Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l'uso di famiglia

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Lazzari Turco, Giulia 30 occorrenze
  • 1904
  • Tipografia Emiliana
  • Venezia
  • cucina
  • UNIFI
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. — Mettete al fuoco 300 gr. di burro, quand'è fuso unitevi 200 gr. di farina, mescolate bene, finchè questa abbia preso un colore dorato, riponete in vasi di vetro per servirvene all'occorrenza.

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III) un bel pane lungo e il meno schiacciato che sia possibile e che abbia la crosta fina.

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Mescolate 2 uova intere con 2 cucchiai di farina ; se la pasta non riesce colante, aggiungetevi un altro uovo e un po' d'acqua, salate e versate il composto nel brodo bollente, adagio adagio, da un pentolino che abbia il beccuccio stretto, spargendolo su tutta la superficie del liquido. Se v'aggrada potete dare al composto l'odore della noce moscata e aggiungervi un po' di parmigiano.

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. — Allestite un composto per gnocchetti di farina come il precedente, collocatelo in uno staccio di rete metallica che abbia i fori molto larghi o in un mestolino bucato, e, premendo con un cucchiajo di legno e scuotendo fortemente fatelo cadere nel brodo, in modo che si formino dei pisellini eguali fra loro.

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Lavoratela lungamente con le mani, stendetela della grossezza di 1/2 centimetro scarso, tagliatela a tanti rotondini con un tagliapasta del diametro di 3 cent, scarsi, collocate, sulla metà di questi rotondini, una pallottola di ripieno di carne eguale o simile a quello dei cappelletti, o di semplice hâché, coprite con l'altro rotondino, comprimete un poco la pasta, ritagliatela con un tagliapasta più piccolo che abbia il diametro d'una lira, o poco più. Rimpastate i ritagli e continuate il vostro lavoro, collocando le pallottole sopra un tagliere infarinato, ben coperte, in luogo tiepido a lievitare. Quando sono gonfie, friggetele, d'un bel color d'oro, nello strutto e lasciatele inzuppare un minuto nel brodo della zuppiera, prima di servirle.

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Se volete che la minestra abbia un bel color verde, mettetevi un po' di spinaci lessi e passati allo staccio. Diluite la purée con brodo semplice, o brodo d'erbe, o brodo di farina abbrustolita, salate e servite con gnocchettini di farina o di carne senza dimenticare l'odore della cannella o della noce moscata.

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Annodatene i quattro lembi estremi in croce o come indica il [immagine e didascalia: Tovagliolo preparato con entro il budino da cuocere] disegno, badando che il composto abbia dello spazio per crescere, passatevi dentro un apposito bastoncello o, in mancanza di esso, un cucchiaio da cucina e sospendete il fagotto sugli orli d'una grande marmitta per 3/4 ricolma d'acqua o di brodo bollente. (Il brodo naturalmente è preferibile perchè i budini vi prendono un eccellente sapore).

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Preparate un composto di carne, possibilmente pollo arrosto, pesta nel mortajo e besciamella in modo che questa salsa abbia metà del volume della carne e che tutto il composto sia circa la metà'della purée di sedano. Preparate uno stampo senza cilindro, ungetelo bene, foderate il fondo con un disco di carta, disponetevi uno strato di purée e colla purée intonacate anche le pareti di esso, lasciando un vano in cima. Riempite poi il vuoto con strati alternati di purée e di composto di carne al quale avrete aggiunto del buon formaggio. Cuocete a bagnomaria un'ora circa, mettendo lo stampo aperto nel forno in una cazzarola piena d'acqua bollente.

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Sbattete con diligenza (secondo la regola) il composto finchè si stacca dalla spatola e versatelo, badando che la metà dello spazio resti vuota, in uno stampo unto e infarinato che abbia il cilindro piuttosto largo, quindi collocatelo in luogo caldo per far lievitare la pasta e, quando questa è giunta a due dita dall'orlo, mettetelo a bagnomaria nell'acqua tiepida facendola venire poi a ebollizione. Dopo unr ora circa rovesciate il budino in un piatto da portata, contornatelo con un buon ragoût, del quale vi servirete anche per empire il vano lasciato dal cilindro e versategli sopra alcuni cucchiai di burro fuso bollente spolverizzandolo poi di parmigiano.

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In ogni modo è necessario, ch'essa abbia la stessa consistenza del burro il quale va lavorato la sera antecedente entro un tovagliolo perchè perda tutto il siero che potesse contenere e perchè si faccia morbido e arrendevole. D'inverno lo rammollirete con un po' d'acqua tiepida, in estate lo conserverete fino alla mattina nell'acqua fresca.

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Per fare un buon piatto di carne è necessario ch'essa sia di qualità sopraffina non solo ma anche che abbia raggiunto il giusto grado di frollatura.

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L'agnello deve contare per lo meno sei settimane d'età ed essere stato nutrito di solo latte se si desidera che abbia le carni bianche. Il pascolo invece le rende più saporite.

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. — Preparate del filetto che dopo essere stato bene pulito dagli ossi, dalle pellicole e dal grasso, abbia ancora il peso di 2 chilogr. Mescolate 2 cucchiai di sale con un cucchiaio scarso di salnitro e mezzo cucchiaio di zucchero, schiacciandoli bene fra due carte col matterello, e soffregate diligentemente la carne con questa polvere, consumandola tutta. Riponetela in un arnese di terra o di legno e in luogo fresco e voltatela ogni giorno. (Volendo potete mettere nel recipiente un po' di bacche di ginepro pestate, radici, erbe e grani di pepe.) Trascorsa una settimana, lavatela bene e dopo averla battuta e ridotta in una forma piatta e quadrilunga steccatela con chiodini di lardo, involti in un miscuglio di garofani, cannella, pepe e noce moscata in polvere. Fate un battutino di salvia, basilico, prezzemolo, timo, maggiorana e cerfoglio in parti eguali (un piccolo mestolo di verde in tutto), aggiungetevi pepe in abbondanza e, se le gradite, anche droghe diverse ; stendete il battuto sulla carne, rotolatela quindi in forma di salsiccia, cucitela, involgetela in un pezzo d'organdis, legatela con uno spago, mettetela in una tegghia piena di brodo bollente e lasciatela cuocere. 2-3 ore. Ponetela quindi fra due assicelle con sopra un peso e, al momento di servirvene, tagliatela a fettoline e servitela con guernizione di gelatina (vedi cap. 5).

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Spalmatele quindi con un po' di pâté de foie gras in scatola, sovrapponetevi una fetta di prosciutto cotto, poi un ovo cotto al burro in un tegamino che abbia il diametro del pane o poco meno. Collocate questi crostoni sul ghiaccio e al momento di servirli velateli con una buona e densa mayonnaise. CAPITOLO DECIMOQUINTO

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Nel fare acquisto delle lepri badate che la schioppettata non le abbia colte nel dorso, altrimenti la loro parte migliore ne sarebbe tutta sconciata.

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Badate soltanto che sia molto abbondante e che abbia il giusto grado di calore che necessita onde il fritto riesca croccante senza essere secco e senza perdere l'interna morbidezza e perciòil sapore. Per fare la prova gettatevi un pezzetto di pane: s'esso prende subito un bel colore dorato, l'olio è pronto. Il pesce che si frigge bene deve rizzare la coda. Soltanto la pratica può insegnare a friggere. Se la farina dovesse lasciare dei bruscoli neri nella padella, scolate l'olio, a ciò il pesce non divenga scuro ma pigli una bella crestina rossa. Salatelo appena fritto e servitelo con degli spicchi di limone e con del prezzemolo che avrete messo l'ultimo momento nell'olio bollente. Badate che i piatti di porcellana fanno rinvenire il pesce fritto e guerniteli quindi con una salvietta prima di collocarvele.

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Badate ch'essa non abbia macchia alcuna. Se il rombo fosse pescato di fresco, lasciatelo riposare un pajo di giorni, raschiatelo quindi e levategli con l'acqua salata quel po' di mucilagine che lo involge, estirpate le verruche e le orecchie e spuntate le pinne, preparatelo poi come si è detto nei preliminari.

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Occorre soltanto che il forno sia buono e che abbia un giusto calore. Se il calore dalla parte di sotto fosse soverchio, collocate lo stampo sopra un treppiede basso. La cottura dei budini al forno è un po' più breve di quelli a bagnomaria.

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Gli stampi per le gelatine si bagnano con olio fresco di mandorle o con qualche rosolio il cui sapore abbia relazione col sapore predominante della gelatina, e prima di sformare il dolce lo si stacca un po' con un sottile coltellino dalle pareti, o si capovolge lo stampo su di un piatto coperto da una salvietta; se il composto non si stacca si ricorre allo strofinaccio molto caldo.

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Perduto che abbia il maggior bollore, montatelo col battichiare (se fosse d'estate converrebbe collocarlo sul ghiaccio). In breve tempo, se è cotto al punto, esso si gonfierà come una crema sbattuta. Durante il lavoro gli darete quel sapore che preferite, di ribes, d'arancio, di lampone, di maraschino, di menta, di rhum. Po-tete servirvi allo scopo anche delle essenze relative e degli sciroppi. Versate quindi il composto in uno stampo foderato di biscotti inzuppati nell’ alchermes e mettetelo in ghiaccio.

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Badate che il più piccolo abbia due sporgenze le quali si possano appoggiare sugli orli del grande. Riempite lo stampo più piccolo, che deve distare dalle pareti e dal fondo del più grande di 2 centim., col seguente composto, dopo avere avuto la precauzione di ungere gli stampi con del burro e di spolverizzarli di farina. S'intende che lo stampo piccolo va unto nella parte esterna. Cuocete quindi al forno questa specie di camicia di biscotto, sformatela estraendo prima di tutto lo stampo piccolo, poi rimettetela su questo stampo rovesciato e lasciatevela freddare perchè non si scomponga.

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Le vivande di lievito sono facili ad allestirsi quando 1’ esperienza ci abbia resi attenti a certi particolari indispensabili alla loro manipolazione.

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Stendetela quindi della grossezza d'un centimetro abbondante e mediante un tagliapasta ovale che abbia circa un diametro di 9 cent, per 7 cent., tagliatela in tante formette che lascierete ben lievitare sulla lamiera unta e infarinata. Cuocetele a forno abbastanza caldo, il giorno seguente tagliatele in due parti per traverso con un coltello affilato e fatele biscottare.

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Stendete il composto sulla lamiera unta con burro e poi asciugata, badate ch'esso abbia l'altezza d'un quarto di centimetro circa e la-sciatelo regolarmente rapprendere. Tagliatelo quindi a listarelle lunghette, indoratele col tuorlo d'uovo sbattuto, cospargetele di mandorle trite, rimettetele al forno e, quando hanno finito di cuocere, rotolatele sopra un cilindro di ferro o di latta e fatele asciugare in luogo caldo e asciutto.

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. — Amalgamate 200 gr. di farina, 160 gr. di burro, 60 gr. di zucchero, 2 cucchiai di cognac e 1 un cucchiaio grande d'acqua ; tirate la sfoglia sulla spianatoja in modo che abbia lo spessore di un pezzo da 5 lire. Tagliatela a rotondini del diametro d'un bicchiere ordinario, mettete nel mezzo di ciascuno di essi un po' di marmellata di arancio o d'albicocca, o un po' di ripieno di mandorle, noci o nocciòle trite e miste di zucchero, spezie e albume, ripiegate i rotondini in forma di mezza luna, ritagliateli colla rotella, indorateli e cuoceteli a forno caldo sulla lamiera infarinata.

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Non occorre che lo sciroppo abbia raggiunto il grado di cottura dello zucchero d'orzo, basta che possa divenire solido nel freddarsi.

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. — Versate in una padellina 150 gr. di zucchero pesto ma non troppo fino, bagnatelo con grande precauzione, a ciò mettendolo a fuoco dolce non abbia che a farsi colante, null'altro. Unitevi allora 3-4 gocce d'essenza di menta e versatelo sopra una piastra di latta. Appena comincia a rapprendersi formate le pasticche con un cannelletto del diametro d'una lira e fatele asciugare sopra una carta, all’ aria. All'odore di menta si può sostituire quello di anace, finocchio ecc.

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. — Passate allo staccio un chilogr. di more, mettetele al fuoco in una tegghia larga così che il sugo abbia l'altezza di tre dita non più, unitevi 1200 gr. di zucchero pesto, il sugo di 3 limoni, 30 more intere, fate bollire non più di 20-25 m., riponete.

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Quando è condensato e ha finito di fare la schiuma, si getta in una catinella e, perduto che abbia il maggior bollore, si unisce collo spirito.

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IL RACCONTAFIABE - Seguito al "C'era una volta …"

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Peccato non abbia le braccia! Ci ripensò tutta la notte, e il giorno appresso volle rivederla. Giunto davanti la bottega, sentendo canterellare il sarto, fermò il cavallo: - Che canterellate, buon uomo? - Il mal tempo se n'è andato, Il bel tempo è già arrivato. Zun! Zun! Zun! Il Reuccio intanto teneva fissi gli occhi su la ragazza. Il sarto, che non sapeva chi egli fosse, lo sgridò: - Eh, amico! Che guardate? - Guardo vostra figlia, che è più bella del sole. - Se fosse più bella del sole, rimarreste accecato. - Ahi! Ahi! Il Reuccio portò le mani agli occhi; a quelle parole del sarto gli occhi gli s'erano seccati. Lo scudiero condusse per mano il Reuccio cieco a palazzo, e raccontò quello ch'era accaduto. Il Re e la Regina montarono in furore contro il sarto: - Vecchio stregone! Arrestatelo e conducetelo qui. Lo legarono peggio d'un ladro e lo condussero innanzi al Re. - Maestà, io non ci ho colpa! - Vecchio stregone! O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo! Il povero sarto, dallo spavento, era già mezzo morto. - Maestà, io non ci ho colpa! - Ti do tre giorni di tempo. E lo fece chiudere in una prigione dello stesso palazzo reale. Ogni. mattina il Re andava a trovarlo, e dallo sportellino dell'uscio gli diceva: - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. É passato un giorno. - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Son passati due giorni. Il povero sarto non rispondeva; si struggeva in lagrime, pensando alla figliuola senza braccia, di cui non sapeva niente da più giorni, e che sarebbe rimasta sola al mondo in balìa della cattiva sorte: - Figliuola mia sventurata! E il Re, dallo sportellino dell'uscio: - O rendi la vista al Reuccio, o ti fo arrostire vivo vivo. Sono passati tre giorni. - Maestà, non ci ho colpa! Grazia, Maestà! Almeno, prima di morire, Fatemi rivedere la figliuola! La grazia gli fu concessa. Il Re e la Regina, che avevano sentito magnificare dal Reuccio la grande bellezza di costei, vollero vederla quand'ella venne a palazzo reale. Appena entrata nel salone, dov'essi si trovavano insieme col Reuccio cieco, questi, battendo le mani dall'allegrezza, si mise a gridare: - La vedo! La vedo! Accanto a lei c'è una signora. Il Re e la Regina credettero che il Reuccio fosse ammattito. Dov'era quella signora? - É lì, accanto a lei, e la tiene per la mano. - Per la mano? Se non ha braccia! - Io la vedo con le braccia; ma non vedo voialtri. Il Re e la Regina, per accertarsi se il Reuccio la vedeva davvero, facevano muovere la ragazza, in punta di piedi, pel salone; e il Reuccio la seguiva con gli occhi inariditi: - É lì ... Ora si affaccia alla finestra ... Ora fa così col capo ... Ora si siede per terra; e la signora che l'accompagna fa pure quel che fa lei. Il Re e la Regina, stupiti, non sapevano che pensare di quel miracolo. - Chi è, bella ragazza, la signora invisibile che vi accompagna? - Maestà, non lo so; son venuta sola a palazzo ... Ahi! Ahi! La ragazza sentiva acuti dolori nel punto dove avrebbero dovuto essere attaccate le braccia. - Ahi! Ahi! Ed ecco venirle fuori prima la punta delle dita, poi le mani, poi i polsi, poi gli avambracci, poi le braccia intere, bellissime e bianche come l'alabastro. Il Reuccio, urtando il Re e la Regina, si precipita verso la ragazza, le prende ansiosamente le mani e comincia a strofinarsele su gli occhi: - Manine fatate, sanatemi voi! Ma strofinava inutilmente. - Manine fatate, sanatemi voi! Ma strofinava inutilmente. - Zitti - fece il Reuccio. - La signora parla. Il Re e la Regina, dopo tutto quello che avevano visto, erano proprio atterriti di quella signora invisibile. - Che dice? - Manina, manina, Non è mano di Regina. Per toccare e sanare Di Regina diventare. Era chiaro: se il Reuccio voleva ricuperare la vista, doveva sposare quella ragazza. La Regina si sdegnò: - Sposare la figlia d'un sarto! Ma il Re, che voleva molto bene al figliuolo, non se lo fece dire due volte. - Siano mani di Reginotta; parola di Re! E gli occhi del Reuccio, toccati dalle mani della ragazza, tornarono a un tratto quali erano una volta, anzi più vivaci e più splendenti. Naturalmente il sarto fu cavato di prigione, e si cominciarono subito i preparativi delle nozze del Reuccio. La ragazza, vestita con gli abiti da Reginotta, pareva davvero un sole. La Regina non sapeva darsene pace, e le faceva ogni giorno mille dispetti. La mattina stessa delle nozze, per avvilirla al cospetto di tutta la corte, le disse: - Reginotta, ho uno strappo nel manto reale; nessuno può rammendarlo meglio di voi. La ragazza, senza scomporsi, andò di là, prese l'ago datole dalla signora e, inginocchiatasi, cominciò umilmente il rammendo del manto della Regina. La Regina, vedendola così rassegnata, diventò una vipera: - Non sapete dare nemmeno un punto! E le strappò di mano il manto reale. - Infatti, - rispose la ragazza - non ho mai dato un punto in vita mia. L'ago intanto era rimasto attaccato alla stoffa, e durante la cerimonia degli sponsali la Regina si sentiva cucire, cucire tutti i panni addosso, senza sapersi spiegare che diamine di lavoro fosse quello. Era così ravviluppata, che non poteva muovere le gambe. E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e quando non ebbe più niente da cucire nei panni, cominciò a cucire questi alle carni della Regina. Figuratevi i suoi strilli! Tentava di strapparsi le vesti ma la cucitura era così forte, che ci voleva ben altro per disfarla. E l'ago cuciva, cuciva, cuciva; e la Regina strillava come una pazza, sentendosi trapassare le carni da quella punta aguzza che non ristava un momento. Braccia, spalle, gambe, l'ago cuciva ogni cosa, cuciva, cuciva, cuciva; e gli strilli della Regina salivano al cielo! Alla fine, non potendone più, si buttò al piedi della Reginotta: - Reginotta, perdono! Salvatemi voi! La Reginotta, che aveva già capito di esser protetta da una Fata, pregò: - Fata benigna, salvatela voi! Appena detto questo, l'ago cessò di cucire, e tutte le cuciture si disfecero da sé. Reuccio e Reginotta vissero felici e contenti, E noi siamo qui, senz'ago né niente.

Oro Incenso e Mirra

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Oriani, Alfredo 3 occorrenze

Uno scrittore per sperare di essere perfetto deve trovare tutto fatto attorno a sé, nel meriggio di un sistema, il quale abbia felicemente maturato tutto lo spirito di un popolo. Vedete, Renan giunge dopo che i romantici hanno rinnovellato la vecchia lingua classica e prima che i nuovi naturalisti la rimettano nel crogiuolo: ecco forse perché egli scrive meglio di tutti. Però Renan è ancora più scrittore che artista, non rappresenta ma dice; solamente per questo non basta la sapienza della lingua, giacchè Littré sapendo la storia intima di ogni parola gli rimane incalcolabilmente inferiore. Filologia e chimica formano le parole e i colori, la natura e i pittori inventano i toni. E si fermò. - Renan, Renan! - tornò a provocarlo la duchessa senza lasciargli nemmeno il tempo di respirare - fatemi il suo ritratto. Avete cominciato e vi siete ancora distratto: volete Bonghi in compenso? Ve lo cedo, sebbene incominci a diventarmi simpatico, oggi, che tutti si vantano d'insultarlo. - Non crediate così di chiedermi poco e di offrirmi troppo - rispose con certa amarezza.- voi, duchessa, che sapete tanto bene il latino, vi ricordate senza dubbio la definizione della bellezza data da Cicerone: la bellezza si può esprimere talvolta, più raramente raffigurarla, analizzarla mai. Non vi è spesso sembrato che una pagina di Renan rassomigli a una pagina di Mozart, ne abbia la stessa malinconia latente, lo stile puro quantunque capriccioso, l'inimitabilità dell'espressione precisa nella parola e illimitata nel sentimento? Balzac ha detto che la prima qualità di un libro è di far pensare; per un libro di filosofia, forse, ma per un libro d'arte ne dubito. Renan ottiene di meglio: la sua prosa è una musica che vi fa sognare; ecco il prestigio, il fine ultimo dell'arte, dare all'anima una seconda vita, sostituire alla creazione della natura quella dello spirito. L'arte non può avere sistemi. Vedete come Zola, che sarebbe benissimo dotato, sia costretto ad esagerare le scene per sostenere l'esagerazione delle proprie polemiche. In tutte le opere di Renan non vi è forse una sola vera negazione; egli sa che un'idea ne vale un'altra, e che per un'idea come per un individuo il fatto di esistere ne implica il diritto e ne contiene la ragione. La negazione, che pretende distruggere, è al tempo stesso un'impotenza ed una assurdità; essa deve semplicemente essere il limite di ogni individuo attorno a sé medesimo, l'orbita della sua attività. Quindi, se Cousin disse impropriamente che l'errore è la forma della verità nella storia, Renan più fortunato comprese che la verità non può risultare se non da tutte le contraddizioni, ed affermò che solo nel contraddirsi sempre e sinceramente stava la speranza di avere qualche volta ragione. Volete un libro, che contenga la verità? - C'è? - Sì. - Datemelo. - Ma non avrete né il tempo né la pazienza di leggerlo. Pigliate il catalogo di una biblioteca, e se la biblioteca ha qualche milione di libri quel catalogo contiene la verità. - Non si potrebbe farne un estratto? - Si è tentato, si tenterà ancora inutilmente. Nessun ingegno sarà mai così vasto da abbracciare tutto, nessuna vita così lunga da concederne il tempo; l'arte sola, essendo come la vita una creazione, può talvolta essere vera mantenendosi inconscia. Intervenga la coscienza, e subito una sensazione o un'idea facendosi dell'arte un baluardo per difendersi o un monumento per glorificarsi, l'opera d'arte sarà un'opera morta. Vi siete mai domandata se Renan creda in Dio con una fede più forte che in qualunque altro principio? Domandate a voi stessa, dopo averlo letto, se ci credete: non ne saprete nulla. Vi parrà di essere in alto, nell'azzurro, che le stelle vi guardino con sorrisi di bontà, che la terra vi richiami col sospiro dei fiori, che le nubi si aprano per accogliervi, che il vento si rattenga per sostenervi; vi sentirete l'anima più pura, il pensiero più vivido, il cuore più caldo. E Dio? Forse quella non è che la sua presenza: domandatelo a Renan, domandatelo a voi stessa, e non otterrete risposta. L'arte vi avrà barattate l'estasi della natura, una strofa avrà avuto lo sfondo di una prospettiva, una pagina vi sarà parsa un panorama; le due creazioni si saranno valse, ma se vorrete analizzarle, la scienza non vi darà che dei misteri e dei cadaveri, la critica che delle contraddizioni e delle parole. Si può forse, esprimere in altro modo ciò che la musica dice? Sarebbe essa ancora l'ultimo sforzo del linguaggio, il verbo dei pensieri muti altrimenti? Ebbene, anche la bellezza è una musica ineffabile come la vita stessa. - Triste musica, allora! - Siete pessimista? - Sì. Egli sorrise. La duchessa si alzò per offrirgli da un tavolino prezioso d'intarsi l'astuccio delle sigarette, e rimase qualche istante in piedi guardandolo. La sua bella testa pallida aveva sempre la stessa espressione di freddezza quasi crudele. - La prefazione di Bonghi conclude per la vita - egli soggiunse con accento leggero di provocazione. Io potrei ripetervi la sua frase: poiché siete tanto bella, tutto non è dunque dolore quaggiù. - Allora perché la bellezza non basta alla felicità dell'amore e l'amore spesso non si cura nemmeno della bellezza? Bonghi ha ragione quando afferma contro la falsa serenità dei nuovi pagani che il mondo antico è stato infelice quanto il moderno, e che la malinconia non è un male cristiano. Noi siamo tutti infelici! - Voi! - egli esclamò con accento duro, forse irritato seco medesimo dalle troppe idee sciupate in quel dialogo, e che avrebbero potuto bastare a parecchi dei suoi articoli. Ma ella non si degnò nemmeno di notare l'interruzione. - Lo so - proseguì vivamente - ormai si è detto tutto sul dolore e sul piacere, si è preteso che siano l'uno la cessazione dell'altro, poi due gradi di una stessa sensazione. Vundtz e Lotze, vedete che sono bene informata, me lo diceva ieri il professore Tommasi-Crudeli, presso a poco sostengono questa tesi: ma vi è una obbiezione. Se il dolore deriva dalla vibrazione troppo violenta di un nervo, perché una parola fa spesso più male di una pugnalata, e la frattura di una gamba è meno spasmodica talvolta di una rottura galante? Il dolore morale è dunque diverso dal dolore fisico? La fame crea l'accattonaggio, mentre la vergogna di aver fame produce sovente il suicidio. Perché nella maggior parte dei casi noi affrontiamo il dolore per arrivare al piacere? Perdonate se io, donna, oso gettare con le mie mani lo scandaglio in certi abissi, ma la questione ci interessa tutti, grandi e piccoli, uomini e donne. - Non vi farò che una obbiezione la più volgare ed insieme la più forte: se la vita è infelice, perché tutti l'accettano? - Perché dimenticate voi i suicidi? Coloro che accettano, sperano, ecco tutto. - La speranza deriva essa pure dalla vita: ma volete davvero una ragione irresistibile? - seguitò con evidente intenzione di sarcasmo guardandola negli occhi. - poiché ogni fenomeno è doppio, pigliate i due estremi della gamma, la generazione e la morte: la voluttà dell'una è più intensa del dolore dell'altra. Anzi, Leopardi, un pessimista che non potete rinnegare, sosteneva con ragione che la morte sola è senza dolore. - Siete ben sicuri che in ogni fenomeno della vita il piacere sia maggiore del dolore? - Il fatto della vita è per me, esaminatelo imparzialmente. - Lo volete? - ribattè sollevando il capo dalla spalliera della poltrona. Egli tornò a sorridere. Allora la duchessa si alzò lentamente, andò alla finestra, dinanzi alla quale, fra le tende penzolava una magnifica gabbia dorata; ne aperse lo sportello e ne trasse colla mano il canarino. Il grazioso animaletto mise due o tre stridi lasciandosi prendere dalla padrona. - Alì - ella si volse chiamando il magnifico gatto d'Angora, che sonnecchiava sopra uno sgabello. La duchessa aveva appena avuto il tempo di sedersi che Alì le era saltato sulle ginocchia e, percotendogliele con la coda, le si strofinava con le orecchie nel seno. Poi si accovacciò nel suo grembo guardando tranquillamente il canarino. La duchessa gli passò una mano sul capo e appressandogli sicuramente l'altra alla bocca gli presentò l'uccellino per le zampe. Il canarino gettò un grido. Alì lo teneva già addentato sino al dosso. - Che cosa fate? - esclamò balzando in piedi l'illustre critico, che aveva atteso a tutta quella manovra senza capirla. - Vi confuto - rispose mostrandogli freddamente il gatto, che sgretolava con pigra ghiottoneria quel corpicino ancora vivo. Entrambi erano diventati pallidi. La duchessa scacciò Alì con un gesto, si alzò e tendendogli la mano ripeté con indefinibile sorriso: - Adesso ditemi ancora che nella vita il piacere di mangiare vale il dolore di essere mangiato.

. - Più di quello che io abbia, poiché ti perderò. - Sai, in questo momento tu non provi che una scena da romanzo: ecco perché io odio i romanzi scritti: sono sempre così falsi! - Fra un autore e una principessa chi dirà la verità? - Va via, non ti voglio più vedere sino a questa sera in teatro: oh! se non vieni a farmi visita... Quella sfida troppo seria malgrado l'aria di scherzo colla quale era stata gittata e raccolta rinfocolò naturalmente la loro passione. In fondo avrebbero voluto entrambi aver torto, mentre un secreto presentimento li avvertiva di una non lontana rottura. Perché? Non erano abbastanza belli, giovani e caldi per potersi amare? Tuttavia trepidavano di essersi già troppo conosciuti. In una fra le più deliziose leggende di Heine un ondino e un'ondina s'incontrano ad un ballo campestre: tutti ammirano la loro danza dalle ondulazioni di una strana grazia, poi la dama dice all'orecchio del cavaliere: "Sul vostro cappello tremola un giglio che cresce solo in fondo all'oceano". "Bella dama", rispose l'altro, "perché dunque la vostra mano è così gelida e l'orlo della vostra veste tanto inzuppato d'acqua?". La musica tace e la bella coppia si separa assai civilmente: per sciagura si conoscono già troppo. Ma Lelio raffreddandosi si abituava con una specie di crescendo al bisogno di quella donna di una lubricità così originale. Ella invece voleva domarlo, come fanno le donne cogli uomini, indebolendolo: senonché in tale crudele rivincita femminile spesso s'inteneriva sino alle lagrime, e allora erano deliziose melanconie, effusioni poetiche, nelle quali il fine gusto di entrambi si accordava come in una suonata a quattro mani. Ella una mattina andò a trovarlo: Lelio, umiliato da tale visita in quelle due camerette ammobigliate, dovette cedere subito alla gaiezza, colla quale ella saltellava volendo tutto vedere e frugando invece abilmente fra i suoi manoscritti per cercarvi le tracce di qualche avventura, forse non del tutto passata. Non trovò quasi nulla, poche fotografie di belle donne, che Lelio le dichiarava ad ogni sua dimanda cortigiane o modelle. - Qualcuno non ti ha veduto entrare? - le chiese diventando prudente per una improvvisa tenerezza di tenerla così in quella cameretta nella quale aveva tante volte sognato di lei. Ella vi rimase più d'un'ora. - Verresti qui una notte con me? - Nel tuo letto! - ella esclamò rispondendo al suo guardo con una smorfia di ripugnanza. - Perché? - Ma è una via pubblica, lo so. L'altro invece credette ad una schizzinosa aristocrazia di gran dama, e se ne offese. Rimasero entrambi impacciati, poi ella se ne andò nullameno sorridendo. Ma sulle dieci della sera stessa la vide sola col principino fuori di strada. Camminavano stretti l'uno contro l'altro, parlando a bassa voce, concitati: egli allungò il passo e traversò la strada cacciandosi sotto l'altro portico per seguirli non visto. Non era gelosia, ma un'amarezza della vanità e del non aver mai potuto sino allora credere ad alcuna donna. Sapeva che il principe stava per sposare una baronessa tedesca ricca a milioni, quindi i due dovevano certamente parlarne; fors'anche era la loro ultima scappata in una deliziosa soffocante ripresa di tutte le follie, studiando già il modo d'intendersi dopo quel matrimonio. Lelio sentiva che fra la principessa e il principino una vera rottura poteva anche non accadere mai in quella costante famigliarità creata loro dai rapporti mondani: egli invece doveva già affrettare il proprio ritorno in campagna per non ingrossare troppo i primi debiti contratti nella necessità di frequentare quegli ultimi mesi più assiduamente i massimi saloni bolognesi. La principessa, vana e dissoluta come quasi tutte le sue pari, aveva invece voluto prenderlo al modo che si spicca un frutto da un albero: per curiosità gelosa, convinta di fargli lo stesso onore della contessa Ghigi alla propria balia in quella visita di tutti gli anni. I due strisciavano lungo i muri nell'ombra senza voltarsi. Per un momento pensò di fare uno scandalo coll'oltrepassarli, fermandoli magari con qualche ironica trovata, ma se ne vergognò quasi subito: sarebbe stato un confessarsi ridicolamente geloso, poi tutta Bologna sapeva che il principino in altra occasione aveva dichiarato di non battersi per motivi di religione. E soprattutto a che pro, dal momento che non amava? Tuttavia si era loro appressato. Adesso non perdeva una mossa di lei, avrebbe quasi scommesso d'indovinare anche le sue risposte; passava poca gente, nullameno qualcuno si rivoltò ad osservarli avendoli forse riconosciuti. Dopo parecchi giri e rigiri arrivarono alla Seliciata di Strada Maggiore, nella quale stazionavano parecchi fiaccheri, e semplicemente, temerariamente salirono sul primo, un brougham. - Con me non lo farebbe. Ah! glielo domanderò. Invece l'indomani appena entrato nel suo gabinetto ella gli disse che andava a Parigi col principe Giulio. - Vieni anche tu? - L'altro si sentì come una stoccata nel petto. - Perché? Giulio è invitato a due lunghe partite di caccia, io resterò sola, vieni. Sei stato a Parigi? La vedrai, è la sola città dove si viva. Ma egli si era fatto anche più triste di quanto avrebbe voluto mostrarlo. - Debbo andare in campagna a scrivere un libro. - Lo scriverai dopo. - Non posso. - Lo hai già impegnato col tuo editore? - La semplicità di questa domanda parve all'altro un insulto. - Sai bene che non scrivo per commissioni - ribatté seccamente. Non si era ancora seduto. - Ah! Noi partiamo giovedì immancabilmente. - Addio - egli disse tendendole la mano. - Ma perché mi lasci così? Quando ci rivedremo? - Al mio ritorno a Bologna quest'inverno. - Non prima? - Forse che tu lo vorrai? - Oh! - esclamò finalmente - ma sei uggioso col tuo tono! Gli voltò le spalle con atto nervoso, ma l'altro non sapeva più andarsene. Una mollezza lo aveva preso in quel gabinetto tutto pieno di fiori e dell'odore di quella donna così adorabilmente fatua e voluttuosa; si sentiva vinto, finito. Una malinconia di abbandono come un anticipo della tristezza che lo aspettava alla villa in compagnia del vecchio padre, prostrava in quel momento tutto il suo orgoglio giovanile. - Hai freddo stamane: che ti faccia accendere il fuoco? - ella si volse gaiamente. - Allora io parto oggi stesso - egli disse. - Subito! Lelio le si avvicinò, la prese delicatamente fra le braccia come per piantarsela dentro alle carni, e si mosse per fuggire. - Lelio! - ella lo richiamò dal divano sul quale era caduta: - qui, in ginocchio. Promettetemi, bel signorino, che in tutti questi mesi non mi tradirete con nessuna contadina. - E tu con nessun principe. - Insolente! - ribatté con un lieve rossore alla fronte. - Addio, amore. - Addio, principessa.

Che egli abbia o no avuto una esistenza di uomo, mi pare la più inutile delle questioni dal momento che sarebbe stato un uomo non superiore al proprio tempo. - Perchè dunque hai detto di odiarlo? Gli altri assistevano quasi ansiosi allo strano duello, ma dinanzi al viso sempre così oscuro di Tebaldi, la fronte dell'abate si rischiarava; ambedue sentivano che i discorsi fatti sino allora non erano stati che divagazioni. - Per la religione del suo nome: essa è ancora il più grande ostacolo al progresso umano colla viltà dei dogmi e l'ipocrisia delle speranze. Il Dio di Cristo crea l'uomo, certamente per l'uomo e non per sè stesso, e nullameno per un primo peccato condanna tutta la sua discendenza: è una fola, lo so, ma questa fola rende ancora timida l'umanità. Cristo si proclama suo figlio, e viene a morire con noi per redimerci dalle conseguenze di questo peccato: dove? - In un altro mondo; e allora a che prò discendere in questo? E la speranza, di quell'altro mondo, che conserva tutte le ingiustizie nel nostro. Se la vita è un pellegrinaggio, perchè preoccuparci della strada? Basta la mèta, molto più che il viaggio è brevissimo. Il mondo invece deve inventare una stazione. - Nell'infinito. Arrestati, se puoi, tu che parli di stazioni: il tuo giorno è un baleno fra due ombre, la tua vita è una corsa fra due mète: hai Dio dietro e Dio davanti. Arrestati: in nessun momento della tua esistenza terrena sei pari a te stesso, solo nella tua anima immortale sta la tua identità. Atteggia, combina il mondo come ti piace, non sarà bello perchè potrà guastarsi, non sarà giusto perchè tu condanni il presente, e non puoi mutare il passato. Se tu vuoi la felicità degli uomini vivi, perchè non la pretendi anche pei morti? Il loro antico dolore non basterebbe dunque a turbare la tua gioia nel nuovo assetto sociale? Tu, che accusi d'ingiustizia l'elezione del popolo ebreo fra tutti i popoli, vorresti eleggere alla beatitudine una generazione e le generazioni di essa contro tutto il numero delle altre: pretendi la felicità, e fuggi dinanzi al problema del dolore! Perchè l'uomo soffre? Fino a quando non avrai risposto in te medesimo a questa domanda, il tuo appello alla gioia sarà per lo meno insensato; tu, l'uomo delle scienze positive, vuoi dunque risolvere l'equazione facendo a meno dei suoi dati?- La società sola riduce l'uomo infelice. - Ancora l'uomo contro l'uomo! Perché? questo se tu li credi eguali? E se invece sono dispari nella natura, solamente in Dio potranno pareggiarsi. L'umanità non è dunque più per te socialista un uomo solo, sempre uguale a sè medesimo, nella cui vita ogni generazione è un minuto, che si ricorda al di là del proprio passato, e presagisce quanto gli si prepara nell'avvenire? Il primo pensiero dell'uomo non è per sè medesimo, ma per il proprio creatore. Provati a non ascoltare la domanda, che ti sale ad ogni istante dalla coscienza: donde vengo io che vado? E subito dopo: dove vado io che passo? E poichè non sai rispondere, il problema diventa triplice: allora chi sono? Domandalo a Dio. - Troppi lo hanno già chiesto indarno. - E tutti chiederanno sempre. - Perchè il dubbio è la nostra unica verità - intervenne Tarlatti. - No, esso ne è solamente la fatica. Dio risponde perchè egli stesso, suscitando in noi queste domande, ha voluto che la nostra vita sia un dialogo ininterrotto con lui. Le vostre arti dilucidano i propri quadri sul panorama della sua creazione, le vostre scienze sillabano le prime parole sul libro delle sue leggi, la nostra storia effimera comincia e finisce nella sua storia eterna. Perchè Dio non sarebbe disceso fino a noi sotto la forma di Gesù? La leggenda mosaica, voi dite, è assurda quanto l'altra cristiana della redenzione: ma che ci resta di più ragionevole? Forse la ragione, che ignora tutti i perchè delle proprie domande e delle proprie risposte? Cancellate creatore e creazione, ma resterete sempre dinanzi al pensiero, che ha potuto tanto cancellare, e alla materia incancellabile anche per il pensiero. Siete dunque al medesimo punto, nella stessa antitesi del finito coll'infinito, dell'uomo con Dio: e poiché nulla può disgiungere materia e spirito, forma e sostanza, ordine e cose, Cristo torna mediatore fra le sue nature inseparabili. Cristo non si riesce a negarlo; tu, Mattioli, lo ammetti nell'arte, tu, Tarlatti, nel dubbio, tu, Tebaldi, nell'odio; mentre egli vi costringe tutti e per sempre nella propria orbita divina. L'umanità tenterebbe indarno di scordarlo, perchè in essa, ciò che fu, dura. Prima di strappare Cristo alla coscienza dell'umanità cercatevi intorno con che cosa riempirete in essa un vuoto di duemila anni. Chi di voi, può proclamare false le figure dello spirito accettando per vere quelle della natura? L'indimenticabile dell'uno non vale dunque l'immutabile dell'altra? Per coloro, che credono, il presente è l'eterno: per quelli, che dicono di non credere, il presente è l'effimero, ma la realtà è ugualmente per tutti nel presente: Cristo è presente nell'umanità. Tu, romanziere, hai confessato che nessun dramma è più intenso del suo: trova tu, poeta, una passione della sua più ineffabile: tu, filosofo scettico, cerca un dubbio più profondo della sua fede - se la nostra vita non viene da Dio, e non torna a Dio per mezzo di Dio, dove va la nostra vita? - Tu, socialista, accumula tutte le risorse della materia, condensa l'immensità del mondo nella brevità del tuo tempo, e costruisciti una vita di piaceri; il più piccolo dei dolori spirituali simboleggiati in Cristo ti renderà per sempre, ugualmente, inconsolabile. Tutti noi portiamo Cristo crocifisso nel cuore, e la nostra passione continua la sua, finchè sia consumata la prova e vinto il mistero. Oggi come sempre il mondo appartiene a coloro che credono. - Chi crede più? - chiesero tutti a una voce. - Coloro che interrogano senza pretendere la risposta, e coloro che rispondono senza essere interrogati: i grandi della scienza che consultano l'universo aspettando ingenuamente le sue rivelazioni, e i piccoli della storia che rispondono, inconsciamente ai suoi appelli. Sono gli eletti di Dio. - E la chiesa, della quale tu vesti l'abito? - intervenne con fine sorriso Tarlatti. - Signori, è ora di chiudere - disse l'oste appressandosi al loro tavolo dopo aver spento senza che se ne accorgessero, quasi tutti i becchi del gas; questo brusco avviso li richiamò come una strappata dalle aeree regioni, nelle quali avevano spaziato sino allora, alla volgarità dell'ambiente. Il fiasco era ancora intatto. - Oh! - proruppe Tarlatti - bisogna pagarlo ugualmente, poichè l'oste ha dovuto sopportare quanto abbiamo detto finora. Si erano rimessi i mantelli e si avviarono per uscire: piovigginava. Scambiarono qualche parola sulle lezioni dell'indomani all'università, erano tutti studenti, poi si strinsero con affetto la mano. - Dunque, caro abate - disse ancora Tarlatti - la conclusione è: Laus Christo, come l'intestatura dell'ultimo capitolo nell'ultimo volume di Renan sulle Origini del cristianesimo. - E a Bovio? - interruppe sardonicamente Mattioli prevenendo la risposta. - Il silenzio intorno alla sua opera, affinchè possa più presto sentire quella, che egli stesso chiama Voce grande di Cristo - rispose l'abate coll'imperturbabile fede dei mistici.

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 16 occorrenze

Sing-Sing chiuse la porta, gettò un pizzico di polvere di sandalo su un catino d'argento dove bruciavano pochi pezzi di carbone odoroso, offrì ai due europei due sedie di bambù, quindi fatto il giro della stanza come per accertarsi che non vi fosse nessuno, disse: - È qui che da quindici giorni vivo in angosce inenarrabili, quantunque la morte non abbia mai fatto paura ad alcun cinese. Ho fatto mettere delle solide inferriate alle finestre, cambiare tappezzerie e visitare le pareti onde accertarmi che non esistevano passaggi segreti; ho chiuso la mia stanza con una porta che potrebbe resistere anche ad un pezzo d'artiglieria; ho delle armi a portata della mano. Eppure, credete che io mi tenga sicuro? No, perché sento che malgrado tante precauzioni, i bravi della hoè giungeranno egualmente fino a me e che mi colpiranno al cuore. - I bravi della hoè! - esclamò Fedoro impallidendo. - Della "Campana d'argento" - aggiunse Sing-Sing, con un sospiro. - Voi siete affiliato a qualche società segreta? - Tutti i cinesi, quantunque l'imperatore abbia emanato ordini rigorosi e colpisca senza pietà i membri delle società segrete, sono ugualmente affiliati a qualche hoè. Per noi è una necessità e anche un'abitudine prepotente ed io ho fatto come gli altri e come avevano fatto prima i miei avi. Disgraziatamente una sera, dopo un'orgia e dopo aver fumato parecchie pipate d'oppio, preso chissà da quale strano capriccio, mi sono lasciato sfuggire dei segreti che riguardavano la hoè alla quale sono iscritto. Il governo imperiale non ha osato colpire me, ma ha proceduto senz'altro, con rigore feroce, contro la mia società, torturando e dannando alle galere quanti membri aveva potuto acciuffare. Sono stato un miserabile, ed ora toccherà a me pagare il fallo commesso, colla perdita della vita. Sia maledetto l'oppio che mi ha fatto perdere la ragione. - È potente questa società della "Campana d'argento"? - chiese Fedoro, assai preoccupato da quella confessione. - Ha migliaia e migliaia di membri, dispersi in tutti gli angoli di Pechino, perfino entro la città interdetta (la città imperiale). - E hanno saputo che siete stato voi a tradirla? - Purtroppo - rispose il cinese. - E vi hanno condannato? - chiese Rokoff. - Quindici giorni or sono ho trovato sotto il mio capezzale una carta con il sigillo della società, una campana con due pugnali intrecciati sopra e sotto. Mi si avvertiva che entro due settimane, la mano della hoè, mi avrebbe colpito. - Chi aveva messo quella carta? - chiese Fedoro. - Lo ignoro, ma certo qualcuno dei miei servi. - Ve ne sono alcuni affiliati alla "Campana d'argento"? - Sarebbe impossibile saperlo. I membri non si conoscono l'un l'altro ed i soli capi tengono l'elenco dei soci. - Sicché non siete sicuro dei vostri servi. - Anzi io li temo, e da quando ho ricevuto quella carta, non ne ho fatto entrare più nessuno qui, per paura d'un tradimento. - Ignorano il segreto della porta? - chiese Rokoff. - Lo spero - rispose Sing-Sing. - Quanti giorni sono trascorsi? - Quattordici. - E questa notte voi dovreste morire - chiese Fedoro. - Sì. - È già mezzanotte e siete ancora vivo, io credo quindi che la società abbia voluto solamente spaventarvi. Sing-Sing crollò, la testa con un gesto di scoraggiamento. - L'alba non è ancora sorta - disse poi. - Ci siamo noi - disse Rokoff. - Vedremo chi avrà il coraggio di entrare qui. - Eppure sento che l'ora della morte si avvicina. Rokoff e Fedoro, quantunque coraggiosissimi, provarono un brivido. - Bah! - disse poi il primo. - Io credo che nulla accadrà. Signor Sing-Sing, coricatevi, e noi, Fedoro, sediamoci l'uno presso il letto e l'altro presso la porta, colle rivoltelle in mano. Sing-Sing tese loro ambo le mani, dicendo con voce commossa: - Grazie, e se domani sarò ancora vivo, non avrete a pentirvi di questa prova d'amicizia. Signor Fedoro, voi siete venuto per un grosso acquisto di tè. - Ve lo scrissi già. - Cinquecento tonnellate rappresentano una fortuna ed io sarò lieto di offrirvela. - Che dite, Sing-Sing? - Tacete. - Fedoro, - disse Rokoff - tu presso il letto; io vicino alla porta e voi, signore, coricatevi. Il cinese fece un gesto d'addio e si gettò sul letto senza spogliarsi, coprendosi colla coperta di seta azzurra. Rokoff abbassò il lucignolo della lanterna, onde la luce diventasse più fioca, estrasse la rivoltella per accertarsi che era carica, poi appoggiò una sedia contro la porta e si sedette, accendendo una sigaretta. Un profondo silenzio regnava nell'ampio palazzo del ricco cinese e anche nelle vie. La festa delle lanterne era finita e la folla a poco a poco si era sbandata, non essendo i cinesi nottambuli al pari degli europei e degli americani. Rokoff continuava a fumare, tendendo però gli orecchi. Di quando in quando si alzava e guardava ora Fedoro ed ora il cinese per accertarsi che né l'uno né l'altro si fossero addormentati. Quantunque coraggiosissimo, avendo dato prove di valore straordinario nella sanguinosa guerra russo-turca, entrando pel primo in uno dei più formidabili ridotti di Plewna, pure si sentiva a poco a poco invadere da una strana sensazione, che rassomigliava alla paura. Gli pareva di udire talvolta dei rumori misteriosi e di vedere agitarsi, negli angoli più oscuri della stanza, delle ombre silenziose, armate di pugnali e di smisurate scimitarre. Talora invece gli pareva di scorgere, fra la semioscurità, dei draghi volare per la stanza, pronti a piombare su Sing-Sing per dilaniargli il petto. Erano pure fantasie, create dal terrore misterioso che lo invadeva, perché quando si alzava, le visioni scomparivano ed ogni rumore cessava. Vegliava da un'ora, scambiando qualche parola sottovoce con Fedoro o col cinese, quando si sentì prendere da un'improvvisa stanchezza e da un desiderio irresistibile di chiudere gli occhi. Si fregò replicatamente il viso e cercò di alzarsi. Con suo profondo stupore non riuscì a lasciare la sedia. Le gambe gli tremavano, le forze lo abbandonavano e gli pareva che il letto di Sing-Sing e tutti gli altri mobili gli girassero intorno. - Fedoro! - chiamò facendo uno sforzo supremo. - Sing-Sing. Nessuno rispose. Il suo amico si era accasciato sulla sedia come se si fosse addormentato ed il cinese conservava una immobilità perfetta. Un terrore improvviso lo prese. - Che siano morti? - si chiese. Quasi nello stesso momento gli parve di vedere un lembo della parete aprirsi e sbucare fuori delle forme umane armate di pugnali. La visione però non ebbe che la durata d'un lampo, perché senti che le forse lo abbandonavano e che le palpebre si chiudevano irresistibilmente, come se fossero diventate di piombo. . . . . . . . . . . . . . . . Quando si risvegliò, Rokoff si trovò a letto, nella stanza che la sera innanzi gli era stata destinata dal maggiordomo del ricco cinese. Su un altro letto Fedoro dormiva profondamente, senza fare alcun gesto che annunciasse un prossimo risveglio. Il cosacco, stupito, girò intorno un lungo sguardo, non potendo credere ai propri occhi. - Che io abbia sognato? - si chiese Rokoff. - Le società segrete ... le ombre misteriose ... i terrori ... Sì, devo aver fatto un cattivo sogno. A un tratto si slanciò verso il letto di Fedoro, mandando un urlo. Nelle vicine stanze, nei corridoi, sulle verande, aveva udito alzarsi acute grida improntate al più vivo terrore: - L'hanno assassinato! Ah! Povero padrone! L'hanno ucciso! - Fedoro! Svegliati! - urlò. Il russo si era alzato bruscamente, stropicciandosi gli occhi. Vedendo Rokoff fermo dinanzi al letto, col viso sconvolto e gli occhi strabuzzati, fece un gesto di meraviglia. - Che cos'hai? Poi, prima che l'amico potesse rispondergli, gli sfuggì un grido. - E Sing-Sing? - Ucciso! Lo hanno ucciso! - disse Rokoff facendo un gesto disperato. - Sing-Sing morto! Ah! Ma dove siamo noi? ... Ieri sera non eravamo in questa stanza! ... Rokoff! Che cosa è successo? Chi ci ha portati qui? - Non so ... non so nulla ... è tutto un mistero inesplicabile ... Vieni ... usciamo ... l'hanno ucciso Le grida, i pianti, i singhiozzi della numerosa servitù del ricco cinese, echeggiavano dovunque. Fedoro e Rokoff, non essendo stati spogliati dai misteriosi nemici che li avevano trasportati in quella stanza, approfittando dell'inesplicabile sonno che li aveva colpiti, si slanciarono verso la porta. Nel corridoio s'incontrarono col maggiordomo, il quale singhiozzava. - È vero che è morto il tuo padrone? - chiese Fedoro, afferrandolo per le braccia. - Sì, signore ... assassinato ... assassinato! - E i suoi uccisori? - Scomparsi. - E non sai dirmi chi ci ha trasportati qui, mentre eravamo col tuo padrone? Il maggiordomo li guardò con sorpresa. - Voi ... col padrone! - esclamò. - Eravamo nella sua stanza per vegliare su di lui e ci siamo svegliati in questa, sui nostri letti. - È impossibile! ... Voi avete sognato! - Andiamo da Sing-Sing - disse Rokoff. - A più tardi le spiegazioni. Preceduti dal maggiordomo, il quale pareva inebetito, entrarono nella stanza del ricco cinese, che era guardata da quattro servi. Sing-Sing giaceva sul letto, cogli occhi sbarrati esprimenti un terrore impossibile a descriversi, colle labbra aperte e lorde d'una schiuma sanguigna, colle braccia penzolanti. Una macchia di sangue si era allargata sopra la ricca casacca in direzione del cuore e altro sangue si vedeva sulle lenzuola di seta bianca. - Morto! - esclamò Rokoff, indietreggiando. Fedoro si curvò sull'assassinato, aprì la casacca, strappò la camicia e mise allo scoperto il petto. Una ferita, che pareva prodotta da un pugnale triangolare, a margini taglienti, si vedeva dal lato sinistro, un po' sotto la mammella. Il colpo, vibrato da una mano robusta e sicura, doveva aver spaccato il cuore del povero cinese e la morte era stata certo fulminante. - I miserabili hanno mantenuto la parola! - esclamò. - E da dove sono entrati? Rokoff, non eri appoggiato contro la porta tu? - Sì - rispose il giovine. - Non l'hai udita aprirsi? - No, almeno fino a che ero sveglio. - Ah! Sì, mi ricordo che un sonno irresistibile mi aveva preso. Anche tu? - Sì, Fedoro, ma prima di chiudere gli occhi ho veduto un lembo della parete aprirsi ed entrare degli uomini. - E non hai fatto fuoco? - Mi è mancato il tempo; un momento dopo cadevo addormentato. - Allora ci hanno dato qualche narcotico per ridurci all'impotenza! - E chi? Io non avevo bevuto nulla dopo il banchetto - disse Rokoff. - Prima di addormentarti non hai notato alcun che di straordinario? - Assolutamente nulla. - Non hai avvertito alcun odore? - Non mi parve. - Devono aver bruciato qualche sostanza per farci addormentare. - Lo credi? - Ne sono certo - rispose Fedoro. - Eppure prima non ho veduto entrare nessuno. - Da qual parte si sono introdotti quegli uomini? - Da quella - rispose Rokoff, indicando un angolo della stanza. - Stavo per addormentarmi, eppure ho veduto aprirsi una porta o qualche cosa di simile. Fedoro si recò a visitare la parete battendola col calcio della rivoltella e udì un suono sordo che non annunciava di certo che al di là ci fosse un vuoto. - È strano! - disse. - Eppure tu li hai veduti entrare per di qui? - Sì, me lo ricordo. - E non vedo alcuna traccia sulla tappezzeria; tuttavia non mi stupisco. Questi cinesi hanno inventato mille segreti. Dov'è il maggiordomo? - Eccomi, signore - rispose il cinese, il quale stava ritto accanto al letto, piangendo silenziosamente. - Sono devoti i servi di questa casa? - Lo credo, signore. - Sono affiliati a qualche società? - Non potrei dirvelo, perché nessuno lo direbbe, anche se sottoposto alla tortura. - Chi è stato il primo ad accorgersi del delitto? - Io - rispose il maggiordomo. - Ogni mattina premo il bottone d'un campanello elettrico per svegliare il mio padrone. Stamane feci come il solito, e non ricevendo risposta, né udendo alcun rumore, mi nacque il sospetto che fosse accaduta qualche disgrazia. Fatta abbattere la porta, ho trovato il mio signore assassinato. - Era ben chiusa? - chiese Fedoro. - E per di dentro. - Non vi era alcuna traccia che fosse stata forzata? - Nessuna, signore. - Sapevi che noi eravamo chiusi qui col tuo padrone? - Lo ignoravo, e poi ... come spiegare questo mistero? Voi vi siete svegliati proprio nella stanza che io stesso vi ho assegnata per espresso ordine del mio padrone. - Ti dico che eravamo qui. Chi può averci trasportati in quella stanza? - Ne siete certo, signore? - chiese il maggiordomo con accento alquanto incredulo. - Sì, noi eravamo qui. - Se la porta era chiusa! - Eppure non abbiamo sognato. Il tuo padrone aveva paura di venire assassinato e ci aveva pregati di tenergli compagnia. - E vi siete svegliati nella vostra stanza? Oh! - Ci hai ben veduti uscire. - È vero - disse il cinese, il cui stupore non aveva più limiti. Poi, come fosse stato colpito da un improvviso pensiero, chiese: - Voi avete veduto il mio padrone toccare la molla segreta che doveva aprire la porta? - Eravamo assieme a lui - rispose Fedoro. Il viso del maggiordomo si fece oscuro ed i suoi occhi si fissarono sul russo. - Ah - disse poi. - Che cos'hai? - chiese Fedoro con inquietuline. - Dico che se conoscevate il segreto della molla, potevate anche uscire e tornare nella vostra stanza. - Tu oseresti sospettare di noi? - Non è a me che tocca indagare su questo affare misterioso, - disse il cinese con voce lenta - bensì ai magistrati della giustizia. Ecco la polizia: sbrigatevela come meglio potete.

. - Che abbia tutt'altra intenzione che di condurci in Europa? Comprendi qualche cosa tu Fedoro? - No, Rokoff. - Quale scopo può avere per condurci attraverso lo Sciamo? - Non riesco a indovinarlo. - Che voglia invece condurci in Siberia? - - A fare che cosa? - Ho pensato che quest'uomo potesse essere ... indovina chi, Fedoro. - Non saprei. - Un agente segreto della polizia russa, incaricato di scoprire gli esiliati che fuggono dalle miniere siberiane. - In tal caso, imbarcando noi sul suo "Sparviero", avrebbe preso un granchio colossale - disse il russo, ridendo. - Io credo invece che sia uno scienziato. - Appartenente a quale nazione? Vorrei sapere perché non ce lo dice - disse Rokoff. - Forse un giorno ce lo dirà. D'altronde noi non possiamo lamentarci della sua ospitalità, quindi non c'importa di sapere se sia americano o russo o inglese o italiano ... Italiano! Ha un accento così dolce che lo riterre per tale, Rokoff. Non te ne sei accorto? - Infatti la sua pronuncia mi pare che non abbia la ruvidezza della lingua inglese, né tedesca, né ... - Signori, l'Hoang-ho - disse il capitano avvicinandosi bruscamente. - Ci terreste a una partita di caccia sui suoi isolotti o sulle sue rive? Si dice che i fagiani dorati ed argentati abbondino fra i canneti. - Farei volentieri alcune fucilate, capitano - disse Rokoff, prontamente. - Ho dei buonissimi fucili da caccia che metto a vostra disposizione. Quando giungeremo in un luogo deserto scenderemo. L'Hoang-ho, o Fiume Giallo, si svolgeva dinanzi agli sguardi degli aeronauti, aprendosi il passo fra due rive coperte da giganteschi pini e da numerose capanne. Questo fiume, chiamato giallo perché le sue acque, scorrendo su un letto d'argilla giallastro ne assumono il colore, è uno dei più importanti della Cina, raggiungendo una lunghezza di ben tremilanovecentonovanta chilometri. Nasce nella Mongolia - fra le aspre montagne del Kulkum, dove viene chiamato dagli indigeni Haro-mu-ren. Dopo immensi serpeggiamenti va a bagnare le terre delle provincie cinesi di Kan-Suhe, di Scen-Si e del Sian-Si, entra fra quelle dell'Ho-Nam e del Kiang-Su e va a scaricarsi nel Mar Giallo duecentoventi chilometri al nord dell'Yang-tse-Kiang, l'altro gigantesco fiume della Cina. È un corso d'acqua rapidissimo, molto largo, irto di bassi fondi che ne rendono la navigazione difficile e sommamente pericolosa per le sue piene. Disastri enormi ha prodotto in tutti i tempi, subissando molte città ed ingoiando migliaia e migliaia di abitanti, nonostante le gigantesche dighe costruite dai primi imperatori cinesi e continuate fino ai nostri giorni. Nel momento in cui lo "Sparviero" giungeva, numerosi pescatori si trovavano disseminati attorno agli isolotti, montati su sha-ting, specie di barche piatte, e alcune giunche dalle forme tozze, colle immense vele formate da giunchi intrecciati, solcavano il fiume. Vedendo apparire quel mostro volante, che procedeva con velocità fulminea e con un rombo sonoro, uno spavento indicibile si era sparso fra i cinesi. Le giunche si affrettavano a dirigersi verso le rive, mentre i pescatori, pazzi di terrore, balzavano in acqua, abbandonando le loro barche alla corrente. - Un drago! Un drago! - urlavano tutti. Gli abitanti delle sponde, udendo quei clamori, si precipitavano fuori delle capanne, ma, appena scorto il mostro volante, s'affrettavano a rientrare, gridando e facendo gesti disperati. Rokoff e Fedoro si divertivano immensamente del terrore dei cinesi e anche il capitano pareva che si compiacesse dell'effetto che produceva la sua macchina volante, la quale seguiva le capricciose curve del fiume, tenendosi a un'altezza di soli cento metri. A un tratto però le loro risa si tramutarono improvvisamente in un'esclamazione di sorpresa e anche d'angoscia. Lo "Sparviero" aveva superato una curva, quando d'un tratto un colpo di cannone rimbombò sulla riva destra, in mezzo ad un folto gruppo di pini seguito subito dal ben noto ronfo metallico d'un grosso proiettile. Un fortino, nascosto fino allora dalle piante, si era improvvisamente delineato all'estremità d'un piccolo promontorio dominante il corso del fiume ed alcuni artiglieri, che occupavano una bastionata, avevano fatto fuoco contro il mostro, scaricando un grosso pezzo d'artiglieria. La palla, di grosso calibro di certo, era passata pochi metri sopra il fuso, perdendosi poi fra le boscaglie della riva opposta. Un po' più abbasso e forse la macchina sarebbe stata fracassata. - In alto! In alto! - aveva gridato il capitano, slanciandosi verso il macchinista. Rokoff e Fedoro avevano staccato rapidamente due fucili che si trovavano sospesi alla balaustrata armandoli precipitosamente. In quell'istante un secondo sparo rimbombava all'estremità del bastione, dietro un terrapieno. Altri soldati, dei manciù, avevano smascherato un secondo pezzo e credendo in buona fede d'aver a che fare con qualche mostro, avevano fatto fuoco. Un momento dopo l'ala di babordo, troncata a metà, quasi nel centro dell'armatura, si ripiegava bruscamente, spostando il fuso. Il capitano aveva mandato un grido di furore. - Canaglie! Ci rovinano! Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

. - Vi giungeremo prima che la giunca abbia imbarcati i manciù - disse il capitano. - Ha da percorrere ancora un miglio e questo tempo sarà a noi bastevole. - E potremo resistere noi, se lo "Sparviero" non sarà pronto a spiccare il volo? - Ho veduto le ali muoversi, quindi è segno che il macchinista ha compiuto la saldatura. Signor Rokoff, appoggiate sull'isola. Vedo i manciù fare dei segnali alla giunca. - Ancora pochi colpi di remo, signore - rispose il cosacco il quale arrancava furiosamente. In quel momento si udì la voce del macchinista gridare: - Capitano! Quando vorrete! - Hai finito? - Sì, signore e lo "Sparviero" è pronto ad innalzarsi. La scialuppa non era che a pochi passi dalla riva e la giunca non era ancora arrivata là dove si erano raggruppati i manciù. - A terra! - gridò il capitano. Si erano appena slanciati fra le erbe, quando in lontananza si udirono delle strepitose detonazioni che si ripercossero lungamente sotto le piante che coprivano le sponde. Un istante dopo una palla colpiva la scialuppa quasi a metà, spaccandola in due. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff facendo un salto. - Un momento di ritardo e quel proiettile mi sfondava lo stomaco. Si gettarono sotto gli alberi, mentre la giunca sparava una seconda bordata massacrando le querce che crescevano presso la scialuppa e si misero a correre a precipizio verso lo "Sparviero". Il macchinista li aveva già preceduti. - Vira subito di bordo ed innalziamoci fuori tiro - disse il capitano. - Subito, signore - rispose il bravo giovane, mettendo in moto ali ed eliche. La giunca aveva sospeso il fuoco per imbarcare i soldati. Era il momento opportuno per innalzarsi. Lo "Sparviero" prese la corsa sfiorando il suolo, poi virò quasi sul posto e si spinse in alto descrivendo un immenso semicerchio. Vedendo quel mostro elevarsi al disopra dell'isola, i cinesi della giunca e i soldati erano rimasti come impietriti, senza pensare a far uso delle loro armi. Quell'istante di esitazione era stato bastante allo "Sparviero" per raggiungere prima i cinquecento poi i settecento metri. Quando le artiglierie del veliero tuonarono, ormai era fuori di portata, al sicuro da qualunque offesa. - Al nord! - gridò il capitano al macchinista. L'aerotreno, che filava con una velocità di trenta miglia all'ora, varcò il fiume, poi mentre i manciù, furiosi di essere stati così giocati, scaricavano all'impazzata i loro moschettoni, volteggiò al disopra delle foreste, dirigendosi verso il settentrione. - Dateci ora la caccia, se ne siete capaci - disse Rokoff. - Vi aspettiamo nel deserto di Gobi per offrirvi una bottiglia di gin. - Credevo che non finisse così bene per noi - disse Fedoro. - Se lo "Sparviero" non fosse stato pronto, non so se a quest'ora saremmo ancora vivi. I cannoni della giunca ci avrebbero massacrati in pochi minuti. - Ed infatti non tiravano male quei marinai d'acqua dolce. Il macchinista deve aver fatto dei veri miracoli per riparare l'avaria in così breve tempo. Resisterà almeno l'ala? - Non abbiate alcun timore sulla sua solidità - disse il capitano, accostandosi ai due amici. - L'ho osservata or ora e vi assicuro che non si spezzerà se un'altra palla di cannone non la fracassa di nuovo. - E dove andiamo ora? - chiese Rokoff. - Siamo a poche miglia dal deserto e vi ho promesso di farvi assaggiare le trote dei laghi del Caracorum. - Andiamo a pescare le trote, purché poi pieghiamo immediatamente verso il sud- ovest. - A suo tempo cambieremo rotta; per ora è impossibile. - E chi ve lo impedisce, capitano? - Un motivo che non vi posso comunicare e che non vi riguarda. Vi ho promesso di condurvi in Europa o in India e manterrò la parola e questo deve bastarvi. Macchinista, puoi preparare la cena, mentre io prendo il timone. - Dove vuole trascinarci quest'uomo? - chiese Rokoff a Fedoro, quando furono soli. - Lasciamolo fare - rispose il russo. - Noi non abbiamo il diritto d'immischiarci nei suoi affari. D'altronde un giorno conosceremo il motivo di questa sua corsa misteriosa attraverso il deserto. Gli occhi li abbiamo anche noi per vedere. Il deserto cominciava. Oltrepassata una piccola catena di montagne che limita verso il nord il bacino dell'Hoang-ho, lo "Sparviero" era sceso sopra una sterminata pianura priva di vegetazione e coperta di sabbia in gran parte riparata da un fitto strato di neve. Era il principio dello Sciamo o meglio del Gobi, il Sahara dell'Asia centrale, che occupa buona parte della Mongolia e che forma come una barriera fra la Siberia meridionale e l'impero cinese propriamente detto. Non è veramente un deserto arido, come quello africano, e nemmeno così infuocato, anzi d'inverno è freddissimo in causa dei venti gelati che soffiano dalla vicina Siberia e delle nevi che cadono abbondantemente in novembre, dicembre e gennaio. Se ha dei vasti tratti sabbiosi, ha pure delle steppe dove l'erba cresce molto alta, poi dei corsi d'acqua quali l'Urangu, lo Zankin, l'Oukom e il Kerulen, oltre a parecchi piccoli laghi, sempre ricchi d'acqua. Esso va dalla catena dei Grandi Altai che giganteggia verso l'ovest a quella del grande Chingan che corre verso l'est, ed è popolato da numerose tribù nomadi che allevano cavalli, cammelli e montoni in gran numero; però al pari dei terribili tuareg del Sahara, si dedicano anche al ladroneggio, taglieggiando e saccheggiando le carovane. Nel momento in cui lo "Sparviero" scendeva nel deserto, nessun accampamento appariva, quantunque vi fosse entrato in un luogo che ordinariamente frequentavano i nomadi urati, che formano una delle tribù più popolose dello Sciamo. Non si vedevano altro che numerose lepri, le quali, spaventate dall'ombra proiettata dall'aerotreno, fuggivano in tutte le direzioni, nascondendosi fra i radi cespugli che crescevano qua e là, specialmente nelle bassure. In alto, invece, volteggiavano grossi falchi e, non meno spaventati dei piccoli corridori, s'affrettavano ad allontanarsi da quel mostro che procedeva con un rombo strano, sbattendo febbrilmente le sue immense ali. - Che solitudine - disse Rokoff a Fedoro. - Sono tristi le steppe del Don e del Caspio, ma anche questo deserto non è allegro, in fede mia. Si vedessero almeno degli accampamenti! - Non desiderarli, Rokoff - rispose Fedoro. - Se ci scorgono non mancheranno di darci la caccia e di perseguitarci accanitamente. - Non potrebbero resistere a lungo a una simile corsa. - Non dico di no, tuttavia è meglio che si tengano lontani. Sono meglio armati dei tartari, comperando fucili dai russi di Kiathta e una palla può raggiungerci. - Sono lontani questi laghi del Caracorum? - Se continuiamo ad avanzare con questa velocità, vi giungeremo prima di domani sera. - Che il capitano abbia qualche appuntamento in quel luogo? - Colle trote forse? - Uhm! Vedremo se saranno trote, mio caro Fedoro. Questa volata verso il nord mi è sospetta. - Verso il nord-ovest - corresse il negoziante di tè, gettando uno sguardo su una bussola situata presso la prora. Mentre si scambiavano i loro pensieri, lo "Sparviero" continuava la sua corsa indiavolata, lottando senza fatica contro il gelido vento che soffiava dalla non lontana Siberia. Si era elevato fino a quattrocento metri e di quando in quando deviava ora a destra e ora a sinistra, come se il capitano cercasse un luogo acconcio per discendere. Vedendo finalmente delinearsi all'orizzonte una piccola catena di alture, puntò verso di essa, spingendo la velocità a quaranta e anche più miglia all'ora. La regione d'altronde era sempre deserta, interrotta solamente da zone nevose sulle quali si vedevano correre, con fantastica rapidità, numerosi cani viverrini, animali somiglianti alle martore, col corpo assai allungato, la testa corta e affilata, le gambe assai basse e il pelame bruno, con striature più oscure. Probabilmente andavano in cerca di qualche laghetto, essendo abilissimi pescatori. Verso le cinque, nel momento in cui il sole scompariva e che le tenebre calavano rapidissime, lo "Sparviero" calava dolcemente su una collinetta sulla quale crescevano macchie di betulle, di lauri e di piccoli pini. - La cena è pronta - disse il macchinista. - E noi siamo pronti a divorarla - rispose il capitano. - Speriamo che nessuno venga a disturbarci - disse Rokoff. - Qui non siamo sull'Hoang-ho e finora non abbiamo incontrato alcun abitante. Prima di discendere ho osservato attentamente i pendii della collina e non ho scorto alcun accampamento. - Signori, quando vorrete. Quantunque soffiasse un vento freddissimo, cenarono sul ponte, al riparo d'una tenda di feltro che il macchinista aveva tesa onde non si spegnesse la lampada ad acetilene. - Ritengo inutile montare la guardia - disse il capitano, quando ebbero finito. - Chiuderemo il boccaporto e dormiremo tranquillamente. - Non vi sono animali feroci nel Gobi? - chiese Rokoff. - Sì, degli orsi e dei leopardi delle nevi, ma il fuso è troppo solido per le loro unghie. Signori, andiamo a dormire. Alzarono le ali onde qualche animale non le guastasse, chiusero il boccaporto e si ritirarono nelle loro cabine, augurandosi la buona notte. Rokoff, che non era molto stanco, invece di chiudere gli occhi e di spegnere la sua lampadina, si gettò sul letto per fumare ancora qualche pipata di tabacco. Di quando in quando prestava orecchio agli urli del vento che da qualche po' era aumentato, spazzando la cima della collina e torcendo con mille scricchiolii le cime dei pini, dei lauri e delle betulle e piegando anche le immense ali dello "Sparviero". Senza sapere il perché, il buon cosacco non si sentiva tranquillo e pensava ostinatamente agli orsi e alle pantere accennate dal capitano. Stava però per chiudere gli occhi e cedere al sonno, quando gli parve udire dal lato della parete contro cui si appoggiava il lettuccio, degli stridii inesplicabili. Pareva che delle unghie robustissime grattassero l'esterno del fuso. - Che sia il vento che rotola dei sassi contro la parete metallica? - si chiese. - Oppure qualcuno che cerca di arrampicarsi sul ponte? Un po' inquieto s'alzò a sedere, tendendo gli orecchi. Il vento fischiava fortissimo al di fuori, imprimendo al fuso un leggero fremito, causato probabilmente dalle ali, nondimeno udì distintamente certi stridori poco rassicuarnti. - Qualche animale cerca d'intaccare la parete metallica - disse Rokoff. - L'alluminio non cederà di certo, ma se quella bestia giunge sul ponte e se la prende colle ali? Vedendo sospesa sopra il letto una grossa rivoltella, la impugnò, poi prese la lampada ed entrò nella cabina di Fedoro, che si trovava attigua alla sua. Il russo dormiva profondamente, ben avvolto nella sua grossa coperta di lana. - Svegliati - gli disse, scuotendolo vigorosamente. - Che cosa fai qui, Rokoff? - chiese il russo, aprendo gli occhi e guardandolo con stupore. - C'è qualcuno che cerca di salire sul ponte. - Hai sognato, Rokoff? - Non ho ancora chiuso gli occhi. - Chi può minacciarci? Qui non vi sono i manciù. - Vi sono delle belve, però. - Il boccaporto è chiuso e il fuso è solido. - E se fanno a brani le ali? O se guastano le eliche e gli strumenti? - Hai ragione Rokoff - disse Fedoro balzando dal letto e infilando rapidamente i calzoni. - Hai svegliato il capitano? - Siamo in due e basteremo. - Hai veduta la belva? - No, invece l'ho udita. Vieni nella mia cabina e prendi anche tu la rivoltella. Fedoro si vestì e lo seguì frettolosamente. - Odi? - chiese Rokoff, accostando un orecchio alla parete. - Sì, il vento che urla. - Ascolta attentamente, Fedoro. - Ah! Qualcuno tenta d'intaccare il metallo. - E sopra? Hai udito? - Sì, qualche oggetto è stato rotolato sul ponte. - Che siano i nomadi del deserto? - Rokoff, andiamo a vedere. Abbiamo dodici palle e di grosso calibro. - Saliamo, Fedoro. - Senza avvertire il capitano? - Noi non sappiamo ancora se esista veramente qualche pericolo; lasciamolo quindi dormire per ora. - Andiamo, Rokoff. - Tu prendi la lampada e sta dietro di me. Salirono in punta dei piedi i quattro gradini che mettevano sotto il boccaporto, poi il cosacco tirò risolutamente la sbarra che tratteneva internamente la botola e saltò fuori, tenendo la rivoltella puntata. Fedoro lo aveva subito seguito, ma un furioso colpo di vento aveva spento la lampada che teneva nella sinistra. - Ah! Per le steppe ... Rokoff non finì la frase. Aveva fatto un salto indietro, urtando così malamente il compagno da farlo cadere. Fra le tenebre aveva veduto un'ombra agitarsi a poppa, presso la ruota del timone. Era un uomo o una belva? Il cosacco, ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e scaricò, uno dietro l'altro, tre colpi. L'ombra mandò un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal fuso. - Colpito? - chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua volta, a far fuoco. - Ferito, forse - rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata. L'ombra si era subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul ponte, entrambi armati di carabine. - Che cosa fate qui, signori? - chiese. - Contro chi avete fatto fuoco? - Ho sparato contro un animale che passeggiava sul cassero - rispose Rokoff. - L'avete veduto bene? - Vagamente. - Qualche leopardo delle nevi? - Mi parve piuttosto un orso, capitano - disse Fedoro. - È fuggito? - Sì - disse Rokoff. - Perché non avvertirci? Potevano essere più d'uno e assalirci. - Avevamo dodici colpi. - Signori miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d'aver preso con me due uomini senza paura. Ha guastato qualche cosa quell'animale? - Non mi pare. - E come vi siete accorti che il ponte era stato invaso? - Ero ancora sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi - disse Rokoff. - Gli orsi non sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia. Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a passeggiare sul nostro "Sparviero".

Essendo l'oppio sciropposo e impregnato sempre d'umidità, prima di versarlo nella pipa lo si mette in un cucchiaio e lo si riscalda fino a che abbia preso una certa consistenza. Ciò ottenuto lo si versa sull'orlo del fornello e lo si accende avvicinandolo a un bastoncino d'incenso o semplicemente alla fiamma del focolare. I manciù, preparate ed accese le pipe, ricominciarono a bere con maggior ardore, alternando oppio e acquavite di riso. Una densa nuvola di fumo oleoso invase ben presto la stanza sfuggendo lentamente attraverso la stuoia. - Ci ubriacheremo anche noi - disse Rokoff, alzandosi. - Credo che sia il momento di andarcene - disse il capitano. - Ormai i soldati non lasceranno i vasi, finché rimarrà in fondo una goccia di liquore. Si vede nessuno fuori? - No - rispose Fedoro. - Dove sarà andato il tartaro? Questa assenza così prolungata non mi tranquillizza affatto. - Lasciamolo dove si trova e sgombriamo - disse Rokoff. Afferrò la scala e la calò fuori della veranda. - A voi, capitano - disse. - Eccomi - rispose il comandante, afferrando il fucile. Diede un rapido sguardo sotto le piante e non vedendo o almeno credendo che non vi fosse alcuno, scese rapidamente. Era appena giunto a terra e Rokoff e Fedoro stavano scendendo l'uno dietro all'altro, quando un lampo balenò dietro un cespuglio, seguito da una fragorosa detonazione e dal ben noto fischio della palla. Il capitano si volse rapidamente, puntando il fucile. Un uomo fuggiva rapidamente attraverso le piante, cercando di ripararsi dietro ai tronchi. - Canaglia! - gridò il comandante. - Lo sospettavo! Lasciò partire i due colpi. L'uomo che fuggiva cadde senza mandare un grido, scomparendo in mezzo a un cespuglio. Rokoff e Fedoro con un solo salto erano balzati a terra, preparando le armi. - Fuggiamo! - gridò il cosacco. - I soldati! - Dove? - chiesero Fedoro e il capitano. - Eccoli là che si avanzano fra gli alberi. Due o tre colpi di fucile rimbombarono. Dei soldati accorrevano fra i tronchi dei pini e delle querce, facendo fuoco. - Via! - gridò il capitano, ricaricando prontamente il fucile. Tutti e tre si slanciarono furiosamente innanzi, raccomandandosi alle proprie gambe e dirigendosi verso l'Hoang-ho. I manciù si erano già gettati sulle orme dei fuggiaschi, continuando a sparare con nessun successo, perché le palle, mal dirette, non colpivano che i tronchi degli alberi. In un quarto d'ora il capitano e i suoi compagni giunsero sulla riva del fiume, a breve distanza dalla barca. I manciù, che si fermavano sovente per caricare i loro moschettoni, erano rimasti molto indietro. Tuttavia si udivano le loro grida avvicinarsi. - Presto, imbarchiamoci - disse il capitano. - Andiamo all'isolotto? - chiese Rokoff prendendo i remi. - No, passiamo sull'altra riva. Sarebbe pericoloso mostrare ai manciù che noi abbiamo stabilito il nostro domicilio su quest'isola. La scialuppa, spinta poderosamente innanzi dal cosacco, tagliò la corrente obliquamente, dirigendosi verso la riva sinistra, che si trovava lontana quasi tre chilometri. Per metterla al coperto dal fuoco dei soldati, Rokoff prima si accostò all'isolotto, onde ripararsi dietro di esso. Il capitano e Fedoro si erano sdraiati a poppa, tenendo i fucili in mano. I manciù cominciavano a comparire. Urlavano come belve feroci e saltavano come capre. Giunti sulla riva si sparpagliarono dietro i tronchi dei pini e delle querce, aprendo una nutrita fucilata. Erano una ventina e alla loro destra si vedeva il tartaro. Il briccone era miracolosamente sfuggito ai colpi del capitano e per paura degli altri si era lasciato cadere, fingendosi morto. - Canaglia! - esclamò il comandante dello "Sparviero", scorgendolo. - Peccato che i nostri fucili da caccia non abbiamo che una portata assai limitata. Se avessi un Mauser o uno dei miei Winchester, non grideresti tanto. Il fuoco dei manciù continuava senza interruzione, ma le armi degli aeronauti non potevano servire più, in causa della distanza; nemmeno quelle antichissime dei soldati riuscivano a colpire il bersaglio. Qualche palla, è vero, giungeva fino alla scialuppa, senza avere la forza di traforare le tavole. Rokoff, che arrancava con furore, con pochi colpi di remo raggiunse la punta meridionale dell'isolotto, virò prontamente di bordo, scomparendo agli occhi dei manciù, poi riprese la corsa verso la riva opposta. Il capitano e Fedoro, entrambi in piedi, guardavano fra gli alberi per vedere se il macchinista compariva. Quegli spari dovevano averlo allarmato e fattogli interrompere la riparazione. La scialuppa si era allontanata di cinquanta o sessanta metri, quando lo videro comparire fra i canneti. - Non mostrarti! - gli gridò il capitano, mentre i manciù riprendevano il fuoco mandando le loro palle sopra l'isolotto. - Ti aspettiamo laggiù: affrettati. Il macchinista fece col capo un cenno affermativo, poi lo videro slanciarsi fra le piante e scomparire. - Che la riparazione sia quasi finita? - chiese Fedoro. - Se il macchinista ha lavorato sempre, fra qualche ora lo "Sparviero" potrà rialzarsi - rispose il capitano. - E se i manciù attraversano il fiume? - Fuggiremo lasciando la cura al macchinista di raggiungerci. - E se sbarcassero sull'isolotto? - Perché dovrebbero prendere terra colà? Vedono bene che ci dirigiamo verso la riva opposta, quindi non si occuperanno che di noi. Io credo che nessuno abbia veduto lo "Sparviero" scendere in mezzo al fiume. E poi, almeno pel momento, non hanno barche. - Che sia stato il tartaro a tradirci? - Non ho più alcun dubbio - rispose il capitano. - Mentre noi facevamo colazione, si è recato al fortino ad avvertire i soldati della nostra presenza. Forse contava su qualche premio. - Briccone! - E l'ha avuto - disse Rokoff, ridendo. - Tre vasi di sciam-sciù vuotati e che i soldati non gli pagheranno di certo. - Ci siamo! E non vedo alcuna capanna. La scialuppa si era arenata su un banco di sabbia il quale si prolungava fino alla riva. I tre aeronauti la trascinarono più innanzi onde la corrente non la portasse via, poi si diressero verso la foresta la quale bagnava le radici dei suoi ultimi alberi nelle acque del fiume. Il luogo pareva deserto. Non vi erano che pini, querce, alberi del sevo, giuggioli e bande di uccelli. Rokoff si avventurò sotto gli alberi per qualche centinaio di passi, giungendo sulla sponda d'una vasta palude ingombra di canne e da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente per parecchie miglia. Intanto i manciù, dopo aver sprecato buona parte delle loro munizioni, non ottenendo altro risultato che quello di spaventare gli uccelli acquatici, si erano diretti verso il nord seguendo la riva del fiume, onde poter meglio sorvegliare le mosse degli stranieri e fors'anche colla speranza di trovare qualche giunca. Invece, in quella direzione non si scorgeva alcun veliero e nemmeno una di quelle barche che servono pel trasporto del riso o del tè e che sono, di solito, così numerose sull'Hoang-ho. - Si vede che non hanno rinunciato alla speranza di darci la caccia - disse il capitano, che li aveva seguiti collo sguardo. - Se trovano qualche imbarcazione attraverseranno il fiume. - Capitano, accettate un mio consiglio? - chiese Rokoff, il quale era ritornato dalla sua esplorazione. - Dite pure. - Risaliamo il fiume anche noi. - Ed a quale scopo? - Per allontanare sempre più i soldati dall'isolotto e per respingere a fucilate le giunche che potrebbero scendere l'Hoang-ho e venire requisite dai nostri avversari. - La vostra idea non mi piace. Lo "Sparviero" ci raggiungerà egualmente e così facendo allontaneremo ogni pericolo pel nostro macchinista e per l'aerotreno. - E potremo continuare la nostra caccia - aggiunse Fedoro. Tornarono verso il banco e ripresero i loro posti nella scialuppa, rimontando lentamente la corrente e oltrepassando l'isolotto. I manciù rivedendoli comparire li salutarono con selvaggi clamori, ma sapendo che il loro fuoco non sarebbe stato efficace in causa della distanza, non sprecarono le munizioni. I tre aeronauti finsero di non essersi nemmeno accorti della loro presenza e continuarono tranquillamente il loro viaggio, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile contro le anitre mandarine, i marangoni, i beccaccini e le oche che erano sempre numerose. Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia: - Stiamo per venire presi! ... - Da chi? - chiesero a una voce Rokoff e il capitano. - Una giunca di guerra scende il fiume! - Per tutte le steppe del Don! - esclamò Rokoff. - L'avventura minaccia di finire male! ... - E lo "Sparviero" è ancora ammalato! - esclamò Fedoro. - Dove fuggire? Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l'isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno. - Giungeranno troppo tardi - disse finalmente. - Lo "Sparviero" fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell'equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

. - Ti assicuro che mi farò onore, perché da Taku a oggi, non sono mai riuscito a calmare interamente la fame, quantunque abbia mandato giù non so quante terrine di riso, di pasticci inqualificabili e non so quante migliaia di chicchere di tè. Se noi resteremo in Cina un mese ancora, dimagrirò spaventosamente. - Tra dieci giorni torneremo a Taku e c'imbarcheremo per l'Europa. - Per Odessa, mio caro. Se avessi saputo che la Cina era così, non avrei lasciato il mio squadrone per accompagnarti. - Sì, per Odessa.- rispose Fedoro. - Per le steppe del Don! Che non finisca più questa marcia? E che questi cinesi non diminuiscano mai? Comincio a perdere la pazienza e allora guai alle code che si troveranno alla portata delle mie mani. Fedoro interpellò il ragazzo che portava la lanterna, ormai mezza schiacciata dai continui urti della folla. - Presto, signore, due passi ancora - rispose l'interrogato, in pessimo inglese. - La casa di Sing-Sing non è lontana. - È mezz'ora che quel monello ci ripete questa frase - disse l'irascibile figlio delle steppe, tirandosi l'irsuta barba. - Mi ha l'aria di beffarsi di noi, questo briccone. - Pazienza, Rokoff - disse Fedoro. - Non bisogna aver fretta in Cina. I figli del Celeste Impero non hanno una misura esatta del tempo. - Auff! E sempre folla! Le vie si succedevano alle vie, fiancheggiate ora da casupole, ora da templi immensi, ora da dimore splendide coi tetti a punte rialzate e le pareti coperte di porcellane, da chiostri meravigliosamente traforati, da padiglioni e da giardini tutti fiammeggianti di lanterne multicolori. La folla si precipitava come un torrente senza fine, pigiandosi fra le case, irrompendo tumultuosamente nelle piazze, urtandosi, spingendosi fra grida, urla, fragori di trombe, di tam-tam, di gong, di mille strani strumenti musicali, mentre le bombe tuonavano senza posa sui poggioli, sulle verande, sulle terrazze, e le girandole lasciavano cadere una pioggia di scintille sugli ampi capelli dei curiosi, sui cavalli, sugli asini e sulle portantine che s'incrociavano in tutti i, sensi. Fedoro, stanco, stava per fermarsi onde prendere un po' di respiro, quando il ragazzo, che aveva rinunciato a portare più lungi la sua lanterna, ormai ridotta in uno stato deplorevole, si volse verso di lui, dicendogli: - Ci siamo. - Finalmente! Anch'io, non ne potevo più! - Si vede quella dannata casa del signor San ... San ... Ting ... Auff! che nome! Non riuscirò mai a digerirlo, mio caro Fedoro. - Se dice che ci siamo! ... - Non è la prima volta che ce lo ripete. Che abiti all'inferno questo negoziante di tè? - Pazienza, Rokoff; poi ci riposeremo. - Riposeremo dal cinese? - È mio amico. - Bella amicizia! Una zucca pelata! ... - Troverai un uomo amabilissimo e gentile. - Uhm! - Che sarà orgoglioso di ospitare un tenente della cavalleria russa. Il nostro paese gode oggi molte simpatie qui. - Eppure i nostri in Manciuria ne hanno commesse di quelle grosse. Ne hanno annegati a centinaia nelle acque dell'Amur. - Inezie, Rokoff. - Saranno tali forse per i cinesi: già, son così tanti, che diecimila più o meno non contano. - Non dire però male dei cinesi quando saremo da Sing-Sing. - Anzi dirò che sono bella gente - disse il cosacco, ridendo. - Sarò gentile; te lo prometto, Fedoro. - Allora tutto andrà bene. - Eccoci - disse in quel mentre il ragazzo. Fedoro ed il suo compagno erano giunti dinanzi ad una sontuosa dimora, adorna di colonnati coperti di lanterne, di frontoni di marmo, di ghirigori di porcellana, con tetti e soprattetti a punte arcuate sormontati da una vera selva di antenne sostenenti bandiere, draghi e gruppi di gigantesche lampade. Ondate di luce variopinta si proiettavano sulla folla stipata dinanzi al palazzo, dove bruciavano girandole, bambù crepitanti, fuochi di bengala e detonavano razzi e petardi in gran numero. - Bella casa! - esclamò il cosacco. - Principesca - disse Fedoro. - Ciò non mi stupisce, perché si dice che Sing-Sing, col commercio del tè, abbia accumulato milioni su milioni. Il ragazzo si era slanciato sull'ampia scala marmorea, sul cui pianerottolo si accalcavano numerosi servi vestiti sfarzosamente, con ampie zimarre di nankino fiorito e larghe cinture di seta ricamata in oro. Un momento dopo il gigantesco tam-tam, sospeso sopra la porta, echeggiava con fracasso assordante, annunciando al padrone della splendida dimora una visita importante. - È per noi che fanno tanto rumore? - chiese Rokoff. - Sì, rispose Fedoro. - Avrebbero fatto meglio a risparmiarsi questa musica che sfonda i timpani degli orecchi. - Rokoff! Tu diventi brontolone - disse Fedoro celiando. Un cinese, un maggiordomo di certo, obeso come un ippopotamo, tutto vestito di seta rossa a fiori bianchi ed a lune sorridenti, che traballava grottescamente sui suoi zoccoli quadrati dall'alta suola di feltro, s'avanzò verso i due europei e s'inchinò profondamente incrociando le mani sul petto e muovendo graziosamente le dita, salutandoli con un cordiale: - Tsin! ... Tsin! ... - Ecco un uomo che deve mangiare delle grasse galline o per lo meno delle oche - mormorò il cosacco. - Si deve star bene in questa casa. - Siete voi gli europei che il mio padrone aspetta? - chiese. - Sì - rispose Fedoro, il quale comprendeva benissimo il cinese. - Io sono Fedoro Siknikoff, rappresentante e comproprietario della casa di esportazione di tè, Siknikoff e Bekukeff di Odessa. - E l'altro? - chiese il maggiordomo, guardando il cosacco. - Un mio amico. - Seguitemi: ho ricevuto ordini a vostro riguardo. Fedoro mise in mano al monello un tael, somma ragguardevole in Cina dove un operaio, lavorando dall'alba al tramonto, non guadagna più di sessanta centesimi, e seguì il maggiordomo in un superbo vestibolo scintillante di luce per la moltitudine di lanterne di seta che coprivano il soffitto. Attraversarono in seguito parecchie gallerie, colle pareti coperte di arazzi meravigliosi rappresentanti draghi vomitanti fuoco e gru e cicogne in gran numero; passarono in mezzo a paraventi di seta di tutte le tinte, leggiadramente ricamati ed entrarono finalmente in una stanza illuminata da una gigantesca lanterna coi vetri di madreperla e che spandeva una luce diafana, del più sorprendente effetto. - Aspettate qui gli ordini del mio padrone - disse il maggiordomo, inchinandosi fino a terra. Rokoff, ch'era passato di stupore in stupore, s'era fermato sotto la lampada, girando all'intorno uno sguardo attonito. Quella stanza, quantunque ammobiliata semplicemente, non usando i cinesi mobili pesanti, era così graziosa, da far stupire lo stesso Fedoro, quantunque da lunghi anni avesse percorso il Celeste Impero, visitando tutte le città costiere. Era un quadrilatero perfetto, col pavimento coperto di piastre di porcellana azzurra che avevano dei dolci riflessi sotto la luce della lampada; colle pareti coperte di quella meravigliosa carta di Tung che invano gli europei hanno cercato di imitare, a fiorami dorati, che parevano ricamati, e col soffitto a quadri pazientemente intagliati. Le finestre, piccolissime, avevano tende di seta trasparente che coprivano i vetri di talco. Nel mezzo due letti massicci, bassi, con coperte di seta ricamata e guancialini di sottilissima tela fiorata; negli angoli, invece, leggeri tavoli laccati, scaffali di ebano, sputacchiere e vasi istoriati pieni di peonie fiammeggianti, e sedie di bambù che avevano certe vernici che parevano strati di vetro. Su tutti i mobili poi, vasetti, vasettini, statuette, palle d'avorio traforate, ninnoli d'ogni specie, di porcellana, di ebano, di osso, di talco, di madreperla, di oro e d'argento, specchi di metallo a rilievi e profumiere. - Non avrei mai supposto che questi cinesi sfoggiassero tanto lusso nelle loro case - disse Rokoff, dopo essersi guardato attentamente intorno. - Che cosa ne dici, Fedoro? - Che vedrai ben altre cose - rispose il giovine. - E il padrone di questa dimora? - Spero che si farà vedere presto. Noi siamo ospiti che valgono delle centinaia di migliaia di lire ed i cinesi ci tengono al danaro anche ... Un colpo bussato alla porta, gl'interruppe la frase. Il maggiordomo entrava portando due giganteschi biglietti di carta rossa, lunghi più d'un metro e larghi quasi altrettanto, sui quali si vedevano delle lettere adorne di geroglifici mostruosi e tre figure rappresentanti un fanciullo, un mandarino e un vecchio seduto presso una cicogna, cioè l'emblema della longevità. Li depose su un tavolo, poi usci senza aver pronunciato una parola. - Che cosa sono? - chiese il cosacco stupito. - Dei paraventi? - Dei biglietti di visita - rispose Fedoro, ridendo. - Eh! ... Scherzi? Questi, dei biglietti! ... Buon Dio! ... che portafogli usano dunque questi cinesi? - E d'augurio anche; guarda: vi sono dipinte sugli angoli le tre principali felicità ambite dai cinesi: un erede, un impiego pubblico e lunga vita. - Un erede! ... Ma noi non siamo ammogliati, Fedoro. - Lo diverremo forse un giorno. - E non sognamo pubblici impieghi, almeno io. - Accetterai almeno l'augurio di diventare vecchio. - Ah! ... Questi cinesi! ... - Taci! Il maggiordomo torna. - Con altri biglietti di visita, forse? Fabbricheremo dei superbi paraventi, mio caro amico. - No, con dei regali, invece. Dopo gli auguri, i presenti: è la prima luna del nuovo anno. - Siano benvenuti. Il maggiordomo, dopo d'aver bussato discretamente, era entrato assieme a due servi, i quali portavano un paniere di vimini adorno di nastri e di frange dorate. - Il mio padrone prega di accettare questo in attesa di visitare gli ospiti - disse. Rokoff levò la coperta di seta che copriva il paniere, levando successivamente dei barattoli che dovevano contenere degli unguenti preziosi, delle statuette d'avorio, delle pezze di seta, poi dei recipienti d'argento di varie forme e finalmente una superba anfora d'oro, finemente cesellata ed incrostata di pietre preziose. - Fedoro! - esclamò. - Un regalo da sovrano. È meravigliosa! Vale una fortuna! - Che non è destinata alle nostre tasche, Rokoff. - disse Fedoro. - Se ce la mandano in regalo! - Ma essendo l'oggetto più prezioso, non possiamo accettarlo. Il cosacco lo guardò con uno stupore facile a comprendersi. - Lo dici per scherzo? - chiese. - Sing-Sing si degna di trattarci da amici e come tali non dobbiamo abusare della sua generosità. Che cosa vuoi, mio buon Rokoff? Siamo in Cina e dobbiamo uniformarci agli usi del paese. - Che generosità pelosa! - gridò il cosacco sdegnosamente. - Da negoziante e soprattutto cinese. Metti l'anfora da una parte. - Un così bell'oggetto regalato! Se l'avessi io, mi comprerei cento cavalli, ma che dico? Parecchie centinaia. Ah! E non si mangia qui? - Aspettiamo prima la visita di Sing-Sing. Non si farà aspettare. Fedoro aveva pronunciato quelle parole, quando il maggiordomo entrò per la terza volta, annunciando il padrone. Un momento dopo Sing-Sing, il più ricco negoziante di tè della capitale dell'impero, entrava nella stanza.

. - Mi pare che lo "Sparviero" abbia cambiato rotta - disse Fedoro. - Sì, marciamo verso il sud-ovest con una velocità di quaranta miglia. Sono curioso di vedere gli altipiani del Tibet. Si dice che siano meravigliosa. - E verrà anche quel signore? - chiese Rokoff. - Andremo a visitare il paese dei Lama - continuò il capitano, fingendo di non aver udito la domanda - una regione che ben pochi europei hanno percorsa e viaggiando sempre lontani dalle città. Farà molto freddo su quegli immensi altipiani, spazzati sempre da venti freddissimi che screpolano la pelle e che gelano le mani ed il naso come al Polo Nord ... - Avete qualche altro da raccogliere lassù? - chiese Rokoff. - Ah! Poi andremo a visitare la gigantesca catena dell'Himalaya la più superba di tutte quelle che si ammirano nel mondo. Voi non l'avete mai veduta, signor Fedoro? - No, mai - rispose il russo. - Poi ... - Signore - disse Rokoff - andremo anche in India? ... - Toh! Mi dimenticavo che avete fame! Trentasei ore a digiuno! Macchinista, preparaci la colazione! - gridò il capitano. - I miei carissimi ospiti faranno onore al pasto! Fortunatamente ho fatto una buona pesca nel Caracorum e le trote sono al fresco! Non avranno perduto nulla della loro squisitezza con trenta gradi sotto lo zero. Vi pare, signor Rokoff? - Oh! Ne sono convinto - rispose il cosacco che avrebbe invece preferito lasciarle a gelare, per trovarsi solo con Fedoro e scambiare le sue impressioni sul misterioso personaggio caduto sullo "Sparviero" quasi per opera magica. Fu però un pio desiderio, perché il capitano, quasi avesse indovinate le loro intenzioni, durante tutta la giornata non li lasciò un momento soli, parlando dei suoi viaggi, delle regioni che si proponeva di attraversare, delle tribù che popolano il deserto, dei Lama del Tibet, della guerra che combattevano in quell'epoca gl'inglesi contro le tribù montanare dell'India, facendo scappare più volte la pazienza al cosacco, che ne aveva invece così poca. Lo sconosciuto, durante quelle spiegazioni, si era tenuto costantemente da parte, sempre seduto presso il timone. Aveva mangiato con buon appetito, senza mai parlare o limitandosi a rispondere con dei semplici cenni al cosacco ed al russo e facendo loro comprendere che conosceva male la loro lingua, poi aveva accesa una vecchia pipa di porcellana, simile a quelle che usano i tedeschi e gli olandesi e non si era più mosso dal suo posto. Solamente verso le dieci di sera, i due amici poterono trovarsi soli in una delle loro cabine. Lo "Sparviero" si era arrestato sulla cima d'un enorme ammasso di rupi, quasi al confine del deserto, a non molta distanza dalla via carovaniera che va da Sa- ciou, città cinese, a Uromei, grossa borgata mongolica, passando per Artsi e Pigian. Il capitano, dopo essersi accertato che nessuno poteva minacciarli, in causa della ripidità delle rupi, aveva lasciato il ponte per ritirarsi nella sua cabina assieme allo straniero, ma non aveva ancora discesi due gradini che era tornato indietro, dicendo a Fedoro. - Oh! mi ero dimenticato di darvi comunicazione d'una cosa che per voi è della massima importanza. - Quale capitano? - chiese il russo, un po' sorpreso. - Il vostro dispaccio è già stato spedito e la vostra casa di Odessa a quest'ora deve essere informata che voi state per ritornare in Europa attraversando l'Asia. - Il mio dispaccio spedito! - esclamò Fedoro. - E da quale ufficio telegrafico? - Da uno che ho potuto raggiungere - rispose il capitano, che pareva si divertisse dello stupore del suo ospite. - Se siamo nel deserto! - Costui deve essere il diavolo - pensava intanto Rokoff, guardandolo sospettosamente. - Il deserto! - disse il capitano. - Qui, sotto di noi, vi è infatti lo Sciarno; più lontano vi sono anche delle città che in poche ore possono metterci in comunicazione coll'Europa. Vi rincresce? - Tutt'altro, signore. E che cosa avete telegrafato alla mia casa? - Che voi, per circostanze inaspettate, non avete potuto fare i vostri acquisti e che l'imperatore di Cina vi rimanda in Europa attraversando l'Asia, sotto pena di farvi decapitare. - Su una macchina volante? - Questo lo direte voi, quando giungerete a Odessa. - E da dove avete spedito ii dispaccio? - Che v'importa di saperlo? - Capitano, vi ringrazio della vostra gentilezza. - Bah! Una cosa facile! Non ho impiegato che due minuti! A voi la ricevuta e buona notte, signori. Spero domani di farvi vedere la Mongolia meridionale. Ciò detto il capitano era sceso nella sua cabina, dove già lo aveva preceduto lo sconosciuto. Rokoff e Fedoro non trovarono di meglio che d'imitarlo, premurosi di trovarsi soli per poter parlare liberamente. - Finalmente! - esclamò Rokoff, quando si trovò nella sua cabina che era la più lontana da quella occupata dal capitano. - Potremo parlare senza testimoni. Che cosa ne dici tu di quell'uomo? Da dove viene? O meglio, da dove è caduto costui? È un mistero che sarei ben lieto di poter chiarire. - Che rimarrà, almeno per noi, sempre un mistero - rispose Fedoro. - Chi credi che sia? Un abitante di questo deserto? - Lui! È un uomo di razza bianca come noi, mio caro Rokoff. Ha tutti i tratti dei caucasi e nulla affatto dei mongoli. Mi è anzi venuto un sospetto. - E quale? - Che possa essere invece un russo. - Oh! - Sì, Rokoff. Dalle poche parole che ha pronunciate nella nostra lingua, quantunque orrendamente storpiate, ho sorpreso un accento che noi soli russi possediamo; e poi quella barba, quegli occhi azzurri, quella faccia un po' larga con zigomi un po' salienti, affatto speciali della razza slavo-tartara ... no, non devo ingannarmi. Quell'uomo deve essere un nostro compatriota. - E perché non dirlo? Che cosa può aver da temere da noi? - Ho notato un'altra cosa, Rokoff. - Quale? - Che quando il capitano ti ha presentato come ufficiale dei cosacchi, sulla sua fronte è passata come una nube e che nei suoi occhi è balenato un cupo lampo. - Perché dovrebbe odiare i cosacchi? - disse Rokoff, stupito. - Come tutti gli esiliati che nostro padre, lo Zar, manda a marcire nelle orribili miniere della gelida Siberia - disse Fedoro. - Tu sai e te lo dico senza che tu abbia ad offendertene, che i cosacchi sono i tormentatori di quei disgraziati, anzi i loro più feroci aguzzini. - Sicché tu sospetti? ... - Che sia un evaso delle miniere d'Algasithal o di altre peggiori. - Raccolto nel deserto per combinazione? - No, doveva esistere qualche accordo: diversamente non saprei spiegare questa corsa dello "Sparviero" verso il settentrione, mentre avrebbe dovuto dirigersi costantemente verso il sud-ovest per condurci nell'Europa meridionale, come ci ha promesso. - Allora sarà andato a prenderlo in qualche città della frontiera siberiana. - Ah! Stupido! - Che cos'hai, Fedoro? - La ricevuta del telegramma! Si frugò nelle tasche e trovatala, la spiegò rapidamente, gettandovi sopra uno sguardo. - Maimacin - disse. - È stato spedito dall'ufficio telegrafico di quella città, che è l'ultima della Mongolia e che si trova proprio sul confine della Siberia, di fronte alla città russa di Kiachta. Ecco la chiave del mistero. - E tu vuoi che lo "Sparviero" si sia spinto fino in Siberia in così breve tempo? - Abbiamo dormito trentasei ore - disse Fedoro. - Colla velocità che sviluppano le macchine dello "Sparviero", la cosa non mi sembra affatto straordinaria. - Briccone d'un liquore! - esclamò Rokoff, ridendo. - Ce l'ha fatta bella! - Più che il liquore, il narcotico che il capitano vi aveva messo dentro - disse Fedoro. - Quell'uomo dunque sarà un amico del comandante. - Certo. - Fuggito da Kiachta e rifugiatosi a Maimacin. - Sì, Rokoff, deve essere così. - E come l'avrà saputo il capitano? - Ecco quello che noi non sapremo mai. - Altro che le famose trote del Caracorum! - Una scusa per salire verso il nord, senza metterci in sospetto. - Avrebbe potuto dircelo liberamente. Io non avrei avuto nulla a che dire, anche nella mia qualità d'ufficiale dei cosacchi. - E nemmeno io, Rokoff. - Bel tipo quel capitano! ... - Un uomo incomprensibile. - Ma gentile, Fedoro, quantunque un po' originale. - Che ci terrà buona compagnia. Buona notte, amico; me ne torno alla mia cabina. E si separarono, lieti di aver delucidato, se non interamente, almeno parte di quel mistero. L'indomani, dopo la colazione, lo "Sparviero" lasciava quel gruppo di rocce, riprendendo la sua corsa attraverso il deserto. Deserto veramente non si poteva più chiamare, perché le sabbie rapidamente scomparivano, lasciando il posto a distese considerevoli di pini, di betulle e di erbe altissime in mezzo alle quali saltellavano legioni di lepri. Verso l'ovest invece si delineava la imponente catena dei Tian-Scian, una delle più considerevoli dell'Asia centrale e che divide la Dzungaria dal bacino del Tarim e da cui scendono numerosi fiumi. Qualche accampamento di mongoli, formato di tende di feltro di colore oscuro, si cominciava a distinguere verso gli ultimi contrafforti della catena e anche qualche carovana di cammelli sulla strada che va da Pigion a Chami. - Scendiamo verso la Mongolia meridionale - disse il capitano, il quale aveva raggiunto Fedoro e Rokoff che stavano a prora, osservando l'imponente panorama che si svolgeva sotto i loro sguardi. - Fra tre giorni noi ci libreremo sugli altipiani del Tibet. - Ci avanziamo con una velocità straordinaria - disse Fedoro. - Percorriamo cinquanta miglia all'ora, signori miei, abbiamo il vento favorevole. - Quasi come gli uccelli - disse Rokoff. - Oh no! Guardate come corrono quelle aquile che pare abbiano intenzione di venirci a fare una visita. - Delle aquile! - esclamò Rokoff. - Non le vedete? Vengono dai Tian-Scian ed ingrandiscono a vista d'occhio - disse il capitano. - Non danneggeranno le nostre ali! - Lo cercheranno. Quei volatili sono coraggiosi. - E non le respingeremo noi? - Ho già dato ordine al macchinista di portare in coperta dei buoni fucili da caccia. Non c'è da fidarsi di quei rapaci e stizzosi volatili. - Che credono il vostro aerotreno un uccellaccio? - È probabile, signor Rokoff. L'hanno proprio con noi. Una schiera di volatili, che avevano delle ali gigantesche, scendeva, con velocità fulminea, gli ultimi scaglioni del Tian-Scian, movendo verso lo "Sparviero". Erano dieci o dodici, tutte di dimensioni poco comuni, essendo le aquile della Mongolia molto più grosse di quelle che vivono sulle montagne dell'Europa. Non uguagliano ancora i maestosi condor delle Ande americane, che sono i più giganteschi della famiglia, nondimeno raggiungono uno sviluppo straordinario. Le aquile s'avanzavano su doppia fila, gridando a piena gola, colle penne arruffate, ed i lunghi e robusti becchi adunchi aperti, pronti a lacerare. Volavano con tale velocità, che in meno d'un quarto d'ora si libravano sopra lo "Sparviero", sbattendo vivamente le loro immense ali. - Sono furiose - disse Rokoff, prendendo un fucile da caccia, di fabbrica americana, a due canne, che gli porgeva il macchinista. - Attenti alle ali del nostro "Sparviero" - disse il capitano. - E anche ai piani orizzontali - aggiunse Fedoro. - Stracceranno la seta. Anche lo sconosciuto si era armato d'un fucile, collocandosi a poppa. Come il giorno innanzi non aveva pronunciata una sola parola, anzi si era sempre tenuto lontano dal russo e dal cosacco quasi avesse avuto timore di venire interrogato. Le aquile, dopo essersi tenute ad una considerevole distanza volando sempre sopra lo "Sparviero", avevano cominciato ad abbassarsi descrivendo degli ampi giri che sempre più restringevano. - Canaglie! - esclamò Rokoff. - L'hanno con noi perché disputiamo loro l'impero dell'aria! Le signore sono molto stizzose! Vi calmeremo con un po' di piombo che vi guasterà le penne e anche la pelle. Il capitano vedendone una che stava per piombare sullo "Sparviero", sparò il primo colpo alla distanza di sessanta passi. I pallottoloni le fracassarono di colpo le zampe e l'ala destra. Il volatile per un po' si sostenne, battendo furiosamente quella che era rimasta incolume, poi incominciò a scendere verso il deserto, descrivendo dei bruschi angoli. - E una - disse Rokoff. - A me la seconda! Tre colpi di fucile rimbombarono, seguiti da altrettanti. Anche Fedoro e lo sconosciuto avevano fatto fuoco, quasi contemporaneamente. Due aquile capitombolarono come corpi morti e un'altra le seguì poco dopo, facendo sforzi disperati per sorreggersi. Le altre un po' calmate da quell'accoglienza punto incoraggiante, s'innalzarono precipitosamente, senza però decidersi a lasciare in pace il trenoaereo. - Sono ostinate - disse Rokóff. - Non ne hanno ancora abbastanza. - Ritenteranno l'assalto - rispose il capitano. - Non è la prima volta che il mio "Sparviero" viene assalito da quei rapaci volatili. Nel traversare le Montagne Rocciose m'hanno dato una caccia accanita per sette e più ore e m'hanno lacerata tutta la seta dell'ala destra, mettendomi in un gravissimo imbarazzo. Se non avessi avuto le eliche il mio viaggio sarebbe terminato in America. - Sono ben coraggiose - disse Fedoro. - Il mio macchinista porta ancora la traccia d'un colpo di rostro che gli aveva stracciato il cuoio capelluto. Se fosse stato più leggero, l'avrebbero portato via. - Che sia vero che talvolta le aquile osano rapire perfino delle persone? - chiese Rokoff. - Degli adulti no, ma dei ragazzi sì - rispose il capitano - Questi volatili posseggono una forza muscolare incredibile e veramente prodigiosa. Non si trovano imbarazzati a rapire dei montoni e dei camosci che poi portano nel loro nido per divorarseli con maggior comodità. - E anche dei fanciulli? - Nella Scozia, per esempio, dove le aquile sono molto numerose, ogni anno ne rapiscono e anche qui nel deserto. Le madri mongole hanno anzi tanta paura che non osano lasciare soli i loro bambini e se li tengono sempre presso, quando s'accorgono della presenza di qualche aquila. - Signore, tornano - disse il macchinista. - Ancora? Sono cariche le vostre armi? - chiese il capitano. - Sì - risposero il russo e il cosacco. - Mirate le ali. Le aquile si erano riunite in gruppo e tornavano ad abbassarsi. Questa volta pareva che avessero preso di mira i piani inclinati, la cui seta, che luccicava ai raggi del sole, doveva aver attirata maggiormente la loro attenzione. Calavano con furia, tenendo le ali aperte e le zampe allungate, con un gridio assordante. - Sono a buon tiro! - gridò il capitano. I cinque aeronauti, perché anche il macchinista si era armato abbandonando per un momento il timone, fecero due scariche l'una dietro l'altra in mezzo al gruppo. Fu una vera strage. Cinque su nove, caddero moribonde, volteggiando e starnazzando, mentre le altre fuggivano rapidamente, verso gli altissimi picchi dei Tian-Scian. - Che batosta! - esclamò Rokoff. - Capitano, se ci abbassassimo a raccogliere i morti? - Per cosa farne? - Degli arrosti. - Che sarebbero più coriacei della carne dei muli vecchi - rispose il comandante. - Mangiare degli uccelli che hanno forse uno o due secoli di vita! Preferisco i miei pasticci di canguro. - È selvaggina, signore - Che non vale una pipa di tabacco. D'altronde se siete amanti dei selvatici, presto ne troveremo in abbondanza. Il Tibet è ricco d'argali e anche di jacks selvatici che valgono, per la squisitezza delle loro carni, i bufali ed i bisonti. - E li cacceremo da qui? - E perché no? Correremo meno pericolo, signor Rokoff. Gli jacks addomesticati valgono i nostri buoi; allo stato selvaggio sono invece cattivissimi e non esitano a caricare i cacciatori a colpi di corna. In quell'istante delle urla acutissime si alzarono sotto lo "Sparviero". Il capitano, Fedoro e Rokoff, si erano vivamente precipitati verso la balaustrata, prendendo i fucili. - Una carovana! - esclamò il capitano. - Da dove è sbucata che prima non l'avevamo veduta? - Da quel bosco di betulle e di larici - disse Rokoff. - Ma ... to'! Si direbbe che ci adorano! Sono tutti in ginocchio e alzano le mani verso di noi con gesto supplichevole. - Sono calmucchi - disse il capitano. - Non sono predoni e non avremo nulla da temere da parte di loro. Volete che andiamo a visitarli? Vedo che stanno rizzando le loro tende e poi vi è un prete fra di loro. - Non mi rincrescerebbe - rispose Rokoff. - E poi, non sono che una dozzina - disse Fedoro. - Prenderemo le nostre armi. - Macchinista! Scendiamo - comandò il capitano.

. - Temo che il vento che è soffiato violentissimo la scorsa notte abbia danneggiata la saldatura, fatta troppo frettolosamente. - Per le steppe del Don! - La vedo oscillare sempre più e non oso forzare la corsa, anzi saremo costretti a rallentarla. Guardate, signori. Rokoff e Fedoro, molto inquieti per quelle parole scoraggianti, alzarono gli sguardi. L'ala, indebolita dai soffi poderosi del vento siberiano, e saldata alla meglio dal macchinista a cui era mancato il tempo, in causa dell'improvviso arrivo della giunca, subiva delle oscillazioni violentissime, accennando a piegarsi. - Che cosa ne dici macchinista? - chiese il capitano. - Che finirà per cadere nuovamente - rispose l'interrogato. - Temendo che i manciù ci piombassero addosso, non ho potuto completare il mio lavoro e non ho fatto che delle rilegature, signore. La colpa è mia, ma il tempo stringeva ed il pericolo incalzava. - Tu hai fatto quello che hai potuto, mio bravo ragazzo - rispose il capitano. - La colpa è dei manciù. - O meglio di quel cane di tartaro che io avrei appiccato con molto piacere - disse Rokoff. - Rallenta la corsa. - Sì, signore - rispose il macchinista. - Ed i mongoli? - chiese Rokoff. - Lasciamo che ci corrano dietro, per ora. Vedo all'orizzonte delle colline e se potremo superarle li lasceremo indietro - disse il capitano. - Tuttavia prepariamoci a far parlare i fucili. Ho delle carabine di lunga portata, degli ottimi Remington che a millecinquecento metri non sbagliano il bersaglio e anche dei fucili americani da sedici per mitragliare cavalli e cavalieri a duecentocinquanta passi. - Voi possedete un vero arsenale, signore! ... - E che come vedete ci serve. Lasciate le carabine Express che hanno una portata troppo limitata e che sono più adatte ad affrontare le fiere che a combattere gli uomini e armiamoci coi Remington. Mentre il macchinista, abbandonata la ruota al capitano, andava a prendere le armi, i mongoli continuavano vigorosamente la caccia, sferzando e speronando le loro cavalcature. Dopo il primo slancio dello "Sparviero", erano rimasti subito indietro, ma da qualche minuto, rallentata la marcia dell'aerotreno per non compromettere l'ala già troppo malferma, avevano cominciato a guadagnare qualche centinaio di passi. Si trovavano però ancora a mille e duecento o trecento metri, ossia troppo lontani perché le palle dei loro moschettoni potessero giungere fino allo "Sparviero". Tuttavia di quando in quando, forse per entusiasmarsi o forse per intimorire gli aeronauti, sparavano qualche colpo, assolutamente inoffensivo, perché quelle vecchie armi non dovevano avere che una portata molto limitata, malgrado le grosse cariche di polvere. - Pare che siano proprio decisi a prenderci - disse Rokoff a Fedoro. - Finché i loro cavalli non cadranno, continueranno a darci la caccia. - Sono cattivi questi mongoli? - Forse no, anzi sono ospitali, tuttavia non c'è da fidarsi di loro. - L'hanno più collo "Sparviero" che con noi. - Vorranno impadronirsene. - Resisterà l'ala? - Lo dubito, Rokoff. Oscilla sempre più forte e m'aspetto di vederla cadere da un momento all'altro. - E precipiteremo anche noi dopo. - Vi sono le eliche. - Non basteranno ad innalzarci. - Impediranno o almeno ritarderanno molto la nostra discesa. - Se potessimo raggiungere prima quelle colline che occupano tutto l'orizzonte settentrionale! - Riusciremo a superarle? - Non mi sembrano molto alte - rispose Fedoro, che le osservava attentamente. - E noi ci troviamo? - A quattrocento metri d'altezza. - Se potessimo innalzarci di più! - Il capitano non osa forzare troppo le ali. - Ah, - Cos'hai Rokoff? - I mongoli accelerano la corsa e riprendono il fuoco. - Sono ancora troppo lontani perché le loro palle giungano fino qui. - E noi siamo abbastanza vicini per fucilarli - disse il capitano che li aveva raggiunti, portando tre splendidi Remington. - Volete provare! Il bersaglio non è che a mille metri ed è molto visibile. A voi, signor Rokoff; i cosacchi sono, in generale, dei buoni tiratori. - Cercherò di non smentire la loro fama, capitano. Mirerò il capofila, quello che monta quel cavalluccio morello. L'uomo o l'animale? - Il cavallo prima; d'altronde il mongolo a piedi è come il gaucho della pampa argentina. Non conta più, essendo un pessimo camminatore. - Vediamo - disse Rokoff. S'appoggiò alla balaustrata di poppa, si piantò bene sulle gambe, poi abbassò lentamente il fucile mirando con grande attenzione. L'arma rimase un momento ferma, tesa quasi orizzontalmente, poi uno sparo risuonò lungamente fra le collinette sabbiose del deserto. Il cavallo morello s'impennò violentemente rizzandosi sulle gambe posteriori e scuotendo la testa all'impazzata, poi cadde di quarto, sbalzando a terra il cavaliere prima che questi avesse avuto il tempo di sbarazzare i piedi dalle staffe. Altri tre cavalli che venivano dietro a corsa sfrenata, inciamparono nel caduto, stramazzando l'uno addosso all'altro e scavalcando gli uomini che li montavano. - Ben preso, signor Rokoff - disse il capitano. - Scommetterei un dollaro contro cento che la vostra palla ha colpito quell'animale in fronte. Vi ammiro. - Tiro come un cosacco delle steppe - rispose Rokoff, ridendo. I mongoli, sorpresi e anche spaventati da quel colpo maestro si erano arrestati intorno ai caduti urlando. La loro sosta fu brevissima. Appena videro i compagni rialzarsi, ripartirono al galoppo, sparando e vociando. - Ah! Non ne hanno abbastanza! - esclamò il capitano. - Vogliono farsi smontare? Sia! Stava per puntare il fucile, quando in aria si udì uno scricchiolio, poi il fuso si spostò, piegandosi un po' su un fianco. - Maledizione! - gridò il capitano. - L'ala ha ceduto! Macchinista, le eliche prima che la discesa cominci! Il fuso non si era ancora abbassato, quantunque il movimento delle ali fosse stato subito arrestato. Soffiando un fresco venticello i piani inclinati lo avevano sorretta in modo da far conservare al fuso la sua altezza di quattrocento metri. - Ci raggiungeranno, è vero capitano? - chiese Rokoff. - I mongoli? - Sì. - Guadagnano già. - Ed il vento è debole - aggiunse Fedoro. - Signori, si tratta di non risparmiare le cartucce, almeno fino a quando avremo raggiunto o superate quelle colline. - Rokoff - disse Fedoro. - A me il cavaliere di destra; a te quello di sinistra. - Ed a me quello che li segue - aggiunse il capitano. - Vediamo se possiamo arrestarli. Puntarono le armi appoggiandole sulla balaustrata, poi fecero fuoco a pochi secondi d'intervallo. Questa volta non erano stati tutti cavalli a cadere. Due avevano continuata la loro corsa senza i loro padroni, i quali giacevano sulla neve senza moto. Il terzo invece era stramazzato come fosse stato fulminato, facendo fare al suo signore una superba volata in avanti. I mongoli, vedendo quel massacro, per la seconda volta si erano arrestati, urlando ferocemente e scaricando i loro moschettoni, le cui palle non potevano ancora giungere fino allo "Sparviero". La paura cominciava a prenderli. Passarono parecchi minuti prima che si decidessero a continuare l'inseguimento. Conoscendo ormai l'immensa portata delle armi degli aeronauti, non si avanzavano più colla foga primitiva e rallentavano sovente lo slancio dei loro cavalli. - La nostra scarica ha prodotto un buon effetto - disse il capitano. - È stata una vera doccia fredda che ha calmato i loro entusiasmi bellicosi - rispose Rokoff. - Volete continuare capitano? - È inutile sacrificare altre vite umane. Sono dei poveri selvaggi che meritano compassione. Finché si tengono lontani e non ci fucilano, lasciamoli galoppare. D'altronde, fra una mezz'ora noi li perderemo di vista; le colline sono poco lontane. - Non potranno superarle? - chiese Fedoro. - Non credo. Le ho osservate poco fa col cannocchiale e mi sono accertato che sono assolutamente impraticabili per cavalli. Sono dei veri ammassi di rocce colossali, quasi tagliate a picco, senza passaggi - rispose il capitano. - Prima che i mongoli possano girarle, trascorreranno molte ore e noi guadagneremo tanta via da non temere più di venire raggiunti. - Nondimeno teniamoci pronti a fare una nuova scarica - disse Rokoff, il quale tormentava il grilletto del fucile. - Ce la prenderemo ancora coi cavalli. I mongoli invece si tenevano ad una distanza considerevole, pur continuando la caccia. Che cosa attendevano? Che lo "Sparviero" si decidesse a scendere o che, esausto capitombolasse? Magra speranza, perché l'aerotreno non accennava ad abbassarsi nemmeno d'un metro. Sorretto dai piani inclinati e dalle eliche orizzontali e rimorchiato da quella proviera, continuava la sua marcia, quantunque il vento non accennasse ad aumentare. Solamente la sua velocità da trenta miglia all'ora era discesa ad appena dieci e se i mongoli avessero voluto, avrebbero potuto facilmente raggiungerlo e moschettarlo. Alle dieci le colline non si trovavano che a cinquecento metri. Formavano una immensa doppia collina, la quale si estendeva dall'est all'ovest per parecchie decine di miglia. Più che colline erano rocce colossali e aridissime. Non si vedeva spuntare, né sui loro fianchi né sulle loro cime, la menoma pianticella ed erano così rigide da non permettere la scalata nemmeno a una scimmia. Non essendo alte più di trecento metri lo "Sparviero", che manteneva i suoi quattrocento metri, poteva facilmente sorpassarle senza urtarvi contro. I mongoli, accorgendosi che la preda agognata stava loro per sfuggire, sferzavano violentemente i cavalli e raddoppiarono i loro clamori, ricominciando un fuoco violentissimo, quantunque ancora inefficace per la poca portata delle loro armi. Si agitavano furiosamente sulle loro cavalcature, snudavano le loro scimitarre trinciando colpi a destra ed a manca ed insultavano gli aeronauti i quali si accontentavano di sorridere a quell'impotente rabbia. - Ci prenderete un'altra volta? - gridò a loro Rokoff, minacciandoli col fucile. - Per ora non abbiamo tempo di occuparci di voi. Una scarica violentissima fu la risposta, ma ormai lo "Sparviero" filava maestosamente sulla prima catena di rocce, attraversando un immenso abisso. I mongoli s'arrestarono dinanzi a quegli ostacoli insormontabili, continuando a sparare, poi si slanciarono a corsa sfrenata verso l'est. - Che cerchino di girare le colline? - chiese Rokoff. - Pare che ne abbiano l'intenzione - rispose il capitano. - Dovranno però percorrere almeno una quarantina di miglia prima di giungere là dove declinano e poi altrettante e anche più per raggiungerci. - I loro cavalli non potranno di certo percorrere d'un fiato un centinaio e mezzo di chilometri - disse Fedoro. - Sono già esausti. - Mi rincresce - disse Rokoff. - Questa caccia emozionante m'interessava. - E se fossimo caduti? - chiese il capitano. - I mongoli non ci avrebbero risparmiati, ve lo assicuro, essendo assai vendicativi. - Il vostro "Sparviero" è troppo ben costruito per fare un capitombolo. - Un guasto poteva avvenire nella macchina. Meglio che la sia finita così, signor Rokoff. - Ed ora dove andiamo? - chiese Fedoro. - A gettare le nostre reti nei laghi del Caracoruzn - rispose il capitano con uno strano sorriso. - Tanto ci tenete alle trote di quei laghi, signore? - domandò Rokoff. - Si dice che siano così eccellenti? - Le avete assaggiate ancora? - No, me l'ha detto un mio amico. - Le giudicheremo - concluse Rokoff, quantunque non credesse affatto che lo scopo di quella corsa fossero veramente le trote. Lo "Sparviero" aveva allora superata anche la seconda catena di rocce e ridiscendeva verso il deserto piegando un po' verso l'ovest. Lo Sciamo, al di là di quelle colline, perdeva molto della sua aridità. Se vi era maggior copia di neve su quelle immense pianure si vedevano anche molte erbe altissime e gruppi di betulle e di pini i quali formavano dei graziosi boschetti popolati dai nidi di falchi, di pernici da neve, di lepri e di ermellini. Era quella la regione abitata dai Chalkas, tribù di nomadi ospitali, che si dedicano all'allevamento del bestiame e che vivono sotto vaste tende di feltro che piantano qua e là, secondo che li spinge il capriccio. In quel luogo, in quel momento non si vedeva alcun attendamento. Probabilmente il freddo li aveva ricacciati verso l'est per cercare pascoli più abbondanti sui pendii dei Grandi Chingan o sulle rive del Kerulene della Chalka. Poco dopo il mezzodì lo "Sparviero" che aveva incontrata una corrente d'aria favorevole che spirava dal sud-est, si librava a poca distanza da un laghetto, le cui rive erano coperte da una vegetazione abbondante, composta di abeti giganteschi, di betulle, di larici, di lauri, di cespugli, di rose canine, di pomi selvatici e di noccioli. - Possiamo scendere - disse il capitano, facendo cenno al macchinista di arrestare le eliche. - Le nostre trote ci aspettano. - Ci fermeremo molto qui? - chiese Rokoff. - Finché il macchinista avrà riparata l'ala in modo da garantirmi che non si spezzi più. Avete forse fretta di tornare in Europa? - Nessuna, signore - rispose il cosacco. - Ah! Il telegramma! - Quale, capitano? - Quello del vostro compagno. Signor Fedoro, volete scriverlo? Il russo guardò il capitano, il quale sorrideva. - Vi è qui qualche ufficio telegrafico? - chiese Fedoro. - Qui no, ma non è molto lontano. - Se siamo nel cuore del Gobi? - E perciò? Badate a me, preparate il telegramma per la vostra casa. Ah? Signor Rokoff, voi non avete paura degli orsi, è vero? Vi avverto che qui non sono rari. Io vi farò assaggiare le trote; voi uno zampone di plantigrado. Vi piace? - Farò il possibile per soddisfarvi, capitano - rispose il cosacco. - Eccoci a terra: facciamo colazione, poi a me le reti ed a voi i fucili. Passeremo qui una bella giornata. Poi balzò verso la riva del lago, mentre Rokoff e Fedoro, sempre più sorpresi si guardavano l'un l'altro, chiedendosi: - Chi capirà quest'uomo?

Sembra che un Buddha un po' attempato non piaccia ai governanti forse pel timore che abbia ad abusare della sua posizione e dare dei seri grattacapi. Quando uno muore o per morte naturale o violenta, i monaci si affrettano a cercare uno che possa surrogarlo, impresa un po' difficile, perché il Buddha che ha cessato di vivere non ha l'abitudine, prima di andarsene, di dire in quale fanciullo trapasserà la sua anima. Dopo qualche tempo però, in un modo o nell'altro, il fanciullo-miracolo viene scoperto e portato in trionfo a Lhassa o in qualche celebre monastero della regione, dove riprende senz'altro possesso del posto che occupava prima. A udire i monaci tibetani, nessuno dubita che egli sia veramente quello che era morto, poi risuscitato per virtù divina. Dicono che si manifesti subito per una intelligenza straordinaria, che riconosca di primo acchito gli oggetti e gl'indumenti che già aveva più cari e che conosca le persone che prima erano addette alla sua persona. Che più? Si dice perfino che ricordi perfettamente certi aneddoti della sua vita anteriore! Non vi è alcun dubbio che i monaci, per coprire bene l'inganno, vadano a cercare il fanciullo più svegliato onde possa degnamente rappresentare la sua parte e che poi lo istruiscano meravigliosamente onde possa, all'età di cinque anni, sostenere un esame pubblico per togliere gli ultimi dubbi sulla sua identità, esame che si fa con pompose cerimonie, nel monastero di Terpaling o di Tascilumpo, alla presenza delle più alte autorità, delle truppe di Lhassa, e d'un ambasciatore straordinario dell'Imperatore della Cina. Viene interrogato sopra certe circostanze della sua esistenza passata; deve riconoscere tutti gli oggetti che sono appartenuti al Lama defunto, vale a dire a lui stesso, chiedere i libri, i vestiti, gli oggetti di cui si era servito. Un diplomatico inglese, sir Turner, che ha potuto assistere a uno di questi esami, fu talmente meravigliato della svegliatezza e delle risposte date dal piccolo Buddha, che per poco non credette seriamente d'aver dinanzi il defunto Lama risuscitato fanciullo! L'esistenza che conducono però questi Buddha non è molto allegra. Confinati nei più celebri monasteri, dai quali non possono uscire, trascorrono la loro vita fra le preghiere, le tazze di tè e i bicchierini d'acquavite calda. Un brutto giorno, quando meno se lo aspettano, dietro un comando del reggente di Lhassa o della Mongolia, un favorito entra di nascosto, getta al loro collo un laccio di seta e li mandano a ritrovare il grande Buddha. Niente di male, perché sanno bene che ritorneranno a rioccupare la carica di prima, più giovani però. Nessuno piange, anzi è un pretesto per dare delle grandi feste. Si consultano gl'indovini, si studia la direzione degli arcobaleni, si scrutano le stelle e si fanno preghiere per conoscere il luogo ove si potranno ritrovare i Buddha rinati, poi si organizza una numerosa carovana per andarli a ricercare. Dopo un certo tempo si ritrovano, vengono condotti nel Tibet o nella Mongolia, si fanno nuove feste, si chiamano truppe da tutte le parti, si fanno venire nuovi ambasciatori dalla Cina e i Buddha riprendono, beati loro, il loro posto ... in attesa di fare un nuovo viaggio all'altro mondo! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Rokoff, udendo tutte queste spiegazioni che Fedoro gli aveva dato sui Buddha viventi, aveva perduto gran parte del suo appetito e non aveva più osato assalire i pasticci delicatissimi che i monaci avevano portato in così gran copia, da nutrire venti persone. Aveva però vuotato un vaso intero colmo di acquavite tiepida, per prendere un po' di coraggio.. Il buon cosacco ora sudava anche lui freddo, nonostante quelle soverchie libazioni e il dolce tepore che regnava nella sala. La tragica fine di tutti quei poveri Buddha viventi, gli aveva gelato il sangue. - Che sia proprio vero tutto quello che mi hai raccontato? - aveva finalmente chiesto a Fedoro. - O hai voluto semplicemente guastarmi la digestione appena cominciata? - È verissimo, mio povero Rokoff - aveva risposto il russo. - Tutti questi particolari riguardanti i Dalai-Lama del Tibet e i Kutuska della Mongolia, che sono pure dei Buddha viventi, io li ho appresi da un funzionario cinese che aveva preso parte a un'ambasciata mandata a Lhassa dal suo Imperatore onde assistere a un esame pubblico. - Ma noi non siamo fanciulli, Fedoro! ... - E che importa? Forse che non siamo discesi dal cielo? Forse che gli abitanti di questo lago sacro non ci hanno veduto solcare l'aria sul dorso d'un uccello mostruoso? Queste sono prove troppo evidenti della nostra origine divina. I piccoli Buddha viventi, con tutta la loro potenza e sapienza, non sono mai stati capaci di fare altrettanto. Chi oserebbe ora dubitare che noi siamo figli prediletti del grande Illuminato? - E se tu facessi comprendere a quel barbuto Bogdo-Lama che la potenza di Buddha non c'entra con noi? Che quell'uccello non era altro che una macchina inventata da noi e che siamo capitombolati in questo lago per disgrazia e non per nostra volontà? Mi pare che si leverebbe per sempre dal cervello di quel monaco l'idea di fare di noi, due Buddha viventi. - Non ci crederebbe. - Digli che siamo europei. - Ci smentirebbe; e poi, credi tu che non ne abbia il sospetto? Oh, deve essere un furbo quel sapiente! - E perché non ci scaccia? - Perché credendoci e facendoci credere d'origine divina ha tutto da guadagnare. - Non ti capisco più - disse Rokoff, stupito. - Tutti i capi dei monasteri sono invidiosi l'uno dell'altro. Il caso ci ha fatto cadere nelle mani di quello di Dorkia, che deve essere nemico di quello di Tascilumpo e anche del Bogdo-Lama di Terpaling, i quali sono, o meglio si spacciano per Buddha viventi. Vuoi che questo non approfitti delle circostanze straordinarie e dell'entusiasmo religioso che si è impadronito delle popolazioni del lago santo, per avere anche lui dei Buddha che mangiano e che parlano? Noi siamo persone sacre, superiori alle altre, dei veri figli del cielo e colla nostra presenza faremo accorrere qui tutti i pellegrini che prima si recavano agli altri monasteri. Noi rappresentiamo per questi monaci dei milioni. Lascia che si diffonda la voce che due uomini sono caduti dalle nuvole, che questi uomini sono figli dell'Illuminato e tutti correranno qui ad adorarci e Tascilumpo e Terpaling non avranno più che una mediocre importanza e potranno chiudere le loro porte. Questi monaci non sono stupidi. - E noi ci presteremo a fare i loro interessi? - Per ora sì, mio caro Rokoff. - E diventeremo dei Buddha viventi? - Non possiamo fare diversamente. - E ci lasceremo poi strangolare, sia pure con un laccio di seta? - Non avranno fretta, ammenoché non intervenga il Gran Lama o, peggio ancora, il suo reggente. - Per le steppe del Don! In quale ginepraio ci siamo cacciati? Fedoro, amico mio, andiamocene e senza perdere tempo. - Lo vorrei anch'io, Rokoff, ma non ne trovo il mezzo. Ci sono parecchie centinaia di monaci in questo monastero e dietro di loro la popolazione, e chissà come siamo sorvegliati! E poi, dove sono le armi per difenderci? Non possediamo nemmeno un misero coltellino. Rokoff lasciò andare un pugno così formidabile sulla tavola, da far rovesciare tutti i vasi d'argento che la coprivano. Udendo quel fracasso la porta si era bruscamente aperta e i quattro monaci, che dovevano aver ricevuto l'ordine di sorvegliarli, erano comparsi. - Andate all'inferno! - gridò Rokoff con voce terribile, stendendo la destra. I monaci, comprendendo più l'atto che le parole, s'inchinarono profondamente e uscirono. - Hai veduto se vegliano su di noi? - chiese Fedoro. - Con quattro pugni li atterro tutti - rispose il cosacco. - E poi? - Dimmi un po', Fedoro, su che cosa speri? - Sul capitano. - Ancora? - Non ci lascerà. - Può crederci annegati o fulminati. - Verrà a cercare i nostri cadaveri. - E se fosse morto anche lui? Hai pensato a questo? - Non ne sono convinto. - Ammettiamolo per un momento. Che cosa ci rimarrebbe da fare? - Allora penseremo a fuggire. - E intanto? - Occupiamoci a preparare il sermone. - Preferisco andare a coricarmi; non mi sono mai occupato del buddismo. Che cosa dirai? - Non lo so ancora; ci penserò. - Ispirati con un po' d'acquavite. - Un consiglio da cosacco - disse Fedoro, ridendo. Allora bevi dell'acqua; io vado a dormire; ma prima farò un'esplorazione nel nostro appartamento e se trovo un buco me ne vado subito. Il cosacco vuotò un altro bicchierino e si diresse verso una delle due porte che s'aprivano all'estremità della sala. Si trovò in un corridoio altissimo che riceveva un po' di luce da piccoli buchi rotondi, aperti nella volta e coperti da talco o da qualche altra materia trasparente, troppo alti però per poterli raggiungere e anche troppo stretti per lasciar passare un uomo. - I furfanti! - esclamò. - Hanno preso tutte le loro misure per impedirci l'evasione. Che il diavolo se li porti nell'inferno di Buddha, se ve n'è uno. Attraversato il corridoio si trovò in un'altra sala, tappezzata tutta in seta rossa a fiorami gialli, circondata da bellissimi divani ricamati in oro, con parecchi tavoli laccati di manifattura cinese e con in mezzo un letto massiccio, molto ampio, con incrostature di madreperla e le coperte di seta. - Suppongo che sarà la stanza per dormire - disse Rokoff. - Devono essere ben ricchi questi monaci, per sfoggiare un tale lusso! ... Anche quella sala riceveva la luce da un lucernario di talco. All'intorno invece nessuna finestra, nemmeno un pertugio. - Se si potesse salire lassù - mormorò il cosacco, misurando collo sguardo l'altezza della volta. - Sei metri! Come arrivarci? Perlustriamo ancora: chissà! ... Passò un'altra porta ed entrò in un gabinetto di toeletta, tutto in seta azzurra, con altri tavoli laccati coperti da barattoli, da bottigliette, da piccoli recipienti d'argento, contenenti probabilmente dei profumi e delle pomate. Dei bastoncini odorosi, piantati su dei candelieri d'oro, di fattura squisita e finemente cesellati, bruciavano spandendo all'intorno un profumo penetrante. Anche là nessuna finestra, perché la luce scendeva dall'alto, da un foro circolare. - Siamo prigionieri - disse Rokoff, che era assai di cattivo umore, molto impressionato dalla brutta piega che prendevano le cose. - E poi anche se noi riuscissimo a raggiungere la volta e sfondare un lucernario, come fuggire? Il monastero è altissimo e almeno io non ho alcun desiderio di rompermi il collo e di fracassarmi le gambe. Prima di coricarci andiamo a udire se Fedoro sa trovare un mezzo qualunque per andarcene. Si dice che i meridionali hanno la fantasia feconda. Rifece lentamente la via percorsa, rientrò nel salone e vide il russo sprofondato nella sua sedia a braccioli e che dormiva profondamente. - A quanto pare né l'amico Buddha, né l'acquavite tiepida non l'hanno ispirato - mormorò Rokoff, che non seppe trattenere un sorriso. - Che discorso farà domani? Mi si rizzano i capelli solamente a pensarlo! Giacché dorme, imitiamolo; i monaci aspetteranno. Si recò nella stanza da letto e si avvolse nelle coperte di seta, senza più preoccuparsi né dei Buddha viventi, né del Bogdo-Lama dalla lunga barba. Quel sonno dovette essere ben lungo, perché quando si svegliò una profonda oscurità regnava nella stanza. Il giorno era trascorso e la notte era nuovamente scesa. - Che cosa diranno i monaci? - pensò, sbadigliando come un orso. - Che i loro letti sono molto soffici o che i figli del cielo amano dormire come le marmotte? E Fedoro? Si alzò e tese gli orecchi. Al di fuori si udiva il vento ruggire ancora intorno alle torri e sui tetti arcuati del monastero; nell'interno invece regnava un profondo silenzio. - La burrasca non è ancora cessata - mormorò. - Che duri dei mesi interi in queste regioni? Il peggio è che con questo ventaccio il capitano non potrà ritornare. Scese dal letto, andò a prendere nel gabinetto di toeletta un bastoncino profumato che ardeva ancora e si diresse verso la sala da pranzo. Tutto il vasellame era scomparso e con esso anche Fedoro e la sua poltrona. - Che l'abbiano portato via? - si chiese. Ricordandosi però che vi era un'altra porta all'estremità della sala, s'armò d'una sedia che nelle sue mani diventava un'arma formidabile e la varcò. Vi era un corridoio eguale a quello che conduceva nel suo appartamento, coperto di paraventi. Lo attraversò con precauzione e giunse in una stanza da letto precisa alla sua. Fedoro non era stato rapito. Dormiva beatamente su un soffice e ricchissimo letto avvolto in una coperta di seta azzurra. - Svegliati - disse Rokoff, scuotendolo vigorosamente. - Hai dormito dodici ore, se non venti o ventiquattro. È un po' troppo per un Buddha vivente. Il russo aprì gli occhi, stiracchiandosi. - Ah! sei tu, Rokoff? - chiese. - Grazie. - Di che cosa? - Di avermi portato su questo buon letto. - Io! Ho dormito come un tasso. - Chi mi ha messo a letto? Io non avevo mai veduto prima questa stanza. - Saranno stati i monaci. E il sermone che devi pronunciare domani? - Il sermone! Ah! Sì, mi ricordo ... d'essermi addormentato mentre lo pensavo. - Ti ha per lo meno ispirato il sonno? - Non so, Rokoff, ma ho tante idee pel capo. Sai che ho sognato di vedere Buddha? - Fedoro! ... Che l'Illuminato si sia cacciato davvero nelle nostre anime? L'ho sognato anch'io. - Un bell'indiano di statura gigantesca? - No, il mio era più brutto d'un calmucco - disse Rokoff. - Colla pelle bronzina? - Niente affatto, era verde come un ramarro e aveva le corna. - Quello doveva essere il diavolo dei buddisti - disse Fedoro. - Il diavolo o Buddha per noi fa lo stesso. Io non me ne intendo di queste cose e poi ... Un fracasso assordante, che fece tremare l'intero monastero gl'interruppe la frase. Si udivano tam-tam e gong strepitare, campanelli squillare, trombe lanciare note acute e in lontananza scariche di fucile. - Per le steppe del Don! - esclamò Rokoff, balzando in piedi. - Che cosa succede! Si assale il monastero? Guardò verso la volta e vide una debole luce diffondersi sul lucernario. - L'alba! - esclamò. - Quanto abbiamo dormito noi? Stava per precipitarsi fuori della stanza, quando udì il gong sospeso alla porta della sala da pranzo squillare rumorosamente. - Sono i monaci che chiedono di entrare - disse Fedoro, gettandosi giù dal letto. - Che sia accaduto qualche grave avvenimento? Se fosse il capitano che arriva col suo "Sparviero"? - disse Rokoff. - Amico, prepariamoci a dar battaglia ai monaci se vorranno impedirci di prendere il volo. - E se fossero invece i pellegrini che vengono ad ascoltarmi? - chiese Fedoro, impallidendo. - Farai a loro la predica. - Non l'ho preparata e poi che cosa dire? Non ho mai studiato la religione buddista. No, non avrò mai il coraggio di pronunciare un simile discorso. - Inventa delle carote. - Per perderci entrambi? - Ah! Quale idea! - esclamò Rokoff. - Getta fuori. - Se parlassi io invece di te. - Se nessuno ti comprende! ... - Gli spiriti celesti devono parlare un linguaggio speciale. Lascia fare a me, Fedoro. Se nessuno riuscirà a capirmi, tanto peggio per loro e meglio per me. Almeno potrò dire tutte le asinità che mi verranno in bocca, senza che nessuno possa offendersi. - E io? - Ti fingerai ammalato. - Non commetteremo una balordaggine? - È l'unico mezzo per levarci d'impiccio - disse Rokoff. - Tuonerò come un cannone e li farò rimanere tutti a bocca aperta. Senza aspettare la risposta di Fedoro, il cosacco, convinto della bontà del suo straordinario progetto, era uscito dalla stanza, correndo verso la sala dove i quattro monaci lo aspettavano picchiando e ripicchiando sul gong. - Che cosa volete? - chiese. I quattro monaci, che non comprendevano una parola di russo, si guardarono l'un l'altro con stupore, poi, con una mimica molto espressiva, gli fecero capire che volevano vedere il suo compagno. - Seguitemi - disse Rokoff - che aveva indovinato il loro desiderio. Quando entrarono nella stanza, trovarono Fedoro cacciato sotto le coperte e che mandava dei sospironi interminabili. - Signore - disse uno dei monaci, inchinandosi fino a toccare il suolo. - Tutti gli abitanti del lago muovono in pellegrinaggio verso il monastero, per ascoltare il vostro sermone. Sono migliaia e migliaia che s'avanzano per vedere i futuri Buddha viventi. - Ahimé! - gemette il russo. - Io sono assai ammalato e dovrò rinunciare all'insuperabile piacere di mostrarmi ai miei futuri adoratori. L'aria fredda delle vostre montagne mi ha abbattuto e mio padre, il grande Buddha, non mi ha inviato ancora la medicina che gli ho fatto chiedere. Onde però non privare i pellegrini del loro giusto desiderio, mio fratello mi surrogherà. - Nessuno però comprende il suo linguaggio, signore - disse il monaco. - Egli parla la lingua usata nel nirvana, ma quantunque non compresa, entrerà nel cuore dei pellegrini. Andate a dirlo al grande Bogdo-Lama. Udendo quelle parole, una profonda costernazione si era dipinta sul volto dei monaci, nondimeno salutarono rispettosamente e uscirono, facendo cenno al cosacco di seguirli. - Bada, Rokoff - disse Fedoro. - Non temere - rispose l'ex-ufficiale. - Farò stupire tutti, anche se non capiranno niente. Cinque minuti dopo Rokoff si trovava in presenza del Bogdo-Lama, a cui i monaci avevano narrato dell'improvvisa malattia che aveva colto Fedoro. Anche il vecchio pareva assai contrariato. Era bensì vero che Rokoff era il fratello di Fedoro, che al pari di lui era sceso dal Cielo, che aveva pure un aspetto più imponente e anche una magnifica barba rossa che doveva destare l'ammirazione generale dei pellegrini e che parlava la vera lingua usata nel paradiso di Buddha che nessuno, disgraziatamente o meglio fortunatamente, poteva comprendere. Vi fosse stato almeno qualcuno, fra i mille monaci che avesse potuto tradurre il discorso! ... Questa idea aveva però colpito il Bogdo-Lama. Possibile che nessun essere terrestre potesse capire quel maestoso figlio del grande Illuminato? Che parlasse proprio una lingua assolutamente ignota? Rokoff, che pareva indovinasse i pensieri che turbavano il cervello della Perla dei sapienti, cominciava adiventare inquieto. Sentiva per istinto che quella testa pelata doveva maturare qualche cosa di pericoloso. E non si era ingannato. Mentre i gong e i tam-tam e i campanellazzi delle torri e dei tetti strepitavano senza posa, e in lontananza echeggiavano sempre più rumorosamente i colpi di fucile dei montanari, con sua viva sorpresa vide la sala riempirsi di monaci. Tutti gli sfilavano dinanzi rivolgendogli qualche parola ed inchinandosi. Ne erano già passati tre o quattrocento quando, con suo vivo stupore, udì uno di costoro salutarlo in lingua russa. - Tu parli la lingua del nirvana! - esclamò, involontariamente. - Non so se questa sia la lingua che si usa nel paradiso dell'Illuminato - aveva risposto il monaco. - Io l'ho appresa da un tartaro e son ben felice di conoscerla, perché mi permette di farmi comprendere da un figlio del cielo. Il Bogdo-Lama, che assisteva alla sfilata a fianco di Rokoff, udendoli parlare, aveva fatto un gesto di gioia. Il cosacco però era rimasto tutt'altro che contento e aveva mandato in cuor suo a casa del diavolo quel monaco che veniva a guastargli i progetti. - Se costui mi capisce, che cosa dirò ora su Buddha? - si era chiesto, con angoscia. - Me lo appiccicheranno ai fianchi perché traduca alle turbe tutte le mie corbellerie. Che s'affoghino Buddha, i pellegrini, il Lama e quell'imbecille di tartaro che ha insegnato il russo a questo monaco. Se potessi trovare un mezzo qualsiasi per rifiutarmi di parlare? Se dicessi di essere diventato improvvisamente muto? Era troppo tardi ormai per ritirarsi o per cercare dei pretesti per rinunciare alla famosa predica. I fedeli erano già entrati a centinaia e centinaia nel monastero, impazienti di vedere i figli di Buddha, che si erano degnati di scendere sulle sante acque del Tengri-Nor e di udire la loro parola divina. - Venite - disse il monaco che parlava il russo, prendendolo per una mano e traendolo con dolce violenza. Il tempio è pieno. Rokoff si sentì gelare il sangue. - Datemi prima da bere - disse, tergendosi alcuni goccioloni di sudore che gl'imperlavano la fronte, nonostante il freddo intenso che regnava in quella sala. - Avrete tutto ciò che desiderate. - Dell'acquavite e molta per ispirarmi meglio e acquistare un po' di coraggio - mormorò il disgraziato cosacco. Seguì il monaco attraverso parecchi androni, insieme a una dozzina di preti, incaricati probabilmente di sorvegliarlo e d'impedirgli qualsiasi tentativo di fuga e venne condotto in un gabinetto dove si trovava una tavola imbandita. Con mano nervosa afferrò un fiasco d'argento pieno di acquavite tiepida e senza preoccuparsi della presenza dei monaci, lo vuotò più di mezzo senza staccarlo dalle labbra. Era forse una grave imprudenza, essendo quel liquore fortissimo, del sciam-sciù cinese estratto dal riso fermentato, che doveva produrre una semiubriachezza quasi fulminante, ma Rokoff ne aveva proprio bisogno, in quel momento, per affrontare coraggiosamente la terribile prova. E quella bevuta fenomenale fece davvero un buon effetto. Il cosacco, mezzo stordito, si sentì tutto d'un tratto acquistare un'energia straordinaria. - Andiamo - disse con voce risoluta. Il monaco che doveva servirgli da interprete gli fece percorrere un ultimo corridoio, poi aprì una porticina e Rokoff, stupito, si trovò su una specie di palco coperto da un ricco baldacchino di seta gialla a frange d'argento e dinanzi a un mare di teste. Era entrato nel tempio del monastero, una immensa sala sorretta da sessanta colonne di legno dipinte in rosso e con ornamenti d'oro, capace di contenere due o tremila persone. Nel mezzo, sotto un lucernario, troneggiava un Buddha di proporzioni gigantesche, seduto colle gambe incrociate, su un enorme blocco di pietra staccato probabilmente da una delle più sante montagne del Tibet, forse dalla famosa Tisa, la grande piramide dei Hano-dis-ri, il Mera degli antichi indiani. Tutto all'intorno, centinaia e centinaia di pellegrini, giunti da tutte le parti del lago, si pigiavano, conservando però un religioso silenzio. Erano tutti montanari dalle facce poco rassicuranti e colle cinture riboccanti d'armi, fanatici pericolosissimi, che potevano far passare un brutto quarto d'ora al povero cosacco se li avesse ingannati, anche se si trovavano nel tempio dedicato al grande Illuminato. Vedendolo comparire sul palco, i pellegrini erano caduti in ginocchio, battendo la fronte sulle pietre del pavimento e borbottando delle preghiere. Nessuno aveva avuto il coraggio di guardarlo. Rokoff, già stordito da quell'abbondante bevuta che gli faceva ronzare gli orecchi e girare la testa, era rimasto come inebetito dinanzi a quella folla in adorazione, colla bocca aperta e gli occhi dilatati da un terrore invincibile. - Devo confessare che ho paura - aveva mormorato. - Che cosa sta per succedere? Mi sento mancare il coraggio e paralizzare la lingua. Si era voltato per vedere se la porta era aperta. Se non fosse stata chiusa sarebbe certamente fuggito, precipitando la catastrofe. - I birbanti! - esclamò. - M'hanno chiuso nel palco. Coraggio, mio caro Rokoff: si tratta di salvare la mia pelle e anche quella di Fedoro. Alzando gli sguardi aveva veduto di fronte al suo palco, presso la statua di Buddha, il Bogdo-Lama assiso su un divano circondato da un numeroso stuolo di monaci e con a fianco il prete che doveva servire d'interprete. Il barbuto pontefice non staccava i suoi sguardi dal cosacco e cominciava a dar segni d'impazienza, meravigliandosi forse che il figlio di Buddha tardasse tanto a trovare la parola. Già due volte aveva alzato il braccio, facendogli cenno di principiare il sermone e anche i pellegrini cominciavano ad alzare la testa e a lanciare sguardi verso il palco. Rokoff, comprendendo che ormai non poteva più indugiare senza compromettere gravemente la sua posizione di uomo celeste, fece appello a tutto il suo coraggio e alla sua fantasia, e tossì rumorosamente tre o quattro volte per richiamare su di sé l'attenzione dei fedeli. Cosa strana però, l'eterno chiacchierone non riusciva a trovare la parola, né da qual parte cominciare. E poi si sentiva girare sempre più la testa e montare in volto delle fiammate ardenti. Certamente aveva bevuto troppo. Finalmente si decise. - Buddha! ... Il grande Buddha! - gridò con voce tonante e picchiando il pugno sul parapetto del palco con tale violenza, da far scricchiolare le tavole - Era il grande Illuminato! ... Un Dio ... il più possente Dio che regna sopra le nuvole, fra il sole e la luna ... Si era interrotto mentre il monaco traduceva ai fedeli, silenziosi e raccolti, le sue parole. Dopo quell'esordio, certamente di grande effetto quantunque assolutamente vuoto, il buon cosacco non si era più sentito in grado di continuare. Che cosa dire? Non lo sapeva assolutamente e poi nel suo cervello cominciava a regnare una tale confusione che nessuna idea voleva uscire. Doveva essere quel maledetto sciam-sciù che lavorava. Quella tregua però non poteva durare delle ore. Gli sguardi del Bogdo-Lama dicevano abbastanza che era giunto il momento di riprendere il sermone, e Rokoff, che vedeva dipingersi sui visi dei pellegrini una certa meraviglia per quel lungo e inaspettato silenzio, dovette ricominciare. - Buddha ... era Buddha ... un uomo ... ma che dico, un Dio ... più scintillante del sole e più dolce della luna! ... Un'orribile smorfia che fece il Bogdo-Lama e un gesto d'impazienza, lo rese avvertito che era tempo di lasciare in pace il sole e anche la luna, che nulla avevano a che fare con Buddha e di venire a qualche cosa di più concreto. Disgraziatamente le idee del cosacco si annebbiavano sempre più e anche le gambe cominciavano a piegarglisi sotto. Che cosa disse allora? Non lo seppe di certo nemmeno lui. Preso da una subitanea foga oratoria, una foga da ubriaco, il cosacco si era messo a predicare all'impazzata, tuonando spaventosamente e picchiando pugni formidabili sul palco. Parlava di santi, di religioni, confondendo Cristo con Buddha, tirando in campo Brahma, Siva e Visnù, il diavolo, le stelle, le nuvole, le macchine volanti, i cinesi, i tibetani e perfino gli asini che popolavano il nirvana dell'Illuminato e tante altre bestie che i veri credenti dovevano rispettare e amare invece di mangiarle. Il monaco, soffocato da quel torrente di parole, si era più volte interrotto, dimenticandosi di tradurre buona parte di quella massa di corbellerie. Guardava con spavento Rokoff chiedendosi se non capiva più quello che diceva o se il figlio di Buddha era diventato improvvisamente pazzo. Che cosa c'entravano gli asini, le divinità indiane, le macchine volanti, ecc., col grande Illuminato? Anche i pellegrini sembravano stupefatti di quel sermone sconclusionato, che il monaco aveva in parte tradotto. Il Bogdo-Lama invece era diventato furioso e guardava ferocemente il cosacco che continuava a parlare come un vero demente, tirando pugni a manca e a dritta, minacciando di sfasciare il palco e tentando di sfondare la porta. No, non era un figlio del cielo, costui! ... Era un energumeno, un ignorante, un buffone che minacciava uno scandalo enorme. Finalmente, non potendo più trattenersi, il Lama si era alzato.col pugno teso, gridando con voce sibilante: - Mentitore! Rokoff, che era completamente ubriaco in quel momento e che parlava delle steppe del Don e della guerra russo-turca, ebbe un barlume. Aveva compreso il pericolo. Tutti i pellegrini si erano alzati urlando a loro volta: - Mentitore! Non sei un buddista! Era una catastrofe completa. Rokoff intuì che stava per succedere qualche cosa di grave. Il baccano era diventato assordante e la confusione al colmo. Tutti lo minacciavano e delle armi luccicavano nelle mani dei più fanatici. Con una spinta irresistibile, il disgraziato predicatore sfondò la porta, mandò a gambe levate i monaci che gli stavano dietro, passando sui loro corpi a corsa sfrenata e fuggì a rompicollo attraverso i corridoi, mentre nel tempio scoppiavano rumori terribili. Un momento dopo, senza sapere il come, Rokoff piombava come una bomba nell'appartamento di Fedoro. Questi, vedendolo entrare ansante, col volto congestionato, colla tonaca raccolta attorno ai fianchi e gli sguardi smarriti, si era gettato giù dal letto, chiedendo: - Rokoff ... che cosa è accaduto? - Non lo so ... disastro completo ... mi vogliono accoppare ... fuggiamo! ...

. - Purché non abbia delle pustole. - Giudicherai tu stesso, signore, se è più sana di me. Vieni, Tsi! Una fanciulla di tredici o quattrodici anni, con un visetto grazioso che la faceva rassomigliare ad una europea, salvo la tinta della pelle che era d'un giallo sbiadito, e un'abbondante capigliatura raccolta in trecce, si fece innanzi, barcollando sulle due scarpettine quasi microscopiche. Come suo padre, il povero lebbroso, indossava un casacca di seta e portava dei larghi nin-ku, specie di calzoni che scendono fino alla noce dei piedi. Sulla testa aveva una di quelle piccole sciarpe chiamate nin-hiai, usate dalle piccole persone benestanti. Guardò curiosamente il capitano ed i suoi due compagni, alzando abbassando vivamente le palpebre dalle lunghe ciglia di seta, poi sedette su sasso in attitudine rassegnata, dicendo brevemente al vecchio: - Ti obbedisco. Il drappello, dopo aver salutato gli stranieri, s'allontanò percorrendo il fondo del burrone, senza che un muscolo di quel grazioso visino avesse trasalito. - Il padre di questa fanciulla doveva essere un ricco agricoltore - disse Fedoro, che la osservava attentamente. - Le contadine non vestono mai in seta, né si storpiano oggidì i piedi. - Che suo padre fosse il capo del villaggio? - chiese il capitano. - Certo. - Che piedini graziosi! - disse Rokoff. - Non ne ho mai veduti di piccoli, e non credevo che le cinesi riuscissero ad arrestarne lo sviluppo a tal punto. - Le persone di buona condizione ci tengono ad avere figlie coi piedi minuscoli, perché ciò aumenta il valore commerciale della donna, e tu sai che qui le spose si comperano. Più la scarpa che si presenta al futuro marito è piccola, più egli deve sborsare. - Quindi qui la bellezza non conta? - Viene dopo i piedi. - Singolare paese! - In origine però quest'usanza deve aver avuto qualche altro motivo - disse il capitano. - Si dice che i cinesi di tempi antichi fossero terribilmente gelosi delle loro donne e che siano ricorsi a questo barbaro uso per impedire loro di fuggire. Infatti, coi piedi così storpiati, non possono camminare a lungo. - Devono soffrire assai, almeno nei primi tempi - disse Rokoff. - Questo è certo - rispose Fedoro. - E come fanno per arrestarne lo sviluppo? - chiese il capitano. - Perché l'operazione riesca perfettamente, secondo l'ideale degli uomini, piegano le dita sotto la punta del piede, eccettuato il pollice che deve rimanere libero, poi fanno in modo che il tallone cambi direzione diventando verticale, invece di orizzontale. Per ottenere ciò, adoperano delle fasce di seta o di cotone lunghe un metro e mezzo e larghe un palmo. L'operazione comincia quando la fanciulla ha sei o sette anni e non cessa se non quando tutte le parti molli sono atrofizzate ed il piede ha cessato di crescere. Ricorrono però sovente a dei modi più barbari, battendo la faccia dorsale dei piedi perfino coi ciottoli e producendo perfino delle fratture. - Che tormento - disse Rokoff. - Talora poi le fasce vengono continuamente strette e cucite. - Vorrei vedere quei piedi. - Non lo otterresti. Le donne cinesi sono così gelose da non concedere tale permesso nemmeno ai loro mariti. - Ah! Che bel paese è la Cina! - esclamò Rokoff, ridendo. - Il paese delle sorprese strabilianti! - Ecco gli uomini che tornano - disse il capitano. - La minaccia di scatenare il terribile drago ha fatto effetto. Il vecchio era ricomparso seguito dai due portatori della bara carichi di due enormi canestri contenenti la deliziosa infusione. Il capitano regalò ai tre uomini due tael, prezzo ben superiore al contenuto dei panieri, un altro alla fanciulla, poi si diresse verso l'altipiano con Rokoff e Fedoro. - Partiamo - disse. Quando giunsero allo "Sparviero" la macchina già funzionava. - Siamo pronti? - chiese il comandante. - Sì, signore - rispose il macchinista. Passarono sul fuso, le eliche orizzontali si misero in movimento turbinando, le ali si mossero sbattendo lievemente per non guastarsi al suolo e il treno aereo s'innalzò prendendo subito lo slancio verso l'opposto declivio della montagna. Sul margine della foresta i tre cinesi e la fanciulla, istupiditi dallo spavento, lo guardavano innalzarsi. - All'ovest - disse il capitano al macchinista. - Andremo a cacciare sulle rive dell'Hoang-ho.

. - Che abbia già fatto il giro del mondo con il suo "Sparviero"? - Non mi stupirei, Rokoff. - Lasciamo il capitano e occupiamoci del nostro orso. - Portiamolo all'accampamento, intero. Non pesa molto, forse cento chilogrammi. - Costruiamo una barella? - Sì, Rokoff; faticheremo meno. Tagliarono alcuni rami di pino e di betulla, intrecciandoli alla meglio e legandoli colle loro fasce di lana, caricarono il melaneco e si diressero verso l'accampamento costeggiando il lago, onde non smarrirsi fra le macchie che diventavano sempre più fitte. Quando vi giunsero, non trovarono che il macchinista, il quale lavorava febbrilmente a riparare la disgraziata ala. - Ed il capitano? - chiesero. - Eccolo che ritorna - rispose il giovane. Infatti il comandante saliva in quel momento la riva, portando un canestro che pareva molto pesante e un ammasso di reti. - Vedete che non mi ero ingannato - disse, quando vide l'orso che Rokoff stava già scuoiando. - Anch'io però ho mantenuto la promessa e porto delle superbe trote che domani assaggeremo. - E perché non questa sera? - chiese Fedoro. - Perché domani voglio offrirvi un pranzo veramente squisito. - - Si festeggia qualche lieto avvenimento? - Può darsi - rispose il capitano col suo solito sorriso enigmatico. - Oh, non vi lamenterete di questo ritardo; ho ucciso un magnifico cigno che sta già cucinando al forno, è vero macchinista? - Deve essere già pronto, signore. - Allora prepara la tavola, mentre io lo dissotterro. - L'avete sepolto? - chiese Rokoff. - Io cucino la grossa selvaggina alla moda africana - rispose il capitano. - Non avete mai assaggiato un piede d'elefante od un pezzo di proboscide cucinato dai negri? - Mai, capitano. - Ed io sì. - Voi dunque siete stato in Africa? - chiese Fedoro. - Sì. - Col vostro "Sparviero"? Il capitano invece di rispondere a quella domanda girò intorno al fuso, si armò d'una corta zappa e mostrò al cosacco ed al russo un fuoco che ardeva sopra un piccolo rialzo di terra. - Il mio forno - disse. - Il cigno deve essere arrostito a perfezione. Sbarazzò il suolo dai tizzoni e dalle braci, poi scavò dolcemente la terra e mise allo scoperto una massa avvolta fra larghe foglie avvizzite, che mandava un profumo così appetitoso da far venire l'acquolina in bocca al cosacco. Tolse le foglie e mise allo scoperto un grosso cigno, cucinato intero e che depose su un gigantesco piatto d'argento, portato dal macchinista. - Andiamo a dare l'assaggio - disse. - Sarà squisito. La tavola era stata preparata presso il fuso, accanto ad un allegro fuoco di rami di pino e col solito lusso. L'assalto dato dai quattro aeronauti fu tale, che dopo mezz'ora del superbo arrosto non ne rimaneva che un terzo. - Capitano - disse Rokoff, che aveva divorato per quattro. - Siete un cuoco ammirabile! - Vedremo che cosa direte domani delle mie trote - rispose il comandante, con un leggero accento ironico. Passarono buona parte della serata attorno al fuoco, fumando e sorseggiando dell'eccellente ginepro e del whisky, poi verso le dieci si ritirarono nelle loro cabine. Il macchinista invece aveva continuato il suo lavoro, punto seccato dal vento freddissimo che soffiava dalle non lontane vette dei Kentei. All'indomani la riparazione era finita. L'ala era stata rinforzata così robustamente, da non temere che dovesse cedere anche dinanzi al vento più furioso. - Resisterà quanto e forse più dell'altra - disse il capitano, che aveva osservato attentamente il lavoro compiuto dal macchinista. Poi, senza aggiungere altro, diede mano a preparare il pranzo che doveva far stupire i suoi ospiti. Questi, avendo appreso che la partenza non si sarebbe effettuata che nel pomeriggio, si erano recati sulle rive del lago a fucilare le oche, le anitre ed i cigni che si mostravano sempre numerosi nelle piccole insenature, dove trovavano abbondante nutrimento. Quando tornarono, così carichi di selvaggina da non potersi quasi reggere, il capitano stava levando dai suoi forni gli zamponi del melaneco, mentre il macchinista si aggirava fra cinque o sei pentole dove friggevano o bollivano pesci, anitre e legumi. La tavola, questa volta, era stata preparata sul ponte dello "Sparviero", anzi era stata levata perfino la tenda che era servita al macchinista per ripararsi dal freddo durante il lavoro notturno ed era stato imbarcato anche il fornello. - Pranzeremo in aria? - chiese Rokoff. - Ma ... ah! Udite? - Che cosa, signore? - Queste grida. - Per le steppe del Don! Ancora i mongoli? In lontananza, verso l'est, si vedevano alzarsi sulla pianura sabbiosa dello Sciamo un nuvolone di polvere e si udivano echeggiare delle urla. - Sì, i mongoli - disse il capitano. - Fortunatamente arrivano troppo tardi. Fece portare a bordo gli zamponi e le pentole, gli avanzi dell'orso e la selvaggina uccisa dal russo e dal cosacco, poi disse: - Innalziamoci. La macchina era già sotto pressione. Le eliche orizzontali cominciarono a funzionare elevando il fuso, poi le due immense ali si misero in movimento. Lo "Sparviero" saliva veloce, un po' obliquamente, fendendo rumorosamente l'aria. I mongoli giungevano a corsa sfrenata urlando e sparando, ma era troppo tardi. La preda tanto agognata, ancora una volta sfuggiva loro. - Buon viaggio! - gridò ironicamente il capitano, salutandoli col berretto, mentre lo "Sparviero" s'allontanava velocemente verso il nord. - Badate di non storpiare i vostri cavalli. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro aggiunse: - A tavola, signori e fate onore al mio pranzo. Il capitano, che doveva essere un buongustaio raffinato, aveva preparato un pranzetto veramente luculliano: zuppa di anitra con legumi, lingua di orso, zampone al forno, trote in salsa bianca e fritte nel burro, ananas di Tahiti, banane della Nuova Caledonia e ignami mostruosi, pasticci di varie specie e pudding. Attese che i suoi ospiti avessero finito, poi offrì loro dei sigari di Manila e un certo liquore color dell'ambra, dicendo: - Ebbene, che cosa ne dite delle mie trote? - Squisite, capitano - rispose Rokoff, che era ancora entusiasmato di quel pranzo. - Quelle che si pescano qui non uguagliano certo, per sapore e anche per grossezza, quelle che si prendono nei fiumi e nei laghi del mio paese. - Ve lo avevo detto - disse il comandante ridendo. - E questo liquore? L'avete assaggiato? - Delizioso! L'avete fatto voi? - Sì, e la ricetta me l'ha data un monaco del monte Athos. - Ma dove siete stato voi? Si direbbe che nessun angolo del mondo vi sia sconosciuto. Avete attraversato l'Asia Minore col vostro "Sparviero"? - Mi sembra - rispose il capitano, con un sorriso misterioso. - Bevetene pure, non vi farà male, anzi. Guardava i suoi ospiti sempre ridendo, senza però accostare alle sue labbra il suo bicchierino che rimaneva sempre pieno. Né Rokoff né Fedoro vi avevano fatto caso. Quel liquore era eccellente e da veri russi, che sono i più famosi bevitori dell'Europa, ne approffittavano per digerire meglio quel troppo copioso pasto. Rokoff soprattutto, sempre assetato come lo sono tutti i cosacchi, cacciava giù un bicchierino dietro l'altro, non stancandosi mai di lodare l'aroma di quel liquido. - Se i frati del monte Athos ne fanno uso, non devono essere lugubri - diceva celiando. - Se mi nominassero loro cantiniere, non so quali vuoti farei nelle loro riserve. Vi deve essere dentro dell'essenza dei famosi e antichissimi cedri del Libano. Squisito! Delizioso! Capitano, un altro bicchierino che vuoterò alla salute vostra. - Ed un altro a me che berrò alla buona riuscita del vostro viaggio - diceva Fedoro, che diventava d'un'allegria strana. - Anche dieci - rispondeva il capitano. - Ne ho parecchie bottiglie e poi colla famosa ricetta ve ne posso fare quanto voglio. - Quel frate era più bravo di papà Noè - riprendeva Rokoff, i cui occhi rilucevano come quelli degli ubriachi. - Se lo conoscessi gli bacerei la barba. Scommetto che qui c'entrano delle gocce d'acqua del Giordano. - No, del Mar Morto - rispondeva Fedoro, che aveva il viso acceso. - Ma che! Saprebbe di bitume questo meraviglioso elixir! Quanto deve prolungare la vita! - Sì, Rokoff, perché tutti i monaci del Monte Athos diventano vecchissimi. Me lo ha narrato un viaggiatore mio amico. - Vecchissimi! T'inganni Fedoro! Non muoiono mai. - Buono questo liquore, è vero Rokoff? - Capitano, un altro bicchierino ancora? - Una bottiglia! - Anche dieci bottiglie, Fedoro! Il capitano ha la ricetta! Il Comandante dello "Sparviero" non aveva cessato di ridere. Aveva fatto portare una seconda, poi una terza bottiglia e pareva che si divertisse immensamente dei discorsi dei suoi ospiti e che gradisse assai gli elogi fatti a quel meraviglioso liquore. Già Rokoff e Fedoro avevano tracannato il, decimo od il quindicesimo bicchiere, quando uno dopo l'altro si rovesciarono sulle loro sedie, pallidissimi e come morti. Il macchinista ad un cenno del capitano, era accorso. Prese la bottiglia ancora semipiena ed il bicchiere del suo padrone che non era stato toccato e gettò l'una e l'altro fuori dalla navicella. - Portiamoli nelle loro cabine - disse il comandante. - Non si sveglieranno, signore? - Il narcotico è potente. - Che cosa diranno poi? - Non sono forse io il padrone qui? Non devo rendere conto a chicchessia delle mie azioni. Aiutami. Presero prima Rokoff e lo portarono entro il fuso, deponendolo nel suo letto, poi fecero altrettanto con Fedoro. Né l'uno, né l'altro avevano fatto un gesto durante quel trasporto. Parevano morti. - A tutta velocità - disse il capitano, quando risalì. - Non dobbiamo essere lontani più di centosessanta miglia e ci si aspetta. - E il telegramma del russo? - chiese il macchinista. - Andrò a spedirlo io. I cavalli non mancano in questa regione ed entrerò in città senza che nessuno se ne accorga. Aumenta più che puoi. In quattro o cinque ore vi saremo.

. - Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato? - Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti. - E perché non ci ha scacciati come impostori? - Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini. - E gli abitanti? - Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama. - E come te la sbrigherai colla predica? - Non lo so, Rokoff. - Chi è, innanzi tutto, questo signor Buddha? - Un saggio, un illuminato nato a Ceylon che creò una nuova religione, non so precisamente se per convinzione o per detronizzare la triade indiana di Brahma, Siva e Visnù. - Un brav'uomo? - Certo, perché predicò la pietà verso il prossimo non solo, bensì anche verso gli animali. - Allora dirai che il paradiso di Buddha è pieno d'asini, di cavalli, d'insetti, di balene ... un vero serraglio. - Ah! Rokoff. - Non preoccuparti. Facciamo colazione e vedrai che dopo riempito il ventre le idee scaturiranno in tale abbondanza da fare un predicone. Ah! se conoscessi il cinese vorrei far stupire perfino la Perla dei sapienti. Ci metterei perfino dentro il Don e i cosacchi delle steppe. Combineremo tutto insieme e ... - Ci farai prendere a legnate. - E noi risponderemo a calci. Rokoff s'alzò e percosse furiosamente il gong, gridando: - La colazione pei figli di Buddha e per oggi non seccateci più le tasche. Siamo occupati a pregare Domeneddio, cioè no, l'Illuminato.

Mi pare che lo "Sparviero" abbia deviato ancora. - Si dirige verso quella città che vedo sorgere là in fondo - disse Fedoro. - Una città? - Forse quella di Tschang-pin, perché alla nostra sinistra vedo un corso d'acqua che deve essere molto voluminoso. Deve essere il Pei-ho. - Allora ci dirigiamo al nord. - E verso la grande muraglia, ne sono certo - rispose Fedoro. - - L'Europa non si trova già al nord. - Lo "Sparviero" piegherà poi verso l'ovest. - No, signori - disse una voce dietro di loro. - Non ora; più tardi, molto tardi. Il macchinista si era accostato loro tenendo fra le labbra una di quelle monumentali pipe di porcellana, usate dagli olandesi e dai tedeschi. Il compagno del capitano era un bel giovane di venticinque o ventisei anni, di statura media, muscoloso e ad un tempo di taglia snella, colla pelle assai bruna, gli occhi nerissimi tagliati a mandorla e i capelli ondulati e biondissimi, che portava lunghi. Dire a quale razza appartenesse, sarebbe stato molto difficile, perché pareva che i lineamenti degli uomini del nord e del sud si fossero fusi in lui. Aveva del semitico, del greco, del romano e dell'anglosassone. Da quale paese dunque veniva? Che però appartenesse alla razza bianca, malgrado la tinta oscura della sua pelle, non vi era da dubitare. - Non piegheremo verso l'ovest? - chiese Rokoff dopo averlo osservato con curiosità. - Non per ora - ripeté il macchinista in cattivo russo. - Continueremo dunque la corsa verso il nord. - Sì, signore. - Allora andremo in Siberia. - Non lo so - rispose il giovane, quasi si fosse pentito d'aver detto troppo. - È il capitano che comanda. - Eppure ci aveva detto di condurci in Europa - insistette Rokoff. - Se lo ha detto, manterrà la parola. - È molto tempo che viaggiate? - chiese Fedoro. - Molto e poco. - Vale a dire? - Che non lo so. - Ecco una risposta strana. Non siete partito col capitano? - Può essere. - Non sapremo mai nulla da costui - disse Rokoff in francese a Fedoro. - Non devo parlare, tale è l'ordine - disse il macchinista nell'egual lingua e sorridendo. - Ah! Voi parlate anche il francese! - esclamò il cosacco, confuso. - Ed altre ancora, signore. Ecco Tschang-pin: la gran muraglia non è lontana. - Faremo provare una gran paura ai cinesi. - To'! Che cos'è quell'immenso recinto brulicante d'animali? - chiese Rokoff indicando una specie di parco che si estendeva per miglia e miglia verso l'ovest. - Una delle riserve dell'imperatore - rispose Fedoro. - Ne ha parecchie nella provincia di Pechino. - Vi sono migliaia di cavalli. - E tutti di proprietà imperiale. - E che cosa ne fa l'Imperatore? - Non lo saprei, perché non cavalca quasi mai. Tuttavia posso dirti che tiene a sua disposizione quasi centomila destrieri, scelti fra i migliori del suo sterminato impero. - Tanti da morire prima di averli provati tutti, anche se dovesse diventare vecchio quanto gli antichi patriarchi. - Sì, Rokoff. - Vedo anche dei buoi. - Ne possiede dodicimila. - E delle pecore. - Si dice che ne abbia duecentoquarantamila. - Ecco un proprietario che invidio, Fedoro. E quella massa enorme che s'innalza presso le mura del parco? La si direbbe una campana. - Fedele copia di quella di Pechino - disse il capitano, che si era silenziosamente accostato a loro. - Solamente che quella è in pietra, mentre quella della capitale è di bronzo finissimo. - Io non ho mai potuto vederla, ma se quella è una copia, deve essere ben mostruosa. - La più grande che esista al mondo, avendo tra una altezza di cinque metri, un diametro di quattro e mezzo e un peso di sessantamila chilogrammi. Se la bella Ko-hi non si fosse sacrificata, non so se i cinesi, per quanto abili, sarebbero riusciti a fonderla. - Ko-hi! - esclamò Rokoff, guardando il capitano. - Chi era? - Una delle più belle fanciulle dell'impero. - E che cosa c'entra colla famosa campana? - Signor Fedoro - disse il capitano, volgendosi verso il russo. - Non conoscete la storia di questa campana? - No, signore. Il capitano s'appoggiò al bordo, guardò per alcuni istanti Tschang-pin che ingrandiva a vista d'occhio, poi disse, quasi bruscamente: - Narrasi che l'imperatore Yung-ko avesse incaricato il mandarino Kuang-yo di fondergli una campana che, per mole, non avesse l'eguale nel mondo. L'impresa era così ardua, che per due volte l'immenso torrente di bronzo fuso si riversò nello stampo senza riuscire a dare una campana perfetta. L'imperatore, sdegnato, concesse una terza prova, minacciando di morte lo sventurato mandarino nel caso che non fosse riuscito. Interrogato un astrologo, questi aveva predetto che la fusione sarebbe riuscita se assieme al bronzo si fosse mescolato il sangue d'una vergine. Kuang-yo aveva una figlia, giovane e bellissima. Apprendendo la profezia dell'astrologo e temendo l'ira dell'imperatore contro suo padre, la fanciulla si decise per l'orrendo sacrificio. Ed ecco che, quando il fiume di bronzo usciva come lava ardente dall'immensa fornace, la bella giovane si slancia, gridando: "Per mio padre!" Un soldato si precipitò su di lei per trattenerla, ma già il giovane corpo si era immerso nel metallo, non lasciando in mano dell'uomo, che voleva salvarla, che una delle sue piccole scarpe. Il mandarino, che aveva assistito al sacrificio della figlia, impazzì, ma la fusione riuscì pienamente, come aveva predetto l'astrologo. Si dice che il primo suono che diede la campana sembrò un colpo di scarpetta. Era la disgraziata giovane che reclamava ancora, nelle vibrazioni del bronzo, la sua piccola shieh. Macchinista alziamoci! Ecco le prime case di Tchang-pin ed ecco i primi colpi di fucile destinati a noi. Non sono cortesi questi abitanti!

. - O che che il nostro ospite o qualcuno dei suoi abbia invece cominciato a strangolarli? - disse Fedoro. - Eh che! - esclamò il cosacco. - Si allevano i cani per poi ucciderli? - E per mangiarli anche. - Oh! S'ingrassano appositamente come si fa da noi coi maiali? - Sì, e non solo per le loro carni, bensì per ottenere delle bellissime pellicce innanzitutto - disse Fedoro. - In questa regione e anche nella vicina Manciuria, migliaia e migliaia di famiglie vivono con questa curiosissima industria. I cani appartengono a una bella razza, fornita d'un manto finissimo, che tiene più caldo della lana dei nostri montoni e che viene adoperato nella confezione di pellicce di valore. Per avere un buon mantello non occorrono meno di otto animali e si vende in media a diciotto lire, qualche volta anche a venti. - Due lire per cane! Poca cosa, Fedoro. - E non conti la carne? - Puah! ... - Si fa una immensa esportazione di prosciuttini di cane, che sono molto stimati dai cinesi e che si vendono anche cari, specialmente se sono grassi. Come vedi, è un'industria produttiva. - Capitano, - disse Rokoff - non fatevi servire alcun piatto del paese. Quel tartaro sarebbe capace di portarci qualche strano manicaretto di carne canina. - Ci tengo più ai nostri fagiani e alla nostra anitra - rispose il comandante ridendo. - Non amo né topi, né cani. - Ah! ... - disse ad un tratto Rokoff. - Non ci aveva detto il tartaro di avere degli amici nella sua casa? - Sì - rispose Fedoro. - Che dormano? Io non odo alcun rumore e non vedo che il nostro ospite passare e ripassare dinanzi alla porta. - È vero - disse il capitano, colpito da quella osservazione - Andiamo a vedere se ha mentito o se i suoi amici sono scomparsi sotto terra. I tre cacciatori s'avvicinarono alla casa e s'affacciarono alla porta. Il tartaro aveva spennato i tre volatili e li aveva messi già ad arrostire, infilati in una corta lancia. Non aveva però mentito dicendo di avere nella sua casa degli amici. In un angolo, il più oscuro della stanza, si vedevano seduti o meglio semisdraiati su una stuoia, cinque individui pallidi, trasfigurati, colla pelle dei volti grinzosa, gli sguardi istupiditi, il naso affilato. Si tenevano gli uni addosso agli altri e tremavano come se fossero assaliti da una forte febbre, mentre i loro petti si alzavano con un rantolo strano che aveva qualche cosa di lugubre. Uno pareva che fosse morto od addormentato e dalle sue labbra, agitate da un tremito convulso, sfuggiva una bava giallognola, la quale si spandeva fino sulla stuoia. Il capitano e i suoi due compagni si erano arrestati sulla soglia della stanza, guardando con orrore quegli uomini che pareva dovessero da un momento all'altro esalare l'ultimo respiro. - Chi sono costoro? - chiese il capitano. - Dei moribondi? Il tartaro, che stava facendo girare lo spiedo, si volse, facendo un gesto di stizza, poi disse con voce tranquilla: - Miei amici. - Che tu hai avvelenato? - No ... sono dei mangiatori d'oppio. Lasciateli dormire; non vi daranno alcun impaccio. - Lo hanno fumato? - No, mangiato. Potete accertarvene, perché nelle loro borse devono avere ancora parecchie pallottole. - Che il diavolo se li porti! - esclamò Rokoff, slanciandosi fuori della stanza. - Quei miserabili mi fanno perdere l'appetito. Il capitano e Fedoro, non meno nauseati, lo avevano seguito, preferendo fare colazione all'aperto piuttosto che con quei ributtanti individui. - Io avevo finora creduto che l'oppio si fumasse e non già che si mangiasse - disse il capitano. - Quella gente si avvelena lentamente. - I mangiatori d'oppio sono numerosi in Cina e soprattutto nella Mongolia - rispose Fedoro - nonostante le leggi severe decretate dall'imperatore. - E ne assorbiscono molto? - Generalmente si accontentano di una pallottolina di cinque o dieci centigrammi; fatta però l'abitudine, raddoppiano e anche triplicano la dose. - E che cosa provano? - chiese Rokoff. - Dapprima una viva sovreccitazione fisica e intellettuale che li rende talvolta pericolosi, diventando temerari e spavaldi; poi un benessere generale che li immerge in un sonno profondo, abbellito da sogni piacevoli. A poco a poca si abbrutiscono e diventano ributtanti, ischeletriti, tremanti come se avessero sempre indosso la febbre e quasi nella impossibilità di camminare diritti. Un mangiatore d'oppio si riconosce subito essendo sempre in preda a una specie di sonnolenza che rende le sue mosse tarde e incerte. - E non possono abbandonare quel brutto vizio? - Sarebbe peggio; ricadrebbero in una profonda apatia che ben presto li condurrebbe alla morte - rispose Fedoro. - E fumandolo, invece? - chiese il capitano. - I fenomeni sono quasi identici, tuttavia meno intensi. Volete farne la prova? Il tartaro non mancherà di pipe, né di oppio; devo avvertirvi, innanzi tutto, che le prime volte quel narcotico produce nausee e acuti dolori di testa. - Non ne ho alcun desiderio. Ho udito raccontare che si beve anche col caffè. - Sì, nel Turchestan; e quella bevanda eccitantissima si chiama koknar. È anzi tale l'abitudine che hanno ormai quegli abitanti, che non potrebbero farne a meno. Per loro è diventata una vera necessità, come per la maggior parte degli europei il vermut, l'assenzio o la birra. L'uomo che volesse rinunciarvi, non potrebbe resistervi a lungo; diverrebbe presto un infelice, privo di qualsiasi energia, apatico, svogliato e non saprebbe imprendere qualsiasi lavoro. - Al diavolo l'oppio! - esclamò Rokoff. - Preferisco mille volte la mia pipa carica di buon tabacco. In quel momento il tartaro usciva dalla capanna, recando su un tondo d'argilla i fagiani e l'anitra mandarina con un contorno di pien-hoa, specie di radici e di hing, frutti angolosi che crescono negli stagni e che assieme alle prime surrogano, fino a un certo punto, il pane, che è quasi sconosciuto nella Tartaria e nella Mongolia. Portava inoltre un vaso colmo di acquavite e di riso e alcuni prosciutti, che dalla loro forma dovevano essere di cani e forse ingrassati con bachi da seta, come usano i cinesi. - Riporta i prosciutti - disse Fedoro. - Non fanno per noi. Il tartaro lo guardò con una certa meraviglia, poi ritornò nella sua casupola borbottando. I tre aeronauti si sedettero sotto una superba quercia che nonostante il freddo aveva conservato ancora gran parte del suo fogliame e attaccarono con molto appetito l'arrosto, le radici e gli hing, magnificando soprattutto la squisitezza dei due fagiani. - Ecco una colazione che molti ci invidierebbero, - disse Rokoff che divorava per quattro. - Capitano, i vostri pasticci di California e dell'Australia farebbero certamente una ben meschina figura dinanzi a questi deliziosi volatili. - Nessuno c'impedirà di provvederci sempre di questi arrosti - rispose il comandante. - La Mongolia è ricca di uccelli e anche di selvaggina da pelo e faremo ogni giorno una battuta. Voi non avete fretta di tornarvene in Europa, è vero? - No, signore - rispose Fedoro. - Desiderei però avvertire la mia casa di Odessa di non fare, almeno per un certo tempo, alcun assegnamento su di me e d'incaricare il mio rappresentante a Hong-Kong di acquistare il tè che io non ho potuto avere dal defunto Sing-Sing. - Una cosa facilissima - rispose il capitano. - Si manda un telegramma. - Ma ... signore ... voi vi dimenticate che qui non vi sono uffici telegrafici e che siamo nella Mongolia. - Se qui non ve ne sono, ne troveremo presto uno il quale trasmetterà in poche ore il vostro dispaccio. - E dove lo cercheremo? - Non occupatevene, - disse il capitano con un sorriso misterioso. - Preparate il telegramma e fra tre giorni o quattro la vostra casa lo riceverà. Ehi, tartaro, portaci delle altre radici. Il signor Rokoff ha divorato tutto. - Erano così eccellenti! - rispose il cosacco, ridendo. - Mi avete capito? - gridò il capitano, dirigendosi verso l'abitazione. Con sua sorpresa il tartaro non si fece vivo. - Dove sarà andato? - chiese Fedoro, un po' inquieto. Il capitano si spinse fino alla porta chiamando il proprietario ad alta voce e anche questa volta senza successo. Entrò nella cucina e vide solamente i mangiatori d'oppio coricati l'uno presso l'altro e profondamente addormentati. - Non c'è più? - chiese Rokoff raggiungendolo. - È sparito - rispose il capitano. - Che sia fuggito? - Signori miei - disse il capitano - questa scomparsa m'inquieta. Raccogliamo la nostra selvaggina e andiamocene. Io non sono tranquillo. - Che cosa temete? - chiese Fedoro. - Non dimentichiamo che noi siamo stranieri e che l'odio del cinese e del tartaro verso l'uomo bianco non è ancora spento. - Che quel briccone si sia recato in qualche villaggio a chiamare degli amici, per poi farci prendere? - È quello che sospetto. Orsù, prendiamo i nostri volatili e corriamo al fiume. - Maledetto paese! - esclamò Rokoff. - Non si può nemmeno fare colazione senza apprensioni! Stavano per slanciarsi attraverso il bosco, quando Fedoro si arrestò dietro un gruppo di pini colossali, esclamando: - Fermi tutti! - Che cosa c'è - chiese Rokoff. - Ci hanno tagliato la ritirata. - Chi? - I manciù! Eccoli che si avanzano attraverso il bosco. - Ah! Brigante d'un tartaro! - gridò Rokoff. - Egli ci ha traditi! Che siano i soldati del fortino? - Lo saranno di certo - rispose Fedoro. - Nella casa - disse il capitano. - Là almeno ci troveremo al coperto e potremo resistere lungamente. - E lo "Sparviero"? - chiesero con angoscia il cosacco e il russo. - Il mio macchinista non è uomo da lasciarsi sorprendere e le eliche possono funzionare subito. Siamo noi invece che corriamo il pericolo di passare un brutto quarto d'ora. Fortunatamente abbiamo dei buoni fucili da caccia e mitraglieremo i manciù.

. - Eppure non vi è islandese che non abbia almeno una mezza dozzina, se non due, di cavalli. Qualche praticello, magrissimo, si trova anche su quei terreni tormentati dai vulcani, ma non basteranno a nutrire nemmeno dieci di quegli animali. - E come vivono allora? - Di teste di merluzzi e d'avanzi di pesce. - Oh! Questa è grossa! - E così anche quelli dei tibetani si sono abituati a nutrirsi di carni e, quello che è più sorprendente, di carne cruda. - E non deperisce la razza? - Al pari di quelli d'Islanda, i cavalli tibetani sono, a poco a poco, diventati piccolissimi. - Silenzio - disse in quell'istante Fedoro. - Odo dei muggiti lassù. Avevano allora quasi raggiunto l'estremità del burrone, che in quel luogo si stringeva tanto da rendere quasi impossibile il passaggio. Da quell'apertura si udivano dei muggiti prolungati, accompagnati da colpi di zoccolo. - Siamo vicini agli jacks - disse il capitano, armando la carabina. - Gettiamoci in mezzo a quelle rocce e avanziamo senza far rumore. - Non udite questi rumori? - chiese Rokoff. - Si direbbe che quegli animali battagliano fra di loro. - Meglio così; potremo sorprenderli più facilmente. Superarono, con non lievi fatiche, un enorme masso che chiudeva parte della gola e gettatisi al suolo si misero a strisciare l'un dietro l'altro, procurando di tenersi sottovento. Appena giunti allo sbocco del burrone si fermarono tutti e tre, appiattandosi dietro la sporgenza d'una rupe. Dinanzi a loro si estendeva un minuscolo altipiano, di poche centinaia di passi d'estensione, limitato da una parte da un abisso, dal cui fondo salivano dei cupi muggiti, prodotti da qualche impetuoso torrente o da qualche cascata. Su quello spiazzo una mandria di grossi ruminanti d'aspetto selvaggio, col pelo lunghissimo e la testa armata di lunghe corna, stava sdraiata, mentre due dei più grossi si assalivano furiosamente, cozzandosi le solide fronti e staccandosi grossi ciuffi di pelo. Quei due campioni avevano quasi la statura dei bufali e dovevano anche possederne la forza. Colla testa bassa, gli occhi iniettati di sangue, le code in aria, i fianchi palpitanti e le bocche coperte di schiuma sanguigna si guatavano un momento, poi si scagliavano l'un contro l'altro coll'impeto di due arieti o meglio di due catapulte, cercando di sfondarsi il petto a colpi di corna. Sì l'uno che l'altro perdevano sangue in abbondanza da numerose ferite, eppure continuavano a caricarsi con maggior lena, decisi a uccidersi. I loro compagni intanto ruminavano pacificamente, senza inquietarsi di quel duello che doveva finire colla morte di uno o dell'altro degli avversari, se non di tutti e due. - Fate fuoco sulle femmine - sussurrò il capitano agli orecchi di Fedoro e di Rokoff. - I maschi hanno la carne troppo coriacea. - Io ho scelto la mia - disse il cosacco. - Ed io pure - aggiunse il russo. - Fuoco! I tre colpi di carabina non ne formarono che uno solo. Una femmina, colpita forse al cuore, cadde fulminata, le altre invece s'alzarono rapidamente, fuggendo al galoppo. I due maschi, udendo quelle detonazioni che l'eco delle rupi centuplicava, si erano fermati guardandosi intorno. Vedendo il fumo alzarsi dietro le rupi, dimenticando per un momento i loro rancori, si precipitarono verso quella parte, a testa bassa, mostrando le loro minacciose corna. - Fuggite! - ebbe appena il tempo di gridare il capitano, aggrappandosi a una radice che pendeva da un crepaccio. Rokoff con un salto balzò su una rupe che gli stava presso, scalandola precipitosamente, ma Fedoro non poté mettersi in salvo. Mancandogli il tempo di caricare e vedendosi piombare addosso i due formidabili animali, si gettò da un lato onde evitare le loro corna, poi si slanciò a corsa disperata verso il piccolo altipiano, senza pensare che duecento passi più innanzi v'era l'abisso. - No, da quella parte! - gridò il capitano, che si era accorto del pericolo. - Salvatevi su qualche roccia! Mentre un jack si fermava sotto la rupe scalata dal cosacco, sforzandosi di salirla, l'altro si era slanciato sulle tracce del russo muggendo e facendo volare i sassi sotto gli zoccoli. Il maledetto animale, quasi si fosse avveduto che dalla parte del precipizio Fedoro non poteva sfuggire, con un fulmineo giro lo aveva costretto a ripiegare verso l'abisso. Il disgraziato cacciatore si era pure accorto che la morte lo minacciava dinanzi e di dietro. Cercò di tornare sui propri passi per raggiungere la gola, ma era troppo tardi. Lo jack, sempre più inferocito, lo incalzava da presso. - Fedoro - gridò Rokoff, il quale caricava frettolosamente la carabina. - Gettati al suolo! Il capitano, che non era riuscito a raggiungere la cima della roccia, si trovava nell'assoluta impossibilità di tentare d'accorrere in aiuto di Fedoro. Costretto a tenersi aggrappato alla radice, si trovava lui stesso in grave pericolo, perché sotto di lui il secondo jack balzava come un indemoniato, sfiorandogli le suole degli stivali colle corna. Fedoro, smarrito, si era arrestato sull'orlo della spaccatura. Era un abisso di venti metri e largo più di cento colle pareti tagliate a picco e con in fondo un torrentaccio che scrosciava cupamente fra le rocce. - Sono perduto! - mormorò. Lo jack caricava allora a testa bassa, pronto a precipitarlo nel baratro. Già non restavano che pochi metri, quando si udì la detonazione della carabina di Rokoff. L'animale, colpito in qualche organo vitale s'impennò, rizzandosi sulle zampe posteriori, girò due volte su se stesso, poi stramazzò su un fianco. - Fuggi, Fedoro! - gridò Rokoff. Non vi era bisogno che lo incitasse. Il russo, sfuggito miracolosamente a quel terribile salto che doveva ridurlo in una poltiglia sanguinosa, si era già messo a correre verso la gola, ricaricando la carabina. - Salviamo ora loro - si era detto. Il secondo jack, accortosi della presenza di quel nuovo avversario, si era lasciato scivolare dalla rupe, ma doveva far i conti con due fucili. Anche Rokoff non aveva perduto il suo tempo dopo quel colpo fortunato. Si era appena slanciato, quando i due amici fecero fuoco a pochi secondi l'uno dall'altro. Lo jack nondimeno continuò la sua corsa indemoniata, ma non già contro Fedoro. Correva lungo il precipizio, dirigendosi verso una gola che s'apriva all'estremità del piccolo altipiano e per la quale era fuggita la mandria. - Badate! - gridò il capitano, che aveva potuto finalmente abbandonare la radice. - Odo i muggiti degli altri jacks! Presto, cerchiamo un rifugio! - Qui! Qui! - disse Rokoff. Fedoro e il capitano stavano per slanciarsi verso la rupe, quando videro ritornare a corsa sfrenata l'animale che aveva ricevuto poco prima i due colpi di carabina. Non era però solo. Guidava la mandria, alla quale si erano uniti parecchi maschi che fino allora dovevano essersi tenuti nascosti dietro le rocce e che erano occupati a combattersi. Quei venti o trenta animali passarono come un uragano attraverso la gola e scesero il burrone col fragore d'una valanga. - Per tutti gli storioni del Volga! - esclamò Rokoff, che era riuscito ad issare il capitano e Fedoro sulla rupe. - Se ci sorprendevano sul loro passaggio, ci riducevano in briciole! Che siano discesi fino nel deserto? - E lo "Sparviero"? - chiese Fedoro, impallidendo. - Ho detto al macchinista di mantenere la macchina in funzione - rispose il capitano. - E poi non credo che gli jacks lascino queste rupi. - Che li ritroviamo? - chiese Fedoro. - Non mi sorprenderei; anzi, se troviamo un altro passaggio, seguiamolo. Non vorrei imbattermi ancora con quella mandria. - E l'animale che abbiamo ucciso? - Sceglieremo i pezzi migliori. - Signor Rokof, avete le braccia che non tremano, voi. Ecco qui una ferita che i migliori cacciatori del Far-West americano vi invidierebbero certamente. - Toccato al cuore? - Sì, signor Rokoff. - Si trattava di salvare Fedoro da una morte certa. - E che morte! - esclamò il russo, gettando uno sguardo atterrito verso l'abisso. - Che salto! Più di venti metri con un torrente nel fondo! Rabbrividisco ancora pensando al pericolo corso. - Dovete la vostra vita a quella palla fortunata - disse il capitano. - Eppure io non avrei esitato a tentare il salto - disse Rokoff, che guardava il torrente. - L'acqua deve essere profondissima e me la sarei cavata con un semplice bagno. - Voi cosacchi trovate tutto possibile - rispose Fedoro, ridendo. - So che per una scommessa qualunque non esitate a saltare da un bastione coi vostri cavalli e senza fiaccarvi il collo. - Facciamo anche di peggio - disse Rokoff. - Aiutatemi - disse il capitano. Aveva estratto il bowie-knife e aveva cominciato a sventrare l'jack con un'abilità da far stupire i suoi compagni. - Voi avete ammazzato ancora di questi animali? - chiese Rokoff. - No, ma invece dei bisonti. - Maneggiate il coltello meglio d'un cow-boy - disse Fedoro. - Ho imparato da loro - rispose il capitano. - Ah! Siete stato nel Far-West? Il capitano, invece di rispondere, aprì la gola all'animale e con un colpo maestro strappò la lingua, dicendo: - Ecco un boccone da re. La depose sul muschio che cresceva lì presso e cominciò a disarticolare il corpaccio dell'jack spaccando ad una ad una le costole alle loro congiunzioni colla spina dorsale, mentre Rokoff e Fedoro s'impadronivano del fegato e del cuore. Avevano già separato interamente l'animale, quando verso la gola udirono un fragore assordante. - Prendete le carabine! - gridò il capitano ringuainando prontamente il bowie- knife. - Gli jaks tornano. - Ancora! - esclamò Rokoff. - Se ci sorprendono qui siamo spacciati. - Guadagniamo le rocce - disse Fedoro. Stavano per slanciarsi attraverso il piccolo altipiano per cercare un rifugio, quando videro la mandria sbucare a corsa sfrenata. I vendicativi animali, dopo aver percorso tutto il burrone, erano risaliti senza che i cacciatori se ne fossero accorti ed ora stavano per caricarli su quello spazio ristretto che pareva non avesse alcuna uscita. Il capitano e i suoi due compagni, atterriti da quell'improvviso ritorno, si erano raggruppati nuovamente verso l'abisso, essendo loro mancato il tempo di salvarsi sulle rupi. - Siamo perduti! - aveva esclamato il capitano. Gli jacks, vedendoli, si erano fermati colle teste basse, mostrando le loro lunghe corna. Pareva che esitassero ad attaccare, forse tenuti in rispetto dalle tre carabine che li minacciavano. - Non fate fuoco - disse il capitano, precipitosamente. - Cerchiamo di non irritarli. - E se ci assalgono, dove ci salveremo noi? - chiese Fedoro, rabbrividendo. - Chi resisterà a simile carica? - Verremo scagliati nell'abisso - disse Rokoff. - Cercate di saltare nel torrente, se vi sarete costretti, o vi sfracellerete sulle rocce. Gli jacks non accennavano a muoversi, come se si divertissero delle angosce terribili dei disgraziati cacciatori. Solamente i maschi erano passati dinanzi, disponendosi su una linea, come per proteggere le femmine. Il capitano e i suoi compagni, pallidissimi, tenevano sempre le carabine puntate, quantunque non avessero molta speranza di fugare la mandria con tre sole palle. Quella situazione tremenda durò due o tre minuti, che ai cacciatori parvero lunghi come ore, poi gli jacks, con un movimento fulmineo, si disposero su un mezzo cerchio, caricando alla disperata. - Fuoco! - gridò il capitano. Scaricarono precipitosamente le carabine. Un animale cadde, ma gli altri, maggiormente inferociti, non interruppero la corsa. - Saltate! - gridò Rokoff. Con un coraggio che doveva rasentare la follia, pel primo diede l'esempio. Chiuse gli occhi e si lasciò cadere nel vuoto, roteando due o tre volte su se stesso. Gli parve di sentirsi mancare il respiro, come una specie d'asfissia fulminante, poi provò un'atroce sensazione di freddo e udì un rombo assordante che gli parve gli spezzasse il cranio. Era caduto in mezzo al torrente, inabissandosi in un'acqua così gelata che credette, di primo colpo, di morire assiderato. Per sua buona sorte e come d'altronde aveva previsto, l'acqua era assai profonda, sicché, invece di sfracellarsi sulle rocce che dovevano coprire il letto, poté risalire a galla stordito sì, ma incolume. Aveva appena aperto gli occhi che vide Fedoro e il capitano precipitare a dieci metri più sopra assieme a un enorme jack che non era stato capace di fermarsi a tempo sull'orlo dell'abisso. Tutti e tre s'immersero, sollevando giganteschi sprazzi. - Capitano! Fedoro! - gridò, mettendosi a nuotare vigorosamente per non venire trascinato via dalla corrente che era impetuosissima. Prima a comparire fu la testa del capitano, poi anche Fedoro emerse agitando disperatamente le braccia. - Che non sappia nuotare? - si chiese il cosacco. Fendette la corrente e lo raggiunse nel momento in cui stava per scomparire di nuovo. - Coraggio, amico! - gli gridò. Sorreggendolo per un braccio, si spinse verso la riva, sulla quale stava arrampicandosi il capitano. - Aiutatemi, signore! - gridò. - A voi! - rispose il comandante. Si era slacciata la lunga sciarpa di lana rossa che gli cingeva i fianchi e gliela aveva lanciata, tenendola per l'altro capo. Rokoff la prese al volo e si lasciò portare verso le rocce, sempre sorreggendo l'amico. - Ferito? - chiese il capitano, vedendo Fedoro pallidissimo. - No ... No ... è il freddo e anche l'emozione - rispose il russo - e poi non so nuotare ... grazie Rokoff. Senza di te l'acqua mi avrebbe trascinato via. Che salto! Tremo come se avessi la febbre. - E quel maledetto jack? - chiese Rokoff. - Credevo che vi piombasse addosso e vi schiacciasse. - Si è messo in salvo sull'altra riva - rispose il capitano. - Mi pare però che si sia spezzate le gambe o fracassate le costole. L'animale pareva infatti che non se la fosse cavata molto liscia in quel terribile capitombolo. Era riuscito a salire la riva, poi si era lasciato cadere al suolo muggendo lamentosamente e perdendo sangue dalla bocca. - Muori dannato! - gridò Rokoff. - Ed ora, che cosa facciamo? - chiese Fedoro. - Mi sembra di avere al posto del cuore un blocco di ghiaccio. Come era gelata quell'acqua! - Cerchiamo un'uscita e torniamo allo "Sparviero" - disse il capitano. - Ne ho anch'io abbastanza di questa caccia. - Uscire! - esclamò Rokoff. - Lo potremo noi? Guardate, signore, e ditemi come potremo fare a tornare lassù.

. - Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra - rispose Fedoro. - Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci. - Avrà osservato dove siamo caduti? - Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi. - Seguo il tuo consiglio - rispose il cosacco. Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto. Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi. - Che sia già l'alba? - si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. - No, la fiamma non si è ancora spenta - disse Fedoro. - Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero? - Ci invitano ad aprire. - Che sia giunto il capitano? - Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori! - Allora li mando a quel paese. - No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente. Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta. I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli - Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini - disse Rokoff. - Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono? - Non ne so più di te - rispose Fedoro. - Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda. - Che ci conducano ancora da quella mummia vivente? - Lo vedremo, Rokoff. Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio. - Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta - disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. - Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando? Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro: - Preparatevi a partire. - A partire! - esclamò il russo, sorpreso. - E per dove? - Pel monastero di Dorkia. - A che cosa fare? - Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi. Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato. - Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia - disse con voce acre. - Perché non viene lui qui? - Io non posso altro che obbedire - rispose il monaco. - È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri. - Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni. - Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia - rispose il Lama. - Ce lo promettete? - Ve ne dò la mia parola. - Come andremo noi a quel convento? - Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta. - Chi l'ha avvertito che noi siamo scesi qui? - Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un'aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende. Fedoro tradusse a Rokoff l'esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni. - Se ci rifiutassimo? - chiese il cosacco. - Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia? - Sicché non ci rimane che obbedire. - Purtroppo Rokoff. - Ah! Diavolo! Mi pare che quest'avventura s'imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri? - O fare di noi dei Buddha viventi? - disse Fedoro. - Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci. - Dunque? - chiese il vecchio, con una certa ansietà. - Siamo pronti a seguire la scorta - rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni. - E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero - rispose il monaco, con un sospiro. - Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza. Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo: - Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi. - Vi promettiamo di tornare - rispose Fedoro. - Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia. - Saranno miei ospiti. La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d'aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani. Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha. Il comandante della scorta, un montanaro d'aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese: - Ricevete fin d'ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d'ospitarvi. Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire. I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni. - Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti - disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo. La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file. La notte era orribile, essendo l'uragano tutt'altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai. Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d'acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri. Sopra, l'immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce. - Bella notte, per farci fare un viaggio - disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. - Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto. - Non mi stupirei se ciò ti toccasse - rispose Fedoro. - Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano. - Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo? - Io sospetto invece qualche cosa d'altro. - Ossia? - Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo. - Che questi signori monaci abbiano l'intenzione di tenerci prigionieri? - Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d'un uccello. - E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente? - Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna. - Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia - disse Rokoff. - Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano. - Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri? - Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto. - E se fosse morto? Fedoro non osò rispondere. Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente. La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor. I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un'abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta. Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri. Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini. Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall'altro, durò tre lunghe ore. Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente. I cavalli s'arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l'altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone. Giunti dall'altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s'innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor. - Dorkia - disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. - Il Bogdo- Lama vi attende.

. - Mi pare che abbia sternutato - disse Rokoff. - No, ha pronunziato il nome della bella principessa - rispose Fedoro. - Un nome superbo! Compiango suo marito, se ne ha avuto uno, costretto a sternutare forse cinquanta volte al giorno per chiamare la sua sposa. Si erano messi a mangiare con molto appetito, trovando tutto squisito. Anche la principessa, quantunque quasi sdentata, si sforzava di tener dietro agli ospiti, masticando come meglio poteva e bevendo molto koumis. Durante quella laboriosa operazione, alzava sovente il viso, guardando di sfuggita i tre uomini bianchi e fermando soprattutto i suoi occhi su Rokoff, le cui forme erculee e la barba rossastra dovevano averle prodotto un certo effetto. Anzi, sovente si curvava verso il monaco, che divorava per quattro e beveva per otto, mormorandogli all'orecchio qualche parola e indicandogli il cosacco. Il capitano, che si era accorto di quelle manovre, urto Rokoff, dicendogli: - Badate! La principessa fa troppa attenzione a voi. Temo che le abbiate toccato il cuore. - Per le steppe del Don! Non ditelo nemmeno per scherzo. - E che, non vi piacerebbe diventare principe di Turfan? - Con quella vecchia! - Non è poi tanto brutta - disse il capitano, frenando a stento le risa. - Che il diavolo se la porti! - E sarà anche ricchissima. - Non continuate, o scappo via. - Non guastate le nostre buone relazioni con questi calmucchi. Sarebbero capaci di mandarci in pezzi lo "Sparviero". - Dopo il pranzo ce ne andremo. - Dobbiamo assistere alla festa delle lampade. La popolazione sta già facendo i preparativi. - Chi ve lo ha detto? - Il mandiki. - Avrei preferito andarmene. - Più tardi, quando avremo ricevuto i montoni promessi. Mentre chiacchieravano, la principessa continuava a guardare sottocchi il cosacco e bisbigliare col monaco il quale, troppo affaccendato a rimpinzarsi di pasticci e di focacce, si limitava a rispondere con dei cenni del capo. Avevano appena terminato il pasto, quando al di fuori si udirono rullare dei tamburelli e strepitare dei gong. Il monaco si era alzato dicendo: - Ecco che la sulla comincia. I figli del possente Buddha onorino la festa colla loro presenza. Tutti uscirono dalla tenda, preceduti dalla principessa. La notte era calata, ma miriadi di lumi brillavano nelle vie della borgata e intorno alle tende, avanzandosi verso la piazza come un immenso serpente fiammeggiante. Dinanzi alla dimora della principessa, dei servi avevano alzato una specie d'altare, il dender, formato con rami d'abete intrecciati e piantati su pezzi di legno coperti d'erba. Su due lati ardevano due piccoli falò ed in mezzo ai rami s'alzava una statua di Buddha formata d'argilla seccata al sole e abbellita di pezzi di carta dorata e da collane di tael. La festa della sulla ossia della lampada, è una delle più grandi ed anche delle più originali che celebrano i calmucchi ed ha qualche somiglianza coi quella delle lanterne dei vicini cinesi. Giacché riesca di maggior effetto, si aspetta la notte. Allora tutta la popolazione della tribù si schiera, munita di lampade ripiene di grasso, i cui lucignoli sono formati dagli steli d'una pianta ben secca, avvolti in un po' di cotone, e devono essere tanti quanti sono gli anni di colui che deve portare il lume. Preceduti da una musica indemoniata, devono fare tre volte il giro dell'altare, sempre ballando e procurando di non cadere, perché la via che devono percorrere deve essere prima stata interrotta da fossati e da buche scavate appositamente. Un uso molto curioso poi, vuole che un bambino nato il giorno prima della sulla, debba venire considerato l'indomani come già vecchio d'un anno. Mentre la principessa attendeva l'arrivo della tribù che s'avanzava fra un clamore assordante, il monaco si era accostato al capitano, impegnando con lui una misteriosa conversazione, accompagnata da gesti maestosi. - Che cosa può raccontare il mandiki? - si chiese il cosacco, il quale, senza conoscere il motivo, non si sentiva punto tranquillo. - Deve essere molto interessante, perché vedo che il capitano ride a crepapelle. - Io non so, ma vedo una cosa. - Quale? - Che la principessa, a poco a poco si avvicina a te e che non ti stacca di dosso gli sguardi. - Che quella vecchia pazza ... - Signor Rokoff - disse il capitano, che gli si era accostato. - Sono stato incaricato, dal mandiki, d'una commissione per voi. Permettete che fin d'ora vi faccia le mie congratulazioni. Corbezzoli! Quanto v'invidieranno i sudditi di Khurull-Kyma-Chamik. - Una commissione per me? - chiese il cosacco, che si sentiva bagnare la fronte da freddo sudore. - Quattromila montoni, trecento cammelli, sette tende e non so quanti cofani pieni di pezzi di seta e di gioielli ed un titolo! Sono fortune che non capitano tutti i giorni. - Che cosa c'entrano i montoni ... i cammelli ... Il capitano, fattosi serio disse, inchinandosi comicamente: - Io saluto in voi il principe di Turfan. - Io principe! - gridò Rokoff che pareva in procinto di scoppiare. - Mi hanno pregato di chiedere la vostra mano da parte della bellissima, ricchissima e potentissima principessa Khurull-Kyma-Chamìk, che si è degnata di scegliervi per suo quinto sposo. - Fulmini del Don! - Fortunato amico! - gridò Fedoro, schiattando dalle risa. - E il briccone si lagnava d'avermi accompagnato in Cina!

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