Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Saggi di critica d'arte

261856
Cantalamessa, Giulio 7 occorrenze
  • 1890
  • Zanichelli
  • Bologna
  • critica d'arte
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Si direbbe ch’egli abbia pensato che ad adattarlo alle esigenze della sua fede bastassero le sole sue forze, e non s’ingannava. Ho detto tino dei tipi, perchè io principalmente ne discerno due, ben distinti. Il primo proviene dalla Niobe, la cui testa egli doveva aver disegnata e ridisegnata con immensa passione nella scuola del Calvart, ch’era ben fornita di gessi calcati dall’antico. Di quella sua giovanile passione non si scordò mai più: i lineamenti della sventuratissima madre eternata nel marmo di Paro gli dominarono sempre la fantasia, e gli ricorsero spontanei alla mano ogni volta ch’ei dovesse dipingere un viso femminile volto all’insù. Qui a Bologna possono vedersene vari saggi. Uno è nella madre esterrefatta che accovacciata alza al cielo gli occhi senza pianto nella Strage degl’Innocenti; un altro è nella Madonna che solleva il viso verso Cristo morente in croce, egualmente in questa pinacoteca; un terzo è nell'Addolorata del gran quadro della Pietà. Ma forse il più perfetto esemplare di questo genere c nella Maddalena detta dei Corsini, di cui c’è a Bologna una bella copia nella sagrestia di S. Michele in Bosco, dipinta da Domenico Canuti. Non do altri esempi per non prolungar di troppo l’enumerazione; ma desidero si noti da quelli che ho dati come la reminiscenza della Niobe si ripresentasse vivace a Guido, non solo quando ei volea far visi rivolti in alto, ma quando gli era necessario atteggiarli a dolore. Quanto poi a piegare il dolore di Niobe a servigio dell’arte cristiana, si rifletta che il dolore infine assume la stesse forme in donne appartenenti a religioni diverse, che quello particolare del capolavoro antico non ha l’espressione disperata che sola disconverrebbe al cristianesimo, e che Guido, insuperato maestro nel far lo sguardo fiso in alto, sostituiva alla cecità della statua la viva pupilla umana, circondandola di umidore pietoso, e nella compostezza rassegnata della bocca poneva un certo accento di tenerezza che non si può analizzare da che cosa dipenda che non si può copiar mai perfettamente, che sfugge ad ogni materialità di indagine, ch’è insomma il soffio di uno spirito eletto, il quale con espedienti quasi impercettibili modifica, sublimandola, qualunque parvenza. Qualche rara volta il tipo della Niobe è riconoscibile, quantunque l’angoscia sia scomparsa per dar luogo all’estasi. Esempio: la bella Assunta di Castelfranco.

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Non ch’egli abbia accettato dal Perugino e norme e abitudini, tanto da parer che gli vada dietro; anzi egli ebbe il buon senso di comprendere i vizi del Perugino e di respingerli, e soprattutto si guardò dall’imitarne il drappeggiare pesante e falso: avvedutezza che nei primi anni della gioventù non ebbe lo stesso Raffaello; ma l’arte del Perugino fu, io penso, come un tocco benefico nell’animo del Francia, il quale determinò l’equilibrato e sano svolgersi di una virtù sua personale, che dai ferraresi non aveva avuto eccitamenti. E lo ideale del Francia fu tosto fissato: un gran sentimento del decoro congiunto all’avvenenza e alla grazia; una quiete e una serenità dedotte dal suo spirito naturalmente giocondo, aperto e confidente, il quale s’incontrava e s’incoraggiava collo spirito del paganesimo, atto a promuovere una tale espansione d’ingegno. Già ottimo disegnatore quando si dedicò alla pittura, anzi artista perfetto, egli ebbe adoperando il pennello tutte le precisioni, tutte le curiosità, tutta la nettezza elegante a cui l’aveva avvezzato il bulino; ebbe oltracciò una grande finezza nei modellati, una tenuità mirabile di mezzetinte perline negl’incarnati, una gran paura dei toni pesanti, una grande abilità nell’introdurre un po’di luce diffusa anche dove le ombre sono più forti, una grande ripugnanza ai cieli turbati dalla procella, alla campagna senza luce e senza sorrisi. Ognun vede come tutti questi elementi dello stile cospirassero a meraviglia verso l’ideale della serenità, della grazia, del decoro. Si aggiunga l’uso di pilastrini con leggiadre decorazioni all’antica, bassorilievi talvolta sui plinti dei troni, cornici finamente sagomate, frammenti di classiche architetture sparsi nel fondo.

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E pare anche ragionevole supporre che, datosi a dipingere quand’era maturo d’età e d’intelletto, il Francia abbia volontariamente prescelto a maestro chi si presentava al suo giudizio più degno d'insegnare. Egli, del resto (l’ho già detto), non avea bisogno di educazione artistica propriamente detta. Salvo la tecnica del colorire, che gli era necessario apprendere, tutte le altre parti dell’arte gli erano familiari come a qualunque dei più valenti. È perchè mai per apprenderla si sarebbe rivolto a Marco Zoppo, le cui carni color di mattone, le cui membra quasi di mummia, e gl’impasti poveri e magri, e le pieghe striscianti sui corpi come viluppo di steli, e le durezze incorreggibili doveano metterlo nella sua estimazione al disotto dei forestieri dimoranti qui, del Costa e del Roberti principalmente?

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C’è l’esitazione del principiante; i caratteri pittorici del Francia si schiudono appena sotto l’involucro, come bottoni baciati dall'alito d’aprile, ma la loro natura è riconoscibile, ed a me sembra che il senatore Morelli abbia avuto ragione nel contendere questa pittura ad Ercole Grandi per ascriverla al Francia. Il rispetto dell’arte rende qui incontentabile il pittore, finchè non abbia ritrovato ogni segno più accidentale e rilisciata ogni modellatura e cercato con sottilissimo pennello ogni particolare più lieve. Il corpo di Cristo appeso sulla croce e spiccante nel cielo sereno non ha sufficiente solidità; ma in quella stessa snervatezza di modellato e di tinta io sento il novizio. S. Giovanni in piedi effonde il dolore; S. Girolamo inginocchiato e seminudo prega. Molta intelligenza dal vero nella schiena e nel braccio scoperto di questo santo. Gettati con gusto i panneggi, finiti, strafatti fino allo scrupolo. I capelli, le barbe, la criniera del leone accoccolato dietro a S. Girolamo sono preparati con opportuna tinta locale e poi son rilevati garbatissimamente i peli più sporgenti e riflessati. Questa fu abitudine costante del pittore, ma qui l’investigazione degli accidenti è più oziosa. Lo spirito sereno del Francia si manifesta ovunque in questa tavoletta. La morte non ha percosso della sua impronta terribile il crocifisso; gli strazi non ne hanno neppure alterato la pettinatura, che scende in regolari serpeggiamenti. L’aria è limpida e lieta, la campagna amena, la città di Gerusalemme ( dal solito color azzurrognolo chiaro che il Francia adopera sempre ne’ fabbricati lontani ) è irradiata di sole. Alcuni soldati a cavallo vi rientrano tranquilli, e nulla par che annunzi l’ira dell’Eterno.

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Si direbbe ch’egli abbia sempre un po’diffidato di sè stesso, evitando difficoltà, salvo quelle che nessun artista può schivare, perchè sono inerenti all’arte: le difficoltà del buon disegno e della modellatura che rende onestamente le apparenze del vero. E certo egli le supera abilmente; ma resta nell’opera sua l’indizio d’una lunga fatica, che le forze dell’ingegno hanno sostenuta bene, sì, ma lunga ad ogni modo e paziente ed anche talora alquanto sfreddata dell’entusiasmo che doveva aver avvivato la prima concezione; sicchè si pensa che l’artista abbia adunato a raccolta tutte le sue energie e le abbia spese compiutamente, mentre è proprio dei veramente grandi far cose perfette con tal disinvoltura apparente da non dar segno di esser giunti ai limiti estremi del loro potere. Non cerca neppure novità, non modifica con varianti ingegnose i motivi tradizionali, pago di serbarsi la sola libertà di interpretarli a seconda del suo cuore. Poco gli basta. Madonne in trono col putto; santi a destra e a sinistra simmetricamente, e non mai uno scorcio, salvochè talvolta nelle gambine degli angioli che si compiace di porre seduti alla base del trono. Si contenta di essere nulla più che un compositore ragionevole, e non gli passa mai nella mente il proposito di sorprendervi con una trovata imprevista. Non si sprigiona dalle sue invenzioni il sentimento di una forza nuova, non ne esce quel che fu detto grido dell'anima, quel poderoso scatto delle sensibilità eccezionali, quel fremito che or delizia lo spettatore, or l’impaura, sempre lo soggioga.

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La sola verità intellettuale trapassa inalterata d’una in altra mente: la voce di chi l’ha ricevuta non l’enuncierà con meno eloquenza che abbia quella di colui che l’ha scoperta; ma l’arte non è pura elucubrazione intellettuale: essa si avviva del pulsare spontaneo di un cuore, e illanguidisce quando un cuore si muove galvanicamente per virtù trasmessa da un altro.

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Vitale, tanto più che il Bagnacavallo qui sembra indipendente da influssi; quando non voglia dirsi che nel profeta seduto in terra e introdotto nella scena come simbolo, egli abbia cercato appropriarsi, come dice il Malvasia, la terribilità michelangiolesca. Del resto, la composizione è buona. C’è nell’ampiezza della scena una quiete conveniente al soggetto. Grandeggia nel fondo un’architettura sontuosa, a cui si ascende per magnifico scalone, e in ciò pare il Bagnacavallo quasi un precursore di Paolo Veronese. In disparte stanno genuflesse le figure dei committenti, gentil nesso di idee che collega i protettori celesti coi bisognosi di protezione, e che solo la nostra borghese e gretta positività fa denominare anacronismo. Non oso mettere tra gli affreschi del Bagnacavallo i tondi dipinti sulla volta di S. Giacomo, perchè tal giudizio è irto di dubbi; ma è dovere ricordare i tredici santi dipinti nella sagrestia di S. Michele in Bosco. Qui par veramente che il Bagnacavallo, più che abbarbagliato dalle esteriorità raffaellesche, sia stato agitato e incalorito dallo spirito di lui; la qual cosa poi in altri termini vuol dire che, levato il pensiero ad un’alta e indefinita intonazione artistica, egli ha potuto rendere un abbastanza largo margine alla sua libertà individuale. Questi santi sono notevoli pel carattere semplice, austero e maestoso degl'insiemi, per la convenienza dei tipi, pel getto decoroso dei panni. Sono esseri che veramente vivono al disopra di noi; si sente di aver con essi un rapporto da inferiori a superiori; appaiono come nobile trasfigurazione dell’aspetto umano. E questo suggello di superiorità è mirabilmente secondato dal disegno largo quanto puro, dal colore sapientemente discreto, dalla ricchezza stessa dei tappeti e degli arazzi sui quali l’artista ha fatto posar le figure. Un po’róse dal tempo e non immuni dalla tabe dei ritocchi, esse tuttavia sono assai lontane dal mostrarsi a noi in quell’eccellenza che fruttò all’artista, nel suo tempo giustissima ammirazione.

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Il vero re dei cucinieri

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Belloni, Georges 22 occorrenze

Fatti i pani, si mettono successivamente sopra una tavola o dentro appositi panieri guarniti di grossa tela, e si lasciano per qualche poco esposti all'aria se d'estate, od in vicinanza del forno se d'inverno, tenendoli coperti con tela o pannolano, perchè la pasta abbia tempo di lievitare sufficentemente prima della cottura. La sola esperienza insegna a conoscere il momento in cui il pane può esser messo nel forno.

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Si abbia l'avvertenza che il pezzo di carne riempia completamente il vaso, pigiandovelo a forza poi le si coprirà in modo che non vi penetri l'aria.

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I fagiuoli, i piselli ed ogni altro legume è meglio lasciarli seccare sulla pianta col loro baccello, quando non si abbia probabilità di pioggia; altrimenti si colgono quando il baccello stesso comincia ad ingiallire, per farli poi finir di seccare al sole, esponendoli soltanto nelle belle giornate; perchè la pioggia, qualora l'evaporazione dell'umidità non avesse luogo subito dopo, li farebbe ammuffire.

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Devesi per altro salarlo pochissimo, perchè il brodo così concentrato non abbia a rimanere troppo salato.

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La si fa come quella qui sopra descritta aggiungendovi, quando è cotta, alcuni tuorli di uova già frullati a parte, che verserete nella farinata dopo che questa abbia perduto il bollore; rimestando intanto prestamente col mestolo, perchè l'uovo non si rappigli. Basta un tuorlo per ogni scodella di farinata, e vi si può unire anche un pezzo di burro.

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Mettete in casseruola 80 grammi di farina bianca, fatela sciogliere al fuoco, appena comincierà a friggere, amalgamatevi due quinti circa di latte, e continuate a rimestare finchè abbia subita l'ebollizione; ottenuta così una poltiglia aggiungetevi una presa di sale, un altra di pepe ed un gramma di noce moscata grattugiata; fatela bollire 5 o 6 minuti, servendovene al bisogno.

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Fate cuocere delle lenticchie secche o fresche come credete, con acqua, sale e un po’ di prezzemolo, o di sedano, o carota e cipolla; ritiratele dal fuoco, lasciatele sgocciolare, pestatele a poco per volta nel mortaio insieme ad una fetta di pane già fritta nel burro; passate il tutto per istaccio; diluite con un poco di brodo buono o sugo di carne, e rimettete il composto al fuoco per farlo alquanto concentrare, badando di tramenare col mestolo perchè non abbia ad attaccare e prendere il bruciaticcio.

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Quando avrà bollito per circa 6 ore a fuoco lento, colate il liquido a traverso un pannolino, mettetelo nuovamente al fuoco in una casseruola, ed appena abbia ripreso il bollore, mettetevi due chiari d'uovo che avrete prima sbattute, e per alcuni minuti rimestate con prestezza; lasciate poi ristringere l'umido, mantenendo la casseruola sul fornello, e di quando in quando provate a versarne qualche goccia sur un piatto, per vedere se raffreddando prende consistenza; il che verificatosi ritirate dal fuoco la casseruola, passate una seconda volta il liquido per un pannolino, e lasciatelo raffreddare in una forma o sopra la pietanza fredda che volete guarnire.

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Prendete un bel cappone, o un bel pollo grasso, che abbia la pelle bianca; levategli le interiora, lavatelo bene, e mettetelo a cuocere in una pentola con acqua sufficiente e sale, nel brodo in cui sia già stato a cuocere il manzo, aggiungendovelo in tal caso circa un’ora prima che questo sia completamente cotto, se volete servire insieme, manzo e cappone, o pollo.

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Così legati fateli lessare per 10 minuti in acqua bollente con sale; ritirateli, sciogliete i mazzi, e accomodate in una padella gli asparagi con le punte verdi verso il centro e la lor parte bianca posata sulla sponda della padella stessa all'intorno; mettete poi nel bel mezzo un pezzo di burro, pepe e poco sale, e lasciate soffriggere al fuoco finchè il burro abbia preso un po’ di colore. Allora ritirate la padella, spargete sugli asparagi del buon formaggio grattugiato, e serviteli subito nella padella stessa.

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Quando poi i funghi sono cotti ne empirete la pagnotta già vuotata, versandovi pel buco praticatovi funghi ed intinto, turando con un pezzo di pane il buco medesimo, metterete poi la pagnotta così riempita in una casseruola adattata, sul fondo della quale avrete distese alcune fette di prosciutto; allora ungetela con burro, cospargetevi un poco di sale, e fatela cuocere con fuoco sotto e sopra finchè abbia alquanto rosolato. Dopo ciò accomodate per bene la vostra pagnotta in un piatto, togliendo via le fette del prosciutto, e servitela.

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Fate rosolare in casseruola con burro e sale un chilo di vitello magro, quando abbia preso bel colore bagnate con qualche cucchiajata di brodo bollente e sugo di pomidoro. Fate così cuocere per altra mezz'ora; poi aggiungete 3 etti di piselli freschi sgranati, e lasciate finir di cuocere.

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Tagliate a pezzi un pollo dopo averlo ben pulito;asciugate ogni pezzo con una salvietta, infarinateli metteteli al fuoco in casseruola con un soffritto di burro e cipolla sottilmente trinciata; salate convenientemente, e quando il pollo abbia rosolato un poco, spargetevi sopra del prezzemolo e versatevi

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Lentamente ritirate il tacchino, accomodatelo in un piatto, togliendo i residui del prosciutto e del lardo, e passate pel colatoio il liquido mentre è ancora caldo; unite subito a questo liquido una chiara d'uovo sbattuta, rimettetelo sul fuoco, sbattete bene il tutto, e quando abbia alzati due o tre bollori, passatelo per pannolino raccogliendolo in un gran piatto, dove lo farete raffreddare in sottile strato. Ottenuta così la gelatina, tagliatela a mostacciuoli, e contornatene il tacchino quando è freddo. Potrete anche, mentre la gelatina è calda, versarla addirittura sul tacchino e farvela rappigliare rafredando, in modo da coprirlo intieramente.

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Intanto ponete in un bicchiere tanto zucchero in polvere da riempirlo sino a metà, e tanto aceto da giungere ai due terzi del bicchiere stesso, stemperando bene insieme; e quando la lepre abbia rosolato alquanto e sia quasi cotta, versatevi sopra il detto aceto inzuccherato, aggiungete mezza tavoletta di cioccolatta grattugiata, e dun pugno fra finocchi ed uva passa; mescolate bene il tutto, lasciate cuocere ancora per pochi minuti, e versate in un piatto, e servite subito.

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Lasciate rosolare così la carne, rivoltandola su tutti i lati, e quando abbia preso un bel colore, bagnatela con brodo e vino bianco, ed eggiungetevi un battuto di prezzemolo ed aglio, poco pepe e spezie. Infine, un quarto d'ora prima di ritirare la casseruola dal fuoco, quando l'intinto sarà alquanto concentrato, unitevi alcuni tartufi sottilmente trinciati, lasciando sobbollire il tutto, e servite.

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.; salatela a dovere, spargetevi un pò di pepe, ponetela in una tegghia adattata con alquanta acqua, e fate cuocere al forno finchè la carne abbia preso un bel colore e l'acqua stessa siasi consumata. Ritirate l'arrista dal suo unto, e servitela calda o fredda a piacere.

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Se il montone dev'essere buono, bisogna che non abbia più di 15 mesi e la sua carne bisogna lasciarla divenir molto frolla prima di farla cuocere.

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In seguito fate sciogliere in una piccola casseruola 30 grammi di zuccaro in polvere, tramenando con uno spatolino di legno finchè abbia preso il color biondo, allora, scaldato uno stampo liscio a nano canellato, versatevi il suddetto zuccaro caramelizzato nel fondo, e quando si sarà raffreddato, riempitelo di crema, ponetelo in un tegghia o casseruola con acqua fredda, cioè 3 o 4 centimetri sotto il livello dello stampo, ponetelo poscia nel forno o con braci sotto e sopra, fatelo cuocere in modo che l'acqua non abbia a bollire, altrimenti invece di essere liscia, resterebbe spugnosa; dopo mezz'ora circa, provate con uno spillo a pungere la crema, se esce asciutto è segno che e cotta, se al contrario sorte bagnato, bisognerà lasciarla al fuoco ancora per qualche minuto. Essa si servo tanto calda che fredda, rovesciandola su un piatto; il caramel, essendo in parte dileguato, servirà di salsa. Volendola fare al cioccolatte, farete prima dileguare al fuoco 50 grammi di questo e quando sarà ben mescolato lo unirete alla composizione e lo verserete in uno stampo bisunto con del burro chiarificato, ovvero con un cucchiaino d'olio di mandorle dolci, cuocendola come sopra già si disse, coprendola però con un pochino di siroppo, misturato con qualche liquore che potrà servire di salsa, ovvero un pochino di crema liquida.

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Pestate altri 6 chilogrammi di ghiaccio, mescolatelo con 1880 grammi di sale, coprite le forme, comprimete bene il ghiaccio in modo che abbia a restar bene aderente alle dette forme dei stampi o pezzi, coprendoli dopo con un grosso strofinaccio e mettendo il secchio in un luogo fresco, dove dopo 3 o 4 ore saranno gelati a perfezione. Quando dovrete servirli, bagnateli nell’acqua tiepida, levateli dalla forma e serviteli su d'un piatto con tovagliolo. — Nella stagione estiva, sciogliendosi facilmente il ghiaccio, sarà bene, dopo tre ore circa levargli due terzi d'acqua e rimettergli dell'altro ghiaccio e sale.

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Devesi osservare che non abbia il gusto dell’acqua salsa, da cui resta talvolta bagnato nelle lunghe traversate di mare, e che il suo grano non sia guasto.

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.; le incartoccerete, ponendo nel mezzo la pastiglia, indi rivolgendo le due estremità della carta dell'istesso colore della pastiglia, in modo che abbia ad esser involta perfettamente. — Se poi li vorreste fare al cioccolato, unirete al zuccaro 30 gramma di questo grattugiato; se ai lamponi, preparerete alla loro stagione, 500 grammi di questi, freschi, mettendoli in una bottiglia con un quinto d'aceto, turandola bene e servendovi, dopo 20 giorni, per aromatizzare il zuccaro.

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Demetrio Pianelli

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De Marchi, Emilio 13 occorrenze

Data un'altra fregatina alle mani, se le portò alla testa e carezzò due o tre volte coi palmi le due gote come se si asciugasse la faccia e presa la penna, dopo averla provata sull'unghia grossa del pollice, ricominciò a copiare al punto dov'era rimasto il giorno prima: avvegnaché non sembri a codesto Eccelso Ministero poco retribuito il reddito imponibile, nonché gli altri cespiti tassativamente indicati nella precitata Circolare del 10 ultimo scorso, N. di protoc. 54657, Posiz. 32, N. di partenza 307, e oltracciò avvegnaché non abbia a patire detrimento l'organica esazione come laonde ... . "Signor Pianelli" disse il vecchio portiere Caramella, che sonnecchiava le dodici ore al giorno in anticamera "c'è un signore, un vecchio, che vuol parlarle." "Chi è?" "È un vecchio, un uomo ... ." "Gli avete detto che non ricevo in ufficio? sta per venire il cavaliere ... ." "Dice che ha bisogno ... Pare un mezzo matto ... ." "Sarà uno dei soliti" soggiunse Demetrio, che da una settimana vedeva passare la processione dei creditori. "Questo lo mando a Melegnano dal sor Isidoro" pensò. "Non voglio impiccarmi per ... Fatelo entrare un momento" soggiunse a voce alta. "Per questo son già bello ed entrato" esclamò il vecchio mezzo matto, venendo innanzi da sé come se fosse il padron di casa. Era un uomo sui settant'anni, d'aspetto campagnuolo, tarchiato e vigoroso, vestito di un abito grigio sciupato, con due grandi occhialoni sopra un viso color del mattone e con un nodoso bastone in mano di un bel legno giallo, contorto come una radice. Fece tre passi avanti, cadendo tre volte sulla gamba destra che aveva piú corta della sinistra e, senza levarsi il cappello di testa, fissando in faccia a Demetrio i grandi vetri dei suoi occhiali, disse con voce sguaiata: "È lei quello che chiamano il Demetrio?" "Sissignore" rispose Demetrio non senza un piccolo sorriso ironico. "Allora mi siedo, perché sono stanco come un asino." "Si accomodi, ma faccia presto." "Son già seduto, grazie, obbligato. Non guardi se ci ho un vetro rotto nel mezzo. È una memoria che conservo, una grazia ricevuta dalla madonna. È stata una cavalla che aveva mangiata della cattiva stoppia, sprrang ... mi regalò un calcio qui nell'occhio. Si è rotto il vetro, ma la testa, oh, sí!.. testa di bronzo, corpo del diavolo!" "Ho l'onore? faccia presto ... ." "Ecco, l'onore veramente è una parola troppo di lusso per un uomo che non ha avuto nemmeno il tempo stamattina di farsi lustrare gli stivali. Son venuto a piedi da San Donato a Milano, e c'era un fango alto cosí ... ." "Senta, si sbrighi ... ." "Stia comodo, caro il mio carissimo sor Demetrio, che in un pater , ave e gloria la minestra è cotta. So bene che i regi impiegati non hanno mai troppo tempo da perdere coi signori contribuenti. So da un pezzo quel che significhi un regio impiegato." Il vecchiotto color mattone accompagnò queste parole con un suo gesto favorito, che consisteva nel porre il dito indice alla coda dell'occhio, sporgendo un poco le labbra e aguzzando lo sguardo a una sopraffina espressione di mariuoleria. "Non mi levo il cappello perché sono sudato e poi noi siamo americani. Sono stato a casa sua a cercarlo, e non ho trovato che un vecchio sordo come una campana. La portinaia mi ha detto: "È già andato all'ufficio." Allora io ho pensato: "Poiché siamo in piazza Fontana, approfittiamo della circostanza e facciamo colazione" e sono andato al Biscione , dove una volta ho mangiato una eccellente busecca alla milanese. Una volta c'era anche del vin buono — parlo di trent'anni fa, quando il Biscione non era diventato ancora un grand hôtel . Ci andavo tutte le settimane, fin da quando viveva mio padre, jesus per lui, anzi ho passato al Biscione la mia prima notte di matrimonio. C'è da farne un quadretto. La mia povera Marianna non era mai stata al Biscione ... ah! ah! sicché, s'immagini che paura!.. Basti dire che è scappata su per la ringhiera in camicia ... ." "Scusi" interruppe aspramente Demetrio, "chi è lei? che cosa vuole? non ho tempo di stare a sentire le sue fanfaluche." "Ecco un parlar chiaro, corpo del diavolo! Se si tratta dunque di farle quell'onore che dice, io sono il Chiesa di Melegnano." "Il sor Isidoro?" esclamò Demetrio un po' mortificato e confuso. "Sí, Isidoro Chiesa, uomo libero per la grazia di Dio e che non mangia il pane di nessuno." "Se avessi saputo ... non ci siamo mai incontrati." "Non abbiamo mai avuto quest' onore ... Son venuto a Milano per discorrere di quella faccenda; anzi per far piú presto ho portato con me tutto l'incartamento talis et qualis come me l'ha consegnato ieri l'avvocato Ferriani ... Conosce l'avvocato Ferriani? un bravo giovane, svelto come un uccellino, un poco storto di gambe, ma diritto di cervello. Questi nanis quanis alle volte hanno un talento! Anche la vite è storta, e fa buon vino. Transeat! Da questo incartamento ella potrà farsi un'idea precisa delle cose, come le ho raccontate al povero Cesarino. Io sono uno che ama le cose chiare, sebbene ne abbia ricevute di quelle che non le ha sofferte nostro Signore sulla croce. Ma un Chiesa non si umilia né per cento, né per duecento, né per mille marenghi. Un Chiesa non si vende." Il mezzo matto cominciava a gridare e ad agitare il suo bastone bistorto in aria. "Io non so nulla ... " disse Demetrio umile e paziente. "Si tratta di un capitale di ottanta mila lire che l'Ospedale mi deve sacrosanto, come è vero che ho ricevuto il battesimo. Lei saprà benissimo la storia di quel capitaletto: c'è da farne una tragedia. Io sono salito sul fondo di Melegnano l'anno mille e ottocento cinquantasei, l'anno del colèra, ai tanti di novembre." "Senta ... ." "L'avvocato Ferriani, che non è un'oca, dice e sostiene che ho tutte le ragioni. Negli articoli del capitolato c'era una clausola che contemplava appunto la restituzione di quel precario, per cui io ho diritto a un risarcimento, sí o no? Si tratta di ottanta mila lire, non un quattrino, e in queste c'è la dote di mia figlia, che vuol dire il pane de' suoi figli, sangue del mio sangue. Pazienza ancora se i denari andassero a sollievo dei poveri; ma lei sa meglio di me che in queste pie amministrazioni è un rubamento e un mangiamento generale. Mangia l'ingegnere, mangia il ragioniere, mangia l'economo, mangia l'avvocato che fa le cause, mangia il giudice che fa le sentenze, mangia la Corte d'Appello che le rivede e su su, ladro via ladro fa ladro, è tutta una consorteria birbona." "Scusi ... ." "E io, bestia, mi son sempre fidato. Ma dice bene quel nanis quanis del mio avvocato: la pazienza dei popoli è la mangiatoia dei tiranni, e sento anch'io che un po' di catastrofe universale di tanto in tanto ci vuole ... ." "Ma senta ... ." Il vecchio infervorato non lasciava il tempo di aprire la bocca. "Se io esagero," continuò, inarcando le sopracciglia e movendo quei due grandi specchi ustori che aveva sugli occhi, "se io esagero, mi possa cadere un fulmine sul collo, e restar qui, in nomine patris , filii et spiritus . È tutta una lega di moderati birboni ... ." Proprio in questo momento entrò il cavalier Balzalotti, che si fermò un istante a dare un'occhiata al predicatore. "Tutta gente che vende la pancia al Governo. Rubano i ministri, rubano i segretari generali, rubano i capi divisione, e giú giú fino all'ultimo guattero del regno d'Italia, con Depretis alla testa, è una ladreria di mutuo soccorso ... ." A queste parole pronunciate in presenza di un superiore, Demetrio scattò come un razzo e alzando la voce anche lui con una furia caina (perché ogni pazienza ha il suo limite) dimostrò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano che non è alle persone di buon senso che si fanno certi discorsi, e che un pubblico ufficio non è un'osteria. Il suo tempo era prezioso, e se non aveva nulla di piú bello di queste fanfaluche, andasse a contarle al suo avvocato. — Nell'eccitazione dell'ira il volto di Demetrio si fece rosso come la cresta del gallo, e i duri muscoli guizzarono sotto la pelle infiammata come un gruppo di biscie. Il cavalier Balzalotti, che finiva di dare l'ultima occhiata alla Perseveranza , gli fe' segno d'aver pazienza e di lasciarlo dire. "Lei" soggiunse il Chiesa col suo bel risolino sardonico "lei parla cosí, perché anche lei mangia alla greppia. Ma lasciamola lí. Non sono venuto per cercare la carità a nessuno, ma soltanto per far valere dei diritti." "Che diritti?" "Suo fratello prima di morire mi aveva promesso settecento lire per vedere di finire questa causa." "E cosí?" "Ci ho qui ancora la lettera, nella quale Cesarino mi diceva di andare avanti, di fare i primi passi coll'avvocato, di battere il ferro mentr'era caldo; che in quanto ai denari li avrebbe trovati lui, anzi mandò lui stesso un acconto di duecento lire all'avvocato Ferriani. Io sono andato avanti, ho battuto il ferro, e per Dio, non si lascia neanche un malfattore impiccato a mezzo sulla forca. L'avvocato ha sulla garanzia di Cesarino e nell'interesse dei minorenni smosso della polvere, versato dell'inchiostro, ha unto le mani a qualche cancelliere per far correre la cosa, ha fatto spese in scritturazioni e carta bollata; ma se non ha le settecento lire promesse, è come aver messo le pezze e l'unguento su una gamba di legno." "E viene a contarle a me queste cose?" gridò Demetrio in preda a una convulsione nervosa, che non seppe piú dominare alla presenza del suo capo ufficio. "Non è lei il fratello di suo fratello?" "Io non ho promesso niente a nessuno." "Lei è il tutore dei minorenni." "Io sono il tutore di nessuno ... ." "C'è un'obbligazione, corpo del diavolo! e a un Chiesa di Melegnano non si dànno ad intendere delle ciarle." Il vecchio strillava come un'oca: e a lui di ripicco l'altro: "A un Chiesa di Melegnano io dico che non lo conosco." "Dunque il signor Demetrio non crede alle mie parole ... " strillò di nuovo il vecchio, alzandosi e picchiando in terra il suo bastone bistorto. "Io credo che lei è un gran buon uomo." Queste parole furono come un secchio d'acqua sopra un gran fuoco che divampa; che non lo smorza, ma lo umilia per un momento, facendolo stridere quasi irritato in mezzo a un nugolone di cenere. Cambiando il tono chiassoso in un tono sibilante e canzonatorio, il Chiesa cominciò a dire con un sorrisetto di acerba ironia: "Ah! io sono un gran buon uomo?!" "Vada da mio fratello a farsele dare le sett ... tecento lire. Io non vivo di grassazione per sua regola!" gridava l'uno: e l'altro sempre sorridente: "Ah! io sono un gran buon uomo" e appoggiato al bastone diritto come le sue idee, cominciò a dondolare il capo a destra e a sinistra. "Ah! io sono ... ." "E se l'avvocato ha speso duecento lire in bolli, si faccia bollare anche lui per quattrocento ... e vada fuori dei piedi che ho già la testa come un cavagno." Lo zoppo, quasi sospinto dalle mani lunghe e ossute di quello che dicevano il Demetrio, stordito forse di quella accoglienza, cominciò a ritirarsi a poco a poco verso l'uscio, girando sopra sé stesso come una vite di torchio che infili il pavimento, mandando terribili lampi e fosforescenze dalle due grandi invetriate. "Ah! io sono ... ." Giunto sulla soglia si drizzò tutto, brandí il pomo del bastone colle due mani e picchiando forte in terra gridò compiendo la frase con un gesto di sfida: "Ci rivedremo, Filippo!"

"E poi siamo rimasti intesi che prima dell'agosto il matrimonio non si abbia a fare anche per rispetto ai morti e per riguardo alla gente. Paolino ... ." "È stato a Milano anche lui?" "Sí, ieri ... ." "O bello ... bello ... " esclamò Demetrio, con uno scoppio nervoso d'ilarità. "Perché ridete?" "Cosí, per nulla ... So che egli è tanto innamorato ... ." "È buono ... Mi ha fatto già un mucchio di regali." "Sí, sí ... non guarda a spendere ... " soggiunse Demetrio ridendo sempre e asciugando col lenzuolo l'umore che l'immensa soddisfazione gli spremeva dagli occhi. "E che cosa ha detto Paolino?" "Ha detto che il matrimonio si può fare in campagna, e preferisco anch'io cosí. Ma per questo bisogna che la sposa scelga il suo domicilio legale in campagna, tre mesi prima del matrimonio, nel Comune dove vuol maritarsi. Paolino mi ha detto di chiedere a voi che passi si possono fare." "Io non saprei che passi ... " fece Demetrio con un sorriso morto e penoso. "Nel qual caso si sceglierebbe il Comune di Chiaravalle, che è a quattro passi dalle Cascine." "Benissimo." "Cosí si possono fare le cose quiete." "Giusto." "Paolino ha detto anche che vi scriverà e verrà egli stesso a trovarvi." "Mi farà piacere." "Dovrò poi ringraziarvi anche voi." "Di che cosa?" "Di aver pensato al mio bene e a quello de’ miei figliuoli." Demetrio questa volta non aprí bocca, ma sollevò uno sguardo umile e quasi pauroso. "E ora pensate a guarire" soggiunse Beatrice, alzandosi. La sua persona pareva quasi ingrandita nell'angustia della stanza. Raccolse i lembi del velo, se lo aggiustò un poco nei capelli, alzando le braccia, e fece qualche passo per uscire. Ma si ricordò di essere venuta anche per un altro motivo importante. "A Paolino, naturalmente, non ho detto nulla di quell'altra storia." "Quale?" "Quella del braccialetto e del cavaliere. È una storia noiosa e stupida che è meglio lasciar cadere, anche per voi, non vi pare? Solamente fatemi il piacere, con vostro comodo, quando sarete guarito, di consegnare al portinaio di quel signore il suo regalo, che io non voglio assolutamente tenere (Beatrice levò da una tasca del vestito l'involtino e lo collocò sul tavolino) e se non vi disturba, di unire anche le cento lire. Queste ve le restituirò alla prima occasione, risparmiando qualche spesa inutile: ma a Paolino non dite nulla, come se non fosse capitato nulla; e nemmeno a quel signore non dite nulla: capirà da sé." "Va bene ... " disse Demetrio con voce fredda e asciutta. "Ve lo lascio qui il prezioso regalo?" "Sí, lasciatelo lí ... ." "E che ne dite voi?" "Di che cosa?" "Di questo matrimonio." "Bene, benissimo, tutto bene ... ." Beatrice si fermò ancora un poco a parlare di Arabella, dei Grissini e di cose indifferenti: diede ancora un'occhiata alla bella vista: passò anche sulla ringhiera, lasciando l'ammalato solo nel suo letto di spine: rientrò, gli raccomandò di nuovo di guarir presto, e se ne andò via quasi di furia, chiamata dall'improvviso pensiero dei figliuoli, ch'erano rimasti in casa soli e l'aspettavano per la colazione. E cosí la bella storia finiva, come doveva finire. Chi aveva detto a lui d'innamorarsi? che colpa aveva quella povera donna s'egli era pazzo? di tutti i suoi tormenti e di quel gran male, che gli faceva il cuore gonfio, Beatrice non s'era manco accorta. Quel po' di bene ch'egli aveva fatto a lei e a’ suoi figliuoli era stato saldato dai denari di Paolino. Ecco, signor Demetrio, come vanno le cose del mondo. Un'altra donna forse ... , ma che altra donna! è il mondo fatto cosí, è la sorte degli ingenui, era il suo destino, il suo pianeta ... Non valeva la pena di voler male per questo a una povera creatura, che pensava al bene de' suoi figliuoli, e nemmeno a un galantuomo che operava con sincerità e con bontà d'intenzioni. Fossero felici tutti quanti! A lui rimaneva il suo tormento, la sua brace nel cuore. La ruota della fortuna non gira senza schiacciare qualcuno. Egli ricuperava la sua vecchia libertà, rientrava nel suo guscio, tornava alle sue erbe — povere erbe tanto dimenticate, — a’ suoi canarini, a rattoppare le sue scarpe, a trascriver protocolli e rapporti, precisamente come prima, forse piú sicuro di prima, come un uomo che si desta da un sogno di tre mesi, durante i quali abbia vissuto una vita diversa e stravagante. Provava il senso di chi torna al suo paese dopo un lunghissimo giro per il mondo, colle scarpe rotte, bisognoso di riposare, di chiudere l'uscio di strada, di rivedere i vecchi mobili ricoperti di polvere, in attesa che le mani e la testa rientrino nelle vecchie abitudini, dalle quali forse sarebbe stato meglio non uscire. Ecco i pensieri che lasciò dietro di sé, nell'uscire, quella donna, e che vennero a sedersi sul letto del malato. Ma al disotto di questa stanca rassegnazione, Demetrio sentiva un gran vuoto, come se nell'uscire quella donna avesse portato con sé qualche cosa di cui un uomo non può far senza per vivere. Non era il cuore, no: il cuore, a furia di colpi, si indurisce e impara a resistere. Ciò che lo pungeva era un pensiero che non avrebbe saputo mettere in carta, ma che egli riassumeva all'ingrosso in una parola: la fede ... Sí, egli aveva creduto per un momento di esser buono a qualche cosa in questo mondo. Colla sua fede aveva abbracciato i dolori di una povera famiglia, sollevata un'anima dal purgatorio, salvato dal disonore il nome di una famiglia, creato il sentimento di quella donna ... Oh sí, quella donna l'aveva in certa qual guisa creata lui. La gente non aveva che scherno e disprezzo per la povera bambola; ed egli s'era illuso per un momento che la bambola avesse sangue e lagrime e sentimento ... e che gli volesse infine un poco di bene. E invece nulla, nulla, nemmeno una parola di carità. Essa era venuta piú per sbrigarsi di una convenienza e di un braccialetto che per chiedergli un consiglio, piú per pregarlo a fare dei passi per lei, che non per consolare un povero malato. Si vedeva che la felicità era seduta come in un trono nel suo cuore: le gote, gli occhi, la voce, i movimenti mandavano fuori la contentezza da tutte le parti. Essa stendeva avidamente le mani all'occasione per paura che il momento la portasse via. Aveva ragione, ciò forse era giusto e naturale in quella donna ... ma una parola di carità costa cosí poco! E invece niente, niente per lui. Demetrio si sollevò e si pose quasi a sedere sul letto: sentendo mancare il respiro, chiuse strettamente gli occhi, abbandonando la testa senza forza sul cuscino, e lasciò che queste idee monche e cozzanti tra loro finissero d'agitarsi. Beatrice era morta per lui, era morta e sepolta nel cuore che l'aveva creata. Tranne la sua mamma, nessuno gli aveva voluto bene a questo mondo. Eppure egli non aveva mai fatto male a nessuno, anzi ogni occasione era stata buona per lui per lavorare, per struggersi, per far mortificazioni e sacrifici. Povero illuso, povero scemo! Il mondo ama piú le apparenze che la sostanza, e non c'è nulla che piú offenda la gente incapace di bene quanto la vista del bene che fanno gli altri. Non potendo difendersi dal bene che ricevono, gli uomini cercano di non accorgersene e di dimenticarsene presto, fin che giunge opportuno il momento di vendicarsi con un piccolo trionfo d'ingratitudine. Oh, la sua povera fede! sí, era questa che moriva in quel profondo abbattimento di tutte le forze, in quella crisi nervosa di malinconia. Ora che l'idillio della sua vita era finito e che il lume dell'ultima illusione erasi spento come un razzo nelle tenebre, non gli rimaneva che di morire. Morire! — questa brutta parola risonò come un fischio nelle sue orecchie attutite dal male. — Gesú di misericordia! che idea gli passava ora per il capo? anche a lui, anche a lui lo spettro della morte doveva presentarsi come una liberazione? che avesse perduta veramente ogni fede nelle cose di questo e dell'altro mondo? che Dio e la sua mamma lo avessero proprio abbandonato del tutto? Ah Cesarino! Spalancò gli occhi per bere la luce del giorno e per liberarsi da quel tremendo incubo che lo trascinava a rivedere suo fratello disteso sotto una stuoia fra le ruote d'una carrozza: e gli occhi andarono a posarsi sopra la tazza di vetro, in cui Arabella aveva collocate le belle rose di maggio. Fisso in quei fiori lasciò che le lagrime colassero un gran pezzo in silenzio, come se dentro di lui si sciogliesse veramente qualche cosa di duro e di irrigidito.

Metta che abbia voluto confessarle un peccato, ecco. Andiamo, asciughi questi occhioni, mi dia la manina e mi assolva. Che cosa c'è da piangere? lei è in casa di un gentiluomo e conosco troppo bene gli obblighi di ospitalità per ... Che diavolo! Là, via, non mi dia questo rimorso d'averla fatta piangere cosí. E che lagrimoni! Discorriamo dei nostri affari. Che cosa si diceva? ah, della causa e dell'avvocato. L'ho visto e mi ha detto che oramai non c'è piú nulla a sperare. È una barca scassinata che fa acqua da tutte le parti ... ." Per spiegare come un uomo avveduto cadesse cosí subito in contraddizione con ciò che aveva detto cinque minuti prima, bisognava immaginare che il cavaliere parlava, sí, colla bocca, ma il pensiero correva dietro a un altro ordine di idee, di meraviglia in meraviglia. Quel piangere sfrenato, quell'atto di ribellione quasi matronale in una donna abbastanza sciocchina, nota lippis et tonsoribus (anche la frase latina veniva a cacciarsi in mezzo), in una donna che nella bella Pardina — una vespa, in lega col diavolo — aveva una cosí grande confidenza: che accettava con tanta semplicità delle elemosine e veniva in persona a pagare i debiti della sua gratitudine, tutto ciò era un fatto cosí strano e inesplicabile anche per una testa lucida e pratica, che il povero signore cadde di confusione in confusione. Non restava che di toccare un altro tasto, quello della prosa, e non perdette tempo. Lí accanto c'era uno stipetto con qualche inezia elegante, e vi mise subito la mano. Beatrice, passato il primo impeto, capí di essere caduta in un tranello, e credette di vedere in questo gioco la mano di Palmira. Le parole del cavaliere, togliendole l'ultima illusione, l'irritarono e le diedero la forza di reagire. Ma nell'alzarsi, nel ritrarre il braccio a sé vide risplendere un non so che, un oggetto d'oro, un braccialetto ... Un gran buio invase gli occhi suoi, un gran tremito in tutto il corpo le fece temere di venir meno, di stramazzare in terra. Si appoggiò colla mano alla sponda di una poltrona, abbassò il capo avvilita, incapace fin di piangere, fin di muovere le labbra a un suono di protesta. Una volta fece il tentativo di togliersi dal polso quel segno, quell'anello massiccio; non poté. Non ci vide abbastanza, non ebbe la forza di far scattare la molla. Il suo protettore pregò, supplicò, perché non gli facesse il torto di rifiutare un segno innocente della sua amicizia. Non si sarebbe parlato piú di queste cose. Non gli rifiutasse questa consolazione: non gli volesse male: gli concedesse il piacere di esserle utile. Per lui era un bisogno del cuore. Nominò ancora l'avvocato, il deputato, il suo buon amico di Novara, mentre l'accompagnava docilmente verso l'uscio: cercò di ridere e di farla ridere ... Beatrice disse una volta di sí, senza capir bene a che cosa diceva di sí. Di tutte le belle parole del suo benefattore non afferrò che un rumore sordo, e non vedeva l'ora che l'uscio si aprisse. Aveva bisogno d'aria, si sentiva soffocare… Il cavaliere la tenne ancora un momentino prigioniera sulla scala, picchiò ancora una volta sulla bella manina ... Finalmente la povera donna si trovò in istrada nella piena luce del sole, come se fosse volata dalle scale. L'istinto piú che la volontà la condusse sulla via di casa sua; ma fece forse cento passi senza vedere innanzi a sé che un bagliore, senza sentire che un gran frastuono di un grosso fiume che passa. Era possibile? e il suo povero Cesarino non veniva a difenderla? Che tradimento, che bassa insidia, che vergogna!.. Come tornare davanti a’ suoi figliuoli, davanti alla sua Arabella? per chi l'avevano presa? che opinione aveva la gente di lei? quando aveva lei autorizzato la gente a giudicarla cosí? O era una vendetta, una stupida congiura di Palmira che voleva abbassarla al suo livello? E i denari presi per amor di suo padre come poteva ora restituirli? a chi ricorrere adesso? in chi fidarsi? Come raccontare queste cose a Demetrio? E, inseguita da questi fantasmi, andò di via in via senza veder nessuno, finché, sentendosi venir meno, si rifugiò nella chiesa di Sant'Alessandro, cercò un angolo oscuro presso una cappella, vi s'inginocchiò, quasi cadde sul marmo freddo dei gradini, e raggomitolandosi in sé stessa, nascose la sua vergogna e il suo cocente dolore.

Il Martini s'era fidato di lui, come un uomo si può fidare di un fratello, e per quanto l'occasione lo tentasse, per quanto la responsabilità ufficiale non fosse sua, per quanto un'irregolarità si potesse sempre giustificare colla scusa che non v'era stata regolare consegna, per quanto insomma un uomo che affoga non abbia rimorso di attaccarsi a un altro uomo, anche per affogare con lui, con tutto ciò egli sentiva troppo altamente di sé per scendere fino al punto di coprire un abuso con una malvagia azione. La sua idea non era di tradire un povero diavolo, né di toccare i conti di cassa: ma solamente di approfittare dell'assenza del Martini per provvedere provvisoriamente a una dura necessità. Con un migliaio di lire alla mano egli poteva far tacere sul momento i piú feroci creditori, smorzare i sospetti, rifare per un giorno il suo credito in faccia agli amici, dare degli acconti al Carini, al Cappelletti, alla Società del gas, sventare, scombuiare la trama invisibile di tanti invidiosi, che odiavano in lui l'uomo di spirito, l'uomo sarcastico, il talento superiore e perfino il marito d'una delle piú belle donne di Milano. Colla fantasia suscettibile degli orgogliosi egli credeva veramente a una segreta persecuzione di tutti quanti contro di lui, e poiché non c'era per il momento altro rimedio ... Appoggiò la fronte ardente alla parete d'una delle casse, e stette un momento a godere il senso di freschezza che usciva dal metallo e a respirare l'acre odore della vernice. Poi, come se due mani non sue operassero per lui, aprí uno sportello e riempí il vano colla persona. Allineate in doppia fila erano le ciotolette di ferro con dentro i biglietti di vario colore: alcune erano piene d'oro, altre piene d'argento. Qui lo assalí un forte sentimento d'onestà, e ricuperando la padronanza di sé, crollò il capo come se dicesse: "Che diavolo! Non sei qui per rubare." Prese il portafogli, levò un biglietto di visita, col suo nome stampato, vi scrisse colla matita: "Prelevate lire mille", mise il biglietto in una ciotola al posto di due altri biglietti di cinquecento, che collocò nel portafogli. Chiuse senza furia, colla regolare precisione delle altre volte, fece un'altra giravolta per la stanza, per sgranchire le gambe, e canterellando un'arietta, uscí dalla corsia, chiamando apposta: "Gerolamo ... " Il portiere si fece chiamare due volte, finalmente comparve dalla parte della scala con un inaffiatoio in mano. Pianelli si fermò a dargli qualche ordine, in tono alquanto ruvido: ma poi si rabboní d'un tratto e soggiunse: "Non devo pagarti dei sigari?" "Sí, i cinque virginia di stamattina." Il Pianelli mise una lira nella mano del portiere e se ne andò senza aspettare il resto. Superbo sí, ma generoso! Uscí che già cominciava ad imbrunire. La giornata era tornata bigia e noiosa. Molta gente veniva dal centro con aria poco contenta, e qua e là luccicava qualche ombrello aperto sotto la luce che mandavano fuori le vetrine illuminate. Il signor Pianelli saltò in una vettura e in men di mezz'ora pagò il Carini, il Cappelletti, la Società del gas, mostrandosi né corrucciato, né allegro, ma colla naturalezza dell'uomo che sa fare una giusta economia del suo tempo. Gli avanzarono ancora trecento lire, colle quali avrebbe potuto offrire qualche altra soddisfazione agli increduli; ma pensò di farsi vedere anche al Circolo, dove gli operai finivano di dare l'ultima mano ai preparativi. Mentre Cesarino correva col cuore in bocca a questo modo per la città, sua moglie Beatrice, a casa, non finiva mai di specchiarsi nel suo bel vestito lucido di surah color perla e s'immerse tanto nei preparativi della sua toeletta che dimenticò il corso, le maschere, e perfino l'ora del pranzo. Madame Josephine aveva preparato questo gran vestito per una contessa Castiglioni: ma aveva dovuto ripigliarlo per un improvviso lutto di famiglia. Stava per mandarlo a Roma a un'attrice che doveva recitare al Valle nella stagione di quaresima, quando capitò a Beatrice di vederlo nelle mani dell'Elisa, la giovine maggiore della sarta, e se ne innamorò. Non era un capo alla portata della sua borsa, ma affascinata, commossa, ne parlò a Cesarino con tanta eloquenza che costui, con un pensiero dei suoi, meditò e combinò segretamente una bella improvvisata; cioè si fece cedere per le due sere del giovedí e del sabato grasso il vestito mediante un compenso serale e, senza dir nulla prima, lo fece trovare bell'e disteso sul letto di sua moglie. Quando Beatrice si trovò davanti quello splendore, gettò un gran grido di gioia, buttò le braccia al collo del suo Cesarino, e fu a un pelo di perdere i sensi per la contentezza. Quasi piangeva anche lui, il grand'uomo, per la consolazione. La Elisa con quattro tagli adattò il giro della vita e orlò il corpo e la sottana d'un pizzo doré, d'un bellissimo effetto provinciale, come allora usavano. Beatrice non avrebbe mai voluto uscire di camera per il piacere che provava nel mettersi e nel togliersi quel vestito. Per quanto fu lungo il giovedí in casa Pianelli si mangiò poco e con disordine. Per levarseli dai piedi, i ragazzi furono mandati dai signori Grissini, i vicini di casa. Tutto il dí fu un andare e venire di gente e di roba. In cucina non si accese il fuoco; Beatrice si contentò d'inghiottire in fretta qualche uovo sbattuto nel vino con qualche biscotto bagnato dentro, e di rosicchiare in piedi dei pezzi di cioccolata col pane. Cesarino, tutto occupato nei preparativi della festa nelle sale del Circolo pranzò al caffè. Tornò verso le nove di sera per vestirsi. Non trovando piú posto nella stanza da letto, tutta seminata e ingombra di pizzi, di fiori, di blonde, di guanti, di stivaletti e di scatole aperte sul letto, sulle sedie, sul pavimento, il signor Pianelli dovette prendere le sue robe e far toeletta in uno stanzino a cui dava il nome di studio. Intanto cercava di calmare i nervi scossi dalle emozioni della giornata e di farsi una persuasione ch'egli né aveva rubato, né era sua intenzione di rubare. Scongiurata una brutta tempesta, egli avrebbe domani o dopo riparato al disordine e stoppata la bocca a tutti i malevoli che avevano creduto di rovinarlo. Il suo caro suocero di Melegnano lo avrebbe aiutato in quest'opera di riparazione, o egli l'avrebbe fatto saltare, come si dice, finché non avesse pagato il resto della dote di Beatrice. Cesarino stava accarezzando un magnifico nodo di cravatta, che gli era uscito fresco dalle mani come se fosse modellato dalle mani di un artista, quando Beatrice, preceduta dal fruscío strisciante dello strascico, accompagnata dall'Elisa, entrò, splendida come una principessa, nel bellissimo vestito nuovo, che le fasciava la vita, la radice delle braccia solide e il petto ampio colla morbida e tesa precisione di un guanto. Le spalle nude d'un candore molle di latte spiccavano sulla lasagnetta di pizzo doré che orlava le sinuosità e le ondulazioni profonde del suo busto di surah, aperto fin dove la decenza si accorda colla bellezza (un punto metafisico in cui le donne non sono tutte d'accordo). Al collo non aveva che un semplice vezzo di perle, vecchio tesoro di casa, che morivano nel loro pallore nella candida morbidezza della carne; le braccia erano nude dalle spalle al gomito, dove arrivavano gli altissimi guanti di Svezia su cui brillavano i braccialetti ... Ma la gran bellezza della donna erano i capelli, quei molti capelli folti, d'un biondo carico, che s'intrecciavano in nodi contorti a guisa d'un turbante sul candore di porcellana della carnagione, per cui Beatrice Pianelli aveva veramente una grande rassomiglianza colle belle bambole grandi che vengono dalla Germania, come se ne vedono nelle vetrine del Pino e del Caprotti, belle e lucide di fuori, vuote o piene di stoppa di dentro. Questa somiglianza aveva fatto trovare per lei il soprannome di bella pigotta con cui solevano, colla chiara ed espressiva concisione morale del dialetto lombardo, indicarla i buoni amici e le meno buone amiche di lord Cosmetico. Cesarino, che in materia di buon gusto era un giudice incontentabile, fece girare due volte Beatrice sopra sé stessa, aggiustò qua, accarezzò là, mosse una treccia nei capelli, stese le mani alla vita che non gli pareva ancora troppo bene attillata. "Caro te, stento quasi a respirare" disse Beatrice tirando un gran fiato. Arabella, la figliuoletta di quella gente felice, girando col lume in mano si specchiava nella sua bella mamma. Da bambina giudiziosa promise di stare in casa colla Cherubina a curare i suoi fratellini e per contentarli avrebbe fatto il zabaglione. Naldo, un marmottino di quattro anni, era già tutto felice nella speranza di poter leccare il frullo. Bellissima riuscí la festa del giovedí grasso al Circolo Monsù Travet per concorso, per calore e per allegria. Beatrice Pianelli, che l' Argo della Ragione paragonò a una Giunone di diciott'anni uscente da una nuvola, gustò il suo quarto d'ora di gloria. Le signore, la Pardi per la prima, riconobbero nel taglio e nella guarnizione del vestito una mano straordinaria, si guardarono negli occhi con quella fredda meraviglia che è piú vicina alla compassione che all'invidia. Ciò non impedí che si facessero passare di mano in mano la bella pigotta colle piú tenere esclamazioni di ammirazione e di benevolenza. Cesarino si dimenticava mentre seguiva cogli occhi estasiati il trionfo di Beatrice: e volendo sputar miele per il fiele che aveva inghiottito, cercò di mostrarsi affabile, gentile, arrendevole con tutti, specialmente con coloro dell'amicizia dei quali egli dubitava di piú. Pardone non si lasciò vedere. O s'era già seccato abbastanza di quel Circolo o non voleva incontrarsi con Cesarino Pianelli. Ma anche senza di lui la festa non fu meno chiassosa e brillante. Il vino di Barolo e qualche bottiglia di Sciampagna aiutarono a far dimenticare i pensieri cattivi che ciascuno non aveva potuto lasciar fuori dell'uscio: ma Cesarino se li trovò sul cuscino del letto al suo primo svegliarsi il giorno dopo. Si ricordò del Martini, del suocero, dei denari che non aveva piú e saltò dal letto coll'intenzione di correre subito a Melegnano: ma rifletté che per l'assenza del cassiere egli non avrebbe potuto per quel giorno allontanarsi dall'ufficio. Non volendo perdere un tempo che andava facendosi sempre piú prezioso, col capo ancor pieno di sonno, uscí di casa e mandò al signor Isidoro Chiesa di Melegnano questo telegramma: "Mi occorrono subito mille lire. Portale tu. Grave disgrazia. BEATRICE." Poi si recò all'ufficio e vi stette fin verso le dieci. Ma parendogli d'essere sulle spine, pregò il Miglioretti di prendere un momento il suo posto, corse a casa a vedere se il suocero era arrivato o se aveva mandato un telegramma. Non trovò nulla. Restò a casa a mangiare un boccone, mentre Beatrice cominciava a sciogliersi dal suo sonno profondo di donna stanca. Poi tornò di nuovo alla Posta verso mezzodí. Non era ancora in fondo della via del Pesce, quando vide sul portone della Posta il Martini. Vederlo e trasalire fu una cosa sola. I polsi del capo picchiarono cosí forte, che vollero rompere il cranio. Ebbe appena il tempo di ricomporsi, e di prendere un'aria di premurosa compassione. "Come mai? Non è partito?" mormorò. Il Martini stese la mano all'amico, diede una languida stretta, voltò via la faccia e si portò due volte il fazzoletto agli occhi, mormorando, o, per dir giusto, movendo le labbra a una parola senza suono che voleva dire: È morta! "È morta?" domandò con vivo rincrescimento il Pianelli, abbassando la testa. "Stamattina alle quattro ... " balbettò colle labbra tremanti il Martini. "Son tornato per chiedere al commendatore tre giorni di licenza e aspettavo anche lei per regolare la consegna. Voglio portarla a Milano ... ." L'emozione soffocò le parole in gola al pover'uomo, che faceva di tutto per non farsi vedere a piangere dalla gente. Il Pianelli sentí alla sua volta farsi il cuore piccino. In quel momento avrebbe dato mezzo del suo sangue per evitare una consegna, da cui doveva risultare un ammanco di mille lire. Gli faceva orrore non meno il suo pericolo che l'idea di dare a un povero diavolo già cosí tribolato un colpo di quella sorte. "La trovo in ufficio verso le tre?" "Sí, ci sono ... " rispose il Pianelli. "Ecco il commendatore." Vedendo venire il direttore, il Martini gli andò incontro, mentre il Pianelli, correndo via, cercò di sfuggire a quel penoso dialogo. Entrò in ufficio con passo confuso e legato. Gettò il cappello su una sedia, il bastone sul tavolo, e si fregò la fronte colle mani, tre o quattro volte, come se togliesse delle ragnatele dagli occhi. Era mezzodí. Il Martini sarebbe venuto alle tre. In tre ore egli non poteva inventarle le mille lire, a meno di credere che il suocero si lasciasse commuovere all'ultimo momento: a meno di credere che Gesú gliele mandasse per compassione de' suoi figli. Per Dio! (queste imprecazioni scattavano come tante scintille dall'anima sua spaventata). Per Dio! se gli avessero lasciato ventiquattro ore di tempo! Pensò di tornare ancora in cerca del Pardi; ma dove trovarlo? e poi, no, da quell'asino che si lasciava guidare dalla moglie ... Degli altri suoi amici o non si fidava, o non voleva inchinarsi a nessuno, o erano povera gente, che stentavano a sbarcare essi stessi il lunario col misero stipendio. Nella cassa in cui egli cominciò a rovistare, c'erano molti conti correnti e molti mandati di pagamento già firmati dal Martini col visto del commendatore, tra i quali uno a favore del capomastro Inganni, in conto di alcune riparazioni per ingrandimento e adattamento dei locali d'ufficio, per la somma complessiva di duemila lire precisa. La formola del mandato era stata scritta dal Pianelli alcuni giorni prima colla cifra in tutte lettere "due mila" e nel margine i quattro numeri "2000" d'una linea magra e lunga com'era la scritturina nervosa del cassiere aggiunto. Non si trattava di voler falsificare un documento, né di rubare un quattrino a nessuno; ma solamente di evitare a sé una miserabile figura, e al Martini un colpo mortale, di guadagnare tempo, di non precipitare in due in un abisso senza luce e senza fondo. Eravamo al quindici del mese. Prima della fine non si sarebbe fatta la verifica dei mandati e lo scandaglio di cassa. Bastava per il momento che il Martini credesse in buona fede a un mandato di lire tremila già pagato al capomastro Inganni e partisse coll'animo quieto, lasciando a lui Pianelli il tempo necessario per rimettere il denaro e per rifare il mandato ... Con una goccia di acqua clorata sulla punta d'una penna nuova si potevano sostituire facilmente due piccolissimi tratti e cambiare colla stessa mano il due in tre, il 2 in 3 ... Non l'avrebbe mai fatto, nemmeno per salvare la vita dei suoi figliuoli, se si fosse trattato di mettersi del denaro non suo in tasca: non voleva che guadagnare ventiquattro ore di tempo, e salvare con un ripiego momentaneo la vita e l'onore di due famiglie. Il mandato era lí, che gli occhi lo divoravano. La penna vi passò sopra asciutta una volta, due volte, quasi per provare. Due zampe di mosca potevano evitare un terribile scandalo, forse risparmiare un delitto. Il non farlo era quasi una crudeltà verso quei poveri innocenti. Il mandato Inganni l'aveva pagato lui, e il Martini certo non aveva né tempo, né voglia di stare a riscontrare ad una ad una tutte le parcelle parziali e di verificare la somma. Egli non voleva fare per ora che uno stato di cassa per poter ripartire e star via tre o quattro giorni coll'animo piú sollevato. Quando avesse ritrovato e rimesso il denaro in cassa, il Pianelli era uomo capace di confessare tutto all'amico e d'implorarne il perdono. Ogni piú onesto uomo può trovarsi per dodici ore in una suprema necessità, e l'onestà di quarant'anni di vita non la si distrugge mica in ventiquattro ore, con due sgorbietti di penna. Ciò che salva l'uomo è l'intenzione. Uno ha il senso dell'onestà, un altro non l'ha. Il primo verrà sempre a galla per quanti sforzi tu faccia per affondarlo: il secondo precipiterà sempre come un sasso nell'acqua. Cesarino si sentiva uomo integro nella sua coscienza, e, se un caso maledetto l'aveva tratto a sporcarsi le mani di fango, bisognava dargli il tempo di lavarsele. Quel fango ripugnava anche a lui, in nome di Dio santo!.. Non c'è nessun gusto a fare il ladro. Queste considerazioni andavano assediandolo, stringendolo in mezzo, pungendolo con mille punte, alle quali sentiva di non saper piú resistere. Si asciugò ancora una volta la testa bagnata di un sudore freddo. Poi, intinta la penna nella boccetta del cloro, passò leggermente colla punta di metallo sulla coda del numero fatale, aggiustò coll'inchiostro il numero e la lettera ... e vi gettò subito molta sabbia sopra, colla furia spaventata dell'omicida, che cerca di nascondere le tracce del sangue… "Dio, Dio ... " balbettò, alzandosi, colle membra rotte e indolenzite, come se avesse voltata la grossa pietra di un sepolcro. Anche il far male è una grossa fatica per chi non c'è avvezzo. Tornò presso la cassa, rimise tutti i mandati a posto, stracciò il suo biglietto di visita in cento pezzetti, che buttò nel cestino, ma poi si abbassò a raccoglierli tutti, se li cacciò in tasca, chiuse bene ... e uscí sulla ringhiera a respirare dell'aria. Il Martini aveva detto alle tre, ma entrò in ufficio alle due, con passo rotto e frettoloso. Il Pianelli, che aveva già preparato un prospetto di cassa, gli andò incontro di nuovo con aria di compassione dicendo: "O bravo ... ." L'amico, pallido come un morto, non seppe nascondere una forte agitazione che imbarazzava il suo contegno e i suoi movimenti. Aveva lasciato all'alba il letto della sua povera morta, dopo una notte passata in ginocchio ad assistere agli strazi di una lunga e dolorosa agonia. La sua povera Emilia non voleva morire a venticinque anni! Si era attaccata colle braccia lunghe e stecchite al collo del suo Arturo e non finiva mai di chiamare fra i singhiozzi della morte la sua piccola Teresa. Sono notti spaventose che ti portano via la vita: un pezzo di noi se ne va con chi muore. Era partito subito la mattina, lasciando la sua morta in mano ad alcuni parenti e si preparava ora a tornare per riportarne a Milano il corpo. Il commendatore, uomo di cuore e discreto, non fece difficoltà, anzi gli diede licenza per una settimana, ma, tiratolo un momento in disparte, gli disse sottovoce: "Però ha fatto regolare consegna al Pianelli?" "Ieri non ho avuto tempo. Son tornato anche per questo." "Male! Non vorrei che avesse dei dispiaceri. Ho sentito delle voci ... Basta, non perda tempo, e non si esponga a certi pericoli ... Se vuole che mandi il Miglioretti ... ." "Grazie, vedrò ... ." Il Martini uscí dall'ufficio del commendatore col cuore un po' inquieto. Carattere delicato e scrupoloso, quel semplice rimprovero gli bruciava sul cuore come un carbone acceso, e, se un gran dolore piú crudele non avesse occupata e riempita di sé tutta la sua esistenza, sarebbe bastato questo dubbio per amareggiargli la vita. Il Pianelli, fingendo che alcuno lo chiamasse allo sportello, andò a sedersi al suo posto, prese la penna e si pose a copiare una tabella. Copiò, copiò forse dieci minuti una lunga fila di numeri, materialmente, in forza di quell'abilità automatica che acquista la mano di chi scrive molto, che sa andare da sé e quasi ragionare da sé anche quando il cervello è assente. Il Martini aprí la cassa grande, di cui aveva lasciato la chiave, e chiuso in un freddo silenzio, che si poteva interpretare come lo stato d'animo d'un uomo che ha il cuore irrigidito, mosse e rimosse molte carte e molti valori. Poi passò alla cassa piccola, che aveva lasciato nelle mani dell'aggiunto. Il Pianelli si mosse, quasi per uno scatto interno, e disse: "Veda se tutto è in ordine." "Non c'è dubbio ... " balbettò freddamente il Martini. Il Pianelli tornò al suo posto e riprese a scrivere, a scrivere. Ma gli occhi vedevano rosso. Il Martini seguitava a rovistare, a muovere carte, a riscontrare, sempre chiuso nel suo cupo, insopportabile silenzio. Pareva un uomo incontentabile, o non mai abbastanza soddisfatto. L'altro scriveva sempre i suoi numeri infiniti color sangue, col cuore duro come un sassolino, sempre in attesa d'un giro di chiave che chiudesse per sempre al buio il documento della sua miseria. Quell'insistenza eccezionale, in un uomo che aveva mostrato il giorno prima di fidarsi cosí pienamente di un amico, gli diceva già che anche la buona fede del compagno era stata preventivamente scossa da una voce misteriosa, insidiosa, da quella stessa voce, che da due giorni andava seminando il discredito e la diffidenza. Passò ancora un quarto d'ora, che al Pianelli parve un secolo. Finalmente il Martini, con una voce velata che si sentiva preparata con suprema fatica, domandò: "Si ricorda, Pianelli, quanto abbiamo pagato al capomastro Inganni?" "Io credo tremila ... " esclamò il Pianelli, saltando in piedi e correndo con una premurosa sollecitudine verso il compagno. "Mi risulterebbero meno ... ." "C'è il mandato, veda ... ." "Lo vedo ... " disse il Martini con un filo di voce, abbassando gli occhi e cercando di frenare il tremito da cui furono prese le sue mani. "Perché?" chiese il Pianelli con voce stridula, quasi di sfida. "Nulla, scusi ... , avrò sbagliato io." Il Pianelli voltò dall'altra parte la faccia. Poi disse: "Vedremo alla fine del mese ... ." "Scusi ... " tornò a dire il Martini, mentre andava facendo dei piccoli conti sull'angolo di un cartone disteso sul banco. "Non le pare?" tornò a chiedere il Pianelli, nascondendo in parte la faccia colle mani nell'atto che egli fece per accendere un sigaro. Il Martini gettò la penna con un movimento disperato. Riprese il mandato, lo agitò tra le dita, e fatta una mezza girata per la stanza, curvo nelle spalle sotto il peso della disgrazia e del tradimento, si fermò al tavolo del Pianelli, lasciò cadere il mandato, vi pose un dito, vi picchiò sopra tre volte coll'unghia, senza poter parlare, collo spavento dipinto nel suo viso d'uomo morente. Cesarino finse di non capire. Voltò e scosse due volte il capo, coll'aria di chi domanda una spiegazione, ma le orecchie parevano due pezze rosse e la pelle fina e lucida del viso si stirò sugli zigomi irritati. La bocca gli si riempí di saliva amara. Il Martini, con uno sforzo estremo, appoggiandosi colla mano a una sedia, poté soltanto soggiungere: "Pianelli, per carità, anche lei è padre di famiglia ... ." "Che cosa?" osò ancora una volta chiedere col suo cipiglio di ragazzetto insolente lord Cosmetico. "Abbia pietà, Pianelli. Sono un povero uomo anch'io ... ." "Che cosa?" "Perdoni ... " balbettò ancora una volta il Martini. "So bene che io sono il solo mallevadore della cassa: ma speravo di avere in lei un amico ... ." "Martini, per carità ... " scoppiò tutto a un tratto a dire Cesarino, che non poté piú resistere al doloroso invito dell'amicizia. "Per carità ... , per i miei figliuoli ... , per la sua bambina ... , per la sua povera Emilia, non mi tradisca. È vero, fu il bisogno, l'insidia de' miei nemici. Fra due ore avrà il denaro ... " "Aspetto fino a stasera. Il commendatore mi ha già rimproverato d'aver abbandonato la cassa senza una regolare consegna. Ho promesso per questa sera di rendergli i conti." "Fino a stasera almeno." "Se il commendatore non vorrà, non insisterò ... ." "Stasera prima delle otto ... " "A casa mia?" "Dove crede ... , vado subito a Melegnano in cerca di mio suocero. Non mi comprometta." "Non sono io che la comprometto, per amor di Dio ... ." "Ho dei nemici che mi vogliono male. Abbia pazienza ... , non mi faccia fare una cattiva figura." "Vede che io soffro non meno di lei. Vengo da un letto di morte e mi fa trovare un tradimento ... ." "Lei ha ragione; sono un miserabile ... Ma non mi tradisca. Se non trovo il denaro per questa sera, le rilascerò una dichiarazione ... e mi ammazzerò." "Cerchi di salvare il suo onore ... " disse ancora il Martini, mentre il Pianelli, preso in furia il soprabito e il cappello, usciva rapidamente dall'ufficio.

Credo che abbia la febbre. Ieri e ieri l'altro s'è tenuta in piedi, ma oggi l'ha presa un tal mal di capo, che non può quasi tener gli occhi aperti." "Oh diavolo!" Demetrio fece un mezzo giro per l'anticamera per lasciare il tempo all'idea di venire avanti e di stendersi. "È venuto il dottore?" "Non l'ha voluto." "Chi c'è di là?" "C’è la signora Grissini." L'uscio della stanza si aprí e venne fuori col suo passino senza rumore la buona signora, tutta grazia e tutta ossi, che, agitando i due bei trucioletti di capelli infilzati nella lattuga della cuffia, disse: "Sicuro, è malata: pare una piccola reumatichettina ... ." "Guarda!" esclamò Demetrio. "Ma non credo che sia cosa seria. Le ho fatto prendere un mezzo citratino ... Signore! io credo che la poveretta abbia bisogno di un vitto piú nutriente e specialmente di avere il cuore in pace. Ne ha patite tante quest'anno, caro Iddio!" "Se ... se potessi ... ." Demetrio stette un momento a riflettere che cosa doveva dire; ma che cosa poteva fare egli, perché Beatrice avesse un vitto piú sostanzioso e il cuore in pace? "In confidenza," soggiunse la signora Grissini, tirando Demetrio verso la finestra, "in questi giorni sono andata avanti io ... Spese ce ne furono, e quella poverina era senza denari. Non volle ad ogni costo che io mandassi a chiamar lei. Io lo faccio volentieri, ma devo naturalmente dir niente a mio marito, che dice sempre che non ragiono." Demetrio non fiatò. Trasse il portafogli, vi pescò dentro, e tirò fuori un biglietto di cinquanta lire che consegnò alla signora Grissini. Erano sempre i denari del buon cugino che facevano la spesa. "Le dica che stia di buon animo. Ero venuto per parlarle di un progetto che forse le farà piacere. Tornerò dimani." "Io credo che la poverina sia malata di patema d'animo." "Crede?" "Non fa che piangere ... ." "Lei intanto si paghi delle sue spese. Verrò dimani." "Oh giusto, non ho detto per questo." "No, no, che diamine! ho caro che sia curata da una brava persona. Se Naldo volesse venire con me, ho posto di metterlo a dormire." "È una buona idea, per alleggerire la barca." Demetrio rimase lí con un'orecchia tra le dita, sopra pensiero, mentre la signora Grissini entrava nella stanza della malata. Quando tornò le chiese: "Ebbene?" "Ha detto di condurre pure Naldo e di farsi vedere dimani." Naldo andò volentieri collo "zio Demetrio" che aveva tre gabbie di canarini, e senza essere invitato andò dietro volentieri anche Giovedí che si vedeva un po' troppo trascurato. "Anche questa va a capitare ... " andava ripetendo Demetrio, mentre il bambino seguitava a tempestarlo di dimande sulle cose che vedeva nelle botteghe e nella strada. Pensò di scrivere a Paolino che per il momento non era il caso di parlare a Beatrice del noto progetto per non agitarla troppo. Tornò a collocare la lettera del cugino sotto il calamaio e disse un altro "vedremo" meno aspro e meno pesante del primo. Quel dí pranzò in casa colla compagnia del nipotino e del cane, aiutandosi con qualche frusto di carne e con una fetta calda di polenta che mandò a prendere da Giovann dell'Orghen dal fruttaiuolo della piazza. Alle uova fritte pensò il cuoco di casa. Naldo sedé in capo alla tavola, tra lo zio e Giovedí. Demetrio tuffava la forchetta nel piatto e faceva un boccone per uno. Già cominciavano i lunghi tramonti di maggio. Il sole scendeva a poco a poco dietro la punta del campanile delle Ore, che col suo cono di rame faceva quasi da spegnitoio a un grosso fuoco rossiccio, che andava languendo a poco a poco nelle linee lunghe dei tetti. Incontro agli ultimi bagliori del crepuscolo uscivano, si disegnavano i corpi bruni dei fumaioli, delle torrette, dei terrazzi fioriti, da dove venivano voci chiare di donne e di ragazzi. Demetrio, toltosi sulle gambe il bambino, stette a contemplare un pezzo lo spegnersi dei vari colori, il fuggire della luce dai piú alti colmi, il vagare delle nuvole, lo spuntare delle prime stelle, rispondendo superficialmente alle cento dimande di Naldo, ma col pensiero lontano, lontano, piú lontano delle stelle. Pensava che tutto avrebbe potuto essere conchiuso e finito, e invece aveva ancora una notte da dormire sul suo dente guasto. Peccato! era una notte di inutile patimento. Perché, tanto fa essere sinceri con noi stessi, egli pativa troppo in quella sospensione d'animo, in quella lotta tra il dovere e ... che cosa? Aveva un nome questa nuova e stravagante malinconia, che gli era saltata addosso come una febbre, come la pellagra? Naldo, vedendo che lo zio Demetrio non rispondeva piú, si addormentò a poco a poco nelle sue braccia. Lo zio, muovendosi tutto d'un pezzo e camminando quasi seduto per non risvegliarlo, lo collocò adagino sul letto. Chiuse le finestre, accese una candela, e cominciò a preparare un lettuccio a’ piedi del suo, con due scranne accostate, un guanciale e una coperta ripiegata in due. Quando gli parve che la nanna ci fosse (e gli veniva quasi da ridere nel pensare in quel momento a sé), si preparò alla difficile e complicata impresa di svestire il bambino che pareva un sacco di stracci. Gli tolse le scarpe, le calzette, lo voltò, lo rivoltò sul letto, in cerca degli occhielli e dei bottoni, e, dopo molta pazienza, gli riuscí di pigliarlo sulle braccia non vestito che di una camiciuola, che non vestiva quasi niente. Quel fagottello pesante di carni tiepide e bianche in cui si sentiva correre il sangue: quel respiro dolce che usciva attraverso a un sonno di bronzo, che aveva la forza di tirar giú la testa del ragazzo, mettendo in luce la bella attaccatura del collo — la bellezza della mamma: — quei piccoli piedi rosei, lisci, senza una ruga, che visti contro la fiamma della candela parevano due garofani sfogliati: quelle molli infossature nel bianco delle carni in cui pareva di scorgere l'impronta delle dita del Creatore: quel profumo di bontà che hanno i bimbi, tutto suscitò nel sasso sterile dell'uomo selvatico un sussulto di tenerezza. "Vuoi bene alla mamma?" sussurrò all'orecchio del bimbo addormentato. "Naldo, vuoi bene alla mamma?" Naldo rispose con una leggera increspatura delle labbra, con un sorriso che stentava a sprigionarsi dal sonno: "Ci." "Anch'io!" pronunciò una voce forte di uomo che soffre. Che gioia s'egli fosse stato il padre di quel bambino! Oggi capiva ancor meno come il povero Cesarino avesse potuto desiderare le fatue vanità della vita, quando il Creatore l'aveva fatto padrone di queste preziose realtà. "Quale ricchezza, quale gioia, quale gloria piú superba per un uomo che il sentire la sua stessa vita palpitare al di fuori di sé in un altro essere uscito da sé, che non morirà in noi, ma consegnerà ad altri esseri che verranno la parte nostra immortale, in una catena che forse va a finire nelle mani di Dio? "Piú avrai mortificato in te le forze generose e feconde della vita, piú avrai vissuto di te e piú sentirai al volgere dell'età la ribellione di tutti i sensi a questa cupa condanna della solitudine e della morte. Non è soltanto un grido d'amore che ti risveglia, ma un desiderio, un bisogno di paternità, piú grande ancora dell'amore, un bisogno e un desiderio che non si estinguono nelle onde della voluttà, ma insorgono in nome della natura, ti comandano di vivere, o almeno di non morire tutto in una volta e non fare di te stesso il tuo lugubre cataletto ... ." Erano questi, piú che i pensieri, i gridi che uscivano dal profondo del suo cuore, mentre stava accomodando il bambino nel lettuccio. Si allontanò in punta di piedi, nascose un poco la fiamma della candela e stette un momento ad ascoltare il molle respiro dell'addormentato. Provò a scrivere, e mise sulla carta quattro parole per dire a Paolino che Beatrice era molto malata. Ma rifletté che non conveniva per il momento e che era meglio scrivere dimani, dopo aver parlato con lei. Soffiò sul lume e, seduto nel suo gran seggiolone di vacchetta, stette a contemplare la luna che versava una poetica luce nella stanzuccia, mentre egli cercava di reagire a quei terribili ragionamenti interni, che da qualche tempo non gli lasciavano piú pace. Si ricordò che in mezzo alle tribolazioni non aveva ancora fatta la sua santa Pasqua! Demetrio era uomo pio, sinceramente convinto di tutto ciò che gli aveva insegnato la sua povera mamma fin da ragazzo e sapeva che il diavolo va in giro la notte come la volpe: e se trova un pollaio aperto, cioè una coscienza sprovvista di grazie e di sussidi spirituali, fa il diavolo, cioè il suo mestiere. Glielo diceva anche fra’ Gioachino, l'ultimo frate converso che egli aveva conosciuto da ragazzo nell'abbazia di Chiaravalle, sopravvissuto vecchio e solo nel convento come un'ombra dopo la soppressione dell'ordine. Era un bel vecchio con una barba lunga, bianca, la testa rasa e lucida, che sapeva cento storie di miracoli e contava volentieri le burle che il diavolo soleva fare ai santi eremiti del deserto. Anche fra’ Gioachino soleva dire: "Chi tiene i catenacci irrugginiti non faccia conto neppure della porta." Forse per questo egli pativa da qualche tempo in qua le piú stravaganti suggestioni, e sentiva gridi e schiamazzi nella coscienza, proprio come quando la volpe entra nel pollaio. Dimani mattina avrebbe lasciato Naldo in custodia di Giovann de l'Orghen , e prima dell'alba sarebbe andato a Sant'Antonio, in cerca di don Giuseppe Biassonni, un vecchio prete un po' rustico che raspava la coscienza come un paiolo, ma dava una salutare energia allo spirito. E fece cosí. Disse tutto al prete lo stato dell'animo suo, contò le tentazioni, provando il piacere di chi si toglie d'addosso una camicia sporca e se ne mette una di bucato. Don Giuseppe non fece complimenti: "Sicuro che saresti un bel birbone," gli disse "se per una tua golosità mettessi tutta una famiglia nel caso di morir di fame. Se si lascia parlare la passione, ne sa sempre piú di un avvocato. Ti dirà che tu hai dei meriti, che puoi fare meglio degli altri, che il bene è di chi se lo piglia, ti tirerà a vedere la terra promessa, ti metterà tutto il mondo ai piedi, precisamente come fece Satana a nostro Signore. Io non ti dico altro: o si serve alla giustizia o si serve agli appetiti nostri; o si vuole il regno di Dio o si vuole quello delle tenebre. In due scarpe non si può tenere il piede. E il bene cessa di essere bene, quando lo si adopera per foderare il tabarello del diavolo." Demetrio avrebbe voluto che il vecchio rustico seguitasse un pezzo a sgridarlo, a strapazzarlo cosí. Sotto i colpi dei rimproveri sentiva le ossa slogate andare a posto. Una vera pace venne dietro all'assoluzione e quando egli uscí dalla chiesa, si sentí un altro uomo. Non tornò a casa, ma corse difilato in Carrobio per conoscere come la malata aveva passata la notte e per consegnare la famosa lettera di Paolino, nel caso che Beatrice volesse cominciare a pensarci. Dopo molte giornate di bello, il tempo era scuro, con densi nuvoloni di temporale in aria, con spessi e forti colpi di vento che facevano sbattere le gelosie. Non tardò molto che si mise a piovere allegramente, tanto che Demetrio arrivò in Carrobio coll'ombrello grondante. "Come sta la mamma? ha dormito?" "Meglio, sí. Mi ha detto quando veniva lo zio Demetrio di avvertirla." "Non ho molto tempo." "Vado subito." Demetrio collocò l'ombrello grondante in un cantuccio, lasciò il cappello sulla sedia e stette ad aspettare in piedi, in mezzo alla stanza, colle mani nelle maniche, gli occhi incantati sui mattoni. "Venga, zio ... " disse Arabella con un cenno della mano, facendo spiraglio dall'uscio. Demetrio si mosse e chiese: "Si può?" Beatrice non rispose subito e lasciò a Demetrio il tempo di accorgersi ancora una volta di un gran martellamento di cuore. "Avanti pure." La stanza da letto dava sulla corte e risentiva la tristezza della giornata piovosa tra i muri bigi e i tetti neri e lucenti. Le tendine di mussolina, ingiallite di polvere, rendevano ancora piú spenta la luce. Beatrice stava nella parte a sinistra del suo letto matrimoniale, verso la parete piú lontana dalla finestra. La destra era libera, intatta, come l'aveva lasciata il povero Cesarino. "Come va?" "Sto meglio, è un po' di febbre." "Guarda, forse il tem ... forse il tempo." Demetrio fissò gli occhi sulla finestra. Pioveva fitto, di gusto, battendo sui vetri; e tratto tratto passava nella furia del vento un lampo. "Piove come se non fosse mai pio ... piovuto" tornò a dire Demetrio, dritto verso la finestra, senza voltar la testa verso Beatrice, come se fosse venuto a strologare il tempo e non per altro. Seguí un istante di silenzio, dopo il quale Beatrice prese a dire: "Avete avuta la pazienza di condurre Naldo con voi ... ." " Pover patanèll! ... " disse lo zio con un movimento, quasi uno scatto del capo. E soggiunse: "Pensavo che si potrebbe mandare Mario alle Cascine. La Carolina è meglio di una mamma ... Anzi ci ho qui una lettera di Paolino." E slacciati i bottoni dell'abito, Demetrio cacciò la mano nella tasca di sotto, chinandosi giú giú, come se pescasse in un pozzo. "Sedetevi." "Comodissimo." "Devo parlarvi di una cosa ... " tornò a dire con voce tremolante Beatrice, facendo violenza alla sua timidezza. "Se sapeste Demetrio che cosa mi è capitato!" "Che cosa? ... " "Ah Signore, che spavento! sono ben malata per questo." "O di ... diavolo! ... " Demetrio, che aveva già la lettera di Paolino in mano, si voltò verso il letto e appoggiò le mani sulla sponda. Beatrice, sul punto di confessare al cognato il suo gran sproposito, provò un senso di ribrezzo e si raccolse nelle coltri, come se volesse sprofondare e scomparire nel letto. L'occhio di Demetrio passò rapidamente sulla persona di lei e andò a figgersi nella testa di un Cristo coronato di spine che pendeva a capo del letto. "Diavolo!" ripeté con un filo di voce. "Che cosa vi è capitato?" "Come posso dirlo?… Mi pare che andrei piú volentieri incontro alla morte." "Alla ... alla morte?" Demetrio crollò una volta il capo a destra, una volta a sinistra, come se cercasse una spiegazione alle due pareti e tornò a figgere gli occhi sul quadro, evitando di guardare addosso alla malata. Beatrice cominciò a singhiozzare e a bagnare il cuscino di lagrime. "Ma io non capisco, cara voi ... ." "Se non promettete prima di perdonarmi ... ." "Io perdonarvi?" "Vi giuro che non l'ho fatto con cattiva intenzione." "Che cosa non avete ... ." "Fu per compassione di mio padre che insisteva tanto. Ho fatto male a non parlarvene prima, ma sapevo che eravate contrario a dar denaro a quel povero uomo. Mi sono fidata della Pardi ... oh povera me!" "Cioè ... volete dire che avete dato del denaro a vostro padre ... ." "Sí." "E che l'avete tolto a prestito da qualcuno ... ." "No, no." "Avete forse firmata qualche carta?" "No, no, è un tradimento, un infame tradimento ... " proruppe con un grido soffocato la povera donna. "Un ... ?" Demetrio abbassò lo sguardo dalla cornice e cercò nel volto della donna una spiegazione a questo enigma. "Quando penso alla figura che m'hanno fatto fare, non so come sia ancora viva." Per quanto andasse a immaginare, Demetrio non poteva capire. Era cosí ingenuo ed ignorante delle cose del mondo, che fuori del suo libro non sapeva né leggere né indovinare. Beatrice, quando ebbe asciugate una o due volte le lagrime, in mezzo ad un gran garbuglio di cose uscí a dire: "Mi hanno mancato di rispetto ... ." "Vi hanno ... ." E Demetrio alzò un dito e con questo in aria tornò a chiedere: "Chi ... chi vi ha mancato di rispetto?" "Ah, sapeste! mi hanno creduta una donna di quelle ... Ah, povera me! poveri i miei figli!" "Chi?!" Demetrio ripeté questo "chi?!" con un accento aspro e fiero, e andò avanti due passi nella stretta del letto fin quasi addosso alla malata. Credeva bene di aver capito questa volta. Sapeva che c'è della gente, che ci sono dei bricconi a questo mondo, i quali non hanno nessun rispetto per una povera donna. Sapeva quello che il mondo infame andava dicendo sul conto di questa donna, senza un motivo. Non aveva creduto anche lui a mille ciarle prive di fondamento? Chi le aveva mancato di rispetto? Tutte queste domande cozzarono come tante palline di ferro scosse in un bicchiere, sotto un cipiglio di sfida. Non strepitava, non si agitava mica. Voleva soltanto sapere chi aveva osato mancare di rispetto, chi aveva creduto che sua cognata fosse una donna di quelle ... "Demetrio," continuò ella, alzandosi un poco sul cuscino e sostenendosi sulle braccia "se vi conto tutto, è perché sento che soltanto voi potete aiutarmi in questo momento: ma non voglio che per colpa mia voi dobbiate avere poi dei dispiaceri. Il danno materiale è poca cosa: lo compenserò, lavorerò, guadagnerò, dovessi vendere anche il letto ... ." "Sí, sí, ma voi dovete ... " insisteva Demetrio stringendo un pugno tutto pieno di spigoli. "Abbiate pazienza, lo sbaglio fu tutto mio. Capisco che avrei dovuto essere piú prudente, credere meno alla gente. Ma ci sono andata in casa come si va nella casa di un benefattore; voi stesso mi avete parlato sempre di lui con una grande opinione. Chi doveva immaginare che quel signore, alla sua età ... Insomma fui ingannata, ma la colpa è mia. Avrei dovuto credere ai vostri consigli. Quando sono uscita da quella casa mi pareva che la gente dovesse leggermi in viso la mia vergogna e mi pareva di sentire la voce di Cesarino che diceva: "Brava, begli esempi che dài alla tua figliuola!" Ah che notti ho passato mai ieri e ieri l'altro! Che cosa non ho pensato anche di voi, Demetrio! Dicevo: egli mi ha sempre parlato del cavaliere come di una persona molto rispettabile; gli ha raccomandato Mario per l'Orfanotrofio: gli ha subaffittato due stanze ... Ma, Signore! che anche Demetrio aiuti a tradirmi? dove sono? in mano di chi sono? Capisco, forse sono una donna viziata dalla buona fortuna, una donna poco pratica, poco avveduta, ma quando ho dato prova, Gesú mio, di non essere una donna onesta? Se venisse qui il mio povero Cesarino, guardate, Demetrio," e nel dir cosí si pose quasi a sedere sul letto, "se egli potesse uscire dalla sua fossa, vi giurerebbe sul capo de' miei figliuoli che io non ho mai tradito, nemmeno col pensiero, i miei doveri di buona moglie, e dal dí che egli è morto voi sapete che non ho fatto che piangere e pregare." E tornando a rompere in un gran pianto, soggiunse: "Ditelo, ditelo a quel signore ... ditelo alla gente ... non aiutate anche voi a tradire una povera donna ... Fatelo almeno per compassione de' miei figliuoli ... ." Beatrice, dopo questo sfogo, lasciò cadere la testa di nuovo sul guanciale colla pesantezza di persona sfinita. I suoi capelli in disordine, nel bianco delle coltri, spiccavano come una massa d'oro. Ora che aveva parlato e detto il suo peccato, le pareva di sentirsi quasi guarita. Nessuno l'aveva mai veduta cosí bella. Demetrio, irrigidito nei muscoli, ritto in piedi come un pilastro, colle mani schiuse ad un gesto che pareva indurito nell'aria, dopo aver capito tutto, anzi troppo, finí col non capir piú nulla. Aveva davanti a sé un bianco fantasma confuso dentro una nuvola, sentiva nelle orecchie il rumore d'una voce compassionevole; ma fatto stupido e farnetico dalla sofferenza, col cuore soffocato da uno sdegno tremendo, cogli occhi offuscati, stava lí che non sentiva nemmeno la terra sotto i piedi. È lungo dire tutto ciò che precipitò nel suo cuore in quell'istante, tutto ciò che il pianto e il rimprovero di quella donna eccitò in lui di terribile e di spaventoso tutto ciò che l'ira persuase di fare. Ma piú che dall'ira fu vinto dalla sua debolezza. La sua faccia somigliava a una maschera che piange. Era questa l'arte del saper vivere: questo il sugo dei pareri disinteressati: questo lo zelo per la pace di un uomo ingenuo caduto dalle tegole ... O scempiaggine! o cattiveria umana! Egli per il primo, colla sua presunzione di far meglio degli altri e di aver ereditato tutto il buon senso di casa Pianelli aveva accolte le voci della malignità, aveva sospinta una povera donna nelle fauci del lupo. Però con questi bei servigi s'era procacciata una speciale benemerenza, forse una promozione nell'organico ... to' to' ... anche questo spiegava le riverenze del Ramella, gli amplessi del Quintina, le umili raccomandazioni del Bianconi. Dio, che vergogna, che abbiezione, che mortificazione alla nostra superbia! che avvilimento, che castigo! Sentiva quasi la vita rompersi e scassinarsi, come un vecchio orologio a cui la mano di un pazzo strappi la catena e faccia sonare tutte insieme le ore. Corse colla mano in cerca del fazzoletto, perché la testa gli si gonfiava e gli occhi s'imbambolavano. Crollando il capo, si mosse, andò fin sotto la finestra, appoggiò la fronte riarsa ai vetri, contro i quali batteva la pioggia fredda e sottile, e pianse col singhiozzo addolorato e rauco dell'uomo che non piange da un pezzo. "Perché piangete, voi?.. Non ne avete colpa, lo so. Anche voi avrete agito in buona fede ... Io non vi accuso di questo, Demetrio. Abbiate pazienza." Cosí sorse a dire con tono compassionevole la cognata. Quando fu dissipato quel gran fumo che gli velava il lume degli occhi, quando finalmente poté parlare, egli si voltò con un moto pronto e risoluto: "Sentite," esclamò con una voce diversa di prima "è detto che io sono un povero imbecille" e siccome Beatrice voleva contraddire, egli gridò: "no, no, no: è vero, lo sono, lo sono. Se non lo dice nessuno, lo dico io: io sono un imbecille, un bestione," insisté, portando i due pugni stretti alla fronte "un mammalucco, sono." Beatrice voleva di nuovo protestare. "No, abbiate pazienza, lasciatemi dire. Io sono anche un imbecille presuntuoso, che dò pareri agli altri e non ne tengo per me. È giusto che porti la pena della mia asinità; ma sentite, Beatrice, com'è vero che stamattina ho fatto la santa Pasqua," soggiunse alzando le due mani giunte "io sarei il piú vergognoso degli uomini, se questa ingiuria che vi hanno fatta non la ricacciassi in gola ... ." "Sentite ... ." "In gola, in gola ... " tornò a ripetere quasi fuori di sé, mostrando i pugni alla terra "in gola a quell'impostore ... ." "Per carità, caro Demetrio" supplicava la malata, sollevandosi ancora un poco a sedere sul letto. "Ad uno ad uno gli farò ringoiare i buoni consigli che mi ha dato. Ah io sono un uomo ingenuo, io mi mangerò il fegato, mi farò maledire!?.. Glielo farò mangiar io il fegato a quel ... ." Ed aizzato dalla sua passione continuò a passeggiare su e giú per la camera come forsennato. Arabella, chiamata da quella voce stridula, corse e stette a sentire all'uscio col cuore in tempesta. Eravamo alle solite? Lo zio Demetrio non aveva mai gridato a quel modo. "Sentite una volta, Demetrio. Ora mi fate pentire d'aver avuto confidenza in voi. Abbiate pazienza, venite qua, sedetevi un momento, per l'amor di Dio. Non voglio che voi crediate il male piú grande che non sia." Demetrio, quasi condotto da quella voce molle e insinuante, andò a sedersi su una scranna appoggiata al muro, e si raccolse in sé, con aria sdegnosa e spossata, curvò il corpo sulle gambe, appoggiando la faccia ai due pugni stretti. Beatrice, con un candore pieno di umile contrizione, prese a raccontare distesamente la sua visita al cavaliere, e perché vi era andata, e come avesse risposto alle sue insistenze, e come, tornata a casa, si togliesse d'addosso quel braccialetto che le bruciava le carni, e come finalmente ricorresse a lui, Demetrio, non per essere vendicata, ma soltanto per restituire al suo adoratore i denari ed il regalo, perché di questa roba non ne voleva piú sapere. E rigirando l'avventura un poco allo scherzo, mettendo nella voce un filo sottile d'ironia, finí col dire: "Io per me, me ne rido di quel vecchio sciocco e galante, del quale non ho mai cercata la protezione: ma voi potreste avere dei dispiaceri grossi. Egli è potente, è vostro superiore, e, non potendo vendicarsi su di me, avrebbe gusto di vendicarsi su di voi." "Si vendichi ... " sentenziò Demetrio, alzandosi sulla persona. E voleva dire: "Se vuole anche il mio sangue, se lo pigli ... " ma la vista quasi improvvisa di quella donna che lo guardava cogli occhi grandi, l'abbagliò: tornò ad abbassare il capo, si restrinse, si contorse nella sua scontrosa debolezza, e sentendosi quasi morire, mandò col cuore un'ardente invocazione a quel Signore che aveva ricevuto nel petto la mattina. Il colloquio fu interrotto da Arabella che entrò leggermente con una medicina. La fanciulla era pallida, sconvolta, e le sue mani tremavano come se avesse indosso la febbre. Dietro di lei entrò anche la signora Grissini; cosí, dopo qualche sconnessa parola di complimento, Demetrio prese congedo e uscí, graffiando l'uscio, promettendo che si sarebbe lasciato rivedere presto. Aveva bisogno di respirare l'aria libera. Fece le scale, trovò la solita strada di casa sua quasi per miracolo, come se camminasse in sogno, sollevato una spanna dal suolo. La testa girava come un arcolaio che gira al sole, proiettando ombre strane e sgangherate sul fondo della sua coscienza. "Che talento, sor Pianelli!" andava declamando una voce in fondo a quel testone enorme che gli pesava sulle spalle, "che bel talento! e che furberia, Meneghino! valeva la pena di scendere dall'abbaino a predicare la morale agli altri e di credersi quasi l'incarnazione del buon senso, per fare in fondo queste belle figure!" E i bei consigli del suo benamato superiore? qui il bello toccava il sublime. "Povero Pianelli, lei è troppo ingenuo" la voce carezzevole e insinuante del cavaliere gli rinasceva nelle orecchie e gli dava la baia; "lei ha troppo buon cuore e il cuore è buono per i merli. Io le parlo come padre, come superiore: non sta nemmeno della sua dignità ... ." "Ah, sí, proprio?" esclamava, fermandosi sui due piedi in mezzo alla gente. Per fortuna e per grazia di Dio il cavalier Balzalotti non era a Milano e forse in quel momento lí dava a sua eccellenza il Ministroi i suoi preziosi consigli: altrimenti egli sentiva che avrebbe fatto uno scempio, e poi finis mundi . Che gli importava adesso della sua vita? si poteva cadere piú basso di cosí, anche andando in prigione? "Non sta della mia dignità il patire la fame e la miseria coi disgraziati, ma è della dignità tua, o birbone, tendere la trappola a una povera donna, tirarla in casa colle belle, chiudere la chiave dell'uscio, far le moine del gattone, tentarla un po' colle dolci, un po' colle brusche, provarne la virtú coi regalucci? Ah birbonaccio!" Durante le ore che rimase all'ufficio, nei primi due giorni che tennero dietro al colloquio con Beatrice, non fece che ripetere quest'orazione, sogghignando dal suo posto alla poltrona vuota del cavaliere, la quale nella sua matronale tranquillità pareva rispondere: Io non c'entro. Lavorò poco, confusamente, evitò d'incontrarsi coi colleghi — birbonacci anche loro! "Vengano adesso a implorare la parolina! Venga il signor Bianconi, caro anche lui con quel fare di gattamorta! Non c'è piú da fidarsi in questo mondo, nemmeno dei piú vecchi amici." Una volta il Ramella, vedendolo passare, corse ad aprire la porta e a far le riverenze. "Stia comodo," gli disse Demetrio con un sorriso amaro e gonfio "adesso è finita l'entratura." "Cosa?" domandò il portinaio, che non aveva capito. "Uuh!" rispose con voce nasale Demetrio, rincagnando la faccia. "Non c'è piú da fidarsi di nessuno ... Cara anche quella signora Palmira co’ suoi buoni consigli, co’ suoi segreti protettori. Bel regalo che ha fatto all'amica del suo cuore! e adesso bisogna trovare subito cento lire da restituire al buon benefattore, e bisogna farlo subito, per telegrafo se occorre, perché certi denari bruciano le mani. Dove trovarle cento lire? non le avrebbe chieste certamente a Paolino questa volta ... A proposito. Non doveva egli consegnare una lettera di costui a Beatrice? L'aveva collocata sotto il calamaio ... anzi l'aveva presa una volta con sé, ma la lettera non c'era piú, né qui, né là, né in fondo alle tasche. Che l'avesse perduta? La sua testa aveva ora ben altro da pensare che alle scalmane del signor Paolino. E perché non veniva lui a proteggere l'onore della sua fiamma, ma stava comodamente alle Cascine ad aspettare la manna dal cielo? oltre al resto doveva toccare anche a lui la parte del mediatore, per farsi odiare forse anche dal cugino? perché questa è la regola: piú un uomo si strugge per fare del bene e piú diventa antipatico e odioso. È meglio nascere con un ramolaccio al posto del cuore, guardare a sé, pensare a sé, fare il proprio interesse, pigliarsi i propri comodi, soddisfare i propri appetiti. Egoisti, egoisti, viva la vostra faccia!" Per due o tre giorni non fece che predicare a sé stesso, dentro di sé a questo modo con una violenza morbosa, fuggendo la faccia degli uomini, finché una volta si domandò, stringendo la testa nelle mani, se aveva il cervello a posto. Naldo aveva voluto tornare dalla sua mamma. Rimasto ancor solo in cima alle scalette, nella morta solitudine dei tegoli, Demetrio aveva tutto il tempo di torturarsi da sé, vittima di una forza alla quale non sapeva resistere. Ma il dispetto furioso, a poco a poco vinto dalla stanchezza stessa dei nervi, cominciò a cedere il posto a un'altra riflessione se pure meritava questo nome un lembo di sereno, che usciva or sí or no in mezzo alla nuvolaglia di tante brutte cose. Quel lembo di sereno era Beatrice. In fondo all'aspra battaglia, nell'abisso della sua vergogna, il pover'uomo si sentiva avvicinato non uno ma cento passi a quella donna. Qualche cosa che non si sa definire, qualche cosa che ti piglia e ti stringe i sensi del cuore, dandoti in mezzo alle sofferenze dell'agonia una goccia di dolcezza, seguitava a invadere l'anima. Egli viveva di quella goccia. Capiva come si possa accettare anche di morire per inebriarsi una volta di quella dolcezza e come si possa morire volentieri una volta gustata. Essa lo aveva chiamato una volta caro Demetrio; aveva steso verso di lui le braccia, supplicando ancora la sua protezione. Aveva con due parole perdonate tutte le amarezze sofferte da lui e le offese a cui l'aveva esposta la sua grossolana ignoranza. Beatrice nella sua bontà semplice e mite era passata in mezzo alle calunnie, come uno spirito che le cose del mondo non possono toccare. Non era una donna sublime, né per ingegno, né per arte di stare al mondo, né per tante altre cose che dànno poi il frutto che s'è visto: era una buona creatura, onesta per indole, affezionata alla sua gente, che chiedeva soltanto un po' di pace e un sorriso; ed egli aveva visto questa donna, coi capelli scomposti, cogli occhi lucenti verso di lui, nel suo gran letto bianco, mentre cercava di intenerirlo, con una voce supplichevole da rompere in due pezzi un ciottolo del selciato ... Ah no! non si potevan covar idee d'odio e di vendetta con quella voce nel cuore ... Questa voce lo svegliava nel pieno della notte. Si metteva a sedere sul letto, nel buio, cogli occhi fissi alle stelle e procurava di ricrearsi davanti il bianco e stupendo fantasma. Finí col non poter dormire piú. Il mattino lo sorprese piú d'una volta pallido, intirizzito sulla sponda del letto. O se la eccessiva prostrazione gli faceva posare un momento il capo sul cuscino e gli velava la pupilla, quanti fantasmi lividi e lucenti assalivano il suo spirito! Visioni morbide e morbose avviluppavano il suo pensiero, gli toglievano la forza di raccapezzarsi. "O Signore Iddio, abbiate misericordia di un povero uomo!…" esclamava in mezzo ai sogni nell'ombra. Da quelle visioni cadde in un letargo febbrile, che divenne ben presto una febbre bella e buona, poi un febbrone bruciante, che gl'impiombò le palpebre e lo tenne inchiodato in letto quasi una settimana.

— che lei ci abbia quasi il suo interesse ... ." Le orecchie di Demetrio, a queste parole, diventarono rosse come il fuoco; e la fiamma, che scese tra pelle e pelle fin sulle guance giallognole, andò a spegnersi sulla linea del naso. Un piccolo tremito invase tutta la persona, e le mani si apersero nell'aria quasi automaticamente, senza che il povero ignorante sapesse lí per lí rispondere una parola, nemmeno un grazie, per degli avvertimenti che lo arrestavano sull'orlo di un abisso. Tutto aveva pensato, tranne a questo caso, che la gente potesse supporre quello che forse supponeva già e che era nei suoi diritti di supporre. Sicuro che era cosí! il lusso, la tranquillità, l'ironia con cui l’aveva accolto sua cognata dovevano avergli aperto gli occhi, se egli non fosse stato una vecchia talpa cieca, ignorante di tutte le cabale del mondo, un bestione, sciocco e paziente come un cammello, e come un cammello sempre rassegnato di portare la casa degli altri sulla gobba. Tanto per giustificarsi un poco davanti al suo superiore e benefattore, dopo aver masticato un pezzo le parole, provò a dire: "E quei poveri figliuoli?" "Ecco," soggiunse il morbido consigliere "ai figliuoli forse è il caso di pensarci un poco; ma è inutile ingannare con false carità dei poveretti, a cui non si ha da poter lasciare che gli occhi per piangere. I figliuoletti vorrei metterli in qualche orfanotrofio, in qualche istituto di beneficenza. Non è questo che manca a Milano, e io stesso per quanto posso esser utile, se crede ... conosco il presidente degli orfanotrofi e luoghi pii annessi." "Lei, lei è troppo ... " balbettò Demetrio, agitando la mano stesa nell'aria. "In quanto poi alla bella vedovina — scusi, Pianelli, se mi permetto di parlarle col cuore in mano, da padre — in quanto a lei, vorrei lavarmene a tempo le mani, in due acque, se non basta una, e lasciarla, dirò cosí, al suo angelo custode ... , le parlo da amico, da padre, e, se crede, anche da suo superiore ... ." Gli occhi di Demetrio si trovarono pieni di lagrime prima ancora ch'egli sapesse perché piangesse. La voce paterna del suo capo, la ragionevolezza de' suoi consigli, lo stato d'irritazione in cui l'aveva lasciato quell'altro vecchio pazzo e, in mezzo a tutto ciò, piú forte di tutto ciò, un improvviso sentimento della sua materiale e rustica ignoranza, finirono coll'avvilirlo. In che modo aveva sempre vissuto fino adesso, per non accorgersi di ciò che era scritto sulle cantonate di Milano? Un sentimento di pietosa confidenza lo condusse a fare innanzi al cavaliere tutta la confessione de' suoi imbarazzi. Tenne gelosamente nascosto il motivo che aveva spinto Cesarino a finirla colla vita; ma fece capire ch'egli non poteva rifiutarsi di pagare qualche grosso debito d'onore, per salvare, se non altro, il nome di quei poveri figliuoli, che infine si chiamavano Pianelli ... Avrebbe fatto tesoro dei preziosi consigli: e, se gli permetteva di approfittare qualche volta della generosa protezione, sarebbe venuto forse ad importunarlo ... "Ma venga quando vuole: se posso levare una spina da un piede, non sto a farmi pregare ... per bacco!" Beatrice, costretta di nuovo a provvedere a tante incombenze, alle quali prima soleva pensare suo marito o la Cherubina, si sentiva imbarazzata nella sua incapacità e nella sua gran vestaglia a nastri azzurri. Non sapeva dove mettere le mani, né come muoverle, e, dato fondo alle ultime venti lire rimaste, per disordine, in un cassettino dei pettini, si trovò improvvisamente senza un soldo. Il sor Isidoro, passando da Milano, andò a trovarla; consumò i resti del pranzo del giorno prima, vuotò l'ultima bottiglia di barolo rimasta in dispensa, e se ne andò dopo aver fatto giurare a sua figlia che non avrebbe piú ricevuto in casa quel mascalzone che rispondeva al nome di Demetrio, un asino calzato e ritto in piedi, che aveva osato dire che un Isidoro Chiesa era un gran buon uomo. Demetrio non c'era bisogno di cacciarlo via. Ci pensò lui a non lasciarsi vedere. Dopo il suo colloquio con Beatrice, dopo la scenata col Chiesa, dopo la predica amorosa del capo ufficio, bisognava essere un gran babbuino per lasciarsi tirare ancora in Carrobio. Dopo tre o quattro giorni i ragazzi, non abituati a far senza di certe formalità, cominciarono a gridare, a picchiare, a piangere. Arabella, smorta come un lino, taceva, si muoveva per la casa, comprimeva un certo che sulla bocca dello stomaco, e, di tanto in tanto, andava sul balcone a dare un'occhiata per il lungo di tutta via Torino, se mai vedesse, in mezzo al viavai immenso di tanta gente e di tante carrozze, un uomo che somigliasse un poco allo zio Demetrio. Beatrice fece chiamare Ferruccio un paio di volte, un bel ragazzo svelto, che faceva il tipografo nella stamperia dell' Osservatore Cattolico . Arabella gli aveva promesso una grammatica francese e il bel ricciolone correva come una freccia, quando sentiva la sua voce in cima alle scale. Ma dal momento che non c'erano piú quattrini in mano, il fornaio, il lattivendolo, il pizzicagnolo non davano piú nulla ai signori Pianelli. Demetrio aveva dato delle belle parole a tutti; ma i signori bottegai non ne volevano piú di belle parole. Ferruccio tornò con la cesta vuota. Beatrice si fece restituire da Arabella un piccolo cinque franchi d'oro, che il babbo le aveva regalato per il suo compleanno: e, bene o male, si tirò innanzi un altro paio di giorni. Ma la povera donna si sentí abbandonata, e le venne da piangere. Uscí, vestita come poté, con l'idea di andare a parlare al Direttore delle Poste, e lasciò in casa Arabella sola a custodire i ragazzi. Il commendatore era andato a Roma. Sulla scala s'incontrò col signor Martini, che finse di non conoscerla. Timida ed imbarazzata, non osò cercare del Buffoletti o di qualche altro amico di suo marito. Passò invece dalla via del Mangano, dove abitava l'Elisa sarta, e salí fino al terzo piano per ordinarle i vestiti di lutto. Poi, un pensiero le suggerí di andare in cerca della Pardi e di chiederle un prestito di qualche centinaio di lire; ma l'Elisa sarta aveva riferite le ultime parole dette dalla Pardina sul conto della sora Pianelli, e tra le due vecchie amiche di Cernobbio c'era oggi dell'aria cattiva. Passò il giovedí e tutto il venerdí senza che venisse anima viva. Pioveva. L'aria e le case avevano di lassú un aspetto grigio e triste sotto l'acquerugiola silenziosa, che stillava senza forza sui muri, impregnando il cielo di vapori stagnanti. Arabella contava le ore sui battiti del suo cuore e correva per la ventesima volta a guardare dal balcone nella strada. Passavano carri, tram, carrozze, carriole a mano, con quel frastuono pieno e grosso di una città che vive bene, mangia bene, digerisce bene. Passò un fiume di gente, uomini, donne, soldati, preti, ragazzi, in tutti i sensi: passò un funerale colla musica in testa ... , passò un carro pieno di masserizie ... Un cavallo spinto a corsa scivolò e cadde sulle zampe davanti. Accorse molta gente, fu tirato in piedi, partí zoppicando, la gente si diradò, la grossa fiumana riprese il suo corso solito, ma lo zio Demetrio non si lasciava vedere. Una volta sola il cuore della bambina si risvegliò a un battito di speranza e fu nel vedere Giovann dell'Orghen , un poveraccio, che lo zio Demetrio aveva mandato una volta a casa con un biglietto. Sperò che venisse ancora da parte sua: ma Giovann dell'Orghen voltò e scomparve dietro San Giorgio. Si ritrasse dal balcone tutta fredda e stillante acqua e stava per chiamare ancora Ferruccio, quando una forte scampanellata ridestò improvvisamente un grido di speranza e di gioia nei poveri bambini, che stavano per addormentarsi nella gelida malinconia di quella giornata piovosa e senza minestra. Era il maestro di pianoforte. Il Bonfanti dalla strada aveva veduto Arabella sul balcone ed era venuto su, prima per fare una visita di condoglianza e poi per sapere quando la scolara avrebbe ripigliate le lezioni. Egli era in credito d'una ventina di biglietti e non osava dire: pagatemi; ma sperava che, lasciandosi vedere, fosse un mezzo per non essere dimenticato del tutto. Le altre volte il povero Cesarino, che era un fanatico di Verdi, pregava il maestro dopo la lezione di rimanere a mangiare la minestra. Il Bonfanti non credeva d'avvilirsi restando, e pagava poi generosamente col sonare e col cantare a memoria mezzo il Trovatore e mezza la Traviata. Era anche questa un'occasione di mettere le mani sul piano, perché, dal giorno che il povero maestro era andato all'ospedale col vaiuolo, aveva dovuto vendere anche quel poco cembalo e le tirava verdi, il pover'uomo, verdi come il sambuco. Da tre mesi l'organo di San Sisto era in riparazione: e si può dire che egli vivesse sulle Benedizioni di San Lorenzo. "Se la signorina non si sente di prender lezione, vado io di là, se permettono ... ." E colla confidenza del vecchio amico di casa, il maestro passò nel salottino e cominciò ad arpeggiare sulla tastiera tanto per far venire l'ora solita che il riso andava in tavola. Egli sperava, coll'ingenuità dell'artista, che la signora Beatrice avrebbe continuato le buone tradizioni del suo povero marito, anche in considerazione di quella ventina di biglietti che non erano mai stati pagati. Solo che, nelle battute d'aspetto e nei brevi intervalli tra un arpeggio e l'altro, gli pareva d'intendere un gran silenzio, non solo in cucina, ma in tutta la casa, mentre le altre volte c'era quel dolce tintinnío di posate. Non sapendo come spiegare questo insolito ritardo, il maestro provò a cantare, colla sua voce stanca di vecchio baritono, l'a-solo del re Filippo. Dormirò sol nel manto mio regal ... "Scusi, maestro, c'è la mamma che si sente male ... " venne a dire Arabella. "Oh, se avessi saputo ... Che cosa ha?" "Un po' d'emicrania." "È il tempo. Allora ci rivediamo martedí?" "Glielo saprò dire, non so ... " balbettò Arabella arrossendo. "Ad ogni modo, non esca per ora dagli arpeggi. Adagio, conti a voce alta, e giú bene i polpastrelli." Arabella cogli occhi gonfi di pianto disse di sí col capo. "Me la saluti, la signora mammina." Il Bonfanti, discepolo della classica scuola del Pollini, era ancora di quei vecchi maestri che sanno distinguere l'arte dalla ginnastica e dall'acrobatismo, e rideva di chi vanta la forza e la precisione come il non plus ultra d'un bravo pianista. "Che mi fa la forza e la precisione?" diceva. "Anche una locomotiva ha della forza e della precisione; ma una locomotiva non sarà mai una grande pianista." L'interpretare una pagina di musica, il saperla colorire è questione di sentimento, e il sentimento non si esprime se non colla delicatezza del tocco; e il tocco non si acquista che col metodo e colla pazienza. Tutta l'arte è nei polpastrelli! In virtú di questo metodo, teneva i suoi allievi sei mesi e anche un anno sulle cinque note, che il Thalberg (il celebre Thalberg ch'egli aveva conosciuto a Monza nella villa del viceré Raineri) aveva definito discorrendo con lui le senk vertú teolegal de la musik . Dopo le cinque note bisognava aver pazienza e diligenza sulle scale. Dopo tre anni di studi, il Bonfanti, si vantava che i suoi allievi non sapevano ancora suonare niente, nemmeno una mazurchetta, mentre i maestri guastamestieri, per secondare l'ambizione delle scolare e delle mammine, fanno suonare il pezzo concertato quando l'allievo non sa ancora mettere giú i polpastrelli. In questa maniera egli procurava di tenere alta la bandiera della buona scuola e delle tradizioni classiche, anche a dispetto dei tempi, che adagio adagio lo lasciavano morire di fame. Discese le scale, si fermò un momento sulla porta a strologare il tempo, e mormorò: "Potevo almeno farmi dare un ombrello." E andò a fare quattro passi.

Venuto a Milano dietro la carriola del padre arrotino nel quarantotto, era rimasto qui come un ciottolone delle sue montagne che l'acqua abbia menato in giú. Al disotto del linguaggio milanese viveva ancora qualche reminiscenza del suo vecchio terteufel , che Demetrio fingeva di capire tanto per fargli piacere. Il nostro galantuomo aveva fatto nella sua vita il giardiniere, l'arrotino, il guattero, il sacrestano, e, divenuto vecchio, sordo, debole di gambe, s'era ridotto a tirare i mantici e a trasportare i contrabassi e i violoncelli degli allievi che vanno al Conservatorio ... Era insomma una specie di artista anche lui, ridotto dalla miseria dei tempi a vivere in una soffitta sotto il colmo del tetto, due scalette piú in alto di Demetrio. "A che ora c'è la messa a Sant'Antonio?" gridò costui. "Alle dieci e mezzo" rispose il sordo, che sapeva pigliare le parole al volo. "Viene a dirla un vescovo missionario chinese colla coda, che è a Milano per la liberazione dei moretti." Giovann dell'Orghen rise all'idea di quel vescovo colla coda. "Oggi non tiro i mantici, perché sto sul campanile a suonare le campane a festa. Sentirà tra poco che concerto. Altro che Verdi!" E il buon diavolo tornò a ridere, alzando la faccia pulita colla barba appena fatta e colla pelle quasi lucente, sotto un magnifico cappellino di paglia, o magiostrina , come dicono, preludio di primavera. "Gli ho portato il latte bianco e il pane cotto nel forno" disse ancora collocando la roba sulla tavola "e vado subito perché il prete m'ha promesso anche la cioccolata." "Addio, uomo felice!" gridò Demetrio e pensò, quando l'altro fu uscito: "Che gli manca per essere felice? Se avesse una camicia di piú, forse gli nascerebbero in cuore dei pensieri d'ambizione. Se anche gli manca un paio di scarpe, non ha rispetti umani lui: va in ciabatte ... Chi si contenta è beato, ricco, è tutto quello che vuole. In fondo è il mio sistema: e non c'è mestiere piú stupido che il pretendere di raddrizzare le gambe ai cani." Dopo la gran predica del cavalier Balzalotti si era persuaso anche di piú che a lavar la testa agli asini si butta via ranno e sapone. In Carrobio non s'era piú lasciato vedere. Venne qualche creditore in ritardo ed egli lo mandò difilato a Melegnano, dal sor Isidoro Chiesa, da quel talentone. "Che! che! voleva giusto mangiarsi il fegato, perderci salute e denari, compromettere la sua dignità e il suo onore per gli occhi di uno ... di una bella pigotta ! Bel nome se si vuole; bisogna proprio dire che c'è della gente che ha nulla da fare a questo mondo, se passa il tempo a inventare questi titoli! No, no, non voleva saperne egli di partita doppia ... Grazie tante, sor Demetrio riverito, una bella figura!" E arrossiva ancora a pensarci. A casa sua egli aveva i suoi vasi, tre gabbie di canarini e faceva conto di adottare anche una tortorella. Le bestie almeno capiscono la ragione, e, fin che possono, ti si mostrano riconoscenti. Ma le donne ... , queste donne ... Alla larga! Non aveva tempo di giuocar alla bambola lui! Accese un fornellino a spirito, vi collocò un ramino con un'oncia di burro, levò da un armadietto un paio d'uova portate dalle Cascine, e quando furono spumanti le tolse, pose sul fornello il pentolino del latte. Invitò Amoretto, il piú giudizioso dei suoi canarini, a tenergli compagnia. Aprí lo sportello d'una gabbia, l'uccellino saltò sulla tavola e cominciò a beccare. Intanto, per non perdere tempo e per mandare innanzi un po' di bene per l'anima, aprí il suo vecchio Kempis e cominciò a scorrerlo cogli occhi al disopra del piattello. Era un volumetto molto sciupato e gonfio, tenuto insieme a stento da una vecchia rilegatura di pelle con qualche avanzo dei fregi d'oro che le mani di molti ladri del Paradiso avevano slavato o graffiato nei duecent'anni o quasi dalla stampa del vecchio libro. Demetrio l'aveva caro, perché era stato della sua mamma, che lo aveva ereditato dalla sua, e tutti vi avevano pescato, come in un gran mare, qualche consolazione. Nella sua vecchia stampa il libro, dove Demetrio lo aperse, diceva: Confesserò contro di me la mia injustitia: confesserò avanti a Te, o Signore, la mia debolezza. Giovann dell'Orghen cominciò a scampanare a Sant'Antonio colla pazza fiducia di un sordo. E il libro: Sovente è picciol cosa quella che mi abbatte et contrista . "Questo è vero," pensò Demetrio, "noi ci lasciamo spesso deviare ed affliggere da un'ala di mosca." I canarini, eccitati dalla musica delle campane, cinguettavano e gorgheggiavano per cinquanta. " Mi propongo di fortemente operare et invece basta una mediocre tentatione perché io pruovi massima angustia ... ." Demetrio credette di leggere un rimprovero nelle parole del vecchio libro, e socchiuse un poco gli occhi, come se volesse discendere collo sguardo fino in fondo alla coscienza. Quando li riaprí, ne vide innanzi due altri, che stavano osservandolo in un modo strano e indiscreto. "Chi ti ha insegnata la strada, brutta bestiaccia?" " Beb " rispose Giovedí, che credette di sentire nella voce dello zio un sentimento piú umano a suo riguardo. E indovinò giusto. Questo nuovo sentimento di maggior tolleranza verso la piú brutta bestia del mondo era nato nel cuore di Demetrio una mattina che, essendo egli andato a far mettere un piccolo segno sulla fossa del povero Cesarino, vi aveva trovato Giovedí, umido di guazza, colle zampe nel terriccio ed il muso sulle zampe, in atto di fare compagnia a qualcuno. Alzando il viso al disopra della tavola, Demetrio credette di vedere di nuovo le quattro zampe del cane brutte di terra. Non ebbe piú cuore di dir delle insolenze ad una bestia, che veniva ad implorare un boccone di pane. Giovedí non aveva nulla da vendere, quasi nemmeno la coda, ed era da compatire se abbaiava per fame. Gli buttò dunque un boccone di pane fresco, che il cane lasciò cadere in terra e non toccò come se fosse veleno. Invece non cessò dal guardare, co' suoi due occhi di bestia affettuosa e intelligente, ora lo zio, ora l'uscio, col corpo in preda ad una viva inquietudine. Subito dopo Demetrio sentí un passetto sulla scala, quindi l'uscio si aprí e comparve Arabella. "Sei tu?" esclamò lo zio, lasciando cadere la forchetta nel ramino. La povera tosetta , vestita d'un modesto abito bigio, col velo in testa e un fazzolettino di lutto al collo, pallida in mezzo a tanto nero, venne avanti colle mani raccolte sul libretto da messa e fece un cenno del capo, come se volesse dire: "Sono io". Ma la voce non uscí. Essa tremava di vergogna e di soggezione. "Che cosa vuoi? chi ti ha accompagnata?" "Ferruccio." "Siedi." "Zio!" soggiunse la fanciulla, aprendo i suoi larghi occhi di velluto, "è proprio in collera con noi?" "Sono in collera con nessuno, ma sto a casa mia" si affrettò a dire lo zio senza tante cerimonie. "Non ci abbandoni per carità, zio, per carità! ... " La voce di Arabella s'intenerí e rasentò il pianto, contro il quale ella faceva di tutto per resistere. Lo zio rispose con una ruvida alzata di spalle e brontolò: "Non sono ... ." "Se abbiamo sbagliato, zio," continuò quella voce piena di lagrime "ci perdoni per questa volta. La mamma non fa che piangere." "È lei che ti manda qui?" gridò lo zio con una esagerata ruvidezza. "No, non sa che sono venuta. Ho detto che andavo a messa con Ferruccio, che aspetta qui sulla scala. È venuto anche Giovedí." " Beb!" soggiunse il cane a sentire il suo nome, guardando ora la ragazza, ora lo zio. "Povera mamma, ha quasi la febbre. Va compatita se non è pratica. È il nonno che le ha detto di far cosí, ma adesso si accorge anche lei che aveva ragione ... ." "Chi aveva ragione?" chiese con un sogghignetto sarcastico Demetrio, mostrando i denti. "Lei, zio ... ." "Ah! lo so bene. Grazie tante." "Non abbiamo piú nulla da mangiare. I bottegai non ci dànno piú nulla. Ieri e ieri l'altro ho provveduto alla meglio, facendo vendere da Ferruccio la medaglia de' miei esami, ma non si può andare avanti cosí, zio, non si può. I ragazzi fanno compassione." La voce di Arabella andò morendo in un singhiozzo, contro il quale ebbe ancora la forza di reagire, forse per la paura che il pianto non le lasciasse il tempo di dire tutto quello che era venuta per dire. "Per amore del nostro povero papà, zio, non ci tolga la sua benevolenza ... ." Il cane venne anche lui a posare le due zampe sulle ginocchia di Demetrio. Capiva anche lui che la fanciulla cercava di intenerire lo zio: la voce piagnucolosa della bimba faceva tremare la povera bestia. Demetrio si contrasse nella sua scontrosità come una foglia secca. I nervi del viso guizzarono sotto la dura corteccia. Non era piú il credenzone, l'allocco d'una volta, e non per nulla il cavalier Balzalotti avevagli insegnata l'arte di stare al mondo. Le donne quali piú quali meno, sono tutte commedianti, specialmente certe donne ... "Già, sono io che vi faccio patire la fame!" brontolò agitandosi sulla sedia. "Si dirà anche questa. Io sono il ladro, il pedante, il tiranno, e se vi dò un buon parere è per fare il mio interesse, si sa. Io ho le olle in cantina piene di marenghi ... Vieni avanti, mangia!" Demetrio aveva versato, colla mano convulsa, il latte nella scodella, che spinse colla mano fino all'orlo del tavolo, mettendo vicino un pane. "E lei?" balbettò la fanciulla. "Mangia, non far smorfie. Già ... gli altri hanno grandi chiacchiere, ma, quando si tratta di tirar fuori un quattrino, stanno a Melegnano, gli altri. Ed io sono il ladro, il tradi ... ditore ... Mangia dunque, non farmi scappar la santa pazienza." Arabella si avvicinò al tavolo e cominciò a mangiare, come se lo facesse soltanto per obbedienza e per non irritare di piú lo zio. Ma alle prime cucchiaiate di latte caldo le sue guancie si fecero rosee e gli occhi brillarono di una gioia intensa nel fissare il fondo della scodella. Demetrio cercava di tirarsi in mente tutte le raccomandazioni fattegli dal suo superiore; ma in quel momento non poteva vedere che tre poveri fanciulli quasi morti di fame. Si è o non si è cristiani, e, per quante fossero le colpe di quella donna, si deve lasciar morire su una strada tre poveri innocenti? Arabella lasciava cadere nella scodellina anche le sue lagrime e se le mangiava poi col pane. Demetrio, fatte due o tre giravolte per la stanzetta, seguitò come se parlasse a sé stesso: "Perché non dovrei aver volontà di aiutarvi? Ah! dunque, io ho men cuore del vostro cane ... L'ho provata anch'io la miseria e so che sapore ha: ma contro la miseria non c'è che un rimedio: volontà di lavorare e risparmio, risparmio e volontà di lavorare. Tu hai nominato tuo padre ... Se sapeste tutto ... Se fosse qui lui a vedere ... ." "Ah, zio, zio!.." proruppe la bambina, portandosi a un tratto il fazzoletto agli occhi, e lasciando traboccare quel gran fiume di pianto che aveva trattenuto fin qui. "Cosa?" "So tutto ... ." "Cosa sai?" "Mi dica che non è vero." "Che cosa ti hanno detto? ... " "Che il povero papà s'è ammazzato ... ." "Chi?" Demetrio strinse i due pugni in aria, con un rapido movimento d'ira, come se volesse scagliarsi contro l'assassino che aveva parlato. Gli occhi cominciarono a veder male, e il cuore ... sentí che il cuore andava in pezzi sotto i colpi di quei singhiozzoni, che minacciavano di soffocare la povera tosetta . Colla gola stretta, strozzata da un'adirata passione, si appoggiò colle mani alla sponda della sedia, dove stava la fanciulla e aspettò che finisse di piangere. Ma vedendo che non poteva smettere, alzò lentamente una mano, che pareva inchiodata sul legno della sedia, e la posò dolcemente sulla testa di Arabella. Questa sentí tutto il significato di quella tenera carezza e il cuore volle scoppiare. Nemmeno lo zio seppe trovare una parola da dire in quel momento, tanto il dolore gli stringeva lo stomaco. Gli occhi si riempirono di lagrime dure e cristalline, che egli tolse, passandovi sopra con forza il grosso fazzoletto di cotone. Arabella, quando poté parlare, raccontò che, stando una sera sul pianerottolo a prender acqua alla pompa, sentí sulla scala di sopra Ferruccio, che indicando l'uscione del solaio, raccontava a un altro ragazzo che il sor Cesarino si era impiccato lassú. Aveva creduto di morir di spavento; ma capí subito che la mamma non ne sapeva nulla e che la gente cercava di nascondere la verità. Non era morta ancora, perché la Madonna Addolorata l'aiutava ... , ma non ne poteva piú. "No, zio Demetrio, non ne posso piú" esclamò aggrappandosi colle braccia al collo dello zio, accostando la sua faccia pallida e lagrimosa a quella accigliata e ruvida dell'uomo. "Non ne posso piú ... e il cuore mi si spezzerà davvero se non ci aiuta. Lei mi dirà tutto, com'è stato ... Ah Signore! il mio povero papà! mi dica che non è vero ... Che cosa abbiamo fatto di male noi al Signore? O Madonna, Madonna!" Arabella pronunciò il nome della Madonna con due gridi pieni di una disperata protesta, e subito dopo Demetrio se la sentí venir meno nelle sue braccia, come se morisse lí lí. "Arabella, povera figliuola mia" uscí a dire una voce, che Demetrio stentò a riconoscere per sua, tanto veniva dal profondo dell'animo. E, come se veramente si snodasse in lui uno spirito nuovo, forte, operativo, fece sedere la fanciulla, ne asciugò il viso grondante, l'appoggiò alla tavola, corse a un armadio a prendere dell'aceto, ne bagnò la fronte e i polsi, la rincorò con paroline d'amore sussurrate all'orecchio, volle infine che prendesse un granello di zucchero tuffato nel rhum; e, quando vide che il sangue rifluiva alle guancie, corse di là, finí di vestirsi, prese alcuni denari, il cappello, il bastone, una cesta di vimini, e rincorata di nuovo la tosetta : "Andiamo," disse "ne parleremo con comodo. Non dir nulla per ora. Fu una disgrazia per tutti ... L'aria ti farà bene ... Vuoi appoggiarti? Asciuga gli occhi." E uscirono. Giovedí correva innanzi, ma ad ogni svolto di scala si voltava indietro a guardare lo zio e la nipote, e gridava: beb! Sulla porta trovarono Ferruccio, al quale Demetrio consegnò la cesta e i denari e diede alcuni ordini per la spesa. Per strade secondarie si avviarono finalmente verso il Carrobio. Demetrio però si guardava sempre intorno con sospetto, per paura d'imbattersi per caso nel cavalier Balzalotti, che gli aveva dato quei tali consigli.

Pare che Dio mi abbia levata l'aria respirabile. Mi dò del matto, del cento volte matto; ma non c'è verso che io possa togliermi dagli occhi la sua figura. Cominciai a sentire un dolore, qui, sotto le costole, e una mancanza, come se mi avessero tagliato un braccio, poi una voglia di nulla, un affanno di respiro, una palpitazione di cuore, una voglia di piangere ... ." A questo punto gli occhi di Paolino si velarono di lagrime, inghiottí un singhiozzo, picchiò un gran pugno sulla tavola e voltò la faccia dall'altra parte. Demetrio, non sicuro d'aver ben udite le parole del cugino, aprí la bocca a un oh! che non venne, e restò come incantato. "Lo so che sono uno scarafaggio in suo confronto," continuò Paolino guardando in aria "e voglio che tu glielo dica. Se è no, addio! mi sarò strappato il dente. Ma se le buone intenzioni di un galantuomo valgono ancora qualche cosa, tu potrai dimostrarle che Paolino Botta non ha mai ingannato nessuno, e che se promette di dare un padre ai poveri figli di Cesarino, è come se giurasse sul calice della messa. Dille pure che venendo alle Cascine non dovrà fare la massaia: grazie a Dio ho di che far fare la signora a mia moglie e mandarla in carrozza. In quanto ai suoi figliuoli saranno miei e hai una prova in questa lettera di Arabella che tengo sempre nel portafogli e che avrò baciato cento volte a quest'ora. Se anche stentasse a rassegnarsi a vivere in una cascina, l'anno venturo scade il mio affitto e io posso andare a vivere dove voglio ... Io non so che cosa non son pronto a fare per quella ... per quella celeste." Un altro singhiozzo troncò a mezzo la frase che Paolino finí con un gesto della mano in aria, simile a una benedizione. "Tu vuoi parlare di Be ... Beatrice ... " chiese trepidando Demetrio per paura d'ingannarsi ancora. "Eh! ... " gridò Paolino, alzando le due mani. "O santa pace! tè, tè ... ." "Son matto?" "No, no, tutt'altro, anzi ... ma guarda, tè, tè ... ." "Non è possibile?" "Io non avrei mai pensato; oh, giusto! Una vedova con tre figliuoli ... ." "Ma se ti dico ... ." "Sí, sí, magari, e sia lodato Dio! non sai che farei cantare una messa a San Celso coi rivestiti?" "Ah tu trovi?" "Che c'è una Provvidenza ... tè, tè. Ma tu conosci bene Beatrice? Capisco che nelle tue condizioni scompariscono certi difetti. Magari, Jesus! " "Tu mi dài qualche speranza?" "Dammi la mano, Paolino." "Tutte e due, Demetrio." "Se tu non sei l'angelo mandato dal cielo, io non so che cosa sono gli angeli ... ." Demetrio colla voce piena di lagrime strinse al disopra della tavola le due mani di Paolino, che dopo riempí i bicchieri e fece rinnovare il liquido. I discorsi divennero subito piú fitti, piú caldi, piú intimi. Demetrio, man mano che vedeva la possibilità e l'opportunità del progetto, si sentiva alleggerire lo stomaco da un gran peso, da quel gran peso che minacciava di schiacciarlo. Sí, sí, vedeva proprio nella mano lunga di Paolino la mano di quella Provvidenza, di cui non aveva mai disperato. Non era un matrimonio che si potesse fare dall'oggi al dimani: bisognava preparare il terreno, e concedere tempo al dolore della vedovanza. Intanto però era per Demetrio un bellissimo aiuto l'alleanza di un uomo come Paolino delle Cascine; e questi dal canto suo nell'alleanza di Demetrio si sentiva tolto dal cuore quel sasso anche lui, che non lo lasciava piú vivere. I due cugini se la intesero. Demetrio avrebbe scritto alla prima occasione propizia; ma prima dovette promettere d’accettare un altro migliaio di lire come anticipazione delle future spese. Non accettò veramente che cinquecento lire per far tacere il padrone di casa. Intanto era venuto mezzodí. Paolino pagò il conto, salutò Demetrio, che rimase solo a prendere il caffè. Il signore delle Cascine, coll'anima gonfia di contentezza, traversò svelto come un uccello piazza Fontana, lasciando svolazzare le falde del suo abito di panno, piegò verso porta Romana fino alle Due Spade dove aveva lasciato il cavallo. Era felice d'aver parlato e si godeva quella felicità come un’anticipazione del resto. Demetrio, rimasto seduto davanti alla chicchera del caffè, seguitò un pezzo a rimestare nella bevanda cogli occhi fissi ai vetri, assorto in un pensiero senza contorni — tè, tè — nel quale si moveva un'altra idea piú piccina e piú lucente, da cui prendeva lume tutta la riflessione. "Tè, tè." In mezzo alle sue tribolazioni egli non aveva mai disperato; però non se l'aspettava cosí presto. Ma che diavolo aveva in sé quella benedetta donna, perché gli uomini dovessero diventar matti per lei? E senza cessare dal girare il cucchiaino nella chicchera, seguitò, cogli occhi fissi ai vetri: "Che diavolo?" Cesarino, una testa fantastica, un romantico, si capiva! ma Paolino delle Cascine bastava guardarlo in faccia per vedere che non era un poeta, tutt'altro, anzi era un uomo positivo, quadrato nella base: eppure anche lui, a sentirlo, aveva perduto l'appetito, il vino gli pareva cattivo, gli si velavano gli occhi, gli dolevano le costole, gli tremavano le gambe, e quella donna gli toglieva l'aria. Anche lui, tè, tè ... Collo sguardo quasi cieco, sperduto nei fumi della bella colazione, col pensiero inchiodato a quel punto interrogativo che gli era spuntato per la prima volta in cuore, tornò a chiedere: "Che diavolo ha questa donna?" In mezzo alle sue tribolazioni, in mezzo ai suoi parenti, con un morto da portar via, con tanti debiti da pagare, con tante amarezze da inghiottire, in una lotta d'ogni minuto colla miseria, col pane, coi creditori, colle prevenzioni, coi pregiudizi, colle antipatie, egli non aveva avuto tempo di cercare in sua cognata la donna. Per lui essa non era che un debito, il piú grosso, il piú pesante, quello che non si poteva pagare in nessuna maniera e che tirava con sé tutti gli altri: ma al disotto del debito c'era la donna. Che diavolo aveva dunque mai questa donna ... ? Il tocco profondo e vibrato d'un orologio che gli stava sul capo lo svegliò dalle sue meditazioni e gli richiamò alla mente che non aveva ancora sentita la messa. Uscí in fretta, traversò in quattro passi la piazza Fontana, e presa la via dell'Arcivescovado, per la porticina secondaria, dalla gran luce esterna si rifugiò nell'ombra alta e solenne del Duomo, in fondo alla quale uscivano i colori sanguigni e violetti di una vetriata, tocchi e animati delicatamente dal sole. Lo spirito alquanto scosso ed esaltato di Demetrio si raccolse in quella grande cornice di ombre e di colori profondi, e sotto quelle alte vôlte intrecciate, nelle quali il pensiero corre senza perdersi. Là dentro anche l'anima prende la forma di tempio: si svolge e si esalta, giganteggia, fortificandosi nelle solide basi della fede. Demetrio si appoggiò a un pilastro, e si raccolse per ascoltare una messa ch'egli vedeva da lontano tra una selva di colonne. Ma, un poco per l'eccesso del bere, un poco per la novità delle cose udite, stentò a formulare un atto di fede con attenzione. Se Paolino gli toglieva questa spina dal cuore, egli avrebbe fatta cantare non una ma dieci messe. Questo matrimonio sarebbe stato la liberazione di un povero uomo incatenato. In quanto a Beatrice non era donna da pensarci troppo. Una buona vita in campagna, al di sopra degli stenti, con buona tavola, bei vestiti, cavalli e carrozza, un buon papà per i figliuoli, e poi la pace, la sicurezza per sempre ... altro che! non sono fortune che càpitano a tutte. Anzi di solito càpitano a chi le merita meno. Se c'è una povera ragazza brava, onesta, di talento, non trova un cane: invece queste sans-souci , queste belle pigotte coll'anima di stoppa trovano sempre chi le veste e chi le fa ballare ... " Orate, fratres " disse il prete, voltandosi indietro colle braccia aperte. Demetrio si accorse di essere in chiesa e cercò di raccogliere la mente al mistero della Santa Elevazione. Ma non era colpa sua se la testa usciva dai finestroni. "Che diavolo hanno addosso queste benedette donne?" Pensandoci un poco, e cercando di dare lí per lí una risposta alla questione, gli pareva di non aver mai guardata bene sua cognata, e di conoscerla soltanto attraverso a un velo di dolore e di antipatia: e allora si guastano anche le piú belle cose. Se invece avesse potuto considerarla con animo sereno, come Paolino; se invece di torturarsi l'animo e il corpo per risolvere tutti i giorni la questione della fame avesse potuto anche lui darsi il lusso e il buon tempo di fare all'amore ... " Et ne nos inducas in tentationem " recitò la voce sonora del celebrante, come se rispondesse direttamente al soliloquio di Demetrio. Questi tornò da capo a rimproverarsi e cercò di ripigliare sé stesso, che usciva troppo di chiesa per correre dietro a pensieri senza costrutto. Ma prima che la messa fosse terminata, una strana, irresistibile dialettica che spettegolava dentro di lui, lo condusse un'altra volta a cercare la risoluzione d'un quesito, che s'imponeva alla sua volontà e a tutti i suoi proponimenti: "Che diavolo aveva dunque quella benedetta donna?"

La soggezione reciproca, dei piccoli verso i grandi, dei grandi verso i molti, quei piatti alti e pieni che nascondono la vista, quei camerieri di dietro, impalati, che ti guardano nel collo della camicia, questo e altro fa che ogni pranzo ufficiale abbia a cominciare col gelato e coi pezzi duri. Anche questa volta il piú gran rumore lo fecero i cucchiai e le forchette: tanto che il Bianconi, abituato in famiglia in mezzo alle sue tre ragazze burlone e a due marmocchietti indiavolati, osò pensare col capo basso: "Non manca che la marcia funebre." Il commendatore che, dal capo della tavola, sentiva una certa responsabilità quasi di padre di famiglia, procurò subito di rivolgere la parola ora al commendator Ranacchi, ora all'egregio pubblicista (che mangiava come se avesse dovuto pagare), ora al suo collega del demanio; ma anche lui, per quanto navigato, si sentiva compreso, intimidito. A casa aveva buttato sulla carta quattro periodi di ringraziamento, quattro parole all'ambrosiana, per ogni eventualità; e ora se le masticava insieme al risotto: anzi c'era una bella frase che gli sfuggiva e che egli andava cercando cogli occhi nell'angolo in fondo al salone, dove su un piedistallo stava un gran pellicano imbalsamato. Dopo il vin bianco le faccende cominciarono a procedere meglio: e meglio ancora dopo il barolo. Anche il Bianconi dovette convenire che a casa sua di quel barolo non ne bevevano le sue ragazze, e liberata un poco la coscienza dagli scrupoli e dai pregiudizi, cominciò a sentirsi un poco parente anche di quegli illustrissimi, che sedevano all'altro capo della tavola e che avevano certamente studiato piú di lui. Anche l'archivista, nella sua magrezza nervosa, sentiva gli effetti del vin bianco e dava di quei calci sotto la tavola ... Quando il Bianconi, collo zuccone basso, mormorava una facezia sul conto di qualcuno o di qualche cosa, il Caravaggio, che schizava l'elettricità dagli occhiali, usciva a ridere con tali scoppiettii di pollo d'India che piú di una volta i magnati piegarono il capo per vedere quel che succedeva "là abbasso". Il Bianconi diventava rosso fin sotto alla radice de’ suoi capelli infarinati, e cercava di nascondere la faccia col cartellino del menu , ch'egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel francese stampato in oro. "Almeno i piatti dovrebbero stamparli in ambrosiano!" disse al suo vicino, quando fu passata la tempesta. "Cosí non si sa nemmeno quel che si mangia: è come pranzare al buio. Sai tu, per esempio, che cosa sono i cornichons ... ?" "Cornicioni ... " disse il Caravaggio, scoppiettando come un legno secco sul fuoco. "Cornicioni in insalata. Eccellenti! Scommetto che son lumache: qualche cosa coi corni dev'essere ... ." Venne in tavola un gran piatto di marbré con decorazione di gelatina, burro e tartufi, un vero monumento da far risuscitare il martire che se l'avesse meritato sulla sua tomba. "Se invece di tante statue di bronzo e di marmo," disse l'archivista al suo vicino "si innalzassero sulle piazze di questi monumenti ... ." "E fosse permesso al popolo di tirarne via di tanto in tanto una bella fetta" continuò il Bianconi. " Cristianino! faccio il martire anch'io." Visto che a casa sua di queste polente non ne mangiava mai, si fece coraggio e tirò sul piatto un bel poligono, mentre il Caravaggio, sgambettando sotto la tavola, lo raccomandava alla speciale protezione di santa Lucia, che conserva la vista agli uomini di buona volontà, et hominibus bonae voluntatis ... "Parla latino adesso, che mi farai sciogliere la gelatina ... ." "Peh, peh, peh ... " rideva co’ suoi scoppiettii di pollo d'India il Caravaggio. "Ci vuol dell'iniziativa a questo mondo" disse il Bianconi, a cui il barolo dava quasi un'aureola di bontà. "Poteva esser qui anche quel testardo di un Pianelli" esclamò con sincero rincrescimento, quando scoprí che in mezzo alla polenta di gelatina c'erano dei fegatini di pollo. "Com'è stata questa faccenda?" "È stata ... è stata ... ." Il Bianconi lanciò un'occhiata fino all'altro lato della tavola, dove il suo capo gustava anche lui i suoi fegatini di pollo, e soggiunse: "Non parliamo di morti a tavola." "È vero," continuò l'archivista in mezzo al crescente frastuono delle ciarle e delle posate "è vero che il ... andava in casa della ... ." "Guarda, anche i pistacchi ... " disse il Bianconi, che non voleva quei discorsi. "Che lei sia andata piú volte da lui ... in via Velasca ... ." "Guarda, anche un chiodo di garofani." "Pare poi che non s'intendessero sul conto ... Bolletta non quitanzata ... peh! peh! peh! ... " "Ehi, là abbasso, è uno scandalo ... " gridò quel del catasto, che aveva già votate tre bottiglie. "Brutto maccabeo!" grugní il buon Bianconaccio col viso in brace, dando un pizzicotto alla coscia del compagno. "Va a stuzzicare l'eco, animale!" "I napolitani, i napolitani, caro commendatore," gridava il commendator Ranacchi bel rosso in faccia rivolto al barone delle Ipoteche, "i napolitani ebbero sempre una posizione privilegiata nel catasto, e si può dire che non hanno pagato mai niente." "Niente è troppo" obbiettò il commendatore Balzalotti che non voleva che un'affermazione cosí recisa a tavola offendesse il chiarissimo collega delle Ipoteche. Costui avvolto nel tovagliolo, come in una toga, spianò le trecento rughe che solcavano il testone torbido e nero, e mormorò in mezzo al frastuono qualche cosa di cui il Bianconi non poté afferrare che una "gongrua bereguazione." "Senza un buon catasto non sarà mai possibile nemmeno una congrua perequazione." "Basterebbe un'imposta reddituale." "Baie sonore! vediamo quel che ci costa già l'esazione della ricchezza mobile." "È un altro paio di maniche. La terra non si può nascondere." "Ci vorrebbe un sistema di tassazione ... ." "Ma che sistema!" "Sicuro, un sistema in ragione della presunta produttività del terreno." "Mancherebbe anche questa, oltre al flagello della concorrenza americana." "Che concorrenza d'Egitto!" "Americana e non d'Egitto." "Ah, ah! oh, oh!" Le parole s'incontravano, s'intrecciavano al di sopra dei bicchieri e delle bottiglie, scoppiando in calde risate, in cui tutte le opinioni politico-amministrative di quei bravi signori si conciliavano in una piena soddisfazione reciproca. Solo il barone delle Ipoteche pareva annuvolarsi e sprofondarsi sempre piú in mezzo al baccanale, e gonfiava certi occhi bianchi, movendo il capo ora a destra ora a sinistra come volesse dire: "adesso vi mangio tutti ... " "Signori!" sorse improvvisamente a dire il Quintina colla sua voce squillante. Si fece subito un gran silenzio. "Signori! questa non è una cerimonia ufficiale di adulazione, ma una lieta e viva testimonianza di stima e di rispetto verso un uomo, il quale ... , verso un uomo, che sua eccellenza il ministro Depretis ha voluto in questi giorni onorare di un attestato speciale, concedendogli le insegne di commendatore della Corona d'Italia. Propongo quindi un brindisi al commendatore Balzalotti." "Viva, bravo, bene!" I bicchieri si alzarono, si toccarono, si vuotarono. Il commendatore si alzò. Di nuovo un gran silenzio. S'inchinò a destra, a sinistra, passò un momento il fazzoletto sugli occhi, e dando un'occhiata al suo pellicano imbalsamato, incominciò a dire: "Se dovessi, amici e colleghi, rispondere adeguatamente alle espressioni vostre, io non potrei trovare nessuna parola che sapesse esprimere il pensier mio. Avvegnaché, come ben disse pur dianzi il mio buon amico cavalier Quintina — con quella cortesia che lo distingue e della quale sento il dovere di ringraziarlo — qui non si tratta della solita cerimonia ufficiale che al levar delle mense non lascia dietro di sé alcun ricordo. No: qui voi volete non tanto onorare in me il capo d'ufficio, che fa debolmente e come può il dover suo, quanto il vostro compagno di lavoro ... ." "Benissimo!" dissero tutti insieme con quel bisbiglio di esse , che vuol approvare senza interrompere. "Laonde io vi ringrazio non come pubblico funzionario, ma, dirò cosí, come vostro collaboratore, come vostro commilitone." "Bene!" "Sua eccellenza il Ministro non ha certo voluto premiare una persona che, per quanto zelante e volonterosa, non ha ottenuto dalla natura né doti straordinarie d'ingegno ... ." "Oh ... " protestò il pubblico. " ... né ha recato alla pubblica amministrazione servigi straordinari: ma io sono persuaso che ha voluto premiare in me — e con me anche voi — la fedeltà a quei principii d'ordine e di progresso che informano lo spirito delle nostre istituzioni liberali ... ." "Bravo!" gridarono a una voce con una salva di applausi. "Bbenne!" soggiunse dopo gli altri il barone delle Ipoteche, colla cupa sonorità d'un trombone in ritardo. Il commendatore, dolcemente acceso e sorridente, brandí il coltellino del formaggio e alzandolo in aria soggiunse: "Imperciocché, o signori, non è né la forza degli eserciti, né i baluardi delle fortezze, né le difese alpine, né le trincere ferrate dei nostri porti che potranno mantenere la pace, salvare il paese, favorire il miglioramento delle classi meno abbienti, diffondere i lumi della pubblica istruzione, ecc.; ma bensí l'unità, la concordia, l'ordine nei principii, l'ordine nelle amministrazioni locali, il disinteresse dei funzionari ... ." " Un po' anca mo' ... ." Tutti si voltarono a questa brusca interruzione, molti risero, e cercarono chi aveva parlato. La frase poco rispettosa era sfuggita dalla bocca del Bianconi, che credeva in coscienza di sussurrarla in un orecchio al Caravaggio. Ma fosse l'allegria, fosse il vino bianco, fosse il diavolo, che ha sempre gusto di rovinare un galantuomo, uscí una voce falsa, a contrattempo, che tutti poterono sentire. Rosso, infocato in viso, colle orecchie scarlatte, il povero Bianconi si rannicchiò sulla sedia e avrebbe voluto sprofondare in cantina. L'oratore, turbato un momento, non si smarrí, ma alzando un po' la voce rincalzò: "La giustizia nei superiori, il rispetto nei subalterni, in una parola un'armonia di sentimenti in quell'unico ideale, in cima al quale siede il benessere del paese ... ." "..issimo." "Nel ringraziarvi, adunque, cari amici e colleghi, permettete che unisca agli auguri per voi e per le vostre famiglie un augurio anche a quell'illustre magistrato che regge questa provincia, il quale si è compiaciuto di mandare un suo rappresentante nella persona del mio buono e vecchio amico, il commendator Ranacchi, un vecchio avanzo delle patrie battaglie ... ." Il Ranacchi si mosse sulla sedia e fece molti gesti pieni di modestia. " ... e a quell'alta mente, a quell'integro statista, a quel veterano delle lotte parlamentari che regge con prudenza antica il timone degli affari interni: per arrivare infine ove arrivano sempre i voti di tutti gli italiani, che non sanno distinguere piú il trionfo del progresso da quello della dinastia che ne tien alta la bandiera ... ." "Viva, viva!" "Bravissimo!" "Molto bene! Proprio toccata la nota giusta." "M'è piaciuto quell'appello ai principii." "Mi congratulo, bravo!" Il commendatore ricevette tutti questi mirallegri, stringendo tutte le mani che lo assalivano, sorridendo a tutti ringraziando; poi la conversazione continuò animata fino ad ora tarda. Il povero Bianconi non aspettò il caffè per prender l'uscio. Quando mai era venuto! il pranzo gli si cambiava in tossico. Tanta prudenza, tanta cautela, tante umiliazioni per non contraddire, per non compromettere quella piccola gratificazione a Natale, e ora una frase, due parole, una sciocchezza gli faceva forse perdere il frutto di tre anni di buoni servigi. "Aspetta ora che ti aggiusti nel nuovo organico" seguitava a brontolare dentro di sé, mentre andava verso casa grondon grondoni, "non ti manderà mica in Sardegna per questo, ma se speri di maritare le tue figlie cogli avanzamenti, stai fresco. Non ti ha risparmiata la sassata, e come ha sottolineata quella frase: il rispetto dei subalterni ... Se quell'asino di Pianelli fosse venuto, forse avrei avuto un altro posto, avrei bevuto un bicchiere di meno ... ." E voltando nella porta di casa, salendo le scale, cacciandosi in letto, non cessò mai di pigliarsela con qualcuno, che non era sempre il Bianconi; anzi spesso confondeva sé stesso con quell'asino, che egli considerava quasi come la causa involontaria della sua disgrazia. Al telegramma ministeriale tenne dietro una lettera, in cui si diceva che, "avendo avuto riguardo ai precedenti incensurati dell'applicato Demetrio Pianelli, accogliendo le generose insistenze della parte offesa, S.E. il Ministro si limitava a traslocare il nominato Pianelli, senza promozione, all'ufficio del Bollo e Registro di Grosseto (Maremma toscana) a cominciare dal primo agosto prossimo venturo, col qual giorno avrebbe datata pure la decorrenza dell'assegno mensile". In parole meno solenni era un castigo di due mesi di sospensione dall'impiego, durante i quali il nominato Pianelli avrebbe dovuto vivere con qualche economia, vendere qualche superfluità, preparare il baule e riflettere sulla necessità che un regio impiegato abbia in ogni circostanza a conservare un contegno corretto e come si deve. Il Caramella, che gli portò la lettera, lasciò anche il fagotto delle sue poche robe. Non mancava nulla, né il boccaletto, né il bicchiere, né il paio di manichette di tela; mancavano soltanto le cento lire della sua mesata di maggio. "Andremo a Grosseto!" declamò Demetrio, dopo aver letto e riletto il ministeriale documento, accompagnando la lettura con molti tentennamenti del capo. "Grosseto, Maremma toscana: sarà aria buona ... Bisognerà mettere nel baule anche una buona dose di chinino. Impareremo cosí anche il bel linguaggio toscano." E crollando la testa, gli venne voglia di ridere. Sí, gli venne voglia di ridere, non capiva perché. In un altro momento, in altro stato d'animo forse avrebbe sofferto atrocemente di quella punizione: ora, gli veniva da ridere, come di una commedia. Che male, infine? morir qui, morir là, tanto per lui, adesso, era la stessa cosa. Era questa anche un'occasione per vedere un po' di mondo, al di là dei suoi prati ... Che gl'importava ora di Milano e delle sue magnificenze? Fino i suoi dintorni, fin anche quei prati verdi che formavano la sua delizia, oggi gli erano diventati antipatici. "Andiamo a Grosseto!" ripeteva tra sé, nella quieta solitudine della sua stanzetta, mentre a Sant'Antonio ribattevano le nove, le dieci, le undici, mentre tutti i suoi colleghi erano già in ufficio a lavorare, ciascuno al suo posto; ed egli invece, pacifico e beato come un signore che vive d'entrata, se ne stava a casa a fumare i piccoli mozziconi di sigaro, che andava pescando in fondo alle tasche, a far il conto di quel che avrebbe dovuto vendere per tirar là quei due mesi con ventidue lire e centesimi, e poi un altro mese a Grosseto prima della scadenza, oltre alle spese del viaggio, e a qualche debituccio arretrato ... "Andiamo a vedere Grosseto! ... " Se egli fosse stato pittore, oh! che bei quadrettini da dipingere! Meglio ancora se avesse dovuto scrivere un romanzetto. I letterati vanno alle volte a cercare argomenti inverosimili e strani nel mondo delle nuvole e non si accorgono che hanno sottomano dei casetti curiosi da far morire la gente dalle risa ... e anche da far piangere. Piangeva egli forse? mai piú. Gli passava soltanto per gli occhi una nube di malinconia. È una sciocchezza piangere perché il signor Ministro si compiace di traslocarti a Grosseto. Poteva forse per un giorno o due far dispiacere di romperla cosí bruscamente colle vecchie abitudini; il vedere il cappello attaccato al chiodo, il bastone appoggiato al muro, in un cantone, coll'aria di roba stufa di stare in casa; ma non c'erano motivi per piangere. Ci si fa l'osso anche al far niente. Non dava nemmeno torto al suo superiore. Guai se un capo d’ufficio non provvedesse energicamente a salvaguardare — come dicono — il prestigio dell'autorità! Come mai un Pianelli, di natura cosí impacciato e scontroso e cosí duro di lingua, avesse potuto cantare a quel bravo signore delle cose che non si devono mai dire a un superiore, specialmente quando sono vere, era un mistero anche per lui. Non sapeva ripensare neppure quello che gli era uscito di bocca in quel momento. S'era frenato un pezzo colle corde e colle catene: ma quando quel bravo signore osò insultare Beatrice e chiamarla pettegola, allora il cuore scattò come una molla. Non era dunque morta del tutto quella donna nel suo cuore; o non era morto del tutto il suo cuore per lei? Misteri, misteri. Se un resto d'illusione si muoveva ancora in lui, il Ministro provvedeva ora energicamente a togliergli fin l'ultima speranza. La bella storia era finita del tutto. T-o-tto ... finito. Ora aveva piú tempo di far delle belle passeggiate sui bastioni e in piazza Castello, e di stare a sentire le cicalate delle sonnambule e dei venditori di mastice. Aveva anche il tempo di leggere un giornale e di occuparsi di politica, come un uomo che vive di rendita, colla differenza che per vivere e tirar là tutto il tempo stabilito dal signor Ministro bisognava vendere qualche cosa. E cominciò dall'orologio. Era un vecchio orologio d'argento, di quelli che diconsi a cipolla, grande come uno scaldaletto, ma d'una solidità e precisione che gli orologini moderni, intisichiti anche loro come i padroni, non conoscono piú. Pà Vincenzo l'aveva ereditato dal padre suo, che l'aveva ricevuto in pagamento da un delegato austriaco, il quale alla sua volta ... , insomma era un magnifico orologio tedesco, che dopo aver segnate molte ore belle e brutte ai vecchi di casa, continuava a segnare al nuovo e ultimo padrone un tempo inutile. Dopo aver tentato due volte di venderlo come orologio, spaventato del poco o nulla che gli offrivano nelle botteghe, provò a spacciarlo come oggetto antico e fu piú fortunato. Un rigattiere che sta di casa in San Vito al Pasquirolo, che forse era sulla traccia d'un oggetto simile, dopo un lungo tirare si rassegnò a dare trentacinque lire, una somma favolosa in confronto di ciò che gli offrivano gli altri, ma lo acquistò come roba fuori d'uso, non come orologio. Demetrio nel venir via provò un senso di rincrescimento e di dolore, che finí, a furia di pensarci, in un altro senso piú profondo e misterioso di mortificazione. Si paragonò al suo vecchio orologio di Vienna e si accorse che anche lui era un oggetto fuori d'uso, colla differenza — sempre qualche differenza! — che per trentacinque lire nessuno l'avrebbe voluto. La grossa cipolla riempiva di solito un taschino del panciotto, premendo sulle costole a sinistra, facendo un grosso e un duro che il corpo era abituato a sentire, come una parte di sé stesso. Ora quel taschino vuoto e floscio che pendeva giú, dava un senso di freddo e di mancante, come se coll'orologio avesse levata una costola; e piú volte nei movimenti di distrazione le due mani andarono a frugare sull'orlo della tasca, irritate di non trovar subito la chiavetta di ottone, che sporgeva attaccata a due cordicelle di seta. Piú melanconico di notte. Nelle ore di veglia — e adesso gli capitava spesso di non poter dormire — era solito sentire il tic tac del vecchio amico, che vegliava con lui nell'alta e oscura solitudine sopra i tetti e che gli teneva una cara compagnia. Non è il caso di dire che in quel tic tac, ingrossato dalla cassa armonica del tavolino, egli sentisse la voce dei vecchi che avevano scaldato l'orologio col calore del loro corpo e che avevano da un pezzo finito di battere il loro tempo: questo potrebbe essere della poesia e del romanticismo. Ma è certo che egli vegliava volentieri colla sua "vecchia cipolla", e nell'accordo dei palpiti tornava a rivivere, guardando nel buio, molte pagine della sua vita passata, risuscitando immagini lontane, che davano quasi il senso d'una vita vissuta in un altro mondo. Anche questo: t-o-to ... finito! Eppure in fondo a questa catastrofe, benché si sentisse quasi schiacciato dalle sue stesse rovine, — va a spiegare anche questi misteri ... — non gli dispiaceva d'aver cantato, almeno una volta, una bella verità a un potente. Gli era cara, dolce, consolante l'idea d'aver osato alzare la voce —lui solo in mezzo ad una bega di ipocriti e di maliziosi — per difendere l'onestà di una povera donna. — Egli solo aveva avuto il coraggio di rispondere alle perfide malvagità del Quintina, alle offese del commendatore, parlando chiaro, chiamando gobbo il gobbo, vile il vile, sollevando di peso, quasi sulle sue braccia l'onestà di Beatrice al di sopra del fango. Cesarino non era uscito dalla sua fossa ad aiutarlo; e nemmeno il signor Paolino delle Cascine s'era fatto vivo in quel momento. Di quell'opera buona e di coscienza il merito spettava a lui solo; nulla di piú giusto quindi che ne godesse egli solo l'intima e gelosa consolazione. A questa coscienza si appoggiava come a un bastone, e se ne faceva quasi uno scudo. No, non avrebbe cambiata la sua coscienza orgogliosa con quella del suo superiore e de' suoi adulatori. Paolino, piú fortunato di lui al di fuori, di dentro non era né capace, né degno di certe convinzioni. Egli sí; c'è il suo tornaconto anche a soffrire per la giustizia. Con questa orgogliosa sicurezza di sé, qualche giorno dopo la burrasca, come se nulla fosse accaduto, andò passino passino in Carrobio, montò le note scale, suonò il campanello. Sentí un passo piú greve del solito, la chiave girò nella toppa, e i due cugini si trovarono in faccia l'uno all'altro. "O Demetrio!" esclamò Paolino, aprendo le braccia e stringendo poi la testa del cugino nelle mani grandi come foglie di zucca. "Beato chi ti può vedere, Paolino!" "Vuoi dire che merito d'essere bastonato? Hai ragione. Tu sei stato molto malato e non mi son lasciato mai vedere. Ma se sapessi quante cose in questa testa ... ." "Sappiamo tutto." Demetrio, mentre deponeva il cappello e il bastone, diede ascolto al cuore e si rallegrò di sentirlo quieto e rassegnato. Il passo piú difficile è quello della soglia, dice il proverbio: ed egli l'aveva fatto "C'è Beatrice?" "È di là. È venuta in questo momento la sua sarta." "E i ragazzi?" "Son presso la signora Grissini. Aspettano Ferruccio che oggi s'è vestito da prete." "Son venuto a disturbarvi?" "Birbante, tu fai delle maligne supposizioni." Paolino prese il buon cugino sotto il braccio e lo trascinò nel salotto, dov'era ancora stesa la tovaglia. "Qui si pranza." "Abbiamo finito. Sono scappato a Milano per combinare la faccenda del domicilio legale. È necessario che Beatrice, per non perder tempo, si stabilisca subito in campagna. Abbiamo scelto Chiaravalle." "Lei dunque ci ruba la signora Beatrice" disse Demetrio con un tono di recitativo d'opera. Ascoltò di nuovo il suo cuore: e gli parve di non sentirlo piú, come l'orologio. "Questo andare e venire è noioso per tutti. La voce del matrimonio è corsa, e i vicini vogliono dire ciascuno la sua. Un po' di campagna farà bene anche ai ragazzi." "Va bene, va bene." Sedettero davanti alla tavola dov'erano rimasti gli avanzi del pranzo. Non era piú il piatto di carne bollita o di pesce stantío, o il pezzo di vecchio formaggio che un certo Demetrio soleva portare a casa nella cesta, lesinando sul quattrino: ma si vedevano molte bottiglie in tavola, dei piatti non troppo puliti, dei cartocci di dolci, e un mezzo panettone. L'abbondanza cacciata dall'uscio era tornata dalla finestra. "E dunque, sei proprio contento, Paolino?" "Se io sono contento?" ripeté il cugino, come se tornasse indietro per prendere la corsa. "Bevi, Demetrio." "Non bevo, grazie." "Un gocciolino ... ." "Mi farebbe male." "È un vino bianco dolce che faccio io." "Un'altra volta ... " insisté Demetrio, voltando di sotto in su il bicchiere, per non voler assaggiare il vino dell'altrui felicità. "Verrai un giorno alle Cascine. Sento anch'io che sono un mostro d'ingratitudine. Tu mi dimandi se io sono contento ... , capisco: è un rimprovero." "Che rimprovero!" "È un rimprovero giusto e meritato, perché io avrei dovuto darti subito questa notizia, scriverti una parola, farmi vivo una volta. Ma se ti dicessi che ho perduto la testa?" "Capisco ... del resto ... ." "Dopo che ho sofferto tutte le pene del purgatorio — come ti ho contato — dopo che senza Beatrice mi pareva che sarei morto asfissiato, quel giorno che la Carolina tornò a casa colla fausta notizia che tutto era combinato, che essa aveva detto di sí, che era contenta, eccetera, eccetera, crederesti che io son rimasto freddo e indifferente come questa bottiglia?" Paolino prese la bottiglia, la collocò con un colpo in mezzo alla tavola, indicandola col dito. I due cugini rimasero un momento immobili a contemplarla. "Misteri del cuore umano!" esclamò Demetrio, usando una frase di un suo vecchio ragionamento. "E cosí fu per due o tre giorni. Uscivo di casa la mattina, andavo in campagna, per istinto, come un cieco, che ha gli occhi aperti e non ci vede, scorgevo gli uomini alla lontana, ma non capivo quel che mi dicevano. Tratto tratto mi arrestavo di botto per chiedermi se ero io che dovevo sposare Beatrice — alle Cascine la chiamavano la bella vedovina. — Non poteva essere che un sogno anche questo come ne avevo fatti altre volte, che poi sfumavano al cantare del gallo? Per accertarmi che non era un sogno, toccavo colla mano i sassi, le piante, mi davo dei pizzicotti, facevo fin dei salti al sole per vedere se con me si moveva anche l'ombra del mio corpo ... ." "Ah! ah! ah!" proruppe Demetrio con una risata larga, aperta, esagerata apposta per spaventare qualche cosa che si moveva in lui. "Bevi, Demetrio ... ." "No, caro ... , e poi?" "E poi cominciai a capire qualche cosa. La Carolina anche in questa faccenda mi aiutò come si aiuta un bambino da latte. Se avessi dovuto muovermi e fare da me, morivo vergine e martire, caro Demetrio." Paolino vuotò il bicchiere del suo vin bianco dolce. "La Carolina mi condusse a Milano una volta per la presentazione, — tu eri malato con una gran febbre quel giorno — mi insegnò quel che dovevo dire, precisamente come si fa alla dottrina cristiana: "Chi vi ha creato e messo al mondo?" scelse lei dall'orefice il primo regalo, e mi tirò su per queste scale come si tira — scusa il paragone — un vitello per le orecchie ... ." "Ah! ah!" tornò a ridere Demetrio. "E poi?" "Una volta seduto vicino alla sposa mi pareva di essere un campanile in suo confronto: io non sentivo che sonar campane nelle orecchie. Parlò sempre la Carolina, che ha tutte le chiavi delle guardarobe e anche quella del mio cuore. Per me, se mi facevano un salasso, giuro che non mi veniva una goccia di sangue. A poco a poco la lingua si snodò. Due giorni dopo venne lei alle Cascine ... ." "Ah sí?" "A casa mia sono piú a posto. L'ho condotta a vedere gli asparagi, i meloni novelli, il molino, il torchio dell'olio e cosí ho potuto salvare l'onore delle armi. Un'altra volta son venuto solo a Milano — tu cominciavi a star meglio — e a furia di mescolare le carte il gioco s'impara. Ah, Demetrio!.." soggiunse lasciando cadere un gran colpo di mano sulle spalle del cugino "quando verrà quel giorno, tu vedrai Paolino volare come una farfalla. Giugno, luglio, agosto: s'è fissato per il matrimonio il 24, giorno di san Bartolomeo." Paolino, colto da una improvvisa tenerezza, alzò gli occhi al soffitto, e non li abbassò finché fu sicuro di essere un uomo e non un ragazzo piagnulone. Demetrio, rannicchiato in sé stesso, quasi rimpicciolito nelle spalle, — fatte sottili dalla malattia — andava grattando coll'unghia dell'indice il tessuto della tovaglia. Passò un momento di silenzio, nel quale scoppiò come un fuoco di festa una risata di donna allegra. L'uscio della stanza si aprí e Beatrice, con indosso un magnifico vestito di seta color ulivo, appuntato con spilli, corse di qua a prendere le forbici, chiedendo scusa alla bella compagnia; entrò e scomparve come una visione nel morbido fruscío del lungo strascico fosforescente. Paolino abbassò gli occhi. Demetrio sollevò i suoi. Quei quattro occhi s'incontrarono, si fissarono, si parlarono. Quelli di Paolino parevano dire: "Hai visto? ho ragione di perdere la testa?" Gli occhi di Demetrio avevano invece un'espressione acuta di invidia e di gelosia. La bocca gli si riempí di un fiotto di saliva amara, che si sforzò di inghiottire. Si spaventò come se gli venisse addosso il mal caduco. Abbassò in fretta gli occhi, che sentí asciutti e quasi bruciati nell'orbita, e gli parve di vedere una chiazza sanguigna scorrere come una macchia di vino sul bianco della tovaglia. Paolino non era tal uomo da accorgersi di questi piccoli fenomeni psicologici, e tutto pieno de' suoi pensieri non aveva posto per i pensieri degli altri. Il caso aiutò l'uno e l'altro a levarsi da quel silenzioso imbarazzo. I due maschietti entrarono in furia ad annunciare che Ferruccio, vestito da pretino, veniva su per le scale. I voti del Berretta erano compiuti, e il piccolo ricciolone, tosato come una pecorella e vestito di roba larga e regalata, veniva a farsi vedere, a salutare i vicini prima di entrare in seminario. Il Berretta, piú felice egli del papa, andava mostrando quel suo figliuolo in nicchio e in veste talare a tutti gli inquilini, che, a seconda degli umori, gliene dicevano di belle e di brutte. La signora Grissini, tutta commossa, Arabella, Mario, Naldo, un po' mortificati, Beatrice, l'Elisa sarta, Demetrio stesso in curiosità, e, in fondo, mezzo nascosto dall'uscio, anche Paolino, uscirono a vedere questo nuovo chiamato da Dio, che col ciuffo tagliato, coi capelli rasi dietro le orecchie, veniva su coperto da un enorme e peloso cappello a tre punte, non suo, col passo impacciato nelle pieghe della veste, colla bocca aperta, colle mani ancor nere d'inchiostro di stampa, che non sapeva dove collocare. Il Berretta, nel suo solito panciotto di fustagno sparso di filaccie, esprimeva la sua paterna contentezza, ridendo in faccia a tutti e alzando ora una mano ora l'altra, come una marionetta. Arabella per un po' fu presa anche lei dalla curiosità e non tolse gli occhi da quel gran cappello: ma assalita a un tratto da una strana commozione, si attaccò al braccio dello zio Demetrio. Ferruccio, il bel ricciolone che essa aveva istruito nel catechismo, il suo piccolo cavalier servente, quando fu in cima alla scala si levò il cappellaccio e si atteggiò in una posizione stanca e umiliata di brutto martire in vergogna. Pareva un uccello spennacchiato. Quella sua testa rasa, quasi ignuda, da cui uscivano le orecchie come due manichi d'una marmitta, quell'annientamento morale e fisico di un bel ragazzo, trasse dal petto della fanciulla un tale scoppio d'ilarità, che per vergogna essa nascose il volto nel panciotto dello zio Demetrio. Questi la trasse in un cantuccio dell'anticamera, e stava per dirle che non bisognava ridere: ma quando le sollevò la testa, vide che invece erano singhiozzi, e che la faccia era un torrente di lagrime. "Ah poverina!" balbettò lo zio Demetrio. "Cominci male anche tu ... ." La curiosità della gente fu in quel momento sviata da un altro grande personaggio, che montava le scale, con un catafalco in testa. I ragazzi, guardando tra i ferri del pianerottolo, non potevano discernere chi fosse e che cosa fosse. "Chi è?" "Che roba è?" "È Giovann dell'Orghen ." "Che cosa porta sul capo?" "Guarda ... che diavoleria ... !" Demetrio si avvicinò a Beatrice e le disse con una voce di umiltà e di preghiera: "L'altro giorno mi avete manifestato il desiderio che fosse vostra: l'ho fatta aggiustare alla meglio, e non potendo regalarvi altro per la circostanza ... ." Giovann dell'Orghen veniva su col passo pesante del sordo, portando sulle spalle e sul capo come un'enorme cuffia la vecchia poltrona di vacchetta a grosse borchie, l'ultima memoria della mamma, salvata dal naufragio di ca' Pianelli. Il piú felice uomo del mondo rideva sotto quel catafalco, come un santo nello splendore della beatitudine. L'Elisa dovette fuggire in camera a buttarsi colla bocca sul cuscino per non farsi sentire. E fece ridere anche la signora Pianelli sulla magnifica idea di regalare a una sposa una poltrona di arcivescovo.

Ammettiamo dunque che il ministroi abbia voluto ricompensare non i meriti reali, ma la buona volontà e la devozione a quelle idee liberali di ordine e di progresso, che hanno sempre informata la mia vita." "Benissimo ... " esclamarono con tre voci diverse i tre ambasciatori. Tenne dietro una battuta d'aspetto, durante la quale Demetrio, innocentemente, soffiò nella chiavetta, traendone quasi un piccolo fischio; e tornò a rosicchiare come un topo che fa il buco per passare. "Li prego dunque di farsi interpreti presso i loro egregi colleghi dei sentimenti della mia gratitudine, e dicano pure che, poiché gli anni mi dànno questo diritto, preferirò sempre essere il loro padre piuttosto che il loro superiore." "Questi sentimenti onorano l'illustre uomo piú di qualunque commenda" concluse di nuovo il Quintina. "Dunque se non le dispiace, commendatore, sabato alle sei avremo l'onore di venire a prenderla colla carrozza a casa sua." "Non si disturbino: se mi dicono il luogo della riunione ... ." "Non permetteremo mai." "Bene, come vogliono. Cercherò di fare onore alla bella compagnia e al cuoco." Risero tutti e quattro piú forte del bisogno, quasi per fare il coro finale, mentre il bravo uomo stringeva la mano all'uno, all'altro e all'altro. Demetrio, mentre gli altri se ne andavano, riuscí con un energico ma…ledet…tissimo! ad aprire il cassetto indurito dove aveva chiuse le sue manichette, la fodera del cappello, un boccaletto di vetro, un bicchiere, qualche altra cosuccia sua, e sí preparò a far fagotto. Il commendatore finse di non accorgersi di lui. Dal contegno del Pianelli non poteva capire s'egli era informato o no della delicata faccenda e non osava rompere il silenzio per non guastar l'aria. Demetrio, dal canto suo, era quasi sul pentirsi d'essersi lasciato trasportare un po' troppo; ma non poteva piú far sparire il biglietto e l'involtino senza dare nell'occhio o senza provocare una questione, che adesso gli era diventata indifferente. E intanto questi due uomini, fingendo di non accorgersi l'uno dell'altro, stavano lí sospesi, come ai due estremi di un'altalena in bilico, dove uno non può cadere, se non fa cadere anche l'altro, e nessuno dei due può andarsene finché la trave resta in bilico. È da queste posizioni incomode, piú che da istinti malvagi, che gli uomini sono tratti qualche volta a farsi del male. Il commendatore, attaccato il cilindro al chiodo, stava tirando la punta ai guanti, mentre dava, in piedi, una prima occhiata superficiale alle soprascritte delle lettere e al fascio degli affari. L'occhio andò naturalmente a cadere anche sul biglietto da cento e sull'involtino. Non capí a tutta prima, prese in mano il misterioso peso, stracciò coll'unghia un lembo della carta, vide un che di lucido, ruppe ancora di piú l'involucro, capí, arrossí come una ragazza còlta dalla mamma con un libro disonesto in mano, infuriò dentro di sé, un tremito nervoso lo prese, smosse, per far qualche cosa, della carta, mentre una parola furibonda, attraversando tutta quella fiammata di vergogna e di sdegno, gli venne due volte sulla punta della lingua: "Tanghero!" avrebbe voluto gridare contro quell'imbecille gaglioffo, che pretendeva di dargli una lezione in ufficio. Ma la bella dentiera di Winderling non lasciò uscire che un suono smorzato come l'onda morta di un tamburo. Demetrio, collocato il cassetto in terra, andava voltando e rivoltando le robe sue, come se facesse un'insalata di stracci. Sentiva quasi al disopra della testa passare lo sdegno di una cosí grande dignità ferita proprio nella sua poltrona, e, per quanto rassegnato a prendere le cose come il ciel le manda, non era ancora cosí maestro nell'arte del saper vivere, perché un resto dell'antica soggezione non gli facesse fastidio e balenío agli occhi. Quando gli parve di aver finito, raccolto il suo fagottello, si avviò, come se non ci fosse nessuno nella stanza, verso la porta d'uscita, diretto al suo nuovo ufficio. Il commendatore, in piedi, dietro la scrivania, lo lasciò andare un poco, incerto anche lui di fingere di non esserci e quindi bevere il fiasco nella sua paglia, o se non era il caso invece di toccare il tempo a questo tanghero dalle orecchie rosicchiate, che si permetteva di dargli una lezione in ufficio. Tra i due estremi scelse un terzo termine, secondo la vecchia tattica dell'uomo oculato; cioè, quando vide che l'altro stava per uscire: "Neh, Pianelli" disse con una voce d'uomo sostenuto sí, ma non in furia, "senta una parola." Demetrio si voltò e venne con tre passi lenti, in preda anch’esso a un tremito convulso, verso la scrivania del suo superiore, e interrogò con una faccia di uomo che ha il sole negli occhi. "È lei che mi ha raccomandato un ragazzo per l'orfanotrofio?" "Difatti, una volta ... " balbettò. "È figlio di un suo fratello, eh?" Demetrio disse di sí col capo, e inghiotti una goccia di saliva. "La ringrazio tanto: mi ha fatto fare una bella figura nel Consiglio. Di che male è morto il padre di questo ragazzo?" Demetrio, come se gli saltasse in corpo un razzo, fece un altro passo, quasi un salto, collocò la roba su una sedia e domandò: "Perché?" "Dimando a lei di che male è morto il padre di questo ragazzo, perché doveva informarmi: era dover suo, e non permettere che una persona rispettabile andasse a raccomandare a persone rispettabili il figlio di uno che si è impiccato per debiti. Che cosa crede? che gli orfanotrofi siano fatti pei figli dei ladri e dei falsari?" Demetrio, non piú cosí ingenuo come una volta, capí benissimo che il signor commendatore esagerava di proposito un fatto inconcludente per darsi della forza, per nascondersi in una nuvola temporalesca di sdegno, per vendicarsi insomma del vivo, picchiando sopra un morto. Volle giustificarsi, però senza andare in furia, e disse: "Scusi, lei sapeva benissimo, anzi meglio e prima di me com'erano andate queste cose, e, se si ricorda, mi ha dato in questo preciso posto anche dei preziosi consigli. Se c'è qualcuno che deve lamentarsi, scusi, cavaliere, dovrei essere io, nel caso, perché ... , perché ... chi ha fatta la piú brutta figura in questa faccenda, chi è stato il piú minchione sono io ... ." "Che mi sta a contare ... " interruppe con un brusco movimento delle mani il commendatore. "No, scusi, lei si lamenta che le ho mancato di riguardo" tornò a dire Demetrio sospinto a poco a poco da una fiumana di cattivi umori, che non sentivano piú la forza degli argini "e io mi permetto di chiedere a lei e al suo buon amico di Novara chi si è fatto piú giuoco della semplicità, della debolezza ... e dei bisogni di una povera gente che, appunto perché povera e debole, poteva meritare del ... della compassione." Sospinto, trascinato, travolto dalla reazione della sua virtú, Demetrio trovò d'aver dette piú parole che non avesse in mente di dire, ma le pronunciò senza declamazione, quasi sottovoce, con un tono e un gesto che conservavano ancora, alla lontana, un'apparenza di rispetto. "Guardi come parla ... " comandò con un alto sussiego il commendatore, e indicando la porta col dito, aggiunse: "Mi vada fuori dei piedi." "Andavo bene: è lei che mi ha chiamato indietro per il gusto d'insultare un povero orfanello. Siccome non ha potuto oltraggiare l'onore di una donna onesta, crede di vendicarsene ... ." Demetrio alzò le mani colle dieci dita aperte. "Esca, dico ... " l'altro gridò, quanto è permesso di gridare a un superiore, facendosi smorto e agitandosi tutto nel piccolo spazio tra il muro e la scrivania. Demetrio, sempre sospinto da una violenza che non sapeva piú imbrigliare, fatto un altro passo avanti, seguitò: "Crede di vendicarsene col gettare l'infamia sul capo de' suoi figliuoli." "Per Dio ... " tornò a dire il commendatore, agitando le carte con un moto convulso: ma non voleva d’altra parte col gridar troppo esagerare lo scandalo, far correre gente, compromettersi in faccia ai subalterni. "Faccia il piacere" tornò a dire con un tono piú dimesso, "se ha delle ragioni, non è questo il luogo." "L'offesa ch'ella ha fatto a quella donna è cosí vile ... " soggiunse Demetrio appuntandogli in faccia un dito. "Di che cosa mi parla?" interruppe il commendatore agitando sotto il naso del Pianelli il foglio della Perseveranza , stropicciato come un fazzoletto, quasi avesse voluto pulir l'aria e far scomparire quelle brutte parole. "Che provocazione è questa? esca, le torno a dire. Che mi viene a contare a me, di quella sua pettegola?" Demetrio lasciò cadere una mano con un colpetto secco sulla spalla del commendatore e gli disse: "Badi a non offenderla di piú, per il suo bene ... ." "Che, che, che ... è una minaccia?" balbettò il commendatore, facendo gli occhi grossi e spauriti, tirandosi piú che poté sul muro. "Badi," e il Pianelli lo fissò coll'occhio cattivo "io non ho mai date lezioni sull'arte di saper vivere, ma posso insegnare a lei e a qualcuno piú bravo di lei come si rispetta una povera donna." "Ehi, di là ... , Bianconi; bravo, venga qui." Il Bianconi, che stava dietro l'uscio ad ascoltare con un gran dolore ai ginocchi, quando capí che il Pianelli perdeva la testa del tutto, entrò, lo prese sotto il braccio, lo tirò indietro: "Andiamo, non dir piú asinerie ... Tu ti senti male ... ." "C'è della gente che dice che io faccio dei guadagni, che ho dei segreti protettori" gridò con una voce falsa e lacerata il Pianelli, che non era piú in grado di misurare la portata e l'estensione delle parole. "Questi sono i miei guadagni. Ma dovessi anche mangiare i chiodi delle scarpe, avrò sempre il diritto di insegnare a lei, e a chiunque piú bravo di lei, il rispetto che si deve a una donna onesta." "Lo meni fuori a respirare dell'aria, Bianconi. È matto; ha bevuto." "Taci dunque ... finiscila" predicava il Bianconi. "A lei e a chiunque piú bravo di lei" tornò a ripetere il povero diavolo dalla soglia dell'uscio, attirando l'attenzione dei portieri e degli impiegati piú vicini. Non era Demetrio Pianelli che strillava, ma qualche cosa o qualcheduno dentro di lui, che aveva bisogno di uscire come il diavolo dal corpo di un ossesso. Era l'uomo morto, che risuscitava colla corona di spine di tutti i patimenti, di tutti gli stranguglioni inghiottiti, di tutte le amarezze, di tutte le vergogne, di tutti i tedî sofferti in una lotta superiore alle sue forze cogli uomini, colle donne, coi vivi, coi morti, e (piú terribile di tutto) con sé stesso. L'uomo morto usciva, come evocato ancora una volta dal nome di quella donna che altri osava insultare in sua presenza: usciva da un apparente letargo di cinismo a protestare, e a vendicarsi un momento per ricadere forse per sempre nel buio della sua fossa, che non si sarebbe schiusa mai piú. Se ne accorse egli stesso quando, tirato dal Bianconi, attraversò l'anticamera in mezzo a un gruppo di persone, che lo guardavano con curiosità e che gli parvero ombre. Si fermò un momento sulla scala, si svegliò, sto per dire, dal suo sogno, e cominciò soltanto allora a capire quello che il povero Bianconi andava ripetendo: "Che ti salta in mente? sei matto? la ti gira? che diavoleria ... A un capo d’ufficio, a chi ti dà il pane ... E che te ne importa a te delle donne? lasciale nel loro brodo le donne ... Hai torto, hai fatto male: già, si vede che non sei guarito: dovevi stare a letto ancora qualche giorno ... Va a casa, Pianelli, lascia passare la scalmana, rifletti: cercherò di fare le tue scuse, dirò che sei malato, che è stato un equivoco, che hai creduto una cosa e invece era un'altra. Anzi dovresti scrivere subito una bella lettera al cavaliere, voglio dire al commendatore ... ." Mentre il buon Bianconi cercava di salvare un amico dal precipizio, il commendatore, vedendo che la cosa minacciava di propalarsi nei corridoi e negli uffici (dove c'è sempre il bell'umore che ha gusto di ridere alle spalle dei superiori) si rivolse ad alcuni impiegati accorsi a vedere, e ridendo come meglio poteva al disopra della sua rabbia e della sua paura, disse loro: "È niente, grazie, vadano pure. Ha creduto che gli si volesse fare un torto, perché ho chiamato il Bianconi al suo posto: è un originale, un misantropo, ha la mania della persecuzione. Che asino! Aveva anche bevuto. Scusi, Caravaggio, apra un poco la finestra. C'è un puzzo d'acquavite, non sentono? Tu, Caramella, portami una tazza d'acqua. E io piú asino di lui a dargli ascolto. Se gli passa coll'aria fresca, bene, se no ... se no…" "Mi sono accorto anch'io poco fa che non era compos sui " disse il Quintina che in questa commedia godeva piú che a teatro. Amico della Pardi, aveva saputo da lei come e qualmente il cavalier Balzalotti non rifiutasse i suoi consigli e i suoi benefici alla bella cognata del brutto cognato, come Beatrice andasse a trovarlo in casa all'ora della dottrina cristiana e come per questa via il Pianelli avesse avuta una promozione nell'organico ... Il piccolo gaudente andava ora a fantasticare quel che poteva essere accaduto nel retroscena, per far nascere in pieno ufficio uno scandalo di quella sorta; non vedeva chiaro, ma intanto godeva in prevenzione dell'affanno con cui il vecchio gattone cercava di coprire le sue, diremo cosí, tenere fragilità. "Altro che compos sui !" esclamò il commendatore "non poteva quasi stare in piedi. Se torna, non lo si lasci entrare: non ne voglio di ubbriachi in ufficio. Farò un buon rapporto ... Tornino al lavoro: grazie, vadano pure… Chi sa che anche questo non aiuti ad aguzzare l'appetito per sabato ... " "Eh! eh! eh!" rise col suo verso di gallina il furbo gobbetto, che, uscito di lí, fece un giro per gli uffici a contare l'allegra storiella. Ricordò i sorbetti che il cavalier Balzalotti soleva pagare alla bella pigotta le sere di carnevale, tra una polka e l'altra, mentre Cesarino Pianelli si divertiva a falsificare i conti di cassa. Ma il piú comico era l'amico di Novara, questo misterioso personaggio, che doveva confortare di biscottini la solitudine della povera vedovella ... mentre l'orso della Bassa sarebbe stato fuori a far la guardia ... , eh! eh! — Erano discorsi a spizzico, a scatti, con molti vuoti in mezzo, dentro i quali la fantasia di ciascuno poteva introdurre tanto un granello di pepe, come uno spicchio d'aglio, discorsi che il gobbetto metteva in rilievo nell'aria con tutti i segni cabalistici della sua mano nervosa e rachitica, rannicchiandosi nello scrigno, stirando le gambe nei calzoni, grattandosi la barbetta sul collo, mandando dal ventre rotondo e grasso un nitrito di cavallo ... he! he! — che andava a finire in un cocodé di gallina che fa l'uovo. Il giorno dopo, un venerdí, un telegramma del Ministero sospendeva il signor Demetrio Pianelli dall'impiego fino a nuovo ordine. Al telegramma doveva seguire una lettera ministeriale. Ed il giorno dopo, il sabato, ebbe luogo al Giardino d'Italia il pranzo che gli impiegati offrivano al commendatore.

Quando hanno saputo che Cesarino era morto e che io, suo fratello, m'incarico un poco delle faccende, i creditori si son mossi tutti come le mosche, se la pigliano con me, pretendono che io abbia a pagare ... Io? con che cosa pagare? e che c'entro io?" Demetrio, tratto il suo fascio di cartacce, sciolse lo spago che le legava insieme, e cominciò a spiegarle sulle ginocchia. "Arabella!" chiamò la voce chiara e argentina di Beatrice. "Che cosa vuoi, mamma?" dimandò la bambina, che stava fuori in sentinella. "Portami il caffè." Demetrio frugò un pezzo nella tasca di sotto e trasse l'astuccio degli occhiali. Ne uscí un paio con grosso cerchio d'osso ch'egli appoggiò alla punta del suo naso color patata, assicurando le grosse spranghette tra l'orecchio e il ciuffo rossiccio dei capelli. Inarcò le sopracciglia, e contraendo la pelle della bocca, come se provasse della nausea, cominciò a leggere sopra una pagina: "Ecco, Angelo Boffi, orefice e bigiottiere. Per braccialetto d'oro con zaffiro, lire 150 ... ." "È un braccialetto che Cesarino ha voluto regalarmi fin dal Natale dell'anno passato." "Fu pagato?" "Io credo di sí." "Il signor Boffi dice di no ... ." Beatrice cominciò a guardarsi intorno, come se cercasse un testimonio. Non vide che gli occhi amorosi di Giovedí, che la contemplavano con soave tenerezza. Vedere il povero cane e sentirsi tutta rimescolare fu un punto solo. Ruppe in un singhiozzo, stese le braccia alla bestia, che le saltò in grembo, e si rannicchiò a piangere anche lui. "Dove sei stato fin adesso? o povero Jeudi, o Jeudi ... dov'è il tuo padrone?" Giovedí rispondeva alla sua maniera, mugolando. Demetrio chinò il capo, lasciò cadere la mano sul ginocchio e aspettò che la padrona e il cane finissero di piangere. Cogli occhi fissi nel vuoto, il pover'uomo pensava al numero dei gradini che Beatrice doveva fare per discendere dal suo trono di cartapesta fino alla triste realtà, che la circondava da tutte le parti. "Non fu pagato questo, come non furono pagati gli altri" riprese a dire con un tono uguale e freddo, dopo un istante. "C'è qui un altro conto del signor Cena parrucchiere per ... per ... saponi e profumerie ... lire 56 ... Diavolo, questo non è nemmeno pane di segale." Beatrice arrossí, si rizzò sulla sua persona, e tornò a guardare il cognato orangoutan, con una espressione di sarcasmo e di paura. Demetrio, sempre a capo basso, col coraggio inesorabile e pietoso del chirurgo che opera sulla carne viva, scorrendo uno dopo l'altro quei benedetti conti, seguitò: "C'è un conto anche dal pizzicagnolo, circa duecento lire; c'è quello della sarta Schincardi, un'ottantina di lire anche qui. C'è persino un vecchio conto del pasticciere Dragoni, che risale nientemeno che al battesimo di Naldo e che non fu mai pagato. Anche questa non è polenta ... Conto del calzolaio Bianchi in lire ... cin ... cin ... quecento settantasei ... Una bagattella!.. Conto non quietanzato De Paoli per tap ... tappezzeria ... dice tappezzerie? duecento quarantacinque e settantanove c ... entesimi." Man mano che leggeva, la fronte del bifolco si rimpiccioliva nella contrazione delle ciglia in un gruppetto di grinze, sulle quali veniva a cadere a foggia di tettuccio il piovente duro e diritto dei capelli. Arabella entrò col vassoio del caffè e col bricco in mano. Con la prontezza della sua intelligenza essa aveva già capito che in quel suo zio ruvido e bifolco c'era l'angelo custode travestito da ortolano. La scomparsa improvvisa del papà, la fuga precipitosa, il modo misterioso in cui aveva sentito parlare alle Cascine, le poche frasi udite all'entrare in sala, avevano già detto alla povera tosetta che una grande disgrazia stava sulla sua casa e che forse lo zio Demetrio meritava di essere ascoltato. Dalla cucina veniva un gran chiasso di voci e un gran picchiamento. "Che fanno quei matti?" chiese Beatrice. "Dicono che hanno fame e picchiano sulla cassa della legna. Il lattivendolo non è venuto, e nemmeno il fornaio." "Hai mandato Ferruccio?" "Ma non c'è ... " rispose Arabella con una leggera impazienza, in cui si sentiva il tremito del pianto. "Bene; di' loro che stiano quieti che adesso vengo subito." "Settimo: Conto non quietanzato del farmacista ... ." "Scusate, Demetrio," interruppe questa volta con un atto d'impazienza Beatrice "io non so nulla di questi conti che dite voi ... ." "Non volete dire con ciò che me li invento io ... ." "Non sono in grado di dire se questi conti siano o non siano stati pagati. Lasciateli qui che li farò vedere a mio padre ... ." "Non cerco di meglio ... Ma non vorrei che questi poveri figliuoli andassero di mezzo. Pensiamoci, per carità. Tiriamo i remi in barca ... Che cosa può fare il signor Chiesa per voi e per la vostra famiglia?" "C'è ancora tutta la mia dote. Son quarantamila lire, non un quattrino. Vostro fratello non ha sposato una contessa, ma nemmeno la figlia della serva." "Può il signor Isidoro mantenere oggi le sue promesse?" "Adesso subito forse no, perché è in causa coll'Ospedale, ma fra sei mesi, fra un anno?" "Da quanti anni dura questa causa, lo sapete? quante volte fu già perduta? quante migliaia di lire furono sprecate in questa benedetta questione?" "Mio padre è un uomo di buona fede e trovò sempre degli avvocati di poca coscienza." "Lo so, non facciamoci illusioni ... ." "Che cosa volete dire? che debbo forse mandare i miei figliuoli a fare il ciabattino?" Beatrice aveva letto un romanzo, Lo Sparviero e la Colomba , in cui una giovine bella e ricca ereditiera lottava contro le insidie d'un gesuita che agognava alla sua eredità. Ebbene, le pareva il caso suo. "Per fortuna" pensava "so quel che vali! ma non ci riuscirai ... " E si sforzava, nella sua semplicità di spirito di reagire e di tirarsi su impettita con tutta la persona, come faceva nel suo palchetto quando il marito la conduceva al teatro Dal Verme. Demetrio sentí una gran tentazione di buttarle in viso i conti e di andarsene. Ma gli venne in mente il povero Cesarino disteso sotto una stuoia; gli venne in mente l'obbligo morale che egli si era assunto verso il Martini per salvare l'onore al nome dei Pianelli; gli risonò nell'orecchio la voce aspra del padrone di casa; sentiva nello stesso tempo il chiasso che facevano quei ragazzi di là, picchiando nella cassa della legna ... Pensò che il sor Isidoro era un pazzo, fallito dieci volte per la sua cocciutaggine nel far cause a tutto il mondo, e che sua cognata era una testa d'oca. Per tutte queste ragioni, dopo aver trangugiato molto fiele in silenzio, mentre Beatrice finiva di sorseggiare il suo caffè, rilegato collo spago il fascio dei conti, li collocò sul tavolino, e disse con un tono di voce in cui si sentiva lo sforzo di dominarsi: "Se io volevo dare qualche consiglio, prego mia cognata a credere che non lo facevo per mio interesse. Chiamato in un momento triste, io pensavo che fosse mio dovere di coscienza di mettervi al fatto dello stato delle cose: non vi ho detto tutto ... perché è inutile che sappiate tutto. Amen! Io vorrei vedere qui vostro padre in luogo mio a pagare questi conti; ma forse il signor Chiesa dirà che i vostri figliuoli portano il nome Pianelli e che non tocca a lui di salvarli dalla miseria e dalla fame ... ." "Che cosa dite?" esclamò Beatrice irritata. "Lasciatemi finire e poi vi toglierò l'incomodo per sempre. È inutile farsi delle illusioni. Voi non avete piú un soldo della vostra dote, non avrete un soldo di pensione e con sei o sette mila lire di debiti dovrete provvedere a voi e ai vostri figliuoli." Beatrice tornò a sorridere ironicamente. Il vecchio bifolco credeva forse che ella si lasciasse infinocchiare da queste declamazioni. Sbagliava di grosso. "Io ero venuto per dire che bisognava pensare seriamente, subito, radicalmente, ai casi nostri, o tanto vale prendere i ragazzi e mandarli a suonare l'organetto." "E che cosa bisognerebbe fare? sentiamo" provò a dire Beatrice con aria quasi di sfida. E intanto si paragonava nella sua mente alla gatta che difende i suoi piccini dalle unghie d'un brutto cagnaccio. "Punto primo, si cominci a vendere tutto quello che non è necessario." "Vendere!" esclamò Beatrice, spalancando tanto d'occhi. "Sí, vendere, o restituire quello che non si può pagare ... ." "Ah sí?" disse con un sorrisetto ironico la povera donna. "Punto secondo, bisogna restringersi nelle spese, lasciare le apparenze, non curarsi tanto della gente e rivoltare le maniche, come si dice ... " "Ah sí?" tornò a dire Beatrice, pallida, movendosi da una poltrona all'altra. "Non è il caso di mandare questi figliuoli a fare il ciabattino; ma certo saremmo tutti matti, se pensassimo di farne fuori degli avvocati. Via via, qui c'è della roba, voi avete portato della roba ... ." "Ah chiedo scusa!" interruppe questa volta Beatrice con un impeto straordinario di energia, "della roba mia la padrona sono io ... ." Demetrio, che nel calore e nello zelo del suo cuore s'era abbandonato quasi all'illusione d'essere arrivato a tempo a far del bene, a questa brusca interruzione, al modo obliquo con cui lo guardava la donna, capí di essere stato prevenuto. Perdette l'equilibrio, si scoraggiò, masticò ancora un fiume di cose amare, raccolse i suoi nervi, spianò le sue rughe irritate e con una voce che cercava d'essere fredda per non essere velenosa, soggiunse: "Scusate, questi debiti io non posso pagarli ... ." "Lo so, non è la prima volta che non potete pagare i vostri debiti ... ." Questa era la frase che il signor Isidoro aveva messa in bocca a sua figlia nel caso preveduto che Demetrio si fosse fatto avanti coi soliti raggiri, e alludeva alla famosa dote di mamma Angiolina. Demetrio ricevette il colpo in pieno petto, chiuse gli occhi, impallidí sotto la scorza dura e nera del suo viso color patata, mosse una mano quasi volesse col gesto aiutare la parola a venire fuori; ma un groppo di pianto stizzoso e furibondo lo strozzava alla gola ... Col dito secco segnò tre volte il fascio dei conti che lasciava sul tavolino, si rannicchiò nelle spalle, sempre con la bocca impiombata dall'ira e dal dolore, e uscí dalla saletta senza dir nulla. Un grimaldello non avrebbe potuto aprire quella sua bocca impiombata di dolore e di sdegno. Uscí, traversò la cucina, smarrito, mal pratico dell'appartamento, passò in mezzo ai due bimbi seminudi che picchiavano e strillavano di fame, e finalmente trovò l'uscio dell'anticamera. Fu un miracolo se si ricordò di prendere il cappello e il bastone. Fu pure un miracolo se non cadde dalla scala. Il Berretta lo chiamò di nuovo: "Ehi! ehi!" dal fondo dello stanzino. Ma egli non sentí o non volle sentire. Uscí; prese la strada a man destra verso il centro, non pensando nulla e non ripetendo nel fondo piú oscuro del suo pensiero che una parola sola: "Asino!" In questa parola, che rappresenta un animale sciocco e paziente, concentrava tutta l'ira, il dispetto, il dolore, la vergogna dell’offesa ricevuta, e la vergogna della sua incapacità morale. Per via Torino, San Giorgio, Zecca Vecchia, uscí al Bocchetto e andò in ufficio. Lavorò meccanicamente, come al solito, senza sbagliare, senza parlare; se non che, di tanto in tanto, come al girare di un quadrante, scoccava in lui quell'unica parola in cui era andata concentrandosi tutta la sua dialettica: "Asino!"

Anche un Paolino qualunque, che abbia cavalli, carrozza, una stalla piena, tre o quattro cascine popolate di oche e di galline, è qualche cosa di piú allegro e di piú vario che il passare la vita in una vecchia e quasi lurida casa del Terraggio, colla prospettiva del Naviglio melmoso, che manda su ogni sorta di malanni, nel perpetuo stordimento di una fabbrica che fila nastri e noia, noia e nastri. Quel che rispondesse a Beatrice non si sa: sembra però che vincessero la tentazione, il capriccio e la curiosità, perché il mercoledí, un'ora prima di sera, una carrozza di tipo campagnuolo, a due cavalli, si arrestò davanti alla fabbrica del signor Melchisedecco Pardi. Palmira partí sola alla volta delle Cascine. Secco arrivò appena a tempo per sporgere il capo dalla finestra dello studio e a gridare: "I miei complimenti; portami i confetti." La sera andò a far la solita partita a tresette ai Tre Scanni ed ebbe un monte di carte belle. In una mano sola accusò undici punti, e due volte di seguito i tre assi. "Caro lei, lo faccio arrestare" saltò su a dire il signor delegato Broglio, della vicina Sezione di Sicurezza, che non mancava mai al solito tavolino. "Questo si chiama rubare e non vincere. Faccio presto, sa: ho le mie guardie in via Lanzone e lo butto in cella a passare la notte." "Allora sí, povera signora Palmira ... " disse il compagno che vinceva col fortunato mortale. Secco rideva, soffiando la contentezza dalle gote gonfie, e picchiando con tremendi colpi le carte sul tappeto verde. "Fortunato nel giuoco, sfortunato in amore." "Tre assi ... " accusò per la terza volta il signor Pardi, chiudendo gli occhi e appoggiandosi coi gomiti grassi alla tavola per ridere in equilibrio. Il delegato, che perdeva già la terza partita, mormorò: "Tre assassini!" e, volgendosi al ragazzo dell'osteria, gli disse: "Guarda se c'è un agente lí di fuori ... ." Il Pardi tornò a casa piú tardi e piú caldo del solito. Entrò nell'andito buio al lume di un cerino e prese le lettere, che trovò nella cassetta ai piedi della scala. La donna di servizio uscí col lume e, mormorata la buona notte, se ne andò, lasciandolo solo nella deserta camera nuziale. Al di sotto della calda allegria che suscitava il Valpolicella dei Tre Scanni , la vista di quel letto vuoto a man sinistra destò uno strano sentimento o presentimento di malinconia, come se Palmira non fosse andata per un giorno a divertirsi a uno sposalizio, ma gliela avessero portata via morta. Era anche questo un effetto del bicchiere, che eccitava in quel buon uomo linfatico e grasso i pensieri patetici, che fanno piangere, mentre gli altri ridono e cantano volentieri quando li rischiara un po' di lumen luminis . Fece passare alcune lettere; buttò in disparte le solite fatture, gli avvisi commerciali, e si fermò a contemplare una piccola busta, attratto da una scrittura grossa a spina di pesce, che gli parve di riconoscere. Stando in piedi col cappello tondo quasi sugli occhi, il sigaro spento in bocca e il bastone sotto il braccio, ruppe la carta e lesse su un biglietto di visita del cavalier Lanzetti le seguenti parole: "Dimani scade la nostra cambiale; non si potrebbe rinnovarla? Gli affari sono stagnanti, e m'è mancato anche il baritono. Potrei intanto offrirle un palco per tutta la stagione." E piú sotto, conficcato nel piccolo angolo rimasto libero: "Per sua norma, Altamura è a Milano già da una settimana. L'ho saputo soltanto ieri." Tornò a leggere da capo: "Dimani scade la nostra cambiale, ecc.." E piú sotto: "Per sua norma, Altamura ... ." Gli occhi del signor Pardi si sollevarono e andarono a guardare, senza fermarsi troppo, il posto del letto a mano sinistra. Collocò il bastone sulla tavola, vi pose sopra il cappello, e data una rapida e paurosa occhiata alla porta, tornò a leggere la terza volta il biglietto, avvicinandolo piú che poté alla fiamma della candela. Lo buttò sulla tavola con una espressione di schifo. Era una trappola: ci voleva poco a capirla. L'egregio cavalier Lanzetti — oggi sono cavalieri anche gl’impresari e i suggeritori — avendo bisogno estremo che la cambiale fosse rinnovata, cercava di farsi dei meriti, inventando un Altamura a Milano, mentre Altamura cantava a Madrid, e la Gazzetta dei Teatri annunciava la sua prossima partenza per Montevideo. "Un cantante che fa la stagione a Madrid non passa da Milano per andare in America, caro signor cavaliere dalle cambiali insolvibili. Sarà per un'altra volta. Io ti posso regalare anche tre cambiali, ma non voglio che tu mi creda cosí gambero da bevere ... da ritenere che il signor Altamura è a Milano già da una settimana ... ." Il Pardi rideva con sé stesso, movendo tre o quattro passi nella stanza, fermandosi a rimirare con attonita attenzione la gamba di una sedia, stringendo nelle dita in un fascetto solo i peli dei baffi e del piccolo pizzo di barba; poi girava sui tacchi, dava un'altra occhiata di volo al letto ... Palmira non era quasi mai uscita di casa tutto quel tempo. Da qualche mese in qua si mostrava docile, discreta, savia, tollerante. Lettere non ne riceveva piú, e nemmeno giornali, dopo la gran burrasca di quel giorno che l'aveva còlta sulla porta della Posta. Essa non voleva nemmeno andare alle Cascine, al matrimonio della signora Pianelli, per non fare la spesa di un vestito nuovo: era stato lui a cacciarla via, perché prendesse una boccata d'aria, povera diavola ... Stava ancora concludendo il suo ragionamento che già la mano aveva aperto, operando per conto suo, un cassettone, in alto, dove Palmira teneva i fazzoletti, le gioie d'uso, le lettere, il borsellino. Quando si accorse di commettere una stupida ed inutile indiscrezione, spinse e chiuse con violenza, intascando sbadatamente la chiave. Non era il caso di credere che prima di andare alle Cascine, Palmira avesse a incontrarsi con ... qualcuno. Impossibile. Come poteva sapere questo qualcuno che il matrimonio della signora Pianelli era fissato pel giovedí mattina, e che il signor Paolino avrebbe mandata la carrozza a prendere Palmira il mercoledí? Ad ogni modo bisognava sempre supporre che Altamura fosse a Milano, mentre la Gazzetta dei Teatri dava per certo che egli aveva accettata una scrittura per l'America del Sud, dove i mariti non fanno complimenti e piantano fior di coltelli nel cuore ai Trovatori . Che diavolo gli passava mai per il capo? Ecco in qual maniera un uomo può esser felice per tre assi a tresette, e cinque minuti dopo diventare il piú disperato degli uomini per l'ombra di un'idea. Frugando nelle tasche della giacca, per una morbosa inquietudine e quasi curiosità delle mani, vi trovò una chiavetta. Da qual parte questa chiave? Non si ricordava già piú. Stette a guardarla con grossi sopracigli, finché gli venne in mente ch'era la chiave del cassettone. Aprí di nuovo il cassetto in alto, cercò, frugò, trovò una lettera, corse presso la candela. Era la lettera della signora Beatrice ch'egli aveva aperta e letta a Palmira, un gentile invito e non altro, a meno di credere che anche Altamura fosse stato invitato alle Cascine ... Ma se Altamura non era a Milano, non poteva essere nemmeno alle Cascine. Se era in America, non poteva essere in Italia. È vero che per poter dire che un uomo canta in America bisognerebbe essere là a sentirlo, ma d'altra parte, per credere la metà di quel che gli passava per il capo, bisognerebbe ammettere che l'uomo è una bestia feroce, e la donna la madre delle bestie feroci, che il mondo è una tana di tradimenti, che non c'è piú né legge, né fede, e che gli assassini di strada sono i piú galantuomini, perché almeno mettono a rischio la pelle. In queste riflessioni spasmodiche, colle quali il povero geloso procurava di assopire i suoi sospetti, cominciò a svestirsi. Si levò la giacca, che appese al solito chiodo, e caricò l'orologio. Portò l'orologio all'orecchio per sentirne i battiti: lanciò uno sguardo disperato all'altra parte del letto. Era mezzanotte. Palmira doveva essere arrivata da cinque ore almeno alle Cascine. Finite le presentazioni e il trattamento dell'acqua dolce, a quest'ora forse dormiva insieme alla sposa ... Coll'orologio in mano, cogli occhi fissi al quadrante, col panciotto slacciato sul petto, il Pardi seguiva ansiosamente il movimento quasi invisibile dell'indice, come un dottore che conta i battiti di un moribondo. Se fosse stato sicuro di poter trovare il Lanzetti al Biffi, dove andava di solito, sarebbe uscito a cercarlo. Non era ancora deciso se uscir di casa, o se buttarsi a dormire in santa pace, che, rimessa la giacca e col cappello sugli occhi, passava in fabbrica a far qualche cosa per ingannare il tempo. Non si dorme con un ferro rovente che t'infila il cuore. Entrato nel vasto camerone, dove stavano schierati in due grossi corpi i suoi duecento telai con una stretta corsía nel mezzo, ombre grandi e grottesche svolazzarono su per i muri al passare della candela. A mezzo della corsía, che metteva al bugigattolo dello studio, si fermò, e, premendo coll'unghia l'orlo e le croste della candela, tornò a rifare il suo ragionamento, mescolandovi ancora la geografia, la Gazzetta dei Teatri e la probabilità che il mondo sia una tana di ladri e di assassini. La testa, ridiventando pesante, piombava di nuovo sul petto, e nell'ombra della notte, nella fredda e livida compagine de' suoi duecento telai che l'avviluppavano come in una rete dura di ferro e di nodi scorsoi, un'accusa cupa e solenne, sviluppandosi dal fondo piú cieco della sua vita, saliva con un gran turbamento del sangue fino alla sede del pensiero. Che fossero già d'accordo? Che si trovassero già abbracciati in un sicuro nascondiglio? Si può diventare ubbriachi pel sangue che va alla testa. L'alba trovò il signor Pardi curvo sui mastri e sul libro campionario, assopito, piú che addormentato, in una dolorosa stanchezza, col corpo mezzo intirizzito dal fresco delle ore mattutine. Alzò la testa. Se avesse potuto guardarsi in uno specchio e vedere il colorito scialbo, i capelli duri e arruffati, l'occhio cinericcio e spento, avrebbe creduto d'essere molto malato. Tuttavia la luce chiara e onesta del sole che entrava rubicondo per le sei grandi finestre, sbattendo sui congegni bruniti dei cilindri e dei pettini, dissipò molti dei fantasmi che lo avevano assalito la notte. Rilesse ancora una volta il biglietto del cavalier Lanzetti, cercò e ritrovò nel cassetto segreto della scrivania la raccolta della Gazzetta dei Teatri , ch'egli leggeva attentamente dal marzo in poi, interessandosi al movimento di tutto il personale mimico-lirico- danzante del paese, e ritrovò facilmente una notizia, già segnata con matita rossa, che diceva: "Il celebre Altamura accettò per l'agosto un lauto impegno al teatro dell' Opera di Montevideo, dove l'esimio artista ha lasciato indimenticabili impressioni nell'intelligente colonia dei nostri connazionali. Auguriamo al nostro illustre amico larga messe di allori e di pesetas ." "Anch'io" mormorò il Pardi, associandosi di cuore all'augurio. "Ecco la prova stampata della bugia che farò scontare al cento per cento al signor Lanzetti." Intascò il giornale, accese il sigaro, che gli teneva alla mattina il posto del caffè nero, e, mentre le operaie cominciavano a entrare in fabbrica, uscí coll'intenzione di trovare in qualche buco l'impresario e di farsi spiegare l'intreccio di quest'opera buffa. Non erano ancora sonate le sette, quando, venendo per la via stretta di San Simone, nella corrente rumorosa dei muratori e degli operai, che ogni mattina inondano Milano, sbucò nel largo crocevia del Carrobio, già vivo e agitato come deve essere il cuore di una città grande piena di affari e di interessi, che non ha troppo tempo per dormire. Sapeva che i Pianelli abitavano in Carrobio, anzi si ricordò d'aver veduto Palmira uscire da una porta presso il droghiere, quel giorno che i coniugi Pardi s'erano trovati col tempo in burrasca, seduti, l'uno in faccia all'altra, nel medesimo tramvai. I piedi, che non sempre ragionano male come il cervello procura di far credere, ve lo portarono diritto. "Abitano qui i signori Pianelli?" chiese al portinaio. "Abitavano" rispose il Berretta, tenendo sollevata una scopa in mano come un campanello. "Però c'è la signora Beatrice. In quanto al signor Cesarino, saprà bene che ... ." "La signora è in campagna?" "Oggi è a Milano. È arrivata ieri a prendere la figliuola che deve fare gli esami." "Ieri, va bene: ed è partita" seguitò a dire il Pardi, sforzandosi di correggere gli spropositi di fatto che diceva il sarto. "No, no, è a Milano" confermò il Berretta. "Ha qui ancora quasi tutta la roba." "Che c'entra? deve sposarsi stamattina." "Ah ... io non so." "Insomma, c'è o non c'è?" "Chi?" domandò il Berretta, che si lasciava stordire per poco, sollevando gli occhi in faccia a questo signore grasso, che pareva in collera. "Avete detto che la signora Pianelli è a Milano" riprese a dire il signor Pardi colla pazienza di un professore, che torna a spiegare un problema astruso. "Sí, diavolo! le ho portata ieri sera l'acqua per lavarsi la faccia." "Fate il piacere di andar su e ditele ... " il Pardi pescò nel taschino del panciotto quei cinque soldi che occorrono per far correre un uomo "ditele che c'è un signore che desidera parlar con lei subito subito." "Vado in un momento." Secco si lasciò cadere coll'abbandono pesante dell'uomo stanco su di una sedia e si appoggiò al tavolo, in mezzo ai ritagli e alle filaccie, nella luce miope e sonnolenta che mandano a Milano le finestre dei portinai, senza pensar nulla di preciso, ma ripetendo solo con una espressione sforzata e quasi di sprezzo: "fare gli esami!" frase che, caduta come un ciottoletto negli addentellati dei suoi discorsi interni, urtava e guastava il meccanismo del raziocinio. Il Berretta tornò a dire che la signora Beatrice, dovendo uscire per alcune spese, sarebbe venuta dabbasso tra cinque minuti. Il Pardi non rispose, e dopo aver guardato il portinaio con un'aria di compatimento, come se il Berretta non sapesse quel che veniva a contare, si raccolse, si appoggiò colle braccia sui ginocchi e procurò di non pensar piú nulla, finché non fosse uscita questa signora Beatrice. Avesse dovuto aspettare non cinque minuti, ma cinquanta secoli, non sarebbe uscito di lí senza aver parlato coll'amabile sposina. Il portinaio venne a contare delle storie in cui entrava ancora Cesarino, il solaio, la trave, la mano ... che so io? tutte parole che non arrivavano fino alle orecchie di quell'uomo immerso fino ai capelli in una profonda oscurità, e che sentiva sé stesso come un sacco imbottito di stoppa. Di fuori il Carrobio mandava i suoi gridi, i suoi strepiti, i suoi rombi di carri pesanti, accalorandosi nella vita crescente della giornata. Dalla porta entravano e uscivano uomini, donne, ragazzi. Chi consegnò una chiave, chi ritirò una lettera, una donnicciuola in cuffia si lamentò del gatto, che andava sempre davanti al suo uscio ... che era una sporcizia. Un fornaio lasciò tre panini sul tavolo del sarto e se ne andò urtando nei vetri col cavagno. Nella corte strideva a brevi intervalli il manubrio della pompa, con un tonfo di roba pesante; risonavano voci di donne, piagnistei di bambini ... Tutti questi particolari, occuparono, distrassero un momento la sua attenzione durante il buon quarto d'ora che la signora Pianelli si fece aspettare. Erano sottili ricami sopra un fondaccio senza colore. La vita esterna arrivava onda morta fino al suo capo, ma non aveva la forza d'entrarvi. Se avessero gridato al fuoco, se la casa fosse crollata alle sue spalle, il signor Pardi non si sarebbe mosso di lí prima d'aver veduto e parlato colla signora Pianelli. Se essa era arrivata il giorno prima a Milano, come poteva aver invitato Palmira a prender parte alle presentazioni di famiglia? Che il matrimonio fosse andato a monte? "È qui" disse finalmente il Berretta, che stava in sentinella per farsi vedere degno dei suoi cinque soldi. Il Pardi si alzò di scatto e corse a incontrarla ai piedi della scala. Lo spingeva un'ultima speranza: che non fosse lei. Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

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