti. Che la volontà di Allah sia fatta! - Quel giorno Hamid andò, come al so- lito, al bazar, e la gente curiosa, guardan- dolo, si accorse che il suo volto non rive- lava nessuna commozione. Era da poco seduto nel suo negozio, quando comparve la solita vecchia, strac- ciata e sporca. - Vattene! - le disse Hamid. - I tuoi schiavi, murando la camera, mi hanno destata col rumore delle pale e delle pialle. Non posso stare in ozio, te ne sei già accorto. - Vattene! Io non mi sono accorto di nulla. La volontà di Allah si compie, e non la tua! Concedimi l'ospitalità,lasciami dor- mire sotto il tuo tetto! - Vattene! - ripetè Hamid. - Te ne pentirai, - disse la vecchia minacciandolo con una mano nell'uscire. Hamid la salutò con un sogghigno. Ogni mattina Hamid era destato dal solito commesso. - Un bastimento carico di spezie è bruciato nel porto di Genova. - Lascia che la volontà di Allah sia fatta! - La gente lo guardava sorpresa, senza osare fargli condoglianze. Appena era seduto, gli si presentava la solita vecchia. - Sono in giro per il mondo e col- pisco tutto quello che ti appartiene. Hai sentito le notizie? – Ma Hamid la cacciava tutte le volte. Un giorno erano le sue carovane sep- pellite nella sabbia; un altro le sue terre devastate dalle locuste; poi i suoi magaz- zini distrutti dal fuoco, ed altre simili sventure. Ma Hamid il superbo, continuava a portare alta la testa, a non degnare di uno sguardo la gente, a sogghignare alla Sven- tura. Soltanto Hamid aveva maggior cura del suo palazzo. Gli schiavi dovevano darsi il turno per vegliare la notte; le donne di Fatima non dovevano abbandonarla un minuto, pena la vita, ed egli stesso stava più di frequente nelle stanze della figlia e faceva sforzi inauditi affinchè le notizie delle sue sventure non giungessero alle orecchie di lei. Una mattina le donne di Fatima mandarono a destare in fretta il padrone. - Tua figlia è sparita; abbiamo tro- vato la camera vuota, i suoi gioielli, le sue vesti, tutto è sparito con lei. - La fiera testa di Hamid s'incurvò a quella notizia e una lacrima gli cadde sulla barba. Quel giorno non andò al bazar; quel giorno non ebbe la forza di moversi, e nel suo dolore neppur si rammentò della mi- naccia che aveva fatta alle donne di Fatima. Verso sera entrò la Sventura e gli si mise accanto. - Perché non mi scacci? - gli disse. - I tuoi tesori sono inghiottiti dal mare, sepolti nelle sabbie, distrutti dal fuoco; i tuoi figli, tua moglie sono morti; Fatima, rubata dai corsari, sarà a quest'ora ven- duta su un pubblico mercato come schiava; Fatima sarà battuta da un padrone duro come te.... perchè non mi scacci? - Il mercante era scivolato ginocchioni. - Pietà! - diceva - pietà! non per me, ma per Fatima, per la figlia mia. - La Sventura lo respinse sogghignando, e sparì in un attimo com'era venuta. Hamid non si mosse da quella stanza; Hamid non aveva più forza. Gli schiavi, temendo la sua collera, fuggirono a uno a uno; il suo palazzo rimase aperto ai ladri, aperto alle intemperie, aperto agli animali vaganti. I primi lo saccheggiarono; il vento, il sole, la pioggia vi entrarono schiantando, bruciando, putrefacendo i legnami e gli ornamenti preziosi; gli animali vi presero stanza. Alcuni anni dopo, quando Fatima, di- ventata libera, volle sapere quel che era avvenuto di suo padre e volle tornare al palazzo paterno, lo trovò devastato e po- polato di immondi animali di ogni specie. Il cadavere di Hamid, intatto, era an- cora nella camera dove l’aveva colpito la notizia tremenda, e il suo capo, umiliato dalla Sventura, toccava la terra.

Pagina 68

Cerca

Modifica ricerca