Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 4 occorrenze

O sia che una villanella riluttante, puntandogli contro il ginocchio, gli abbia dato il gambetto, o sia che lo abbia rovinato, come l'impero romano, la propria mole, fatto sta ed è, che stramazzò per terra e si slogò una coscia. Non se ne adontò per nulla e ricusò di essere portato a casa per la fasciatura; volle che il medico venisse a mettergli la gamba a posto nello stesso tratto di strada, in cui egli era ruzzolato. Sdraiatosi nella polvere rizzò la testa e si addossò ad un paracarro per aspettare comodamente il dottore, e intanto per rendere vieppiù comoda l'aspettazione si fece recare dall'osteria un altro doppio litro con bicchieri. Beveva e costringeva a bere la moglie e le figliuole accorse e gli altri assistenti, e offriva da bere a tutti i passanti, dicendo che voleva da buon cottimista fare gli onori dello stradone provinciale. Venuto il medico, non si lasciò toccare da lui, se prima questi non aveva toccato con esso il bicchiere, e quando finalmente gli permise di accingersi alla operazione, pretese a forza che gli applicasse alla gamba slogata alcune doghe di un barile sfasciato, che egli aveva comandato gli recassero da casa. Guarì completamente, ma la cordiale riconoscenza per la bella cura fattagli dal medico non gli tolse dall'animo un'inconscia invidia che gli era trapelata addosso; un'invidia che si potrebbe chiamare del mestiere, se fosse mestiere quello di dire buffonate. Non c'era caso che egli ridesse alle spiritose barzellette del medico; questi per sua parte, pur avendo un'indole così risanciona, diventava serio, quando Ambrogione sferrava i suoi lazzi, e nella superiorità della propria educazione ostentava di non avvertirli neppure. Questi rapporti tesi erano gravidi di una sfida, come li giudicò un uomo politico, il farmacista. Infatti nell'osteria e poi nel paese intiero erano nati quasi due partiti pei due contafavole. La parte più intelligente e la società più fine del paese, le signore, il segretario comunale e il farmacista tenevano pel dottore. Erane specialmente devoto ammiratore il panattiere Gregorio, il più indefesso, mansueto e silenzioso bevitore del Borgo, quegli che senza giuocare accettava di far parte di qualsiasi partita, in cui vi fosse per posta qualche bibita; tantoché chicchessia entrando nell'osteria, e disagiato a bersi una bottiglia intiera, ne proponeva sicuro la società a Gregorio, e questi non diceva mai di no; onde gli capitava magari di avere carature in quattro o cinque tavolini; qua per la gazosa, là per la birra, o per il caffè, o pel vino del bottale, o per il nebiolo imbottigliato; ed egli beveva e pagava da per tutto con una flemma e una soddisfazione ammiranda. Anche i mugnai parteggiavano pel dottore; insomma erano con lui quasi tutti quelli di arte bianca. Invece quelli di arte nera, come il Gran Tommaso carbonaio, Pietro il fuligginoso fabbro ferraio, il maestro cappellano, ecc. erano partigiani del forte Ambrogione. Dicevano le vecchie dell'Opera Pia che anche il diavolo teneva per lui. Però nella sua banda egli prediligeva l'organista Protaso e il bel Rolando, che formavano con lui un terzetto musicale. In effetto egli, famoso lavoratore ed ubbriacone, era anche a tempo avanzato vigoroso suonatore di fisarmonica, e si faceva accompagnare appunto dal vecchio organista che conosceva abbastanza bene il flauto, il violino e il contrabasso, e dal giovinetto Rolando che grattava la chitarra con un'aria ispirata. Anzi quest'ultimo pareva il Ganimede di quel Giove. Il bel Rolando era stato definito dal parroco con proprietà di linguaggio quale scioperato; ma il più mite neologismo degli altri borghigiani lo riteneva per un semplice disimpiegato. Figlio di un particolare (contadino proprietario), aveva fatte le scuole tecniche; ma non si era spinto più in là, tra per la poca voglia che egli aveva di studiare, e per il desiderio della mamma di averlo attaccato ognora alla gonnella e per la stufaggine, che aveva suo padre, di sprecare i denari a fine di mantenergli i vizi in città. Nel villaggio, alieno dai lavori di campagna, senza mestiere, egli consumava il tempo bruciando pipate di tabacco da tre soldi, perseguitando e corrompendo le più belle ragazze del villaggio. Molti matrimoni andarono rotti per cagion sua. Esercitava una languidezza imperiosa, irresistibile da gatta morbida e da tenore brigante, teneva sulla testa due ditate spesse di capelli biondi come l'oro, spartiti in metà come li spartiscono le donne: possedeva un mostaccino rotondo, come nelle maschere da fanciulle, e nelle Sirene da giostra o nelle ballerine per pipe di schiuma: aveva gli occhi grossi, azzurri, di cobalto; la camicia di flanella senza solino gli lasciava libero il collo alto e ben tornito: portava un'elegante cacciatora con bottoni bianchi, orlata di refe rosso. Era un bel vizioso. Persino la nominata Erzegovina, e poscia ribattezzata Krumira, la cortigiana celebre del Borgo, che faceva il servizio di tutte le caserme dei Carabinieri del circuito, sentiva delle debolezze gratuite per lui; ed una volta per amore di lui aveva lasciato bussare invano alla sua porta il deputato capitato in vacanze, quantunque fosse già stato due volte segretario generale del Ministero di Agricoltura e ministro in predicato. Quando, per usare una frase tecnica del paese, qualche ragazza alzava il grembiule prima del tempo, lo si attribuiva al bel Rolando e si attribuivano a lui i gettatelli che si trovavano sulla porta della chiesa. Onde una volta il feroce cottimista gli disse: ? Mio caro! tu pel bilancio degli esposti costi alla provincia più che l'avv. Denticis, che noi cottimisti non possiamo andare a trovare, senza mostrargli il gruzzolo dietro la schiena. Quel satanico fanciullo piaceva, si appoggiava e quasi si maritava al Satana adulto, come la grazia alla forza, l'edera all'olmo. Ambrogione se ne serviva qualche volta per farsi fare i conti del negozio dei bozzoli, su cui speculava e versavasi come un maroso nei mesi di giugno e di luglio, o per l'affitto delle trebbiatrici, nel cui acquisto si era gettato come un veltro ferito, e per fargli conteggiare i mucchi di ghiaia su cui frodava, e lo retribuiva con gite di piacere e merende. Questa era l'unica occupazione lucrosa, cui attendesse il bel Rolando nel suo ozio geniale. Qualche volta d'inverno coltivava ed enunciava l'idea di raccomandarsi poi al deputato, già segretario generale, e futuro ministro dell'Agricoltura, e domandargli qualche impiego. Ma, sopraggiunto l'autunno, egli si sentiva così bene, si gatteggiava così tiepidamente nel suo dolce far niente, che non pensava neppure per sogno di andare ad umiliarsi all'on. ex Segretario Generale e promesso Ministro, e preferiva fargli prendere il fresco di fuori, quando questi col portabiglietti pinzo si degnava di bussare all'uscio della Erzegovina poscia Krumira, e nei pochi casi in cui lo lasciava entrare, si divertiva poi a fumare i sigari d'Avana da 24 soldi. L'organista Protaso, un vecchio sbarbato, vestito di un giubbino nero, corto, lucido, sfuggente, lieve come la fodera di un violino, era servitor devoto di tutti quanti, ma si inchinava premurosamente alla generosità e alla potenza di Ambrogione, ed in una sola parte si riservava ad essere lui stesso intransigente, cioè nel non ammettere ballabili moderni, e nel mantenere, come Vangelo del terzetto, un vecchio cartolaro di danzeria del maestro Caronti, che egli aveva portato da un paesello di montagna, dove aveva fatte le sue prime armi musicali. Quindi né Sangue Viennese, né Labbra di fuoco, né Fiotto di mussola poterono aver mai l'onore d'entrare nel repertorio musicale di Borgo Grezzo, dove trionfavano continuamente le vispe cantilene dell'antico cartolaro, intitolate: Iride ? Cuor contento ? La priora di San Sebastiano ? Pietrina Michisso, ecc., scritte da quel genio ignoto del maestro Caronti certamente per qualche figliuola di castellano; imperocché ad ogni unto fondo di pagina c'era l'avvertenza: L'illustrissima signora damigella è pregata, oppure degnisi di voltare il foglio. Per somma grazia erano state accettate dall'organista alcune canzoni popolari che Ambrogione aveva raccolte nella sua vita d'impresario anche fuori del Piemonte. Il giovane dottore, quantunque egregio dilettante di canto e pianoforte, non poté mai accordarsi col terzetto, avendo egli avuto delle coraggiose velleità di introdurre a Borgo Grezzo un ballabile di Klein, un altro di Capitani e alcune romanze di Tosti e di Rotoli, e sull'organo della Chiesa il Mefistofele di Boito.

. - Io ti dico e ti insegno, Pino discepolo mio, che una parola, la quale abbia nella sua lingua una significazione generale, trasportata poi in una lingua straniera acquista il vantaggio di esibire la ricchezza di una significazione speciale. Così wagon in inglese vuol dire semplicemente e genericamente carro; e vagone, fatto italiano, vuol dire il carrozzone speciale dei treni della strada ferrata. - Quanto si impara per istrada, - disse con ostentazione adulatoria il Goldi - quando si ha il benefizio di aver in compagnia un filosofo peripatetico della tua forza! - Si impara anche questa conferma stradale che i parigini sacrificano ogni sentimento al contegno delle forme - soggiunse la signora Angelica Geromino. - Ti ricordi, sindaco! quando il cappellano-fattore?segretario del marchese di Monticella nel fare stampare la lettera di morte della signora marchesa ci mise dentro: "L'illustrissimo marchese ecc. HA L'ONORE di partecipare a V. S. l'irreparabile perdita..."? Il marchese, avvertito dagli amici, andò in collera; e l'onore posto in vece del dolore negli annunzi di morte divenne nel nostro paese una baia proverbiale, con cui i proprietari si consolano malamente del rammarico di aver perduto una vitella. Invece qui a Parigi l'onore pel dolore nella morte dei più cari sembra una cosa naturale... Infatti si era davanti un gran negozio di pompe funebri che annunziava all'ingrosso e al minuto: - Convogli mortuari, interramenti, medici necroscopici, servizi religiosi, lettere di partecipazione filettate di nero ed altre imprese e merci dello stesso colore... frangiate di giallo e bianco. E la signora Geromino lesse forte il modello d'una lettera di annunzio mortuario, che campeggiava nel bel mezzo di quella bottega di Caronte: - La signora Emilia..., religiosa del Sacro Cuore, e la signora Hoenig nata ecc., ONT L'HONNEUR de vous fair part de la perte, qu'ils viennent de faire en la personne etc. - Il gran Galateo delle forme pubbliche - riprese Geromino - si rivela sopratutto negli avvisi delle autorità costituite. Degnatevi di ammirare quest'Ordonnance concernant les chiens. Nous Prefet de Police etc. Vu la loi etc... Sembra che il senatore, prefetto di polizia, si sia messo i guanti per discorrere coi cani e dica loro: "Favorite di portare la museruola; se no, i nostri ufficiali, gli accalappiacani, vi pigliano e vi ammazzano, S'il vous plait...". Ah! io non faccio tanti complimenti ai signori cani di Monticella. Oh! niuna pubblicazione all'Albo Pretorio! Comando semplicemente ai miei sparafucili, guardie campestri: "Uccidetemi quel cane irregolare e infesto...". E di lì a mezz'ora il cane proscritto ha terminato di far male... Un'altra nota della letteratura parigina, ambulante, spicciola, giornaliera, sia essa parlata o sia scritta, si è la disinvoltura nelle inesattezze, a cui il parigino si abbandona per semplice estro di frivolezza e di burla o per scopo di tirar gente. Non fu raro il caso, che sull'imperiale dell'omnibus un parigino, conoscendo il nostro sindaco per forestiero, lo abbia toccato nel gomito con un gesto di carità fraterna e gli abbia indicato il maresciallo Mac- Mahon, che passava. Anzi Geromino assicura che gli additarono sette Mac?Mahon di fisionomia affatto diversa, ed invano il segretario volle spiegare l'arcano al suo superiore, dicendogli che una volta sarà stato l'eroe di Magenta, un'altra volta il Mac?Mahon delle batoste del 1870, a cui il popolazzo parigino in quei giorni perigliosi voleva imporre le orecchie d'asino; una terza volta il debellatore della Comune, una quarta l'uomo del 16 maggio, una quinta il presidente dal dilemma cornuto di Gambetta: dimettersi o sottomettersi; una sesta il presidente in voce di pigliarsi ambedue le corna, oltre la intimazione di Gambetta, cioè in voce di dimettersi, dopo di essersi sottomesso; una settima il possibile presidente destituito dalle vicine elezioni senatoriali. Nello stesso modo facile, con cui i parigini danno ad intendere personalmente a Geromino un uomo per un altro, e una via per l'altra, essi non hanno, come disse con un arcaismo il povero sindaco, essi non hanno alcun respitto nel litografare e nel vendere un album delle facciate delle Nazioni all'Esposizione, facciate, fors'anche migliori, ma affatto diverse da quelle che esistono in realtà. Alcuni grandi magazzini o semplici negozi regalano ai loro avventori e anche a chi non compra niente, una pianta di Parigi e dell'Esposizione. Or bene Geromino verificò, che in una pianta dell'Esposizione il Campo di Marte era capovolto rimpetto al Trocadero, e ciò per poter collocare meglio negli angoli del disegno la raccomandazione dell'Acqua di Melissa o della broda Boudier o della sartoria Voltaire, che per 21 lira dà un vestiario completo, oltre al ritratto dell'autore dell'Enriade. Nella pianta di Parigi poi isoleggia, fuori di ogni squadro, il magazzino, che l'ha fatta stampare; cosicché ad un forestiere meno ingenuo di Geromino parrebbe che il negozio, di cui si tratta, fosse cosa più notevole e più grande del Louvre, delle Tuileries, del Lussemburgo, della Maddalena, del Pantheon e degli Invalidi riuniti insieme. A un certo punto la nostra brigata, passando davanti a un padiglione illuminato a vetri colorati, fu tutta intagliata dalla proiezione degli annunzi. La signora Giacomina aveva sulle spalle la raccomandazione di un romanzo; il sindaco aveva nella faccia il disegno di un cappello; il segretario era attraversato da un Gran Ristorante; e la signora Clitennestra portava sul naso la strombazzata della Compagnia Nazionale del lucido da scarpe francese. Eglino erano diventati tante caricature di Cham, e come se ciò non bastasse, di sopra li percotevano alcuni paroloni di gaz illuminante da disgradarne Ottino, che predicavano le extra ultime mantiglie al primo piano; l'asfalto si spingeva, sotto i loro piedi, a cantare in lettere bianche le pantofole più morbide dell'universo, e i tavolini da caffè loro sorridevano mosaici di avvisi benevoli e stuzzicanti. Da quella ridda di reclami, i nostri quattro viaggiatori si involarono, riparandosi nella loro umile casetta di rue du Bac, mobile come un vecchio armadio in riparazione davanti la bottega di un falegname. Goldi disse a Geromino: - Ho fatto incetta qui di parecchi giornali scostumati; ma prima di leggerli rinserriamo le nostre consorti nei loro appartamenti. Certi giornali non potrebbe leggerli neppure... mia moglie. Quando fu ben sicuro, che il gentil sesso era rientrato nelle sue tende, il segretario, con il più buffo secretume da Consiglio dei Dieci, offerse un fascio di giornali alla lettura del suo sindaco. Questi, dopo averli esaminati, stette un po' pensieroso e poi ragionò: - Una volta la letteratura francese commetteva qualsiasi bricconata con buon gusto; tanto è vero che il maledico Heine poteva scrivere di Victor Hugo, che questi godeva appunto di una fama singolare, perché egli era l'unico che sconfinasse dal buon gusto fra i suoi connazionali. Ora invece la bricconata letteraria francese viene fuori con la frase più tecnica e più brutale. In questo giornaletto c'è una lettera di uno zio padrino alla nipote Giovannina cucitrice di nero a Montmartre, per i casi occorsile, onde ebbe origine un trovatello, ed è una lettera di cui si potrebbe tradurre il senso ma non la parola cinica. E questa poesia? La vita di un Gaudente, Ninna Nanna. "Quattro anni per dire mamma e papà, amare gli zuccherini, le immagini, e farcela addosso, è la gran bella età! - Dieci anni! per andare in collegio, intraprendere un tirocinio, è la gran bella età! - Diciotto, vent'anni! - Per fare all'amore, per diteggiare i vaghi corsetti, i giocondi visini, le gambe fatte al tornio, ecc.". Per un tratto non si può più continuare nella traduzione in prosa... "Cinquant'anni! Per essere scornato e ricevere un calcio nel sedere dall'uomo che vi disonora. È la gran bella età! - Sessant'anni. - Per crepare di quattrini, divenire un personaggio immondo, gesuita, putrido, classe dirigente, è la gran bella età! - Ottant'anni! Per essere completamente imbecille, avere la testa che dondola, e farsela nuovamente addosso, è la gran bella età...". - A me quello che piace di più è il seguente avviso - interruppe Goldi prendendo il giornale di mano al sindaco. - La comparsa del libro di Paolo Makalin, LE LEGGIADRE ATTRICI DI PARIGI, ha testè suggerito ad uno dei nostri più avveduti uomini di finanza il proposito di fondare una società in accomandita per l'estrazione del mercurio dai corpi di ballo e simili... - Questo è niente - rispose Geromino: - è il n. 11, anno I, di un giornale che morrà presto, come un fungo... il grido di disperazione corbellatrice degli ingegni abortiti o disgraziati e delle vocazioni spostate, che si incollano confondendosi in questo oceano di glutine parigino, dove nella calca mostruosa l'individuo è isolato, e il parroco smesso può fare senza rossore il vetturino, e l'avvocato e l'ingegnere, in mancanza di meglio, possono adattarsi tranquillamente a fare il cameriere d'albergo. Direi che c'è qualche cosa di nobile e di positivo, di forte, o per parlare più difficile, c'è qualche sentore d'aurora, d'ideale e di avvenire in questo orribile muoversi dei diseredati e dei calpestati, che mordono le calcagna a coloro che passano di sopra... Ma io trovo molto più lercio e più rivoltante il linguaggio di alcuni fra gli ingegni riusciti costituiti e dominanti. Prendiamo questo giornale illustrato, che ha sedici anni di vita fiorente, è l'organo della gente ammodo, è pieno di brio, di arguzia e di utilità pratica, e in una pagina sola di disegni ci fornisce un mondo di storia vera, istruttiva e divertente, la storia di una famiglia nobile dalle Crociate alla Esposizione dei formaggi. Orbene vediamo in quale prosa casca questo ammirabile giornale. Ecco qui a pag. 462: Consigli pratici ai forestieri. Ci descrive i quartieri delle disgraziate creature che pigliano addirittura il nome dal mondo intiero, loro clientela; ed esse non sono più le allegre Lisette di Béranger, le matte studentesse, le peccatrici dal cuore leggiero, le grisettes dall'anima di cardellino; ma sono le avide, le truculente, le mascherate cocottes, entomati, vibrioni, mangiatrici di denaro. Ci descrive il Quartier de l'Europe e poi le Quartier des Martyrs e dice: "Le castellane di questo quartiere si compiacciono estremamente del respirare aria fresca; e perciò fanno in accappatoio bianco delle lunghe pose alle finestre dei loro alloggi. Sarebbe perfettamente inutile l'accingersi ad una serenata per commuoverle... Non vi getterebbero di certo la scala di seta. Il meglio si è rivolgersi al portinaio. D'ordinario si trova la chiave sotto l'uscio; se non c'è, è meglio non insistere: - Chiuso per causa di occupazione...". - E questo birbone di giornalista, seguita in un modo, che ho rossore di seguitare a tradurre io... Ci descrive la sacerdotessa nella sacristia del suo abbigliatoio, e poi meglio ancora, quando la porta si apre, la tenda si solleva; e la sacerdotessa compare nel tempio fresca, fragorosa e olezzante; la soave capigliatura sparsa; e la grande persona drappeggiata in un vago velo di China, celeste o rosa, allacciato da capo a fondo da piccoli nodi di setino. Qui quel briccone di giornalista, che si potrebbe chiamare dantescamente galeotto, ci dà persino il manuale di conversazione con la solita traduzione inglese per i viaggiatori che sono stimati più danarosi: "Quelle étoffe soyeuse! - Ce peignoir s'agrafe jusqu'en haut. Ce sont des noeuds. Est?ce qu'ils peuvent se défaire? - ...Cette jarretière ne vous serre pas trop. En êtes?vous sûre? - Vos petits pieds sortant de ces pantoufles ont l'air de sortir d'un nid". E concede persino degli scherni placidi alla morale e alla filosofia: "Le moraliste s'en etonne. Le philosophe s'en afflige. Mais qu'y faire? (The moralist is astonished - The philosopher is sorrow. Can you help it?)". A questo punto il sindaco si rizzò in piedi, fregandosi il pugno negli occhi, quindi proruppe: - Ma se vi sono dei giornali che si intitolano dai Grandi Matrimoni, se vi è Le Trait d'union. Organo dei celibatarii e delle famiglie; domando io, perché questa prosa non potrà entrare in un Giornale Ufficiale delle Mondane, delle generose Morelliane...? Poi l'adirato Geromino si sedette nascondendo la faccia nelle mani. Pensò al suo villaggio, alla sua famiglia, alla sua sposa; pensò, che lo scrittore di quelle righe forse aveva anche lui una famiglia illibata in una città di provincia o in un castello, dentro la strombatura di una montagna. - Sì! Ed avrà una nonna bianca, veneranda, che sprofondata in un seggiolone a bracciuoli, con gli occhiali verdi sul naso, leggerà al chiarore casalingo dell'olio d'uliva i giornali dell'ultima posta cercandovi la notizia dei successi teatrali del figlio drammaturgo... Ed il figliuolo venuto qui, dove la foga della grande città annichila nella vita pubblica esterna i morali e santi ripostigli della divina famiglia, venuto qui, vittima inconscia del putridume, che lo ingoia, serve da letterario mezzano... Il sindaco fu di nuovo in piedi e agguantò pei bottoni il segretario vociandogli con una efferatezza di voce soffocata: - Ma vi sono dunque due leggi morali, e due razze d'uomini...? E una mia figlia potrà appartenere al sesso di quella sciagurata!... Una delle due: o noi siamo minchioni, o quelli non sono uomini, sono compagni di Sant'Antonio. Geromino era ricaduto sulla seggiola spossato; e si sarebbe detto che piangesse tacitamente. Pino Goldi si appigliò al solito partito da lui praticato, quando vede alcuno a piangere; accende il sigaro, perché, dice lui, non si vedano le sue lacrime di richiamo. Ma il sindaco non piangeva; onde Pino Goldi gli disse: - Caro mio, impara a conoscere il mondo, e piglialo come viene. E per istruirci di più, domani sera dobbiamo andare tutti al Mabille.

Nessuno seppe precisare quanto egli abbia corso. Lo si poté congetturare il giorno dopo, quando si trovò l'impugnatura della fisarmonica dentro il cimitero e la carta rossa del mantice a un miglio di distanza, e un vaccaro scoperse poi le linguette e le molle d'acciaio, e i bottoni di porcellana sotto il fogliame in un bosco a un altro mezzo miglio di lontananza. Egli fu rinvenuto al mattino sull'orlo di un fosso, coi calzoni spalmati di fango, la giacca a brandelli, il petto scoperto, scalfitto e intriso d'erba fra la neraggine irsuta della pelle, la faccia chiazzata e logora come invecchiata, la schiuma alla bocca, gli occhi lividi e ingigantiti, i capelli pesti e insafardati di letame, ma tuttavia con un anelito da Mongibello. L'organista venne immediatamente licenziato con un motivato verbale del Consiglio comunale e della Fabbriceria della parrocchia, e dovette risalire in un paesello di montagna per raccattarvi polenta e castagne tanto da poter campacchiare senza la sicurezza di scoprire un altro tesoretto musicale del maestro Caronti. Stavolta anche il bel Rolando fu proprio costretto a sloggiare dal suo nido; ossia venne esiliato dal paese, come ne ragionano le vecchie, quando fanno il pane al forno. I maldicenti invidiosi suppongono, che egli faccia da forza armata e protettrice a una famosa mondana d'ambasciatori. Invece i suoi parenti annunziano (ed è la verità) che, dopo avere lavorato al Gottardo è disegnatore in un'officina a Londra, e si fa onore e manda giù buone notizie con vaglia internazionali. Perciò la compagnia del Santo Cordone assicura che egli ritornerà presto in paese per erigervi una nuova cappella in suffragio delle Anime. Il dottore dovette penare per guarire Ambrogione, molto più che non abbia faticato allora, quando il camallo si era rotta una gamba sullo stradone. Non potendo il grosso cottimista pei suoi interessi e per la famiglia abbandonare il paese, sentì con molta amarezza sopratutto per riguardo alla moglie e alle sue creature una terribile notificazione fattagli dal Parroco: "Ambrogione, siete irregolare! Siete incorso nella scomunica maggiore!". Per farsela togliere, il cottimista spinto dalla moglie, egli già così fiero, accettò la penitenza canonica di girare a porte chiuse quattro volte intorno all'altare, come un ciuco stangato e ricevette poi veramente, dal Prevosto, parecchie bastonate sulla testa e sulle spalle con accompagnamento di parole latine ed acqua benedetta. Il suo personone di orso domato soffrì un gran ribasso; non frequenta quasi più l'osteria, dove il dottore per un po' di tempo imperò esclusivamente, e poi scadde anche lui di moda essendosi sbandata anche la sua clientela dei frottolisti. Appena si parla di musica e di morti, al povero Ambrogione si imbrusca e si intenebra la faccia.

Ed in seguito nel 1879, pur durando nel suo ufficio di corrispondente romano della "Piemontese", pensava a rivedere ed ultimare un altro suo lavoro intensamente meditato, uno dei più mirabili che egli abbia scritto: Rovine, edito poscia in volume dalla tipografia Editrice Lombarda, con due figurine: Degna di morire e La laurea dell'amore. Rovine erano già comparse sulle "Serate" col titolo: Il figlio della signora dei cani e in appendice al giornale il "Movimento" di Genova col titolo: Un letterato inedito, ma l'autore può dirsi rifacesse tutta l'opera sua per pubblicarla in volume. Il protagonista delle Rovine è un ignoto e disgraziato ingegno piemontese, gagliardo e vivacissimo; uno dei più caratteristici soci della Dante Alighieri, dove egli esercitava su tutti i suoi colleghi influenza grandissima, a volte decisiva; era una vigoria, un polline artistico fecondatore che distruggeva se stesso trasmettendosi negli altri. E ben meritava il povero e possente artista, a cui forse non fece difetto che qualche qualità secondaria per l'arte, ma indispensabile per la riuscita nelle asprezze e nelle lotte della esistenza; ben meritava le pagine calde, colorite, cesellate dall'affetto, di Giovanni Faldella. Rovine sono quindi come scrisse l'autore stesso "... la biografia del Letterato inedito, figlio della Madre dei cani". La mossa ne è commovente, potentissima: "Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall'appetito e dalla contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli era mai capitata nella vita; lo gattigliava a fior di pancia un vuoto voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un accessit; udiva già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava ai grissini e ai peperoni del desco materno, all'effetto luminoso che avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumaio agganciano le viscere di uno scolaretto. "Come era fulgido Pinotto sotto i portici di Po! "Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi; infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un'anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l'orlo di ogni gradino; a momenti che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh! quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente egli è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose i piedi nel tinello, si smorzò la sua luce; ché trovò nell'atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l'usciere per una esecuzione mobiliare. "Pinotto fece uno sforzo e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: - Mamma! Carolina! Se sapeste!...". Ma la notizia che il povero ragazzo recava con tante carezze del pensiero e con tanti palpiti del cuore, non eccita neppur l'ombra d'un sorriso; i suoi non gli badano più che tanto; la mamma non lo guarda neppure in faccia, e solo la sorella "con una voce da vitella sgozzata" gli dice che il cane, "che Glafir ha la t... osse; - e giù uno scoppio di pianto". Allora Pinotto "scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, scappò senza il cappello in testa". Le pagine che seguono, scritte con diligenza analitica e indagatrice, anatomizzano e spiegano l'indole dell'animo e la natura dell'intelligenza di Pinotto, a mano a mano che egli progredisce negli anni. Sono tutte le infelicità irrimediabili di un nobile ingegno, d'una robusta esistenza che si accumulano fatalmente per cagione di Glafir "un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello"; perché Glafir aveva preso il posto del figliuolo nel tepore della famiglia. Ed è Glafir che ruba le carezze a Pinotto, gli amareggia il cuore, gli avvelena il carattere, gli sconforta il pensiero; è Glafir che lo renderà inedito, miserabile, pezzente, e gli farà maledire la vita. Ma, curioso ricorso storico di giustizia, di equità animale, quando, dopo molteplici casi, egli sarà ridotto all'estrema miseria, sarà un altro cane che lo assisterà con pietosa fedeltà; Fido! - un cane miserabile come il suo padrone. Erano soli in una topaia: "...estenuato - Pinotto - lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossì più forte e si sentì nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. "Credeva d'avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po' usciva sul ripiano, per vedere se c'era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. "Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: - Grazie, Fido!... Eccellenza... "Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l'apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle... Lo riceveva e lo irradiava d'oro, d'amore e di sole... "Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Essa aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note...". In questa pagina strana e commovente, mostrasi tutta la forza del Faldella come colorista, e stilista; vi è pieno il senso della misura, è esattamente intuita l'astrazione ideale del moribondo. L'Ignoto protagonista di questo lavoro del Faldella morì all'ospedale in Firenze nel 1875; e le "Serate italiane" ne pubblicarono allora una sentita necrologia. Il Faldella stesso, saldo nelle amicizie e tenace custode d'affetti, alcuni anni appresso, allorché pubblicò coi tipi del Roux Un idillio a tavola, primo volume del Serpe stroncato nel "Fanfulla", volle dedicarlo alla pietosa e forte memoria dell'amico G. M., del quale le Rovine sono appunto la biografia. Ed il Capuana, il sapido ed energico novellatore siciliano, che insieme col Verga ha tanti ammiratori, non dubitò un momento di illustrare le Rovine, cernendone pensieri, giudizi e notizie, per ricostruire il Profilo di Un ignoto nei suoi Studi di letteratura contemporanea (Seconda serie). Egli in quello studio robusto, già pubblicato nel 1879 sul "Corriere della Sera" di Milano, come bibliografia delle Rovine del Faldella, mostravasi benevolo critico del nostro scrittore, e gli attribuiva soprattutto l'ironia incosciente, osservando che gli arcaismi, gli stridori di forma sono per lui un affare di tavolozza. Riguardevoli giudizi pronunziarono pure del Faldella altri critici che sono parimenti essi stessi poeti o novellieri valenti; ed in prima il suo amicissimo e caro agli italiani ed agli stranieri Salvatore Farina, G. C. Molineri, G. Caprin, il Robustelli, Ferdinando Fontana, Leopoldo Marenco, Vittorio Turletti, Corrado Corradino, ecc. - P. G. Molmenti gli consacrò un capitolo nel secondo volume delle sue Impressioni letterarie. Al Molmenti Faldella dedicò: Degna di morire. Degna di morire (figurina nera) è una gentilissima mestizia, gioiellata in poche pagine: è la storia semplice di Elena Floresin. Elena che nei balli campagnoli "volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare la gemmea testa ed era per scuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone". Ma doveva ucciderla il sole in un mattino di aprile, nel quale ella "sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato". Il sole "... le faceva correre palpiti di calore crescente dal suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso". La novella prosegue pietosamente con un luccichìo caldo e commovente di frasi: "Quattro giorni dopo Elena era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo; non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l'avesse ridotta in marmo cogliendola nell'ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva". La laurea dell'amore - Trittico nuziale (figurina così divisa: Lui ? Lei ? Tutt'e due insieme) non ha nulla a che fare col noto lavoro del Droz: Monsieur, Madame et Bébé. In essa il bébé non c'entra, ma verrà indubbiamente dopo, poiché la morale della novella è il trionfo sano e possente di due sposi, ossigenati a dovere in una vivace freschezza campagnuola. È una figurina che si legge piacevolmente, con un sorriso, e fa sorgere il desiderio carezzevole di cacciarsi in un compartimento riservato d'un carrozzone di ferrovia, per libare la vita trasvolando lontan lontano con una gioconda fanciulla rapinata in isposa. Di questo volume occupavasi largamente il Cameroni in due appendici al "Sole" di Milano nel settembre del 1879; e ne scriveva in proposito: "La passione di Faldella per l'originalità già da alcuni anni mi ha reso simpatico questo giovane scrittore piemontese, benché lambiccato nei concetti e nella forma: "Mentre dalla maggior parte dei nostri novellieri si trascura la frase, l'autore delle Figurine e delle Conquiste la accarezza fin troppo, le dà il minio, la polvere di riso ed i nèi. Mutatis mutandis e ridotte di molto le proporzioni, si potrebbero attribuire al Faldella quelle censure di preziosità, cui lo Zola mosse a Cladel nel famoso articolo sui Romanzieri contemporanei, inserito nel Figaro dello scorso dicembre. Appunto perché artista e non soltanto novellatore, egli sa giovarsi della ricchezza della nostra lingua, ma troppo di sovente manca di naturalezza nell'espressione proprio come il Cladel". In prova il critico fornisce uno scampolo di florilegio faldelliano: "Rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato; il baratro della umiliazione e della crudeltà materna; strusciarsi per avere l'accessit; ? i capelli di due vecchie, che lucevano come fili di ferro elettrici; ? il lecchetto irresistibile; ? la religione condensata in un brodo consumato di ideale evangelico; ? una pugnalata di voce; ? spiattellarsi innanzi al sole come un ninfale eliotropio". Rilevata la bizzarria di queste frasi, e poscia poste in sodo le buone qualità dello scrittore piemontese, il Cameroni soggiunge: "... questa volta (nella simpatia per il Faldella) mi trovo onorato da ottima compagnia, giacché ricordo benissimo le parole d'elogio di quell'incontentabile buongustaio, che fu il Camerini, per l'autore della Gita con il lapis a Vienna". Venute le elezioni generali del 1880, il Faldella spinto dagli amici spolverava il suo bozzetto politico, e si ripresentava al Collegio di Crescentino solamente tre o quattro giorni prima della votazione: e vi otteneva un nuovo fiasco; ma un fiasco di quel buono, propiziatore di prossima vittoria; che gli succedeva di riportare di lì a poco, nel 1881. Il generale Bertolè?Viale andavasene in Senato, ed il Faldella otteneva il seggio elettorale del suo collegio confortato da settecento e più voti di suffragio ristretto. Alla Camera prese naturalmente posto a sinistra fra le congratulazioni e le condoglianze degli amici, che temevano la politica togliesse all'arte l'ingegno suo, o almeno lo guastasse nei suoi ingranaggi corrosivi. Ma il Faldella sullo scanno di deputato rimase tranquillamente quale egli era e quale aveva annunciato di voler essere nel suo bozzetto politico, dove scriveva: "... io non posso approvare la eunucheria politica, di cui si vantano pochissimi fra gli artisti e i letterati moderni, la quale non credo scusabile nemmanco con il voto di castità politica fatto dal Beato Alessandro Manzoni". Ed invero, abbiamo avuto fuori d'Italia e presso noi esempi confortanti di uomini di Stato che non trascurarono di ricrearsi la mente colle geniali occupazioni artistiche a cui li portava l'indole dell'ingegno loro, fossero pur condottieri di popoli o di Governi. Il Faldella deputato ebbe maggior agio a completare le osservazioni che aveva già intraprese come giornalista su le turbolenze della politica; e da quelle osservazioni poté trarre i materiali per la futura sua storia politica e aneddotica del parlamento italiano. Intanto senza più essere il corrispondente ordinario, egli continuò a mandare corrispondenze alla "Piemontese", ma corrispondenze di lusso. Il suo primo discorso alla Camera egli lo pronunziò nella tornata del 16 marzo 1881, allorché discutevasi la proposta di legge per un concorso edilizio a Roma con annessa costruzione d'un palazzo dei Lincei. Sorse a battagliare contro l'amico suo personale, e collega nel Consiglio della Provincia di Novara, l'illustre Quintino Sella, cui anch'egli cordialmente amava e italianamente ammirava; sorse quando la Camera snervata per lunga discussione era insofferente, e vi battagliò, con venustà di forma letteraria insolita od impropria per quel luogo e con originalità esilarante di idee. Poiché ebbe protestato di aver passata la vita sua modestissima nello studio delle lettere, dichiarò di non essere eccitato da un estro paragonabile a quello di Erostrato, se combatteva specialmente l'erezione di edifizi, i quali hanno rapporto colla cultura intellettuale. E poiché aveva narrato che in certi paesi di montagna la scuola si fa nelle stalle, faceva scoppiare per l'aula una larga risata, dicendo: "... che dire delle maestre? Con umilissimi stipendi, sono in pietose condizioni, da cui possono più spesso rilevarsi meglio con mezzi estetici, che con meriti didascalici, tanto che i comuni prima di nominarle richieggono la fotografia". E corroborava il suo concetto proseguendo: "Or bene, o signori, io domando se allora quando noi vediamo giacere l'istruzione elementare in così basso grado, noi possiamo deliberare tre milioni e mezzo per elevare un nuovo edificio in Roma all'alta scienza... "Io non ammetto tutte le durezze che contro le Accademie hanno scagliato alcuni liberi ingegni, come Brofferio, Baretti, Giusti, Beranger, ecc. Le Accademie, come quasi tutte le istituzioni umane, hanno la loro parte buona e la loro parte cattiva. "Secondo quello che ci insegna giustamente l'onorevole Sella, esse possono riuscire utili per la forza dell'unione, tesoreggiando capitali scientifici, e anche semplicemente mediante la pubblicità e la réclame. Ma esse possono altresì degenerare in società di mutua ammirazione e di altrui disconoscimento, o in società politiche, fossero pure associazioni costituzionali; posson far prevalere la forma alla sostanza, promuovere lo studio delle cose inutili, e propagare alcuni determinati vizi scientifici e letterari". E poscia con estro crescente di ironia gioviale, eccitava nuova e maggiore ilarità nei colleghi - resi attenti, soggiungendo: "Quanto alla mutua ammirazione - promossa dalle Accademie - ci restano a documenti i tipi comici, nella storia dei costumi fatta dalla vera commedia; ci resta, nel Poeta fanatico di Goldoni, lo stupendo conte Ottavio, presidente d'Accademia che, al finire di ogni sproloquio o di ogni recitazione, abbraccia l'accademico Lelio, l'accademico Florindo, l'accademica Rosaura, e stringe anche al seno con trasporto l'accademico Brighella!". Ed in quel suo estro, sparando citazioni, motti, giudizi, l'oratore confortava gli accademici a rimanersene paghi della dotazione di 100 mila lire e del Campidoglio per tenervi le loro adunanze, e ricordando come agli uomini d'ingegno poco o nulla abbiano soccorso le Accademie, continuava: "...Mentre in Francia, in Germania ed in Inghilterra gli autori già ricevevano lucro decoroso dal pubblico, e da noi i pingui canonici accademici ottenevano stampati dalle tipografie regie i magni volumi, i cui fogli sono tagliati solo dai legatori di libri, Carlo Botta vendeva la sua Storia dell'Indipendenza d'America per pagare i medicinali della moglie; e per pubblicare la sua Storia d'Italia in continuazione a quella del Guicciardini, dovette ricorrere all'obolo di pochi sottoscrittori. A questi soli si deve, se il tipo della devozione patria eroica, il tipo di Pietro Micca sorse e raggiò in quella italica prosa sfolgorante". Ed il sidereo Filopanti a tuonare: bravo Faldella! mentre la Camera applaudiva, pur mantenendosi di parere contrario. E non valse all'oratore svolgere con moto lirico una nuova onda calda di pensieri: "Io mi esalto perfino ricordando che re Umberto e la regina Margherita distribuirono i premi ai Lincei, spettacolo forse più bello di quell'altro, dell'onorevole Quintino Sella, che fece alzare i Lincei in piedi all'arrivo del maresciallo Moltke, cui Rovani giudicò l'Attila del calcolo sublime. Tutti questi quadri, al pari di quello di Vittorio Amedeo che osservando la persistenza di un lumicino in una soffitta torinese vi scopre un povero studioso e lo converte nel ministro Bogino o al pari di quello di re Umberto che col ministro Baccelli si insediò alla scuola di sanscrito del professore Lignana nella Sapienza di Roma, tutti questi quadri per me sono degni non solo dell'"Illustrazione universale" dei fratelli Treves, ma del perenne mosaico... "A questo mondo non vi è nulla che più ci scaldi e rischiari la fronte e ci schiuda l'avvenire meglio della scienza... Ma facciamo altresì la scienza applicata in azione. Quei milioni che volete consacrare ad un palazzo inutile, diamoli all'igiene, alla spaziosa, luminosa viabilità che sono conquiste moderne". Ma la legge a malgrado di questo e di altrui discorsi, che la battevano in breccia, venne approvata; e nei giornali, che intesero male dall'alto della tribuna nella persona dei loro reporter, il Faldella venne tacciato poco meno che di barbaro analfabeta! Barbaro lui che si era persino lagnato, perché i famosi volumi, cui l'Accademia dei Lincei partorisce e stampa ogni anno con elevatissima spesa, giacessero intonsi nella biblioteca della Camera! Continuò per un pezzo lo scalpore contro la barbarie di Cimbro Faldella; però bisogna dire che quello scalpore non fu accolto dall'ingegno sensitivo, tenace ma equilibrato dell'illustre Sella. Questi forse fraintendendo il discorso per la distanza dell'oratore dal banco della Commissione, gli aveva bensì risposto con accesa eloquenza, come se il Faldella (ciò che non era) avesse preteso mandargli in malora la scienza e la lingua latina. Ma, cessato quel bollore, si dimostrò buon amico del Faldella, il quale testè in alcuni Ricordi necrologici del compianto grand'uomo raccontava a tale proposito sulla "Gazzetta piemontese" il seguente aneddoto: "Allorché alla Camera un giovine deputato con balda coscienza contrastò uno straordinario sussidio che credeva intempestivo per un palazzo all'Accademia dei Lincei prediletta del Sella, questi se ne risentì, rispondendogli oltre misura. Tale eloquente risentimento inspirò un facile poeta, che schiccherò lì per lì un sonetto e lo mandò al banco della Commissione, dove il Sella sedeva relatore della legge per il concorso edilizio a Roma. Ignoro se quel sonetto fosse semplicemente arguto, o spinoso, od attizzino, imperocché non lo lessi, né seppi il nome del poeta. Esso era certamente contro al giovane deputato. Il Sella, scorsi quei quattordici versi, li comunicò al suo vicino e collega della Commissione, l'on. Del Zio, il quale forse poco prima lo aveva intrattenuto sulla opportunità scientifica di pubblicare finalmente, magari con l'ausilio dei Lincei, il formidato e condannato Triregno del Giannone, tenuto troppo occulto nelle sole due copie superstiti conservate dalla Biblioteca nazionale di Napoli e dall'Archivio reale di Torino. "L'on. Del Zio, percorso alla sua volta il sonetto, immantinenti vi scrisse in calce il motto della Sand: "Non toccate le fronde giovani! " quindi restituì il fogliolino al Sella. Questi fu preso, quasi commosso dall'improvviso ricordo di quella sentenza; lacerò o mandò a riporsi il sonetto; e d'allora in poi non tralasciò occasione per attestare la più cordiale cortesia al giovine deputato statogli aperto contraddittore". No! Il Faldella non era stato barbaro. Egli fin da quell'occasione avrebbe potuto soggiungere ciò, che appena accennò poi incompletamente nel banchetto di Torino, cioè che le Accademie nido di gente arrivata, giubilazione degli ingegni, sono non solo le meno abili ad ogni nuova scoperta onde possa onorarsi lo spirito umano, ma soventi vi sono ostili. Esempio l'Accademia delle scienze di Francia a cui Napoleone I aveva mandata, per il parere, la memoria di Fulton che gli proponeva la navigazione a vapore. La grave Accademia, con dotta ilarità, rilasciava all'inventore una ufficiale patente di utopista. Altro esempio, se vuolsi guardare a tempi più lontani, l'Accademia di Salamanca. Essa insorgeva contro Cristoforo Colombo e lo dichiarava pazzo per la sua divinazione di nuove terre. Il Faldella tornò a parlare alla Camera nella tornata del 20 giugno 1881, allorché si discuteva la riforma elettorale, e vi sostenne strenuamente lo scrutinio di lista. Nel suo discorso non mancarono le originalità. Fra le altre per sostenere che l'allargamento del suffragio e lo scrutinio di lista avrebbero diminuite le corruzioni elettorali, egli uscì fuori a dire: "Nelle biografie dei grandi uomini politici dell'Inghilterra narrasi precisamente quanto essi hanno speso per la loro prima o seconda elezione. Si aggiunge di Beniamino Disraeli che una gentile signora gli suppeditò le copiose ghinee occorrenti perché gli fosse sbarrato l'arringo politico. E qui voglio l'onorevole Serena il quale oggi ha argutamente immaginato che Dante Alighieri non sarebbe eletto deputato collo scrutinio di lista. Onorevole Serena! Senza essere poeta sovrano, chi circonda il suo nome coll'aureola dell'arte, e si imprime nel pubblico con la sua potenza letteraria, ben può pretendere a quella notorietà, che è sufficiente per la riuscita nello scrutinio di lista. Oh! Dante Alighieri sarebbe un candidato sicuro nello scrutinio di lista. Per lo contrario io nutrirei i miei famosi dubbi per la sua riuscita nel collegio uninominale. Con tutto il fascio radioso del suo genio, il poeta resterebbe nella tromba, se rimanesse povero in canna, come è costume dei poeti, e se una pietosa dama non scendesse ad apprestargli le migliaia di lire, come fece la Ninfa Egeria all'autore dell'Endimione". E terminando il succoso e serrato suo discorso dichiarò: "È una voce falsa ma molto diffusa che noi ricusiamo lo scrutinio di lista per non sentenziare noi stessi a certa morte politica... Ma, signori, non lasciamo accreditare neppure materialmente quella voce col fatto di una votazione ostile. La storia darebbe certamente tristo giudizio di noi in paragone di quei Parlamenti e di quegli ordini rappresentativi che seppero fare innanzi al mondo nobili rinunzie. "La famosa assemblea nazionale francese, che dichiarò i diritti dell'uomo, interdisse, con zelo soverchio, a tutti i suoi membri la rielezione... "Negli ordini della Repubblica fiorentina era statuito che i magistrati scaduti non potessero rieleggersi salvo che trascorso un dato tempo. Questi insegnamenti non sono scevri di sapienza; indicandoci i benefici di avvicendare gli uomini alla cosa pubblica per evitare le cancrenose ambizioni e per usufruire ognora fresche e riposate virtù". Ma poscia l'oratore soggiunse: "Però il pericolo della sommersione nello scrutinio di lista ci sarà solo per me deputato novellino che devo molto ai vincoli di affetto paesano e di poesia domestica ecc.". E fu meno felice nella chiusa, poiché volle ostentare, un po' troppo, la sicurezza che lo scrutinio di lista dovesse riuscire letale alla sua rielezione. Lo Zanardelli, relatore dottissimo di quella legge, nella perorazione del suo splendido discorso pronunziato nella tornata del 21 giugno 1881 faceva onorevole menzione delle parole del Faldella dicendo: "Questo trionfo (della nuova legge elettorale) farà sì che nelle elezioni, come notò l'on. Crispi, siano veramente nazionali le gare; non solo assicurerà gli altri vantaggi, dei quali ho parlato: ma esso dimostrerà, come ieri disse con nobili parole l'onorevole Faldella, che noi possediamo una virtù, la quale nella vita pubblica vale da sola a riscattare molte colpe, l'oblio di noi stessi...". Nella sua vita parlamentare, Faldella preoccupato delle condizioni economiche del suo collegio per la scarsa viabilità, domandava e patrocinava due ponti sul Po, ed un altro sulla Dora Baltea; ed otteneva che una sua aggiunta venisse in parte accolta nella legge delle nuove opere stradali; e poscia nell'adunanza del 24 giugno 1882 pronunciava anche un discorso in favore della ferrovia Chivasso?Casale, accumulando argomenti vinicoli e strategici in favore di essa con vittoriosa mitraglia di parole assennate. Ma, ciò malgrado, venute le elezioni generali del 1882 con suffragio allargato e scrutinio di lista, egli come aveva preveduto, forse allora incredulo in se stesso, fu ripagato dai suoi elettori di una buona sconfitta. Ritornato alla tranquillità ridente del suo quieto villaggio, alla vita casalinga e raccolta; tornato alle sue contemplazioni e meditazioni, fuori del turbine affannoso della politica, che logora gli spiriti, egli riprese con maggiore intensità di lavoro i suoi studi; e poiché della politica gli durava il sapore acre, avendo poco prima delle ultime elezioni già pubblicato un volume della sua Salita a Montecitorio (1878?1882) col sottotitolo: Il paese di Montecitorio, Guida alpina di Cimbro, proseguì in quella via palpitante di passioni, e addensò pagine su pagine di politica artistica. E così pubblicò successivamente: I pezzi grossi (Scarpellate), I Caporioni (Profili), Dai fratelli Bandiera alla dissidenza (Cronaca), volumi che della Guida parlamentare sono il seguito galoppante. Siffatta opera, nella quale sotto nuovo aspetto mostravasi l'ingegno suo di cronista politico nella serenità e nell'argutezza critica dei giudizi - egli dedicava a Luigi Roux, ora deputato del Collegio di Cuneo, già direttore dell'Organo della Pentarchia, in allora soltanto direttore della "Gazzetta piemontese", e col Favale, editore dell'opera stessa che gli era intitolata. "Un giorno, gli scrisse il Faldella, il rustico autore di Un viaggio a Roma senza vedere il papa, Geromino, sindaco di Monticella, fu da te, dal tuo illustre predecessore e dai tuoi egregi colleghi, ghermito agli ozi campestri e letterari del suo villaggio e spinto alla batteria elettrica della corrispondenza giornalistica, egli nato per meditare e stintignare una pagina al mese... Ora spetta sovra tutto a te il sopportarne le conseguenze, accettando la cordiale dedicatoria di questo libro". Il concetto dell'opera è chiaramente reso manifesto nella lettera, colla quale gli Editori accompagnavano il secondo volume: I pezzi grossi. "Nel primo volume dell'opera l'autore, col titolo Il paese di Montecitorio, ha voluto dare, come si suol dire, una pittura dei luoghi, dove si svolgerà man mano l'opera medesima: dall'atrio del palazzo deputatesco agli uffici della segreteria, dalle sale della presidenza agli archivi, dagli ambulatori alla questura, dalla tribuna pubblica al banco dei ministri, il Faldella ha fatta una minuta descrizione della residenza del Parlamento animandola, come hanno bene avvertito i lettori di quel primo volume, coi ricordi storici che si addensano così gloriosamente affollati in quei luoghi, e coi profili dei personaggi che si incontrano ad ogni pietra di quel Paese. Compiuta così la descrizione dei luoghi, l'autore entra nella materia del secondo volume: I pezzi grossi, che sono estese fisiologie dei principali uomini politici. Seguito dei Pezzi grossi sarà il volume dei Caporioni. E siccome parecchi di questi appartennero al partito d'azione, parve opportuno all'autore di raggruppare intorno ad essi gli episodi più drammatici del nostro Risorgimento: onde uno speciale volume sarà la cronaca patriottica: Dai fratelli Bandiera alla dissidenza ed al trasformismo. Percorso il mondo parlamentare nelle sue cuspidi individuali, gioverà all'autore considerarlo nelle masse dei partiti, donde un volume sui partiti parlamentari ed un altro sui partiti extra?parlamentari, ed un altro ancora di Vedute e scene: e siccome dopo tanta vivisezione parlamentare è doveroso rendere omaggio alle tombe dei campioni della Camera, di cui è più recente il lutto, una parte dell'opera sarà Necropoli. E finalmente una parte sarà dedicata a quel ramo del Parlamento, dove in vigile riposo si archiviano i veterani dell'intelligenza, del censo, del patriottismo e delle maggiori cariche, donde un ultimo volume: Scorsa al Senato". A proposito di codesta Storia parlamentare che si disegna a linee larghe ed a tratti vigorosi, e si ispira a concetti elevati nella serenità degli schietti giudizi, - Nino Pettinati, elegante scrittore ligure?subalpino, con una venatura di anglosassone nel temperamento poiché di madre inglese, onde conserva nell'aspetto una gentilezza da Lord Byron sminuito, scrisse argutamente nella "Gazzetta letteraria" di Torino del 28 aprile 1883: "Alcuni che furono sin qui avvezzi a gustare e carezzare nel Faldella l'arguto pittore delle Figurine, l'umoristico narratore dei Viaggi a Roma e a Vienna, l'incisivo novelliere delle Rovine e recentissimamente il mesto romanziere del Serpe, veggendo oggidì il Faldella assumere la gravità e l'ufficio di questa Salita a Montecitorio ne restano sorpresi un poco e fors'anco dubbiosi di più. Generalmente parlando in Italia, da Brofferio, da Manzoni e da Cantù in poi, i letterati sono così poco storici e gli storici così poco letterati! Havvi - chieggono - nell'autore delle Conquiste la stoffa dello storico? e qualunque titolo abbiano i suoi lavori non saranno sempre romanzi? - Costoro a nostro avviso non hanno posto bene mente all'indole dell'ingegno del Faldella e non hanno seguite le fasi ch'esso ha traversato da qualche tempo in qua. Il Faldella è interessante novelliere, è vero, ed i suoi racconti hanno un'attrattiva non comune; ma bisogna pur riconoscere che la immaginativa e la novità non sono mai state le maggiori doti dei suoi lavori, sibbene la finezza dell'osservazione e l'acutezza delle rassomiglianze, le quali vincono di gran lunga in lui le qualità inventive. Come osservatore pochi superano il Faldella, e pochi del pari hanno maggior felicità nell'afferrare delle cose osservate le qualità caratteristiche, sviscerarne, per così dire, l'indole e il segreto, penetrarne l'essenza e riprodurle coi loro propri colori. Un autore moderno ha detto che difficilmente lo scrittore ed il lettore si capiscono bene, perché essi seguono strada inversa, vale a dire che lo scrittore va dal pensiero all'espressione, il lettore dall'espressione al pensiero. Al lettore di Faldella di rado è avvenuto di non comprendere la vita che spira dalle pagine di lui; imperocché il Faldella non arzigogola in espressioni soggettive e non getta mai il suo Io fra lo spettatore e i personaggi; ma per mezzo suo i personaggi medesimi si disegnano colle loro stesse azioni abilmente messe in luce. "In questa felicità di intuizione oggettiva unita ad uno stile quasi sempre incisivo e scultorio anche nella rappresentazione di sentimenti di minore importanza e talora anche ridevoli, in un desiderio continuo di curare dei personaggi e delle cose anche i menomi particolari e i tratti più fuggevoli, in uno studio continuo e zoliano di non dipartirsi dalla verità dei tipi quasi sempre imitati dalla vita reale, chi non riconosceva già nel Faldella le principali, se non tutte le qualità necessarie allo storico diligente e fedele? Ma abbiamo detto che bisogna pur tenere conto delle fasi che l'ingegno del Faldella ha traversate. Chi ignora infatti com'egli raccolto un dì nella mite atmosfera degli studi letterari campagnuoli, chiamato dipoi nelle officine giornalistiche a mirar più da vicino gli ingranaggi delle quotidiane vicende sociali, venisse in ultimo attratto nel grande agone parlamentare, rappresentante della Nazione egli stesso, e divenisse così testimonio e insieme attore del teatro politico contemporaneo? Allora l'ingegno dell'osservatore accurato, il fedele intuitore delle figure e dei caratteri, l'umorista flagellatore dei vizi in quel nuovo orizzonte si sentirono indubbiamente rafforzare: alla scarsezza della qualità inventiva suppliva largamente la realtà di tutti quelli obbiettivi veri e viventi; il poeta non doveva più tentar voli, ma bastava allo studioso di concentrarsi bene nelle ricerche e nelle osservazioni: l'estro dell'artista non aveva più bisogno di immaginare azioni e persone per sentirsi acceso a scattare in una artistica creazione: ma gli bastava appunto l'osservazione della realtà per iscoprire dove fossero il bello ed il buono artistico e far colla loro riproduzione un'opera d'arte. Così il passaggio dal romanziere allo storico si compiva; il poeta e il narratore non si elidevano, ma dandosi la mano si completavano; e l'autore delle Rovine veniva così alle assaggiature della Roma borgbese ed ora finalmente alla Salita di Montecitorio. E noi teniamo assai a far notare come nella nuova veste del Faldella storico non sia affatto cessato l'artista cui abbiamo applaudito sin qui, imperocché mentre quest'osservazione da un lato ci spiega la fase evolutiva del suo ingegno, dall'altro ci dà la chiave per bene intendere ed assaporare il suo lavoro storico che è di una caratteristica tutta speciale". Ed è vero. Siamo le mille miglia lontani dalla storia d'Italia dello Zini con quelle sue preziosità di frasi atticamente gravi, ma plumbee nella loro massa faticosa. Qui la storia è cronaca spigliata, allegra soventi, e a quando a quando, severa; severa nobilmente nelle elevazioni patriottiche, nei lampeggiamenti civili dell'epopea che fece la Nazione. Nel primo volume: Il paese di Montecitorio, vi è come la fisiologia del palazzo di Montecitorio, studiato in sé stesso, nei suoi abitanti, nei suoi frequentatori e negli ordinamenti amministrativi che regolano la vita politica e parlamentare dei rappresentanti della Nazione. Vi è arguzia, umorismo, ironia; a volta a volta, si illuminano medaglioni, miniati con amore, e frammenti scultorî a colpi audaci e vigorosi. Ne scattan fuori figure di letizia senile, come quelle dei veterani delle ardimentose insurrezioni per la libertà. Tali sono le figure del dott. Ripari e del vecchio bibliotecario della Camera Giovanni Scovazzi, fiero bandito di primo catalogo secondoché leggevasi in un numero della "Gazzetta piemontese" del 1833 che ne recava la condanna a morte unitamente alle condanne di Giuseppe Mazzini e Giovanni Ruffini. Tale è la figura dell'on. Del Zio il quale "ha una testa vigorosa di frate che dal castello di un campanile suoni a stormo e spari fucilate per una rivoluzione". Tale è la figura di Quirico Filopanti, l'amante universale, che si tolse nel 1873 il suo vero nome di Barrili; asceta pitagorico che vive spartanamente di acqua e di pane, e che "ci ha il giubbone nero, un po' roso, ma tuttavia pulito; ci ha il gran colletto bianco; ci ha le stelle in cielo, ci ha delle consolanti aspirazioni in testa; ci ha l'Italia a Roma; si tiene sicuro dell'avvenire nel nome del popolo e di Dio, ed egli è stoicamente felice". E via via, dalla biblioteca della Camera agli stalli dell'aula; dall'atrio del palazzo di Montecitorio alla Tribuna della stampa, a quelle della Corte, della diplomazia, della Presidenza e delle Signore; dal discorsino di esordio del deputato novellino, al discorsone ministro del deputato stagionato che porta tutta una sezione del museo di numismatica appesa alla catena dell'orologio; dalla sala di ricevimento al selce di Cordigliani ed alla rivoltella di Maccaluso; tutto vi passa intuito, scrutato, pennelleggiato con forza, verbalizzato con scrupolo. Ci si potranno bensì, qua e là, notare gonfiezze, superfluità, minuzie che rallentano, e deviano l'attenzione, stancano; ma sono mende che scompaiono in confronto delle numerose pagine ponderate, salde, elevate, concettose che interessano, svelandoci gli intimi congegni pei quali si muove, si agita e si manifesta nel lavoro legislativo la nostra rappresentanza nazionale. Nei Pezzi grossi, l'artista scalpellatore modella a mano a mano le figure di Domenico Farini, Marco Minghetti, Quintino Sella, Domenico Berti ed Agostino Depretis, intorno ai quali raggruppansi negli sfondi altre individualità minori, di più modesta indole. Lo studio sul Farini, che sale dolcemente a involgere tutta la famiglia dei Farini, riesce affettuoso, direi carezzevole, ed è fatto con schietta precisione, poiché l'autore è dirimpettaio di abitazione allo scalpellato personaggio nei silenzi campestri di Saluggia, dove l'ex presidente della Camera villeggia ogni anno fra le memorie venerate del padre, della madre e della nonna. Deboluccio, forse, lo studio sul Minghetti, quantunque questi vi sia considerato in due modi; come oratore, e poscia nella politica e nella storia. Assai bello e vigoroso invece quello su Quintino Sella, dove narra di re Umberto che ospite dei Sella nella Villa di S. Gerolamo nell'agosto del 1880, a preghiera del figliuolo sale a visitarne la madre, Rosa Sella, che per la grave età e la cagionevole salute non può scendere a inchinare Sua Maestà. Al Faldella erompe dall'anima una possente lirica aleggiante, generosamente patriottica, che sintetizza la rigenerazione della patria. Il filosofo di Cumiana, dall'aspetto prelatizio, Domenico Berti, evoluzionista per indole, è scrutato con acume. Ed Agostino Depretis coi suoi trenta e più anni di esperienza parlamentare e con tutto il suo bagaglio di uomo di Stato, bagaglio di pranzi politici, discorsi patriottici, programmi di Stradella e piacevolezze accorte di diplomatico magistrale - viene a sua volta anatomizzato con pazienza, ricercato nelle sue vigorie e nelle sue debolezze; viene scolpito e ritratto nelle pagine del libro in più pose; e tutte danno un magnifico padre guardiano; come l'emblema del tempo eterno che governa. Nel terzo volume della Salita a Montecitorio, I Caporioni profilati sono Cairoli e Zanardelli che tengono il campo con una cavalcata di eroi minori: Cairoli a cui l'autore inneggia come a patriotta, come a Bajardo: Cairoli discusso come Presidente dei ministri, nei suoi due ministeri; Zanardelli, dal vasto ingegno democratico, che come ministro dell'Interno si irrigidisce nelle sue convinzioni di larga libertà cittadina, si allarga nel mare magno della scienza giuridica col libro L'avvocatura, e si condensa con pazienza da benedettino nella dotta relazione per la riforma elettorale politica. Nel quarto volume, ultimo comparso della serie, cioè nella cronaca Dai fratelli Bandiera alla dissidenza, l'autore, risalendo alle prime imprese politiche che via via andarono preparando il trionfo della libertà e della nazionalità ed illustrando particolarmente la impresa audacissima del Pisacane a Sapri, scolpisce con felicità di esecuzione la figura violenta e generosa del Nicotera, lo ritrae con finitezza di tocco, nelle varie fasi della sua vita politica a impreveduti colpi di scena e di audacia. Vi studia le bizze fegatose dell'irrequietissimo agente di Cavour e storico d'Italia Giuseppe La Farina. Vi analizza il carattere metallico ed inflessibile di Francesco Crispi. E poscia ci presenta Agostino Bertani, patriotta saldo e antico, uomo politico rigido e fegatoso, dall'aspetto funereo, fatale; papa dell'estrema sinistra come lo sintetizza l'autore, Bertani ne appare dogmatico nei suoi discorsi alla Camera; vi appare quale uomo che stia sempre teso come un telescopio a guatare i misteri del futuro, o come Geremia profeta piagnucoloso quando prevedeva un'immensità di mali a Gerusalemme baldracca. E attorno attorno, le relative figure secondarie e terziarie, i paesaggi, gli sfondi, le prospettive aeree e terrestri che richiamano lo studio principale. Certamente nel corso di quest'opera, vasta e pensata, si avvertono mende, imperfezioni, giudizi non sempre a sufficienza comprovati dai fatti; ma è giustizia affermare che gli uomini politici, che ne formano maggior argomento, sono resi nel loro momento più caratteristico, tratteggiati a punto nelle manifestazioni loro più notevoli; e queste manifestazioni, coordinate all'azione politica generale. Gli aneddoti curiosi e nuovi abbondano; i giudizi pronunciati da altri autori su uomini e cose vengono raggruppati in modo da produrre l'effetto più notevole. Con questi volumi il Faldella ha provato chiaramente quanto opportunamente egli citasse nel suo programma l'opinione di Cicerone che opinava dovessero letterati e scienziati adoperarsi nella vita politica, per quanto lo acconsentiva loro l'ingegno, poiché si può adempiere agli obblighi di cittadino senza trascurare l'arte che li nobilita. Onde Nino Pettinati ebbe ragione di scrivere su tale proposito: "Si è detto sin qui, ed è diventata una frase fatta come tante altre, che in Italia la politica guasta i letterati e che il battesimo di Montecitorio è quasi l'estrema unzione degli scrittori. Faldella, che pure è stato un eccellente deputato come se lo sanno i suoi antichi elettori, è lì per ismentire la sciocca credenza. Il Faldella facendosi lo storico del nostro Parlamento contemporaneo ha dimostrato come oggidì la politica e l'arte in Italia sono più vicine che mai a fondersi e compenetrarsi: egli, continuando il grave incarico a cui si è sobbarcato, sta per provare come oggidì la nostra letteratura non ha più bisogno di pascersi di soli ideali e di astratti desideri per sentirsi ispirata, ed ispirando a sua volta, adempiere la sua missione civile. Questa missione letteraria, della quale si fa campione il Faldella, si ravvisa nel continuo dramma della vita quotidiana, nei giornalieri episodi del paese moderno che s'agita, che lavora, che dimanda, che progredisce; e a questa missione sentono di adempiere egualmente l'uomo politico che arringa generosamente dai banchi parlamentari, e l'artista scrittore che chiuso nel romito della sua stanza raccoglie nella storia l'eco di quelle arringhe e le riscalda al fuoco dell'arte riformatrice". Nel 1881, il Faldella aveva iniziata, coi tipi dei Roux e Favale la pubblicazione di Un serpe, quello stroncato nel "Fanfulla"; e al primo volume: Idillio a tavola, seguirono, a mano a mano, il Consulto medico e la Giustizia del mondo, uscita di recente, che suggella il ciclo delle Storielle in giro. Questa trilogia, nonostante la festività della forma, il brio dello stile e le spumeggiature esilaranti delle frasi, come in ogni altra opera dell'autore, - ha un fondo largo di mestizia, lascia a poco a poco ed inconsciamente filtrare nell'animo del lettore uno scoraggiamento funereo; segnatamente nell'ultimo volume vi è un'allegria che sa di pianto. L'azione semplice, improntata d'un forte carattere di verità, si svolge dapprima a Scozzeringo, soleggiato e ridente villaggio monferrino; si prosegue a Torino, Firenze, Roma, e si queta come per un filosofico ricorso storico, nell'iniziale villaggio. Vi è studiata e ritratta con evidenza ammirabile la vita del villaggio; le passioni che in esso si accendono per minuzie a cagione dell'orizzonte ristretto e della mancanza di ampi sbocchi alla fermentazione fisiologica, vi salgono e ribollono intuite, analizzate maestrevolmente. I personaggi scattano vivi e solidi in gran parte, come il dottore Giannozzi, Battistina sua figliuola, il conte senatore Baudone, l'arciprete Don Lanterna ecc. Altri sono alquanto indeterminati, come la diafana Rosilde, figliuola del conte, che pare una gentile figurina d'alabastro, scesa da un acquasantiere. Il dottorino Tristano Clessidra, il bieco figliuolo di nessuno, che una vampa d'odio consuma ed illividisce, quegli che dà il titolo vischioso alla trilogia, non è forse il personaggio meglio reso; non pare sia sempre estremamente vero. Vi è un che di artificioso nei suoi atti improvvisi ed eccessivi, segnatamente nella Giustizia del mondo, i quali atti male corrispondono alle premesse del suo carattere: le superano per gli effetti. Egli gioisce troppo della sua abbiezione morale, gustando la voluttà acre del fango; troppo si compiace di avvelenare la felicità altrui, per solo desiderio del male, poiché non vi è nessun interesse proprio che lo muova; troppo chiaro egli vede in sé stesso, poiché con manifesta ostentazione si diletta soverchiamente a porre sopra i suoi giornali?libelli il marchio di un titolo come: Il Serpe ? La Vipera ecc. I bricconi non ammettono mai di esser tali; si sarebbe quasi tentati a credere che il dottorino abbia letto anche lui il titolo Un serpe che raggruppa i tre volumi, e siasi ingegnato per quanto poteva a giustificarlo. E la vita giornalistica, i retroscena politici dove domina il magno commendator Nevone; dove si scorge il profilo carezzevole di una di quelle tali profumate, che con vocabolo di sensualismo moderno ora si dicono le orizzontali, pare anche sentano alquanto di manierismo. Bisogna dire che l'autore, quando ne scrisse, non avesse pur avuta occasione di analizzare e cogliere dal vero, come è suo costume, le misteriosità della vita nei grandi centri mondani e politici. Altro appunto che pure egli si merita assai è quello dei nomi che usa. Soventi essi frizzano troppo la caricatura, e ricordano assai quelli umoristici del teatro piemontese. E quando non vogliono essere una caricatura, pare cerchino di esprimere anticipatamente il carattere della persona che li porta. In questi volumi il dottorino si chiama Tristano, perché è un briccone; sua madre si chiama per antonomasia la signora Orrenda, perché bruttissima; il conte senatore, perché grasso, naturalmente ha un nome che per questa sola ragione suona come un otre: Baudone; don Lanterna, l'arciprete, ha la grazia di questo nome, perché l'autore gli destinava una statura da corazziere o da tamburo maggiore; e, mancomale, lo speziale si chiama Pasticca: il nome meno medicinale che l'autore gli poteva dare, secondo il suo sistema. Così via via. I nomi sono una grande difficoltà, ma se ne deve aver cura, poiché la verosimiglianza loro ringagliardisce l'effetto, e rende più veri i personaggi. Onde il Faldella dovrebbe seguire, a preferenza, il sistema del Balzac, il quale - come è noto - andava copiando dalle insegne delle botteghe i nomi che gli occorrevano per la sua grandiosa Commedia umana. Ma a parte ciò; a parte talune scene troppo accentuate, troppo colorite, vi sono, in codesta trilogia, pagine d'una freschezza e d'una verità insuperabili, vive scenette di villaggio rese a perfezione, nelle quali alita un che di umorismo incosciente; come quando il flebotomo Clementino Riondella, messo alla porta dal dottor Giannozzi, cui era andato a domandare audacemente la mano della figliuola, trovandosi vestito da guardia nazionale per la solennità, pensa alla maestrina Cornelia. - Clementino pensò: "Tanto Battistina non può essere mia! tanto bisogna cambiare... E cambiare adesso come di qui a poco, tanto fa... Ora sono già vestito! Perché dovrei vestirmi un'altra volta? Perché dovrei sciupare l'acconciatura? Poi il regno di una buona moglie è in cucina... e Cornelia è una imperatrice in cucina... E poi me lo ha suggerito il medico stesso, il padre di Battistína... "Così ragionando fece fronte in dietro". E entrò dalla maestra, che cucinava, la quale "staccatasi dal fornello gli corse incontro". "Aveva il viso di bragia, i capelli zingareschi, il labbro inferiore morescamente rovesciato, l'occhio giudaico. "Era una ragazza capace di cogliere un marito al volo e di imbullettare un ragazzo alla sua prima freddura. "Clementino si pose la mano destra alla visiera del kepì, e si avanzò verso Cornelia con passo militare. Essa ritrosì di pari passo, dicendogli: "- Spettacolo! "E poi: - Ah! bricconcello di un cerusichino! Ha proprio il buon tempo che lo incalza. Sentiamo un po', che cosa è venuto a fare da me il signor capitano? "Clementino senza levare la mano dalla visiera fece bocca da ridere e rispose: "- Sono venuto da lei, signora maestra, a vedere se ha da vendermi dei lupini... "A quelle parole la maestra, con smanceria vergognosetta portò l'avambraccio sugli occhi: ninnò il suo personcino e disse: "Birichino di un cerusichino!... "E faceva più volteggiamenti che parole: sollevò il suo grembiule, e con esso ventilò, sfiorò il volto di Clementino, il quale montava su, su, in excelsis, in visibilio. Egli finì con l'afferrare le due mani di Cornelia, che fingevano stracca riluttanza, le serrò in un mucchietto dentro le sue palme, e poi, ondulando la bocca nel desiderio aereo di un bacio e musicando sottilmente la voce, disse: "- Cornelia? Dunque sì? "- Si...ì si...ì! - rispose Cornelia, strascicando un sibilo come lo zeffiro. - Si...ì. - E buttò indietro la capigliatura mora?zingaresca, che discese vorticosamente a invaderle le spalle; e spalancò l'occhio giudaico verso il soffitto. "Le braciuole scoppiettavano al fuoco dentro la maiolica di Castellamonte: e sprizzavano zaffate colme di un profumo da far mangiare i morti. Furono l'incenso, il tiamo ed il cinnamomo di una promessa nuziale". (Per capire l'entratura dei lupini, occorre notare che in taluni paesi del Piemonte l'ambasciata per la visita ad una ragazza da marito si comincia col pretesto, che si è venuti a vedere, se ci sono dei lupini a vendere.) La narrazione del consulto medico, la lotta scientifica fra il vecchio medico dell'antica scuola, ed il novello dottorino di scuola recentissima, è stupenda; seguono paesaggi di una freschezza inimitabile, scene di campagna che par di vedere veramente, quadretti resi con zelo, con scrupolo da pittore fiammingo; onde G. De Abate, in un sonetto che dedicò di recente all'autore sulla "Gazzetta letteraria" di Torino, ebbe ragione di dire di lui: "Egli è il Michetti delle mie pianure". Non importa per la definizione che le scene del consulto siano sulle colline del Monferrato; imperocché il Faldella si è manifestato pittore da bosco e da riviera, da pianura e da collina. Nei volumi del nostro paesista vi è - come dice Giacinto Stiavelli, che trova nel Faldella un investigatore profondissimo delle cose, uno stilista accurato e brioso come nessun altro - vi è da raccogliere una fiorita, la più olezzante, di osservazioni fine, profonde o bizzarre, quali le seguenti. "Le ragazze che amano si sentono pesare a loro stesse, e non possono muovere con disinvoltura le loro persone. Esse portano dentro loro degli universi. L'amore inchioda loro il cuore; e tutto il lecchetto del mondo restante non potrebbe più farle muovere e correre con vivezza. "...L'amore, anche turato bene, può durare incarcerato un estate, due estati, sette estati; ma ce ne viene poi uno così caldo e veemente che l'amore fa saltare il tappo e schizza via". L'azione, senza troppi aggrovigliamenti, è interessante, perché vi palpita veramente la vita, e si svolge via via, con inflessibile logica di disgrazie, che sono sempre la grande parte dell'esistenza; onde, attraverso l'allegria della forma, si sente un largo fondo di mestizia che sale fino a invadere tutto nella chiusa: Rassegna funebre. In quest'ultima parte, a beneficio della contessina Rosilde, ideale bellezza da Immacolata Concezione, angiolo diafano che si immalinconisce senza pur lo strascico di un marito degno di sublimarla a maternità, si ingemma un sonetto di Giovanni Camerana, "poeta austero, smagliante e profondo"; sonetto inedito per una Madonna nera, ispirato forse dal Nome di Maria del Manzoni, ma che olezza d'uno schietto sentimento di devozione campagnuola: Ave Maria, che dalla nicchia d'oro Nella rigida tua veste ingemmata, Negra in viso, ma bella, ascolti il coro, L'ingenuo coro della pia borgata. Ave Maria, di stelle incoronata, Curvo e triste nell'ombra io pur t'imploro; La valle imbruna, è il fin della giornata, Coi mandrian dell'Alpe io pur ti adoro. Tu che salvi dall'ira del torrente, Tu azzurra visïon nell'uragano, Tu ospizio fra le nevi ardue, tu olente Aura, in che orror mi affondo, in che agonia, L'onta, il ribrezzo, il gran buio crescente, Tu lo sai, tu lo vedi; - ave, Maria. E questo sonetto che la pia e mesta contessina ingioiellava "nel suo aureo libro di devozione alla pagina delle litanie della Vergine" finiva per essere imparato a mente anche dal confessore di lei, l'arciprete don Lanterna - una delle più riuscite figure del romanzo. - Egli "trovava densa di grandiosità quell'invocazione bisognosa di fede che negli abissi della noia e dell'angoscia accomuna al povero contadinello l'artista, l'erudito, il ricco; vera dimostrazione del gran circolo più che cristiano, umano, più che umano, psicologico, spirituale". E concludeva: "La più sincera estrinsecazione della fede si è la carità: unica speranza, unica promessa di letizia". Tutto sommato la trilogia del Faldella riesce uno dei più notevoli, robusti e sani lavori che siansi, in tal genere di letteratura, pubblicati in questi ultimi tempi: è un lavoro donde spira un potente alito di verità, e la cui lettura, mesta dopo tutto, fa aleggiare il pensiero in alti orizzonti con più intensa avidità del bene. Ma la Giustizia del mondo, quantunque ultimo volume che sia apparso del Faldella, non è il suo scritto più recente; nel 1882 la Casa Editrice di Angelo Sommaruga pubblicava in Roma colla consueta ed arrischiata sua eleganza di formato, di caratteri e di fregi, pubblicava di lui: Roma borghese. Assaggiature, opera pensata e scritta assai tempo dopo il Serpe, e che ora tocca già alla sua seconda edizione. Codeste assaggiature si riannodano, nel concetto, al Viaggio di Geromino a Roma; e l'autore ci annunzia già che verranno seguite da altri studi sullo stesso argomento. Lo scopo di tale studio ce lo rivela l'autore nella prefazione al volume; prefazione che ha intitolata: Interno ragionamento per un'opera completa. "...io avrei proprio in mente di intraprendere un lavoro che non fosse perfettamente inutile, un lavoro su Roma borghese (la chiamerei così, non per omaggio alla principesca famiglia di tal nome, ma per antitesi a Roma pretina, volendo dire Roma borghese per dire Roma secolarizzata; lo capisce un cretino). "Nel mio lavoro vorrei raggruppare e fondere tutte le mie osservazioni fatte in un quattrennio filato di corrispondente giornalistico alla "Gazzetta piemontese". La presente condizione storica di Roma è riguardevolissima, perché unica nella storia. Imperocché la città che da due millenni e mezzo ne ha già viste e fatte tante, non è mai stata quale è oggi: diventata capitale della libera nazione italiana, e rimasta capitale del mondo cattolico; monarchica, e munita di molta licenza dai superiori per le pubblicazioni e le dicerie più rivoluzionarie". Con questi intendimenti, egli ci ha dati quattro saggi notevolissimi. Il primo, Colonie buzzurre, è la fisiologia dei quartieri alti di Roma nuova, fatta con felicità di tocco, da acquarellista innamorato: "I quartieri nuovi dell'alta Roma si accampano come una consolazione, un rimprovero e un insegnamento a certi quartieri della bassa Roma confusi, addossati, lerci, affatto ciechi o neppure leccati dal sole, ricchi di pulci; acciocché anch'essi si lascino saettare dai dardi e rinsanguare dai rivi di vita nuova. "I gruppi delle nuove vie intitolate alle battaglie e agli assedi più belli del Risorgimento nazionale (Goito, Pastrengo, Palestro, San Martino, Gaeta) o nei nomi valorosi di Casa Savoia (Carlo Alberto, Vittorio Emanuele, Umberto, Amedeo,) o in quelli insigni e benemeriti di Cavour, Farini, Mazzini ecc. si contrappongono ai gruppi delle vecchie vie coi titoli imbruttiti di santi (San Stefano del Cacco, Santa Maria in... Cacaberis) o con quelli dei più umili mestieri (sediari, canestrati, chiavari, coronari), o con quelli degli stranieri Avignonesi, Portoghesi, Greci, Aragonesi, Spagnuoli ecc.". L'autore rende, con fresca vena di umorismo, l'interno di talune famiglie d'impiegati piemontesi dalle rendite sottili e dalle bocche numerose e voraci, che meditano e rimeditano, col bilancio alla mano, la spesa di un soldo, quale era appunto la famiglia Berleris: "Tutti gli otto bambini, avviluppati in un lusso di tovaglioli intorno al collo, pranzavano con un solo uovo lessato col guscio (a la greuja). Scocciato sulla punta, si piantava nell'ovarolo o nella saliera, in mezzo alla tavola. I bambini, per ordine di età, vi intingevano il pane grissino dentro. Una volta, Emanuele, il più piccino e più birichino, sprofondò due volte di seguito nell'ovo il suo grissino; e la mamma, spiritata, gridò: - Guarda che 't chërpe. Bada che scoppi!". E Faldella prosegue cesellando squisitamente, per finire con uno slancio lirico, augurando la fusione dei vari tipi italiani in nuove ebbrezze di forza e d'amore, colla speranza che "crescano figli forti e illuminati, che congiungano gli esempi di Furio Camillo e di Camillo Cavour, di Pietro Micca, di Cola da Rienzi e di Ferruccio...". Così, sognando con epico sentimento di patria rigenerata, gli par di vedere "le statue equestri di Emanuele Filiberto e di Marco Aurelio camminare di conserva e passare sotto il futuro grand'arco di Vittorio Emanuele, glorioso come quelli di Settimio Severo, di Tito e di Costantino". Il secondo studio intitolasi L'Arcadia, e nella prima parte è divertentissimo. L'autore incamminandosi la sera del 7 marzo 1880 verso il Serbatoio dell'Arcadia romana (palazzo Altemps) credeva "di dover scendere in iscavi" a ritrovare e "ricostruire una bellezza di mondo antico, il mondo metastasiano del Settecento, delle villanelle artificiali, srugginite, merlettate, profumate, incipriate, scollacciate, e palpitanti nei tiepidi avorii, e dei pastorelli di ciccia prelatizia, le zazzere mantecate, le facce rosse e lisce come pesche nocciuole, l'alito di rosolio, e i fruscianti codazzi serici di porpora o di viola: il mondo di Amarilli e di Mirtillo, di Corisca ed Ergasto, di Dorinda e di Dameta, di Fillide e di Elpino, di Aurisba e di Comante ecc.". Egli descrivendo la sala affollata del serbatoio ha fatto un quadro ammirabile, degno del pennello di Ruysdael. "In fondo della sala c'è una galleria per il pubblico di minor conto, come a dire seminaristi e pedine, mogli e figliuole dei maggiordomi clericali, parrucchieri, tonsori delle chieriche; nella platea fittamente insediati abatini di primo canto, abatoni, domenicani dal collo ingrassato nel bianco scapolare, facce tonde di minori o nulla osservanti, cappuccini austeri, asciutti, colle palpebre soccallate, la barba che lista il petto, ambe le mani sul rialzo delle ginocchia accavallate; nelle sedie chiuse un canestrone di canonici, monsignori, prelati lustri inzuppati di rigoglio come frutte mature, mozzette violacee a iosa, una fiera di vescovi e arcivescovi, e finalmente nei seggioloni d'orchestra una mezza serqua e più di cardinali: Alimonda, Meglia, Davanzo, Pecci, Pellegrini ecc., dal rosso zucchetto sigillato sulla cervice come un'ostia da lettere". Quindi, pennelleggiate sempre con vigoria di colorito, sfilano le moderne pastorelle appetitose che rendono gli occhi lustri ai seminaristi; sfilano turgide nella descrizione del Bosco Parrasio, ricetto estivo sul Gianicolo; ma il bozzetto così spigliato nella mossa ed in tutta la prima parte, si impiomba sul fine in una stanchezza improvvisa, ed avvizzisce in un sermone che l'autore volle fare a giustificazione presente e passata della belante ed infiocchettata Accademia. Viene poscia nel volume La morte di un giornalista, e sono pagine commoventi dedicate a Salvatore Farina, che narrano con forte e pietoso sentimento di fraterna amicizia la morte di Roberto Sacchetti, l'autore di Cesare Mariani, di Tenda e castello, Castello e cascina, Candaule, ed Entusiasmi; l'amico ed il confortatore di Praga, del quale continuò le Memorie del Presbiterio, ultimandole e dettandone pochi giorni prima di morire, dal letto, la prefazione. Roberto Sacchetti "consumatosi nella lotta" era venuto a Roma quale corrispondente ordinario della "Piemontese", quando il Faldella assidevasi in Montecitorio, ed i due amici continuarono fraternamente la loro vita di giornalisti; ma la morte doveva abbattere d'improvviso il Sacchetti nella pienezza della sua gagliardia intellettuale; il lavoro eccessivo, a cui si condannava, lo aveva prostrato. Il Faldella lo ha ritratto stupendamente con squisitezza di tocco: "Sacchetti era silenzioso. Davanti alle prime impressioni, egli non era espansivo: raccoglieva, filtrava, assimilava... guardava fissamente mutolo coi suoi occhi orientali e colle tempie rosse e secche. Diventava poi espansivo parlando e scrivendo, quando si trovava nel secondo periodo di riferire le cose mentalmente elaborate, digerite... "Allora eterizzava, elettrizzava, polarizzava, magnetizzava, fecondava, completava le impressioni sue ed anche quelle sentite da altri". E più oltre, quando narra degli ultimi momenti del povero artista, l'autore ha un'elevazione gagliarda nella mestizia, che turba profondamente l'animo: "Eravamo nella camera io, il domestico di Mora, un selvaggio della campagna romana, e la giovane portinaia, Isolina, una Ofelia toscana. "Mi ricordo, come di una visione, dell'apparizione d'una giovane signora, sconosciuta, forse una compagna di collegio di qualche signora parente di Sacchetti, la quale le aveva telegrafato per quell'ufficio di misericordiosa assistenza. "Quella signora elegante, esile e bella, con un collo sottile che pareva un gambo di fiore, fu l'ultima coraggiosa infermiera che si curvò sul letto dell'ammalato. "Egli, che conservava forse il sentimento estetico, se ne dimostrava negli occhi contento, come all'apparizione di un angelo al suo capezzale di morte... e interrogava me collo sguardo, quasi per saperne il nome. Le sue mani, l'una nelle mie mani, e l'altra nelle mani della signora, brancicavano con soddisfazione di pace; sopravvenivano telegrammi che mi invitavano a baciarlo. Lo baciai sulla fronte...". E Roberto Sacchetti passò serenamente. Vien quarto ed ultimo assaggio di Roma borghese, Un viaggiatore piemontese, il quale è nientemeno che il capitano Celso Cesare Moreno, celebre nei due mondi e speciale martello, per qualche tempo, del giornalismo italiano, uomo di merito e di azione dopo tutto, tipo da capitan Dodero, o da viaggio straordinario di Jules Verne, tipo che il Faldella ha studiato e pennelleggiato con vivacità ed energia nel suo gustoso studio. Nello scrivere queste assaggiature il Faldella tenne certo a mente il consiglio di Giosuè Carducci; l'aria circola frizzante a ravvivare i periodi; vi è minor affastellamento di colori, quindi il colorito è più discernibile e vivace; e l'originalità dello scrittore vi appare più salda nella sapiente parsimonia dei vocaboli scelti con più acume, disposti con più misura; onde un effetto più intenso. Lo scrittore, via via, si è venuto facendo meno arzigogolato e più elaboratamente individuale; cosicché la sua potenzialità è maggiore. Infatti il lettore meglio si assimila le sue idee, e più nette scorge le cose che egli rende con frase immaginosa e nuova. Faldella usa sempre largamente i paragoni, e questa è una sua ricchezza, poiché per mezzo dei paragoni si pone in evidenza il nesso arcano che collega tutto, uomini e cose, ogni più varia manifestazione in una colossale ed eloquente parentela. Certo non sempre le immagini sono esatte; e per voler troppo rappresentare a volte egli si sforza, falla il segno, fa sorgere una nebbia di frasi sulle cose, o si confonde in pieno barocco; allora ne vengono fuori certi suoi periodi che molti giornali si compiacquero a porre in evidenza, tacendone quelli di bellezza tersa e cristallina: ne vengono fuori trovate di questa sorta: "La signorina Battistina, con le mani ìncrocicchiate sui ginocchi, con il busto leggermente penzolo come statua della fiducia in Dio, o come colomba che stesse per pigliare il volo, con un sorriso da cherubino sul bottone delle labbra e gli occhi bucati da tagli di diamante, annuiva, applaudiva ecc.". E quest'altra: "L'arciprete si fregò le mani, e poi, ripostosi un dito nella fossetta della gola, fece dei nastri per la stanza". Forse sarebbe stato più chiaro, più esatto dire che faceva la spola per la stanza, ché dei nastri non ne lasciava davvero. Questa frase fare dei nastri, per il passeggiare lungamente e ripetutamente nello stesso luogo, che si dice pure fare le volte del leone in gabbia, quantunque sia una frase adoperata dal Giusti nell'Epistolario e da Edmondo De Amicis e sia usitatissima in Toscana, specialmente a Pescia, che ha una piazza lunga e stretta, dove la gente va a fare i così detti nastri, è una frase che mi sa di tenia. E la frase dialettale monferrina "dormir sodo come una ripa" ha una pretesa omerica senza fondamento. Ad ogni modo, come ebbe a scrivere Théophile Gautier in Fortunio, ogni montagna suppone una vallata, come una torre suppone un pozzo; né si può avere l'altezza siderea senza la profondità equivalente. E un artista indipendente, come il Faldella, che colla squisitezza di un temperamento eccezionale ritrae colla penna il mondo da lui osservato ed intuito; e lo rende colle sensazioni genuine che gli sorgono spontaneamente ed improvvise nell'animo e nella mente, subisce inevitabili prostrazioni tanto maggiori quanto più è affinato il suo senso artistico. Ed in quelle prostrazioni inconsce, pur producendo immagini per la ressa delle idee, egli deve necessariamente riuscire meno felice e meno efficace. E fors'anco, segnatamente nei suoi primi lavori, per la foga che gli prese di ingolfarvi dentro una quantità di piemontesismi, di frasi scelte e di modi di dire classici, di proverbi locali, senza badare se ne meritassero l'alto onore, o se fossero locuzioni già corrotte destinate a sparire dall'uso, o a restringersi in una limitata cerchia vitale, accadde che molte parti dei suoi lavori rimasero incomprensibili dalla maggioranza dei lettori; e quindi affette da una tal quale paralisi progressiva. Ma il suo stile si è col tempo forbito, si è fatto più lucido, quindi dà più facili effetti, talché gli aumentano ogni giorno i lettori; i quali, fatta la bocca, mordono con festevolezza avida, nel frutto un po' agretto ma sano, ma tonico. Ed ora, anche oltre le immani ondulazioni dell'Atlantico, egli conta lettori; poiché, di recente, un immenso giornale americano ha pubblicato un succoso studio su di lui. "Una gentile signora, - ricorda Nino Pettinati - artista essa stessa, paragonava testè i libri del Faldella a certe musiche tedesche. A primo udirle - essa scriveva - e specialmente per chi non v'abbia l'orecchio un poco avvezzo, sembra che riescano soverchiamente affollate di note, di astruserie, di piccinerie, talora persino di stonature e di caricature. Ma poi riudendole bene si comincia a sentire che sotto tutto quell'avviluppo la melodia si svolge piana, dolce, ineffabilmente espressiva, e alla fine quando si cerca un modo di semplificarle, queste musiche, ci si accorge che ognuna di quelle note, di quelle astruserie, di quelle stonature è la melodia medesima...". Paragone signorile codesto, che esprime con fínezza di gusto artistico, l'effetto che veramente fanno le pagine dello scrittore piemontese. Sul finire dello scorso anno 1883, nell'affermarsi della Pentarchia politica in opposizione al Patriarcato di Stradella, il Faldella, invitato specialmente da Giuseppe Zanardelli e dal Roux, si risolvette ad essere collaboratore straordinario del nuovo giornale di opposizione diretto dal predetto deputato Roux "La Tribuna". Lo si vide allora ricomparire a Roma a meriggiare sul Corso, tranquillo osservatore ed investigatore della via; a furettare appassionatamente in mezzo a bibliotecari stagionati e preti tabaccosi, tra i libri vecchi, tarlati, ammonticchiati il mercoledì sui banchi di Campo di Fiori, come in ogni ricettacolo di carte stampate; lo si vide extra muros a passeggiare serenamente riflessivo fra ruderi venerandi insieme con amichevoli ed eleganti compagnie. Ma nella "Tribuna" egli scrisse pochissimi articoli politici; a quando a quando vi pubblicava invece pensati articoli di arte, riviste, studi letterari, sociali; così vi scrisse con acume di Flaubert, con finezza di Sbarbaro, con intendimenti filosofici del carnevale, con elevatezza di concetti e di giudizi in morte di Francesco De Sanctis ecc. Poscia d'un tratto sparve, e si seppe che, avido di paesaggio e di sole, era corso a rifugiarsi nel suo villaggio. Giovanni Faldella è di mezzana statura e di robusta complessione; ha testa forte, voluminosa, fronte ampia, pallida, vigorosa, da pensatore; capigliatura violenta, foltissima a ondulazioni castane, occhi miopi ceruli, d'una dolcezza femminea, i quali, come quelli del Daudet, vedono tutto e tutti, soccorsi dalla concavità delle lenti; ha naso dritto, accentuato, guance colorite dalla salute, baffi e barba d'un color alquanto più chiaro dei capelli: una barbetta "appuntata e lunghetta che ricorda il profilo degli antichi mitologici protettori delle selve, grandi adoratori di profumi campestri, di gradazioni di tinte verdi, di succhi d'erba, di rezzi e di boschi intricati" come scrisse di lui il nomade, fertile, audace e geniale poeta socialista lombardo Fernando Fontana. Fra le curve morbide dei baffi si scorgono soventi le sue labbra rosee a schiudersi ad un sorriso buono. Ha indole quieta ma capace di scatti improvvisi che tosto si posano; cammina sollecito, e lietamente contento della vita che lo accarezza, e dell'arte che gli procura profonde, intense ed intime soddisfazioni. Chiacchiera volontieri, con abbandono fiducioso, ed è espansivo cogli amici intimi, colora le frasi a rapidi tocchi, con smaglianti pennellate di parole immaginose, e rifugge dalle noie, da ogni lavoro che non torni armonico alla sua indole libera, alle sue tendenze intellettuali. Sente profondamente l'amicizia, e ne diede ampia ed affettuosa prova nell'assistenza che fece, con altri amici, al povero Roberto Sacchetti agonizzante; simpatizza vivamente per i caduti, per quanti soccombono alle strette della necessità, pur avendo ingegno, ma che non trovano la loro via; per quanti si ribellano alle pressioni ed ai freni artificiosi della esistenza, alle ingiustizie elevate soventi a dignità di legge, dimostrando in tal guisa di essere qualche cosa, una individualità che abborre dall'assorbimento e dallo scoloramento. E sovrattutto egli ama gli spazi ampi all'aria aperta, ossigenata, le linee quiete e grandiose della campagna che baciano l'immensità azzurrina del cielo. Nella sua Saluggia, egli vagabonda osservando e meditando. E nella pace fruttifera della sua camera da lavoro, fra gli alti scaffali che salgono, densi di volumi antichi e moderni, ad intonacare le pareti, fra il silenzio alto che gli è necessario, appena ombrato dalla gaia pispilloria degli uccelli fra gli alberi, egli accatasta le sue nitide cartelle, miniando, con serena coscienza di artista, le idee che gli si affollano festosamente in capo, facendo rivivere le cose studiate con amore, i paesaggi ed i costumi contadini che analizza con estrema finezza, e le scene tormentose dei grandi centri, nei quali si è tuffato come l'ape operosa nel fiore a raccogliere l'essenza mellifera. Ed a Saluggia egli ha composto i suoi migliori lavori, forse perché l'ingegno suo si fa più potentemente produttore sotto l'alito carezzevole della mamma venerata, che in lui giustamente s'inorgoglisce; sotto l'azione della parola tonica, altamente onesta del padre suo, buon vecchio dalla vita intemerata, medico dotto e benefico del suo paesello del quale fu sindaco sin dal Regno di Carlo Alberto, amico caro a Luigi Carlo Farini, con cui faticò eroicamente per combattere il colera in quelle terre, uomo di ingegno aperto e vivace, al quale solo una modestia eccessiva e l'amore ineffabile della casa, della famiglia e del villaggio tolsero di rendersi più largamente noto prendendo più intensamente parte alla vita pubblica. Ed in quel mite e dolce ambiente patriarcale Giovanni Faldella, ormai nella piena virilità del suo forte ingegno, che assurge spiccatamente fra gli ingegni più vigorosi ed originali dei nostri giorni, ci potrà dare nuove opere improntate a gagliardia di concetti e ad elevatezza di intenti, nella schietta rappresentazione della vita. CARLO ROLFI Roma, aprile 1884.

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676029
Ghislanzoni, Antonio 28 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Si direbbe che, a punire questa titanica ribellione contro l'ordine della natura, Iddio abbia pietrificato di uno sguardo l'umanità tutta intera. Dopo dieci minuti di attesa terribile, l'Albani sentì piovere sulla fronte uno gocciola refrigerante. Era la stilla invocata dal dannato Epulone ... Il giovine levò al cielo uno sguardo più eloquente di ogni parola ... e quello sguardo era l'inno di riconoscenza, era l'omaggio dell'intelligenza subordinata, che rimonta alla sorgente divina da cui emana e dipende. Tutti i calcoli dell'Albani si erano avverati. Una pioggia lenta, fresca, abbondante, simile in tutto alla pioggia naturale, scendeva sulla terra a vivificare gli animali, le piante, i campi e le onde. L'artista non potè contenere un grido di soddisfazione; ma quel grido andò perduto negli applausi, nell'urlo di dieci milioni di spettatori. Quando l'Albani abbassò lo sguardo con sublime compiacenza per leggere su quella immensa superficie di teste l'ammirazione dell'opera sua, le teste erano già sparite sotto uno sterminato padiglione di ombrelli, ed egli potè sorridere, come Dio, sulla umana debolezza. Due ore dopo, per mezzo dei fili telegrafici, la riuscita del nuovo meccanismo era annunziata agli estremi confini dell'universo, e l'artefice prendeva il suo posto fra i primati dell'intelligenza col nome di primo Albani.

«Io non mi accuso di aver mancato per negligenza o mal volere, ma temo che l'impotenza assoluta a lottare contro uno dei più abbominevoli trovati della industria moderna abbia tradito i miei calcoli. «Che qualche furfante, abusando della maschera-ritratto, a tanto sia riuscito da ingannare la mia accortezza non solo, ma anche quell'istinto di gentile penetrazione, quella direi quasi intuizione divina che è propria delle donne innamorate? ... Una tale ipotesi spiegherebbe molte cose; ed io non dispero che, profittando delle molte note da me tracciate in argomento, il mio successore riesca a scoprire la verità e a porgermi i mezzi di una giustificazione più completa. «E dopo questo, cittadini ladri, manutengoli, ecc. ecc., io rientro nella vita privata, ringraziando voi e la provvidenza, di avermi aperta, a svignarmela sano e salvo dal palazzo di Sorveglianza, una uscita abbastanza sicura, quale difficilmente vorrà offrirsi al mio successore. «L'EX BARONE TORRESANI» Quella sera al teatro Scalvoni e Barbetta si rappresentava una grandiosa tragedia-ballo in venti atti e sessantotto quadri, intitolata la Caduta di un Gran Proposto, ossia il tremendo verdetto della Giustizia divina per opera d'uno specillo galvanico Verso le ore sette, una ondata di oltre cinquantamila spettatori irrompeva nel gran teatro popolare. La impazienza e la concitazione del pubblico si rivelava dagli atroci latrati dei binoccoli canini(25).

Vedete, Gran Prestinaio; non vi pare che mia figlia abbia un viso da febbre terzana? - Più pallida, più estenuata ... difatti ... - Immaginate, cittadino Rolland, che sono stata ritta più di un'ora al medesimo posto, per udire la spiegazione dei meravigliosi meccanismi che devono produrre la pioggia artiflziale ... - E chi ebbe la fortuna di svelare i misteri della scienza ad un'allieva sì docile e sì gentile? - chiese Rolland a Fidelia. - Oh! la fortuna fu tutta mia - rispose la giovinetta arrossendo - io non sperava d'incontrare sulla riva del lago un maestro tanto istruito e sapiente. Figuratevi che la spiegazione della meravigliosa macchina io l'ebbi dall'inventore ... - Tu hai parlato con quell'uomo! - esclamò il padre di Fidelia, balzando dal pieritto. - Tu dici d'aver parlato coll'inventore della macchina ... ! - ripetè il vecchio con voce corrucciata. - Gran Proposto: - disse Rolland levandosi in piedi - moderate quei vostri trasporti dinanzi ad una fanciulla ... Non vedete? voi la fate tremare! - Fidelia! mia buona Fidelia! - riprese il vecchio dopo breve silenzio, accostandosi alla figlia e stringendole la mano con tenerezza. - Rispondi sinceramente al tuo vecchio padre: conosci tu il nome del giovine artista, col quale ti sei intrattenuta a conversare? T'ha egli nulla rivelato delle sue vicende ... delle sue ... sventure? - Io non conosco la menzogna - riprese Fidelia con voce commossa. - L'inventore della pioggia artifiziale mi ha rivelato il proprio nome coll'accento straziante di chi confessa una colpa. Questo nome, che domani non sarà più un segreto per alcuno, io non ho difficoltà di ripeterlo a voi ... Il giovane artista si chiama Secondo Albani ... - Egli ti ha ingannata,figliuola mia! - proruppe il vecchio con ira. - Colui non ha più diritto di chiamarsi Secondo, dacché la legge lo ha condannato ... Ma il vecchio non potè compiere la frase ... perocché il Rolland, balzando in piedi, e intromettendosi fra il padre e la figlia: - Gran Proposto! - disse con voce autorevole; - in nome di quella legge che tu, primo magistrato della famiglia Olona, devi affermare coll'esempio, io ti ammonisco che tu mancheresti al più sacro dovere di fraternità, accusando ed infamando un cittadino, che oggi è puro ed onorabile come al giorno della sua nascita - Io sono in casa mia, mastro Rolland. Nella libera cerchia del santuario domestico, fra un padre ed una figlia, ve lo ripeto, non può esservi altro codice che quello dell'amore. - Con autorità di fratello vi ho ricordato un dovere - proseguì Rolland - ed ora fate ciò che la coscienza v'ispira. Badate che questa legge che voi chiamate di amore, non sia piuttosto un avanzo di pregiudizi ereditati. Queste parole turbarono la fronte al vecchio Proposto. Rolland gli strinse la mano, uscì dalla comune, e abbandonandosi al pendio della glissante,

. - Puoi tu asserire - domandò l'inquirente - che Primo Albani abbia avuto teco un colloquio nella notte dal ventisette al ventotto settembre? - No! - rispose la morta. - In quella notte l'Albani era ben lungi ... ben lungi ... da Milano. - Perché dunque - riprese l'Inquirente - hai tu voluto, quando eri in vita, affermare un fatto che ora sei costretta a smentire? ... - Perché desso ... perché colui ... - Parla! ... una sola voce! ... una parola ... ancora! - gridò l'Albani! - È vano! - disse il primate ritirando il pungiglione dalla fronte dell'estinta e riponendolo nell'astuccio. - Il galvanismo non ha più azione su lei: la materia animale è ottusa. Ciò che avvenne in quel punto nella sala non può descriversi a parole. Caliamo la tela su questa scena di desolazione e di tumulto.

. - In meno di tre minuti, prima che la campana abbia cessato di suonare, noi scenderemo alla porta del tuo palazzo. L'agitazione di Fidelia, sopratutto l'accento di terrore ond'ella proferì il nome del padre, agghiacciarono il cuore del giovane innamorato. Non osò muover passo, non proferire una parola. Ma prima di allontanarsi, Fidelia volse a lui uno sguardo ed un addio, che equivalevano ad una promessa. - E mentre le tre donne si dileguavano per l'ampio viale, l'Albani sentiva nell'anima una voce soave ripetergli in mille toni melodiosi: io ti amo! Presso l'Arco della Pace le tre donne salirono in una gondola volante che elevandosi rapidamente all'altezza di cento metri, si diresse verso la città con moto velocissimo. Luce, Fidelia e Viola, adagiate nella aerea navicella, sorvolavano alle piante ed alle abitazioni, come tre cherubini portati da una nuvoletta. La campana del richiamo vibrava gli ultimi squilli, allorquando Fidelia, salutate le amiche, entrava negli atrii del palazzo paterno. Corse alla sedia ascendente toccò il bottone dorato, e tosto, pel rapido agitarsi delle carrucole, tra il fremito armonioso delle corde vellutate, ella trovossi negli appartamenti superiori. Le prime sensazioni dell'amore, i moti involontari dell'anima che sente la seconda vita, riflettonsi nel volto di giovane donna. Le guance di Fidelia erano bianche siccome l'alabastro, l'occhio radiante di nuova luce, le labbra voluttuosamente socchiuse. Un insolito abbandono, una melanconica rilassatezza in tutta la persona. - L'amore, che più tardi rinvigorisce e rigenera la donna, in sulle prime si annunzia coi sintomi della febbre. Al leggero cigolio delle carrucole, che annunziava l'ascensione di Fidelia negli appartamenti superiori, due gravi personaggi mossero ad incontrarla nella galleria. Non appena la sedia ristette, l'un d'essi stese la mano alla fanciulla per aiutarla a discendere - l'altro, il più vecchio, arrestandosi a pochi passi dalla porta d'onde era uscito - figliuola mia, disse con voce severa, tu sai che io non amo di saperti in volta ... ad ora sì tarda della notte ... Fidelia non rispose. - È l'ora legale - disse il più giovane dei personaggi ... - Il richiamo dello vergini suona tuttavìa ... - Sempre da capo con queste vostre teorie della legalità! - proruppe il vecchio con accento di stizza ... - Io rispetto le leggi, e mi adopero con tutto lo zelo per farle rispettare dalla famiglia; ma fra un padre ed una figlia i doveri ed i diritti non vanno misurati alle norme del codice. L'amore che io porto a Fidelia mi impone di ricordarle che l'aria della notte è nociva alla salute, e quand'anche non vi fossero per lei altri pericoli andando in volta ad ora sì tarda, questo solo basterebbe perché ella dovesse piegarsi a' miei desiderii. - Eravamo uscite un po' tardi dal circolo ... Luce e Viola mi hanno invitata ad accompagnarle fino al Larietto per vedere gli apparecchi della macchina ... Fidelia articolava a stento le parole. Ella appoggiò il suo braccio a quello del padre, e tutti insieme entrarono nella sala. - Figliuola mia - disse il vecchio assestandosi in un pieritto,

- Io credo che l'amore abbia sempre esistito nel mondo - e che a lui si debba ogni sviluppo delle umane perfezioni. Io mi sento orgogliosa di essere donna - perché ritengo che, nei barbari tempi dell'abbrutimento universale, la donna abbia sempre conservata e alimentata la favilla della carità. Quando tutte le case erano ammorbate di tabacco, e tutti gli uomini imbestialiti nella crapula, o peggio ancora, mummificati dall'egoismo, o fatti macchina dalla cupidigia dell'oro - tutta la poesia del creato si rifugiava nel cuore di poche donne, angioli predestinati al martirio, che viveano per amare e morivano per aver troppo amato. - Oh! io non avrei potuto amare quei rozzi e balordi animali d'allora - disse Fidelia ridendo. - Ti giuro, o sorella, che se io fossi vissuta nel secolo scorso, piuttosto che lasciarmi baciare da un uomo ... Che orrore! Uomini che all'età di trent'anni non avevano più denti in bocca, né capelli sulla nuca! Questa ingenua sortita di Fidelia portava la conversazione sopra un tema favorito. Ragionando di quella misteriosa e gentile aspirazione dei giovani cuori, di quel bisogno imperioso dei sensi che è l'amore, le tre donne divennero eloquenti.

Le circostanze del fatto constatate e determinate da giudici incorruttibili, stanno scritte nel resoconto che da tre giorni venne sottoposto al pubblico sindacato nel Diario del dipartimento Nessun difensore essendosi presentato innanzi l'ora prefissa dalla legge, è ritenuto che la coscienza pubblica abbia facoltà di confermare la sentenza del Tribunale. Da questo momento la condanna di Secondo Albani è divenuta irrevocabile. «Ed ora mi rivolgo a te, fratello reietto; e bada che la mia voce è la voce di tutta l'umanità che grida anatema sul tuo capo. «In epoca non lontana che con stolida jattanza intitolossi civile, l'assassino era condannato a morire per mano del carnefice sulla piazza, al cospetto di un popolo, che assisteva a quella scena di sangue come a spettacolo giocondo. Il delitto punito col delitto, in luogo di moralizzare le masse, le abituava al ribrezzo dell'orribile vista. Il popolo fu veduto ammirare ed applaudire al cinismo del condannato. - Sul palco di morte il delitto parve circondarsi di un'aureola gloriosa - la vittima fu compianta, il boia imprecato. - E nondimeno, a quell'epoca, molti eminenti legisti facevano l'apologia della forca. I più miti, riconoscendo l'immoralità del supplizio, lo dissero terrore indispensabile a reprimere istinti feroci. - Non avrei evocate le memorie dei barbari tempi, se non fosse rarissimo il caso in cui il Tribunale di Giustizia debba applicare ad un grande colpevole gli estremi rigori del Codice di redenzione. - È necessario che al fratello del reietto, e a tutta la famiglia che mi ascolta, io ricordi in che consista la pena della morte civile, e come debbasi applicare, e quali sieno quindi innanzi i soli rapporti possibili fra il condannato e la società che lo respinge dal suo grembo. «A te dunque, Secondo Albani, da questo momento è tolto il diritto di portare il nome de' tuoi avi e dei tuoi congiunti di sangue, perocché non è giusto che tu abbia cosa veruna di comune con uomini onesti e rispettati. «Il titolo di Secondo, a te conferito nel giorno dell'adolescenza per stimolarti all'emulazione di un padre benemerito della umanità, verrà trasmesso fra due giorni al minore fratello, cui rimarrà il privilegio di portarlo e trasmetterlo al figlio primogenito. «Per cinque anni e un giorno dovrà cessare ogni comunicazione fra te e il resto della umana famiglia. Non potrai soggiornare oltre ventiquattro ore in una città o circondario, né penetrare nelle case dei fratelli che ti hanno reietto, né assiderti alla mensa de' tuoi simili, né profittare di alcun istituto pubblico, né viaggiare coi veicoli della Unione, né servirti di cosa veruna che appartenga alla Comunità degli uomini. «I tuoi fratelli, a qualunque famiglia appartengano o circondario o dipartimento della grande Unione Europea e delle altre comunità che adottarono il Nuovo Codice non ricambieranno con te un saluto né una parola quando ti incontrino pel loro cammino. Passerai fra le genti come un'ombra invisibile, come larva di un uomo che ha cessato di esistere. «E perché tutti ti riconoscano, e nessuno per inscienza o inavvertenza possa opporsi ai voti della legge, l'Esecutore della Giustizia ti imporrà il collare di riprovazione che tu porterai al collo per cinque anni ed un giorno fino ad espiazione compiuta. l'esecutore di Giustizia sarà tenuto a conservare la chiave di detto collare, che egli stesso discioglierà in questo luogo medesimo, al cospetto dei magistrati e del popolo, quando, esaurlta la condanna, tornerai all'amplesso dei fratelli. «Trascorsi i cinque anni ed un giorno, se, per malattia, o per altre circostanze indipendenti dal tuo libero arbitrio, tu non fossi in grado di tornare in questo luogo stesso per ricevere l'assoluzione della famiglia; in qualunque Dipartimento, o Circondario della Unione Europea, avrai diritto di invocare la risurrezione morale che ti verrà prontamente accordata, in dipendenza al messaggio telegrafico che oggi si trasmette a tutti i Tribunali di Europa determinante il tempo e la durata della tua condanna. «Trascorsi i cinque anni ed un giorno, dacché l'esecutore della Giustizia ti abbia levato il collare di riprovazione e i fratelli ti abbian reso l'amplesso del perdono e dell'oblio, tu riprenderai il tuo nome di casato, sopprimendo il titolo onorifico che ad altri venne trasmesso. Da quel momento verrai riammesso al libero esercizio di tutti i diritti - tu sarai puro ed onorato al cospetto degli uomini come al giorno della tua nascita. Noi confidiamo nella saviezza del popolo, perché i voti della legge vengano esauditi. Quegli stessi che oggi si allontanano dal condannato, troncando ogni rapporto con lui, e cooperando per tal modo alla espiazione della orribile colpa, fra cinque anni saranno i primi ad abbracciare il redento e ad accoglierlo come fratello. «Ed ora, o parricida, la tua espiazione incomincia. L'esecutore del Tribunale faccia l'opera sua. Al terzo squillo di tromba, la piazza sia sgombrata dal popolo - sulla Via della Misericordia che il condannato dovrà percorrere per uscire dalla città, non veggasi persona; - tutte le finestre e le porte dei palazzi si chiudano. - Giorno di lutto è codesto, e gravissimo lutto per l'umanità! Un fratello è morto alla vita civile!» Le parole del Banditore furono obbedite. Appena le trombe mandarono il terzo squillo, i cittadini silenziosi e commossi abbandonarono la piazza. Era triste spettacolo. - Le tribune e le logge nello spazio di pochi minuti rimasero vuote. - I magistrati, i savii e gli anziani erano scomparsi ... I cittadini pei larghi sbocchi delle vie si disperdevano, affrettando il passo come a fuggire un luogo di desolazione. Sulla piazza deserta, poco lungi dal tempio, non rimaneva che un solo essere vivente - e questi, curvato, immobile, incatenato al palco di infamia, dominava la vasta solitudine, simile ad uno di quei neri fantocci che i contadini pongono a guardia dei campi. L'Albani, durante la tremenda cerimonia, aveva provato tutti gli spasimi dell'agonia morale. Atterrito dal silenzio e dalla solitudine, il condannato fece uno sforzo per sollevare la fronte ... aperse gli occhi ... Poi, ricurvando la testa, ruggì coll'accento della disperazione: «Tutti dunque mi hanno abbandonato!» - Non tutti! - rispose una voce melodiosa e soave come la voce di un angelo. - Non tutti! Gli uomini hanno sentenziato nella giustizia, ma Dio viene a te nella misericordia! E l'uomo che parlava di tal guisa, posò la mano sulla spalla del condannato: e questi rianimandosi, levò di nuovo lo sguardo, e vide un giovane levita, coperto di bianche vesti, che con affettuosa pazienza si adoperava a rimuovergli le catene. - Coraggio, fratello mio! - proseguì il sacerdote ... - Voi mi chiamate fratello? - mormorò l'Albani ricurvando la testa. - Io solo ho questo diritto; è un santo diritto, che mi accorda l'altare, che il tribunale degli uomini non potrebbe contendermi. Al condannato, al reietto dalla umana famiglia, la Chiesa accorda un fratello, un compagno di pellegrinaggio, perchè sostenga il paziente sul cammino della espiazione. Questo incarico di sublime pietà venne a me accordato dal grande Levita, ed io gli resi grazie - e il mio cuore esulta di trovarmi teco. - Sorgi dunque! sorgi, cristiano fratello, appoggiati al mio braccio - noi procederemo insieme o insieme cadremo. L'Albani si levò macchinalmente, e discese i gradini del palco sorreggendosi al braccio del giovane sacerdote. Attraversarono a lenti passi la Via della Misericordia Il bianco levita, colla bisaccia sulle spalle, un largo cappello in testa, e un bastone di giunco alla mano, era costretto di soffermarsi ad ogni tratto perchè il compagno riprendesse lena. La lunga via era affatto deserta, le finestre e le porte serrate, la solitudine resa più tetra dalle ombre crepuscolari. Dopo un'ora di cammino, i due pellegrini si trovarono lunge dalle case, all'aperta campagna. Le ombre si eran fatte più dense - la Stella d'Amore spuntava nel firmamento. I due viandanti udirono uno squillo lontano - entrambi si fermarono. - Fratello! - disse il levita - è l'ora di benedizione! Questo suono tu devi conoscerlo. In questo punto tutti i tuoi fratelli piegano il ginocchio, e ringraziano Dio colla preghiera del cuore che in parole non si traduce. Il gran levita dalla torre del tempio inaccessibile, stende la mano a benedire tutti i figli della terra ... Inginocchiati, o fratello! L'Albani piegò le ginocchia - un tremito convulso gli scosse le membra - indi proruppe in uno sfogo di lacrime. Quand'egli levossi per riprendere il cammino: - Ho sentito la voce di Dio! - esclamò l'Albani con accento rassegnato: - io avrò forza per compiere il duro pellegrinaggio ... Espierò la mia colpa ... rivivrò nella stima e nell'amore dei fratelli ... purchè voi non mi abbandoniate! - Abbandonarti! - esclamò il levita colla sua voce d'angelo - qual altra missione può avere il sacerdote di Cristo fuori quella di portare la croce degli infelici, di perdonare e di redimere? I due viandanti si abbracciarono, e di nuovo si posero in cammino. FINE DEL PROLOGO.

Egli è disceso stamattina prima dell'albeggiare; non è improbabile che la sua gondola abbia portato abbasso uno di quei gabbamondo ... E noi lo conosceremo ... perdio! E s'io riesco a pigliar in mano un filo della matassa ... giuro districarla in pochi giorni ... e vi prometto che quella galera di birboni non farà, quindi innanzi, un lungo viaggio! ... Il Torresani accennò col dito a diversi subalterni, i quali immediatamente gli si fecero appresso, per ricevere alcuni ordini segreti. Poco dopo, entrò nella sala il Bigino, conduttore di gondole.

Potete voi giurare, o fratello Levita, che in queste pagine non vi abbia parola la quale non sia ispirata dalla verità?. Fratello Consolatore portò la mano al petto e rispose: - Pel corso di cinque anni ho diviso tutte le angosce dell'uomo che ci sta dinanzi: la sua anima si è completamente rivelata alla mia e voi la vedrete riflessa in quelle carte ... - Voi fortunati! - esclamò il Virey con un sorriso di sdegnosa ironia - voi che avete il privilegio di scorgere l'anima attraverso le molecole organiche dalle quali risulta la vitalità ... La scienza di noi profani non giunge a tanto. Vedete voi la vostra anima, fratello Levita? - Non la vedo, ma la sento - rispose fratello Consolatore con umile voce. - E siete proprio persuaso che il battito delle arterie, il respiro dei polmoni, la facoltà di pensare e di agire dipendano da una potenza misteriosa che non ha da fare colla materia? - Il giorno in cui in me cessasse una tale convinzione, arrossirei di esser uomo e invocherei di morire. - Mentre io mi occuperò a leggere queste note biografiche - disse il Virey allontanandosi - voi potrete, o fratello, esercitare le vostre pratiche salutari sull'anima dell'infermo. Più tardi, se i vostri rimedi non avranno giovato, io mi permetterò di tentare qualche prova sulla massa corporea. Vi prometto che il vostro metodo di cura non ne rimarrà pregiudicato. Così parlando, il Virey si ritirò nel vicino gabinetto. Fratello Consolatore cadde in ginocchio presso il letto dell'infermo mormorando una preghiera. Trascorsa un'ora, il Primate di medicina rientrò nella stanza. Ai due praticanti magnetisti che lo accompagnavano si era aggiunto un numeroso drappello di giovani studenti, intervenuti spontaneamente al consulto per erudirsi nella dotta e faconda parola dell'illustre scienziato. Il Virey da più mesi non era venuto a Milano; tutti si attendevano che al letto degli infermi egli avrebbe solennemente proclamate e spiegate le sue grandi teorie innovatrici. L'aspettativa non fu delusa. I giovani si schierarono silenziosi intorno al letto, e il Primate con accento solenne prese a parlare: «L'esplorazione magnetica non mi aveva ingannato; la biografia dell'infermo, e più che altro la storia delle sue ultime peripezie ha confermato i miei criterii sulla natura del male che reclama i nostri soccorsi. «La scienza medica ha fatto, nella prima metà del corrente secolo, dei progressi meravigliosi. Oggimai non vi è legge dell'organismo umano che a noi sia ignota, non vi è forza della natura che abbia potuto sottrarsi alle nostre investigazioni ed al dominio delle nostre esperienze. Ogni mistero si è rivelato; l'organismo umano non ha più segreti per noi; la chimica ha messo a nostra disposizione tutte le sostanze vitali disperse negli elementi, tutti i reagenti salutari che rispondono alle umane fralezze. «Possiamo noi inorgoglirci degli stupendi risultati? «Possiamo noi esultare dei nostri trionfi, mentre gettando uno sguardo sulla umanità ci è forza di constatare il suo incessante deperimento? «I nostri legislatori si mostrano sgomentati della frequenza, per verità spaventevole, dei suicidii individuali; eppure - strano a pensarsi - assistono spettatori indifferenti ed improvvidi al suicidio di tutta la specie umana! «Se fosse lecito dubitare della perfezione matematica dell'universo, che implica necessariamente la perfezione dei singoli elementi cosmici, in verità noi dovremmo chiamare assurda ed improvvida questa grande sproporzione che si manifesta tra la facoltà immaginativa e la forza puramente meccanica dell'uomo. Tutte le malattie, tutte le passioni e le ansie che ci contristano la vita ripetono la loro origine e la loro causa efficiente da questo fenomeno implacabile. Il progressivo sviluppo e la conseguente attività delle forze morali segna nell'organismo dell'uomo le fasi del deperimento che conduce alla morte. Questo attrito incessante fra l'uomo intelligente e l'uomo bruto risponderebbe per avventura ad una misteriosa esigenza dell'ordine universale? Questa legge, così assurda nelle apparenze, costituirebbe forse il principio demolitore, o meglio, la potenza trasformatrice della umanità? La razza umana sarebbe mai destinata a scomparire dopo un lasso di secoli, per vivere e riprendere sotto nuovi aspetti la sua attività cooperativa in un mondo ringiovanito? Ammessa una tale ipotesi, per la quale verrebbero ad eliminarsi molti assurdi concetti, volgendo uno sguardo alle condizioni attuali della umanità, ed ai gravissimi indizi di prostrazione che in ogni parte si manifestano, non possiamo astenerci dall'emettere un grido di allarme - l'agonia della nostra specie è cominciata. Il fuoco della nostra intelligenza ha raggiunto il massimo grado della incandescenza; questo fuoco sta per estinguersi. «Noi siamo all'ultimo atto della grande tragedia umana. Il Titano intelligente si elevò ad una altezza non mai raggiunta, ma la sua caduta sarà irreparabile. «Abbiamo spogliate le foreste, abbiamo traforate e abbattute le montagne, abbiamo aperte delle voragini per rapire alla terra le materie combustibili e gazose; abbiamo deviate le correnti elettriche; dapertutto la mano dell'uomo ha portato lo scompiglio e lo sfacelo. «Che più ci resta a tentare? Dopo aver dominato la terra e le acque, ecco le nostre locomotive ci sollevano ai cieli ... Non basta? Fourrier, coll'innesto delle ali, ci comunica una nuova facoltà, ci promette una trasformazione ... «Affrettiamoci, signori! Ciò che abbiamo fatto per suicidarci è poca cosa ... Voliamo alle regioni dove spaziano le aquile! ... Voliamo colà dove per l'uomo si respira la morte ... «E i sintomi mortali si scorgono dapertutto. L'attività febbrile che nello scorso decennio ha operato dei prodigi, oggi accenna ad estenuarsi; la luce della intelligenza umana è quella del lucignolo prossimo a spegnersi. «E frattanto, qual forza ci soccorre? La terra, nostra madre, e nudrice, è ormai stanca delle nostre violenze. Essa comincia a ribellarsi. I cereali intisichiscono, la vite non dà più grappoli; gli animali che più abbondante e vigoroso ci fornivano l'alimento, si ammorbano e periscono sui pascoli insteriliti. «E già i governi mandano un grido di allarme; e il diritto alla esistenza sancito dalle nuove leggi diverrà fra poco una derisione ... Ma a ciò provveda chi deve. «Il nostro compito, o signori, è quello di affermare, per quanto è da noi, la vita individuale, mentre le masse precipitano nella morte. «L'umanità è colpita là dove ha molto peccato. La prevalenza del succo nerveo ha paralizzato le forze del sangue; l'equilibrio degli elementi vitali è cessato; l'uomo vegetale, l'uomo bruto fu invaso dell'uomo pensante. «Dalle cattedre, dai libri, dai giornali noi abbiamo reagito costantemente contro l'invadenza di uno spiritualismo micidiale. Ma la superbia umana ha sordo l'orecchio alle verità che la umiliano. «La religione riformata, accarezzando l'orgoglio dell'uomo e l'idealismo irrazionale della donna, ha messo il colino alla esaltazione. In ogni paese, in ogni tempo, l'ascetismo fu nemico della nostra scienza; ma a nessuna epoca mai come alla nostra, il prete ed il poeta, questi eterni falsarii della legge naturale, questi allucinati o coscienti mistificatori delle plebi umane, esercitarono più micidiale il loro predominio. I fanatici del nuovo culto impazziscono a migliaia. Parigi, la superba città che era nello scorso secolo denominata il cervello del mondo Parigi non rappresenta oggigiorno che un vasto manicomio. «Ma questi signori vi diranno: ciò che a noi importa è la salute delle anime! Orbene! (e così parlando il Virey si volse a fratello Consolatore) non vi par tempo che noi interveniamo? «Vorrete poi permetterci di tentare qualche esperienza profana sugli atomi vitali che per avventura serpeggiano tuttavia in questo corpo estenuato? ... » Fratello Consolatore non rispose e chinò la testa mestamente. Il Virey, per un istante disarmato dall'umile atteggiamento del Levita, riprese la parola con intonazione più dimessa: «La malattia che ha colpito quest'uomo è una delle più comuni oggidì: la lassitudine nervosa complicata e aggravata da un chiodo fantastico «Lo sfinimento dell'apparato nervoso ripete la sua origine da troppo intense e prolungate esercitazioni della macchina cerebrale; il chiodo fantastico è frutto di una troppo costante e inesaudita surreccitazione dei globuli simpatici. Il bagno fosforico e le fasciature elettro-magnetiche applicate con prudente moderazione potrebbero in breve tempo rinvigorire il sistema pregiudicato; ma un tal metodo di cura aggraverebbe la crisi dell'organo più compromesso. «Signori! ... occhio al cervello! ... occhio al padrone, al governatore, al tiranno della casa vitale! Abbiate per fermo che nessuna malattia è mortale quando l'organo tiranno che siede là dentro conservi piena ed intatta la sua forza di volere. «Affrettiamoci dunque! Il nostro primo compito sia quello di ristabilire l'equilibrio fra i globi cerebrali. Ottenuto l'equilibrio, quando il malato sarà in grado di pensare e di volere, in pochi giorni la resurrezione delle fibre sarà completa. «Riassumiamoci. La biografia del paziente ci ha rivelato che un intenso desiderio di possessione riportato sovra una donna fu causa della anomalia. L'idealismo! sempre l'idealismo! fomite di ogni follia, di ogni disordine, per non dire di ogni umana scelleratezza. Questo uomo, credendo di amare ha fatto violenza alle leggi della natura e si è reso impotente. Io vorrei bene, o signori (e qui la parola del medico riprese una intonazione più vibrata), io vorrei bene, se la situazione del malato non esigesse tutte le nostre sollecitudini, sbizzarrirmi alcun poco nella diagnosi di questa vacuità a cui le moltitudini danno il nome di amore! ... Oh! chi scriverà la storia dell'amore? Chi vorrà riprodurre nella sua spaventevole ampiezza la cronaca delle follie e dei delitti derivati da questo equivoco, da questa fatale illusione della superbia umana? E fino a quando proseguiremo noi ad insultare la natura, a pervertirci, a suicidarci, per la mania di idealizzare a mezzo di una insensata parola l'attrazione simpatica dei sessi, comune a tutti gli enti, a tutte le molecole della creazione? «Ma torniamo al malato. La prevalenza del fosforo, rivelata dalla esplorazione, mi è di buon augurio; l'assenza della febbre mi allarma. Provochiamo la febbre! provochiamo questa benefica agitazione del sangue che tende ad espellere dall'organismo gli atomi eterogenei, «Soffiamo in questa bonaccia! suscitiamo la tempesta riparatrice! ... «E non perdiamo un istante (proseguì il medico, ritraendo la mano dalla fronte del malato); si chiami tosto ... Ma, no! ... io stesso sceglierò l'individuo da applicarsi ... «Vi è qui alcuno che possegga un ritratto della donna che questo infelice ha creduto di amare? ... » Fratello Consolatore si levò in piedi, levò dal portafoglio una fotografia e la porse al primato. - Sta bene! ... Conducetemi tosto ad una casa di Immolate ... Là troveremo l'individuo simpatico che ci abbisogna. E volgendosi ai giovani studenti che in silenzio lo avevano ascoltato: - Spero - disse - che mi avete compreso. L'estirpazione del chiodo fantastico allora si effettuerà spontaneamente, quando si ottenga che quest'uomo abbia a credere in un'altra forma di donna ... Se a tanto può giungere il talento e la volontà di una Immolata, è indubitabile che lo sviluppo istantaneo della febbre ricondurrà l'equilibrio nelle forze mentali, e allora il cervello potrà gridare a' suoi satelliti: sorgete e obbeditemi!» Ciò detto, il Virey riconsegnò a fratello Consolatore la fotografia dell'Albani, dopo averne spiccato uno dei tanti ritratti fotografici che vi erano intercalati. - Levita! - riprese il Primate nell'atto di congedarsi - voi perdonerete alla vivacità di alcune mie espressioni che per avventura possono aver irritate le vostre suscettibilità - la scienza medica non fu mai troppo scrupolosa nella pratica del galateo. - Dopo tutto, se i nostri principii e le nostre credenze si avversano, ciò non impedisce che noi ci chiamiamo fratelli. - Fratelli! - ripetè il Levita stringendo al cuore la mano che aveva cercato la sua - è pur consolante l'udir profferire questa parola da un uomo che nega l'amore e non crede all'esistenza dell'anima ... Il Virey, irritabile come tutti gli scienziati, stava per riprendere la sua polemica, ma un sospiro affannoso del malato gli ricordò che i minuti erano contati. Egli volse al Levita un'ultima occhiata piena di ironia e uscì dalla stanza seguito dagli alunni. Giunto nella via, il Virey fece salire nella sua volante il custode della Villa, e scambiate sommessamente alcune parole con lui, ordinò al conduttore di dirigersi alla piazza dell'antica cattedrale.

Con quale accortezza e tenacità io abbia lottato per oltre venti anni contro la ribalderia umana, apparirà evidentemente dai registri e dai tesseri che io lasciai negli uffizii. Se non che - lo confesso con immenso rammarico - in questi ultimi tempi la mia e l'attività indomabile de' miei subalterni riuscì in molti casi impotente. Già da oltre mezzo secolo, quei nostri famigerati utopisti che ripetevano la frequenza dei crimini dall'analfabetismo delle masse, hanno dovuto convincersi che l'istruzione universale ha quadruplicato il numero dei falsarii e dei ricattatori. Più tardi, la scienza medica e farmaceutica appresa a tutti indistintamente i cittadini della Unione, moltiplicò gli avvelenatori e gli assassinî domestici. Le locomotive aeree agevolarono le contumacie dei bricconi e favorirono la impunità. La sistemazione e applicazione pratica delle forze magnetiche produsse abbominazioni che fanno inorridire. «A questi, sempre crescenti ausiliarii della iniquità e della corruzione, i governi opposero una resistenza in fino ad oggi abbastanza efficace. Nelle nostre mani le nuove armi fornite dal progresso alla depravazione ed alla colpa divennero una forza riparatrice. La nostra sorveglianza dalla terra e dal mare si estese alle amplissime regioni dell'aria. Abbiamo non pochi esempi di grandi ed audacissimi malfattori, catturati dai nostri agenti a poca distanza dalla luna. «Ma qual pro' da questa caccia affannosa e piena di pericoli? Noi inseguiamo il calabrone malefico, lo afferriamo, lo rechiamo trionfanti, esultanti, sul banco della giustizia, acciò questa si prenda il bel spasso di aprirci il pugno per ridonare il captivo al libero esercizio de' suoi perfidi talenti. «Tante grazie, signori riformatori del Codice penale! ... Ma non vi par tempo di finirla con questa buffoneria che si chiama il Ministero di Sorveglianza pubblica? A che serve lo inseguire, il catturare dei delinquenti, mentre alla giustizia più non rimane alcun serio mezzo di punizione? «Nei secoli addietro, allorquando a migliaia a migliaia i galantuomini, o dirò meglio, gli impregiudicati, morivano di fame, un cotal Beccaria finse di intenerirsi sulla sorte degli assassini appiccati alla forca. Tutti i filosofi dell'epoca fecero eco alla nenia, e la canaglia (ciò si comprende) proclamò il Beccaria altamente benemerito della Società umana. «La pena di morte venne col tempo abolita; tanto è vero che tutte le idee, anche le più strane e più esiziali, seguono il loro corso di rotazione e a lungo andare si traducono in fatto. I briganti, gli aggressori di strada, gli avvelenatori, i parricidi arsero dei ceri alla statua grottesta di Beccaria(23).

Ella andrà a rintanarsi fino a quando non abbia ricuperate le sue spire e il suo veleno. Al primo intiepidirsi della stagione, spiccherà un salto per morderti alla carotide e succhiare il tuo sangue. «Che abbiamo fatto noi? che facciamo, colla nostra rivoluzione tanto vantata e tanto infruttuosa? ... Abbiamo atterrito il dispotismo col tuono di una cannonata - abbiamo lanciato una bomba di carta in mezzo a questo intrigo di rettili. Ma i rettili si ritrassero nelle loro tane sibilando minaccia, e aspettando gli eventi. «Poi misero fuori la cresta, e si sparsero fra il popolo coll'aria mansueta del primo serpente. E noi li vediamo, li incontriamo nelle nostre vie - li accogliamo nelle nostre case - li riscaldiamo nel nostro grembo - e istupiditi dall'oppio, non sentiamo le nuove trafitture. Oh la bella, la grande rivoluzione! «Metà dell'Italia è schiava degli stranieri. I moderati ci promettono il compimento dell'opera, predicando la rassegnazione e la pazienza. - Noi ci prepariamo! - gridano essi. - O che? Forse i tedeschi, i clericali, i nemici nostri non profittano anch'essi della tregua per prepararsi alla lor volta? ... «Aspettiamo! diamo tempo alla reazione di completare la sua trama! Così, il giorno in cui i soldati d'Italia dovranno schierarsi sul Mincio per attaccare i tedeschi, ovvero spingersi a Roma alla conquista di una capitale, nel volgere il capo dietro i loro passi, vedranno sventolare sulle aguglie delle nostre cattedrali i colori abborriti! «Stolti! avete perdonato ai despoti quando essi giacevano nel fango ai vostri piedi! Liberi per un quarto d'ora, tremaste della libertà conquistata più che delle vinte tirannidi. Adulaste gli oppressori caduti, confermando nei vostri Parlamenti le leggi dell'oppressione. Temeste di mostrarvi troppo liberali, e vi lusingaste, col rispetto di un abbominevole passato, conciliarvi le simpatie di chi non potrà in nessun modo allearsi con voi. «Perseguitaste gli uomini della luce, per allearvi, inconsapevoli o colpevoli, agli uomini delle tenebre. Impotenti o malvagi, ritiratevi! Il popolo non è con voi, non può essere con voi. «Guai, se svegliandosi da quel sonno artifiziale che è il prodotto dei vostri narcotici, il popolo si accorgerà di esser tradito! Allora il vostro sangue correrà nelle vie a torrenti; allora tutti gli alberi e tutti i metalli si convertiranno in ghigliottine, in istrumenti di morte, pel vostro completo esterminio. «I Robespierre, i Danton, i Marat sorgeranno a migliaia dalle officine pensanti. E questa volta non sarà l'ottantanove della Francia, ma quello di tutta l'Europa liberale, coalizzata contro i tiranni. Voi vi troverete accerchiati da un milione di baionette, minacciati da un milione di mannaie - e la libertà, come aurora boreale, splenderà sull'universo imporporata di sangue ... «E badate, che i vostri giorni sono contati; che la pazienza è prossima a mutarsi in furore ... In quel giorno, i clericali e i moderati, gli uomini delle tenebre e gli uomini del crepuscolo, saranno travolti dal medesimo turbine. Coloro che si oppongono al progresso come quelli che pretendono moderarlo, rimarranno stritolati sotto le sue ruote prepotenti». Il terribile oratore pose fine alla sua arringa per essiccamento di fauci, e sedette nel cupo silenzio de' suoi ascoltatori. La fronte del signore annunciava un intimo turbamento, sebbene più volte egli avesse dato segno di adesione con un leggero movimento del capo. Il curato, durante il discorso dell'implacabile demagogo, non aveva cessato di interromperlo con delle esclamazioni che parevano giaculatorie. Poichè il farmacista ebbe finito di parlare, il buon prete giunse le mani in atto di orrore, ed ai paesani, che ascoltavano dalla finestra, fece un gesto come dicesse: non vi scandalizzate di tante bestemmie! Il Sindaco aveva ascoltato con moderazione, meditando un'eloquente risposta.

Le mie ragazze, quale a sedici anni, quale a dodici, quale a dieci, se ne andarono al quinto cielo coi palloni a vapore; e quando una ragazza abbia fatto la sua prima corsa in pallone, domando io chi può fermarla! Il Gran Proposto si fece pallido in viso. L'altro, che già cominciava a comprendere il segreto del suo turbamento, riprese, nel sembiante e nelle parole, il suo fare più ingenuo. - Il vostro esordio, onorevolissimo Gran Proposto, mi darebbe a credere che voi pure abbiate dei gravi dispiaceri nella vostra famiglia privata - Tanto gravi, che quelli della famiglia pubblica, e sono pure ingentissimi, al paragone mi sembrano inezie. - Se ciò è, mi spiace, onorevolissimo Gran Proposto, che io non sarò in grado di giovarvi come avrei desiderato. - Al contrario ... Non solamente voi siete in grado di prestarmi aiuto, ma fuori di voi, non avvi persona al mondo sulla quale io possa contare nel terribile frangente in cui mi trovo. Il furbo Torresani sapeva già tutto, ma proseguiva a fare l'attonito. - Voi ... senza dubbio ... avrete letto i giornali di ieri sera - disse il Gran Proposto con un largo sospiro - voi saprete la notizia pubblicata dal Figaro, organo uffiziale dei matrimoni, la notizia ... che oggi corre sulle labbra di tutti ... - Ah! ... To! ... Veh! ... La gran testa d'oca ch'io sono ... ! E dire che io mi era già scordato ... Vedete se la politica ci rende imbecilli ... ! Perdonate se io non mi sono affrettato a rivolgervi le mie congratulazioni. - Grazie, onorevole collega! ... Grazie! Non è il caso di farmi delle congratulazioni, ma piuttosto di condolervi ... - Che? ... vediamo un poco se ci intendiamo! - proseguì il Torresani abbandonandosi ad una loquacità che escludeva ogni interruzione. - Io voleva alludere alla petizione di matrimonio inoltrata dal cittadino Redento Albani, dal celebre inventore della pioggia artifiziale, in favore di vostra figlia ... Figuratevi, Gran Proposto, qual fu la mia sorpresa ieri sera ... sì ... ieri sera ... al teatro degli Automi ... voi sapete ... a quel vecchio teatro che un tempo si chiamava della Scala, e che oggi serve agli spettacoli automeccanici delle grandi marionette. Io vado ogni sera a quel teatro, vi ero abbonato da ragazzo, fino dai tempi in cui vi si rappresentava l'opera in musica ... Che volete ... ? Siamo milanesi ... e quindi ... per indole ... per educazione ... fors'anche per influenza di clima ... un po' abitudinari. Una sera, invece dei soliti cantanti, delle solite ballerine, ci hanno dato le marionette ... Io, e i miei coetanei, piuttosto che abbandonare la nostra sedia fissa, il nostro palco di quarta fila ... piuttosto che allontanarci dal nostro vecchio centro, ci siamo accontentati di quel nuovo spettacolo ... e vi assicuro ... Gran Proposto ... che ci si diverte di cuore, e che la vecchia Scala è tuttora il primo teatro del mondo. Il Gran Proposto sbuffava, ma non ardiva interrompere quella foga di parole. Il vecchio Torresani tirava innanzi con una facondia inesorabile. - Or bene - voi conoscete il nuovo sistema dei sipari adottati recentemente nei grandi teatri - voglio parlare del sipario- giornale che suol calarsi dopo il secondo atto della rappresentazione. Su quella vasta tela sono stampati, a grandi caratteri, i dispacci più importanti della giornata e buona parte delle notizie cittadine. Figuratevi dunque la mia sorpresa ... la mia commozione ... la mia gioia ... quando, ieri sera, volgendo il mio binoccolo al sipario-giornale, potei leggere la petizione del cittadino Albani, riprodotta testualmente dal foglio uffiziale dei matrimoni. Oh! vi assicuro io, onorandissimo Gran Proposto, che quelle poche linee produssero una viva sensazione in tutta la sala ... Tutti si compiacevano della vostra buona fortuna ... Tutti dicevano che un partito migliore non poteva presentarsi a quella cara, a quella buona, a quella adorabile figliuola ... - Basta così! basta, Torresani! - proruppe il Berretta balzando dalla sedia liquida - ciò che voi narrate è troppo inverosimile ... ! Io non posso credere che voi, che un uomo qualunque dotato di sana ragione possa congratularsi meco di un tale avvenimento con sincerità di cuore. Il Torresani portò le mani al petto e stravolse gli occhi, come uomo che chiegga perdono di un fallo involontario. Nel fondo dell'anima egli tripudiava di aver prodotta nel suo superiore quella impetuosa irritazione. - Torresani ... mio vecchio collega! - riprese il Gran Proposto con accento più moderato - mettete una mano sul vostro cuore di padre ... e poi rispondetemi ciò che esso vi detta. Dareste voi in moglie la figlia vostra, l'unica vostra figlia, ad uomo come ... lui? ... - In verità.., giudicando dietro i calcoli dell'interesse ... un primate dell'intelligenza ... un uomo che può guadagnarsi dieci o quindici milioni di lussi colla sua invenzione ... - Torresani ... - Sentiamo ... dunque ... - Parliamoci da buoni colleghi ... - Da fratelli ... se vi piace ... - Come si poteva parlare ... ai nostri buoni tempi ... ai tempi dell'Unione latina ... Il Gran Proposto parlava con voce commossa, con accento supplichevole: - Conoscete voi tutta intera la biografia di questo uomo ... che osa chiedere in moglie la mia Fidelia ... ? - Nella mia qualità di Capo di Sorveglianza, io dovrei conoscere tutti i cittadini che entrano nel circuito del mio Dipartimento; ma pure, dopo l'attivazione di quella malaugurata locomotiva dell'aria, vi confesso, onorevole Proposto, che mi riesce oltremodo difficile assumere su tutti delle informazioni complete ... - Non vi ricorda come or fanno cinque anni e pochi mesi, un giovane, che a quell'epoca si chiamava Secondo Albani, fosse implicato in un processo ... in un processo ... che fece inorridire la città tutta intera ... ? io spero che voi m'intendiate ... che non vorrete obbligarmi ad esporre certi fatti ... - Fatti ... orribili ... atroci ... - Voi dunque ... vi sovvenite ... ? - In verità ... nella mia qualità di cittadino ... io dovrei ... - Comprendo i vostri scrupoli, mio eccellentissimo ... - Un capo di Sorveglianza ... - Deve necessariamente tener nota di certe precedenze ... - Le quali, in caso di recidiva, o di sospetto ... - Potrebbero fornire ... argomenti ... - E servire come prove o titoli aggravanti ... - A meraviglia ... ! Io vedo che non occorrono altri discorsi ... Voi siete una perla d'impiegato.! ... - Gran Proposto, voi mi onorate di troppo! I due funzionari si alzarono come due automi, si ricambiarono un profondo inchino, poi ripresero il loro posto. Dopo breve silenzio, il Berretta uscì fuori con una domanda risoluta, colla quale egli sperava abbreviare quel disgustoso colloquio. - Torresani! ... Io farei torto al vostro acume, alla vostra perspicacia, e, aggiungiamolo pure, alla vostra provata amicizia, se mostrassi dubitare che voi non abbiate ancora indovinato ciò che io bramo da voi. Siete voi disposto ad assecondarmi? ... - Quanto all'assecondarvi - rispose il Capo di Sorveglianza con un accento di sommissione che fece rabbrividire il Gran Proposto - voi sapete che un misero impiegato di seconda classe, quale io mi sono, deve necessariamente subordinare la sua volontà a quella degli alti dignitari dello Stato ... Vi ho già detto che, su questo punto, fra noi non può esistere difficoltà di sorta ... Tutto sta che io abbia realmente compresa la situazione vostra, e in conseguenza le vostre intenzioni ... Io non vorrei offendere la vostra delicatezza di cittadino ... parlandovi con soverchia libertà ... Il Gran Proposto arrossì leggermente. L'altro proseguiva: - Basta! Nel caso mi fossi ingannato ... oso sperare che non vorrete prendere in mala parte le mie supposizioni., e vorrete perdonarle come effetto di zelo soverchio. Il Torresani fissava le sue grigie pupille nel volto del Gran Proposto, e tirava innanzi con voce asmatica: - Eccovi dunque come io la intendo, onorandissimo e colendissimo cittadino Proposto. Voi non bramate che vostra figlia, la vostra unica figlia, si unisca in matrimonio a quell'emerito cittadino, oggi Primate d'intelligenza, che porta il nome di Albani Redento, e ciò per la ragione, un po' illegale, se vogliamo, ma pure assai potente sul cuore di un padre, che quel cittadino, quel Primate, l'Albani in una parola, in epoca non remota, pose ... la famiglia tutta intera ... e quindi anche voi ... noi ... tutti quanti ... nella necessità di dover dimenticare certe sue azioni ... Basta! ... Tanto io che voi, onorandissimo e sempre colendissimo Proposto, siamo troppo fedeli osservatori della legge per insistere su quest'ombra di reminiscenza! - Bravo! - L'essenziale è di impedire il matrimonio, opponendo alla petizione del giovane, ed al probabile assenso di vostra figlia, il veto paterno che le leggi rendono inesorabile ogni qualvolta sia appoggiato da gravi ragioni, e convalidato dal voto degli Anziani. - Voi leggete nel mio cuore, o nobile amico. - La lettura è un po' difficile, ma le vostre lodi mi incoraggiano. Non potendo motivare il nostro veto su quelle tali precedenze che tanto io ... come voi ... abbiamo dimenticato ... - E dimentichiamo ... - Sta bene! ... Convien frugare nella vita più recente del nostro uomo, vedere se dopo l'epoca di Redenzione egli non siasi per avventura macchiato ... - Torresani! ... Voi siete un sublime Questore ... ! - Capo di sorveglianza - se vi piace! ... - Perdonate! - la parola mi è sfuggita in un impeto di entusiasmo ... È un lapsus linguæ che vi onora ... Torniamo al nostro ... uomo. - Fra la petizione e il contratto finale di matrimonio, giusta le vigenti leggi (capitolo centosettanta, paragrafo novantotto) deve trascorrere un mese ed un giorno, nel qual tempo i due futuri devono vivere separati da una distanza di sessanta miglia, né avere fra loro comunicazione di sorta. - È una dilazione di prova che impone dei rigorosi doveri ... - Dei doveri che molto spesso vengono obliati dall'una parte o dall'altra, nella quasi certezza che nessuno ne tenga conto ... - Si esigerebbe dunque ... per parte nostra ... un po' di sorveglianza ... - Molta sorveglianza ... - Una sorveglianza perenne, insistente, minuziosa ... - Importuna ... - Irritante ... - Accanita ... - Accanita! ... Ecco la vera parola, onorandissimo signor prefetto ... - Gran Proposto ... se vi piace! ... - I lapsus linguæ son contagiosi ... Vi chieggo mille perdoni! ... - In un mese ... anche l'uomo più onesto può commettere delle azioni ... - Nefande! ... Il giusto pecca sette volte all'ora, dicono i preti riformati, i preti della vecchia portavano la cifra a settanta volte sette! ... - Voi dunque credete? ... - Io credo che in due linee di scritto si trovino sempre dieci capi di accusa per far condannare un imbecille, così l'uomo il più astuto, e diciamolo pure, il più onesto, dopo un mese di sorveglianza fatta a dovere ... - Fatta da voi, mio buon Torresani ... - O da' miei incaricati ... - È un uomo posto fuori dalla legge ... - Un uomo ... impossibile! Il Gran Proposto e il Capo di Sorveglianza si levarono in piedi con moto simultaneo, e si strinsero la mano come due cospiratori. - Io sono orgoglioso di avervi perfettamente indovinato - disse il Torresani con affettata compunzione. - Ormai ogni altra parola sarebbe superflua; convien mettersi in moto e agire prontamente ... Il nostro uomo è partito per Costantinopoli; di là, fra una settimana, dovrà recarsi a Pietroburgo ... Prima ch'egli ci sfugga, bisogna mettergli a fianco due dei nostri ... due buoni bracchi dei meglio addestrati a simili imprese ... Scriverò privatamente a tutti i Capi di Sorveglianza dei principali Dipartimenti della Confederazione ... Insomma, non risparmieremo né cura ... né danaro ... - A proposito ... Io mi scordava dell'essenziale - disse il Gran Proposto, trattenendo Torresani che prendeva le mosse per andarsene. - Per compiere il vostro piano, vi abbisogneranno senza dubbio dei mezzi straordinari ... Via! che serve? ... Facciamo le cose a dovere ... No! io non vi lascio partire ... se prima ... non dichiarate ... - Ma se vi dico che sono inezie! Trattandosi di voi ... della vostra famiglia ... a cui mi legano tante obbligazioni ... - No! ... no! ... I fondi segreti debbono servire a qualche cosa ... Ed è appunto in tali emergenze straordinarie ... - Basta! poichè voi ... lo esigete ... - Duecentomila lussi ... Che vi pare, Torresani?.,. Tanto da cominciare le operazioni ... - Io direi, poichè vi sta tanto a cuore la buona riuscita dell'impresa, io direi che, seguendo l'antico proverbio: omne trinum ... - Trecentomila lussi! ... Ma voi siete troppo discreto, mio vecchio collega! Trattandosi, come dicevate poc'anzi, di rendere un immenso servigio ... - Al Governo ... Il Gran Proposto si sentì trafitto da quest'ultimo sarcasmo. Prese la penna con mano tremante, sottoscrisse un bono di trecentomila lussi, e lo porse al Torresani, senza aggiunger parola. Questi chiuse il viglietto nel portafoglio, e, fatto un inchino grottesco, uscì dal gabinetto. Quella sera, nell'Unità mondiale altro dei fogli dell'opposizione, leggevasi la seguente notizia cittadina: «Stamane, fra il proconsole Terzo Berretta e il famigerato poliziotto Torresani ebbe luogo un lungo conciliabolo a porte chiuse, in seguito a importanti dispacci venuti da Berlino, e da altri capoluoghi della Unione. Noi sappiamo da fonte sicura che il partito governativo (il partito coda) sta tramando un orribile complotto contro la libertà dei popoli. Il colpo di Stato, già tante volte preconizzato da noi, è tanto imminente, che può dirsi un fatto compiuto. All'erta cittadini! ... Popoli dell'Unione preparatevi ad agire! ... »

. «- Se voi siete due angeli - esclamò ella con accento desolato - prendete sotto la vostra custodia questa mia creatura innocente; è un figlio dell'amore, del primo, dell'unico amore che abbia fatto trasalire le mie viscere. «Così parlando, la tapina ci sporse un paniere, dove tra bianchi pannilini giacea sopito il grazioso bimbo che ora posa su quel letto. «- Io sono inseguita - riprese ella con terrore; - inseguita da un uomo potente e feroce. Presto! esaudite il voto di una povera madre. Prendete quel fanciullo, dirigetevi su Milano e fate di scendere alla casa di quel santo che si chiama il fratello Consolatore. Nel paniere vi hanno due lettere, dirette l'una al buon Levita, l'altra a colui:.. «Ma la tapina non potè proseguire, sgomentata da uno strepito di passi. «Chi avrebbe esitato? Noi afferrammo il paniere dai due lati, e ansanti, desolati di non poter alla misera donna giovare altrimenti, con rapido volo ci allontanammo dal luogo nefasto. - Povera Maria! - sciamò l'Albani; - quel Cardano ... quel mostro ... l'avrà uccisa. - Egli l'amava troppo per ucciderla - disse il Levita. - Fui io stesso, che consigliai alla povera immolata il più grande dei sacrifizi, inducendola a seguire quell'uomo. Ed ecco, per mezzo di lei, alla provvidenza è piaciuto svelarmi l'autore della misteriosa disparizione di tanti neonati. Sì; avete ragione; Cardano è un mostro; ma egli è uno di quei mostri generati dall'orgoglio e della manìa di sapere, che in tanta copia si producono all'età nostra. Volendo conoscere le prime espressioni della favella umana e studiare gli istinti ingeniti della nostra specie, quello scienziato abbominevole esercitava la tratta dei neonati. Le piccole creature rapite alle madri venivano accolte e allattate da mute nutrici nel vasto edifizio destinato alle atroci esperienze. Parecchie centinaia di fanciulli d'ambo i sessi erano là da parecchi anni a stridere, ad ululare come animali selvaggi, avvoltolandosi nella terra, commettendo tutte le stranezze e gli abbominii suggeriti dall'istinto sfrenato ... - Orrore! orrore! - gridava l'Albani percorrendo la stanza a passi concitati. - Il dolore delle madri è salito al cielo! - disse il Levita. - E la giustizia umana compirà l'opera sua - soggiunse Lucarino. - Il fatto è segnalato. A quest'ora, sulle alture del Gottardo, migliaia e migliaia di cuori gridano: morte a Cardano. - E noi siamo ancora qui? Ciò detto, l'Albani con ardore paterno baciò in fronte il bambino, e ricoricatolo sul letticciuolo, uscì a passi precipitati dalla casa del Levita.

Se prima di mezzanotte voi tornerete a me per ripetermi le sante parole, allora avrò il coraggio alla mia volta di chiedervi qual nome abbia imposto il Signore all'angelo di redenzione. In quel punto, dalla torre Garibaldi squillò il richiamo delle vergini Era la prima volta, dacché Fidelia avea compiuta l'età dell'emancipazione che quel suono la sorprendeva fuori della casa paterna. La giovinetta in quella notte avea sorbiti i profumi inebbrianti dell'amore. Ma il tempo inesorabile e pedante non ha riguardo né pietà per le anime innamorate. Lo squillo del richiamo troncò sul labbro di Fidelia una risposta che il giovane avrebbe pagato a prezzo di sangue.

Ti fa meraviglia che un Antonio Casanova abbia trionfato di noi? Mentre i due primati discorrevano nel frastuono dei commenti generali succeduti alla tacita sorpresa, da una torre di sorveglianza partì un razzo color porpora. Era un segnale di allarme. Tutti gli uffiziali e gli agenti di sicurezza pubblica si chiamarono a raccolta a mezzo dei soffietti acustici, e riunendosi in pelottone, si posero in marcia dirigendosi verso Broni. Una ciurma di equilibristi impaziente e fatta audace dall'esito delle elezioni, minacciava di realizzare immediatamente le utopie del partito, invadendo e saccheggiando le case degli abbienti privilegiati. Uno dei più reputati stabilimenti di pigiatura, occupato dai convalescenti più doviziosi e dalle etère più famigerate, era preso di assalto. I sopraintendenti e i subalterni resistevano debolmente; le belle pigianti si sbandavano ignude e rosseggianti di mosto pei vasti corridoi, invocando soccorso. Uno dei capi della rivolta, entrato per la finestra di una cabina di pigiatura, si dibatteva furiosamente sulla scaletta di una piscina uvaria colla bella moglie di uno czarre, la quale con ceffate e con graffi da pantera tentava di schermirsi. Frattanto, al vedere gli agenti di sicurezza attrupparsi per marciare verso il centro della sommossa, in altri punti dell'agro si formavano degli assembramenti minacciosi. I coscritti, affigliati per la più parte alle sètte anarchiche, affiggevano ai berettoni solari le coccarde riottose. L'uragano della sommossa si annunciava terribile e spietato. Le botteghe si chiudevano; i merciaiuoli smontavano le baracche; le madri paurose traevano i bambini fuor della folla; altre più audaci, invase da un ardore di ribellione, coi pargoli in sulle braccia, animavano all'azione i giovani esitanti. Ciò che accadeva in quel momento nei due agri collegati di Stradella e di Broni non era che un minimo episodio della grande rivoluzione, suscitata per naturale coincidenza di passioni politiche, in ogni quartiere popolato dei dipartimenti dell'Unione. - Che si fa? - chiese il Virey all'Albani, traendosi in disparte per dar passo ad un pelettone di sorveglianti i quali si avanzavano intimando l'ammonito ad un gruppo di rivoltosi. - Io sarei d'avviso che ci imbarcassimo bravamente in una volante, e ci facessimo condurre a Milano, senza preoccuparci dei nostri bagagli, i quali, c'è da scommetterlo, a quest'ora devono aver già assaggiate le garbatezze dei nostri futuri governanti. - Credi tu che a Milano si abbia a godere maggior sicurezza? ... Ma, via! Si può tentare ... Forse giungeremo in tempo da poter assistere al saccheggio della mia villa. Vorrei che di quell'edifizio maledetto, nel quale ho sommerso tutti i milioni da me guadagnati coll'invenzione della pioggia artifiziale, non rimanesse più vestigio. Oggimai è penetrata nel mio animo questa convinzione, che ogni attentato violento fatto alla natura è opera da pazzo, per non dire da scellerato, e che io, al par di altri orgogliosi della mia specie, colla mia superba invenzione mi sono reso complice dei più grandi disastri che affliggono il mondo. - Tu, dunque, vorrai essere dei nostri? - chiese il Virey radiante di gioia. - Sì! per la vita dell'umanità! - rispose l'Albani con ardore entusiastico. - Torniamo alla natura! Il vostro programma quindi innanzi sarà il mio. - Dunque? ... A Milano? ... - A Milano! ... - Presto! Facciamo calare una volante! ... Ecco là una aerea da due posti, che pare fatta per noi. Diamo il segnale! Il conduttore della volante, all'udire il fischio, lasciò calare il veicolo a quattro metri dalla testa dei reclamanti. - Più basso! - gridò il Virey; - si vuol partire immediatamente. - Più basso? - esclamò l'auriga di cielo in tono più beffardo. - Io son disceso di quattro metri, ora spetta a voi di salire altrettanto. Siamo, o non siamo equilibristi? Animo, dunque! Salite! - Bella pretesa davvero! - sclamò l'Albani irritato. - Via! non son momenti di celie codeste! Vien giù! ... Sarai pagato lautamente. - Non potete salire? peggio per voi - rispose l'auriga di cielo; - e nemmen io posso scendere. Sono uomo di principii. Il vostro denaro non mi tenta ... Chi più ha, meno ha diritto di avere. Il Bigino ha l'onore di augurarvi la buona notte. Viva Antonio Casanova e l'abolizione della moneta! Viva l'equilibrio sociale! E cantando una gaia ballata, l'auriga fece risalire la volante, che andò a smarrirsi nelle brume vespertine. Il tumulto cresceva nell'agro. Ai ribelli si aggiungevano i curiosi; pochi atti di violenza si commettevano, ma lo strepito saliva alle stelle. I rappresentanti del governo legale ripetevano indarno le ammonizioni. Plochiù, il generale comandante della spedizione eletta a sedare la rivolta, prima di ricorrere ai mezzi estremi, esitava, temporeggiava, attendendo rinforzi. Verso le cinque pomeridiane, in luogo delle truppe arrivò un telegramma. Il generale lo lesse esprimendo cogli accenni del capo la più viva soddisfazione: Assemblea generale in seduta permanente delibera ed ordina nessuna resistenza movimento anarchico generale - passi la volontà del paese - passerà presto. Dato a Berlino, ore quattro. - A meraviglia! Lasciamo che si arrabattino fra loro. Se la godano un paio di giorni la loro anarchia! Nessuno dei militi volonterosi da me dipendenti rischierà una scalfittura per mettere al dovere questi pazzi! Di là a pochi minuti, i rappresentanti del potere legale si ritiravano dai centri tumultuosi. Una grande aerostata governativa e duemila volanti di seconda mole ancoravano alla stazione centrale per accogliere e trasportare i ben pensanti Un razzo fosforescente proiettò sull'agro una luce azzurrognola, che subito si spense. Era un segnale ben noto ai ribelli; un segnale che voleva dire: il governo si dichiara nolente o impotente a resistere: si salvi chi può L'Albani e il Virey si gettarono nella corrente dei fuggenti, incalzati dagli urli, o piuttosto dai ruggiti di quella belva capace di tutti gli orrori, che è un popolo scatenato. A Stradella ed a Broni si saccheggiava impunemente, e, diciamolo ad onore del vero, con ordine, con garbatezza, coi più delicati riguardi alle suscettibilità dei saccheggiati. Sulle aree, la ripartizione e l'equilibrio dei beni faceva le sue prime prove gaiamente. Ad un cittadino che aveva nel portafoglio diecimila lussi, si accosta un nullabbiente per esigere la metà del suo avere. - Presto fatto! Eccovi cinquemila lussi, e buona notte ... per ora! La ripartizione amichevole è approvata dall'applauso popolare; ma ecco i due equilibristi son presi in mezzo da altri equilibristi che esigono la metà della metà toccata a ciascuno. - È troppo giusto. A ciascuno duemila e cinquecento lussi - siete soddisfatti? - Ma non è finita, convien ripartire anche i duemila cinquecento; e così via, via. di ripartizione in ripartizione, i capitali vanno siffattamente assottigliandosi, che all'ultima fase dell'equilibrio generale ciascuno risulta possessore di circa dieci centesimi. Ci vorrebbero dei volumi per riprodurre gli episodi tragi- comici di quel breve trabordo di anarchiche utopie. Basti dire che ad un lacero nullabbiente il quale si era fatto cedere il paletot dal droghiere Pirotta, toccò indi a poco di dover dividere le sue spoglie con un correligionario sprovveduto di giubba. E ciascuno dovette andarsene mezzo vestito, con un solo braccio insaccato in una manica e un frammento di bavero attorno al collo. Malgrado le irritazioni inevitabili in ogni attrito di popolo, la giornata prometteva di chiudersi con un allegro chiasso di canti e di balli. Un fratellevole accordo si produceva dalla comunanza degli interessi; dall'uguaglianza nella miseria tutti si attendevano l'età dell'oro; dal deprezzamento delle intelligenze, l'uniformità del sapere e lo schianto di ogni supremazia. Ma sul far della notte, le cose mutarono aspetto. I caporioni della sommossa, che pei primi si erano slanciati all'assalto degli stabilimenti di pigiatura, non riflettendo al pericolo, dopo essersi immersi nel mosto fino alla gola e aver tracannato a larghe fauci il licore effervescente, avean levate le spine alle botti. Il vino inondava gli appartamenti e scorreva a rigagnoli per le scale. L'esalazione alcoolica saliva ai cervelli; i bevitori quasi asfissiati si avvoltolavano come giumenti in una melma rossiccia; i meno briachi, per uscire da quell'afa irrespirabile, si aprivano il varco rompendo la folla coi pugni. Frattanto, irrompevano altri bevitori. I fanciulli camminavano carponi leccando i pavimenti; le donne succhiavano dalle spine le ultime sgocciolature. Nelle cantine dei ricchi proprietari, i coscritti stappavano bottiglie di vecchio barbera; decapitavano l'Asti spumoso e trincavano senza freno. La fede equilibrista era scossa; non vi era più alcuno in Stradella ed in Broni che fosse in grado di tenersi in equilibrio. Si vedevano dei vecchi avvinazzati strappar le gonnelle alle donne, affermando il diritto all'uguaglianza dei sessi; le donne, a loro volta, pretendevano all'onore dei calzoni. Rotolavano come botti, sul pendio dello stradone curricolare, delle coppie di ubbriachi, strettamente collegate. L'agro era invaso dalla follia contagiosa; abbracciamenti e ceffate, lacrime di tenerezza e invettive, danze a suono di calci, baci e morsi di lussuria impotente, tutte le maniere di amplessi imaginate dall'Aretino e dal Carnicci; l'orgia del sabbato antico coi raffinamenti e gli orrori della sensualità alcoolizzata. Chi porrà fine a questo orrendo scompiglio? ... Udite! Udite! Un muggito reboante, che par quello di cento tori riuniti, ha percosso l'aria con spaventose vibrazioni. Dalla via De-Pretis è uscito un gran fragore di terremoto; un padiglione è crollato, è un fuggi fuggi di gente che urla come fosse pigiata. Cos'è avvenuto? Pressoché nulla: un leggerissimo errore di calcolo nella mente di un grande scienziato. Chi farà la storia delle infinite sciagure derivate alla famiglia umana dalle lievi abberrazioni dei forti intelletti! L'illustre primate Piria avea perfettamente costruito il suo gigante automatico-chimico-vitale. La macchina umana era riuscita; tutti gli elementi essenziali che la chimica poteva prestare alla formazione dell'ossatura, dei muscoli, dei condotti, delle parti viscerali, dei glutini nervei, erano stati da Piria impiegati e coordinati sapientemente. Un gigante dell'altezza di trenta metri, proporzionatamente sviluppato nelle singole membra, giaceva disteso nel padiglione di via De-Pretis. Verso le cinque pomeridiane, in presenza di un centinaio di spettatori, l'illustre scienziato aveva operato la trasmissione del sangue e del movimento. Incisa la carotide del mostro inanimato e messala in comunicazione, a mezzo di un tubo elastico, con quella di un toro parimenti svenato, l'illustre creatore dell'uomo colossale avea veduto realizzarsi con rapidità l'assorbimento e la dejezione. Si volle il sangue di dieci tori per fornire al vasto cuore ed ai grandi condotti arteriosi del gigante il liquido vitale occorrente. L'azione simultanea di due pile elettriche di quadrupla potenza diede impulso alla circolazione, suscitò l'irritazione nervosa e il movimento dei muscoli. La materia inerte si scosse ... Due grandi occhi si spalancarono assorbendo la luce, le nari si gonfiarono, il petto parve scoppiare pei forti aneliti di aria ossigenata, le braccia si agitarono, le mani si distesero per afferrare l'ignoto; e finalmente ... Chi poteva prevedere un tal impeto di vita? Dalle fauci del gigante elettrizzato proruppe un muggito spaventoso. L'immane corpo si sollevò, atterrò con un calcio poderoso l'enorme banco sul quale stava adagiato, e lanciandosi colla violenza di un toro inferocito verso la porta di uscita, si diede a percorrere la via, sorpassando ogni barriera. Trecento baracche di merciaiuoli andarono capovolte; quattro olmi secolari, urtati da lui, si rovesciarono sradicati. Egli cozzava, rompeva, abbatteva ogni ostacolo, impiegando a tal uopo, con istinto taurino, la catapulta di un cranio resistente ad ogni urto. Imaginate il terrore di quella apparizione, in una folla esaltata dagli entusiasmi politici e dai fumi del vino! Dove la gente non era lesta a sgombrare, il gigante si faceva largo coll'impeto della persona, colle irruzioni del capo, colla violenza dei calci. I più accorti tentavano schermirsi da lui passandogli fra le cosce o saltandogli sul capo per scivolare al suolo tra le curve della schiena interminabile; ma i fortunati ai quali riusciva di salvarsi, se la davano poi a gambe esterrefatti, annunziando il finimondo e la comparsa dell'anticristo. Quello sgomento generale aveva fatto passare la generale ubbriacatura; in meno d'un'ora il vasto agro di Stradella e di Broni si era mutato in un deserto. La popolazione che prendeva il largo, sbandandosi pei vigneti e cercando rifugio nei letti dei fiumi, verso le otto della sera fu colpita da un nuovo terrore. Nell'impeto bestiale della corsa, il gigante aveva dato il capo in un campanile, quattro metri più alto di lui. La torre era crollata, ma anche il grosso cranio, con tanta sapienza di mezzi chimici confezionato dal Piria. si era spezzato nell'urto. Slanciando il suo uomo chimico-meccanico, il dabben Piria non aveva riflettuto che in ogni essere animato la percezione sensuale non può svilupparsi che gradatamente. Per la conservazione di quel mostruoso fenomeno vitale si esigeva un trattamento di neonato; supponendo in lui ingenita quella facoltà di discernimento che può formarsi soltanto nell'adulto per una successione di esperienze, l'illustre primate vide sfasciarsi in un attimo la più ardita creazione che mai fosse concepita e realizzata dal genio umano. Coll'ultimo muggito del gigante chimico-meccanico, e col fragore di un campanile in rovina, a Stradella ed a Broni ebbe fine in quella notte il baccanale rivoluzionario degli equilibristi. A dieci ore l'ordine più perfetto regnava nell'acro.

Al contrario, io ti prego di acconsentirmi questo sfogo dell'anima che la legge mi impone, perocché io sappia che l'uomo non può gustare, nelle braccia di una donna, tutta intera la voluttà dell'amore, quand'egli non sia ben certo che questa donna non abbia mai appartenuto ad alcuno ... - E potrei io dubitare della tua illibatezza? - esclamò l'Albani trattenendo la giovinetta con dolce violenza. - Tutta la tua vita si riflette nel tuo purissimo sguardo. Nella freschezza delle tue mani, nella fragranza del tuo alito, nelle caste pieghe dei lini che disegnano le tue membra, io respiro la vergine, indovino una limpida fonte, a cui nessuno ha mai portato le labbra! La legge mi comanda di proferire a mia volta la parola perdono; ed io, per obbedire a questa legge, ti perdono la sola colpa che in te riconosco, quella di aver amato un uomo immeritevole di possederti. I due fidanzati, nell'estasi di un lungo abbracciamento, non si accorsero che la porta si era aperta, che non erano più soli. Speranza e fratello Consolatore entrarono nella rotonda. Il ministro si accostò al due amanti per compiere la cerimonia dell'unione spirituale colla formola prescritta dai canoni religiosi. - Io ti amo e ti amerò sempre! - disse l'Albani - mentre il sacerdote univa la sua mano a quella di Fidelia. La giovinetta replicò la promessa con tremula voce. E mentre il ministro baciava in fronte i due sposi, dalla torre Garibaldi partirono i primi squilli del richiamo delle vergini La cerimonia era compiuta. I due giovani si levarono in piedi. La sposa del ministro offerse il braccio a Fidelia, e tutti quanti uscirono dal sacrario. Appena sboccati nella via, l'Albani scosse la funicella che pendeva dalla sua gondola, e il conduttore, svegliandosi al suono dell'organetto acustico

- pensava il curato - credo ch'egli abbia il diavolo in corpo!» E gli occhi dei tre antagonisti si incontravano nell'espressione di un sentimento comune; vattel'a pesca come la pensi costui! Queste pause della politica erano ordinariamente impiegate nelle libazioni più generose. Tutti vuotavano il bicchiere, e si affrettavano a riempirlo come soldati che si preparino a nuovi attacchi. Brevi uragani. Si scioglievano senza rumore e senza danno. La fronte del signore riprendeva la sua calma severa - l'occhio si dileguava nelle palpebre folte, e il labbro si ricomponeva al più mite sorriso, nell'articolazione di una parola misteriosa: Abrakadabra. Quella parola era il terrore del curato, il quale la riteneva diabolica. Il farmacista, cui le spiegazioni del dizionario di scienze mediche l'avevano resa incomprensibile, sorrideva con aria sapiente e faceva lo sbadato. Qualche volta, per soccorrere alla intelligenza dei suoi ospiti, il signore traduceva l'Abrakadabra nel motto latino: ibis, redibis Poi accennava ad essi di ripigliare la discussione - e in mezzo al frastuono delle voci mormorava fra i denti un fiat lux che pareva il gemito di un Epulone assetato di luce» Abrakadabra, che non cessava di essere un enigma per tutti, era divenuto dopo alcuni mesi il soprannome del signore.

Pur che vi abbia qualche allusione in favore dell'anzidetto caffè igienico, io vedrò di appoggiarlo. - L'elezione dell'Albani farebbe scoppiare dalla bile quel bel mobile dell'ex proposto Berretta con tutti i satelliti della infame Consorteria. - S'io fossi certo di veder crepare l'ex proposto ... - Quel ludro! - Quel ladro, dico io! - E che ladro! Si vuole che tutti gli anni mandasse secretamente a Madera un miliardo di lussi! ... - E i buoni Milanesi l'han lasciato partire ... - Oh! la morte del Prina! ... - E noi due a far la parte del cavallo ... Ma ecco un compare che sarà del nostro avviso. - Che vuol dire quell'aria affannata? Il brugnone Perelli si accosta al tavolino con un giornale alla mano, esclamando: - Avete letto? cose da far piangere i sassi! ... - Che è stato? - È morto l'ex-proposto Berretta. - Morto! Oh, disgrazia! Ma quando? Ma come? - Leggete! ... sentite! «La mano ci trema ... le lagrime ci fan velo agli occhi ... il cuore ci si spezza nel trascrivere l'infausta novella ... Quell'ottimo patriota, quell'illustre pubblicista, quell'integro amministratore della cosa pubblica, quel solerte funzionario al cui genio, alla cui operosità Milano va debitrice dei tanti abbellimenti edilizii, dei tanti provvedimenti economici e filantropici che in pochi anni la elevarono al rango di città capitalissima - l'illustre, il benemerito, il grande, l'immortale nostro concittadino Berretta non è più! Al momento di abbandonare per sempre la sua diletta Milano, quel nobile cuore si è spezzato ... di angoscia». - Povero Berretta! - esclama il Pestalozza; - vero galantuomo! ... vero patriota! ... - E una testa! - soggiunge il Pirotta, - una di quelle teste ... - E galantuomo, perdio! - Uomini che non dovrebbero morir mai! - Ma Milano farà il suo dovere. - Apriamo subito una sottoscrizione per erigergli un monumento ... - Approvato! - gridarono molte voci. - Io proporrei ... - Sentiamo! tu proporresti? ... - Che i Milanesi facessero pubblica e solenne riparazione dei loro torti verso l'illustre estinto, rieleggendolo alla carica di Gran Proposto. - Sarebbe una dimostrazione degna di noi. L'illustre estinto aveva troppo buon senso per opporsi alla adottazione del caffè igienico fico-patata ... Proporrò la nomina al Circolo dei droghieri ... - Frattanto sottoscriviamo! Olà! penna, calamaio! e avanti a chi tocca! I circostanti si affollano intorno al Pirotta, e mentre, inneggiando al defunto, tutti gareggiano nell'offrir denaro pel monumento, i due Primati prendono a parlare fra loro sommessamente. - Ecco un altro cittadino benemerito, a cui verrà resa giustizia quando i suoi compatrioti non vedranno più in lui che un uomo di Pietra! - mormora il giovane Foscolo. - Il volgo fu sempre volgo - risponde il Primate Alfieri, e l'istruzione universale ha cretinizzato le masse completamente. Se il governo non mette un freno alla stampa ... - E tu osi profferire questo voto liberticida? ... - Esso formerà la base del mio programma elettorale. La libertà di stampa fu utile e buona ai tempi in cui l'istruzione era privilegio di pochi. A quell'epoca, l'audacia dello scrivere quasi sempre andava accompagnata alla coscienza del sapere. La falange degli scrittori pessimi non era tanto compatta da chiudere il varco agli intelligenti ed agli onesti, e la voce solitaria del genio poteva ancora soverchiare il raglio collettivo delle plebi. Ma oggi? Tutti leggono, tutti scrivono. La statistica libraria ci afferma che nella Unione Europea vengono in luce da venti a trentamila volumi ogni giorno. Altrettanti, e forse più, ne produce l'America; e non parliamo delle altre province già invase e corrotte dalla nostra civiltà. A leggere tutti i volumi che si pubblicano in un giorno, appena basterebbe la vita di un uomo! Qual criterio può ora guidare le nostre preferenze? E chi ci addita il buon libro? Chi vorrà sommergersi in questo oceano di insensatezze stampate, colla incerta lusinga di scoprire quando che sia, per favore del caso, qualche perla sepolta fra le alghe? Ammesso che alla espansività dell'idiotismo che scrive non si voglia mettere un freno, qual sarà l'avvenire della nostra letteratura? L'asfissia del senso comune, e un contagio di asinità irreparabile. Uomini di genio, appiccatevi! Il mondo non ha più orecchio per voi, dacché la stampa è in balia dell'ebete maggioranza. - I parrucchieri! i parrucchieri!(32)

Uno di voi si rechi alla Villa per informarsi se l'Albani vi abbia messo di guardia qualcuno dei suoi leoni. Un altro vada domattina allo Stabilimento Rota a levare il ritratto fotoplastico da me ordinato, badando di confrontarlo colla prima copia per veriflcare se sia veramente identico. Presentando alla Dama di commercio la mia carta di visita che porta il nome di Don Fernando Blaga Gran Torreadore di Saragozza, il ritratto vi sarà consegnato. Un terzo raccolga i diversi vestimenti da me ordinati ai cinquanta sarti dei quali vi trasmetto la nota. E il quarto finalmente, si tenga in comunicazione cogli Agenti di Sorveglianza affigliati alla setta, per avvertirmi in tempo utile se mai il Torresani venisse a fiutare le orme nostre. Il Casanova aggiunse a questi ordini non poche ammonizioni di lieve importanza; poi stretta la mano a' suoi quattro colleghi, li accompagnò sul ponte della nave. Il Bigino era là ad attenderli. I quattro calarono nella gondola, e immediatamente sprofondarono nelle tenebre. All'indomani tutti gli ordini del Casanova erano stati eseguiti. I quattro si ricondussero alla nave, portando un ritratto fotoplastico dell'Albani di perfettissima somiglianza, due canestri ripieni di vestiti, ed altri piccoli attrezzi necessari alle strategie di tal genere. Il Casanova fece recare quegli oggetti nella sua cabina, e quivi si rinchiuse per alcune ore in compagnia di un giovane napolitano, certo Anselmo Furlay, abilissimo metamorfo. Parrà inverosimile quanto io sto per narrare, e voi che mi udite, farete delle esclamazioni di meraviglia, forse anche crollerete il capo da increduli. Voi non riescirete a concepire questi nuovi perfezionamenti della acconciatura, dove la guttaperca è chiamata ad operare delle trasformazioni prodigiose. Ma io non avrò certo la pazienza di spiegarvi tutto un processo, che d'altronde può essere facilmente indovinato dagli spiriti arguti. A me basta accennare il fatto, a me basta di porre in rilievo i mezzi che concorrono a crearlo. La maschera ritratto non è una invenzione del secolo ventesimo; se avete letto i Cento anni di Rovani, vi sovverrete degli orribili scandali che ebbero a prodursi a Milano fino dal secolo precedente, per questo trovata della menzogna e della frode. Ma a quei tempi non si conoscevano le meravigliose proprietà della guttaperca, si ignoravano quegli altri mezzi chimici, che ora, nel ventesimo secolo, concorrono a trasformar completamente un profilo, una fisonomia, riproducendo in un individuo le sembianze di un altro. Nella cabina del settario equilibrista venne dunque ad operarsi una di codeste meravigliose trasformazioni. Uno strato di guttaperca modellato al ritratto fotoplastico dell'Albani, iniettato di cera rosea e di liquido vitale trasformò il Casanova completamente. Il metamorfo Furlay questa volta fu sublime di trovati, fu vero artista. Egli riprodusse l'originale nella maschera con insuperabile precisione. E non solo nei contorni del viso e del collo, ma nel colorito delle guance e delle labbra il Casanova rappresentava così fattamente l'Albani, che quegli, mirandosi nello specchio, provò un fremito di terrore, quasiché l'imagine riflessa dovesse accusarlo e svelare l'inganno. Il Casanova, parlando dell'Albani a' suoi colleghi, aveva detto: quell'uomo mi va come un guanto! Il capo degli Equilibristi aveva calcolato perfettamente. Ed ora che abbiamo veduto abbigliarsi dietro la scena questo nuovo attore del nostro dramma, precediamolo di poche ore sul teatro dell'azione; scendiamo prima di lui nei penetrali della Villa Paradiso

Ciascun cittadino della Unione, nato da legale matrimonio, viene, dal giorno di sua nascita, iscritto nel libro di famiglia, e da questa iscrizione ha principio l'assegno di vita I genitori, o chi per essi, ritirano l'assegno fino a quando il fanciullo abbia toccato l'età gestiente, vale a dire ch'egli sia in grado di governarsi. Raggiunta questa età - dodici anni - l'adulto percepisce direttamente il proprio assegno. La Famiglia gli fornisce l'alloggio, il mantenimento, l'uniforme, e una somma di cento lussi (franchi) all'anno, fino al compimento del corso universitario. La posta lettere, le strade ferrate, i vapori di mare, tutti i mezzi di trasporto sono gratuiti, ad eccezione dei palloni aereostatici, delle navi sottomarine, e delle locomotive a ribalzo. Il popolo ha libero accesso in tutti i teatri di prosa, direttamente amministrati e sorvegliati dal Consiglio di Famiglia. Sospendete questi provvedimenti, queste agevolezze, questi comodi, questi piaceri al cittadino che ha mancato a' suoi doveri verso la società - ecco un eccellente codice di punizione! Cento lussi! ... Ah! voi non potete apprezzare il valore di cento lussi per un nullatenente, per un povero diavolo che non abbia risorse fuori della piccola pensione che gli viene pagata dalla famiglia! Figuratevi la disperazione di un borsaiuolo, quando, alla scadenza del suo premio, udrà la voce del pubblico tesoriere gridargli alla coscienza: - il tribunale ha posto il veto su' tuoi cento lussi per il battizza che hai fatto sparire, per la catena che ti sei appropriato! Procedete dai minori ai maggiori delitti, applicate le pene in proporzione. Sospendete il premio de' cento lussi, vietate l'ingresso ai teatri, negate il trasporto sulle ferrovie, su tutti i veicoli della Unione, diminuite l'assegno necessario, salite di grado in grado alla più terribile delle punizioni, alla morte civile. Voi avrete una idea generica, ma precisa del nuovo codice criminale. Però anche in queste leggi tanto provvide e benefiche, apparisce, a chi ben le consideri, lo stigmate inevitabile della umana imperfezione. Perchè esclusi dal benefizio di esistenza i nati da unione illegittima? Forse hanno colpa i miserelli della loro origine meno legale? Non hanno diritto alla vita? I dottori dell'epoca vi rispondono: - la eccezione si è fatta per ristabilire e generalizzare il matrimonio, orribilmente screditato nel secolo precedente. Sotto questo aspetto, è mestieri confessarlo, legge più efficace non potevasi ideare. E perchè l'uniforme obbligatoria agli adulti che percepiscono l'assegno di famiglia - Una misura economica basata sull'orgoglio umano. Non accordandosi l'assegno agli adulti che a patto di indossare la uniforme del nullatenente, molti si asterranno per vergogna, e penseranno a guadagnarsi l'esistenza col lavoro. Ma i poveretti che moriranno di inedia piuttosto che far mostra della loro miseria? E i ricchi sfrontati che indosseranno la livrea per vivere a spese altrui? - Meno male che la Legge ereditaria restringerà, fino a renderlo impercettibile, il numero degli accumulatori e degli usurai. Ma di questa legge, e d'altre importantissime, come di tutti i progressi giganteschi delle scienze, delle arti e delle industrie, si vedranno manifestamente gli effetti, quando al breve accenno delle istituzioni seguiranno le storie del fatto. L'anno 1977, da cui appunto principiano queste storie, presenterebbe l'apogeo del moto saliente dell'epoca. L'ordine pubblico, la pace, la moralità, il sentimento umanitario e religioso diffuso in tutte le classi e perfettamente armonizzante colla intelligenza e col sapere, il rapido succedersi delle scoperte, la pronta effettuazione di ogni idea veramente utile, gli incredibili ardimenti del genio, e l'impotente cooperazione di tutte le forze animate e materiali che si associano per tradurli in fatto, ci obbligherebbero a chiamar questo il vero secolo d'oro, l'era preconizzata della felicità universale, se ... Questo se è il punto nero di tutti i tempi, di tutte le storie umane. Noi lo vedremo disegnarsi, prender corpo, agitarsi nella nuova epoca, mischiarsi a tutte le sue aspirazioni, a tutte le sue feste, a' suoi trionfi, per gridarle eternamente: «il secolo peggiore e il secolo migliore per l'umanità non esistono!» Ma prima che si rivelino i dolori latenti, illudiamoci ancora un istante su questa superficie di bene.

Non posso supporre che ella abbia obliati gli impegni con me presi or fanno pochi minuti. - Noi apparteniamo alla umanità tutta intera - rispose l'Immolata sospirando; - ma quelli che soffrono, quelli che partono dalla terra hanno su noi dei diritti più urgenti. Così parlando, la donna guardava il nano fissamente, colla espressione supplichevole e mesta del delinquente che chiede grazia all'arbitro de' suoi giorni. E vedendo che quegli non accennava ad arrendersi, la trepida donna rivolse la parola all'uomo che le dava di braccio, invitandolo a mostrare il mandato di estradizione di cui era munito. Il Virey non esitò un istante a porgere il foglio. Il nano lo percorse rapidamente coll'occhio, e parve disarmato. - Intorno a questa mensa - riprese lo strano personaggio volgendo la parola al Virey con intonazione più mite - vi hanno ottocento suore disposte a prestarvi i loro servizi; non sareste voi abbastanza cortese per riferire la vostra scelta sovra una di quelle? - Ragioni di scienza me lo vietano - rispose il Virey gravemente. - L'illustre malato reclama l'applicazione di un assorbente eminentemente simpatico, e in questa donna soltanto ho potuto scorgere le facoltà che al mio caso si confanno. Il nano aggrottò le ciglia, le sue labbra impallidirono e parvero minacciare una violenta esplosione di collera. Girò una occhiata d'intorno, un'occhiata bieca, sospettosa, tremenda; ma scorgendo due ufficiali di sorveglianza che si avanzavano alla sua volta, coll'accento cupo di chi si reprime, disse: - Sia fatta la volontà della legge! Noi ci vedremo più tardi ... Il Virey fece un saluto del capo, e la donna, cui erano state dirette le ultime parole del nano, rispose con una intraducibile occhiata piena di angoscia e di sommissione. Poco dopo, la volante che stazionava sulla piazza della cattedrale, accoglieva nel suo grembo il Primate e la suora, e dirigevasi con moto rapidissimo verso la villa Paradiso. Durante il tragitto, l'Immolata appariva turbata. - Quest'uomo - le disse il Virey - ha prodotto sui vostri nervi una impressione dolorosa. Procurate di ricomporvi e di obliare. Per la missione che ora andate a compiere si esige molta calma e molta energia di volere. - Se voi conosceste quel mostro! - esclamò l'Immolata rabbrividendo. - Egli è dunque di una specie ben trista, se voi tremate e vi coprite di pallore al ricordarlo? ... - Egli è un mistero più buio della notte e più profondo del mare. - Voi dunque ignorate affatto chi egli sia? - Se ogni sua parola non è una menzogna, debbo credere che egli si chiami Cardano, e ch'egli sia ricco e potente come un re. - E viene spesso in cerca di voi? - Mi ama! - sospirò la donna con un gesto di orrore. - Se sapeste quale tremenda cosa sia per noi il dover subire di tali amori! ... Uno scoppio di lacrime troncò le parole della donna. Il medico accerchiò la bellissima testa col braccio e premendola al petto esclamò mestamente: - La società moderna, designandovi col titolo di Immolate, ha reso giustizia al vostro eroismo. - No! no! - riprendeva la desolata singhiozzando. - La mente dell'uomo non riuscirà mai a concepire le atrocità del nostro martirio. Uno dei più orrendi supplizii ideati dalla scelleraggine antica fu quello di legare ad un vivo il corpo di un estinto per seppellirli abbracciati nella medesima tomba. Orbene: nelle prepotenze a cui la Immolata si assoggetta vi è qualche cosa che assomiglia all'accoppiamento di un morto e di un vivo ... Essere amata da quel mostro, dover subire i suoi amplessi, dover fingere al segno, ch'egli talvolta possa illudersi di essere amato! ... È orribile ... è spaventoso! ... - Da quanto tempo conoscete quell'uomo? - domandò il Virey. - Da sei o sette mesi. Dal giorno in cui a Milano ebbe luogo l'esperimento della pioggia artifiziale ideata dal celebre Albani. Non potrò mai obliare le tremende parole ch'io lo intesi profferire in quella occasione. Al cadere delle prime stille, mentre dalla città si alzava un grido di sorpresa e di plauso, l'esplosione di un ghigno satanico mi trasse a rivolgere il capo. I miei occhi si incontrarono per la prima volta in quelli del basilisco. Ed egli, senza smettere il suo ghigno beffardo, e guardandomi fissamente: «applaudite! applaudite! - ringhiava colla sua voce cavernosa; - questo meccanismo, migliorato, corretto e opportunamente applicato, al meno danno potrà fra pochi mesi riprodurre il diluvio!» Il Virey prestava la massima attenzione alle parole della Immolata e a sua volta diveniva tetro. Il moto discendente della gondola avvertì lo scienziato che era tempo di avviare la conversazione sovra altro tema. - Adunate le vostre forze - diss'egli; - cacciate dalla mente ogni avversa preoccupazione; il nuovo sacrificio a cui andate incontro darà la vita ad un fratello che ha resi i più segnalati servigi alla umanità. Poco dianzi avete nominato l'Albani, l'inventore della pioggia artifiziale. Orbene, sappiatelo: gli è appunto quell'insigne cittadino che reclama le vostre cure. Poco fa, nel gettar gli occhi sulla di lui effigie, le vostre guance si animarono di un vivo rossore, e se io non mi sono ingannato, i vostri nervi furono scossi da un elettrismo simpatico. - Primate! - esclamò la donna rianimandosi improvvisamente - gli è che quella effigie ... quelle sembianze ... - Ebbene! - esclamò il medico colla impaziente curiosità di chi sta per afferrare l'ultima parola di un enigma. - Ebbene! - sospirò l'Immolata - quella effigie e quelle sembianze mi hanno ricordato ciò che una donna della mia condizione ha l'obbligo di obliare, che anch'io sulla terra ho amato una volta, e molto, e intensamente amato pel solo diletto di amare. Su queste parole della Immolata la gondola toccò terra. Il Virey offerse il braccio alla donna, e si inoltrò con essa nella galleria che metteva alla stanza del malato. - Nessun sintomo allarmante? - chiese il medico entrando. - Nessuno - rispose fratello Consolatore. - Lasciamo con lui questa suora e ritiriamoci. Ciò che importa - soggiunse il medico volgendosi alla Immolata - è che quest'uomo creda in voi prima che siano trascorse due ore. Tutti uscirono dalla stanza ad eccezione della donna. Questa si appressò tremando al letto dell'infermo. La luce melanconica della lampada azzurra, rischiarando il pallido volto, lo abbelliva di una tristezza funerea. L'Immolata, al vedere quelle sembianze, potè a stento reprimere un grido. Si gettò su quel corpo assiderato coll'impeto di una madre selvaggia che trova il proprio figlio ucciso da una serpe. Le sue braccia, incrociandosi tra le chiome dell'infermo, sollevarono dai guanciali il capo estenuato; le sue labbra tumide di sangue, esuberanti di ardore, corsero avidamente a baciare una bocca, dove la morte già delineava il suo glaciale sorriso. Quel bacio poteva essere eterno. L'Immolata, affiggendo le sue labbra a quelle dell'Albani, dovea trasmettere la vita o assorbire la dissoluzione. Ma i presagi del Virey non tardarono ad avverarsi. L'infermo dopo alcuni istanti aprì gli occhi. - Che è stato? - domandò con fioca voce. L'Immolata trasalì, e cadendo in ginocchio presso il letto del malato, gli mormorò all'orecchio una parola che parve rianimarlo. - Il vostro nome! il vostro nome! - ripeteva l'Albani, guardandola fissamente. E allora, con un accento pieno di soavità e di tristezza, la genuflessa prese a parlare di tal guisa:

«Dal canto mio ho sempre pigliato il mondo come vuol essere preso da ogni persona che abbia senno: ho sempre mangiato e bevuto lautamente; ho goduto quanto si può godere, ho gabbato il prossimo quanto il prossìmo avrebbe voluto gabbarmi; ho vissuto da gran signore rasentando la galera; e i miei concittadini mandandomi alla camera elettiva, hanno dichiarato che ero degno di rappresentarli. Viva dunque il pianeta Osiride! Era ben tempo di farla finita con questa generazione di imbecilli!» Di là a quindici giorni, giusta la profezia del Deladromo, la superficie del globo terrestre era sparita sotto uno strato di acque. E al sedicesimo giorno, il pianeta Osiride ricominciò il suo moto ascendente, e le piogge cessarono, e uno splendido sole sfolgorò sulla muta solitudine. E in appresso spuntarono dalle acque le cime dei nuovi monti; e due esseri umani, forniti di ali, uscendo dall'ultimo battello di scampo, dove l'Albani, fratello Consolatore e Glicinia erano periti, drizzarono il volo ad uno scoglio ... E su quello scoglio, i due alati, che si chiamavano Rondine e Lucarino, con assicelle e fogliami depositati dalle acque edificarono la loro capanna e vissero parecchi mesi di pescagione. E Rondine, di là a un anno, concepì ... E Lucarino si rallegrava pensando: nostro figlio avrà le ali come noi, e così sarà dei nostri discendenti, E il figlio di Rondine nacque senza ali, perché l'uomo alato sarebbe un mostro; e Lucarino, turbato da gravi sospetti, pianse amaramente. E in seguito, Rondine e Lucarino ebbero degli altri figliuoli d'ambo i sessi, i quali crebbero e si moltiplicarono sulla faccia della terra, per rinnovare le stravaganze e le follie delle generazioni ignorate che li avevano preceduti. FINE.

Vi par egli che un secolo padrone della stampa, del telegrafo, del vapore, abbia proprio bisogno dei massacri per civilizzarsi, per ottenere ciò che desidera? ... «Ma l'Europa liberalissima vuole affrettarsi. Un indugio di trent'anni, di mezzo secolo, sarebbe troppo grave alla impazienza dei dittatori umanitarii. - Povero popolo! ... bisogna far presto a redimerlo, a patto che egli paghi il suo riscatto con un miliardo di vittime. «Ebbene! accettiamo il barbaro assurdo! Ammettiamo che l'animale ragionevole non ceda che alla logica delle bombe. Dichiariamoci antropofagi, e rinunziamo ad ogni speranza di convertire il mondo alle pacifiche utopie. - Ma almeno - poichè la carneficina dovrà aver luogo, procuriamo di assicurarne i risultati a benefizio delle nostre idee; non prodighiamo le vittime; non avventuriamo ad un improvvido azzardo il passato, il presente e l'avvenire. I moderati non chiedono altro. Facciamo che questa lotta sia breve, sia decisiva, e sopratutto vittoriosa. «Mentre voi, uomini dell'azione, urlate nelle piazze i vostri entusiasmi; noi nei nostri gabinetti calcoliamo i mezzi di riuscita - voi fidate nell'intervento di Dio: noi numeriamo i nostri cannoni e le nostre navi corazzate - voi dite: popolo, come direste venti milioni di combattenti; noi passiamo in rassegna l'esercito, e contiamo trecentomila soldati - voi sperate nell'alleanza di tutti gli oppressi, di tutti i malcontenti di Europa; noi domandiamo l'appoggio o la neutralità di potenti nazioni - voi minacciate e sfidate, noi destreggiamo perchè ci lascino fare - voi vi fate beffe della diplomazia; noi ci facciamo diplomatici per ischermircene. «Ecco perché ci chiamate moderati, uomini della paura! Moderati? Oh sì! noi lo siamo ... La moderazione è da esseri ragionevoli - i bruti, i selvaggi non la conoscono. Paura? Se la passione non vi impedisse di renderci giustizia, voi la chiamereste prudenza. Una sola cosa noi temiamo: perdere il frutto del sangue versato a prezzo di nuovo sangue. «Gridateci codardi, impotenti, traditori! Abbiamo fatto il callo alle vostre invettive! Noi aspetteremo fino a quando la convinzione del poter fare non ci gridi: avanti! «Frattanto, i giorni della attesa non saranno sprecati per opera nostra. Noi non turberemo la fede del popolo con suggestioni nefande; predicheremo la concordia e il compatimento - insegneremo la libertà, esercizio di equi diritti e legge di sacri doveri. Mentre l'esercito si agguerrisce, impareremo a divenire nazione. «Non è malva, non è oppio quello che noi spargiamo nei circoli, nelle associazioni degli operai, nelle scuole gratuite da noi favorite e protette. Noi insegniamo la libertà ogni qualvolta voi non ci interrompiate per obbligarci a combattere la licenza e la violazione delle leggi. «Più che altro ci sta a cuore di riconciliare alle idee di civiltà e di progresso i molti che finora le guardarono con isgomento. Noi vogliamo persuadere gli onesti di tutte le classi che libertà è ordine assoluto, che rivoluzione non è sinonimo di anarchia e di ghigliottina. La nostra moderazione ha già risolto molte esitanze, conquistato molte simpatie. Procediamo a questo intento! È a sperarsi che il nostro metodo riesca completamente. È a sperarsi che i pertinaci fautori del passato, i più accaniti nemici delle nostre idee, gli stessi clericali, si accostino un giorno al banchetto delle nazionalità redente, e vengano con noi a celebrare la Pasqua di riconciliazione. Non è vero, signor curato revendissimo?»

In questa verità stanno i germi della più micidiale, della più orribile rivoluzione che mai abbia insanguinata la superficie della terra. «Come riuscirete a sedarla? quale sarà il mezzo della tregua? il componimento finale? - Via! confessatelo, signori progressisti umanitarii - su questo punto della questione voi non siete più avanzati di noi. «Basta! a suo tempo ci penseremo - non è vero? tale è la vostra filosofia; ed io mi congratulo di vedervi sorvolare con tanta leggerezza agli scrupoli dell'avvenire. Ma vi è nel presente qualche cosa di più grave, di più contradditorio, a cui forse non avete ancora badato. I vostri progressi non sono solamente una minaccia che gravita sui vostri contemporanei. Tutte le scoperte che soccorrono ad un bisogno, ad un comodo, o ad un diletto della vita umana - ogni nuovo passo dello spirito inventivo, che, a vostro dire, segna una nuova fase di civilizzazione, moltiplica necessariamente sulla terra il numero degli schiavi, e inchioda più aspramente alla catena quei milioni di paria che voi pretendereste redimere. «Voi scuotete il capo, signor farmacista! Ciò vi sembra un paradosso ... Vi spiegherò il pensiero cogli esempi ... Compiacetevi di abbandonare le astrazioni, e di scendere con me sul terreno della vita reale, a cui, se non mi inganno, voi altri liberali vi dimenticate troppo spesso di appartenere. «Il primo uomo che, camminando per una foresta di vergini piante, corse dietro ad un candido fiocco staccatosi da un ramo, e strofinandolo leggermente fra le dita, concepì il pensiero di ridurlo a filo per tramarne dei tessuti - il primo uomo che si propose coltivare il cotone per farne dei drappi; quell'uomo, nell'ingenua compiacenza di recare un immenso vantaggio alla umanità, segnò la condanna di milioni e milioni di negri - fu l'innocente iniziatore di una mostruosa barbarie, che anche oggigiorno fa inorridire la terra. «Volgetevi intorno - una occhiata alla vostra mensa - alla vostra guardaroba - ai vostri mobili - ai meccanismi che vi rendono agiata l'esistenza! ... «Dacchè il sale divenne una necessità dei palati istupiditi, parecchi milioni di uomini furono condannati a intisichire onde apprestarvelo. Per variare i vostri foraggi, il riso fu introdotto sulle mense - non importa che migliaia di infelici paghino della loro vita questo capriccio di ghiottoneria. Il paria delle risaie lombarde, dopo aver lottato venticinque anni colle terzane, a trent'anni è vecchio, a quaranta è decrepito, a quarantacinque anni è cadavere. «I cristalli che vi splendono sulla tavola, i colori brillanti delle vostre tappezzerie, i metalli che servono agli usi più comuni, la luce artifiziale della notte; tutto il lusso, tutti gli agi che vi circondano, narrano la istoria dei vostri progressi con gemiti e strida disperate. «La locomotiva che attraversa la terra come un conquistatore inebriato di fumo e di possanza; questo sorprendente meccanismo che accelera il moto dell'uomo e la diffusione delle idee - non ha forse relegati nelle cave di carbon fossile migliaia e migliaia di sciagurati, perchè muoiano nelle impure esalazioni a benefizio del progresso che cammina? Esaminatelo attentamente il grande ordigno civilizzatore - studiatelo in ogni sua parte, in ogni suo accessorio - poi fate bene il vostro computo, e ditemi quanti milioni di schiavi sieno necessariamente aggiogati e stritolati alle ruote di questo carro emancipatore! «Ed ora vediamo un po' come la intendiate! Questi paria, questi schiavi della civiltà, che dovranno necessariamente moltiplicarsi per servire ai nuovi bisogni, ai nuovi comodi del secolo - impareranno anch'essi a leggere, a filosofare con voi? E qual sarà la catena per vincolarli alle cave tenebrose, al maglio rodente delle officine? Forse la coscienza del dovere? - Io credo, signor sindaco, che il vostro cenno affermativo sia un amaro sarcasmo. La coscienza dei propri diritti farà dire a questi paria conculcati: È oramai tempo che i felici del mondo prendano il nostro posto! «Una volta - ai tempi dell'ignoranza e della superstizione - quando il paesano vegetava nella sua atmosfera più omogenea, quando l'operaio non si era ancora associato all'esaltazione ed all'ateismo - bastava un versetto del vangelo o una parola del curato per mantenere in questo povero popolo la fede del lavoro, e la rassegnazione alla miseria. «Noi ripetevamo al villano: i ricchi godono la loro porzione di felicità in questo mondo, ma voi ne avrete a ridoppio nell'altro - beati coloro che soffrono, perocchè saranno consolati! - più soffrirete quaggiù, e più grande sarà la vostra esaltazione in paradiso. «Gli scorati, i dubbiosi avevano fede nella parola del curato; tornavano ai campi, alle officine - lavoravano, soffrivano ... e morivano nella speranza. «Ah! voi credete utile e morale istillare la diffidenza e il sospetto in quei semplici cuori! Che faranno i vostri libri? Distruggeranno la fede e la rassegnazione sotto pretesto di combattere il pregiudizio. La vostra educazione griderà agli schiavi: «tutti gli uomini hanno uguali diritti», non è giusto che i milioni lavorino nel pianto perchè i pochi tripudiino nell'abbondanza e nel potere - animo, dunque! insorgete! domandate la porzione che vi spetta! ... «E sapete voi quale sarà la vostra porzione? (proseguì il prete volgendosi ai contadini delle tribune). Dopo avervi rapito il maggior di ogni bene, la fede: dopo avervi spogliati della vostra semplicità, dopo aver mutato la vostra operosa pazienza in disperata ribellione - il giorno in cui domanderete il compenso di una libertà tante volte promessa, sarete appiccati ai gelsi delle vostre campagne, o ricacciati nelle officine a furore di mitraglia. «No! figliuoli delle officine e dei campi! Non vi lasciate adescare dai falsi apostoli della scienza. La scienza, come il pomo del paradiso terrestre, ci insegna il bene, ma ci riempie di mali. «Ciò che vi si promette è un inganno. Credete al vostro curato. I ministri di una religione, che ha per codice il Vangelo, non potranno mai farsi complici di quest'opera abbominevole. Non possumus! non possumus! sarà la nostra insegna, la nostra invariabile protesta, quando anche tutte le ire e le violenze del secolo si rovesciassero sopra di noi!

Siete voi disposti ad impegnare la vostra fede per sempre, a rendere obbligatoria fra voi la convivenza fino a quando la morte dell'uno o dell'altra non abbia sciolto il vostro patto? - Sì! Sì! rispondono ad una voce i due illusi. Sotto l'impero della passione, quei due si lancierebbero abbracciati tra le fiamme di un rogo. Orbene: quel sì, strappato dal prete o dal sindaco a due creature innamorate, incoscienti dell'avvenire, non segna forse, nella più parte dei casi, una condanna peggiore dei lavori forzati a vita? Cosa accadrà? Ciò che deve necessariamente accadere. Converrebbe disconoscere le leggi di evoluzione che governano il cosmos ed ogni atomo vivente, per contare su altri risultati. Ammettiamo pure, a consolazione degli ipocriti e dei casisti, qualche eccezione; ma il fatto più costante sarà sempre codesto. Dopo un lustro, dopo un anno, dopo un mese; qualche volta, più spesso che non si creda, dopo una notte di godimenti coniugali, la deliziosa attrazione reciproca andrà svanita. Comincieranno le svogliatezze, più tardi le ripugnanze insormontabili. Via! dissimulate! fatevi animo! Siete marito e moglie; a termini di legge, dovete ricoricarvi sul talamo e ricambiarvi delle carezze. Che importa se non vi amate? Forse più tardi vi abborrirete; la vostra conversazione diverrà un ricambio di ingiurie e di minacce; godetevela! è la porzione di felicità domestica che vi siete assicurata per la vita segnando il grazioso contratto. L'amore vi ha illusi, la legge vi ha gabbati; in nome della giustizia e della moralità, voi dovete alla notte accoppiarvi detestandovi, per trascinare durante il giorno la catena del forzato, imprecandovi con tutte le energie della disperazione. Ma, questi matrimonii creati dall'amore furono rari in ogni tempo. La fanciulla vessata dalle leggi, dalle ipocrisie sociali, dalle volgari cupidigie dei parenti, dalle imperiose necessità dell'esistenza, dalla astinenza sessuale imposta alle nubili, si abbandonò, per un errore di calcolo, alla china dell'abisso. Ella accettò il matrimonio vagheggiando l'adulterio; si fece moglie per esercitare con minor pericolo i suoi diritti di amante. Doveva essa, la martire derelitta, abdicare completamente a' suoi istinti più imperiosi e geniali? Ed ecco il sopravvento dei matrimonii di menzogna, ecco il primo passo della schiava verso l'emancipazione: ingannare un uomo per conquistare l'impunità nell'amore, ripararsi dietro un'istituzione balorda e vessatoria, dalle ipocrisie sociali ugualmente stolide e spietate. Vi sembra morale? Noi stesse ne conveniamo: è abbominevole. Può mai scaturire da una impura sorgente la limpida linfa? Lapidiamo l'adultera! gridarono i feroci legislatori. Ma, sciagurati! non siete voi, non è ancora la barbara proscrizione dell'amor libero, che ci ha trascinato su questa via obliqua dello spergiuro e dell'inganno? Ci avete imposto di segnare un contratto ripugnante alla umana natura, e poi fingeste inorridire ogni qual volta noi fummo indotte a violarlo. Ma, infine, quali erano le vostre pretese? Credevate schiacciarci rincarendo sulla nostra colpabilità; otteneste, a forza di cavilli e di sofismi, di stabilire una diversa misura di responsabilità fra le vostre turpitudini e i nostri irresistibili bisogni. Mentre noi, trascinate dall'amore, ansanti, inquiete, trepide del pericolo, correvamo furtivamente, col velo sugli occhi, al convegno desiderato di chi potea darci l'amore; che facevate voi, allora, o grotteschi Otelli da commedia, per affermare la legittimità dei vostri furori gelosi, delle vostre tiranniche rappresaglie? Ciò che voi facevate è scritto nelle statistiche delle antiche e delle nuove Questure. Voi fornivate alle case di tolleranza ed alle alcove delle Immolate il più grosso contingente; voi spendevate dei patrimoni per alimentare il lusso delle etére che vi sputavano in viso. Avete mai dato prova di comprendere l'amore? La tirannia che esercitate su noi non è che stupido orgoglio. Non permettete che si rechi onta al vostro nome, e frattanto oltraggiate ogni giorno la donna che deve portarlo, posponendola alle più vili meretrici. La società non vi disprezza per questo. A voi è lecito menar vanto della vostra abbiettezza; vi terreste piuttosto disonorati, temereste di apparire ridicoli dichiarandovi fedeli al contratto coniugale. Ma non è tutto. Quali furono, nel secolo scorso, quali sono oggi i criteri che vi dirigono nella scelta di una sposa? Le attrattive della gioventù, della bellezza, dello spirito, della bontà, non esercitano verun fascino sui vostri sensi e sul vostro intelletto. Signorina: a quanto ammonta la vostra dote? Mi occorrono trecentomila lussi per riparare a' miei dissesti: li avete? In caso affermativo, mi onorerò di darvi il mio nome, obbligandomi con atto notarile ad amarvi per la vita. - Non li avete! Darò il mio nome ad un'altra qualsiasi, meglio fornita di numerario, imponendomi di abbracciarla con trasporto ad ogni scadenza di cambiale. È questa la santità del vincolo indissolubile? Voi pagate le prostitute, e vi fate pagare dalla moglie; questo si chiama pareggio! Meravigliatevi poi se avviene che qualche povera fanciulla, uscita dalle famiglie nullabbienti, riesca ad accalappiare un ricco merlo, e a farsi pagare da lui tutte le agiatezze della vita, l'amante compreso! Sotto qualunque aspetto lo si consideri, il matrimonio è un'assurdità, un'ingiustizia, un fomite di corruzione, un incentivo al delitto. Dalla disperazione non può generarsi che il male, e la disperazione è in ogni casa dove convivono un marito ed una moglie. I meno ottusi alla percezione del vero definirono il matrimonio una calamità necessaria alla tutela della prole. Un sofisma per giustificare una assurdità! Non sono i figli abbastanza protetti da quella forza di amore che la natura ha posto nel cuore dei parenti? Non è questa forza d'amore, il più nobile istinto di ogni essere animato? Se la femmina dell'uomo ha mostrato talvolta di ribellarsi, le ragioni del fatto mostruoso convien ripeterle dal matrimonio. Ogni violazione della legge naturale genera un mostro; i genitori che abbandonano i figli, che li odiano, che gioiscono nel tormentarli, sono le orribili anomalie prodotte dall'orribile istituzione. La madre che insevisce contro il nato dalle sue viscere, è, nella più parte dei casi, una schiava ribelle, la quale disfoga sul debole le sue rappresaglie contro il forte che la opprime. Ella percuote il figlio, perché non le è dato di sbranare il marito. Tutti gli affetti svaniscono, tutti i nobili istinti si corrompono in quell'ambiente di tedio e di avversioni che si suol formare nel così detto santuario domestico. Qui abbiamo le vendette della madre legittima, come altrove, fuori dal consorzio coniugale, si hanno gli infanticidii perpetrati, in un accesso di disperazione o di demenza, dalle scomunicate, dalle maledette, le quali osarono concepire senza autorizzazione del prete o del sindaco. Ma, via! oggimai ogni scrupolo è soverchio. Non ci hanno più diseredati, nè derelitti, sotto le leggi che ci governano. Il diritto all'esistenza è sancito dai nuovi codici; dal giorno della nascita sino all'ora di estinzione ogni cittadino dell'Unione è nutrito, alloggiato, vestito a spese del Comune. Se oggidì esistessero dei genitori capaci di abbandonare la prole, il governo, questo padre legittimo di tutti, provvederebbe. Che più si tarda? Affermiamo i nostri diritti, realizziamo il nostro splendido programma! Non più riti religiosi! via le formalità che intorpidiscono i sensi e mettono il ghiaccio nei cuori! Il Dio è in noi quando amiamo; non è più mestieri di invocarlo. Fra due che si amano nessuno ha diritto di intervenire. Cosa significa questa legge di dilazione, che ci obbliga a discostarci quando il torrente della passione irrompe da noi coll'impeto massimo? Ogni unione generata dal libero amore è legittima; fuori di là, tutto è prostituzione e delitto. Viva l'amore che giustifica ogni audacia, che santifica ogni lussuria! Abbasso il matrimonio, che contrista, che abbrutisce! Opponiamo ad ogni petizione civile un assoluto diniego. Sciolte dalla servitù coniugale, qual freno potrà ancora trattenerci dal marciare rapidamente alla meta? L'uguaglianza morale e civile sarà in breve raggiunta dalla donna; chi oserà resisterci? Accarezzato dall'amore spontaneo, il nostro maschio diverrà arrendevole e mite, quanto ostinato e crudele fin qui lo avean reso le nostre riluttanze di moglie e i nostri abborrimenti da schiava. Egli dovrà comprendere che la infelicità da lui imposta al nostro sesso si è mai sempre riflessa su lui. Questo insensato, che dopo aver trascorsa metà della vita nel corrompere fanciulle, nell'irridere ad ogni virtù d'amore, pretendeva, esausto e abbrutito, di sposare una vergine per farne una schiava, dovrà alfine riconoscere i propri torti. Egli griderà con meraviglia e dolore: noi fummo stolti, noi fummo barbari! abbiamo creduto vincolare la fedeltà, e abbiamo scatenato l'adulterio, ci siamo illusi di poter combattere la natura con quattro articoli del codice; ma la natura si è vendicata delle nostre repressioni, immergendoci in un abisso di tenebre e di miserie; benediciamo al libero amore, che ci ha rigenerati!» Alla fine della calorosa allocuzione, un uragano di applausi insorse dalla folla. I giovani coscritti e le donne gridarono ad una voce: - Viva Clara Michel! Viva la selezione! Viva l'uguaglianza morale e civile! - No! No! - rispondeva una debole minoranza di oppositori: - Abbasso la cortigiana! Rispetto alle istituzioni! Viva il matrimonio! - Ah! vi sono ancora - riprese con impeto la bella presidentessa delle emancipate; - vi sono ancora degli zotici, dei bruti, che ardiscono ribellarsi alla evidenza della verità? Vediamoli un poco alla prova della tentazione, questi falsi apostoli della fedeltà obbligatoria e del vincolo santo! Alzate gli occhi, o mamalucchi, e guardatemi bene! Così parlando, la Michel aveva dato un balzo, e levandosi in piedi sulla sella, aveva esposto all'attonita folla tutte le formosità delle sue membra rigogliose, leggermente accarezzate da un velo trasparentissìmo. Un urlo di entusiasmo maschile si sollevò dall'area. Tutte le pupille si dilatarono per tuffarsi in quel bagliore di bellezza. - Orbene - ripigliò la Michel sempre più animata; - mi vedete? vi paio bella? Io mi dono a quello di voi, che essendo stretto ad una donna dal vincolo coniugale, nullameno salirà in groppa del mio cavallo, e riuscirà pel primo a baciarmi la punta d'uno stivaletto! In un attimo quella immensa moltitudine di gente fu veduta agitarsi come un mare in tempesta. Gli uomini si spingevano innanzi, urlando, manovrando coi pugni e coi bastoni, dilaniandosi l'un l'altro i vestimenti e le carni. Le sbarre che difendevano il padiglione caddero rovesciate ed infrante in quell'impeto erotico di maschio calore. L'eroina del congresso, sgomentata, diede l'allarme alle compagne; i cavalli nitrirono scalpitando ... Ma ... ecco ... il ruggito della folla echeggia più gagliardo e minaccioso. Cos'è avvenuto? Un uomo contuso, sanguinolento è riuscito a farsi innanzi ... ha sorpassato la barriera frantumata ... si è spinto fino al proscenio del padiglione ... e salito sul destriero della vezzosa cavalcatrice ... ha stretto al labbro il profilato piedino ch'ella ha vibrato nell'aria ... Clara Michel dà il segnale della partenza; la comitiva equestre si slancia a briglia sciolta sullo stradone sportheno(34)

Io credo che la moderna architettura non abbia ancora prodotto un palazzo più sorprendente di questo in nessuna città della Unione Europea. Fidelia e Speranza, tenendosi per mano, quasi impaurite, andarono a collocarsi sopra il divano loro assegnato. E tosto, per un cenno dell'anziana, le quattro volonterose corsero ad occupare i quattro angoli della sala, e toccando ciascuna un bottone sporgente dalla muraglia, produssero uno di quei cambiamenti di scena che in teatro producono tanto effetto. La parete di fondo scomparve ... Ciò vi sembra prodigioso, non è vero? Orbene: eccovi in due parole la spiegazione del miracolo. Quella parete non era che un grandioso ventaglio di taffetà americano, il quale, disteso, formava un abbagliante sipario azzurro dorato come il lapislazzulì. Le quattro volonterose, premendo i bottoni che lo tenevano dispiegato, ottennero che immediatamente si contraesse, formando di tal modo una colonna quadrata per cui la vasta scena veniva a dividersi in due grandi scompartimenti. Al di là di quella colonna si apriva un mondo incantevole, che offriva allo sguardo tutte le seduzioni della natura, e non era di fatto che un meraviglioso accordo di tutte le industrie, di tutte le arti umane. Fidelia e Speranza rimasero alcun tempo assorte nella contemplazione di quel nuovo spettacolo, mentre l'anziana con affettuosa compiacenza descriveva alle due fanciulle le bellezze del quadro. - Da quella parte ... al lato destro - accennava l'anziana - voi vedete una collina di facile pendìo, dei praticelli, delle grotte, dei chioschi, dei cespugli di fiori. Sono altrettante camere, altrettanti ricoveri copiati fedelmente dalla natura. L'architetto, nel costruire quei nidi di velluto, quei chioschi di bambagia, quelle nuvole di guttaperga, era ispirato dall'amore, come il Dio della Genesi nella creazione del paradiso terrestre. Il primo palazzo di Eva, ideato dall'architetto divino, non poteva essere più confortevole e più delizioso. Voi stupite, o gentile Fidelia! ... Voi non credevate che un pensatore di case potesse elevarsi a tanta sublimità di concetti ... Quella nuvola che vedete agitarsi mollemente al di sopra della collina è la stanza che deve accogliervi fanciulla per iniziarvi ai misteri deliziosi dell'amore ... Osservate quella grotta! ... Da quelle stalattiti bianche trasudano gli unguenti più odorosi, i balsami più delicati. È il vostro gabinetto di acconciatura. Attraversandolo, ne uscirete profumata e vivificata. A poca distanza da quella grotta, una magnolia gigantesca distende i suoi rami di un bel verde opaco ... Quella è la vostra biblioteca. I libri stanno raccolti nel tronco dell'albero, e le eleganti legature formano intorno a quel tronco una corteccia di oro e di gemme. Abbassate lo sguardo a quella pianura lucente ... a sinistra della colonna! Non vi sembra che quel tappeto imiti perfettamente le onde tremolanti di un lago? È un tappeto di mercurio bianco imprigionato in una tela di vetro elastico. Voi sentite il mercurio agitarsi sotto il vostro piede, e la illusione di passeggiare sulle acque è tanto verosimile, che quasi vi meravigliate di poterne uscire a piede asciutto. Come vedete, due gondole eleganti galleggiano su quel piccolo lago artifiziale. Una di quelle gondole è destinata ad essere il vostro gabinetto musicale. Noi vi abbiamo collocato un pianoforte a corde di cigno, ed un'arpa magnetica. Assisa al pianoforte, per la rifrazione dei vari specchi mirabilmente congegnati, vi parrà di trovarvi isolata in mezzo ad un lago senza confini. I vostri canti, i vostri suoni si ispireranno nella poesia della solitudine e delle onde ... Quel pianoforte ha due pedali, per cui potrete modificare a grado vostro la calma e le procelle del piccolo oceano. Il tappeto mercuriale, sotto la pressione del vostro piede, potrà fingere tutti i commovimenti della marina. L'altra gondola è una sala di refezione; e questa, a piacere dei naviganti, può scivolare fino alla estremità della pianura, dove, per una porticiuola che da questo luogo non si scorge, essa uscirà dal lago artifiziale per islanciarsi nel lago vero. Qual sorpresa per voi, qual gioconda sensazione, al finire di una cena iniziata nel palazzo fra le carezze ed i baci dello sposo, uscire sulla prora della gondola, e veder sfilare le cento ville del Lario, una meravigliosa fantasmagoria di palazzi e di giardini emergenti dalle onde! Ma basti! ... Gli è un vero peccato quello che io sto commettendo, un peccato di indiscrezione che il vostro sposo non saprebbe perdonarmi. A che buono svelarvi tutti i misteri di questo meraviglioso palazzo? ... Che altro è la gioia se non la sorpresa del nuovo, dell'inaspettato? ... Ma pure io mi ravvedo in tempo ... Io non vi ho palesato che la millesima parte delle delizie che qui vi attendono. L'ho fatto a fine di bene; per serenare l'animo vostro, per alleviare colle promesse dell'avvenire le crudeli impazienze del presente. Ho tracciato il cammino alla vostra fantasia di fanciulla e di amante. Se in questi giorni di dilazione che ancora vi rimangono, il vostro spirito verrà a spaziare su questi prati di seta, fra questi alberi a foglie di piume che stillano rugiade di diamante, fra queste onde di metallo animato; voi troverete una distrazione soave alle cure che vi opprimono. Io però mi tengo sicuro che voi non riescirete mai ad indovinare la centesima parte delle meraviglie qui adunate da quei due creatori sublimi di poesia che sono il vostro Albani e Regolo Mengoni pensatori di edifizii Poiché l'anziana ebbe finito di parlare, la fidanzata dell'Albani, nell'ingenuità della sua anima innamorata, si lasciò sfuggire una esclamazione che rivelava tutto il suo cuore: - Ma egli! ... il mio sposo! ... - Comprendo il vostro pensiero - affrettossi a dire l'anziana. - Egli ... il vostro Albani non verrà a dimorare in questa villa, che tutta vi appartiene. Vi spiegherò il suo concetto come io credo di averlo compreso. Dell'Albani voi non dovete conoscere che l'amante e lo sposo. Egli verrà in questo luogo per portarvi il suo amore, per cogliervi il vostro, per godere dei vostri tripudii, per consolare le vostre afflizioni, per chiedere a sua volta il diletto e la forza a sostenere i dolori della vita. I vostri rapporti, in una parola, non devon essere che rapporti d'amore. Perché riesca feconda di bene, l'unione coniugale vuol essere circondata di poesia. In altri tempi, quando era obbligatorio agli sposi convivere sotto il medesimo tetto, vedersi a tutte l'ore del giorno e della notte, dividere le cure disaggradevoli e qualche volta un po' volgari del regime di famiglia, avveniva sovente una rilassatezza di affetti, che a lungo andare degenerava in fastidio, in avversione. C'è molta differenza fra il vedersi spesso e il vedersi sempre. L'augello che rinnova così frequenti i trasporti dell'amore, si allontana dalla sua compagna dopo l'ebbrezza vivace del connubio, e si perde negli spazi finché quella non lo richiami co' suoi gorgheggi, finché quella non gli dica coi suoi gemiti melodiosi: ritorna! ho bisogno delle tue carezze, dei tuoi baci! Desideriamoci, se vogliamo amarci eternamente! Il vostro Albani, ispirandosi a questo concetto, verrà in questa casa come un ospite. Egli vi apparirà inaspettato - egli giungerà fino a voi per cento vie misteriose. Lo vedrete uscire da questa gondola, lo troverete adagiato in quella grotta, udrete la sua voce carezzante rispondervi da quella nube, Quando i vostri due cuori si chiameranno per quella voce arcana che esala dall'amore, vi sentirete allacciati da soavissimo amplesso. Io credo, Fidelia, che il vostro animo gentile avrà compreso il delicato pensiero che io ho tentato di esprimervi. Lo sguardo di Fidelia splendeva di angelica luce. Quell'anima giovane era inebbriata di felicità. Si levò in piedi, e con timida voce, qual di fanciullo che non osa manifestare un capriccio per paura di vedersi contrariato, disse all'anziana: - Vi par egli che io sia troppo indiscreta nel domandarvi una concessione? ... Amerei di attraversare quel lago ... di salire in quella gondola ... di provare, sull'istromento che dovrà essere l'interprete dei miei pensieri, una canzone che ho composta per ... lui! Sarà la canzone di richiamo. E tu, mia buona Speranza, tu l'ascolterai da questo luogo, e mi dirai qual effetto essa avrà prodotto sull'animo tuo! ... E poi! ... ho in mente un pensiero ... Mi pare che i suoni di quel cembalo debbano attraversare gli spazii immensi ... e giungere fino a lui. - Non vi è ragione perché io mi opponga a così onesto desiderio - rispose l'anziana - venite! La fanciulla, dopo essersi congedata con un bacio dalla sorella di amore sorvolò con piede leggerissimo al mobile tappeto, salì nella gondola, e disparve colla sua guida. L'anziana, per un sentimento di deferenza e di rispetto che erale imposto dalla sua condizione, non si intrattenne con Fidelia nel piccolo gabinetto. D'altronde, ella aveva l'obbligo di far gli onori del palazzo, e in quel momento suonava l'ora di refezione, e le amiche della fidanzata, giusta il patto convenuto, entravano nel vestibolo. - Rilasciate il gran ventaglio! rilevate le mense! - ordinò l'anziana alle volonterose - prima che le ospiti fanciulle fossero entrate nella sala. E subito la scena mutò di aspetto, e l'incantevole panorama scomparve dietro il velario ondulato, che formava una muraglia di lapislazzulì. Nel momento in cui le fanciulle entravano nella sala, dalla sua gondola invisibile Fidelia sciolse la voce. Speranza portò il dito alle labbra, e le fanciulle ristettero ad ascoltare coll'estasi in volto. Erano le più dolci note che mai si modulassero pel labbro di una vergine innamorata. Quelle note, attraversando l'azzurro padiglione, parevano il canto di un cherubino smarrito negli spazii del firmamento. E davvero Fidelia aveva dimenticato la terra. Ella si sentiva isolata nel suo piccolo gabinetto come una sirena sugli scogli dell'oceano. Immersa negli elementi più vergini del creato, nell'aria e nelle acque, la sua anima possedeva le ali bianche e il melodioso sospiro del cigno. Le parole della sua canzone esprimevano questi pensieri gentili: «Iddio ha creato la terra, ma l'amore soltanto ha creato il paradiso. «No! questo non è il paradiso, dacché, aggirandomi fra i miracoli della creazione, io sento che il creatore è lontano. «Quando il creatore sarà tornato, quando l'aria di questo giardino sarà l'alito della sua bocca o il dolce fremito del suo cuore, allora io potrò dire: egli mi ha riportato il mio paradiso. «Oh venga presto colui che può creare il paradiso, perché il paradiso è in lui, soltanto in lui!» Il canto di Fidelia era una estasi voluttuosa. Mentre il labbro scioglieva le note, mentre il cuore modulava gli accenti, lo sguardo della fanciulla errava nelle illusioni di un mondo fantastico. Questo mondo fantastico si creava dinnanzi a lei per una combinazione di specchi metallici, i quali ritraevano perfettamente un cielo di zaffiro, un lago placido e sereno. Gli occhi di Fidelia aspettavano che quella solitudine di spazio e di acque si animasse improvvisamente di una figura umana, di una figura che per lei, per la fanciulla innamorata, avrebbe rappresentato il Dio animatore. Era delirio? ... Era sogno? ... La fanciulla sentì mancarle le forze, la sua voce si spense, un tremito le invase tutte le membra ... Quella vasta solitudine si era davvero animata: l'uomo dell'amore, il Dio era comparso ... Fidelia non osava li volgere il capo, ma lo specchio inesorabile che le stava dinanzi riproduceva una figura umana, riproduceva un essere vagheggiato e invocato, che per lei aveva nome di Redento Albani. Quell'uomo, ritto ed immobile dietro il seggio della fanciulla, pareva assorto nel contemplare le forme perfette di lei. La fronte di quell'uomo era calma; i tratti del volto non rivelavano veruna commozione; ma l'occhio irrequieto, iniettato di viva luce, aveva una espressione quasi sinistra. Fidelia ne fu atterrita più che sorpresa. Dalla sua fronte sgocciolava il sudore a grosse stille, pure non aveva forza di portarvi la mano ad asciugarle. Come si spiega questo terrore della fanciulla alla vista di un amante, di un fidanzato, di lui che era l'oggetto de' suoi ardenti desiderii, delle sue invocazioni? Se quell'uomo fosse stato l'Albani, Fidelia non avrebbe esitato un momento a levarsi dal seggio, ad avvincerlo tra le sue braccia, a inondarlo di baci. Ella esitava ... tremava ... Erano le sembianze ben note; la sua statura, i suoi capelli ondeggianti e fosforici, il suo labbro perfettamente delineato, i suoi denti pieni di sorriso. Ma pure, qualche cosa mancava a quell'uomo per essere l'amante, il fidanzato di Fidelia. Mancava la magnetica corrente che si espande dai cuori innamorati, il flusso che non si può suscitare dai nervi e dal sangue, se questi nervi, se questo sangue non sieno agitati da una vera passione. La fanciulla non poteva penetrare l'orribile inganno di quella apparizione. Ella fissava quella larva con occhio attonito; meditava quelle sembianze come si medita un sinistro problema. Quella contemplazione, quella meditazione angosciosa doveva risolversi per lei in un giudizio altrettanto erroneo che tremendo: «Egli è ben desso, ma egli ha cessato di amarmi». Era la logica più naturale che il cuore della fanciulla innamorata potesse seguire, la sola spiegazione che ella potesse ammettere dello strano turbamento che l'invadeva. A sì triste convincimento, Fidelia nascose il volto fra le mani e proruppe in dirotto pianto. Ma il Casanova (noi gli daremo il suo vero nome) non era uomo da smarrirsi di coraggio per quella fredda accoglienza. Magnetista di prima potenza, egli contava sulla forza del proprio volere per dominare quella gracile fanciulla estenuata dalle commozioni dell'amore e della paura. Egli stese la mano sul capo di Fidelia, e accarezzando le chiome odorose per innondarle del suo fluido irresistibile, parlò con accento animato: - Fidelia! ... mia buona ... mia bella Fidelia! ... non era mestieri che tu mi chiamassi ... . Sarei venuto ugualmente ... . Anch'io numerava i giorni e le ore. Avevo bisogno di vederti. Un bacio, un solo tuo bacio potrà darmi la forza per reggere a questi ultimi giorni di prova ... . Fidelia! ... I momenti sono contati. Nessuno mi ha veduto entrare, nessuno mi vedrà uscire da questo luogo ... . Non c'è a temere di nulla! ... Oh! la mia bella Fidelia! Abbandonati agli istinti del cuore ... . Poichè mi ami ... poichè hai giurato di esser mia ... . Mia sorella ... mia sposa ... . Tu mi ami: Io sapeva bene che tu non avresti negato questa gioia! ... Le tue fibre sono commosse ... . Allacciami il collo colle tue braccia di neve ... . Che io respiri il fresco alito della tua bocca! ... Le mie labbra erano arse, e la sete di amore mi avrebbe consumato, senza il refrigerio di un tuo ... bacio divino! Così parlando, il Casanova si era impadronito della fanciulla attraendola al proprio petto colla potenza affascinante della volontà. Fidelia, inebbriata da quelle parole, da quelle carezze, si abbandonò a lui come un corpo morto. I dubbi, i terrori erano svaniti. La sua faccia inondata di lacrime era divenuta radiante. In quel momento di suprema illusione, la fanciulla sognava il paradiso. Quel sogno fu un lampo. Nell'amplesso di quella larva adorata, Fidelia si attendeva una inondazione di delizie. Ma appena le labbra dell'avventuriero ebbero sfiorate le sue, la fanciulla arretrò con ribrezzo, mandò dal petto un grido affannoso, e cadde al suolo tramortita. Il bacio di quell'uomo, o piuttosto di quella maschera umana, le era sembrato gelido come il bacio di un morto. Tutta questa scena era passata rapidamente, mentre le sorelle del Circolo, nel compartimento anteriore del palazzo, attendevano che Fidelia ripigliasse la canzone, ovvero ritornasse nella sala per prendere parte al convito. Il grido della fanciulla destò lo sgomento nella piccola comitiva. L'anziana fece allentare il gran ventaglio, e le amiche di Fidelia accorsero tutte verso la gondola. Quand'esse posero il piede nel gabinetto musicale, il Casanova era già scomparso; nessun indizio, nessuna traccia di lui. Fidelia giaceva a terra coll'abbandono della morte. Le sue chiome, le sue vesti scomposte davano a supporre che ella avesse dovuto soccombere ad un assalto violento. Le fanciulle non si perdettero in vane esclamazioni. Improvvisarono una catena magnetica, e scaricando il loro fluido sulla giacente, in men che non si pensi, la ridonarono alla vita. Fidelia si levò in piedi, girò intorno gli occhi smarriti come chi, risvegliandosi da un orribile sogno, tremi di rivedere una larva. Poi sorrise alle amiche, e appoggiandosi al braccio di Speranza uscì con quella dal gabinetto. - Domani ti dirò tutto - disse Fidelia alla sua prediletta. E per quella serata non si tenne più parola del misterioso avvenimento. Durante la cena, le fanciulle ripresero insensibilmente la loro abituale gaiezza. Fidelia sorrideva alle amiche, e pareva dividere i loro ingenui tripudii. Di tratto in tratto ella trasaliva, portava la mano agli occhi come a rimuovere un velo, a dissipare una nube. E subito, dopo quel gesto, la sua fronte tornava serena, e l'occhio riacquistava la sua luce. Ai primi squilli del richiamo delle vergini quella gioconda comitiva uscì dalla villa Paradiso per disperdersi nei varii compartimenti della città. Fidelia baciò le amiche ad una ad una, e salita in una gondola volante si fece ricondurre al palazzo di famiglia. Quella sera, il Gran Proposto era di umore assai lieto. Quell'inesorabile partigiano delle antiche discipline, che non poteva tollerare nella propria famiglia ciò che egli chiamava insubordinazione legale agli ordini della natura; quel padre severo che non aveva mai perdonato a Fidelia le lunghe assenze notturne, mosse ad incontrarla con volto radiante, l'accolse con insolita profusione di amorevolezze. C'era qualche cosa di misterioso, qualche cosa di sinistro nella bonomia di quel vecchio. Le sue carezze parvero a Fidelia una affettazione di cattivo augurio, ond'ella, per sottrarsi a quell'impeto di tenerezza paterna, pose in campo un pretesto e ritirossi nel suo appartamento. Il Gran Proposto, dopo averla accompagnata com'era suo costume, e salutata col bacio del buon sogno rientrò nel suo gabinetto. Sullo scrittoio del primo funzionario dell'Olona stava spiegato un dispaccio portante il timbro del Ministero di Sorveglianza pubblica. Erano poche linee di scrittura, ma il vecchio non si saziava di rileggerle, e pareva che da quel foglio uscisse un riflesso di beatitudine ad irradiargli tutto il volto. Il dispaccio era così concepito: «Onorevole Gran Proposto, «Ho la soddisfazione di annunziarvi che il nostro zelo, le nostre sollecitudini, la nostra pertinacia hanno trionfato di ogni difficoltà. Redento Albani ha violato la legge di dilazione. Questa notte egli era a Milano, ha visitato la Villa Paradiso si è intrattenuto col Custode-direttore, ed ebbe anche un segreto colloquio con vostra figlia nel piccolo gabinetto musicale addetto alla villa stessa. Non è mestieri che io vi aggiunga altre parole; vostra onorevolezza sa troppo bene ciò che le resta a fare. Aggradite, onorandissimo Gran Proposto, gli umili ossequi del vostro subordinato devotissimo, e comandatemi in ogni occasione. «Dato dal primo gabinetto di Sorveglianza pubblica la notte del ventisette settembre 19 ... «TORRESANI DEGLI EX-BARONI.»

Arrivando a Parigi, al momento in cui si scendeva dalla volante, uno dei seniori disse all'altro sommessamente: «- Mi pare che l'assideramento abbia imbecillito il Profeta. «E l'altro: «- È a credere che egli già fosse imbecille prima di intorpidirsi; a que' tempi la fama di illustre si acquistava a buon mercato. «Quanti disinganni mi attendevano a Parigi! Invano io cercava nella folla dei balovardi qualche sembianza nota. In quella città ch'era stata il teatro dei miei primi trionfi; in quella vasta metropoli, dove un tempo ero additato e salutato da tutti, io non vedeva che sconosciuti, non incontrava che occhiate indifferenti o beffarde. Il mio modo di parlare, il mio contegno imbarazzato attiravano l'attenzione e provocavano le risa. Nuovo agli usi della società moderna, attonito, sbalordito, io somigliava ad uno di quei gaglioffi montanari, che dopo aver vissuto quarant'anni fra le capre, si trovano balzati in una splendida capitale, nel faragginoso brulichio della attività cittadina. Urtava nella gente; mi pareva strana ogni foggia di vestito; mi arrestava istupidito dinanzi alle statue che rappresentavano personaggi divenuti famosi negli ultimi tempi. Gli edifizii recenti, gli spazii aperti dalle demolizioni, i nuovi nomi delle vie sostituiti agli antichi, mi imbarazzavano siffattamente, che io mi stringevo colla mano alla zimarra dei colleghi per paura di smarrirmi. Fui condotto ad un albergo. I fratelli incaricandosi di andare al palazzo di città per attingere informazioni sul conto della marchesa, mi lasciarono solo. Allora io trassi dal petto l'effige della mia Sara, e contemplando, ribaciando mille volte le angeliche sembianze di quella tanto cara, diedi in uno scoppio di lacrime. - Avrò io la consolazione di rivederti, o creatura adorata? - E dopo questo, mi sentii assalito da una tetra melanconia. Le più amare riflessioni si succedevano nel mio spirito. - Perché son venuti a ridestarmi? Di qual modo potrò io riannodare la mia alla esistenza di questa generazione? Non si vive bene che fra i contemporanei; la gente che ora mi brulica dattorno rappresenta la mia posterità. Nulla oggimai vi può essere di comune fra me e costoro. Io non li comprendo; essi dovranno deridermi. In un mezzo secolo si rinnovano le idee, le tendenze, le istituzioni. Chi non ha preso parte alla graduale metamorfosi, non può essere capace di apprezzarla. «Che diverrò io il giorno in cui mi toccherà presentarmi al Comizio per dichiarare la mia dottrina? Potrò io dire cosa che già non sia stata le mille volte ripetuta, con linguaggio più eletto, dai miei correligionarii? Non ho veduto i miei dieci apostoli sogghignare sotto i baffi ogni volta che io dirigeva ad essi una domanda? Io era un dotto, io era un illustre or fanno Cinquant'anni, nell'ambiente formato da me e dai miei contemporanei. Trasferito nel nuovo ambiente, in una epoca sulla quale è trascorso lo spirito e l'attività di due generazioni, io debbo necessariamente rappresentare la figura dell'idiota. - Dio ... Che vedo? Due figure umane che volano rasenti ai tetti del palazzo di faccia! Sta a vedere che è comparsa nel mondo una specie di uomini alati! «I fratelli non rientrarono all'albergo quella notte, nè a me diè l'animo d'uscire. All'indomani, verso le 10 del mattino, li vidi entrare nella mia stanza e salutarmi con espressione sì beffarda che fui sul punto di prenderli a schiaffi. Mi annunziarono che la marchesa Sara era in vita, che abitava un sontuoso palazzo in via dei Lunatici, ch'essi l'avevano prevenuta della mia prossima visita. Balzai dal letto: come il cuore mi batteva! Di là a pochi minuti, io saliva le scale del palazzo indicato; i miei apostoli erano rimasti ad attendermi in un salotto al piano terreno. Una giovane e bella cameriera m'introdusse in un gabinetto elegantissimo, mi pregò di sedere e corse ad avvertire la signora. «Imaginate con quali ansie io invocava l'amplesso di quella donna, che già si era data a me coi voluttuosi abbandoni dell'amante! Sventurato! Io dimenticava di aver dormito mezzo secolo, poiché quel mezzo secolo per me era stato breve come una notte. Potevo io figurarmi quella donna altrimenti, che vestita delle sue forme giovanili, della sua splendida bellezza? «La porticella del gabinetto si dischiuse. Il fruscio di una veste di seta mi annunziò che ella entrava. «- Angelo mio! - gridai gettandomi a terra per abbracciarle la tunica che sporgeva dai cortinaggi. «- Tu! il mio caro Eugenietto! - rispose una voce rantolosa da vecchia decrepita; - qua dunque un bel bacio! Dio! come sei ben conservato! ... Lascia dunque ... «E mentre al mio orecchio ringhiava quella voce da nonna, due labbra di cartapecora si imposero con violenza alle mie, e mi inchiodarono sulla lingua un paio di denti posticci ... Io balzai in piedi esterrefatto ... Sputai sul pavimento i due corpi eterogenei ... e dopo aver guardato fissamente quella scarna figura di ottuagenaria, mi lasciai cadere sul divano come tramortito. «Era dessa - era proprio dessa - la mia Sara - la mia marchesa - quella che un mezzo secolo addietro mi aveva dato un paradiso di ebbrezze! ... Non riferirò tutto quello che avvenne in appresso fra me e quella donna. Noi conversammo due buone ore senza mai comprenderci; quello strano dialogo terminò con una scarica di singhiozzi. Allora la pregai perché mi fornisse l'occorrente per scrivere. E mentre io, dopo aver scritto poche linee, tornava a lei per congedarmi con un supremo e disperato addio, mi accorsi, all'immobilità del suo corpo, al pallore del suo volto, alla rigidezza della sua mano, ch'ella era morta di sincope ... «La cameriera, che entrerà fra poco nel gabinetto, troverà qui due cadaveri. A lei commetto l'incarico di consegnare ai fratelli il mio ultimo autografo, perché venga letto al Comizio. Un uomo, per quanto nobile e grande, non ha più il diritto di vivere, dacchè il suo spirito, il suo cuore, la sua esperienza son diventati un anacronismo. «MALTHUS». - Che ne dite? - chiese l'Albani al Virey, dopo aver letto. - Io dico che quell'uomo ha dato, togliendosi la vita, una prova di gran senno. Il suicidio è una delle manifestazioni più evidenti della superiorità dell'intelligenza umana. È nullameno deplorabile che la nostra razza sia tanto percossa dalla infelicità che in molti casi ci convenga invocare la morte quale unico rimedio alle angosce della nostra travagliata esistenza. Il teatro si andava spopolando, e la gente si disperdeva lentamente, in preda ad una profonda mestizia. L'Albani, svolgendo il giornale per gettare gli occhi sulla quarta pagina, nella rubrica dei Reclami privati lesse le seguenti righe a lui indirizzate: «In nome della umanità e della religione divina, il Primate Redento Albani è invitato a recarsi immediatamente a Milano nella casa a lui ben nota del sottoscritto per ricevere comunicazione di un importante avvenimento che lo riguarda. «FRATELLO CONSOLATORE». - Perché così turbato? - chiese il Virey al fratello. - Io parto per Milano - rispose l'Albani; - volete profittare della mia volante e tenermi compagnia? - Impossibile. Devo trovarmi a Pietroburgo questa sera per prender parte ad un Consulto finale36)

FIABE E LEGGENDE

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Praga, Emilio 1 occorrenze

A un tratto, quello uscito dal palazzo, come abbia terribil cosa udito, si slancia nella immobile gondola, afferra il remo e, col ringhio di un veltro cui tocchi il colpo estremo, la sospinge... È sparita.

La virtù di Checchina

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Serao, Matilde 4 occorrenze

- Come vuoi che io lo abbia? Non scrivo mai. - Scommetto che non hai neppure la carta da scrivere? - Ne ha Toto, nel suo studio, con l'intestazione sua. - Poveretta, poveretta, come ti compatisco! L'amore è una gran bella cosa, Checchina mia. E se ne andò, gaia, leggera, con una effusione di sorriso interiore sul volto, come chi porta un tesoro di dolcezza nell'anima. Checchina stette un minuto a pensare, poi si adattò attorno alla vita, sul vestito nero, un grembiule di tela bianca e andò a strofinare l'armadio, col petrolio, mentre Susanna strofinava il cassettone.

Aspetterò in anticamera, che lei abbia fatto la sua visita; mi dirò un altro rosario, per non parlare con quella sciagurata di Teresa, che non è altro, che la Madonna le tenga la mano sul capo. Checchina, perduta, si sedette nella stanza da pranzo, senza saper che cosa fare. Udiva Susanna che si moveva nello stambugio, urtando alle pareti, per far presto, indossando il vestito di lanetta. Non era più possibile impedire a Susanna di accompagnarla. Ora, doveva andare da Isolina, sino a Propaganda: e restar lì a far la visita. Era stata presa, non era possibile liberarsi di Susanna. Uscirono, tirandosi dietro la porta: Checchina camminava fiaccamente, come se il terreno fangoso la trattenesse. Davanti alla chiesa di Sant'Andrea delle Fratte, Susanna si segnò. Isolina non vi era. Checchina respirò. - Meglio così - mormorò la serva. - Andiamocene. Se ne tornarono, sempre in silenzio. Al portone Maddalena fermò Checchina: - Se lo voleva l'ombrello, Nino era tornato dalla fabbrica... - Non serve più, grazie - rispose Checchina, con molta dolcezza. - Tanto, su da lei, è tornato anche il signore. - Ah! - fece l'altra, semplicemente. Nè salì più in fretta. Toto era rientrato, aprendo l'uscio con la sua chiave e si cambiava le scarpe. - Sei uscita con questo tempo, Checca? - Non pioveva, quando sono uscita. - Dove sei stata? - Da Isolina. - E che fa? - Niente: non vi era. - Ci potrai tornare. - Già. - Io sono stato all'ospedale: poco da fare, una lussazione, una gamba rotta, null'altro. Ne ho profittato per andare sino al Caffè di Roma , sai, al Corso, per vedere, se ci fosse il marchese d'Aragona... - Con la pioggia sei andato? - Avevo l'ombrello. M'ero ricordato che il marchese d'Aragona mi aveva detto che pranzava qualche volta a quel caffè. Ho preso un caffè: accidenti, costa cinque soldi e uno di mancia al cameriere, che ha anche fatto il muso storto. Non l'ho trovato il marchese... Seguì un silenzio, ella si svestiva lentamente, riponendo man mano la sua roba. Quando fu ad abbottonarsi la giacchetta di casa domandò: - Che ore sono, Toto? - Le sei. Ella voltò, per un istante, la faccia verso la parete.

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