Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 10 occorrenze

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È necessario ch'io abbia molto danaro. Essa non mi ama al punto da volermi gratuitamente, per me solo. Essa fu mia ancora... senza interesse... è vero. Ma chissà... per temperamento forse. Ma non vorrei io stesso!" La risultante di tale ragionamento fu questa frase: "È necessario aver danaro." E fra tutte le mariuolerie di cui potesse avere in testa un'idea, andò cercandone qualcuna da metter subito in pratica. Tutt'a un tratto un'idea luminosa lo colpì. Gli tornarono in mente certe parole misteriose che aveva udite per caso, alcuni mesi prima... da un certo tale... parole a cui allora non aveva posto la più piccola attenzione e che ora gli comparivano, come ad un brick che naufraga, l'ancora di salvezza. Fu per lui un momento d'immenso sollievo; la speranza, la meretrice dell'anima, illuminò il suo volto che era divenuto a poco a poco emaciato, e senza pensarci sopra più che tanto, s'avviò. "Chissà che non sia in tempo io stesso a pigliar quel posto" - diceva fra sè. - "Il signor Giacomino me ne saprà dire qualche cosa." Andò difilato in piazza del Duomo. Là cercò l'omnibus per Porta Garibaldi, e tutto infervorato nella sua idea, senza pensare che non teneva in tasca neppur il becco d'un quattrino, vi si cacciò dentro. L'omnibus si mosse e il conduttore gli stese la mano per avere il prezzo della corsa. Fu allora che Marliani si ricordò di non aver danaro. Ma avvezzo ormai a fingere quella manovra del portamonete, mise bravamente la mano destra nella tasca interna dell'abito, poi frugò di qua, frugò di là, fingendo una crescente inquietudine, e finì collo sclamare: - Cristo! M'han rubato il portafogli! - Màghero allora! - disse il conduttore dell'omnibus. - Sicuro. O me l'han rubato o l'ho lasciato in... quella bottega.... Oh povero me! - Scenda, scenda... non importa. Pagherà un'altra volta. Filippo non se lo fece dire due volte. Discese, fe' mostra di rifar la strada verso quella bottega, poi, quando l'omnibus fu scomparso, svoltò di nuovo verso Porta Garibaldi. Giunto a un centinaio di passi oltre il teatro Fossati, entrò in una bottega di parrucchiere - che oggi non c'è più - e ad un figuro di vecchietto che stava là seduto su uno sgabello col sedile a vite, ad aspettare forse qualche pratica, disse: - Lei è il signor Giovannino, non è vero? - Per servirla. Vuol fare la barba? - No, per ora. La faremo dopo, in caso. Io sono venuto da lei per vedere se.... Si ricorda lei di avermi veduto, sarà un paio di mesi, col signor Silvestre Bonaventuri? - Mi ricordo. Lei è il signor Filippo Marliani. - Bravo! Allora ella disse al mio amico che non gli era ancora riuscito di trovare un giovine un po' educato e vestito bene, che volesse assumersi quell'incarico, ancorchè avesse offerto cinquecento franchi al mese.... Si ricorda? - Altro che ricordarmi. - Ebbene, l'ha trovato? - domandò il Marliani col cuore in sospeso; giacchè quella risposta poteva forse decidere della sua vita. - No - rispose il signor Giovannino. - Tutti hanno paura di cader in trappola. - Si può sapere di che si tratta? Se si tratta di avere del coraggio, sono qua. Il signor Giovannino espose la faccenda a Marliani. Questi domandò se si poteva parlare coi signori che proponevano l'affare. - Sicuro che si può. Me ne parlarono giusto anche stamattina. La signora Bibiana sopratutti è scaldata e vorrebbe trovare un giovine come dice lei, che sarebbe certo di far fortuna. - Chi è la signora Bibiana? - È quella che ha il morto. Una vedovona, che ce ne voglion tre di noi per abbracciarla. - Potrei parlare a questi signori? - Lei? È pronto lei ad accettare? - Sì - rispose secco il Marliani. - È giusto l'ora che son riuniti in bottega - soggiunse il parrucchiere. - Andiamoci allora. - Andiamo pure. Cecco, dove sei? Cecco uscì dalla retro-bottega- Io vado un momento con questo signore, e torno subito. Così detto, uscì seguito da Marliani. Dati una ventina di passi parlando fra loro sottovoce, il parrucchiere svoltò dentro in una bottega da rigattiere. Una donnicciuola che se ne stava ebetamente seduta in un canto di quella uggiosa camera all'avvicinarsi dei due sconosciuti allungò il collo e ravvisato il signor Giovannino tornò a raggomitolarsi nella sua cretina immobilità. Il parrucchiere si avvicinò ad un uscio a due battenti socchiusi, che s'apriva nella parte di faccia all'entrata e che metteva in una tetanzuccia o retrobottega e fe' cenno a Marliani di fermarsi. Mise l'occhio allo spiraglio e pronunciò a voce melliflua: - È permesso? - Avanti - s'intese rispondere una voce secca; e sgarbata dal didentro. Il vecchietto si volse al suo compagno gli fè cenno di venir innanzi e schiuse l'uscio. Nella stanza dove erano per entrare il parrucchiere e Filippo Marliani stavano raccolte tre persone due uomini e una donna. Gli uomini erano entrambi in quell'età che non è giovinezza ma che non si potrebbe ancor dire maturità. La donna nei quarant'anni, che vestiva con volgare eleganza e mostrava un viso campagnuolo e rubicondo da farla giudicare per una fittavola o per la moglie d'un pizzicagnolo, era la signora Bibiana. Quelle persone se ne stavano sedute in silenzio a ridosso della luce che entrava da due finestre a vetri smerigliati, a destra e a sinistra d'un altro uscio, che metteva nel cortile. In tal modo i tratti del loro viso restavano in ombra mentre essi avevano il destro di vedere perfettamente rischiarato il volto di chi fosse venuto a parlar con loro. Facevano come certe donne sul tramonto che vogliono nascondere le grinze ai loro visitatori. - Venga avanti signor Giovannino - disse un di coloro al parrucchiere, che aveva domandato licenza di entrare. Questi si fermò accanto all'uscio lasciando il passo a Filippo Marliani. Gli occhi dei radunati si fissarono curiosamente; nelle sembianze del giovane sconosciuto. - La chiuda l'uscio - disse la signora Bibiana al signor Giovannino. - E lei ripigliò volgendosi a Filippo con un sorriso - la tenga pure il suo cappello in capo e s'accomodi. - Comodissimo - rispose questi sedendosi sulla prima sedia che si trovò d'accanto. In questa il parrucchiere domandò licenza di andarsene, ma venne trattenuto dalla donna. - Che fretta! Stia qui un pò anche lei a sentire. Poi voltasi al Marliani: - Lei sarà già informato spero della cosa. - Gli ho spiegato io l'affare all'ingrosso - rispose il signor Giovannino. Egli è pronto a firmare il contratto basta che entro domani gli sieno sborsate due mila lire. - Andiamo adagio - sclamò uno dei tre uomini levando la mano verso il vecchio - una cosa per volta e senza alzar la voce che nessuno qui è sordo. La donna volgendosi allora al giovine riprese. - Capirà anche lei... signor... signor? - Marliani - rispose questi. - Signor Marliani, che prima di stringere un contratto importante come questo, bisogna conoscersi un poco, perchè dove c'è da obbligarsi in faccia ai terzi; le cautele dei galantuomi non sono mai bastanti. - Troppo giusto - disse Marliani piegando il capo in segno di assentimento. Ma i suoi occhi si socchiusero nello stesso tempo con una espressione di ironica malizia. Quel sorriso non isfuggì all'occhio della donna la quale dissimulando riprese. - Dica dunque lei le sue intenzioni su quello che già le comunicò il signor Giovannino. - Il signor Giovannino mi propose di entrare come socio e col mio nome in una ditta commerciale senza esposizione da parte mia di alcun capitale - rispose Marliani. - Va bene - rispose la signora Bibiana. - I signori che lei vede qui riuniti sarebbero appunto i soci fondatori di una casa in pannine, di cui ella assumerebbe la gerenza alle condizioni che forse già conosce. - Le condizioni sarebbero di firmare col mio nome le cambiali della ditta. - Primo. - Nel caso di fallimento ch'io sia pronto a subire tutte le conseguenze conservando il massimo segreto sugli affari della casa. - Va bene. - Che in caso fosse necessario per salvare la ditta di far in prigione l'anno ed il giorno, io debbo esser pronto a prestarmi, e nel caso invece che la ditta credesse meglio, ch'io sia pronto a fuggire. Il giovine si fermò per avere un segno di assentimento. Le tre persone che gli stavano di contro erano immobili come cariatidi. - Non credo si esigano da me altri sacrifizi - rispose il giovine con una espressione di mal celata amarezza. Uno dei due uomini che non aveva ancora aperta bocca, alla nuova intonazione con cui il Marliani aveva pronunciate le ultime parole gli ficcò in viso gli occhi e disse: - Non sono sagrifizî codesti; sono condizioni naturalissime in chiunque si assume obblighi di questa specie. Non c'è nulla che sia fuori del consueto, anzi non faceva neppur bisogno di parlarne, giacchè poi si spera di non aver bisogno di fallire o di andar in prigione o di scappare. - Ho voluto enumerarli! - rispose il Marliani per mostrare a loro signori che io conosco le eventualità a cui posso andare incontro mettendomi in questo affare e per togliere loro il sospetto che io possa essere un novizio o un guastamestiere. - Ora parliamo delle condizioni in favore - disse la signora Bibiana. - Il signor Giovannino ha parlato di due mila lire subito. - Mi sono indispensabili. - Due mila lire è una bella somma - sclamò uno dei tre - ci vorrebbe una piccola garanzia. Marliani si alzò in piedi. - Cari signori - disse - se avessi una garanzia non sarei venuto a esporre il mio nome ai pericoli d'una gerenza commerciale di cui non dovrò tenere la cassa, nè avere neppure una piccola parte nell'amministrazione. Se avessi una garanzia andrei a levar i denari al dieci o al dodici per cento dal primo onesto banchiere che passa in strada, e il signor Giovannino non sarebbe venuto ad offrirmi di fare il prestanome. - Lei s'inganna - rispose la signora Bibiana con voce insinuante. - Io le dirò che prima di tutto non è vero che lei dovrà servire soltanto di prestanome perchè invece dovrà trattare in persona con me gli affari della ditta, far qualche viaggio e avere la sua brava parte di utili nei dividendi. - Se ce ne saranno - osservò uno dei tre. - Sicuro già, se ce ne saranno! - sclamò la donna stizzosamente. - In secondo luogo lei s'inganna se al giorno d'oggi crede di poter trovar danaro al dieci o al dodici per cento, a mena che non porga la garanzia di un proprietario. - Vedo insomma che lor signori non sono disposti a sborsarmi le duemila lire di cui ho bisogno - disse il Marliani. - Caro signore - rispose la donna sempre più dolce. - Il commercio è arenato. Per vivere col decoro che porterà la di lei posizione di rappresentante la ditta Marliani e C. bisognerà che noi le fissiamo anche una bella mesata. Vede bene che farle oggi una anticipazione di due mila lire ci sarebbe impossibile. - Di quanto sarebbe questa mesata? - domandò il Marliani. - Di trecento franchi - rispose la donna. Marliani si alzò e mosse un passo verso la porta lisciando il pelo del suo cappello a tuba e disse: - Siccome i patti non sono quelli che m'aveva lasciato sperare il signor Giovannino, che mi parlò di cinquecento franchi al mese, così mi duole di non poter accettare, e mi tocca di rivolgermi ad altre offerte. - A un'altra volta - rispose uno dei due uomini. - E nel caso che la ditta si risolvesse a fare maggiori sacrifizî il signor Giovannino lo avviserà. Marliani uscì lasciando l'uscio socchiuso. Si capiva che la signora Bibiana era desolata. Un bel giovine di quella fatta! - La chiuda quell'uscio, Giovannino - disse ella. Poi voltasi ai compagni proruppe: - Non bisogna lasciarlo scappare. Sembra fatto a posta pel nostro affare. - Ritornerà. Scommettiamo che ritorna da sè senza mandarlo a chiamare? - Ora una notizia - riprese la signora Bibiana. Sapete che in casa O'Stiary ci ho messo il Giacomo come palafreniere. Egli mi ha dato nuove informazioni sullo stato delle sostanze del conte Enrico suo padrone, che ha firmata ieri un'altra cambiale di diecimila a fine novembre. - Sono buone queste notizie? - Eccellenti. I fondi valgono circa mezzo milione, il palazzo trecentomila, la rendita altri duecentomila. Con Bonaventuri a tutt'oggi è compromesso per quattrocentomila franchi, dei quali fatto il calcolo, gliene avremo sborsati a dir molto duecento. Egli ha poi perduto molto al giuoco dalla Luisa! È sfortunato! In casa della Luisa de' suoi danari ne saranno rimasti per circa cinquantamila. A noi di questi è toccata la metà, dunque bisogna detrarla dai duecento mila. Restano centosettantacinquemila. Sono dunque duecento venticinquemila lire nette in tre anni! Faccio il calcolo che in un paio d'anni ancora, lavorando con prudenza e con disinvoltura potremo portargli via il milione netto come il pomo di Tell. - Tanto meglio. - Ecco dunque il da farsi per domani. Lei Giovannino la cerchi di rivedere il signor Marliani e di indurlo ad accettare la rappresentanza della ditta. Gli dica che ci ha persuasi di portare la cifra della mesata a quattrocento. Gli dica anche che per garanzia della sua riputazione commerciale la ditta è pronta a depositare presso la Banca nazionale o presso la Banca Spagliardi una trentina di mila lire. Lei, signor Bonaventuri - continuò volgendosi ad uno dei due seduti - domani andrà a combinar l'affare con questa signora francese, che chiede cinquemila franchi a tre mesi. Si faccia mostrare le gioie, e se può cerchi di far il pegno. Lei, signor Paolino - ripigliò la signora Bibiana volgendosi all'altro, un uomo sui trentacinque anni, anche lui bene in arnese, con anelli di brillanti al dito mignolo e un catenone d'oro al farsetto - lei, stasera, come siamo intesi, andrà in conversazione dalla Luisa, dove so che ci deve essere anche il conte O'Stiary e comincerà a parlare della vincita fatta in Borsa dal Marliani, e della sua intenzione di mettersi in commercio. Per ora non ho altro a dire. Io debbo andarmene. A domani qui, verso le due. Al domani il signor Giovannino andò a trovare il Marliani che si lasciò persuadere a tornar nel luogo infetto. La signora Bibiana, facendogli già l'occhio pio, trasse di tasca un foglio e cominciò a leggerlo sottovoce al giovane e a' suoi compagni. Era il contratto per la fondazione della società di commercio sotto la ditta Marliani e C.. C..Poi mise sul tavolo un biglietto da mille e una cambiale che il Marliani firmò. Furono fatte poche parole. Quando anche l'atto fu approvato e sottoscritto colla più grande serietà, come se fosse il più regolare e santo contratto del mondo, il signore dai brillanti in dito riprese la parola. - Andremo poi dal notaio per le altre formalità di legge. Prima però la permetta che le esponga qualche cosa. Lei non è un ragazzo e deve avere una certa pratica di mondo; sapere perciò che le parole sono parole e i fatti sono fatti. Noi facciamo sagrifizio di lire mille e le presentiamo inoltre un avvenire. Naturalmente la cambiale è in nostre mani e sarà rinnovata alla scadenza fino a che a lei non piaccia di pagarla... e basta così. Marliani strinse le labbra. - Dal canto suo lei dovrà informarsi alle nostre istruzioni. Prima di tutto ella dovrà sempre andar vestito all'ultima moda, come si conviene al gerente della ditta Marliani e C., che avrà depositato un capitale di trentamila lire presso la Banca. In secondo luogo è necessario che ella cominci a mettersi in buona vista presso i negozianti e presso i banchieri; e che non dia menomamente a supporre di conoscerci e di essere nostro socio, giacchè siccome, glielo dico francamente, noi tutti qui, qual più, qual meno siamo rimasti sotto a delle disgrazie, così è bene che alla Camera di Commercio e in piazza non si sospettino legami fra noi. - Ma - osservò Marliani - il contratto sottoscritto poc'anzi non deve essere noto? - No signore; questo sarà un contratto inter nos per garantire i nostri reciproci diritti e doveri in caso di contestazioni che speriamo non abbiano a sorgere mai. Per la Camera di Commercio v'è un'altra modula a cui penseremo più tardi; del resto lei deve persuadersi che adesso per fare e per ottenere tutto a questo mondo non c'è che l'apparenza. Per l'apparenza dunque le ripeto, ella ha bisogno di vestirai molto bene, di frequentare le migliori società, e se è possibile, di farsi credere conte, o per lo meno nobile. Marliani è un bel nome. Faccia stampare dei biglietti di visita colla corona di conte. Conte... il suo nome di battesimo è? - Filippo. - Conte Filippo Marliani andrebbe a maraviglia. - Le faccio osservare che io sono già molto conosciuto a Milano. - Bene, abbandoniamo la contea e lasciamo supporre che lei abbia fatta una vincita in lotto. - Ma io non mi presterò mai a gabbare il mondo così - disse il Marliani. - Lei non deve che lasciarlo credere - saltò su la Bibiana. - Ci penseremo noi a propalare la notizia come si deve. Lei non dovrà far altro che dissimulare e non dire di no. Questo è facile. - Manco male! - biascicò il Marliani che di transazione in transazione si lasciava persuadere a diventar un fior di briccone. - Fra quindici giorni esporremo la ditta al pubblico e cominceremo gli affari. Intanto dirameremo al commercio le circolari e scriveremo le lettere firmate da lei a tutti i corrispondenti. Il locale della ditta è già preso. È in via Valpetrosa. Se crede adesso possiamo andarvi insieme a vederlo. Su questo invito della signora Bibiana la congrega si sciolse e Marliani, colla grassona, entrarono in un brougham e a cortine calate si fecero portar in via Valpetrosa. Esaminato il locale, il Marliani corse difilato a pagar il suo debito di giuoco col biglietto da mille, per avere il quale aveva venduta la coscienza di galantuomo.

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Voi siete uno dei giovani più simpatici e più ammodo ch'io abbia conosciuti. Non dovreste far tanta fatica! Vi basta? A rivederci. Non vorrei che la vostra Luisa si insospettisse di me. E si allontanò. Mezzo minuto dopo la Luisa domandava a Sappia. - Che cosa ti ha detto quell'antipatica pettegola? - La mi ha detto, che il direttore le ha offerto mille franchi al mese per le parti di grande moquette E la mi domandava se doveva accettare. - E tu? - Io le ho detto di accettare. Spiccatasi da Sappia, Nanà, s'incontrò in Ernesto Cantis, che la stava aspettando al varco con aria sorridente ma coll'agonia nel cuore. Quel colloquio serrato e segreto col marchesino, avevano destate nel petto del povero giovinetto certe furie della gelosia che non aveva ancora provate in sua vita. Era fatto così! - Caro signor Cantis, che cosa mi contate di bello? - domandò Nanà. - Che io muoio d'amore per voi - s'arrischiò di balbettare il giovinetto. - Lo so, lo vedo. - E null'altro? - Ma che cosa vorreste vi rispondessi, mio Dio! - rispose Nanà sottovoce. Io ci tengo che voi abbiate di me una buona opinione. Io sento che verrà forse un giorno in cui io potrò essere infelice, e voglio farmi dei veri amici, i quali abbiano per me dell'affezione calma e della stima. Se io vi dessi delle speranze, e che poi non dovessi esaudirle, mi farei un nemico di voi. È meglio che ci fermiamo qui. E s'allontanò anche da lui. - Oh Nanà! - sclamò il giovinetto vedendola staccarsi così presto. E disse quel Nanà come un uomo che s'annega e che cerca soccorso alla sponda. Nanà comprese quello spasimo, e sorrise fra sè, beata. Essa lo considerava come un piccolo tributo dovutole, e ne godeva. L'idolo, sotto al cui naso si brucia tutto il giorno dell'incenso, ne sentirebbe forse ancora il profumo, per quanto avesse narici per sentirlo? Ormai ell'era troppo avvezza a vedere uomini agonizzanti di amore a' suoi piedi. "Tutti fanno lo stesso a Milano come a Parigi! - pensa Nanà - Sarei quasi per desiderare che Enrico facesse diverso del solito! S'io giungessi a farmi sposare da lui a furia di amor vero, di amor sincero, che mi facesse redenta a' miei occhi... ed anche a' suoi, quando venisse a sapere il mio passato? Qualcuno in quel mentre si fece udire a parlare di Garibaldi e della guerra sui monti. Nanà sapeva che Enrico vi aveva preso parte. - Sì, sì - gridò. E tutti udendo la voce di lei tacquero come per incanto. Conte raccontateci qualche aneddoto della guerra. A me piacciono le storie di guerra. Enrico si schermiva. Il Sappia si alzò a magnificare un certo aneddoto dei piedi gelati, che secondo lui era una bellezza. Non si è mai traditi tanto bene, come da' proprî amici. - Ha un aneddoto che è delizioso - gridò il Sappia... - Racconta Enrico l'aneddoto dei piedi gelati. - Sì, sì, vogliamo i piedi gelati - si gridò da ogni parte. O'Stiary s'arrese. - La cosa è semplicissima - disse. - Eravamo in distaccamento avanzato in cima a una montagna tutta coperta di neve. Faceva un freddo da lupi, e io lo pativo tanto ai piedi da veder le stelle anche di giorno. Non c'era nè bevere acquavite o rhum, nè portar doppie calze di lana, nè camminare e saltare, io li avevo sempre gelati. Un giorno mi lamentavo di questo incomodo con un vecchio garibaldino d'un altro battaglione, un povero diavolo, contadino di origine, che mi aveva reso qualche servigio, ma non mi conosceva più che tanto. Lo vedo spalancar gli occhi e dirmi: "Ma diavolo! Perchè non l'ha detto prima a me? "Che! Voi avreste un rimedio contro il freddo a' piedi? gli domandai io. "Altro che! mi risponde. Un vero tocchesana, un rimedio infallibile, caro camerata. Io lo invitai a parlare. E lui cominciava: "La si figuri che io appena venuto a far il volontario, specialmente d'inverno, pativo anch'io un tal freddo ai piedi, che..... Io lo interrompevo spingendolo alla conclusione, e lui invece: "Un poco di pazienza, mi diceva; bisogna prima che io vi faccia la storia del rimedio. "No, non m'importa di sapere la storia; vorrei la pratica, replicavo io, ma non c'era verso. Da vero contadino zuccone, lui voleva andare per le lunghe. "Dicono l'acquavite. sì, l'acquavite non dico. Se se ne ha, è buona anch'essa, ma quand'è passata fuori, lascia i piedi più freddi di prima. "E dunque?" chiedevo io. "Dunque invece io l'ho trovato il vero rimedio. "Su dunque. Che cosa avete fatto? "Una cosa di nulla, a pensarci sopra. Eppure è eccellente. Bisogna sapere prima di tutto, che io prima non avevo mai usato di portare le calze.... "Sì. Ebbene? "Dal giorno che misi un paio di calze di cotone sotto alle scarpe, il freddo è passato come per incanto. Provate, camerata, e vedrete." L'aneddoto era buono e si rise. Allora Nanà si mise a magnificare il modo di raccontare del conte, e tutti o quasi tutti si diedero a raccontar il loro piccolo aneddoto. Fu una confusione da non dirsi. Tutti raccontavano e nessuno ascoltava. - Come mi trovate? - non potè trattenersi dal dire, a Enrico, Nanà, dopo d'essersi congratulata con lui della sua storiella. - Io vi trovo degna di Vandick e di Tiziano. Nanà gli domandò chi fosse Tiziano. E dopo: - Io, partendo da Parigi, avevo idea di far questo viaggio in Italia, paese dell'arte, specialmente nella speranza di trovar un pittore che mi sapesse ritrarre come dico io.... L'invito era troppo diretto per non accoglierlo. - Volete, Nanà, che io mi provi a dipingere questa vostra magnifica testolina? - Provarvi in che modo? - domandò Nanà. E volgendosi repente a un invitato che s'era messo al pianoforte e vi traeva degli accordi, gli gridò: - Ma volete finirla voi? - Io vi propongo di farvi il ritratto, mezza figura, nel mio piccolo studio. L'emozione di Enrico, mentre faceva a Nanà questa proposta, era grandissima. Egli sembrava di marmo, tanto s'era fatto pallido ed immobile aspettando la risposta di Nanà. La sua voce era tremolante. Nanà sorridendo, cogli occhi abbassati, che si sarebbero fin detti modesti in quel punto, faceva saltar sul palmo la nappetta d'un cuscino che le stava accanto. E non rispondeva. Essa cominciava a trionfare e assaporava con voluttà il piacere della vittoria. Enrico ripetè: - Non volete? Nanà gli stese la mano, e rispose: - Ci si può riflettere. E lo piantò là, perchè... forse... qualcuno l'aveva chiamata. Nessuno assolutamente l'aveva chiamata. Tutti però segretamente la reclamavano. La conversazione, dove non era lei, languiva. Non per quello che ci mettesse lei, ma per quello ch'essa, senza volerlo, ispirava agli altri. Un ah! generale fra gli uomini l'accolse dunque quand'ella si staccò da Enrico e venne a sedere fra la Romea e la grande coquette prémièr rôle rôleAllora la conversazione si rifece generale. - L'assenza dell'oggetto che si ama - sclamò Bonaventuri che non faceva segreti delle sue ammirazioni per Nanà - l'assenza dell'oggetto amato fa lo stesso effetto del vento sulle fiamme: spegne le fiamme deboli e aumenta le forti. - Che filosofo! - Non sono io. È Larochefoucauld. - Voleva ben dir io! - Che cos'è l'adulterio? Ne ho letta una definizione nuova non so dove... aspettate... Non mi ricordo. L'adulterio è una bancarotta fraudolenta della moglie a cui il marito resta sotto col proprio capitale. Va bene? - Sì, e poi? - Soltanto che invece di essere disonorato chi ha fatto fallimento resta disonorato chi ci resta sotto. Verso le undici venne il thè. thè.Nanà aveva dichiarato a' suoi amici che avrebbe recitata la sua scena e cantati i couplets dopo il thè, per tenerli tutti riuniti fino ad ora tarda. Nel porgere la tazza ad Enrico gli disse sotto voce: - Ora mi vedrete nel mio costumino di Parigi, pettinata alla greca; e se mi direte che ho proprio una testa artistica forse... forse mi deciderò a venire da voi. Di lì a poco Nanà entrò nel suo penetral più sacro a travestirsi. Comparve mezz'ora dopo in un delizioso costumino di fantasia che faceva risaltar in modo mirabile le forme opime. Un applauso entusiastico l'accolse. Battevan palma a palma anche le donne, che pur fremevano di rabbia nel loro interno. Nanà era così innamorata di sè e degli applausi che non s'accorgeva o non pensava al dolore che essa procacciava alle proprie amiche, alle quali toccava assistere a' di lei trionfi intimi. Nessuna donna è più nemica di colei che si mostra seducente e adorata in sua presenza. Guardate in una festa da ballo, dove compaia a un tratto qualche astro, e vedrete le occhiate bieche, e gli sguardi di traverso, in tutte le altre donne che prima comparivano sciolte, sorridenti e felici. La Romea, per esempio, che si sapeva tanto diseredata di curve, arrabbiò come una dannata al mostrarsi di quella maravigliosa figlia di Eva, sfolgorante di gioventù e di bellezza, e si sentì presa a un tratto da un'immensa voglia di piangere. Fu la sola che non ebbe l'ipocrisia di battere le mani. Ben inteso che le altre fingevano di battere; ma accostavano adagino palma a palma per non aumentar il fracasso. Gli uomini invece pareva volessero impazzire di gioia e di ammirazione. E avevano perfettamente ragione. Chi non si scuote all'idea della bellezza artistica è un ciuco. Inebbriati da quella apparizione essi perdevano perfino la misura delle manifestazioni decenti e scordavano appunto che in mezzo a loro stavano sette infelici creature, che sorridendo si mordevano le labbra a sangue e soffrivano per quegli omaggi e per quei gridi, come se ricevessero in viso le più mortali ingiurie. Ma è così. Certi giovinetti non sanno dissimulare e mentire se non precisamente quando farebbero invece assai meglio a dire la verità. Un "zitto, silenzio, basta" s'elevò da ogni parte quando Nanà fè' cenno che avrebbe incominciata la scena. Ella si mise dunque a recitare abbastanza male un monologo che la si era fatta scrivere per un'occasione consimile, tutto pieno di motti a due tagli e di idee lascive. Gli spettatori, tranne O'Stiary, giubilavano. Le donne facevano mostra qualche volta di scandolezzarsi onde aver il diritto di dire poi di Nanà cose oscene, per ringraziarla del pranzo. Quel monologo era una birbonata qualunque, intermezzato da couplets, che Marliani accompagnava al piano. Gli applausi scoppiavano fragorosi, pazzi, ad ogni refrain. refrain.E le donne intanto sussurravano sottovoce agli uomini di condurle a casa. Una aveva l'emicrania, l'altra male al petto. La Romea protestava mal di denti. Non c'erano, che la buona Giannella e la signora Fanny, che avessero pigliato il loro partito e che lodassero schiettamente l'artista e la donna bella. Appena ebbe finito l'ultimo ouplet, Nanà fuggì via con un fare modesto ed infantile, che piacque immensamente agli uomini, e che fece sempre più bestemmiar le donne, in petto. Marliani tentò da balordo di seguirla verso la stanza da letto, ma Nanà gli chiuse bravamente l'uscio in faccia. Questo tratto sollevò una salva sterminata di nuovi applausi, e un ridere saporito e grasso in tutti quanti. - Che ne dite? - domandò Nanà a Enrico tornando nel salotto vestita come dianzi. - Voi siete adorabile, e io vi amo come un pazzo - disse Enrico. Nanà trasse un lungo e tacito respiro dal petto. - Verrete voi nel mio studio? - Domani alle due aspettatemi.

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Per quanto un uomo abbia accortezza o esperienza in fatto di donne, per quanto in teoria egli sappia di quali istinti siano dotate certe creature - il cui trionfo, la cui voluttà suprema è quella di assassinare gli uomini e di spingerli al parossismo del desiderio, anche senz'ombra di progetti rapaci o ambiziosi, ma proprio soltanto pel gusto di soggiogare - sembra destino che in causa propria, nel momento critico, quest'uomo perda il sangue freddo, la coscienza e la sinderesi, vale a dire quel presentimento che avvisa segretamente come quella donna non spieghi le proprie arti per affetto e per passione, ma per una innata ambizione di far delle vittime umane e per smisurato amor proprio. I sensi, in un giovane di ventiquattro anni, sano, forte, ben costituito come lo era Enrico - hanno quasi sempre un predominio fatale sulla ragione la quale dovrebbe essere invece - oh, chi non lo sa? - la regina e la sovrana del corpo umano. La natura, del resto, creando gli uomini e le donne così foggiate sapeva bene lei che cosa si faceva. Io credo - e non so se altri lo abbiano creduto prima di me - che se non esistesse il fenomeno dell'assalto sensuale contro cui non vale nè ragione, nè morale, nè timore della pena possibile, nè religione, nè nulla - a quest'ora il mondo sarebbe rimasto quasi spopolato. Ormai non sono più che i bigotti e i regnanti che fanno legittimamente all'amore per dovere o per calcolo. - Restiamo amici - aveva detto Nanà. - Non guastiamo il nostro bello idillio artistico con dei desiderî che siano precisamente come quelli di tutto il mondo. E poi che vale? Io credo di averlo già un amante, e mi sento ispirata a non tradirlo almeno per ora. - Chi è? - domandò Enrico che era tornato al suo cavalletto affettando molta freddezza nella voce. - Volete proprio saperlo? - Lo bramo. - È Filippo Marliani. - Ah! - Lui! - E ne siete innamorata? - Oh, no, povero Filippo. Non merita punto! - Come potete dire allora che egli sia il vostro amante? - Amante vuol dire: uomo che ama ch'io sappia, e non uomo che è amato Egli mi ama, ne sono certa, e io amo lui, ma non ne sono innamorata. - E questo basta per voi? - Finchè io non mi possa innamorare d'un uomo alla mia volta mi deve bastare, per forza! Che ho a farci io? - Credete voi di potervi riuscire ad amarlo questo signor Marliani? - Neppur per sogno. Manca di due o tre qualità indispensabili... - È ricco? - Era ricco. Ora è povero. - E voi siete ricca? - Lo era. Oggi sono ricca... di debiti. - E che cosa pensate dunque di fare della vostra vita? - Non lo so. - Non ci pensate? - No. Confido nella mia stella. Diventerò artista drammatica. - Ma che idee avete? - Idee! - sclamò Nanà ridendo. - Mi domanda che idee ho! - proseguì come parlando a sè stessa. Facciamo una cosa, Enrico, mettetevi ne' miei panni, nella mia posizione. Sareste capace di fare questa specie di astrazione? - Altro che. - Ditemi ora che idee avreste voi se foste me stessa? Sentiamo. Fatemi il vostro programma. Enrico si trovò dinanzi a un problema, al quale aveva pensato qualche volta senza trovarci uno scioglimento onesto. - M'avete detto che questo signor Marliani non potrebbe pensare a... ai casi vostri? - diss'egli schivando così di rispondere direttamente alle domande di Nanà. - No. Egli è completamente rovinato. Ma vedete che non avete saputo farmi il programma! - Quanto abbisogna a voi per vivere, come sarebbe il vostro desiderio? - Se mi chiedete quanto mi abbisogna per vivere vi potrei rispondere che, amando, mi basterebbero tre franchi al giorno; se mi domandate quanto mi abbisogna per vivere secondo il mio gusto ora che sono annoiata e indifferente, pur troppo vi risponderei che, secondo le mie abitudini, non mi basterebbe un milione all'anno. - Se però un galantuomo vi facesse delle proposte serie, le ascoltereste voi? - Secondo. - Se il galantuomo fosse come me, per esempio? - Allora no. - Perchè? - Prima, perchè non vorrei che la signorina Elisa dovesse odiarmi. E poi perchè non vorrei rovinarvi. - Che importa a voi in caso che io mi rovini? Nanà non rispose; s'accontentò di alzar le spalle con una smorfietta, che poteva essere interpretata in mille sensi. Poteva voler dire: sicuro che a me non m'importa nulla, come poteva voler dire benissimo: mi importa più di quel che pensate! Poteva voler dire: che domanda strana! Come poteva benissimo voler dire: hai indovinato! Astuzia innata di questa sfinge del secolo decimonono. Mezz'ora dopo Enrico entrava come un turbine nella camera da letto del suo amico Sappia che si destava in quel punto e gli diceva: - Ho bisogno di dieci mila franchi. - Che cosa vuoi farne? - Ho paura di essere proprio innamorato. - Innamorato? Ah, capisco! Hai bisogno di dieci mila franchi per farti passar l'amore? - Non per farle un prestito indispensabile... - Si potrebbe sapere chi è? - Indovina. - Non saprei! - È Nanà. - Nanà! - gridò il Sappia balzando a sedere sul letto. - Se non trovo dieci mila franchi per questa sera mi faccio saltar le cervella. - Quand'è così ascolta. Vedrò se mi è possibile di trovare ancora danaro e te lo presterò. Ma sulla mia sola firma ormai non ho più speranza di trovarne. A mio padre nè a mia madre già non posso più ricorrere. Li ho stancati troppo. Ti saprò dire qualche cosa stasera al club. club.- Ma stasera è già troppo tardi. Se io mi presento a Nanà senza una risposta certa, prima di sera sono rovinato. Gliel'ho promesso. - Che ti gira di promettere un prestito senza la certezza di poterlo fare? - Speravo che tu ne avessi o me li potessi trovar subito. Sappia si levò, fece attaccare e andarono in cerca di Bonaventuri, il quale, se il lettore si ricorda, aveva offerto i suoi servigi a Sappia fin da quella sera, che s'eran trovati in casa della Luisa, dove Enrico aveva fatto il primo passo al malcostume. Il Bonaventuri infatti, dal canto suo aveva già fatto prestare più di duecentomila franchi ai due figli di famiglia, e regolarmente alla scadenza rinnovava i loro effetti, sui quali s'accumulava lo spaventevole anatocismo. Di questi, più di centomila li aveva mangiati Enrico O'Stiary. Questi centomila franchi in due anni e mezzo erano diventati circa duecentomila, e alle nuove scadenze toccavano quasi i centocinquantamila. E non erano che la metà de' suoi debiti. Il Bonaventuri faceva credere ai due giovani di essere compromesso fieramente anche lui da quelle scadenze, alle quali poneva la girata per puro favore. Oh, egli era un gentiluomo! Faceva tutto per la grande simpatia che nutriva per que' due poveri giovani, che gli avari parenti tenevano tanto a stecchetto. E si fidava tanto di loro! E sapeva dar loro di quando in quando dei così buoni consigli. E si spaventava di quando in quando con tanta cordialità nel veder ingrossare spaventosamente le somme del loro debito! E si rammaricava con tanta pietà che il padre di O'Stiary avesse messa quella maledetta clausola nel suo testamento. E domandava loro con tanta premura notizie della salute del babbo marchese e del tutore notaio quando li incontrava dalla Luisa! - Aver ancora danaro dalle solite sorgenti - diss'egli a Sappia - è impossibile. Bisognerà che tentiamo nuovi mezzi. - Ne conosce lei? - Io no, ma ho un amico che se ne intende, quantunque da poco in commercio. - Andiamo subito da questo suo amico - disse O'Stiary. - Per farle vedere la mia buona volontà ci andremo oggi. - Come si chiama? - Si chiama Marliani, ed ha lo studio in Valpetrosa. - Oh, diamine! - sclamò il Sappia. - Che fosse mai Filippo Marliani? - Filippo appunto. Quello che era a pranzo dalla signora Nanà...! - Sì, sì. È lui! Come mai s'è dato a vendere pannine? - Lui non vende. Lui è direttore della ragion sociale. - Allora siamo a casa! - sclamò il Sappia tutto allegro. - Ora non è che mezzogiorno - disse O'Stiary. - Troviamoci alle due in qualche luogo. - Dove? - Dica lei. - Dalla Romea? - Va bene. Dalla Romea. E si lasciarono.

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Strano, perchè un miscuglio così fatto, composto di sentimentalismi e di truffe, di voluttà e di cento per cento, di fantasie lubriche e di cambiali in scadenza, di baci e di usura, di proteste d'amore e di protesti cambiarî chi non ne abbia mai udito uno simile, non giungerebbe a farsene un'idea. - Sei un biricchino - diceva la gallinona, vezzeggiando il suo Fiffo, che se ne stava sdraiato dissimulando a stento l'interno disgusto. - Io vorrei guarda, avere un trono d'oro per metterti su te a regnare e me d'accanto. - M'accontenterei anche d'un trono d'argento - disse filosoficamente il Marliani. - A proposito cosa c'è di nuovo dell'affare delle posate? - Non d'oro nè d'argento quelle! - Dico bene, di cristophle. Le hanno accettate? - Altro che. - Oh racconta perchè non ne so nulla.... Ma prima fammi un altro bacio... ma lungo... come tu li sai fare tanto bene... anima mia. Dato il bacio, non tanto lungo quanto quell'altra sconcia lo avrebbe voluto, il Marliani rispose: - Come sai erano di cristophle, ma così belle e così pesanti che si poteva benissimo farle passare per d'argento. Il Bonaventuri ne fece bollare una e la portò al Monte. Il perito, il nostro amico, gliela stimò il quadruplo del suo valore di costo. Allora il Bonaventuri le fece bollar tutte e ne cavò due mila franchi. A lui erano costate cinquecento. - Che boia! - sclamò tutta ilare la signora Bibiana. - Spero bene che avrà messo il guadagno in conto sociale! Ma tu poi mi vorrai proprio sempre bene? Non pensi più, n'è vero, a quell'altra? - No, no, - rispose il Marliani. - Non sei tu quella che farà la mia fortuna? Oggi credo che il banchiere acconsentirà che mi siano fissati questi cento franchi di più al mese. - Ci penso io! E se lui non lo volesse, la tua Bibò sai che li caverà di propria saccoccia. Te lo giuro sulla memoria de' miei quattro figli che sono tutti morti. - Cara! - E oggi chi si aspetta? - Il marchese Sappia e il conte O'Stiary. - Ci cascano ancora? - Un'ora fa il Bonaventuri mi ha mandato ad avvisare che sarebbe venuto qui con loro alle due. - Mi raccomando. Bisogna scorticarli come rane, questi aristocratici. Ma io non so il perchè stamattina ti voglio più bene del solito. Cioè forse lo so... E qui la signora Bibiana cercò di farsi rossa in viso con una smorfia pudibonda. - Ah, sei un gran biricchino, ve', quando ti ci metti! E gli diede una vezzosa spalmatina sulla guancia poi vi tenne la mano a carezze. Il Marliani sarebbe apparso nauseato a tutti coloro, che lo avessero veduto in quel punto, tranne che alla vecchia birbona. - Bibò, Bibò, basta - diss'egli. - Come basta? Non sei tu forse il mio Fiffo? Non ti piacciono dunque le carezze della tua Bibò? - Sì... mi piacciono ma a suo tempo. Ora possono entrare i merli e se ci pigliano in frègola addio serietà di affari. - Si tratta ancora d'un prestito? - Credo. - Spero bene che il Bonaventuri si ricorderà che deve far finta di non conoscerci? - Diamine! Quello è volpe vecchia che ne può insegnare a tutti noi. - E stanotte...? Quanto ridere! Ne ho ancora il solletico qui allo stomaco, te lo assicuro. Sei un gran mostro, ve'! Ah sei un gran mostro! S'udì nel cortile un rumore di passi. - Sono loro! - Qua un bacio in fretta - disse la signora Bibiana - e poi serî! Il Marliani diè il bacio poi si mise la penna fra le dita e finse di scrivere. * * * Entrò il facchino. - Tre signori che vogliono parlare con lei - disse a Marliani. - Chi sono? - Uno glielo posso dire: è il signor Bonaventuri, perchè lo conosco; gli altri due non so. - Falli entrare. Poi finse di essere tutto assorto nel far delle cifre. La grossa Bibò sedette in disparte. Bonaventuri entrò. Lo sguardo ch'egli diede al Marliani e alla signora Bibiana, sarebbe stato invidiato da un antico aruspice di Delfo. Il ladro uomo ricompose tosto il ghigno. - Oh, caro Ferdinando - disse Marliani alzandosi da sedere. - E anche lei mi par di conoscerlo - disse Marliani - ma quello stupido di un facchino non è mai capace di dir un nome giusto, e a dir la verità... Il marchese aveva stretta la mano a Marliani confidenzialmente. - Io sono Silvestro Bonaventuri - rispose l'altro cavandosi i guanti, e questi sono il signor marchese Sappia che lei conosce, come vedo, e il signor conte O'Stiary. Ma dico, non disturbiamo forse? - soggiunse tosto volgendosi a Bibò, che stava là seduta in un canto. - La s'imagini! - rispose la signora Bibiana Io aveva finita la mia faccenda e stava rifiatando un minuto, perchè non ho potuto agguantar l'omnibus, e m'è toccato di far la strada a piedibus calcantibus dal borgo fin quaggiù. Ma ora son riposata e me ne torno pacifica e mollifica nella mia pace della campagna beata e ridente. I tre sopravvenuti la lasciarono passare, e Bonaventuri, come se proprio non l'avesse mai veduta, mandandogli dietro uno sguardo desioso, sclamò: - È un bel pezzo di Marcantonio! - S'accomodino! Cominciò il Bonaventuri: - Io vengo a nome del signor Carcanetti che lei conosce. Carcanetti era un nome qualunque, un nome inventato. - Carcanetti mi comunicò che lei un giorno gli ebbe a dire che se aveva bisogno del danaro per qualche suo amico solido, si rivolgesse pure a lei che avrebbe trovato il modo di procurarglielo. Il Marliani alzò la mano al labbro inferiore, lo strinse fra il pollice e l'indice, e stette a pensare come un uomo che caschi dalle nuvole. - Non mi ricordo - rispose. "Ahimè!" - sclamò in cuor suo l'ingenuo O'Stiary. "Farà il prezioso" - pensò invece il Sappia che aveva maggior esperienza di mondo. E si sbagliavano tutti e due. - Non mi ricordo bene in quall'epoca io possa avergli detto questo al Carcanetti - ripigliò il Marliani con un fare naturalissimo - giacchè oggi non solo è cosa molto difficile il trovar danaro su cambiali ai prezzi commerciali, ma si può dire che è difficilissimo di trovarne anche volendo assoggettarsi a grossi premî ed usure. Dopo che si cominciò a parlare di quella benedetta proposta di legge per l'abolizione dell'arresto personale nessuno più si fida a prestar danaro se non sopra buona e solida ipoteca. Io stesso, che pur non faccio mai di questi affari, e che sono a capo di una ditta solidissima, pure avendo avuto bisogno, per un capriccio di levar una somma a prestito per tre giorni, ho dovuto pagare un interesse favoloso. - Vale a dire? - Per mille franchi mi hanno trattenuto, in tre giorni, cento franchi. È vero che in commercio tre giorni e un mese contano lo stesso. In ogni modo è sempre un interesse enorme. È il dieci per cento al mese. - Qui si tratterebbe di un'operazione di tutta fiducia. Il mio amico è troppo onesto, troppo gentiluomo per cercare a chichessia un centesimo senza la sicurezza. - Oh signore!... - ... morale e materiale.... - Non ne dubito! - ... della restituzione.... - Può imaginarsi! - ... alla scadenza. - Non se ne parli! Il signore è inutile domandarlo, è maggiorenne, non è vero? - domandò Marliani rivolto al conte O'Stiary. - Ho ventitre anni e dieci mesi - rispose Enrico Non debbo tacere però che io non andrò in pieno godimento della mia sostanza che a ventiquattro anni compiuti, e che ho dei debiti. - Non ci sono dunque che due mesi da aspettare! - sclamò il Marliani. Quanto ai debiti, chi non ne ha al giorno d'oggi? Ma se nella sostanza c'è un largo sufficiente, i debiti non contano. Si sa bene. Il faut que jeunesse se passe! - Benissimo! - disse Sappia. - Dunque allora questa sera io potrò darle una risposta; tenterò, parlerò, vedrò il mezzo migliore. Di quale somma avrebbe bisogno? - Diecimila franchi. - Bene, le saprò dire l'esito. Non garantisco nulla ma stasera le dirò francamente quali furono le mie pratiche e sarò molto onorato di poter riuscire. E se riesco poi - continuò diretto a O'Stiary - chissà che non venga da lei a chiederle un favore. - Ben volentieri - rispose Enrico che senza sapere il perchè si trovava in un disagio ineffabile. Quest'ultimi periodi infatti erano stati detti in piedi. Marliani stese la mano al marchesino Sappia a cui disse: Ciao poi al contino che inchinò e così si lasciarono. Appena usciti si schiuse pian piano l'usciolo di contro a quello per cui se n'erano andati i due giovinetti e ne uscì la faccia da luna piena della signora Bibiana, che rideva come una donna in gallovia. Essa venne ad abbracciare il Marliani dicendogli: - Sei un gran birichino. Ti sei portato da negoziante provetto e consumato. Se il diavolo non ci mette la coda, in poco tempo la sostanza del conte O'Stiary, deve essere tutta nostra! - Ora che si fa? - domandò Marliani alla Bibò. - S'hanno a dare questi dieci mila franchi o non s'hanno a dare? - Tu che ne dici? Sai che io faccio quello che vuoi? - Ebbene allora bisogna darli. - Pensa Filippo che siamo già sotto di molto. - Non importa. Fidati di me. Ho bisogno di far buona figura. - Sì, sì, - disse Bibò. - E poi egli è pronto a qualunque sacrificio? Se dice così gli è segno che gli fanno assai bisogno. Se gli fanno di bisogno noi col fargli il prestito gli facciamo uno di quei servizi che si chiamano impagabili. Non è vero? Forse gli salviamo l'onore... Forse la vita! Chi lo sa? Se quelli che ci danno dell'usuraio ragionassero così vedrebbero che noi siamo i salvatori dell'umanità. Siamo forse noi che andiamo a cercare i figli di famiglia? O sono essi che vengono a cercar noi. Mettiamo forse loro le pistole alla gola? No. Essi contrattano liberamente. Oh perchè mai s'avrà a far pagare poniamo cento mila franchi per puro capriccio, un brillante che non serve a nulla e non s'avrà a far pagar caro un servizio in contanti, che può salvar l'onore e la vita? Alla signora Bibiana codesti argomenti in difesa dell'usura parevan sempre nuovi di zecca, ogni volta che li ripeteva. E Dio sa quante volte li aveva già ripetuti di sua vita. Marliani la lasciò sfogare un poco poi la arrestò, e da uomo pratico tornò alla sua domanda. - Dunque mi fai far buona figura? Te ne ringrazio. - Caro! Questo e altro - disse Bibò intenerita. E scoccò un bacione al suo bel giovane. - Vediamo ora le condizioni. - Il solito! Ormai di firma Sappia e O'Stiary ne abbiamo in portafogli per circa duecento mila. E so che altri ne tengono altrettante. Con queste faranno duecento mila e venti. E ricordati Filippo e che se questa imprudenza enormissima fu da me commessa, è stato tutto per amor tuo. Io non era mai stata avvezza a prestare a un solo più di cinquanta mila franchi. - Ma quando ti dico che sono sicuri. - Lo voglio credere, ed è perciò che non mi faccio pregare neppure questa volta. Ma dico per dire. Se morisse? - Pensa che sulle duecento mila firmate, in fin dei conti tu non ne hai versate più di ottantamila. - Questo si sa! Un interdetto, deve ben pagare più degli altri. Dal canto loro il Sappia e l'O'Stiary usciti dallo studio della ditta Marliani e C. si rallegrarono fra loro d'aver trovato l'amico divenuto uomo serio tanto ben disposto per loro. Erano pieni di speranze, e il cento per cento di interesse, che Marliani aveva lasciato loro intravedere, non dava ad essi il menomo disturbo. Animi felici! A un dipresso, nella bontà istintiva del loro cuore giovinetto essi ragionavano a loro danno, cogli stessi argomenti della signora Bibiana. - Non il cento per cento - sclamava Enrico - ma il mille per cento io sarei pronto a pagare per avere quel danaro da presentare a Nanà questa sera. Per me è questione di vita o di morte. Che vale il danaro se non rappresenta appunto il valore dei nostri desideri? Si dica quel si vuole, la è logica anche codesta; logica pericolosa, ruinosa, da scavezzacollo, da uomo passionato, ma logica. Persuadere un giovane di ventiquattr'anni, generoso, ardente desioso, innamorato che il prender a interesse del danaro al cento per cento è una grulleria, una bestialità economica, una ridicolaggine di cui s'avrà certo a pentire più tardi, è cosa tanto vana, come sarebbe per esempio il mettersi a persuader i pesci a vivere fuori dell'acqua, dove noi ci si annega, mentre loro ci stanno a lor agio, dove anzi non possono a meno di stare per vivere. Pei giovani il danaro non è - parlo in generale - che il mezzo per soddisfare i bisogni del cuore, i capricci della mente, le necessità dei sensi, delle passioni. Quanto più troveranno ostacoli, non naturali, non fatali a soddisfar queste loro passioni tanto più s'aumenterà in essi la smania di soddisfarle. Nititur in vetitum L'idea del dissesto finanziario, della povertà, della rovina, non entra in cervelli giovani privi di esperienza e di vivere di mondo. L'economia è una parola che ha senso soltanto per coloro che guadagnano il danaro a stento. Se i tutori ed i padri pensassero a queste verità forse le pazzie dei figli sarebbero meno frequenti. Il fatto è che la stessa sera Enrico potè annunciare a Nanà che fra tre giorni avrebbe avuti i diecimila franchi. Dal giorno che Enrico O'Stiary portò a Nanà i diecimila franchi, che dovevano dare un altro strappo alla sua sostanza, quelle due belle creature si videro tutti i giorni. Rotto il ghiaccio essi entrarono nel secondo stadio dell'amore... sentimentale. Enrico non aveva il coraggio di esigere di più da quella donna, che gli appariva armata di virtù come l'antica Minerva. E forse se avesse anche saputo chi ella era sarebbe stato troppo tardi lo stesso. La sua fantasia, l'amor proprio, i nervi, i muscoli il sangue erano troppo invasi dal magnetico di quella donna per concedergli di desistere dall'immenso desio. Ogni volta che egli montava le scale di Nanà giurava di riuscire a conquistarla; dinanzi a lei si trovava di aver il cuore di coniglio, il cervello di ghiaccio e la lingua mozza. Tutte le ragioni, le preghiere, le astuzie pensate, come quelle del povero Renzo in presenza dell'Azzeccagarbugli sfumavano. Non sapeva più che cosa dirle, da dove incominciare, come pigliarla. Pativa suggezione della Parigina! Ell'era incantevolmente graziosa con lui; lo riceveva con vera e schietta gioia; non lo lasciava partire s'egli accennava di volersene andar più presto del solito. Ma se egli arrischiava un gesto, una frase di desiderio, una preghiera o non faceva mostra di capirli, o li vietava cogli occhi, colla mano, col broncio, o si sottraeva alle sue carezze. Nanà manovrava con lui con una tattica degna d'un generale di genio. Ella aveva fissato di sposare Enrico, mescendo l'utile al dolce; sposare un giovane che le piaceva e diventare contessa. Conosceva troppo la regola più elementare della civetteria femminile, per la quale avviene che gli amanti stiano legati assai più col rifiutarsi che col concedersi. E la sua continenza era cosa tanto insolita in lei che ne andava orgogliosa. Enrico sentiva d'essere stretto nelle spire d'un adorabile serpente e non sapeva levarsene. Già cento volte Nanà aveva letto negli occhi di Enrico il poema delle sue sofferenze fisiche e morali, e ne gioiva. C'era in questa gioia di Nanà un piccolo sentimento di vendetta. Ella faceva pagar cari al giovane innamorato il tentativo di sottrarsi al suo fascino, spiegato da lui nella prima sera, quand'essa, non aveva potuto cavargli una sola dichiarazione, e aveva dovuto ella stessa fare i primi approcci.

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Ciò che io ti domando si è se la tua mano possa mettersi nella mia senza tremare che un giorno o l'altro un uomo abbia il diritto di dirti una di quelle frasi che io non potrei lavare che a prezzo della vita dell'uno o dell'altro. Nanà lo ascoltava cogli occhi fissati ne' suoi. Ella ripetè la sua scusa. - Già ti dissi che non fui maritata e che ho un figlio. Il mio povero Louiset non ha mai conosciuto suo padre. Fu un errore di giovinezza. Se nondimeno tu hai il coraggio di farmi tua moglie, ti giuro che diventerò il modello delle spose, giacchè ho conosciuto il mondo e sono certa di poterti assicurare su quel punto. Se non accetti, Enrico, sarà meglio che non ci rivediamo. Io ti restituirò, a suo tempo, la somma che mi hai favorita... E tal sia di noi. Enrico la interruppe con un gesto... - Sarà meglio che non ci vediamo più - proseguì Nanà - giacchè la nostra situazione diventerebbe assurda e pericolosa per entrambi. Per quanto il giovine fosse appassionato non aveva perduto però fin l'ultimo lume della ragione e della prudenza. Forse l'imagine sofferente e bella della Elisa vegliava ancora per lui in un cantuccio del suo cuore. Si diede a passeggiare pensieroso. - Dunque? - domandò Nanà poco dopo. - Se io dovessi promettere, crederesti tu alla mia parola? - Come a Dio! - rispose Nanà con entusiasmo non finto. Questa frase diè coraggio ad Enrico. Prese le due mani di Nanà, la attirò a sè e le disse: - Mi vuoi tu un po'di bene? - Come al miglior amico che io mi abbia - rispose la donna. Enrico la strinse sul petto. Ella si sciolse, scivolando fuori dell'abbraccio, e dicendo in francese: - Voyons! Pas de bêtises bêtisesLa frase fu crudele per Enrico. Prese il cappello e uscì. Nanà non lo richiamò. Ella si conosceva. Temeva che il subitaneo bollor del sangue non le facesse perdere il frutto della sua lunga resistenza. Ma Enrico era troppo leale e troppo inesperto per una simile donna. Del resto, cogli ardimenti della fantasia Nanà aveva risolto il problema di restare casta, con Enrico, pur non soffrendo. Ella non avrebbe potuto resistere altrimenti. Trovava il suo amante così timido, così riguardoso e così bello, che anche con tutta la potenza del calcolo di cui si era armata, ella era sicura che non avrebbe saputo sempre trovare la virtù della resistenza, se la fantasia, avvezza a ben altro, non le avesse prestato spontaneamente collo sfogo, il suo aiuto. Quando Enrico, al colmo della passione le ricingeva la vita e la copriva di insaziabili baci, ella si abbandonava per un istante alle voluttà di quell'adorazione e gemeva come donna a cui pel soverchio piacere sta per mancare la vita; poi si scioglieva a un tratto da lui, sicura ormai di non cedere. Era l'abbominazione d'una depravazione parigina, che, se Dio vuole, non è ancora comune fra le nostre donne! Questo giuoco andava da più settimane, quando avvenne un caso che diede una grande rinfiammata alla passione di Enrico. Nanà in quel tempo stava con lui buona parte del giorno. Essa andava al di lui studio al mattino e vi stava fino alle due. Al dopo pranzo Enrico tornava da lei fino a mezzanotte e ne partiva congedato sempre, e sempre più appassionato. Ma appena partito lui, un ombra d'uomo, che si spiccava da un angolo buio, dov'era stato a vedetta, scivolava lungo il muro della casa d'onde era uscito il sofferente giovine, lo seguiva da lungi per un tratto e quando lo vedeva bene avviato, e s'era assicurato che non pensava a spiare, tornava rapido, metteva la chiave nella toppa dello sportello di Nanà e spariva in esso. Quell'ombra, che alla luce appariva essere quella del marchesino Sappia, l'intimo amico di Enrico, usciva poi da quello sportello, verso le cinque del mattino. Enrico non aveva pensato ancora di essere geloso. Un'idea fissa lo consolava dei rifiuti costanti di quella donna, ch'egli amava ormai alla follia; un'idea che l'amor proprio gli faceva sembrare eminentemente logica e chiara. Se Nanà era tanto riservata con lui, come avrebbe potuto egli accogliere il sospetto ch'ella non lo fosse con tutti? Alle necessità della sua vita dispendiosa egli ci aveva già pensato assai. Era pronto a rinnovar la dose appena Nanà gli avesse lasciato intendere di non aver più danaro, e glielo aveva detto esplicitamente. Non le doveva mancar nulla! Perchè lo avrebbe essa tradito? A che scopo? Una sera Nanà gli disse: - Domani non posso venire allo studio. - Perchè? - È arrivata da Parigi una mia amica. Debbo passar la giornata con lei. - Chi è? - Madame Monrichard - rispose Nanà molto franca. - Dove stà? - Non so bene - disse la donna con un poco di impazienza. - Domani verrà qui e mi farò dire dov'è discesa ad alloggiare. - A che ora verrà domani da te? - Non lo so. Potrà venire prima di mezzo giorno e forse potrà venir dopo. È però necessario ch'io l'aspetti in casa. - Bene, verrò io da te all'ora che tu avresti dovuto venir da me. Nanà restò un poco perplessa, poi disse: - No, non voglio che tu la veda. - Perchè? - Perchè è molto bella. - Che idea! - Ho paura che la ti piaccia più di me. - Non c'è pericolo. Via! - No, non voglio assolutamente. La mattina dopo Enrico entrava alle dieci nell'andito della porta di Nanà, e il portinaio gli andava incontro porgendogli una lettera. Aveva le cifre di Nanà e diceva: "Caro Enrico" "Madame Monrichard è venuta alle otto e mezza e mi ha condotto con lei in campagna a godere gli ultimi giorni di autunno. Non torneremo a Milano che a notte. Amami. A rivederci domani al tuo studio." "LA TUA NANÀ." - A che ora è uscita stamattina la signora? - domandò Enrico scevro ancora da vero sospetto, ma col cuore molestato da un vago presentimento di sciagura... - È uscita alle nove con una signora. - Bella molto? - Oh no, tutt'altro; brutta e vecchia. - "Brutta e vecchia!" - sclamò fra sè Enrico il quale si ricordava che Nanà il giorno prima gli aveva detto madame Monrichard essere giovine e bella. - È andata in campagna n'è vero? - Non so. Non m'ha detto nulla. - Com'era vestita? - Come al solito, di nero. - Grazie - rispose Enrico, e uscì turbato. Era quello il primo attacco di gelosia che risentisse di sua vita. Ora come assicurarsi? Come avere le traccie di lei? Dove rincorrerla? Dove sperare di trovarla? Ricorse anche lui al solito mezzo comune, antico, volgare, come i sospetti negli innamorati e la cupidigia nelle cameriere, ma sicuro sempre, per quanto sfruttato da secoli. Tornò indietro, levò dal portamonete un biglietto da dieci lire, lo pose in mano al portinaio, che si guardò bene dal ritirarla senza di esso, e gli disse: - Stasera quand'essa torna a casa ne avrete il doppio se mi saprete dire da chi è accompagnata e se verrete ad avvisarmene subito. E gli diè l'indirizzo. - Signor conte illustrissimo - sclamò il portinaio cavando il berretto fino a terra - lei sarà servita. "Guadagnar trenta lire, solo per accontentare un capriccio di innocente curiosità ad un bel giovane... non c'è male" pensava il portinaio. "A Milano queste cose si vedono di rado." Verso la mezzanotte Enrico si vide comparir dinanzi, nel luogo fissato al convegno, il valentuomo sorridente, che gli narrò come avesse avuta la pazienza di stare dalle nove fino allora ad aspettar nella via il brougham, che doveva portar a casa la signora Nanà. - Ebbene? Con chi tornò? - È arrivata in un brougham, accompagnata da un signore, che è rimasto nel legno. Essa discese, senza farsi aiutare da lui, si volse gli disse À revoir entrò in casa; e il brougham partì di galloppo. A Enrico si aprivano gli occhi. Nanà lo tradiva. Diede al portinaio i venti franchi promessi, dicendogli: - Va bene. State attento che ne guadagnerete degli altri. E lo congedò con un gesto severo. Il povero giovane, non sapeva ancora per prova che cosa fosse gelosia. Non imaginava di quali morsi orrendi sia capace questo egoismo esimio, questo desiderio violento di conservare tutta per sè la donna che si ama e di impedire che altri ce la possano togliere. La Elisa, la vergine bella e pudica, scelta dal suo cuore adolescente, della quale egli aveva creduto per un pezzo d'essere innamorato, non gli aveva fatto provar mai neppure l'ombra di quell'uragano, di quella disperazione, che sentiva in quel punto sorgere nel cuore, e pigliarvi delle proporzioni rapide e spaventose. La Elisa non gli aveva fatto provare tutt'al più che una leggera puntura dell'amor proprio, quel giorno ch'ella s'era data a civettare con Aldo Rubieri, per tentar di smoverlo dalle freddezze, che a sua volta le davano tanto dolore! E si ricordò di quella leggera velleità di gelosia, e la paragonò allo spasimo atroce di quel momento in cui il portinaio, che pensava di poter guadagnare i venti franchi, era venuto sorridente e lieto a raccontargli il tradimento della sua donna. Passata la botta però, cominciò il dubbio che in simili casi, è, per così dire, di prammatica. La gelosia invero non esiste che allo stato di dubbio. Se fosse certezza non sarebbe più gelosia. La gelosia spinge la creatura alla ricerca della propria disgrazia, e finchè v'ha ricerca, v'ha dubbio. Quando la certezza è entrata, la disperazione o la guarigione sono vicine. Enrico, adunque, cominciò a dubitare e a cercare tutte le ragioni plausibili per scusare Nanà e per non crederla rea. Perchè, perchè lo avrebbe tradito? E non trovava risposta al perchè? Era invece così facile il trovarla, s'egli avesse conosciuto Nanà o avesse avuto soltanto una maggiore esperienza dell'animo femminile. Come al solito, dunque il paravento dell'orgoglio gli celò i molti perchè, dai quali una donna della tempra di Nanà può essere spinta a tradir un'amante, ch'ella abbia scelto a marito, e decise di aspettar a condannarla dopo di averla bene interrogata. La notte gli portò consiglio. Aspettò di piè fermo Nanà nel suo studio, cercando di nascondere sotto una calma completa la sua immensa emozione. Nanà alle dieci fece la sua comparsa più bella e più lieta che mai. Egli l'accolse, come il solito, andandole incontro e stendendole le due mani; Nanà gli presentò la fronte da baciare. Ella s'accorse ch'egli era pallido come un cadavere. Egli invece fece mostra di non accorgersi del moto gentile di Nanà, e la fece sedere: - Dunque ti sei divertita? - Quando?- domandò la donna col suo sorriso più sincero. - Ieri in campagna. - Ah sì, moltissimo. - A che ora sei tornata a Milano? - Coll'ultima corsa. - E chi è che ti accompagnò a casa? - Monrichard. - Il marito della tua amica? - Precisamente. Poco mancò che Enrico non mandasse un grido di gioia e non si curvasse ad abbracciare Nanà e a dimandarle scusa de' suoi sospetti. Tutto si spiegava perfettamente. Egli era stato geloso d'una vana ombra. Come mai non aveva pensato prima che quell'uomo che aveva accompagnata a casa la sua Nanà, era, doveva essere, il signor Monrichard? Rise fra sè di aver sofferto tanto! La sua gioia però doveva durar poco. Tutt'a un tratto si ricordò che la portinaia, il giorno prima, gli aveva detto che Nanà quella mattina era uscita di casa con una vecchia. Allora le domandò. - Ieri mattina a che ora è venuta a prenderti questa bellezza che tu non vuoi che io conosca? Nanà ebbe dal canto suo un sospetto. Quell'interrogatorio di Enrico, quel suo fare un po' diverso dal solito, non la lasciava tranquilla. - Son venuti a prendermi alle nove - rispose stando a cavallo sulle frasi. - E sei uscita con lei? Nanà non rispose subito. Il suo sospetto s'accresceva. - Ma perchè mi fai tante domande quest'oggi? - gli domandò. - Perchè mi interesso de' fatti tuoi - rispose Enrico colla voce più indifferente, che gli fu possibile di trovare in gola. Egli fingeva d'essere tutto intento a preparare la tavolozza. - Dunque? - Dunque che cosa? - domandò Nanà. - T'ho pregata di dirmi se fu madame Monrichard che venne a prenderti. - E con chi t'imagini che io sia uscita di casa? - sclamò Nanà levandosi. - Io non imagino nulla. Domando. - Ebbene no. Uscii con sua madre che è venuta a prendermi in vece sua. Enrico fu nuovamente sul punto di saltar al collo di Nanà. Ma ebbe vergogna di confessarsi reo, e non gliene disse nulla. E quel giorno passò senz'altri incidenti. Nell'animo di Enrico però era rimasto un lievito di inquietudine vaga, un'intuizione dell'inganno, un presentimento di sventura, che non lo lasciavano quieto. Tornò dal portinaio della casa di Nanà: - Questi sono quaranta franchi - disse. - Io ho bisogno di sapere chi viene a trovare la signora quando io non ci sono. - Se me l'avesse domandato prima glielo avrei già detto - rispose il portinaio. - Parla dunque? - Quando lei è partito, verso mezzanotte viene un signore che ha la chiave. Io sono a letto, ma lo sento entrare e montar piano, piano. - Possibile; - sclamò Enrico. - Ch'ella sia così imprudente? - Ella spera che io non glielo dica; ma lei è più generoso della signora, dunque.... - Ah, dunque la signora vi ha fatto dei regali per comperare il vostro silenzio? - Oh, no, signore - rispose il portinaio - perchè poi io sono un galantuomo, e se la signora mi avesse pagato per tacere, io avrei taciuto. Mi ha fatto un regalo sì, ma un'inezia, e non mi ha detto nulla di tacere, perchè essa spera forse che io non senta a entrare l'amico Ciliegia. - E voi siete certo che egli va da Nanà? - Può figurarsi! Dopo due o tre sere che l'avevo sentito a entrare, mi sono preparato giù dal letto a piè scalzi, e pian pianino sono uscito fuori e ho veduto che andava al primo piano. - Ma a che ora viene egli? - Un quarto d'ora dopo che lei è partito. - Non sareste capace di dirmi chi è? - Credo di saperne il nome. - Ed è? - È il signor Aldo Rubieri - rispose il portinaio confondendo un nome con un altro. Forse a bella posta? Chi lo sa! - Aldo Rubieri; - sciamò Enrico volgendo il dorso al portinaio e andandosene senza dirgli crepa: - "Lo avrei giurato!" - pensava. - "Ah! giustizia di Dio, egli dunque mi ha vilmente ingannato quand'io l'ho scongiurato di dirmi se fra lui e lei erano passate delle intimità?... E d'altronde?... Non ebbe il coraggio di posare nuda dinanzi a lui? Non ci sono che le modelle o le amanti che posino nude. Ma modella non è. Dunque! Stupido, idiota che fui finora a non capirlo." Enrico a quel punto si sentì assalito da una violentissima smania di piangere; e per soffocare l'esplosione del dolore che lo soffocava e per non farsi scorgere per la via coi lucciconi, che nessuna forza umana è valida a trattenere quando il cordoglio è al colmo, si cacciò in un brougham, brougham,disse al cocchiere: - Va a casa del marchese Sappia. E gli indicò la via calando le cortine. Ferdinando Sappia era in casa. Enrico fece irruzione nella sua camera allo stesso modo e peggio di quel giorno ch'era andato da lui a chiedergli diecimila franchi da prestare a Nanà. Vedendolo entrare pallido, cogli occhi rossi, sottosopra, convulso, il marchese, che in quel punto stava studiando sulla carta geografica un certo suo progettato viaggio in Europa, si volse, mise le due mani sui fianchi e stette ad aspettare che Enrico si spiegasse. Enrico si lasciò cadere, un po' drammaticamente, ma pur senza aria di posare, in una sedia e taceva. - Cosa c'è? - domandò il Sappia. - Nanà è una gran p....! - sclamò Enrico. Il Sappia capì che si trattava forse di lui stesso e si armò di dissimulazione. L'autore dei Promessi Sposi scrisse che: l'uomo onesto in faccia al malvagio piace generalmente imaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, col petto rilevato, con lo scilinguàgnolo bene sciolto. Il marchese Sappia non era un malvagio, ma sentiva, da quella frase appassionata di Enrico, di avere verso di lui tutto il torto che un amico può confessare a sè stesso di avere in faccia all'amico tradito. Sciaguratamente, in questa nostra vita contemporanea, la morale amorosa ha create tali e tante leggi in contrasto flagrante fra di loro, che il raccappezzarne una assoluta e fissa nel caso di Sappia sarebbe opera superiore ad ogni filosofico criterio. Sappia tradiva davvero l'amico? Non faceva egli quello che volgarmente - chiamasi il suo mestiere di uomo elegante? Non aveva egli un diritto su Nanà, anteriore a quello di Enrico? Poteva egli in coscienza credersi reo di lesa amicizia? Avrebbe egli avuto il dovere di raccontare ad Enrico il perchè ed il come Nanà fosse stata obbligata a riceverlo lui, di notte, mentre s'era mostrata sempre restìa e inflessibilmente, se non casta, cauta, con lui? Tutte queste domande si erano affollate nel cervello di Sappia nel breve spazio di tempo, che scorse fra l'esclamazione di Enrico e quella che egli fu obbligato di rispondergli, per non metterlo in sospetto. - Te l'avevo pur detto di guardarti! - sclamò Sappia. - Ora spiegati. Enrico gli raccontò tutto sinceramente. - Ma chi è costui che va da lei di notte? - domandò il Sappia con finta indifferenza. - Il portinaio ti ha detto chi sia? - Sì - rispose Enrico - è lo scultore. - Lo scultore? - Aldo Rubieri! Il marchese tirò dai precordi un gran fiato; egli intanto si sentì sollevato da un bel peso. La tempesta che vedeva scatenarsi sul proprio capo, si scioglieva in sereno per andar a devastare il campo del vicino. E il primissimo moto del suo egoismo fu di lietezza. Ma il secondo, repentissimo, nel suo animo fu di sorpresa e di rabbia. L'amor proprio pigliò tosto il sopravvento. Così subitaneo, a dir vero, che si confuse col primo e gli fece sclamare con accento sincero: - Dici vero? Aldo Rubieri? Ah, canaglia! Non lo sapevo! Enrico scambiò l'interesse, che la voce, lo sguardo e il gesto del marchese gli dimostravano come una commiserazione per la propria sventura, e rispose ingenuamente: - Ti pare? Tu che sai tutto di me; dimmi che nome merita Nanà? Dillo che nome merita quella donna infame? A questo punto la chimica - per modo di dire - amorosa di que' due amici diventava assai complessa e confusa. Enrico si credeva di fronte ad un amico senza colpa. Il marchese che non aveva "il buono testimonio della propria coscienza, nè il sentimento della giustizia della propria causa" era rimasto leggermente imbarazzato e silenzioso. O'Stiary proseguiva: - Tu che ne dici? Che cosa mi resta a fare? Levarmela dalla mente ora è impossibile! Non avrei mai creduto che una donna potesse rendermi così vile e stupido! Lo riconosco.... Ma è più forte di me, è più forte della mia volontà! Oramai non posso più far senza di lei. - Non c'è che un viaggio! - disse Sappia - Va via... va a Parigi. Vengo anch'io. - Impossibile! Ci ho pensato. Ma ritornerei dopo tre giorni. Che cosa vorresti facessi in viaggio se ella mi ha come... ammaliato? - Capisco, capisco! - ripetè il Sappia sopra pensiero. - Ma sai bene, Enrico, in queste cose non si possono dare consigli. Io non ho mai provato che cosa sia questo tormento. La mia Luisa io non l'amo abbastanza per esserne geloso. E stettero silenziosi entrambi per un cinque minuti. La conclusione fu che il Sappia non diede altro consiglio ad Enrico e che Enrico si accontentò per quel giorno d'essersi sfogato coll'amico traditore. Così, e non altrimenti, corre ai giorni nostri la vita vera E chi desideroso di non trovarla tanto sconclusionata e smorta volesse caldeggiarla e idealizzarla, per seguire i dettami di chi odia la pretta verità, correrebbe rischio di dipingere una società di fantasia, mille e mille altre volte descritta dai maestri del passato, ma sterile poi e vuota di ammaestramenti ai filosofi socialisti.

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O tu mi dici che il conte non è nulla per te ed io ti credo, guarda, sulla parola e ti domando perdono delle insolenze che ti dissi ieri; o tu persisti a trattarmi così, e allora io ti ripeto che sei la più infame delle sgualdrine che io abbia conosciuto, e ti giuro che la prima volta che lo trovo, lo provoco e mi batto con lui all'ultimo sangue; ma prima gli dico il bel mestiere che facevi a Parigi... bada. - Oh? - sclamò Nanà; e scoppiò in una risata, perchè gli altri non s'accorgessero che la tempesta ruggiva. Ma poi pensò che bisognava tener buono il Marliani e riprese: - Tu sei troppo gentiluomo per fare una simile vigliaccheria. - Bada Nanà a non scherzare col fuoco. Tu non sai quello che mi fai soffrire. Non farti insultare daccapo. - Ma crè nom de... che siano proprio tutti continuamente uguali questi signori uomini? - sclamò Nanà quasi parlando a sè stessa. - Io credevo venendo in Italia di trovare tutt'altra cosa di quello che avevo trovato a Parigi.... M'accorgo che alla lunga valevano ancora meglio i miei compatrioti! - Io voglio una risposta - insisteva Marliani. - Io ti ho avvisata; la colpa di ciò che accadrà sarà tutta tua Nanà se non mi rispondi. - Che cosa vuoi che ti risponda, vediamo, maleducato che sei! - Se tu ami il conte O'Stiary. - Io non amo nessuno. - Ma egli è innamorato di te. - Bella novità! Chi è dei presenti, che non è innamorato di me? - Tu vuoi sposarlo. - Chi lo dice? - Me lo ha detto il Sappia. - Il Sappia è un asino - disse Nanà senza curarsi di mitigare l'epiteto, che le venne spontaneo sulle labbra. - Perchè dunque mi tratti così? Perchè mi hai lusingato di nuovo per farmi soffire così? - Com'è che ti tratto? - domandò Nanà. - Tu vorresti dunque che io fossi continuamente nelle tue braccia? Tu non vuoi assolutamente ammettere che ho fissato di mutare la mia vita? Siete dunque voi che continuamente vi opponete a che una donna possa diventare onesta? T'ho io forse detto qualche volta d'essere innamorata di te? E se io non sono innamorata con quale diritto pretendi tu che io resti eternamente la tua amante? - Qui non c'entra il diritto! - disse Marliani. - In amore so benissimo che non esistono diritti. I diritti non esistono che nel matrimonio. Ebbene! vuoi tu sposarmi Nanà? Io sono pronto. - Ma dunque siamo proprio daccapo come laggiù? - gridò Nanà ridendo e facendosi udire da tutti perchè si credesse che il loro dialogo fosse leggiero e insignificante. La Luisa, che stava civettando con Salis, volse il capo e domandò: - Dove laggiù? - A Parigi - rispose Nanà. - Figuratevi che il signor Marliani mi stava offrendo il suo cuore e la sua mano... Marliani si levò ridendo, sdegnato e andò a suonar una polka al pianoforte. Così, signori, così e non altrimenti, si esplica e si mostra la vita contemporanea. Regina, sovrana, arbitra, dea d'ogni cosa, al giorno d'oggi, è la santa dissimulazione, giacchè il peggior delitto di cui si possa macchiare un giovine odierno è quello di farsi vedere innamorato d'una donna... Ciò che nel medio evo era dovere d'ogni uomo bennato ciò che costituiva la vita de' cavalieri e dei trovatori oggi è diventato ridicolaggine. Che cosa volete capir bene de' fatti suoi quando vedete un uomo che ha come dicono gl'idealisti - la morte nel cuore andar a sedersi dinanzi a un pianoforte a suonar una polka allegra di Marco Sala o di Strauss, come l'uomo più spensierato della terra? Enrico O'Stiary entrò in quel punto. Egli non aveva potuto tenere la risoluzione di non andar quella sera da Nanà. S'era lasciato portare di transazione in transazione dinanzi alla porta di lei, aveva montate quelle scale maledette, era entrato protestando sempre, ma trascinato, suo malgrado, da una vera forza irresistibile arcana, fatale. Un oh! sincero e prolungato, lo accolse. Egli era simpatico a tutti, tranne che a Marliani, il quale lo esecrava. La Luisa gli corse incontro e lo presentò alla società come un figliuol prodigo, che fa ritorno alla magione. Questa alzata d'ingegno della Luisa non è a dire come dispiacesse all'Enrico, segretamente. Ma bisognava sopratutto avere del contegno. E lo ebbe. Nanà e Sappia furono i soli ad accorgersi che sotto a quel fare in apparenza ilare e disinvolto covava più fiera la tempesta che mai. Gli altri non capirono nulla. Enrico strinse la mano a Nanà dicendole buona sera, senza tradire la benchè minima emozione, poi si confuse ai crocchi circostanti. Allora il Marliani si staccò dal pianoforte, andò vicino a Nanà e le disse sottovoce: - O tu questa notte mi ricevi o io vado a provocarlo, ti avviso. - No, non posso. - Qualunque cosa avvenga Nanà, ricordati che la colpa è tutta tua. - Bene, finiscila, non seccarmi. Essa non credeva che Marliani avesse coraggio. Questi si levò pallido, zuffolando a sordino. Nei momenti più terribili, nelle crisi più tormentose del cuore, Marliani zuffolava a sordino, col muso in fuori. Si avviò verso O'Stiary. Nanà si volse repentinamente dall'altra parte dove stava Cantis, il giovinetto d'avvocato, che immemore d'ogni altra cosa che della propria adorazione concupiscente, stava là a covare cogli occhi il profilo di Nanà e il profluvio de' suoi capelli d'oro, e l'alabastrina morbidezza di quella sua pelle indemoniata, e il dolce avvallarsi del seno scoperto fin quasi ai capezzoli, tutte cose che mettevano nelle vene degli uomini, che l'avvicinavano così strepitosi fremiti. Essa gli disse: - Ernesto, avete voi coraggio per amor mio? - Oh, lo sapete bene, Nanà - rispose l'adolescente con immensa convinzione. - Io sono pronto a dar anche la vita per voi. - Marliani poc'anzi mi ha insultata. Io voglio essere vendicata, ma sull'istante. Andate là, provocatelo, fatelo uscire con voi dalla sala... Ma fate presto.... Sarete poi contento di me. Cantis s'alzò come invasato dal furore di Marte. Si slanciò presso Marliani, che stava d'accanto ad O'Stiary, e andava battendo colla sinistra un guanto sulla palma della mano opposta. O'Stiary stava colle spalle a lui rivolte, parlando colla Luisa e fingendo disinvoltura. - Caro signor Marliani - disse il giovinetto - avrei a dirle due parole. - A me? - sclamò il Marliani volgendosi di mala voglia a chi veniva così in mal punto a interrompere il suo divisamento. - Sì, a lei, a lei, se le accomoda - rispose forte il Cantis, in modo da essere inteso da tutti. - Oggi in studio m'è capitato di vedere il di lei riverito nome come gerente della ditta Marliani e Compagni - proseguì il giovinetto - e vorrei per suo bene metterla sull'avviso di certe cose, che devono interessarla assai. - Ma che cosa c'entra ora? - C'entra molto. Anzi, se non le è di disturbo, la prego di uscire con me. - Uscire? Perchè uscire? - Perchè non vorrei far uno scandalo qui fra questi signori, che hanno il diritto di non seccarsi per una nostra questione personale. Mi capirà che non è questo il luogo per certe spiegazioni! La prego di uscire con me. - Ah! - sclamò il Marliani. - Vedo che lei ha delle idee! - Davvero però che questo è un bel caso. Così dicendo diede una squadrata a lui e una squadrata ad Enrico, che aveva voltata la faccia verso di lui e stava ad ascoltare quel diverbio senza capire nè sospettare di nulla. - È davvero un bel caso! parola d'onore! - ripigliò Marliani amaramente sono a' suoi comandi. E s'incamminò verso l'uscio, seguito da Ernesto Cantis. Schiuse l'imposta e mentre stava per oltrepassare la soglia dell'uscio gli venne un'idea. Si volse e sclamò guardando ferocemente a Nanà: - Oh, ma forse ho sbagliato a dirlo un caso. Ma riderà bene chi riderà l'ultimo. - Cos'è stato? - È pazzo? - Che mosca l'ha punto? - Quel pivello però ha un certo chic di buona compagnia! - Si vede che è una vecchia ruggine! - Amerei sapere cosa va a succedere. - Bisognerebbe tenerli d'occhio... - Non la può finir liscia. Queste e altrettanti frasi uscirono dagli astanti appena quei due furono usciti. La sola Nanà sapeva tutto ma pregò tutti di star al suo posto. Gli altri si perdevano in false congetture. Nessuno dunque si mosse per tener d'occhio i due contendenti. E dopo cinque minuti tutti li avevano già scordati. - Che cos'hai stasera, Enrico, che non mi dirigi la parola? - disse Nanà al conte. - Non t'ho diretta la parola - rispose il conte coi denti stretti come un Inglese, lasciandone scivolar fuori le sillabe staccate e sibilanti, tanto era l'emozione da cui si sentiva preso - perchè avrei avuto voglia di ucciderti. Ora sono più calmo e ti parlo. - Uccidermi? Perchè? - Perchè tu sei la più infame prostituta, la più spudorata sgualdrina, che io abbia mai conosciuta di mia vita - rispose freddamente O'Stiary. Nanà impallidì; si volse a cercare colla mano la spalliera d'una sedia e si lasciò cadere in essa come stanca. Era, in cinque minuti, il secondo sanguinoso insulto, ch'essa riceveva sul viso. Ciò che bolliva nella sua anima di cocotte francese, basta accennarlo per farlo capire. - Perchè mi dici queste ingiurie? - balbettò. - Che cosa ti ho fatto? - Che cosa mi hai fatto? Tu hai tanta fronte di domandarmelo? Chi è che è uscito anche stamattina all'alba da queste camere? - Nessuno - rispose franca Nanà. E questa volta diceva il vero. - Sei bugiarda. Io so tutto. - Che cosa sai? - So che madama Monrichard è una invenzione, so che non sei partita da Milano, so che non sei tornata a casa ieri sera col marito di questa tua pretesa amica, so insomma che Aldo Rubieri sta con te tutte le notti, mentre tu mi fai soffrire per comparire onesta e per riuscir a sposarmi. - Se tutto questo che hai detto fosse un amasso di menzogne e di calunnie? - disse Nanà - che nome meriteresti tu? - Se tu sei capace di provarmi che io mi sono ingannato mi assoggetto a qualunque sagrificio. Ma subito. - Subito in che modo? - Mettiti il cappello e andiamo insieme a trovare madama Monrichard con suo marito e sua madre. - Ah, questo, per esempio, è impossibile - rispose Nanà sforzandosi di ridere. - Vorresti ch'io lasciassi qui gli amici? E poi io te l'ho già detto, non voglio che tu la conosca la Monrichard. È un puntiglio!... Pensa pure tutto quello che vuoi di me e non seccarmi oltre. Su questo ultimatum stettero un minuto in silenzio. - Enrico - disse Nanà ad un tratto - vuoi tu avere la prova la più certa che io non penso che a te solo, che non ho altri intorno a me, che non desidero altro che di poter essere tua? - Parla. - Partiamo da Milano, conducimi in fondo della terra, su una montagna dove nessuno sappia che viviamo, senza lasciar a Milano traccie di noi, senza che alcuno possa venir a seccarci. Sarai persuaso allora? E per farti vedere che io non ci ho interesse ma che ti amo non voglio neppure che tu mi dia la tua parola d'onore, che prima di esigere che io sia tua, mi sposerai... Ma almeno saprò che anche tu sei lontano dalla tua Elisa. Nanà non gli aveva mai parlato così. Enrico fu vinto. Lo spasimo che aveva durato fino allora lo aveva reso debole come un vigliacco: non diversamente il torturato dai frati domenicani riusciva dopo il tormento degli stivaletti o dopo lo strazio delle tanaglie roventi a dichiararsi reo d'un delitto imaginario. La felicità che gli pioveva a un tratto sul cuore dalle parole di Nanà era troppo viva, perchè egli ponesse indugio ad accettare la proposta di quella donna, che lo aveva ammaliato e che si dava anima e corpo in suo potere. Come avrebbe ella potuto resistergli ancora, una volta, che fossero insieme notte e giorno fuori di Milano? La vittoria, finalmente, la sospirata, la agognata vittoria era certa! In quel momento il desiderio lunghissimo e intenso, l'idea della conquista e del trionfo non gli lasciarono discernere neppur in ombra tutto quello che v'era di estremamente grave in una fuga da Milano colla famosa Nanà. E d'altronde ci avesse anche pensato come avrebbe potuto ritirarsi? Non ne avrebbe avuto nè la forza, nè la volontà. Acconsentì. In cinque minuti s'intesero e fissarono il punto della partenza. Doveva essere pel domani. Enrico non doveva dir ad anima viva che stava per andarsene da Milano. Avrebbero poi preso in alla bella donna, aggrottando le sopracciglia, ma beato in cuor suo. - Tu sarai sorpreso - disse Nanà - di vedermi qui da te, n'è vero? - Non ti dissimulo.... - Vengo, prima di tutto, a vedere cosa è successo iera sera con Cantis. - È pazzo quel fanciullo o l'hai aizzato tu stessa contro di me? - Perchè vorresti ch'io lo avessi aizzato contro di te? - Per salvare il tuo amante dalla mia vendetta. - Ma che amante! - disse Nanà sedendosi. - E dunque com'è finita. - Gli ho mandati i padrini e li aspetto fra poco. - Io non voglio che vi battiate. - Vedremo. Non ti posso dir nulla. - Io sono venuta a salutarti perchè parto. - Parti? Per dove? - Per Vienna. - Col principe? - Quale principe? - Il Kuvasoff. - Che c'entro io col Kuvasoff. - Via Nanà, non farmi l'innocentina. - Io ti dico che non parto col principe. - Con chi dunque? - Parto con un banchiere ricchissimo... che ha promesso di sposarmi. - E il conte O'Stiary. - Lo pianto qui. - Davvero? - Non posso partir con due. - Poverino! - Lo compiangi? - È tanto innamorato. Ma però fai benone. - Ti pare? - Benone ti dico. Non avresti potuto continuare un mese con lui. - Perchè? - domandò Nanà con voce molto indifferente. - Perchè ormai egli è spiantato... peggio di me. - Spiantato? - Spiantatissimo. - Da quando in qua? - domandò Nanà guardandosi le unghie. - Dacchè cominciò a far debiti. - Ha dunque molti debiti quel povero ragazzo? - Ne ha per circa settecento mila franchi. - È impossibile! Mi avrebbe mentito allora quando mi parlava del testamento di suo padre. - Domandalo al marchese Sappia, domandalo a Aldo Rubieri che lo sanno meglio di me. - Non ha egli ereditato da suo padre più di un milione? - Cosa c'entra? Un piccolo, un miserabile milione, che egli sciupò in poco più di tre anni. - Sarà molto dunque se riuscirà a conservare duecento o trecentomila franchi in tutto e per tutto? - Ma neanche. A poter disporre dell'eredità gli manca ancora un mese a dir molto. Pagati gli interessi e i debiti plateali egli resterà nudo come il giorno che è venuto al mondo. "Avrei fatto un bell'affare, sposandolo" pensò Nanà in cuor suo. Ma poi riflettè: "Non sarà vero nulla! Costui parla per gelosia." - Bene, - diss'ella - queste cose già a me poco importano. Io non sono venuta da te per questo come puoi imaginarti. Sono venuta da te, portata da un piccolo rimorso a chiederti un servizio. - Di danaro? - domandò sollecito il Marliani, colla voce in cui si sentiva il disinganno. Nanà pensò di lasciar credere per poco al Marliani ch'essa volesse chiedergli danaro, per vedere poi accolta con migliore garbo la sua preghiera, quando gli avesse detto che non si trattava punto di chiedergli un prestito. - Danaro! danaro! - diss'ella - sempre questo maledetto danaro! E si fermò a guardare Marliani nel bianco degli occhi. - Ebbene, parla - disse il giovine - in ciò che posso. Nanà, vedendo le buone disposizioni di Marliani, fu lì lì per chiedergliene subito davvero. Ma poi pensando d'aver qualche cosa di più interessante pel capo, ripigliò ridendo: - No, non voglio avere ancora danaro da te, se non me lo sarò meritato. Dopo se potrai darmi un paio di mille franchi, mi farai gran piacere. Sappi dunque che io potrò giovarti assai se mi vorrai obbedire... Vedi che in caso tu non mi daresti che la senseria. - In fondo sei una gran buona fanciulla! - disse Marliani che cominciava a intenerirsi. - Io non voglio lasciare di me brutta memoria in questa città, che mi è stata tanto gentile e simpatica. Noi forse non ci vedremo mai più; ma ho bisogno di partire col cuore in pace e sono venuta come vedi, a congedarmi. Vuoi tu che ci lasciamo in pace? - Come si fa a negarti una cosa simile? - sclamò il meneghino, che s'inteneriva sempre più. - Eppure io so che tu stavi preparando una vendetta. - Sì..., ti confesserò che io avevo stabilito di scrivere a O'Stiary per metterlo in guardia contro di te e per raccontargli il tuo passato, come del resto, te l'ho minacciato ieri sera. - Vedi dunque che ho fatto bene a venire da te. Io non so quando partirò, ma nel frattempo tu puoi figurarti quanto io ci tenga che i miei amici non sappiano nulla di brutto sul conto mio. Noi dunque dobbiamo tornare amici, almeno fino alla mia partenza. Poi ci scriveremo... È così bello sapere che si hanno qua e là dei cuori che pensano a noi, che ci vogliono bene. Accetti? - T'ho già detto, Nanà, t'ho già detto che a te nulla si nega - rispose il giovine che sentiva a sfumar dall'animo dolce ogni risentimento verso quella strega di bellezza. - Ebbene, ascolta un mio progetto su di te. Dal giorno che ti seppi in cattiva posizione, io ho pensato di far qualche cosa a tuo vantaggio. Vedi che io ho cuore. Avrei trovato il modo di farti qui in Milano una buona posizione. - Tu? - L'uomo col quale debbo partire - disse Nanà - tiene qui a Milano moltissimi interessi bancarî e commerciali. Io ho il potere di farti nominare suo rappresentante. Si tratta per te di otto o diecimila franchi di guadagno all'anno. Marliani stentava a credere alle proprie orecchie. "Possibile che Nanà Nanà egoista, Nanà spensierata, Nanà prodiga, Nanà alienissima dagli affari, - fosse così buona e così provvida per lui?" - Tu mi colmi - disse egli prendendo una mano della bella e baciucchiandogliela con passione. Stasera ti porterò i due mila franchi. Ah, se la Bibò fosse entrata in quel momento! I baci di Marliani erano espressivi al punto da scrocchiare sulla pelle di Nanà come la frusta d'un postiglione in grazia divina divina- Ascolta dunque - ripigliò Nanà ritirando dolcemente le mani da quelle di Marliani. - Io non posso metterti in relazione qui a Milano con lui, perchè egli non vuol essere conosciuto. Ma ti fidi di me? - Come non fidarmi? - Vieni a trovarmi dopo pranzo, ma non dopo le otto. Saremo soli e discorreremo. Ti dirò tutto quello che avrò ottenuto per te dal mio nuovo... grande industriale. - Come ringraziarti? - Non voglio ringraziamenti; voglio soltanto essere tua amica e star certa che tu non mi vuoi far del male. Nanà si era levata in piedi e aveva stesa la destra a Marliani per congedarsi. - Non ne dubitare, angelo mio - disse Marliani ricominciando a imprimere un'altra sonora dose di baci sulla di lei mano. E fu in questo punto e sulla frase: "non dubitarne, angelo mio" che Bibò fece la sua tacita comparsa dalla fatal porticina di fronte alla scrivania. Nanà aveva già voltate le spalle a quell'usciolo e non vide Bibò. Soltanto che, udì il Marliani, il quale, tutt'a un tratto, cambiando perfino il tono di voce, soggiungeva: - Questi baci fatti così, e quella frase "angelo mio" detta da lei in tal modo, sono certo faranno crollare il teatro sotto gli applausi. Essa si volse indietro come per dirgli: "ma cosa diamine mi vai farneticando ora?" vide Bibò, terribile, colle mani sui fianchi, la faccia scarlatta, le furie nello sguardo capì tutto e non potè a meno che scoppiare in una omerica risata, dicendo a Marliani: addio, addio! Bibò diè un passo innanzi. Nanà uscì fuori in fretta si cacciò nel suo brougham e disparve ridendo sempre. Bibò e Fiffo fecero una lite impiccata e tale, che se ne ricordano ancora oggi i casigliani. Il lettore se la imagini. - "Uno è a posto!" pensò Nanà. Ora al marchese Sappia. Da lui saprò se è vero che Enrico è rovinato... In tal caso mi attacco definitivamente al principe; lo obbligo a dividersi da sua moglie e vado in Russia con lui. Il marchese Ferdinando Sappia aveva le sue entrate notturne da Nanà al martedì e al sabbato. Questo fatto urterà i nervi e il senso morale di ogni persona ben nata; urtò anche i miei. Ma ne ha colpa forse il romanziero se certe donne sono proprio così fatte? Se le adulate, se nascondete il vero su di esse, dov'è la morale? Il Sappia era uno dei tre a cui la cortigiana parigina impartiva i suoi favori - lei credeva in gran segreto, - per soddisfare a' imperiosi bisogni di donna afrodisiaca, e al suo bilancio eternamente in deficit, come quello del regno d'Italia; malgrado che a rimpinzarlo ci avessero già pensato in quattro: Marliani, O'Stiary, Sappia e Kuvasoff. Quanto al principe Kuvasoff, era ammogliato ad una mongola, brutta e gelosa come una gatta in aprile, e teneva un appartamentino per gli appuntamenti con Nanà in una nota via. Dinanzi alla porta di casa Sappia, Nanà scese dal brougham, entrò dal portinaio e lo pregò di avvertire il marchese che una signora aveva urgente bisogno di parlargli. Il marchese padre e la marchesa madre erano in campagna. Sappia discese. Essa lo pregò di accompagnarla sin da Rubieri e rientrarono entrambi in carrozza. - Che cosa c'è di nuovo? - Io credevo - disse Nanà - che tu fossi un gentiluomo e temo di dovermi disingannare. - Mi farai piacere a spiegarti. - Ti avevo pregato di non dire al tuo amico O'Stiary in qual luogo a Parigi tu mi avessi incontrata. - Ebbene? - Non è che a me importi del conte O'Stiary o di chiunque altri di questa terra; ma gli è soltanto che mi dispiace di trovar in te un uomo che dice di amarmi e che non ha saputo mantener il segreto. - Enrico ti ha forse detto di aver saputo di madama Tricon? - No, ma se lo sa non puoi essere stato che tu a dirglielo. - Se lo sa non può essere stato che Marliani. Io non potevo dirglielo, neppur volendo, giacchè quando gli parlai di te gli ho inventate cose tali che ora avrei fatto la figura d'un bugiardo e d'un blagueur, se avessi dovuto dirgli la verità. Da questa confessione del Sappia Nanà fu pienamente rassicurata. - Ebbene ti credo. L'avrà saputo da Marliani. Oh del resto ormai poco m'importa, giacchè devi sapere, mio caro, che io sono obbligata di partire da Milano. - Tu parti? - sclamò il Sappia leggermente commosso da questa notizia. - Tu non sai ancora un segreto della mia vita, che ho sempre taciuto a tutti. - Ed è? - Io sono maritata. - Tu? - E amo mio marito. - Tu? - Mio marito mi richiama a sè in Francia e mi perdona il mio passato. - Dov'è ora questo tuo marito? - A Parigi. - E tu fai conto di tornar a Parigi? - Sì - rispose Nanà mestamente. - È molto tempo che sei maritata? - Due anni. - Dunque quando io ti vidi a Parigi non lo eri ancora? - No. - Tuo marito è ricco o povero? - È povero. - E tu vuoi tornargli insieme? - Si. Egli riconosce e addotta il mio Louiset. - E lo ami? - Sì. - E quando partirai? - Non lo so. Aspetto ch'egli mi telegrafi il giorno. - E di Enrico, del mio povero conte, che ne fai tu? - Lo lascio. - Egli ne morrà. - Oh non si muore più adesso per queste cose - sclamò Nanà. - Egli sposerà la sua Elisa. - Ahimè! - disse il Sappia. - Io temo che anche quel suo matrimonio sia andato a monte. - Perchè? - Perchè Enrico è rovinato. E tu certo non puoi vantarti di non esserci entrata in buona parte. - Ma è dunque vero, che è rovinato quel povero Enrico? - sclamò Nanà con voce compassionevole. E fra sè pensava intanto "Ah il mio petit crevè stai fresco ora." - Non gli resterà tanto da tenersi un cavallo. - Io non ne ho colpa. Io non gli ho mai chiesto danaro. I regali già non si possono rifiutare. - Oh del resto - notò il Sappia - ti permetto di non avere rimorsi. Egli era già quasi rovinato prima che tu venissi a Milano. "Assolutamente - pensò Nanà fra sè - se lo sposassi ora che posso essere certa che egli è rovinato, sarei una gran baggea. Bisognerà pensare ad altro." - Senti un pò - disse Sappia. - Se io ti accompagnassi a Parigi? Che ne pensi? - Impossibile. - Perchè impossibile? - Perchè mio marito verrà a levarmi di qui. Il Sappia si strinse nelle spalle. Che cosa gli restava a dirle di più? Egli non era l'uomo da far delle pazzie per Nanà. Anzi ond'essere vero sempre, fino alla feccia, c'è da confessare che tra i pensieri del marchese scattò spontanea e pronta questa frase che fa onore alla di lui saggezza: "Meglio così! Tanti risparmiati!" La confessione però, di quell'amore per un marito qualunque, gli giungeva così nuova ed eteroclita, che ne dubitò. Si propose di sorvegliare Nanà e di scoprire l'arcano, che doveva covare sotto l'apparente sincerità della cocotte. cocotte.Erano giunti a casa di Aldo Rubieri. - A rivederci questa sera - disse Nanà. - A proposito, sai che ieri sera Enrico non è venuto da me? - Tiene il broncio? - Sicuro. Il Sappia tornò col brougham a casa. Nanà trasse di tasca una piccola chiave, fè il giro dietro la casetta di Rubieri e per una porticina seminascosta dietro l'edera entrò nel guardino. Gignous avrebbe delirato di gioia, vedendolo. Parlo del giardino di Aldo Rubieri, che Mattia Corvino chiamava con innocente iperbole il giardino incantato incantatoEra vasto. Ma quantunque chiuso fra quattro mura, sembrava sterminato intorno intorno. I muri erano tutti coperti di edera folta, e dinanzi ai muri, stavano piantate tre filari di pini delle Alpi. Nell'edera, Aldo aveva saputo praticare certi effetti di luce, di chiaroscuri e di sfondi, da farli scambiare fra le macchie più avanzate, per cannocchiali di una foresta folta, che contornasse tutt'all'ingiro il giardino. Un'illusione ottica maravigliosa. Certo era quello il più bello e il più fresco giardino di Milano. D'onde mai il Rubieri fosse andato a tirare l'acqua perennemente zampillante dalle tre fontane e formante la vaga cascatella, tra il tufo e i sempreverdi, nessuno lo sapeva, tranne Nanà, la signora Marietta e il Cicerone. Il fatto è che v'era una delizia di frescura e di verde ammirabile. Nanà aveva dichiarato che ci sarebbe vissuta volentieri tutta la vita. Rubieri aveva accolta quella dichiarazione come un complimento al suo buon gusto e null'altro. - Sei qui, mia splendida bellezza? - disse Aldo vedendola entrare nello studio. - Sono qui, e per l'ultima volta. Dopodomani parto - rispose Nanà. - Dove vai? - A Napoli. - A far che? - A recitare. Sono scritturata a mille franchi al mese. - Tu? - Io. - Ma chi è quell'impresario balordo, che ha il coraggio di darti mille franchi al mese? - Come siete sempre grossolano con me, caro Aldo! - disse Nanà. - Ah, tu sai bene che io non faccio complimenti neppur alle donne belle. Il Rubieri fin dal primo giorno s'era avvezzo a non subire il fascino sensuale di Nanà. Egli considerava la sua modella come una bellissima creazione dal solo punto di vista dell'arte. Tutte le moine e le seduzioni di lei, non erano riuscite a smuoverlo dalla sua sovrana indifferenza. Egli aveva altro pel capo. La trattava come un fanciullo, e Nanà sentiva di lui un poco di soggezione. Era tutto il rovescio di quello che accadeva cogli altri adoratori, i quali invece avevano suddizione di lei. Talvolta Rubieri le parlava seriamente come da padre. Egli amava di comparire ai di lei occhi un uomo serio. Oltre che, era portato a questo dal suo carattere, pensava che parlando in francese di cose serie, egli avrebbe fatto miglior figura. Pei calembours egli non ci aveva l'incornatura. Nanà trovava un gusto nuovo a questa, per lei, grandissima novità. Se a Parigi qualcuno le avesse detto una cosa simile, gli avrebbe dato dell'idiota. Ella si sentiva come riabilitata ai propri occhi, finchè stava con Rubieri e ascoltava senza noia il suo Fidia. Spesso, ella si maravigliava d'essere capace di udire senza sbadigli certe tirate, che era avvezza a considerare come solenni pedanterie. Ma il segreto di questa nuova attenzione lo si comprende pensando che ella aveva ormai uno scopo serio nella sua vita. - Nanà, ascolta - disse Rubieri sedendosi vicino a lei - io ho bisogno di sapere da te se il conte O'Stiary ti accompagnerà a Napoli. Nanà guardò sorpresa in faccia a Rubieri. - Perchè mi hai fatta questa domanda? - Perchè ci ho il mio grande interesse a fartela. - Si può sapere questo interesse? - Non c'è nulla che mi vieti di dirtelo. Tu sai che Enrico era promesso sposo della signorina Elisa Martelli. - Ebbene? - Da qualche tempo questo matrimonio pericolava assai, perchè Enrico pensava tanto alla bella Elisa come io penso alla regina di Golconda. - Lo so. - Ma se tu riesci a condurlo via con te, gli è come dire che andrebbe proprio a monte del tutto e definitivamente. - Ah, ho capito; e allora tu, n'è vero, ti faresti sotto? - Perchè no? È una delle più belle fanciulle di Milano. - Con trecentomila lire di dote. - Non dico di no. - E se io ci riuscissi a fare questo colpo, quale sarebbe la mia ricompensa? - Proponi. - Ma prima di tutto è necessario che io sappia in quali acque si trova oggi il conte. È vero che è rovinato? - Non del tutto, ma quasi. - Capirai Aldo, che il fuggire con un uomo rovinato, di cui non si sia pazzamente innamorata, non è proprio l'ideale del saper vivere. - A me basterebbe che tu me lo tenessi lontano un mese. Per questo mese io penserei a te. - Io non mi fido. - E se ti sborsassi il danaro prima di partire? - Allora sì. - Ti bastano duemila franchi? - Peuh! Facciamo tre. Aldo si alzò, e andava difilato allo scrigno, quando un dubbio lo fece arrestare: - Tu non ti fidavi di me. Dovrò io fidarmi di te? - Se non ti fidi tralascia - disse Nanà. - Non potresti dirmi qualche cosa che mi affidasse che tu saprai davvero trascinarti dietro il giovinetto? A Nanà venne un'idea splendida. - Io l'ho il mezzo. - Quale? - Gli scrivo un biglietto qui; egli mi risponderà che è pronto a fuggire con me, e tu lo leggerai pel primo. - Se tu sei così brava ti snocciolo subito uno sull'altro i tre biglietti da mille. - Dammi da scrivere. Aldo la condusse nel gabinetto da studio. Nanà scrisse: "Mio adorato Enrico, "M'è nato il dubbio che tu abbia mutato di parere. Assicurami subito che tu sarai pronto questa sera, per l'ultima corsa di Arona, a partire con me. È necessario che non ci vediamo prima di quell'ora per non dare sospetti. Alle dieci io ti aspetto in casa. Sarò pronta. A rivederci. Rispondimi subito. "Tua NANÀ." Un'ora dopo il Mattia Corvino, che era stato mandato a portare il biglietto al conte O'Stiary, recava la risposta: "Mia Nanà, "Non dubitare. Alle dieci di questa sera io sarò da te e partiremo insieme. Io ho già salutato Milano forse per sempre. Ciò che però non ti ho ancora detto a voce te lo dico in questo estremo momento. Io non sono più ricco e a te povera Nanà toccherà forse di avere delle privazioni per vivere con me. È un dovere imprescindibile che mi spinge ora a farti questa confessione. Mi ami tu abbastanza malgrado ciò? Me lo dirai domani sera lungi da Milano, quando sarai finalmente nelle mie braccia. "Tuo ENRICO." - Che ne dici? - domandò Nanà trionfante. Rubieri era pensieroso. - A che pensi? - Penso che voi due vi eravate già intesi di fuggire stasera insieme. - Può darsi! - Senza le mie tremila lire, dunque? - Ero venuta per chiedertele ugualmente. - E se io te le avessi negate? - Saresti stato padronissimo. Ma ora mi pare che mancheresti di delicatezza. - Ho scherzato. Volevo vedere come la pigliavi. Aldo andò allo scrigno portò a Nanà i tremila franchi, ch'ella ripose con grandissima indifferenza e con un semplice merci nel portamonete. Poi dato uno sguardo all'orologio e col pretesto delle mille faccende che le restavano da sbrigare per poter partire, s'accomiatò. "Queste le tengo," pensò Nanà, rincantucciata nel brougham, che la portava alla palazzina del principe Kuvasoff; e andava palpando e ripalpando il portamonete con immenso giubilo. Il principe Kuvasoff aveva i suoi erotici colloqui con Nanà nell'appartamentino della casa in cui trovasi oggi la Cronaca Grigia Essa aveva due uscite. Il principe entrava da una parte, Nanà dall'altra; e quando si lasciavano, Nanà usciva dalla parte per cui il principe era venuto e viceversa. In tal modo essi avevano sventate le ricerche assidue della principessa, la quale teneva due spie sulle traccie di suo marito e non aveva potuto saper nulla ancora di quel convegno. - Mio caro principe - disse Nanà - che arrivata prima di lui stava sdraiata su un'ottomana ad aspettarlo fumando una sigaretta - oggi grandi novità. C'è chi si è incaricato di rapirmi a voi. - Ah dev'essere un grande uomo di forza costui! - sclamò il principe sedendosi vicino a Nanà e cingendole la vita col braccio. - Egli mi ama come un pazzo - disse Nanà. - Ed io dunque vi amo forse come un saggio? - Vediamo dunque. Che cosa sareste pronto a fare voi per me ond'io non accetti le proposte di quell'altro? - Tutto quello che vuoi. - Sareste pronto principe a dividervi dalla principessa e a condurmi in Russia con voi, come mi avete detto altre volte? - Sempre. Io già da un pezzo, lo sai, rumino l'idea di liberarmi da quell'arpia. - Allora birba chi manca. Toccate. Il principe diè la mano a Nanà. - Quando partiamo? - Anche stanotte se vuoi. - Sta bene. Io sono pronta. - Ma non converrà partire insieme. - È vero partiamo da soli e troviamoci in un'altra città. - Dove per esempio? - A Venezia. È sulla strada per andar in Russia. Furono presi tutti gli accordi più necessari, e il principe le diede cento napoleoni d'oro per le spese del viaggio da Milano a Venezia. E Nanà li mise insieme ai tremila franchi di Rubieri. Il resto del colloquio andò poi co' suoi fiocchi; ma noi è meglio che lo lasciamo nell'ombra. Il giorno dopo tutta Milano, - voglio dire la tutta Milano settembrina, che ha tempo e voglia di occuparsi dei fatti altrui - parlava della sparizione di Nanà e di quella contemporanea del conte Enrico O'Stiary. Quanto al principe Kuvasoff egli si fece veder al Corso in coupè coupèallato di sua moglie, e non lasciò Milano per Venezia che il giorno dopo. Ma che cosa era capitato ad Enrico O'Stiary? Due ore prima di quella fissata alla partenza con Nanà egli era andato da lei, e aveva trovato dal portinaio questo biglietto: "Caro Enrico, "Siamo sorvegliati. È impossibile andar via insieme. Io deludo lo spionaggio di chi potrebbe impedirmi di partire con te e parto subito. Mi troverai a Torino al Feder, a meno che non mi tocchi di continuare il viaggio fino a Macon. "A rivederci. "TUA NANÀ." Enrico questa volta non ebbe sospetti gravi; ma sentì una specie di maraviglia disgustosa, che ci fosse taluno il quale potesse impedire la partenza di Nanà. La sua mente corse tosto a Aldo Rubieri, ch'egli credeva suo fortunato rivale, e fu lì lì per andare da lui a chiedergli una spiegazione. Ma consultato l'orologio capì che non aveva tempo da perdere; mandò Aldo al diavolo in cuor suo, e giubilando al pensiero che fra poche ore si sarebbe trovato al fianco della donna adorata, si fece condurre alla stazione dove pranzò; quindi partì per Torino. Chi domandasse poi il perchè Nanà si fosse divertita a far anche quest'ultima burla crudele ad Enrico mostrerebbe di non conoscere di quali capricci sia fecondo l'isterismo d'una cocotte parigina

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. - Non negherò che il conte sindaco abbia una certa deferenza per me rispose Aldo - ma da questa al far tutto ciò che io desidero ci corre. E poi c'è il Consiglio. - Ma lei appartiene alla maggioranza.... - Questo è vero! Se il sindaco vuole, del Consiglio ce ne infischiamo. - Dunque una mano lava l'altra. Io le do mia figlia e lei mi fa ottenere la concessione. - Mi spiacerebbe che la signorina Elisa sapesse che.... - La Elisa non deve saper nulla delle nostre faccende - disse il padre. Siamo intesi? - Ma dal canto mio - rispose Aldo - lei può imaginarsi se non mi metterò colle mani e coi piedi perchè questa concessione le sia data... se non che.... - Non è certo di ottenerla? - Come lei, caro don Ignazio, non è certo di ottenere il consenso di sua figlia. - Eh l'otterremo, non la dubiti, l'otterremo - sclamò il notaio scotendo il capo con un sorriso fra il malizioso e il soddisfatto. - La Elisa è una testolina sì, che ha le sue idee, non dico, ma che non mi ha mai disobbedito finora; e credo non vorrà cominciare dal momento che io le proporrò un giovinotto come lei, un uomo celebre, assessore municipale.... - Basta basta, don Ignazio, non la mi faccia arrossire ora. Piuttosto le dirò..., caro cavaliere... le esporrò un mio dubbio..., ch'ella potrà distruggere o avvalorare secondo la verità. Io, come lei può ben pensare, non vorrei per tutto l'oro del mondo ottenere da sua figlia un consenso che potesse per avventura essere un po' forzato. Io non sono in confidenza colla signorina Elisa e non so come ella stia di cuore. So però, come tutti gli amici di casa, ch'ella ebbe sempre una grande inclinazione per il suo compagno d'infanzia.... - Vedo dove ella tende - disse don Ignazio - e le risponderò francamente. La Elisa infatti aveva un certo attaccamento per il conte Enrico, mio pupillo, ed io e mia moglie certamente saremmo stati felici di vederla diventare contessa, se quel balordo di un giovinotto non avesse distrutto, colla sua condotta impossibile, ogni nostra speranza. - Sta bene - riprese il Rubieri - e non sarò io certo che mi lamenterò di questo fatto. Soltanto che... lei sa bene... le fanciulle talvolta amano più gli scavezzacolli che i giovani ordinati e prudenti. - Oh io spero poi che la mia Elisa sia ormai persuasa che io non le darei giammai il consenso di sposare il conte. - Lo credo - disse Rubieri - ma ciò non mi dice ancora ch'essa non ne sia sempre innamorata. Il padre a questa uscita di Rubieri stette muto, ma col capo alzato, collo sguardo fisso e col labbro infuori, pareva chiaramente dicesse: "Chi va mai a sapere ciò che si cela nel cuore di una fanciulla? Questo toccherà a lei!" - Certo che - riprese Aldo - quando la signorina Elisa saprà quello che è accaduto ieri sera del nostro Enrico... - Che cos'è accaduto? - Vedo che lei non sa nulla... e da un lato mi dispiace di dover essere proprio io il nuncio di nuova disgrazia. - Cosa diamine gli è capitato? Forse ha perduto qualche altra somma al giuoco? - Peggio. - Peggio di perdere al giuoco? - domandò con sorpresa don Ignazio - La dica, la dica. - È partito da Milano con quella sua... - Ah quella donnaccia francese... forse... la di lei modella? - Precisamente. Don Ignazio si gettò sul cordone di un campanello e al servo che comparve sulla soglia dell'uscio disse: - La signora è levata? - Donna Eugenia... sissignore. - Ditele che venga giù subito, che c'è qui il signor Rubieri. Poi voltosi a questi: - Ella è ben certa che sia proprio partito con lei? - Certissimo. - Essa ha nome Nanà, n'è vero? - Nanà appunto. - Ah, che testa, che testa! - gridò don Ignazio giungendo le mani in atto di maraviglia. - Ma già fu sempre uno scapestrato! Si poteva aspettar da lui questo e altro. Donna Eugenia comparve, e le fu raccontata la cosa. Ella se ne mostrò altrettanto addolorata quanto suo marito pareva ne giubilasse. - Ormai - sclamò egli - spero bene che la ragazza sarà persuasa e convinta, e non avrà più ragione da opporci. Tocca a te ora, cara Eugenia, a informarla. La signora Eugenia protestò che non ne aveva il coraggio. Ella avrebbe passato il lago a nuoto più volentieri che dar all'Elisa quel brutto colpo. Povera donna come sei ammiranda nel tuo materno imbarazzo! Ella si era prestata spesso a far quello che suo marito le raccomandava di fare, cioè dissuadere la fanciulla dal voler bene all'Enrico. La Elisa dal canto suo non aveva mai aperto a sua madre l'animo proprio ferito nel vedersi trascurata dal suo giovine amante. Regnava tra madre e figlia una specie di delicatezza, una suggezione riguardosa su questo argomento. Entrambe temevano di farsi reciprocamente un dispiacere, e ne tacevano. "Oh, non c'è argomento - pensava la madre - che valga a distruggere l'impero di dieci anni di sogni e d'illusioni d'amore." Ma volere o non volere bisognava spiegarsi. Bisognava aprir gli occhi alla innocente creatura e raccontarle finalmente la fuga di quell'ingrato. - Ascolta Elisa... - incominciò - io capisco che tu pensi ancora... Ed io t'avrei a dire una cosa molto seria quest'oggi. Ti imagini tu, cara, di che cosa io ti voglia... dire? - Me lo imagino - rispose la fanciulla con un sorriso tra la speranza e la malinconia. - Dimmelo allora. - Io spero che tu mi voglia parlare di Enrico. La signora Martelli attirò sua figlia al seno e la baciò passionatamente. - Oh, perchè piangi? - sclamò Elisa vedendo i lucciconi negli occhi di sua madre. - Ascolta Elisa. Se tu dovessi persuaderti che il conte O'Stiary non è degno di te? - Tu me lo hai fatto capire altre volte - disse la fanciulla - ma io non voglio crederlo ancora. Egli è pieno di cuore e di onore. Che cos'avrebbe fatto per non essere più degno di me? - S'egli ti avesse miseramente ingannata, dicendoti che ti amava, mentre.... La Elisa si rizzò in piedi come se una molla potente l'avesse sospinta in alto, e portò istintivamente le due mani sui polsi. - Mamma, per carità! - Lo dicevo io - sclamò sua madre spaventata. - No, anima mia, non far così. Elisa... chissà che non sia una calunnia... quetati. La fanciulla si era rimessa tosto. - Ah! - disse con un gran sospiro - non è dunque una cosa certa? E difatti è impossibile! Io sento che egli non ama che me. Ne sono sicura. Io lo so ch'egli ha conosciuto un'altra donna. So tutto... ma! "Oh molte altre donne" pensò fra sè la madre. - Ma egli non ci ha voluto bene a quella... Me lo confessò lui stesso. Fu una sorpresa, un capriccio, che so io? La signora Eugenia ascoltava sua figlia con una specie di sgomento. Essa non aveva calcolato la portata del colpo che era obbligata di darle. Essa non credeva che sua figlia fosse capace di tanto affetto. - Ma - ricominciò la povera donna - se invece ci fosse in lui qualche cosa di molto serio? Se egli ti dovesse dare la prova certa del suo tradimento? - La prova? - sclamò la Elisa sorpresa. Quale prova? Che cosa ha fatto? Oh, finchè egli stesso non me lo dica colla sua bocca, che ha cessato di volermi bene a me sola, io non crederò a nessuno. - E s'egli non potesse più dirtelo? - Oh mamma! - gridò la Elisa sopraffatta da queste strane parole. - Perchè? Che cosa gli è accaduto? Per pietà mamma. - No, non spaventarti così, cuor mio! Oh Elisa la mia Elisa, sia buona, non far soffrire in questo modo la tua povera mamma... sia ragionevole. - Ma sei tu mamma che mi fai soffrir me! - disse la fanciulla. - Oh parla, ti scongiuro. - Credi tu che se non fosse necessario io non t'avrei risparmiato questo dolore? - Ebbene, parla mamma, ti ascolto; vedi, sono ragionevole, parla, sono buona.... E fu allora che la madre le narrò la fuga scandalosa di Enrico con Nanà. Elisa che stava in piedi si sedette, pallida molto. A sua madre che la fissava ansiosamente, sembrava di vederla come a trasformarsi. Non una esclamazione, non un lamento, non una lagrima. - Quando successe questo? - domandò la fanciulla con voce ferma. - Ieri l'altro. Fu Rubieri stesso che venne a dircelo. - È cosa certa? Rubieri non potrebbe essersi ingannato? - Ah, pur troppo no; diede tutti i particolari. E la madre baciò con passione la Elisa. Allora la povera fanciulla fu presa dall'accoramento; il gruppo del dolore si sciolse, e scoppiò in lagrime. - Oh mamma, bisogna che tu mi guidi, se no non so che cosa accadrà di me - diceva la povera fanciulla singhiozzando. Così dicendo, ella stringeva convulsivamente le mani di donna Eugenia e le portava alle labbra per baciarle, come un bimbo che domanda scusa. - Io lo amo mamma, io lo amo il mio Enrico. Mi pareva che egli fosse così sincero. Io non vivevo che per lui! - Elisa, fatti animo - le disse donna Eugenia - bisogna che tu impieghi ogni mezzo per dimenticarlo. Tu sei troppo esaltata, figlia mia. Oh, credi tu forse che io non ti comprenda? Credi tu forse che anch'io.... Si arrestò. Un'emozione profonda scuoteva suo malgrado quell'anima, che pareva a tutti impassibile e fredda. Un segreto di amore stava per cader dalle labbra della matrona; erano forse più di vent'anni che il suo cuore si era chiuso alla idea d'amare un'altra creatura che non fosse la sua Elisa; il dolore di sua figlia aveva risvegliato nel suo cuore la lontana rimembranza. Una tempesta assai terribile doveva avere durato quel cuore, che da tanto tempo scordava di avere sofferto, se la nuova passione di sua figlia vi aveva saputo ridestare tanto eco di dolore e di compianto. La madre accolse la sua creatura nel braccio destro; colla mano sinistra le fece appoggiare la testolina sul proprio seno. E le sue lagrime di madre cadevano sulla bionda testolina di quel suo angelo sconsolato, e il dolore di entrambe, pur tanto diverso, si confondeva là su quel seno in un solo dolore.

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Credete voi che egli abbia accettata la commissione? Neppur per ombra. Io ero presente quando Aldo Rubieri rispose al messo di Garibaldi, che era venuto là in studio a portargli la ordinazione, credendo di fargli un grande onore: "Dite al generale, che cento mila lire per un gruppo alto un metro e mezzo è troppo! E che io non ho tempo per un simile lavoro." - Ciò è bello! - sclamò la zitellona. - Ciò è stupido! - disse il padre. - Ciò è assurdo! - osservò lo zio.... - Un'altra volta, sarà una settimana, cacciò fuori dal suo studio un principe russo che voleva sforzare la porta per correr dietro alla signora Nanà. Al nome di Nanà, tre esclamazioni contemporanee uscirono dalle bocche austriache. - Ah! - Ih! - Oh! Il Cicerone, sorpreso, si arrestò di botto. - Chi è la signora Nanà? - fu prima a parlare la zitellona. - Chi è la signora Nanà? - disse quasi contemporaneamente, il padre. - Chi è la signora Nanà? - stava dicendo lo zio a sua volta; ma si tacque, udendo che la domanda veniva già fatta dagli altri due. - Nanà è la più bella donna del mondo - rispose enfaticamente il Cicerone. - Nanà è un'artista francese, che ora serve di modella per la Venere Venerecontemporanea Venerecontemporanea- Venere contemporanea? - sclamò Leopoldina - cosa vuol dire? - Vuol dire una Venere decente - rispose il Cicerone - una Venere non del tutto ignuda; una Venere della quale si vedano e si indovinino le forme divine in quelle parti decenti, che sono divinamente formate dalla natura e si dissimulino le parti che le donne del giorno d'oggi hanno meno belle, e che non si devono rappresentare. - In tal caso - osservò con un certo acume uno dei due Tedeschi - non arrivo a capire il perchè si parli di Venere, che viceversa è il nome di una Deità molto classica e interamente nuda. - È vero! - sclamò il Cicerone, colpito da questa osservazione. - Ma debbo dire che in caso l'errore è tutto mio. Io sono vecchio e non ho potuto ancora svestirmi totalmente dei pregiudizi classici. La statua del mio maestro sarà un'opera d'arte che protesti energicamente contro l'invasione moderna dell'impressionismo, del realismo e della sprezzatura esagerata nella divina arte scultoria, che deve essere liscia e finita e non brizzolata e rugosa come la robaccia della scuola nuova. I forestieri capivano e non capivano. Il Cicerone era come invaso da un santo sdegno. - Ma dunque - uscì finalmente a dire il padre - il signor Aldo crede ancora possibile una Venere, dopo tante che ce ne lasciò l'antichità? - Perchè no? - proruppe il Cicerone. - La bellezza non è forse eterna? La bellezza del nudo non tramonta mai! - È tanto bella? - domandò di nuovo la donna - questa signora Nanà? - Bella è, secondo me, una parola un poco insignificante per esprimere che cosa sia la signora Nanà. Essa è un portento. - Dicevate dunque - disse il padre austriaco, quasi volesse stornar il discorso dalle imagini troppo estetiche.... - Io stavo dunque dicendo - ripigliò il Cicerone - che Aldo Rubieri è ancora più in voga pel suo carattere che pe' suoi lavori, e raccontavo che aveva cacciato fuor dallo studio il principe russo, mentre il giorno dopo aveva spalancata la porta del suo più segreto penetrale ad un povero pittorello di Roma, che viaggiava per istruzione col sacco in spalla; egli fece colazione con lui nel giardino incantato. - Ah, c'è anche un giardino incantato? - domandò la matura fanciulla spalancando gli occhi grigi. - Incantato, per modo di dire - rispose il Cicerone - ma è tanto più incantato dopo che lo frequenta la signora Nanà, giacchè, secondo me, un luogo dove regna e dove respira, foss'anche una mezz'ora al giorno, una creatura come la signora Nanà, quello diventa per forza un luogo incantevole. I sei occhi dei tre personaggi austriaci s'incontrarono. Parvero dire colla loro espressione desolata, il volgare "siam fott... o regina" regina"- Continuate - ripetè il padre. - L'avere ricevuto così intimamente lo scolaro povero, dopo aver cacciato, senza complimenti, un principe arcimilionario, fece chiasso. Tanto più quando i giornali liberali, nemici di Aldo Rubieri, raccontarono che il supposto studente di pittura di Roma non era altro che un povero imbianchino di stanze. Allora egli fece una risposta che chiuse la bocca a tutti. Egli dimostrò come un imbianchino valga sempre più di certi giornalisti, per la ragione che questi, sporcando della carta bianca, le toglievano ogni valore commerciale; mentre quello, imbiancando pareti sporche, ridonava ad esse molto valore commerciale. Quando poi lo scolaro andò a scusarsi d'essere stato causa involontaria della polemica, egli lo consolò dicendogli: "Lasciate scrivere. Sono i pittori invidiosi, che ispirano i cattivi giornalisti. Ma io conosco degli imbianchini che valgono molto più di quei pittori. Giacchè gli imbianchini raggiungono sempre e bene il loro scopo, che è quello di pulire e render lieti i locali, mentre certi pittori, non solo non lo raggiungono mai, ma lo tradiscono e lo deturpano, sporcando delle candide tele. Del resto, che gran differenza c'è fra un pittore e un imbianchino? La sola, veramente grande, è che il pittore adopera un pennello a manico breve e la tavolozza, mentre voi altri adoperate il pennello a manico lungo e la secchia. L'ingegno solo fa la grande distinzione; ed io, fra un imbianchino d'ingegno e un pittore asino, scelgo subito l'imbianchino. - Parlateci ancora di questo giardino misterioso e incantato - disse la zitellona, crollando il caposorridente per le sortite del vecchio Cicerone. - Oh, molto misterioso! - sciamò questi alzando gli occhi al cielo. - Si può dire che dopo me non vi siano a Milano che tre persone, le quali abbiano avuto la immensa fortuna di spingere lo sguardo in quel sacrario dell'arte viva. - E voi siete del numero? - Io sono del numero - rispose il vecchio sollevando orgogliosamente la bella testa di Cristo invecchiato. - C'è speranza che noi, colla vostra autorità, e come amici vecchi di Aldo Rubieri, possiamo essere introdotti? - Voi, amici vecchi? - sclamò il Cicerone. - Non sapete forse che Aldo, quando aveva 20 anni, era a Vienna con suo padre? - Ah, è vero! - sclamò il Cicerone, portando la mano alla fronte. - Non mi ricordavo più che egli è figlio di un colonello di stato maggiore al servizio di casa d'Austria. - Dunque? - Dunque che cosa? - Potremo noi vedere il giardino incantato? - Oh, impossibile! - Potreste voi almeno descrivercelo? - Impossibile anche questo. Ho data la mia sacra parola d'onore al maestro, che non avrei tradito mai il segreto della sua dimora. I tre Viennesi tacquero e ciascuno si mise a mulinar a suo modo. Ma in quel punto erano arrivati dinanzi alla casetta di Aldo Rubieri, e s'arrestarono. A Milano, come dovunque, ci sono delle abitazioni dove tutto va male, tutto dà noia, tutto vi sta a disagio; e ve n'ha delle altre, dove tutto gioisce, tutto dà piacere, tutto risplende. Entrando nelle prime, trovi un portinaio ciabattino, che vive in un bugigattolo buio ed infetto. Il tanfo vi è nauseante; sui gradini della scala vi si scivola; gli usci si direbbe si lamentino di dover girare sui cardini; le persiane, spalancate, si rinchiudono sgarbatamente in faccia; gli scarafaggi ed i topi sono padroni della cucina; i cimici, del letto; le faine, del solaio; le lumache e gli scorpioni della cantina; il pozzo dà l'acqua cattiva; un cane rinchiuso guaisce tutte le notti; un ragazzo caparbio vi strilla ogni mattina; un suonatore di tromba vi studia ogni mezzogiorno; delle casigliane pettegole vi si picchiano ad ogni calar della sera; il padron di casa usa mandar delle lettere insolenti; il ragioniere ha il fiato che ammorba... e via dicendo. Entrando nelle seconde, il cuore si allarga. Tutto vi spira l'ordine, la pulizia, la pace, il benessere. Si direbbe che queste case benedette furono costruite da operai intelligenti, e siano abitate da gente di buon gusto. Tale apparve ai viaggiatori la dimora di Aldo Rubieri. Appena giunte, la zitellona alzò la testa e s'imbattè in una scena graziosa. Sotto un portichetto, lieto di verdura in un angolo, una rondine aveva costruito il suo nido e giungeva volando alla pensile capannina, nel momento che i viaggiatori si arrestavano dinanzi alla porta della casa. Spaventata nel veder tanta gente, la rondine svolazzava trissando intorno al nido quasi volesse attirare a sè tutta l'attenzione di quegli stranieri per distrarla dai suoi cari implumi. La zitellona si fece malinconica. Forse un assalto di nostalgia l'aveva presa. Non c'è come la rondine per ridestar nel cuore la memoria della casa lontana. In quel punto un colpo di martello fece trasalire la Tedesca. Il Cicerone aveva picchiato alla porta chiusa col battente di bronzo. In una delle imposte si vedeva inchiodata una placca di terso ottone su cui stava scolpito un Rubieri, senz'altro. Doveva bastare! Il Cicerone dato il colpo si volse a' suoi compagni e disse: - Ora ci toccherà forse di aspettare un quarto d'ora; ma guai se io rinnovassi il colpo; potremmo star qui due ore, che nessuno più verrebbe ad aprirci. - Perchè? - Perchè la signora Marietta pretende di non essere sorda, ma confessa di essere molto pigra. Questa volta però il fatto smentì il pronostico. La porta si schiuse poco stante, e una donna s'affacciò al varco, domandando: - Chi è? - Forestieri che desiderano di visitare lo studio e parlare al maestro rispose il Cicerone. E lanciò alla donna un'occhiata espressiva che voleva dire: "Gente per bene, bisogna esser gentile." La donna aperse il battente, si ritrasse, e pronunciò il sacramentale: - Restino serviti. La carovana attraversò un atrio pompeiano, dove sul muro videro graffite delle figure bellissime di fanciulli ricciuti, di vergini con anfore in mano e di satiri con tirsi inghirlandati di pampini, saltellanti e festosi. Il Francese che fu il primo a vederle, ristette; e il Cicerone cominciò la sua spiegazione: - Questo atrio venne terminato soltanto l'altro giorno. Questo genere di pittura a chiaroscuri e con linee profonde comuni a Pompei, si chiama graffito. Questo pattino che vedono, è il ritratto del figlio della signora Nanà, sopra fotografia, giacchè il Louiset è rimasto a Parigi colla zia. Questo nome scosse nuovamente la zitellona e i due Ausriaci. Ma nessuno dei tre osò fare una domanda sul figlio della signora Nanà, che non era punto bello, ma che era maestrevolmente disegnato. Ammirato che l'ebbero, s'avviarono verso il viridario contornato di portici, precisamente come si usava nell'antica Roma. Una vaschetta di marmo bianco, con zampilli uscenti dal corno di faunetti di bronzo, sorgeva nel mezzo del giardinetto spandendo intorno una grata frescura. - Questo lo vedremo meglio dopo, uscendo per di là - disse il Cicerone svoltando a destra in coda alla signora Marietta, che aveva schiuso un uscio. Sulla soglia del quale gli stranieri lessero il classico Salve, poi entrarono. La scena mutava d'aspetto. Pompei cedeva il campo al più ferreo dei medî evî risuscitati. Come una di quelle dimore di Fata, che sorgono dal suolo nei sogni che seguono la lettura dei romanzi di Scott o della Radeliffe, così il salotto dove erano entrati gli stranieri parve ad essi la viva e reale imagine d'una stanza di antichissimo castello feudale. Il presente scomparve ai loro occhi come per incanto. Si guardarono l'un l'altro, quasi fossero sorpresi di trovarsi vestiti di panno e col cappello a tuba in mano. Una specie di estasi medioevale li invase, e provarono nell'anima un ridestarsi confuso di tutte le memorie romantiche della lontana gioventù. Parte a parte non c'era moltissimo da ammirare. Appiccicati alle pareti, non ricchi trofei di armi in simetria, come è l'uso comune delle odierne sale d'armi. Ma si sarebbe detto da una certa rastelliera e da certi cappucietti come dimenticati sul davanzale d'una finestra, che un falconiere fosse uscito di là poco prima, dopo aver addestrato il falco; si sarebbe detto che il giullare avesse lasciato su una sedia il suo berretto a sonagli; che l'armigero e il balestriere avessero deposta poco prima in un canto, uno la picca, l'altro la balestra; che la castellana passando, avesse profumato quell'aura cogli aromi che il marito crociato le aveva recati dall'oriente. Ciascuno di quei viaggiatori ebbe la propria impressione storica. Al Francese parve di respirar un'aria tutta pregna di effluvi merovingi. Alla zitellona sembrò di calpestar la polvere dei seguaci dell'interessante giovinetto svevo, venuto a morire in Italia sotto la mannaia di Carlo d'Angiò. Gli Inglesi credettero sentir un bisbiglio di voci dei guerrieri di Riccardo Cuor di Leone. Chi non provò nulla di tutto questo, furono i due Austriaci. Non avevano l'incornatura romantica loro! La carovana, ammirando in religioso silenzio, passò ed entrò in una seconda camera tutta parata di giallo, in stile moderno. Quelle fisonomie già pallide soffuse dal colore delle cortine e delle tappezzerie si fecero cadaveriche. L'artista aveva il capriccio di vedere sulle linee faciali de' suoi visitatori questo effetto di tinte, non già pel gusto di trovare il genere umano più brutto di quello che esso sia realmente, ma per studiare il cambiamento di linee, di toni e di riflessi, allorchè dal giallo i visitatori passavano allo scarlatto dell'attiguo salotto. - Si fermino qui un momento che io vado ad avvisare il maestro della loro venuta - disse Mattia il Cicerone, mentre la signora Marietta era scivolata fuori dalla camera da un uscio di fianco. Mattia Corvino - tale era il nome del vecchio - s'accostò ad un uscio di contro a quello per cui era entrata la comitiva, piegò l'indice della mano destra con una specie di religioso raccoglimento e colla nocca picchiò un colpetto discreto, tendendo l'orecchio. Egli era compunto. Egli stava per comunicare coi due idoli del suo cuore, e l'atteggiamento della sua persona, pigliava un'apparenza di devozione. Nessuna risposta dal di dentro. Tornò a picchiare più forte, tornò ad origliare, e nulla ancora. Allora alzò con una certa soavità la mano alla maniglia dell'uscio, lo aperse e scomparve per esso, dicendo con voce flebile l'indispensabile: - È permesso? Mattia Corvino era entrato nel gabinetto di lettura di Aldo Rubieri. Lo scultore infatti non aveva soltanto uno studio, ma anche uno scrittoio. In faccia a qualche suo collega scapigliato Aldo aveva un gran torto quello di non odiare la coltura e la letteratura. La stanzina parata di rosso conteneva una bella libreria tutta piena di libri d'arte, di romanzi, e di poesie. Una magnifica scrivania - come non se ne vedono certo in casa dei letterati - oronava in fondo al gabinetto di fianco alla finestra. Intorno intorno sulle pareti dei piccoli capolavori di pittura e di scultura. Questo nido della intelligenza gli aveva meritato da alcuni colleghi, il sopranome di aristocratico. Dico alcuni, che per fortuna si possono contar sulle dita; e non sono neanche da confondersi costoro, con quei molti, che detestano la letteratura soltanto in apparenza, e non tengono in casa nè libri, nè calamai, nè penne, ma conoscono i letterati e li ascoltano, e ne sono amici. La è piuttosto un'abitudine e una jattanza che un'antipatia; giacchè modesti e avidi di sapere, vivono talvolta cogli uomini di lettere e di scienza meglio e più a lungo che coi loro stessi colleghi. I pochi invece che davano dell'aristocratico a Rubieri nutrono un vero e alto disprezzo per tutto ciò che non è colore o scalpello; negano che l'arte abbia bisogno di coltura, giacchè per essi l'intenzione è tutto; chiamano imbrattacarte gli scrittori ed i critici, e disprezzano e odiano la letteratura e anche l'acqua, tanto per uso interno come per uso esterno. Aldo Rubieri che aveva fatto anche lui la sua carovana artistica ed era stato assai povero, per ispirito di reazione, aveva forse esagerato il tipo opposto. Appena uscito dalle angustie egli si era rifatto gentiluomo perfetto. Il cappello a tuba in capo, la cravatta nera, le mani guantate, spesso gli stivali lucidissimi; in casa poi aveva accomodato il suo studio letterario con infinita cura e lo aveva affidato alle sollecitudini, allo strofinone e al pennacchio della signora Marietta, che lo teneva lindo e splendido come un gioiello. - Non c'è - sclamò Mattia Corvino, dopo essersi guardato intorno. - Sarà dunque nello studio. E ristette un poco pensieroso. Mattia Corvino, lo sappiamo già, aveva per Aldo Rubieri e da pochi giorni per la signora Nanà, una di quelle adorazioni che in certe anime foggiate a bella posta, possono elevarsi fino al sagrificio della vita. Quando entrava in quelle camere egli si sentiva preso da un senso di altissima venerazione, come si dice che Mosè lo provasse sull'Orebbo, quando s'accorse che il suo piede stava per calcare il sacro suolo. Mattia era tale che se lo scultore glielo avesse permesso, si sarebbe volentieri cavate le scarpe per entrare là dentro. - Forse egli è là con quella tentazione di sant'Antonio - pensò Mattia prima di ricominciare sul nuovo uscio la stessa manovra di poco prima. Egli chiamava a suo modo Nanà: la tentazione di sant'Antonio. - Alla fine si decise e diè un altro picchietto sull'imposta. - Una voce maschia e sonora rispose di dentro: - Chi è? - Mattia - rispose il vecchio trattenendo il respiro. Un bisbiglio di voci, accompagnato da un melodioso e fresco scroscio di riso accompagnò la risposta del Cicerone. - È lei! - pensò. E dovette sedersi per l'emozione. - Dio fa ch'ella posi - continuò in cuor suo e che essa non abbia oggi il capriccio di considerarmi come un uomo di questo mondo. Questa frase di Mattia giungerà forse oscura a qualcuno. Mattia Corvino s'era infiammato di Nanà come s'infiammano talvolta certi vecchi artisti dopo averla veduta a posare nuda nello studio del suo scultore. La artistica nudità femminile al giorno d'oggi ha perduto - per colpa de' gesuiti - tutta la famosa ingenuità del mondo antico. Noi non sappiamo più imaginarci un corpo di donna bella, quale pur fu creato da madre natura, senza dei sussulti peccatori. Le innocenti nudità sono un mito per noi. Nei boschi della Grecia le Driadi, e le Nereidi sulle rive del mare, noi non sappiamo più imaginarcele; come non sappiamo più vedere nè Veneri, nè Ninfe, negli studi dei nostri scultori. Le Driadi e le Nereidi del giorno d'oggi tutt'al più si chiamano forosette e bagnanti e osservano fior di regolamenti della scuola di nuoto e pagano fior di multe se li trasgrediscono. Quanto alle Ninfe e alle Veneri negli studi degli artisti oggidì si chiamano semplicemente Modelle. Modelle.- Entra Mattia - disse la voce - dopo un breve silenzio, durante il quale il Corvino era stato ad aspettare origliando all'uscio, coll'ansia istessa con cui un imputato sta ascoltando il presidente che gli legge la sentenza di assoluzione. All'invito il vecchio sprigionò dal petto un sospirone, schiuse l'uscio ed entrò. Lo spettacolo che s'offerse agli occhi di Mattia non era nuovo per lui ma era solenne. Nondimeno Nanà con un moto istintivo, aveva rilevato fino all'anca il lembo dell'arazzo che le stava a larghe pieghe posato sotto i piedi nudi, e aveva guardato placidamente, e come se nulla fosse, in viso a Mattia Corvino che entrava. È assioma che la mano, la quale pudicamente rialza o abbassa un velo, fa pensare assai più a ciò che essa vuol nascondere che al pudore che nasconde. Nondimeno se ciò paresse strano a qualche lettore, che si ricorda come Nanà quando a Parigi Labordette le aveva detto ch'ella avrebbe posato per la testa e per le spalle dinanzi allo scultore che doveva modellarle la Notte pel suo nuovo letto avesse risposto: "Je me fiche pas mal du sculpteur qui me prendra" Se quel moto di pudore, ripeto, paresse strano al lettore io non saprei dargli torto, giacchè egli non conosce ancor nulla della piccola trasformazione morale che Nanà aveva subita nei pochi giorni di sua dimora a Milano. Nell'ambiente serio e sconosciuto nel quale s'era messa "la bonne fille" subiva un cambiamento ne' suoi istinti di donna, la quale non sarebbe apparsa tanto corrotta neppur a Parigi se il cinismo degli uomini non l'avesse resa tale. - Che c'è? - domandò Aldo Rubieri. Mattia distaccò a stento gli sguardi dal tesoro di formosità, che dall'anca in su gli si presentava di contro e rispose con voce commossa: - Forestieri... seccature che vorrebbero parlare con lei. Ecco il biglietto di visita d'una signora. Aldo lo prese: - Leopoldina Rickherwenzel! - sclamò con grandissimo stupore. - Chi vedo! Che fosse colei? A Milano? Possibile! Dimmi Mattia, che figura ha? - Bionda..., magra, alta.... - È lei, è lei! - Che età? - Io le darei dai trenta ai trentaquattro anni.... - È lei! Non c'è dubbio! - Dev'essere stata bella, da ragazza - aggiunse Mattia coll'aria d'un conoscitore. - Dovrò io riceverla? - pensava intanto lo scultore. - Chi è questa donna che cerca di voi? - domandò Nanà in discreto italiano. - Oh, una vecchia conoscenza di Vienna. - Una antica amante? - Pressapoco. E qui successe un poco di silenzio. - Se io vi pregassi di non ricevere questa vostra antica fiamma, cosa direste di me? - fece Nanà questa volta in francese. - Davvero? - sclamò Rubieri con una punta di ironia nella voce e nello sguardo. - Chi l'avrebbe detto! - Chi l'avrebbe detto? - ripeto Nanà. - Sapete che questo mi ha l'aria di una impertinenza? - No - rispose lo scultore - è semplicemente un'esclamazione. - Ebbene - ripigliò Nanà - senza tanti discorsi, ditemi francamente se mi fate o se non mi fate il sagrificio che vi chiedo. - È impossibile! - Perchè? - Ma perchè la sarebbe una specie di furfanteria se rifiutassi di rivedere una donna alla quale tra le altre cose ho promesso di sposarla e che è venuta a Milano, dopo dieci anni, per rivedermi. - Ma tanto più! - sclamò Nanà ridendo - Assolutamente mio caro Aldo, se voi la rivedete potete star certo che io non metterò più il piede in questo studio. Lo scultore fu colpito vivamente da questa uscita così perentoria di Nanà. La guardò con malcelato stupore. Poi le si accostò e le prese la mano. - Nanà - disse - spiegatevi allora. Questo vostro capriccio ha bisogno di un poco di luce. - Ecco gli uomini! - gridò Nanà sempre ridendo. I suoi denti, eran tali da non permetterle di parlare sul serio. - Non si può avere un suggerimento dei nervi senza che essi subito ci vogliano vedere un capriccio di... tutt'altra cosa. Rubieri vedendo di essere stato capito al di là di quello che supponeva e che desiderava, abbandonò la mano di Nanà e restò un pochino interdetto. Nanà continuò: - Voi non mi conoscete Aldo, che da otto giorni, e sta bene; se staremo insieme da buoni amici come spero per un pezzo vi toccherà di udirne e di vederne di quelle anche più strane e non per mia colpa, ve lo giuro. Persuadetevi di una cosa sola, ed è che in fondo io sono una buona figliuola, che non faccio apposta, che non è un partito preso il mio di sembrare qualche volta stravagante, ma è una cosa più forte di me stessa. Io vi sembrerò fors'anche una matta gloriosa. Chissà? M'han creata così. È la qualità del legno - proseguì in italiano- come diceva la Sarah, a Firenze. È la colpa del fattore, come diceva Bigio Diotallevi. - Dunque che cosa dovrò dire ai forestieri? - si permise di interrogare Mattia Corvino che, aspettava da cinque minuti la risposta. - Dì loro che se ne vadano pe' fatti loro - rispose Nanà. - No aspetta - interruppe Aldo. Poi voltosi alla donna, - Via non siate irragionevole. Vorreste che quegli Austriaci pensassero di me che son diventato un mascalzone? - Gli Austriaci pensino di voi, quello che loro più pare e piace, ma io non voglio che voi riceviate quella donna. Ve l'ho detto; non sono io che comando sono i miei nervi. - Bene bene - disse Aldo accostandosi a Mattia. - Dirai loro che io non posso riceverli. - E più sottovoce soggiunse - dille che andrò io al suo albergo domani. Nanà si lamentò di quella frase detta a bassa voce. - Ho capito. Gli avrete detto che tornino domani quand'io non ci sarò. - No - disse Aldo. - Che cosa gli avete detto dunque sottovoce? - Nulla. - Bugiardo. Nulla non è una risposta. Rubieri ascoltatemi - diss'ella seria se io so che voi, mi avete disobbedita non mi vedete più nè viva, nè morta, e anche la Venere resterebbe a mezzo. - Ah questo è proprio assolutamente troppo. - Mi promettete di non andarla a trovare? - Ma che v'importa, Nanà, che v'importa? - domandava ansiosamente lo scultore che non giungeva ancor a spiegar a sè stesso quel fenomeno. - Nulla, ma non voglio. È un puntiglio. Voi dovete cedere. Io non sono avvezza a non veder cedere. Sono otto giorni che noi ci conosciamo. Se non cedete nei primi otto giorni, quand'è che vorreste cominciare? Me lo promettete? E fra sè pensava "Ces fichus d'Italiens" d'Italiens"- Bene ve lo prometto - disse Aldo per troncare il diverbio. In quella, Mattia rientrò. - Il signor conte sindaco è in salotto che avrebbe a dirle due parole. - Il sindaco benvenuto - sclamò Rubieri deponendo gli utensili del lavoro. Per oggi basta Nanà. Ci rivedremo domani. Addio. E uscì. Dal canto suo, la dilettante di nudo, calzate sui piedini le pianelle, se ne andò a vestirsi dietro certi arazzi che formavano in un angolo l'appartamentino per le modelle. Che cosa veniva a fare da Rubieri il conte sindaco? Chi era il conte sindaco? Egli era un ometto, così; nè bello, nè brutto, fra i cinquanta e i sessant'anni, grassottello e nello stesso tempo arzillo e svelto come un pesce; il che implica una certa contraddizione, che invece non esiste. O se la esiste, si può dire che questa contraddizione fisica sia appunto la caratteristica del nuovo personaggio. Tutto infatti, nel conte sindaco, sentiva di contraddizione lontano un miglio. Nato povero, era ricco; nato plebeo, era stato fatto conte; aveva degli istinti liberali ed era un gran conservatore; aveva dello spirito, ed era senatore; aveva sortito da natura le inclinazioni del viveur e del barzellettista e come senatore, banchiere, sindaco e conte, gli toccava di essere l'uomo più lavoratore e più serio dell'universo. A chi gli avesse fatta osservare quest'ultima contraddizione - e cioè, ch'egli fosse sortito da natura per essere piuttosto quello che i Francesi chiamano un homme de loisir che un gran lavoratore - egli avrebbe recisamente negato, e gli avrebbe risposto che nessuno forse, a questo mondo, s'era meno divertito di lui, e nessuno poteva vantarsi di avere lavorato più di lui. E bisognava credergli. Ma è da notare che, prima la spinta della necessità, poi quella dell'interesse, poi l'ambizione, poi il dovere gli avevano messa indosso fin dalla puerizia un'abitudine di lavoro a tal segno, che fugando la nativa spensieratezza, era divenuta in lui una seconda natura e poteva esser tenuta da lui stesso in conto di vera inclinazione. Ma in fondo in fondo, no; perchè il nostro ometto era nato scansafatica, e questo lo si poteva arguire dalla sensualità e dalla voluttà ch'egli metteva in tutte le azioni, minori della sua vita. Quando parlava, per esempio e che poteva ridere di qualche sconsigliato consigliere del Municipio, egli godeva mezzo mondo. Mangiava poco, ma avrebbe dato dei punti a Brillat Savarin, come buon gustaio, anzi come buon gustatore. E fra le ballerine del palcoscenico del teatro della Scala come si sgranavano que' suoi occhietti verdognoli e arguti alla vista della grazia di Dio. Come era eloquente il suo sorriso, pur restando sempre un sorriso da sindaco, da conte, da banchiere e da senatore! Nella sua qualità di capo dell'amministrazione comunale, egli era indubbiamente tenuto come uno dei meno peggio d'Italia, così ricca di sindaci balordi. Dove diamine, lui, così poco istruito in gioventù e lontano dal mondo diplomatico, avesse attinta quella finezza moderna, quell'arte del barcamenare, quella dissimulazione preziosa, che sono indispensabili a chiunque si trovi nella di lui posizione, nessuno lo saprebbe dire. Egli non aveva avuto maestri di tali discipline. Pochi uomini possedevano come lui quella dote utilissima ai governanti, la quale consiste nel non dimostrare mai al prossimo nè troppa simpatia, nè troppa antipatia. Anche lui le provava talvolta fierissime in cuor suo, ma sapeva dissimularle così bene, sapeva reprimere con tanta disinvoltura i moti del proprio animo, sapeva far tacere così costantemente ogni eccitazione personale, sapeva dividere in così giusta misura le proprie inclinazioni e le proprie declinazioni, da meritarsi da ambe le partì il soprannome di sindaco trampolino, il quale sembra un'offesa, mentre è il brevetto della sua più grande imparzialità. Riusciva dunque difficile il dire se egli fosse un conservatore o un liberale. Egli non aveva preferenze pei due partiti, in cui - come in politica - si divideva il Municipio della sua città. Stando a cavallo, ei si serviva ora della opposizione dei conservatori, ora di quella dei rompicolli, a seconda ch'egli aveva bisogno di questa o di quella, e ne usciva sempre ilare e trionfante, ch'era un piacere a vederlo. - Sono venuto io stesso - diss'egli a Rubieri, che si scusava di riceverlo in abito da lavoro - sono venuto io stesso a darle una buona notizia. Ella è nominato assessore, e io sono certo che ella accetterà. - Oh! - sclamò il Rubieri, fingendo una grande sorpresa. - Non si potrebbe dispensarmi? - No, no, tutti lo desiderano - rispose il sindaco. - C'è bisogno d'un artista in Consiglio. - La avverto caro signor sindaco che io sono corpisantino e che mi metterò nell'opposizione. - Non lo credo! Io non gliene darò mai l'appiglio. Io conosco il di lei criterio abbastanza, per sapere che invece noi andremo perfettamente d'accordo. - Se lei mi parla così a me tocca d'accettare - disse Aldo al sindaco stringendogli la mano. - Bravo! Così mi piace, senza tante smorfie. Del resto - soggiunse tosto - io non credo che lei avrebbe ugualmente la possibilità di farmi l'opposizione ancorchè si mettesse colla montagna. Io sono proprio stanco, e non per convenzionalismo, come si usa ormai di dirlo da tutti gli uomini, ma stanco di buono e vedrei di buon occhio un successore. Provino, provino quanto sia facile far il sindaco di Milano! Il dialogo tra il sindaco e Rubieri andò per le lunghe e divagò poi in cento argomenti. Ma noi crediamo di far bene ad arrestarci avendo riferito di esso quello che importa alla nostra storia. Ora sarà bene che vediamo in che modo c'entrassero con Aldo Rubieri gli Austriaci che erano venuti a trovarlo prima del conte sindaco. Bisogna dunque sapere che il padre di Aldo Rubieri era stato colonnello di stato maggiore al servizio dell'Austria. Nel 1850, quando Aldo non aveva che dodici anni, ed era accasato con suo padre a Vienna, il rinnegato italiano godeva settemila fiorini annui come impiegato nel ministero della guerra. Suo padre aveva sposato una baronessa polacca. Si capisce facilmente quale potesse essere stata l'educazione politica e patriottica del giovinetto Aldo fino al 1859. Sua madre gli era morta in quell'età. Quand'egli cominciò a provar nel cuore il bisogno di voler bene a una creatura di diverso sesso, gli capitò di innamorarsi come si usa a 19 anni, di una fanciulla di famiglia borghese, ch'egli aveva veduta per la prima volta al Prater. Una di quelle lunghe occhiate reciproche dalle quali i fisiologi dicono emani del fluido magnetico, era corsa fra loro; e due giorni dopo, mentre entrambi stavano credendo di udire la messa nella cattedrale, una seconda occhiata ancora più lunga e più reciproca aveva suggellato il loro amore. L'effetto di quello sguardo era stato decisivo per entrambi. Poco stante era cominciata la corrispondenza. In tre pagine di quelle proteste e di quei giuramenti senza fine, che scaturiscono tanto spontanei dalla punta di una penna di 19 anni, Aldo parlava alla sua Leopoldina di futuro matrimonio. Leopoldina aveva allora 21 anni, tre o quattro più del giovanetto. Pochi giorni dopo la signorina viennese e il figlio del rinnegato Italiano, s'abboccavano al passeggio e si giuravano anche a voce eterno amore. - Mio padre non mi permetterebbe certamente di sposarti ora; - disse Aldo - avrai tu pazienza di aspettare che io sia uscito di minor età? - Oh te lo giuro, Aldo - rispondeva la bionda figlia del Danubio, alzando i suoi occhi grigi e innamorati in viso del bell'Italiano. - Io non sarò che tua o della morte! Quando fu soddisfatto, Aldo trovò di non avere più voglia di sposare la Leopoldina. Essa non gli era stata crudele; il matrimonio, ai desideri di Aldo, compariva superfluo. Ma quando il padre di Leopoldina s'accorse dello scapuccio di sua figlia, manovrò come manovrano tutti i padri viennesi in tale circostanza. Egli era un furbo matricolato. Capì che da quel giovinetto avrebbe potuto cavare, un giorno o l'altro, molto profitto e aveva lavorato a questo scopo. Il Rubieri s'era lasciato andare a firmare un atto di donazione alla figlia Leopoldina, nel caso che avesse mancato alla promessa di sposarla. Una bagatella di venti mila fiorini in testa al nascituro. Poco dopo venne il 1859. Aldo Rubieri non era certo da giovinetto, quel fino calcolatore, che coll'età e coll'esperienza s'era fatto poi; ma aveva fin d'allora l'istinto delle proprie convenienze. Egli sentiva tutta la umiliazione d'essere figlio di un rinnegato, sospetto, malveduto in paese straniero e nemico, senza avvenire possibile; sognava in nube la probabilità della riabilitazione. In questa idea l'amore di patria c'entrava fino a un certo punto; l'amore di sè stesso in gran parte. Egli andava pensando che se il figlio del generale italiano al servizio dell'Austria fosse disceso in Italia con grande fracasso ad arrolarsi, tutta Milano ne avrebbe parlato e la sua sorte sarebbe stata fatta senza grandi sforzi. La imprudente promessa di quella somma, strappatagli dal padre di Leopoldina in un momento di abberrazione, lo decise sempre più. Fece la risoluzione di lasciar Vienna, di abbandonare la Leopoldina e suo padre, e di venir in Italia per entrar volontario nelle regie truppe. Raccolse quanto più potè di danaro e un bel giorno partì nascostamente e venne a Milano; fece la campagna del 1859, poi mise studio di scultore e si fece nome. Aldo Rubieri si ricordava benissimo di avere lasciato alla Leopoldina di Vienna quell'atto di donazione; temendone le conseguenze, andò a trovarla, mancando di parola a Nanà. Come fosse ricevuto cordialmente e gioiosamente si può imaginarlo. La prima cosa che Leopoldina gli confidò fu che il loro figlio era morto, e Rubieri tirò un lungo fiato. Quando la fase sentimentale del richiamo delle memorie fu cessata, e Rubieri si disponeva già a congedarsi, colla speranza che gli Austriaci avessero deposto ogni altro pensiero, il buon babbo, accostatoglisi colla grazia un po' grifagna che si direbbe tutti gli Austriaci abbiano ereditata dalla loro acquila bicipite, gli disse sottovoce col più tedesco dei sorrisi possibili: - Per l'affare poi che lei sa, e che riguarda mia figlia, potremo parlare più tardi... un'altra volta... n'è vero. - Che affare? - domandò Aldo Rubieri come uomo che caschi dalle nuvole. - Come! Ma la scrittura... di donazione... alla mia Leopoldina nel caso... che non fosse accaduto il suo matrimonio. - Ah, bene, bene - disse Aldo per pigliar tempo. - Più tardi, ci rivedremo. E s'accomiatò. Gli Austriaci lo aspettarono al domani, poi al posdomani, tre, otto giorni, finchè il padre risolvette di ritornare lui stesso in cerca di Rubieri. Naturalmente non fu ricevuto. Ma la sera istessa la signora Leopoldina ebbe una lettera nella quale il suo ex-innamorato le diceva chiaro e tondo come egli non volesse più essere importunato e le ricordava senza complimenti come in tutti i codici della terra esista la legge che dichiara non valida la promessa di matrimonio, nè di un qualsiasi indennizzo.... I tre Austriaci, testardi come sono gli Austriaci quando hanno ragione, fissarono di spuntarla. Leopoldina avrebbe rinunciato. Ma il padre e lo zio erano feroci, e la persuadettero che si doveva ricorrere alla legge per farlo pagare per forza. Risolvettero di consultare un avvocato per sapere se l'atto fosse in piena regola e se con esso si potesse sperar di vincere una causa. L'albergatore indicò loro il primo avvocato che gli si parò alla mente. Ed essi andarono difilati dall'avvocato Delguasto. Quando furono sul pianerottolo dinanzi all'uscio il padre e lo zio ristettero per rifiatare e per consultarsi. Il primo poi stava per tirar il cordone del campanello, quando Leopoldina gli trattenne il braccio, additando ciò che stava, scritto sull'uscio: - Che c'è? - domandò il padre in tedesco. - Avanti - disse la zitellona, che sapeva un poco di italiano. - Avanti, vuol dire: Allora spinsero l'uscio ed entrarono. Nell'anticamera, seduto dinanzi ad una scrivania stava un giovinetto, dalla faccia di furfantello, che s'avrebbe detto fosse stato messo là dall'avvocato per schizzare la caricatura a tutti i clienti che entravano. Lo zio, vedendo quel piccolo Mefistofele, disse a suo fratello una frase in tedesco. Quello smaliziato d'uno scritturale, che stava col capo sullo scrittoio, intento, l'alzò repente, aggrottò le ciglia, e con un accento pieno di ironia e di insolenza, fingendo che quelle parole esotiche fossero state dirette a lui, disse: - Non potrebbero farmi la finezza di parlare in italiano? - disse - La sua lingua a Milano, signori belli, non è di moda. È antipatica. - Parlare noi molto malissimo - rispose il babbo, che non aveva capita la portata dell'insolenza di quel monello seduto allo scrittoio. - Non fa niente. Capirò lo stesso. Per quanti strafalcioni lei dica in italiano farà sempre più bel sentire che a parlarmi benissimo il suo tedesco. - Mia figlia parlare piccolo poco. - Tanto meglio. Allora ho l'onore di domandar alla signora a che cosa il signor avvocato dovrà aver la fortuna della loro visita? Non è da credere che Ernesto Cantis, galloppino dell'avvocato Delguasto, trattasse con tanta disinvoltura tutti i clienti del suo padrone. Guai a lui se così fosse stato. Ma egli aveva udito farlinzottare in tedesco, s'era accorto dall'aspetto che quei tre signori dovevano esserlo puro sangue, e non aveva potuto trattenersi dalla smania di mostrar loro la sua innata antipatia. Egli amava i Tedeschi in genere come... l'olio di ricino, e gli Austriaci in ispecie come il tartaro emetico. - Noi voler parlare con herr avvocato - disse Leopoldina. - È impedito. Si accomodino pure. E senza dir altro, abbassò la testa sullo scrittoio e si rimise a scrivere. Ecco che cosa stava scrivendo Ernesto Cantis, mentre i tre Tedeschi si accomodavano per aspettare l'avvocato. "Signora. "Io credo che una donna non debba mai essere offesa nel sapere che c'è un uomo al quale il cuore batte per lei cento battute al minuto di più di quello che gli batteva prima di averla veduta. Ieri al teatro Milanese lei mi apparve per la seconda volta, e il fascino de' di lei occhi posati ne' miei fu tale che a costo di diventar ridicolo io non ho potuto trattenermi dal farglielo sapere. A me parve, sarà forse superbia, ma a me parve di non esserle riuscito antipatico. Lei ebbe la bontà di rivolgere verso di me spesse volte que' suoi occhi immensamente belli, ed io sono in un tale stato di esaltazione da non poterlo descrivere. Io non ho che vent'anni, e non sono ricco. Ma se malgrado ciò lei credesse che io non debba gettare lontano da me ogni più lontana speranza io la scongiuro me lo faccia capire questa sera o quella sera che a lei parrà tempo di vedermi il suo schiavo più affezionato e più fedele. Io sarò anche questa sera al Milanese e avrò nell'occhiello del mio abito un garofano. Quando la vedrò porterò il mio fazzoletto alla bocca, deh, faccia altrettanto per dimostrarmi che io non debbo disperare affatto. "ERNESTO CANTIS." Riletto il foglio, lo piegò accuratamente, lo mise in una busta su cui scrisse l'indirizzo di Nanà. Avvolse la lettera in un foglio di nitida carta, poi si alzò e andò ad una sedia su cui stava un manicotto di martora e, come se i tre stranieri non fossero stati, presenti a quell'operazione, vi infilò la sua letterina. Comparve l'avvocato accompagnando una signora fin sulla soglia dell'anticamera. Il giovane balzò all'uscio impallidendo visibilmente. La signora era Nanà, la quale aveva posato il suo manicotto su quella sedia poco prima di entrare nello studio. - A rivederla, dunque, caro Delguasto; noi siamo intesi - disse Nanà - poi volse il capo come cercando qualche cosa intorno. - Il suo manicotto è qui - disse il giovinetto precedendola all'uscio della anticamera. Nanà strinse la mano all'avvocato ed uscì. Ernesto, quand'ella gli ebbe volte le spalle, si fe' sentir a dire: che angelo! - In che cosa posso servirli? - disse l'avvocato ai tre Austriaci, che s'erano levati in piedi duri come stoccafissi in estate... - Noi essere fenuti da voi per avere bisogno di vostri consigli - rispose Leopoldina. - Restino serviti. E li fece entrare nel suo studio. - Loro sono dunque venuti? - cominciò l'avvocato. - Ecco herr avvocato... Tocca parlare io, perchè mio padre e mio zio non conoscere italiano. - Dica pure... dica pure, tanto meglio! - sclamò con una punta di galanteria l'avvocato. - Lei dovere sapere che io avere un documento con promessa di donazione di un uomo che doveva sposare me, e che poi non ha sposato per sua colpa. - Una promessa di donazione? - ripetè l'avvocato. - In regola? - Noi credere essere perfettamente in regola. - Si può vederla? - Certamente. Ecco. - E la signora Leopoldina cavò di tasca una carta la quale, col lungo passar di mani in mani austriache, non si poteva dire del certo gareggiasse per candidezza colla neve caduta di fresco. L'avvocato gettò gli occhi su quel pappiè e sclamò sorridendo: - Ma questo è in tedesco! - Lei, herr avvocato non conosce nostro bello linguaggio neanche in scrittura? - Io no, signora. Ne faccio senza, e non ho mai pensato ad impararlo. - Posso io tentare traduzioni! - domandò la zitellona. - Sicuro! Leopoldina cominciò: "In questo giorno, 6 novembre, dell'anno di grazia 1864, io sottoscritto, di mia piena e spontanea volontà, nè spinto da altri riguardi se non da quelli di una sincera affezione per la signorina Leopolda Ernesta Federica, la quale trovasi in istato interessante per mia colpa, prometto di farle donazione di fiorini trentamila, nel caso che giunto all'età di ventiquattro anni io non dovessi mantenere la parola data a lei di essere suo sposo. "Per fede "ALDO RUBIERI. "Vienna, 6 novembre, 1864." - Aldo Rubieri! - sclamò con una certa sorpresa l'avvocato. - Il nostro bravo scultore? - Ya mein herr, ya - rispose il babbo che aveva capito a lume di naso naso- Sarebbe ella compiacente di spiegarmi come e in quali circostanze sia avvenuta questa donazione? Leopoldina con molta fatica e con molto rossore cominciò a raccontare all'avvocato quello che noi già sappiamo. - E quanti anni aveva il signor Aldo Rubieri quando la fece? - Come italiano egli era maggiorenne o quasi. - Suo padre era italiano o austriaco? - Suo patre non aveva perduta sua nazionalità italiana, quando stare in Vienna colonello di Stato Maggiore. - Allora si può benissimo far causa - disse l'avvocato. - Essere noi fenuti per questo. - Hanno già parlato loro col signor Aldo Rubieri? - Sì, otto o dieci giorni fa. - E che cosa ha detto? - Detto nulla, ma avere scritto di non essere intenzionato mantenere suo promesso. E gli porse da leggere la lettera con cui Aldo si schermiva di pagare la somma promessa. - Herr avvocato - disse la zitellona - Credere lei che vinceremo? Negli occhi dell'uomo di legge passò un lampo d'ironia. - Sicuro che vinceremo. Sono loro pronti a fare le spese necessarie? - Quanto volere? - Il deposito da farsi subito è di tremila franchi non un quattrino di meno. I tre Austriaci si guardarono in viso esterefatti. - Tremila franchi! Senti? Più di mille fiorini soltanto di deposito? - sclamò in tedesco lo zio. - Non si può far a meno. La giustizia costa assai in Italia - osservò ridendo sotto i baffi l'avvocato che godeva di veder gli Austriaci in ansia. - Bene - disse il padre a Leopoldina - spiega all'avvocato che vogliamo avere il tempo di pensarci sopra. Ma poi ravvisandosi: - No. Prima domandagli quanto verrà poi a costare la causa finita. Leopoldina tradusse questa domanda all'avvocato. - Ma secondo che la si vinca o che la si perda. Vincendola può darsi ch'io riesca ad affibbiar le spese all'avversario. Può darsi anche che il tribunale dichiari di far a metà le spese. In caso contrario, sta il viceversa. - Domandagli ora - ripigliò il padre dopo che Leopoldina gli ebbe tradotta la risposta dell'avvocato - quanto ci potrebbe toccar di spese nel caso che vincessimo, ma che dovessimo pagare a metà. - Dai dieci a dodicimila franchi colle mie competenze - rispose l'avvocato con grande franchezza. - Farflucter - sclamò lo zio, che aveva capita la cifra. - Pene, pene, allora gli comunicherai quello che ti dicevo - conchiuse il padre. - Come vogliono! Io sarò sempre ai loro comandi. Quando loro si saranno decisi, non avranno che a ritornare da me. E così s'accomiatarono. Il giovinetto scritturale non s'alzò questa volta ad aprir loro gli usci come aveva fatto con Nanà.

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- Miracolo che questa volta non abbia aggiunto anche l'ameno! Il marchese rideva. - Dunque io ripasserò stasera, - soggiunse egli - e se l'Enrico arrivasse prima, gli dica di venir subito da me a farsi vedere. Sans adieux E tu Elisa ricordati di voler un po' di bene anche a questo povero vecchio che te ne vuol tanto! - Oh, anch'io, anch'io, caro marchese, - rispose con espansione sincera la fanciulla. - Ora andiamo a vestirci subito, - disse la madre quando il d'Arco fu uscito, - che non abbiamo tempo da perdere se non vogliamo saltare la messa. La Elisa era un capetto davvero. Un tipo di fanciulla più simpatica, più piccante, più piacente di lei non lo si potrebbe imaginare facilmente. Dove diamine la signora Eugenia ed il notaio Martelli fossero andati a pescar tanto spirito, per dare vita a quella loro creatura, è un mistero! La signora Eugenia era infatti una eccellente madre, una buonissima donnetta, una moglie irriprovevole, ma sgraziatamente peccava assai nel fisico; quanto al padre era sgraziato nel fisico e nel morale. La Elisa appariva come la perfetta antitesi de' suoi genitori. Sua madre era piuttosto piccola e tozza, Elisa era slanciata e svelta come un giunco odorato. Sua madre era scarsa d'ingegno; sua figlia un genietto. Suo padre era taccagno e di idee ristrette; la Elisa era una socialista spiegata senza sapere di esserlo. Forse di lei s'avrebbe potuto dire, come della maggior parte dei figli unici, ch'era un enfant gatè La mamma, le aveva sempre voluto troppo bene, le aveva fatte buone le innumerevoli fantasie, l'aveva sempre accontentata in ogni capriccio e baciucchiata troppo. Ma le madri che amano assai non ci sentono da questo orecchio. Quanto non si è detto contro il soverchio amore di certe madri? Ai fanciulli esse parlano incessantemente e quasi esclusivamente del bel musino, del bel vestitino, delle belle scarpette, e li baciano tutto il santo giorno con tali frenesie di tenerezza, che spesso i bimbi ne scoppiano in pianto. Cari e santi baci quei delle madri! Ma non pensano desse che, a lungo andare, anche quei baci riescono fatali, giacchè stimolando senza posa nei bimbi la delicata innervazione, sviluppano in essi una, per quanto inavvertita, troppo precoce sensualità. Amorevole, ma fatale stupro materno, che già rende colpevole l'adolescenza prima che essa abbia cessato di esser innocente! Le madri romane si guardavano bene dall'insegnare la voluttà del bacio alle loro figliuoline. E quando alcuno lodava la bellezza d'una loro figlia in faccia a lei stessa, quelle madri nobilissime usavano di metter la punta del dito medio sulla lingua e di toccar con quella la guancia dell'adulata quasi a purgarla col materno amore da un maleficio straniero. La Elisa aveva tra le altre cose una voce che agiva voluttuosamente sulla corda sensibile dell'udito. Nessuno ha mai ascoltato le arpe eolie, ma chi ha sentita la voce di Elisa Martelli, giura che non la cambierebbe con quella di un'arpa eolia. E il sorriso? S'ha un bel dire, ma dinanzi al realismo della bellezza e della gioventù restano eterne e immutabili anche le ispirazioni romantiche, alle quali fummo allevati. Elisa quando rideva, rideva tutta, come disse il Dossi, e s'avrebbe detto che facesse una luce maggiore intorno a sè, giacchè, il di lei sorriso alleandosi al nitor dei denti e lampeggiando nelle pozzette delle guancie e raggiando fuori collo splendor degli occhi pareva davvero la circondasse di una gioiosa aureola, che è luce appunto e delle più lucenti! Queste doti, già s'intende, preziose per tutti erano difetti per quella lesina di suo padre. Egli avrebbe amato tanto una figlia belloccia sì... non dico! ma che avesse avuto il suo quietismo nel sangue, che andasse in cucina a sorvegliar la cuoca, che facesse tutti i rimendi alla biancheria e rivedesse i libretti della spesa. Ma non c'era verso, e la mamma su questo la difendeva a spada tratta e qualche volta la si permetteva di ricordare al marito una certa loro speranza, sorta si può dire il giorno stesso della nascita della bambina e nutrita religiosamente in famiglia: - Pensa poi che la Elisa deve essere contessa e milionaria! Era la frase sacramentale, che metteva ogni pace e ogni buon umore in quella casa. Il contino arrivò, come aveva presentito la Elisa, mezz'ora dopo, mentre le donne erano a messa. Montò quattro a quattro i gradini dello scalone, che non aveva riveduto da circa tre anni e tirò il campanello all'uscio di casa sua. Il servitore che venne ad aprirgli non lo conosceva punto. - Chi cerca di grazia il signore? - Il notaio Martelli è in casa? - domandò Enrico con un mesto sorriso. - No signore, - rispose l'altro, - il signor cavaliere Martelli è uscito. Enrico si fece conoscere. Entrò, andò difilato alla camera dove era morto suo padre, e vi si rinchiuse. Poi mezz'ora dopo cogli occhi rossi di pianto, si fece portar nascosto in una carrozza al cimitero per visitare il luogo dov'era stato sepolto. Di ritorno a casa Enrico trovò il notaio Martelli suo tutore, che lo aspettava per abbracciarlo. Prima che questi tornasse a casa dal cimitero, il notaio avendo udito dal portiere, come il contino fosse arrivato, era salito frettoloso le scale, ed entrato in anticamera: - Dov'è dov'è questo ragazzo? - aveva sclamato, non pensando che il ragazzo s'era fatto ormai un uomo di quasi ventun'anni. - È andato al cimitero - gli rispose il servitore. - Ah, povero figliuolo!... È vero! Bravo, bravo! Così dicendo, attraversò l'anticamera ed entrò in uno studio attiguo, dove era solito stare qualche ora del giorno a sbrigare le faccende della tutela. - Dì un po' - ruppe a dir egli quando fu seduto allo scrittoio rivolto al Leopoldo - sei stato dal Saulino? - Sì, signor cavaliere. - Cosa ti disse? - Che verrà qui lui dopo pranzo. - E dal Sala? - Anche. - E quello che cosa ti rispose? - Mi disse che ora non ha voglia di comperare carrozze usate. Ma stamattina è stato qui un signore a vederle in rimessa e ha fatto un'offerta. - Quanto? - Mille lire. - Non c'è male. Si può cederle a questo prezzo, mi pare. - La scusi signor cavaliere se metto il naso anch'io in questa materia. È solo per avvertirla che lo steage è quasi nuovo, perchè l'ha fatto fare l'anno scorso il signor conte e l'ha adoperato non più di otto volte in tutto l'anno. - Ebbene? - Ebbene dico che si potrebbe tenerlo, ora che è arrivato il signor contino. È un legno del buon genere. - Che cosa? Buon genere? Bagattelle! Quest'è una parola inventata adesso. A' miei tempi non si parlava punto del buon genere. "Sicuro. Quando regnava Carlo V" pensò tra sè il Leopoldo. - Io di carrozza non me ne intendo una maledetta - continuò il notaio - ma se questo steage è quel demonio di un carrozzone coi sedili fin sull'imperiale come una diligenza.... - Sì, sì, proprio quello! - Allora ti dico addirittura di mettere da parte il pensiero, perchè a trascinare quella macchina non ci vorranno meno di due cavalli.... - Come due! La dica pur quattro. - Figuratevi! No, no, no, vendiamolo subito. - Lei signor cavaliere vorrebbe forse che il signor contino tenesse meno di quattro cavalli in scuderia? - Ma che quattro, ma che tre, ma che due! - sclamò il notaio vivamente. Adesso so che è di gran moda un legnettino leggero da un cavallo solo. Tanto più per un giovinetto della sua età. Bagattelle, anche troppo! - La mi scusi don Ignazio - disse il palafreniere con voce insinuante - ma anche volendo tenere un cavallo solo da tiro ce ne vorrà sempre almeno uno di cambio e uno da sella. - Ma che cambio, ma che sella! - sclamò il notaio inviperito. - Il cambio è perfettamente inutile, perchè se quell'altro fa il suo servizio bene, il cambio resterebbe in stalla a mangiar fieno e biada a tradimento. E quanto a quello da sella si può scusare con un cavallo a doppio uso. "Bazzica!" pensò il Leopoldo. "Come il curato di Cilavegna!" E non disse più nulla, giacchè cominciò a mulinare come qualmente per rubare la biada ad un cavallo solo non gli sarebbe più convenuto di star in quella casa, - Dunque? - domandò il notaio. - Ma ecco, se il signor cavaliere mi permette di parlare. - Te lo permetto. - Le faccio presente che se il cavallo a doppio uso si ammalasse.... - Oh, allora poi, bagattelle, si va un po' anche a piedi... pedibus pedibuscalcantibus pedibuscalcantibus"Ah sicuro!" pensava fra sè quello scorbellato di Leopoldo, "un bel paio di scarpe nuove e avanti." - Io sono bene andato a piedi tutta la mia vita! - riprese il notaio. "E sì, che è un cavaliere!" pensava l'altro. - Se poi il mio signor pupillo non volesse proprio degnarsi di andar a piedi ci sono sempre dei buoni omnibus a dieci centesimi. "Ma sì, guarda me! Non ci pensavo. Ci sono questi omnibus? Adoperiamoli." - Qualche volta ci vado anch'io in omnibus; non però quando non ho fretta, perchè allora arrivo prima colle mie gambe. - Lei è il padrone! - conchiuse Leopoldo. - Faccia lei. - Sicuro che debbo far io - sclamò il notaio. - Anzi, ti avviso di non mettergli in testa all'Enrico delle fisime inutili. L'economia è la madre di tutte le virtù, e quando un solo cavallo può far il servizio di tre, non saprei come possa venir in testa ad un cristiano di tenerne tre invece di un solo. Questi cavalli a doppio uso ci sono o non ci sono? Saranno ben stati inventati per qualche cosa, io credo? Adesso chiama la balia, che mi deve dar la nota della spesa della guardaroba. Chi era la balia? Poco prima che il notaio arrivasse a casa, una vecchia sbacando fuori da una scaletta interna, che metteva nelle cucine del palazzo, aveva sclamato tutta intenerita: - Oh, ch'io lo veda questo mio signor contino, ch'io lo stringa ancora una volta al seno prima di morire. Il palafreniere, che aveva condotto il padroncino nella camera del conte padre, pose l'indice attraverso le labbra e additando alla balia la stanza dove era entrato Enrico, aveva risposto: - È là dentro e non vuol essere disturbato. Piange. - Povero ragazzo! - sclamò la balia con amore. - Starò qui ad aspettarlo. Così detto si adagiò, trasse di tasca la corona e cominciò a biascicare orazioni. Ma il palafreniere non le lasciò il tempo di finire il panem nostrum quotidianum che le domandò: - Voi balia che dovete esser vecchia di casa.... - Altro che vecchia di casa! - interruppe questa. - Io sono nata nel castello dei conti O'Stiary, ed erano già sessantanove anni che ci stavo prima di venir giù a Milano. Io ho allattato il povero conte Guglielmo che è morto or ora; e sono stata la balia secca del contino Enrico. - Tanto meglio! Io volevo domandarvi conto di questo signor marchese, che è venuto un'ora fa a a vedere se il contino era arrivato. - Il marchese d'Arco? - Sicuro. Mi pare di aver capito ch'egli abbia un grande attacco pel giovinetto che deve arrivare, e m'è passato per la testa, così per dire a dire, che egli fosse stato l'amante della mamma.... Si sa bene! La balia levò lentamente la testa canuta, con un fiero rimprovero negli occhi: - Dica, signor Leopoldo; la si ricordi che non è di moda in questa casa il fare dei giudizii temerarii. La contessa Irene era una santa donna e il bene che il signor marchese le voleva era come quello che noi altri cristiani vogliamo alla Madonna. - Tanto peggio per lui! - rispose cinicamente il palafreniere. Leopoldo fece entrare la vecchia e don Ignazio stava per interrogarla, quando s'intese il campanello dell'uscio d'ingresso e poco stante comparve sulla soglia dello studio il giovinetto conte. Vedendo la balia, la quale si era voltata al rumor dell'uscio che s'apriva, Enrico le corse incontro, colle braccia tese e le saltò al collo. - Oh Teresa, la mia buona Teresa, quanto tempo che non t'ho abbracciata! Ma poi vedendo il suo tutore, che s'era levato dallo scrittoio e gli si avvicinava colle braccia protese, si staccò dalla balia e andò con premura verso di lui. - Scusami, caro zio, se il mio primo saluto fu per la Teresa, che mi ha veduto nascere e che mi ha portato tanto in braccio. La balia si asciugava col lembo del grembiale i luciconi. - È naturale, caro Enrico - disse il tutore - Guarda che l'hai perfino fatta piangere di consolazione. - La m'ha scusare - fece la balia, colla voce ancora fra le lagrime - ma non avrei potuto far di meno, e ora posso morire contenta. Avevo tanta paura di morire prima di poterla rivedere. - Ma ho da sentir di peggio? - disse Enrico alla vecchia. - Dammi subito del tu come mi hai sempre dato in castello. - Ah caro lei, adesso è impossibile signor conte. Adesso lei è un uomo. - No, no, non importa. Ti comando espressamente di trattarmi ancora come pel passato. Poi si volse al tutore. - Ma sicuro che mi sei diventato un uomo! - sclamò questi, - tu mi mangi la torta in capo ora. Bravo, bravo! Bene bene! E dimmi un poco. Hai già vedute le mie donne? - No, - rispose Enrico, - non mi ero ancora mosso dalla camera del povero babbo. - Sono andate a messa, - disse la balia. - La signorina Elisa non vede l'ora di vederla, aggiunse ella sottovoce, mentre il notaio s'era voltato. - A proposito, - ripigliò questi - tu l'avrai già sentita la santa messa? - La messa? Ma no, a dirti la verità. Sono arrivato di buon mattino, ho viaggiato tutta notte... non saprei neanche dove avrei potuto averla sentita. - Bene, bene, per questa volta...! Oh, dimmi un poco, tu forse non avrai con te altri abiti che questi che hai indosso, non è vero? In ogni modo ti abbisogna un vestito di lutto. - Sicuro! Quando il colonnello mi disse che il babbo era moribondo e mi lasciò partire, fu tale la mia fretta che non ho neppure fatta la valigia della biancheria. Ora bisognerà provvedere subito a tutto, altrimenti non potrei uscir di casa. - Leopoldo, - disse il tutore al palafreniere, - andate ad avvisare il mio sarto che venga qui subito. - Il suo sarto? - domandò Leopoldo con ironia. - Il portinaio di casa...? - Ma sì, ma sì, il mio sarto, - replicò don Ignazio, - ci vuol tanto? Andate. Poi, rivolgendosi all'Enrico continuava: - Non è certamente uno dei primi sarti di Milano, ma è bravino e mi è tanto raccomandato dal preposto della parrocchia. E poi, è tanto discreto nei prezzi. Vedi quest'abito? - Così dicendo voltava al contino le spalle per mostrargli una palandra, verdolina sgualcita sui gomiti, che gli faceva delle pieghe da tutte le parti. - Mi sta abbastanza bene, n'è vero? Ebbene, indovina un po' quanto me lo ha messo fuori, compreso stoffa, fodere, bottoni, guarnizioni, spedizioni, tutto insomma? Enrico conosceva a un dipresso l'umore di suo zio e non fu sorpreso da quella domanda. Si die' a ridere; però rispose: - Caro il mio zio, non me ne intendo davvero. - Ma perchè ridi? Sono cose molto più serie di quello che tu imagini. Me lo ha fatto pagare ventinove franchi. E nota che l'ho già fatto voltare e rivoltare. Enrico era un po' sulle spine. Tutta questa roba gretta, spilorcia, sordida gli faceva provare una specie di angoscia nervosa. S'intese il campanello. - Saranno le mie donne, - disse il notaio. - Vedrai, vedrai anche la mia Elisa che hai lasciata colle vesti al ginocchio, come si è fatta grande e donna. Enrico arrossì. Il nome di Elisa gli aveva dato un tuffo nel sangue. Erano infatti la signora Eugenia Martelli e la Elisa che tornavano dalla messa. Enrico ed Elisa, primi cugini per parte della madre, erano cresciuti insieme e si erano anche picchiati qualche garontolino giuocando a moscacieca nelle anticamere dell'avito palazzo. Enrico quasi non la riconosceva più, tanto s'era fatta grande, bella e vistosa uscendo dall'età ingrata. I saluti, le condoglianze, le frasi scambiate fra di loro son tutte cose che il lettore intelligente imagina da sè. Elisa negli occhi, nel sorriso, nel colorito del viso, bello e innocente, mostrava una felicità così sincera e grande, che non c'era da sbagliarsi. Povera fanciulla! Ella s'era avvezzata già da qualche tempo a considerare apertamente il contino come il suo amante, come il suo futuro sposo. Era una cosa quasi convenuta in famiglia. Sua madre e la balia glielo ripetevano spesso. La balia qualche volta, non ridendo, la chiamava contessina. La mente dell'Elisa, per non dir ancora il suo cuore, era piena dell'imagine di Enrico, bello, giovine, conte, simpatico, ricco. Perchè non l'avrebbe essa desiderato per marito? Del resto l'Elisa non ne sapeva nulla più in là! Dopo una mezz'ora di condoglianze, di domande, di risposte, di progetti, di spiegazioni la signora, Martelli fece all'Enrico l'ambasciata del marchese d'Arco. - Ci vado subito dal povero vecchio. Mi vuol sempre tanto bene? - Oh sì, - disse la Elisa, - come tutti, del resto. La madre diede a sua figlia uno sguardo significante. Di lì a poco la signora Martelli domandò a suo marito se aveva pensato di invitare l'Enrico a pranzo. - C'è anche Aldo Rubieri, che desidera di conoscerlo. - Non faceva però bisogno d'invitarlo, - rispose don Ignazio, - dove vuoi che vada a pranzare oggi se non è con noi? - Aldo Rubieri, il bravo scultore? - domandò Enrico. - Lui! Io gli faccio tutti i suoi affari, - rispose il notaio. - Oh! bravo, bravo, pranziamo insieme - aveva sclamato intanto l'Elisa battendo le palme una contro l'altra. Ma l'esplosione di gioia erasi troncata di botto perchè ella aveva incontrato di nuovo lo sguardo severo di sua madre. - Non vuoi proprio dunque imparare a dissimulare un poco i tuoi sentimenti? - le diss'ella quando furono sole. - Ma che cosa ho fatto poi? Non m'hai detto tu stessa qualche volta che sono destinata ad essere la sua sposa? - Certo - disse la madre - ma se vuoi che egli prenda molta stima di te, è necessario.... - Ch'io finga di non volergli bene? - interruppe l'Elisa. - Non dico questo.... Tu sei sempre estrema nelle tue frasi. E poi pensa che c'è tempo. Egli non ha che ventun'anni. Figurati quanti ne devono passare ancora prima ch'egli abbia l'età conveniente per sposarti. - Ah, non troppo poi! - sclamò l'Elisa con un adorabile atto di sorpresa - io ne ho quasi sedici, sai mamma, e fra quattro anni sarò già vecchia perchè ne avrò venti. - Oh! - sospirò la madre alzando gli occhi alla soffitta, - esse credono di esser già vecchie a venti anni! Un lungo colloquio ebbe luogo più tardi fra il marchese d'Arco e il giovine conte, che era andato in quella stessa giornata a cercare di lui. - Tu sai come ti ha trattato tuo padre? - gli domandò il marchese fissando negli occhi il giovine con molta attenzione. Enrico piegò leggermente il capo sul petto e rispose: - Sì. - E quali sono le tue intenzioni in proposito? - domandò il marchese con una leggerissima emozione nella voce. Tu fra poco in faccia alla legge sarai maggiorenne. E il suo sguardo nelle pupille di Enrico raddoppiava d'intensità. Era ansioso. - Io voglio rispettare religiosamente la volontà di mio padre, - rispose il giovane alzando la testa con molta naturalezza. Il viso pallido del marchese, si illuminò; gli occhi gli si inumidirono. Allungò le braccia e attirò al petto il giovine conte, che non sapeva spiegarsi bene il perchè di tanta tenerezza. A lui pareva una cosa tanto naturale quella di rispettare l'ultima volontà di suo padre! "Bisogna dire - pensò fra sè - che la cosa a Milano non sia creduta molto facile." Anche il tutore il giorno dopo abbordò la questione del testamento. Don Ignazio, più ancora, del marchese, temeva che l'Enrico si ribellasse alla protratta maggior età e volesse tentare la lite, la quale aveva certamente assai probabilità di essere vinta, ma non la certezza. E s'ingannava! A lui pure l'Enrico dichiarò quello che il giorno prima aveva risposto al marchese, intendere cioè di rispettare il testamento, quantunque fosse persuaso che legalmente parlando quella clausola non avrebbe avuta una sanzione! Il cavaliere Martelli era fuori di sè per la gioia. - Che bravo figliolo! Chi l'avrebbe detto! Che bravo figliolo! Allora discorriamo un poco del tuo avvenire - soggiunse egli col suo miglior sorriso. Il ribollimento del suo dolore, fece scoppiar l'Enrico in nuovo pianto. - Via Enrico - disse il tutore tra l'ammirazione e il compatimento - non rammaricarti poi troppo colle tristi memorie. Tuo padre, come pure la tua povera mamma, erano due degne e sante creature che ti stanno guardando di lassù e che ti proteggeranno contro i pericoli della vita. - Son qua, se lo crede necessario, - disse il giovinetto. - Hai tu pensato qualche volta a quello che vorrai farne della tua vita? cominciò a bruciapelo don Ignazio. - Quello che vorrò farne della mia vita? - ripetè Enrico - -ma credo che farò anch'io nè più nè meno di quello che fanno tutti gli altri. - Gli altri, gli altri! - sclamò il tutore con una smorfia - chi sarebbero secondo te questi altri? Enrico fu un poco sorpreso di questa specie di interrogatorio, ma dissimulando rispose: - I miei amici d'infanzia, i giovani della mia età, i miei compagni di collegio... non saprei io... quelli che conoscerò in società... per esempio, mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Ferdinando Sappia che sono maggiori di me, ma che mi volevano tanto bene, e Alfonso Sant'Albano, che veniva sempre a trovarmi, con la sua mamma e con cui giuocavo... ti ricordi zio? precisamente in questo salotto, prima di andar in collegio.... - Ascolta, caro il mio figliolo; questo già non è il momento di farti un predicozzo sui cattivi compagni, però.... - Come! - interruppe Enrico - mio cugino Lorenzo e Gigi Prato e Santalbano sarebbero cattivi compagni? - Non dico questo... non faccio il nome a nessuno io... parlo in generale. Ti basti di sapere che acqua torbida non fa bel specchio. Qui a Milano ci sono dei giovani, così detti del buon genere, che buttano via il tempo, la salute e i quattrini in cavalli, in cene, in ball... in baldorie, in frascherie insomma, e che so io. - Io non ho davvero queste intenzioni - disse Enrico seriamente. - In collegio mi hanno insegnato che cosa si deve fare per diventare un uomo che possa far onore al proprio paese. - Tu mi consoli, caro Enrico - sclamò con giubilo don Ignazio. - Mi piace sentirti a parlare così dei Barnabiti! Enrico sorrise. - Dunque siamo intesi. Ora veniamo alla morale. Tu già non avrai più nessun danaro di quello che ti ho spedito per fare il viaggio. - Non solo non ne ho più di quello, ma siccome, fatto il conto all'ingrosso, quello che tu mi hai mandato non sarebbe stato sufficiente per venire fino a Milano.... - Come! come! Ti sbagli, - Io non volevo farmi vedere a piangere e ho preso un cuppè tutto per me, caro zio. Tu mi hai mandato il denaro misurato per viaggiare nei secondi posti. - Io viaggio sempre nei secondi. - Io no; sempre nei primi. Mi feci dunque prestare duecento franchi da un compagno a cui bisogna li rimandi subito. - Cominciamo male! - disse il tutore grattandosi in capo. - Dunque non hai più neppur un centesimo? - Ma no, caro zio; l'ultima lira l'ho data al facchino, che portò le mie valigie sul legno, tanto è vero che il cocchiere l'ha pagato la portinaia a cui debbo un altro paio di franchi. - Ma caro Enrico, dovevi sapere che non si dà un franco al facchino della stazione. - Non avevo altro. Non potevo farmi dar indietro il resto in spiccioli. - Io ai facchini do sempre dieci centesimi e sono contentoni. - Sarà benissimo. - E poi che necessità di prendere un legno? C'è l'omnibus della stazione, che passa qui davanti alla porta. Enrico cominciava sul serio a inquietarsi. - Ti dicevo dunque - continuava il tutore - che per metterti nella società che conviene al tuo rango e alla tua educazione ci vuole un po' di denaro in tasca. - Lo credo io! - Però, tu non devi aver bisogno di molto. Qui hai il tuo bell'appartamento di sei camere. Hai la balia per la guardaroba e il palafreniere come cameriere e per la scuderia. Colazione, pranzo e vestiario tutto pagato. È un lusso asiatico. Veniamo dunque al concreto e fissiamo questa benedetta cifra dei minuti piaceri, che è lo scoglio più difficile da sorpassare coi pupilli. Quanto ti pare che - È bello? - Sì, è bellino, ma quello che più importa si è che costa poco. Sono quasi certo di portarglielo via per un tozzo di pane. - A chi di grazia? - Ad un mio amico, che è uno dei primi sensali di zucchero e di cacao di Milano. E nota che è a doppio uso. - Chi, il sensale? - No, il cavallo. Egli lo monta e lo attacca alla carrettella. - Mi pare che sarà un po' difficile che lo possa montar io. - Ma perchè? Il mio amico lo montava tutti i dopo pranzo sul bastione, e bisognava vedere che brio. Adesso, povero diavolo, deve come aver sofferto delle disgrazie nel cacao, e gli tocca di vendere il cavallo per pagare i debiti. - Ma è impossibile! - Si può sapere il perchè? - Caro zio, un cavallo che costa un tozzo di pane o è una gran rozza di figura, oppure è tanto vizioso, che mi farà rompere l'osso del collo in meno di quella. - Tutt'altro invece. Vedi come sbagli - sclamò il tutore credendo aver trovata una gran ragione in contrario. - Quel mio amico non si è mai rotto l'osso del collo, quantunque siano già diciotto o vent'anni che lo monta. Enrico scoppiò in una grande risata. Il tutore capì d'aver detta senz'accorgersi una minchioneria. - Venti, e tre di puledro, ventitre per lo meno. Tu dunque zio vorresti darmi il cavallo dell'Apocalisse? Sarebbe più vecchio di me. Se lo montassi mancherei di rispetto al Luogo Pio Trivulzio! - Bene, bene insomma, al cavallo ci penseremo più tardi, - disse don Ignazio levandosi - Oggi siamo intesi; aspettami qui che ti porterò la prima quindicina dei minuti piaceri. - Cento franchi? - Cento franchi. - Basta! Io penso poi che se non mi basteranno tu zio non vorrai mostrarti crudele verso di me. - Crudele no, mio caro Enrico, ma neppur troppo corrente. Ricordati che c'è un limite a tutto e che il mio dovere di tutore e di esecutore testamentario è quello, non solo di conservarti intatta la sostanza, che tuo padre morendo ha affidata alle mie cure, ma anche di aumentarla; perchè devi pensare che, per uscire dalla minorità fissata da tuo padre nel testamento, ti mancano ancora quasi quattro anni. Con tale considerazione era terminato fra tutore e pupillo questo memorabile dialogo, il quale doveva essere, per così dire, la pietra fondamentale d'un edificio destinato a crollare e a cadere a terra in meno appunto di quattro anni. Enrico O'Stiary s'era dato a fantasticare anche lui sul proprio avvenire, e, cosa non molto strana nella sua posizione, s'era sentito invaso, insieme a un certo desiderio di gloria artistica, giacchè egli adorava, la pittura, da una grande voglia di spendere, di brillare, di far la bella vita. L'avvenire? L'avvenire, pensava lui, come quello della maggior parte dei mortali, che non hanno una meta fissa e sicura o che non possedono la forza d'animo che serve a raggiungerla, è in balìa della fortuna; poteva dipendere dalla prima donna che avesse incontrata sul suo cammino, dalla prima amicizia che avesse stretta al club, dal primo avvenimento che gli fosse capitato sulle spalle. Il tutore dal canto suo non aveva già fatto, senza saperlo, il primo passo per riuscire alla di lui più deplorabile rovina finanziaria? Negandogli i mezzi di vivere dignitosamente nella società del suo rango, obbligandolo a far sicuramente dei debiti, fissandogli nella sua gretta ignoranza del mondo, i duecento franchi al mese, non gli apriva forse dal bel principio la strada al disastro? Qualche volta c'è da pensare volentieri che i Turchi non abbiano così gran torto di credere nel destino! La nostra sorte, la nostra felicità, la nostra vita pur anche, non è forse continuamente in balìa del caso? Se il tal dei tali fosse uscito dalla sua porta il tal giorno, del tale anno, soltanto cinque minuti più tardi, avrebbe forse incontrata alla svolta della via quella straniera, che lo colpì di botto, che si fermò a Milano per lui, ch'egli amò come un pazzo, che lo rovinò miseramente e che lo spinse al suicidio? Se quell'altro tal dei tali, invece di tirar dritto per un'altra via avesse dato ascolto all'amico, che lo pregava di svoltare con lui a sinistra e di accompagnarlo a casa, avrebbe forse trovato quei malandrini che lo accopparono quella famosa notte per rubargli il portafogli e l'orologio? E suo figlio, non orfano, sarebbe certo cresciuto un galantuomo, mentre oggi sta a Procida condannato a vent'anni di lavori forzati! Il primo amico in cui s'imbattè il conte Enrico O'Stiary, lo stesso giorno del suo arrivo a Milano, fu il Marchesino Ferdinando Sappia, che venne a cercarlo in casa. - Finalmente! Sai tu che sono ormai più di tre anni che non ci vediamo? sclamò il Sappia contento di riabbracciare il suo giovine amico d'infanzia. - Come ti vedo volentieri, - disse a sua volta Enrico con uguale espansione. Qui il Sappia, vedendo che Enrico era ancora mezzo vestito da garibaldino, gli domandò se non pensava a mutar d'abito e a uscir di casa. - Certamente, - rispose Enrico, - sto aspettando che il sarto mi rechi il vestito nero. - E chi è mai di grazia il tuo sarto? - domandò il marchese, mentre arrovesciava indietro sull'omero con ineffabile garbo la rivolta del suo soprabito da mattino. - A dirti il vero non lo so bene ancora; ma credo non debba essere gran cosa perchè mi pare di aver udito, non ridere! che sia un portinaio. - Un portinaio! - sclamò il Sappia, balzando in piedi come preso da vero spavento. - Tu conte O'Stiary, discendente... - Bene lascia stare la genealogia!... - Vestito da un sarto portinaio come un diurnista del Municipio? Ma è un tradimento, un disonore, un abbominio! - Che importa? Tu sai che io sono un artista! Io non faccio conto di andar attilato come te. - Prandoni mio caro, - gridò il Sappia, continuando colla intonazione semienfatica con cui aveva incominciato. - Fuori di questo non c'è salute. Il Sappia era un di que' giovani, che quando parlano non ascoltano che sè stessi, e non rispondono mai direttamente all'interlocutore. Per essi l'obiezione, l'affermazione e la negazione di quegli con cui stanno a colloquio non esistono. Si capisce che essi non spezzano mai nella mente il filo delle proprie idee; talchè la parte abbondantissima che essi mettono nel dialogo finisce coll'essere un lungo soliloquio, nel quale non trova posto neppur l'ombra del sentimento altrui. - Che vuoi caro Nando - disse Enrico appena potè avere la parola - sono arrivato oggi stesso dopo essere stato per molti anni nei padri barnabiti e per molti mesi volontario in guerra. Sono ignorante come un pilastro di queste cose. Da quest'oggi, se vuoi, io mi metto sotto la tua direzione. Comincerò col licenziare il sarto portinaio. - Il tuo tutore - ripigliò il Sappia - sarà un bravissimo, notaio, ma non può avere pratica di mondo. Guai a te se io non arrivavo da Parigi. - Ah sei stato a Parigi? - Sono tornato l'altro giorno con Filippo Marliani che è fuggito via dalla Nanà, perchè temeva di pigliare una potente cotta. Anzi l'aveva già pigliata! Ma fu bravo e mi diede ascolto. - Nanà? - domandò Enrico curioso come un fanciullo, udendo quel nome muliebre esotico, e vedendo schiudersi con esso un inaspettato spiraglio del mondo delizioso d'amore a cui sognava. - Sì, un'attrice delle Varietès, una cocotte in gran voga... una bellezza superlativa. - Ah una cocotte! - ripetè quasi macchinalmente Enrico. Il Sappia non fe' caso di quell'esclamazione e tirò via. - Guai ti dico se io non giungevo in tempo. Chissà come ti conciavano. E sopratutto non lasciarti abbindolare dalle stupide ragioni di chi ci dà del leggiero e dell'effeminato, perchè spendiamo qualche migliaio di lire più di loro nel vestirci, nel pettinarci, nell'andare eleganti. Mummie costoro! Il vestirsi bene per noi ricchi e nobili è un dovere nè più nè meno di quello del farci la barba tutti i giorni e del curvarci a raccogliere un ventaglio o una pezzuola sfuggiti di mano a una signora. Notisi che tutte queste cose, esposte dal Sappia con una grande volubilità, non erano che teorie; giacchè, quanto a lui, se lo poteva appena appena, schivava di curvarsi a terra per raccogliere il ventaglio di una signora. Enrico cominciava ad ascoltare il Sappia con quel sorriso a mezza strada fra l'ironia e la sazietà; un sorriso che voleva dire: sono anch'io perfettamente del tuo avviso; non c'era bisogno che tu ti sfiatassi a dirmi cose tanto note; sarebbe stato meglio che tu mi avessi risposto qualche cosa di meglio intorno a quella Nanà.... Il Sappia, dopo un altro paio di tirate su quel gusto, trovando, che Enrico era presso a poco della sua statura, lo invitò a scender nel brougham che teneva alla porta per andar da Prandoni a comandar l'abito di lutto. O'Stiary non se lo fece dir due volte e così uscirono insieme. Quando furono seduti l'uno accanto all'altro nel legno, Enrico disse: - Ora tu devi farmi un programma della mia vita. Come passi tu le ore della tua giornata? Ti diverti o ti annoi a Milano? È bella davvero questa vita milanese o c'è pericolo di stancarsene? - Non è certo tutto oro quel che luce; - rispose questa volta il Sappia, che trovava in quella domanda soddisfatto l'amor proprio. - Si stava meglio a Parigi! Però con un poco di buona volontà e con molti danari.... "Ahi," pensò Enrico. - La giornata la si può passare abbastanza bene anche qui senza studiare e senza far della politica, come vorrebbero che facessimo noi giovani i parrucconi e i gazzettieri utopisti, che ci rinfacciano continuamente il dolce far niente. Povera gente! Essi non sanno che non c'è creatura la quale abbia maggior da fare d'un uomo che non fa niente! E la ragione è chiara; siccome la sola religione di costoro è l'interesse, siccome il solo idolo ch'essi adorano è il danaro, così sapendo che in questo paese non si può guadagnar danaro, che facendo l'avvocato o il notaio o il negoziante, essi non vedono che queste professioni. Del resto tu sei dilettante di pittura e questo basta già a darti il diploma di uomo che fa qualche cosa a questo mondo. - Tutto sta che io trovi il tempo di dipingere.... - Tu discendi da un'antica prosapia irlandese, ed è naturale che i tuoi istinti siano più cavallereschi che artistici o letterarii. Ebbene quella tal genìa col pretesto che a Milano nell'aristocrazia ci furono dei Verri, dei Beccaria, dei Borromei, dei Taverna, dei Litta, dei che so io, vorrebbero che tutti noi fossimo scenziati e letterati e che invece di montare a cavallo, tirar di spada, far delle scarrozzate, amar le belle donne, e divertirci a cena avessimo a studiar tutto il giorno e tutta la notte. Non nego che la cosa in massima non sia eccellente, ma più per tutti gli altri che per noi. Noi abbiamo il dovere di non rubar il mestiere a chi lavora per vivere. Le tre sole carriere che ci convengano sono quella delle armi, quella della diplomazia e quella della chiesa. Ma se si può far a meno!... Capisci. Di diventar arcivescovo, per esempio, io non mi sento la foia. - Neppur io. Tu mi consoli - disse O'Stiary. - Intanto per questa sera tu sei sequestrato - continuò il Sappia. Comincerò col presentarti alla mia amorosa. - Chi è? - Una bella ragazza, che non ha altro difetto che una piccola cicatrice in fronte. Le ho già parlato di te e desidera di conoscerti. - Desidera di conoscermi? - sclamò Enrico ridendo. - Sono dunque diventato già un personaggio in poche ore? Ma no, ti sono obbligato riprese facendosi serio ad un tratto. L'imagine casta e nobilissima della sua Elisa gli si era affacciata a un tratto. - Capisco - ripigliò - che con una signorina di questo genere sarei ancora molto imbarazzato e temo di aver l'aria di un collegiale. - Fidati di me. La è una casa deliziosa. Non perchè gliel'abbia montata io... ma ella sa fare, parola d'onore. Sans gêne come lei, che in illo tempore fu barabbina la sua parte. Dopo cinque minuti ti parrà d'essere in casa tua. La si saluta, poi chi non ha voglia di farle la corte non pensa più nemmeno che essa esista. Tu ti sdrai, fumi, parli, leggi, ridi, sfogli degli albums e senti dire delle enormi sciocchezze e dei calembours impossibili che sono anche quelli che fanno ridere di più. - E la ragazza è contenta che la si tratti così? - Contentissima. L'abbiamo lanciata noi? - Dimmi un po'.... E questa Nanà chi è? - Ah Nanà è un prodigio! È una parigina puro sangue! Bella come una leonessa, matta come una Baccante, calda, piena di spirito. Quel povero Marliani, s'io non lo strappavo da lei, ci lasciava la sostanza, la salute e le ossa. - E tu? - domandò il conte. - Oh, io non mi lascio pigliare! Non appena, nel cervello del marchesino Sappia, fu entrata l'idea, che parlando all'amico di quella gran cocotte di Parigi, il proprio prestigio di uomo di mondo ne sarebbe ingrandito di cento palmi, cominciò a lodare e a magnificare Nanà in tutti i sensi. Da sballone d'ingegno, qual era, inventò su di lei cose inaudite e rare. Parlò delle di lei bellezze, del suo treno di casa, delle sue scuderie, del suo modo di ricevere, del suo appartamento. Cose tutte, tranne la prima, che egli non aveva mai vedute, nè conosciute, che per bocca di Marliani. - Imagina una testa - disse a Enrico - che avrebbe fatto delirare Tiepolo, Giorgione e Tiziano insieme; una testa coi capelli color del pomo d'oro pallido, quando è proprio d'oro, quel colore insomma che la scuola veneta prediligeva; capelli che quando glieli scioglievi, andavano giù fino a terra e la celavano tutta intorno intorno, tanto ne era il profluvio. Imagina tutto ciò che v'ha di più bianco e di splendido nei toni della carnagione, che, come puoi pensare dal color dei capelli, è pari a neve, rosata insieme e calda, con dei riflessi d'oro per la lanugine fulva che la ricopre. Imagina delle linee e delle curve sode e belle come non le hanno mai imaginate neppure gli scultori greci, che si crede abbiano dato il non plus ultra della formosità femminile. Tutte queste bellezze di linee e di curve formano un vero incantesimo, caro il mio Enrico. In quanto al morale imagina una buona pasta di fanciulla, piena di cuore, di voglia di far all'amore, allegra, spensierata, alla mano, una vera bambina di diciannove anni, ma che conosce la scuola erotica come una parigina ch'ella è, e che sa mandarti in paradiso o in inferno a tua posta; imagina tutto questo, e avrai una pallida idea di quello che sia la Nanà di Parigi. Enrico ascoltava il Sappia con quel lieve sorriso adolescente che vuol dire un'infinità di cose gravi. In lui esprimeva anche quel non so qual pudore giovanile, che serve a far vibrare più viva nella fantasia quasi vergine le corde della curiosità voluttuosa. Enrico, per conto proprio, avrebbe continuato a parlare tutto il giorno di questa misteriosa e splendida Nanà. - Chi è che vi ha presentati a lei? - domandò infatti con voce tenue, quasi tentasse di non lasciar iscorgere al Sappia ch'egli si interessava enormemente in quel soggetto. A questa domanda il Sappia non rispose subito. Se egli avesse avuto voglia di dire la verità, avrebbe dovuto rispondere a Enrico che la Nanà, lui e Marliani, l'avevano conosciuta da madama Tricon. Avrebbe dovuto raccontare molto volgarmente, che la bella prima sera del loro arrivo a Parigi erano andati a teatro, e avendo veduta figurare, in una rivista, quella stupenda creatura, avevano domandato conto di lei, all'albergo. Che il cameriere aveva loro insegnato di rivolgersi a madame Tricon dove, mediante una trentina di luigi, avrebbero potuto fare la di lei conoscenza. Fi donc doncE avrebbe dovuto soggiungere, che la mattina dopo, da veri viaggiatori meneghini e sfaccendati che in paese straniero non vedono che donne e non pensano che alle donne, erano corsi, coi loro trenta luigi in tasca, da madame Tricon proponendosi di tirare a sorte la primizia di Nanà. Avrebbe dovuto soggiungere che madame Tricon si rallegrò immensamente di vederli, e fece loro una festa spietata, quando s'accorse che erano forestieri: "Perchè, diceva essa, la Nanà è felice d'essere richiesta da stranieri. Dei parigini essa non ne vuol più sapere. Sarebbe capace di morir di fame ormai, piuttosto che venire da me, se io non la assicurassi che chi la cerca non è francese. Voi siete spagnuoli, non è vero? "Italiani - aveva risposto il Sappia." E avrebbe dovuto ricordare che la Tricon, a quella notizia, aveva fatta una piccola smorfia, punto lusinghiera pel suo paese, e aveva subito domandato loro se tenevano in tasca i venticinque luigi necessarii; e che alla loro affermativa aveva soggiunto: "Debbo avvertirli però che ciascuno di loro due dovrà scegliere un giorno diverso dall'altro, giacchè Nanà non acconsente mai di posare due volte nella stessa giornata." Il lettore che avesse bisogno di maggiori schiarimenti sopra codesta madame Tricon non avrebbe che a scorrere la Nanà di Zola, laddove egli accenna di questa signora: "Zoe - la cameriera di Nanà - aveva veduta una ventina di volte madama Tricon venir in casa e parlare qualche minuto misteriosamente colla padrona; ma essa affettava di non conoscerla, e di ignorare completamente quali fossero i rapporti che esistessero fra questa donna e le signorine che pativano asciugaggine di tasche." La povera - dico povera nel senso cristiano - la povera Nanà quando aveva bisogno urgente di danaro ricorreva alla casa di madame Tricon. "Va, va, ma fille! diceva essa fra sè - ne compte que sur toi. Ton corps t'appartient, et il vaut mieux t'en servir que de subir un affront." "Et sans même appeller Zoè elles s'habillait fievreusement pour courir chez la Tricon. C'etait sa supréme ressource aux heures de gros embarras. Trés demandée toujours sollicitée par la vielle dame... elle ètait sûre de trouver là vincinq louis qui l'attendaient. l'attendaient.Ma tutto ciò, che sarebbe stata la pura e nuda verità, il marchese Sappia non poteva nè voleva più dirlo all'Enrico. Egli, per darsi del tono, si era già compromesso; s'era slanciato a dir mille bugie e mille invenzioni sul conto di Nanà. S'era ingolfato nelle regioni iperboliche di una splendida galanteria. Si guardò bene dunque di accennare neppur per ombra nè alla Tricon, nè ai venticinque luigi necessari, nè ad altre simili bagatelle; e invece impacchiuccò ad Enrico una risposta inventata come tutto il resto, e continuò a parlargli di presentazioni fatte sul palcoscenico, anzi nel di lei camerino, da un amico parigino, che aveva entratura nelle coulisses, coulisses,poi di gite in campagna fatte insieme, e di serate al Mabille, e di cene, e di orgie in cui non c'era la benchè minima ombra di vero, ma che a lui pareva lo posassero in faccia ad Enrico su un piedestallo eccelso. Ciò che v'era poi di più piccante ancora in tutto questo, ciò che costituiva un fatto relativamente grave e ridicolo, si è che, lui, come lui, proprio lui, precisamente lui, codesta Nanà non l'aveva proprio mai toccata neppure colla punta del dito mignolo. I due giovinetti naturalmente, là dalla Tricon, avevano tirato le buschette. Se i lettori trovano questo fatto molto choquant non so che farci. E d'altronde nel caso di Sappia e di Marliani tutti i lettori farebbero lo stesso. La sorte aveva favorito il Marliani. La Tricon allora aveva significato al Sappia, che egli avrebbe dovuto rassegnarsi ad aspettar un altro giorno le grazie di Nanà, perchè quella benedetta ragazza non avrebbe mai acconsentito a passar dalle braccia dell'uno in quelli dell'altro. Il Sappia, di malumore per questo sberleffo della fortuna, pure aveva aspettata Nanà là nel salotto della Tricon, per vederla arrivare, e sentir da lei quando fosse stata di comodo di concedergli il rendez vous vousanche a lui. Essa era venuta infatti, tutta bella, fresca e voluttuosa; ma quand'egli aveva tentato di farsi promettere che il giorno dopo sarebbe ritornata per lui, Nanà aveva risposto: "No, caro signore, domani no. Restate voi a Parigi?" "Certamente, siamo arrivati ieri. Io ci starò finchè a voi piaccia di non essere crudele con me." "Allora vedremo, aveva risposto Nanà, la quale, come si sa, abborriva dal cedere per danaro, e lo faceva soltanto nei giorni di grande arsura. - Vi farò avvisare da madame Tricon, se vi piace. Ma non fatemi importunare troppo dalla vecchia, perchè altrimenti non mi avrete mai più!" Il Sappia ridendo si rassegnò ad aspettar il di lei capriccio. Aveva capito che con quella creatura non era il caso di ottener di più, nè colla preghiera, nè colle offerte. Per venti giorni egli s'era recato ogni mattina a trovare la Tricon, la quale dal canto suo andava un paio di volte la settimana a sollecitare la Nanà; sempre invano. Marliani intanto, senza dir nulla all'amico, c'era riuscito invece ad ottenere da lei un secondo rendez-vous, in tutt'altro luogo, e le aveva mandato una bagattella di braccialetto da cinquemila franchi, i quali se li era dovuti far mandar da Milano. La Nanà aveva trovato il Marliani molto simpatico e non s'era fatta pregare molto a concedergli una seconda visita. Quanto a lui, da buon amico, aveva tentato di dissuadere Nanà a dar ascolto al Sappia. Essa non glielo aveva promesso formalmente, ma glielo aveva lasciato sperare. Invece un bel giorno la Tricon mandò un bigliettino al marchese in cui gli significava che la Nanà sarebbe venuta a casa sua quel giorno per lui, ma che aveva messo per condizione il migliaio. Il marchese, contentone, aveva messo nel suo portamonete il biglietto da mille, e alle due ore era là tirato come uno stecco, ad aspettare la bella donna. La sua frègola era al colmo. Il Marliani gli aveva raccontate cose tali di Nanà che il marchesino ardeva, bruciava, e dopo un quarto d'ora aveva già indosso l'agonia. Passarono le due e mezzo, passarono le tre, le tre e un quarto e Nanà non compariva. Madama Tricon si esibì di andar ella stessa a vedere che cosa diamine fosse successo. Mezz'ora dopo tornò a contare che Nanà aveva litigato con Satin, e che non sarebbe venuta; che l'aveva mandata al diavolo lei, la sua casa, gli Italiani, il biglietto da mille e tutti quanti insieme. Il Sappia era dunque partito da Parigi senza poterla biblicamente conoscere. E siccome aveva conservato pel Marliani in fondo al cuore un po' di rabbietta, perchè egli potesse vantarsi d'averla trattata e lui no, giunto in patria gli aveva voltato l'occhio, e dall'arrivo non s'erano più ritrovati. Quanto al Marliani aveva seguíto a malincuore il Sappia. Quella fatale Nanà - quella cocotte da venticinque luigi - lo aveva ammaliato. Le due o tre volte ch'essa s'era concessa a lui per riconoscenza del braccialetto, gli ballavano nella fantasia una ridda di tali memori voluttà, che capiva non l'avrebbero lasciato tranquillo per un bel pezzo. La carrozza era giunta a casa di Sappia. Montati in camera, questi intraprese la metamorfosi di Enrico, vestendolo di nero; poi andarono dal cappellaio, poi dal Mosconi il calzolaio dei nobili, poi dal Prandoni. Enrico tornò a casa all'ora del desinare e pranzò colla Elisa, la quale di quando in quando, allorchè egli le sorrideva, alzava i suoi occhioni innocenti e belli in viso al garibaldino, mentre due altri sguardi, tutt'altro che indifferenti, andavano spesso a impetrare dalla vergine un amichevol occhiata, ch'ella quel giorno si ostinava di non conceder loro. Erano gli sguardi di un altro giovane invitato a pranzo, e che sedeva accanto alla signora Eugenia, uno scultore, che si era fatto conoscere favorevolmente nella Esposizione di quell'anno e che rispondeva al nome di Aldo Rubieri. Verso le otto e mezza il Sappia venne a riprendere Enrico per andar insieme dalla Luisa, alla quale il marchesino passava seicento franchi al mese. Essa abitava un elegante appartamento a primo piano in Via Solferino. Chi era la Luisa? D'onde veniva? Come aveva conosciuto il Sappia? Nel nostro tempo, una ragazza di diciotto anni: come la Luisa, con discreto ingegno, molta malizia, una gran dose di concupiscenza in corpo, e punto quattrini, se fosse rimasta, quel che si dice, una fanciulla onorata lo avrebbe dovuto indubbiamente ai propri genitori. Non è certamente troppo difficile che anche da una famiglia di galantuomini sorta fuori una ragazzaccia che si butti via; ma sarebbe un vero miracolo se in una famiglia viziosa, disordinata e miserabile, ci fosse una creatura che sapesse conservarsi onesta. La Luisa era nata da un padre briccone e da una madre bigotta e quasi cretina. Suo padre faceva un mestiere proibito dal codice, e, quel ch'è peggio, lo faceva colla coscienza tranquilla di chi crede di non commettere azione disonesta. "Un mestiere come un altro" diceva lui. Egli, sostraro fallito, s'era acconciato a diventare fabbricatore di falso coke, che vendeva a certi suoi antichi colleghi, ladri come lui, a non so quanti centesimi il chilogrammo. Il falso coke è composto di rottami di fabbrica, di vecchi mattoni, di calcinacci e di ciottoli fatti cuocere nella pece e simulanti il coke vero. Per certi venditori di carbone è comodissimo. Fa comparir un quintale di combustibile, ciò che, in sostanza, non è più di ottanta chilogrammi. Essi spacciano alle loro pratiche quattro quinti di coke e un quinto di falso coke fabbricato dal babbo della Luisa, e rubano, con un peso perfetto, il quinto sulla differenza. A Parigi questi e simili truffatori sono colti e pagano delle buone multe. A Milano finora nessuno ci ha mai badato, e le stufe a coke milanesi son tutte piene di mattoni e di calcinacci. I primi col dileguarsi della pece che li ricopre, diventano rossi dalla vergogna, i secondi bianchi dalla paura. Prima che giungesse per la Luisa l'età dei desiderî malfrenati e prima che il mal esempio paterno entrasse a guastarne l'indole, già discretamente perversa, la Luisa era un ciuffetto, ma non dava a pensare che sarebbe diventata la birba che diventò. Ella aveva qualche istinto buono; tant'è vero che aveva cominciato fin dai nove anni e senza addarsene, a trovarsi in flagrante contrasto con suo padre per causa di probità. Una sera - ell'aveva appunto nove anni, e andava come piccina a scuola di stiratora - stavano raccolti nella lurida stanzaccia, che serviva di covile a tutti e tre, e il padre si mostrava lieto più del solito. - Che hai Gana? - domandò la madre. - Ho tirato su un bischero al prezzo - rispose il marito fregandosi le mani lorde. - Che prezzo? - Al mio uso carbone. Oggi ne ho venduta una partita a dieci centesimi al quintale più del solito. Ah, fu una gran bella invenzione la mia! - Babbo! - fece la Luisa. - Che vuoi, pettegola? - È vero che il tuo carbone fa peso ma non fa caldo? - Chi te l'ha detto, stupida marmotta, chi te l'ha detto? - gridò il Gana arrovvellato. - Quando i mattoni sono roventi fanno caldo anch'essi. Chi te l'ha detto? - Me l'ha detto la maestra - rispose la piccina. - Dirai alla tua maestra che la vada a pigliar.... La frase, per quanto vera, non può essere ripetuta. Nessuna teoria al mondo potrà fare mai, che essa sia per diventare artisticamente e umanamente presentabile. Ma la Luisa ebbe allora il coraggio di replicar un'idea sentita da sua madre. - Anche la mamma dice, che questo è un rubare alla povera gente. Non l'avesse mai detto! Il Gana prese un bicchiere sulla tavola, e lo scagliò contro la bimba. Il bicchiere si spezzò sulla di lei fronte; uno zampillo di sangue spicciò da un arteria e andò a bagnar la faccia del feritore, che ne restò sconciamente intrisa. La madre svenne di spavento. Questo era stato il primo grave strapazzo, ma non l'ultimo. Quella bestia di un fabbricatore di coke batteva a sangue la Luisa tutte le volte che sentiva di aver torto. Così, imparando da suo padre, già a quattordici anni ella avrebbe potuto aspirare alla cerchia dove Dante condannò i violenti. Di lì a poco la Luisa s'era già concessa per semplice curiosità, senza lotta e senza amore, al primo scapestrato, che le aveva offerto un anellino e una cena al veglione. Costui veniva spesso dalla maestra stiratora a raccomandarle di dar l'amido più denso o meno azzurrino ai manichini e ai solini da collo. Un giorno regalò alla Luisa uno spillone d'acciaio in forma di stiletto per fermare il profluviante volume de' suoi capegli castagni. La Luisa aveva usato di quello stiletto per ferire malamente una compagna, di scuola, spintavi da subitaneo furore di gelosa picca. L'educazione paterna portava già i suoi frutti cruenti. Quella ferita, fatta in corpo scrofoloso e affetto da lue ereditaria, aveva tratto al sepolcro quella misera compagna, e la Luisa era stata condannata a due anni di carcere in grazia dell'età adolescente e della nessuna premeditazione. In carcere essa aveva compiuta la sua educazione di mariuola e quando ne uscì, ell'era in tutto il rigor del termine, una birba sconsacrata. Immaginatevi ora una fanciulla di diciasette anni bella, poltrona, lasciva, scorbellata, che esce di prigione e che non vuole nè può tornare in casa paterna, dove non è rimasto che un babbo, ancora più briccone, più scioperato e più lascivo di lei. Sua madre, nel frattempo era morta; le anime buone, dicevano di crepacuore, le sue più intime amiche dicevano di catarro. Dal carcere, finita la pena, alla Luisa era toccato di andar difilato alla Questura; e più precisamente a quella sezione dell'ufficio, che provvede alla sanità pubblica e che ha l'incarico di sorvegliare la condotta delle fanciulle, che non avendo di che vivere, non pensano a mettersi un ditale sul pollice e un ago fra le dita. Là le venne domandato naturalmente, che cosa intendesse di fare della sua vita e in qual modo contasse provvedere alla propria esistenza? - Me lo dicano loro! - rispose la Luisa. - Io non lo so. - Noi non possiamo dir niente - rispose il delegato con un sorriso eloquente. - Noi siamo qui per sentire e non per insegnare. Non facciamo il maestro di scuola noi. Bisognerebbe però che prima di tutto tu ti trovassi un qualche galantuomo che venisse qui a rispondere per te. Allora saresti fuori immediatamente da tutti i fastidî. "Bravo - pensò la scorbellata - vuole dire ch'io mi faccia mantenere." - Ma dove vado a pescarlo, così sui due piedi, un galantuomo che voglia rispondere per una povera tosa che esce di prigione? - Prima di entrarci in prigione un amante lo avevi pure! - disse il delegato. - Ma ora non c'è più. Ha pensato bene di buttarsi nel tombone di San Marco, perchè era troppo contento d'esser venuto al mondo. - Cerca qualcun altro allora. - A questo c'avevo già pensato anch' io - riprese la Luisa - ma intanto, come faccio a vivere? - Ti sentiresti di poter tornare una buona figliola? - In che modo buona figliola? - Mettendoti ancora a lavorare! - Io sì - rispose la Luisa, mentendo; giacchè nel suo interno era g'ià scoppiato invece un no risoluto e indiscutibile - Ma dov'è che potrei trovar da lavorare? Se me lo procurano loro lo piglio, se no, non saprei. - T'ho già detto, cara mia, che noi non facciamo di questi uffici. Non eri tu prima da una stiratora? - Oh, come lo sanno loro? - Noi si sa tutto. Tu eri già sul nostro libro prima di andar in prigione. Tu frequentavi le sale da ballo e qualche altro luogo anche peggio. Non è vero? "Ho capito" - pensò fra sè la Luisa. - Va a vedere se la tua antica maestra la ti volesse ripigliare. È una buona donna. - Io no, vede, e lei? Mi canzona? Dopo quello che è accaduto là in quella stanza? L'imagine della ferita, del sangue, delle grida e di tutto il trambusto ch'ella aveva suscitato il fatal giorno, le si affacciò con brusco assalto e impallidì. Il delegato capì e non insistette. - Vedi che cosa vuol dire a fare delle brutte azioni? - Ora quel che è stato è stato; la brutta azione me l'hanno anche fatta pagare carne salata, me l'hanno fatta. - Ricordati che sarai tenuta d'occhio dalle guardie. - Questo lo so senza che me lo dica. Se non ha altri moccoli, perch'io m'aiuti, posso fallare a morir di fame. - Cercati lavoro e non andar in volta di sera e ben poco anche di giorno. Capisci? - Già, e il lavoro verrà da sè stesso a cercarmi a casa mia, n'è vero, il lavoro? E intanto come farò a vivere? - Questo ti riguarda, Arràngiati. Arràngiati.La Luisa continuava a far l'innocentina. - Cosa vuol dire arràngiati? arràngiati?- Non so nulla. Ma ricordati di non lasciarti trovar sola a scopar la strada, specialmente dopo il tramonto, se no le guardie ti arresteranno e ti condurranno qui da me. - Me l'ha già detto e ripetuto tre volte a quest'ora. E nella sua testa la Luisa aveva cominciato a mulinare al mezzo di far cascare il delegato in una frase scandalosa. Ella si sentiva in confuso, una gran voglia di far risaltare la così detta immoralità nella bocca di quell'impiegato dei Governo. Voleva che fosse proprio lui a dirle di pensare a vendersi senza tanti scrupoli, e a fare la sgualdrina. - Io le torno a domandare chi è intanto che mi darà da mangiare? - Oh! - scoppiò finalmente a dire il delegato che non sospettando non stava in guardia, ed era anche un po' ammaliato dal bel viso di lei - credi tu che io sia un imbecille, da venir qui a farmi la bambina, dopo essere stata due anni in prigione? Chi t'ha a dar da mangiare? Ma, il primo messere che abbia due occhi in capo, dieci lire al giorno da spendere... sacrr... - e qui giù una specie di bestemmia da regio impiegato - e a cui piaccia il bel sesso. E quando il messere sarà deciso a fare sicurtà per te, conducilo qui che io ti cancellerò subito dal libro. - Ora sono soddisfatta - sclamò la Luisa che c'era riuscita. - Basta così! Il delegato, che la guardava con compiacenza, s'accorse allora dal sorriso maligno di lei, ch'ella era persuasa d'aver riportata su di lui una piccola vittoria. Essa c'era riuscita! E infatti pensava lei a un dipresso: "È il direttore d'una sezione di Questura, è il rappresentante della morale pubblica, è l'ufficiale del governo italiano che m'ha detto di andar alla perdizione. Io farò il mestiere per obbedire al commissario. Se fosse altrimenti, egli penserebbe piuttosto a procurarmi del lavoro. Egli mi lascia in balìa di me stessa, e sa pure che io di lavoro nè posso, nè voglio trovarne, mentre egli sa che di messeri, anche senza il suo parere, ne troverò finchè sarò stufa." La Luisa, uscita di là, si mise dunque in cammino per obbedire al delegato. Essa dava ascolto alla legge, essa si uniformava ai regolamenti di Questura: Non caste sed caute Così che, se fosse anche stato il caso di dover fare il brutto mestiere contro voglia e contro coscienza - ciò che non era - la si sarebbe trovata come si dice colle spalle al muro. Se non che la coscienza e la voce dell'onore nella Luisa era un bel pezzo che tacevano. Anch'essa, come Nanà, quantunque in un grado molto più volgare e più perverso, non sentiva più in corpo che tre grandi inclinazioni molto serie e molto spiccate: quella di non lavorare, quella di far all'amore e quella di non morir di fame. E, quanto alla terza, via! non si saprebbe davvero da qual parte farsi per dare tutto il torto a lei sola. Il diritto non le può essere contestato! Non aveva mossi un centinaio di passi fuor dall'ufficio di Sanità, eh' ella s'accorse d'essere pedinata. Non sapeva bene se erano due o tre, perchè non li vedeva e non si voltò indietro; ma se li sentiva, come per intuizione, nella schiena. Si fermò a guardare in una vetrina di modista per lasciarli passare e sapere almeno se erano gobbi o sciancati, giovani o vecchi. E volgendo il viso per guardarli, passati che furono, scorse dal canto della via, spuntare una donna, un'antica conoscenza, una certa sôra Marianna, la quale teneva sotto il braccio un enorme fardello e veniva un po' barcollando verso di lei, col sorriso che dava a vedere come l'avesse già ravvisata da lungi. Quando le fu d'accosto: - Centini mundi - sclamò questa; la era una sua esclamazione particolare. - Finalmente che la possiam rivedere, la possiamo, questa nostra bellezza! Dove diamine la è stata tutto questo tempo? Sapeva la vecchia che la Luisa era appena uscita di prigione? Le aveva fatta la domanda con malizia e per umiliarla, oppure non ne sapeva nulla? La Luisa, a buon conto, fece la prima supposizione, e rispose non arrossendo e con una specie di impertinenza: - Sono stata a Parigi! E lei, dove va con quel fagotto? - Eh, sa bene! Le solite miserie. Vado a mettere in collegio un po' di roba, perchè è bene che impari anche lei a stare al mondo. In lingua il bisticcio della Marianna non regge; in dialetto fece il suo immancabile effetto, e la Luisa ne sorrise malinconicamente. In dialetto, monte e mondo hanno lo stesso suono. - Anche lei! - disse la fanciulla. - Non c'è dunque che miseria a Milano? - Che vuole, cara Luisa! E lei? - Io? Io, come la mi vede, non so oggi come pranzare. - Possibile! - sclamò la signora Marianna coll'accento incredulo. - Una bella tosa pari sua? Centini mundi S'io fossi in lei, vorrei domandar se Milano è da vendere. Lei non ha a far altro che metter giù il suo bravo grembiale e star lì a veder i merli a fioccarvi dentro colle mani piene di bigliettoni bianchi, rossi e verdi. - Me lo disse poc'anzi anche il... Voleva dire il delegato, ma troncò la frase. La vecchia però aveva già mangiata la foglia. - Oh, diamine! Le toccò di andar laggiù? La Luisa si morse le labbra. Pel gusto di ponzare la sua piccola idea di ribellione ironica contro le incumbenze del delegato e contro la morale pubblica, essa aveva svelato il brutto segreto. - M'ha mandato a chiamare per sapere come faccio a vivere dopo il mio ritorno da Parigi, perchè ha saputo che vivo sola. - Io ne avrei uno che sarebbe un portento per lei - disse la vecchia strizzando l'occhiolino. - Di che cosa? - domandò la Luisa fingendo di non capire. - Un messere, centini mundi Chi vuol che sia? - Chi è desso? - È un banchiere. - Giovane? - Ecco - disse la Marianna - per giovine non è giovine di primo pelo, ma però è benissimo conservato, e ricco. - Quanti anni avrà, insomma? - Io non gli darei più di sessant'anni o sessantadue. - Oh, che strega! - sclamò la Luisa, scoppiando a ridere. - Mi parla di primo pelo! Non è nè di primo, nè di secondo! - È meglio anzi che sia un uomo posato... un uomo che ha già fatta la sua carovana. - Sì, sì, non dico, ma quanto al primo pelo... màghero! màghero!- È capace di farle una posizione. - Crede lei che vorrebbe rispondere per me là da quel caro direttore? - Questo poi non lo so, perchè è ammogliato. - Anche ammogliato! - sclamò la Luisa. Poi riprese: - Meglio allora! - Sicuro che è meglio. Dà minor fastidio. Lo si può tener in gambe, comprometterlo, levargliene quanti si vuole. E poi si è più libere di tenersi il candelliere e il capriccio; si ha sempre il coltello per il.... - Bene, bene, queste cose le penso anch'io - interruppe la Luisa un po' duramente. Quella benedetta parola di coltello, poco o molto, la faceva sempre trasalire, anche quando era pronunciata in una figura rettorica. - Dove si potrebbe vederlo questo banchiere di... terzo pelo? - In casa mia, se vuole. - Lei sta ancora laggiù? - Sì, cara. - E quando? - Magari domani. Il tempo di avvisarlo. - A che ora? - A mezzogiorno. - Bene, domani a mezzogiorno sarò da lei. E si lasciarono. La Luisa si spiccò di là, e vide sul canto della via che uno de' suoi pedinatori stava ad aspettarla. Quand'essa gli passò dinanzi, egli le fe' tanto di cappello. La Luisa rispose con un modesto chinar del capo. L'altro, che era appunto il marchesino Sappia, le si mise accanto. - Si potrebbe aver l'onore di sapere, bellissima creatura, dove siete diretta? - Lei è ben curioso! - Io faccio come il dottor Faust con Margherita, e vi domando il permesso di accompagnarvi a casa. - Non posso darglielo - rispose la Luisa, che, piena di appetito, aveva già messo l'occhio sul suo moscone per farsi pagare da pranzo. - Perchè non può darmelo? - Se io le ripetessi che lei è assolutamente troppo curioso, che cosa mi risponderebbe? - Che la curiosità è la madre della voglia di sapere. - Lei è forse uno di quelli che scrivono sui giornali? - No, no - rispose il Sappia ridendo. - Ma perchè questa domanda? - Perchè lei mi parla molto difficile. Che so io? Poc'anzi era il dottor Faust e Margherita, e ora è la madre della voglia.... - Bene, parlerò più facile. Come avete nome? - Ho nome... ho nome Aquilina. Ma non permetto che mi si dia del voi. - Vi darò del lei. Aquilina, bel nome! Nome superbo, e portato da una donna adorabile. - Me l'hanno detto degli altri. - E se io desiderassi di fare la sua conoscenza, bellissima Aquilina, me ne darebbe lei il permesso? - Mi par bene che stiamo facendola.... - Sì, ma io dico... una conoscenza un po' più intima... a quattrocchi. - Non si rifiuta mai la conoscenza d'una persona educata come lei. - In casa sua dunque non ci si può venir davvero? - Per ora no. In seguito non dico. Ora io vado a pranzo. Quest'oggi si potrebbe tutt'al più trovarsi alla stessa tavola a pranzo. - E se io la invitassi a pranzare con me fuori di Porta? - Dove, per esempio? - Non saprei.... All'Isola Bella. - No - rispose la Luisa - all'Isola Bella c'è troppa gente; piuttosto al Giardino d'Italia. - Allora ci possiamo andar subito. Sono ormai le quattro e mezza. - Come vuole. Il Sappia fece un gesto ad un cocchiere di vettura pubblica, che passava col legno vuoto. Vi montarono, e via pel Giardino d'Italia. Come si vede, la Luisa obbediva largamente al delegato. Essa coglieva due piccioni ad un favo. Aveva trovato un probabile messere e aveva azzeccato il pranzo di quel giorno. - Sapete, bella Aquilina - disse il Sappia quando fu seduto a tavola colla Luisa al Giardino d'Italia - che voi assomigliate in un modo spaventevole ad un'amante che io ho avuto or ora a Parigi? - Davvero? Ciò mi rende orgogliosa! - Naturalmente voi non siete ancora a quel punto.... - Oh, lo credo! - Quella era una cocotte sì, ma una cocotte gran dama. - Ho capito! - Ha nome Teresa, ma tutti a Parigi la chiamano Nanà. Non ha meno di trentamila franchi al mese, ed è sempre in miseria. - Vuol dire che li spendeva. - Sicuro! - Ah, in questo poi non vorrei assomigliarle. - Vediamo, Aquilina. Voi mi piacete in modo enorme. Ci sarebbe speranza di intenderci? Io non v'ho ancora detto il mio nome; sono il marchese Sappia. Io vorrei fare di voi una seconda Nanà. - Che non spende trentamila franchi al mese, però. - Ah, naturale! Tutto dev'essere in proporzione. Milano fa trecento mila abitanti coi Corpi Santi, Parigi ne fa un milione e mezzo; cinque volte tanto. A Milano, una fanciulla come voi può col quinto di trentamila franchi al mese, che sono sei mila far la signora come Nanà a Parigi. - Questo poi non credo. Sei mila franchi sono una miseria anche a Milano. - Ah, ah! Avete delle idee in grande, voi. - Voi ci tenete ad essere solo? - Perchè questa domanda? - Ponete che io sia già impegnata con un vecchio, che non vi potrebbe dare ombra di gelosia. Ponete che io sia qui con voi perchè mi siete simpatico.... - Grazie, Aquilina. Non ne dubitavo. - Io so bene che voi non vorreste che io fossi vostra amante gratis, gratis,n'è vero? - Neppur per sogno. - Se voi non avete difficoltà che il vecchio continui la mia relazione, voi diventerete il mio amante di cuore. Mi farete qualche regalo e tutto sarà detto. - Accettato. - Allora vi dirò che io non mi chiamo Aquilina, ma mi chiamo Luisa. E così era avvenuto il contratto del loro matrimonio morganatico. Il marchesino uscì dalla casa di Luisa verso le nove del mattino del giorno dopo. A mezzodì in punto, la fanciulla montava le scale della Marianna. Il vecchio banchiere non si fece aspettare; dopo mezz'ora di conversazione, trovò che la Luisa era la creatura che pareva creata apposta pe' suoi fini reconditi; le fece delle discrete proposte, ed essa le accettò subito anche quelle, senza farsi pregare: giacchè l'appetito non c'era verso, che non ritornasse ogni mattina e ogni sera a persuaderla che bisognava dar ascolto al delegato. Così in breve la scarcerata di fresco fu accasata come una signora, in mezzo a mobili propri, con due assegni mensili, che uniti ne facevano uno più grosso di quello d'un consigliere di Cassazione e che le venivano dal Sappia e dal banchiere, il primo dei quali era l'amante en entitre l'altro lo spunta-pesi segreto. Poco prima che Enrico O'Stiary giungesse a Milano, essa aveva finto di piantare in asso il vecchio banchiere, per farsi maggior merito presso il suo amante scoperto. Ma in fatti essa era legata al vecchio peggio di prima e da ben altri legami che non fossero i legami dell'amore. - Buona sera, Nando - diss'ella al Sappia, che era entrato con Enrico O'Stiary. E intanto aveva diretta un'occhiata curiosa all'amico che stava dietro di lui un po' in disparte. - Buona sera, Gigia - rispose il marchesino, e volgendosi tosto verso il conte, ripigliò: - T'ho condotto il mio giovine amico, il conte O'Stiary, che farà in tua casa i primi passi al mal costume. Enrico strinse la mano che la Luisa gli porse; e l'indispensabile vermiglio, che accompagna quasi sempre il primo passo al malcostume, si pinse sulla fronte del giovinetto. La Luisa lo invitò a sederle accanto. - Spero bene - cominciò dessa - che Nando le avrà detto, che qui da me sono banditi i complimenti. Dunque la metta giù il suo cappello, giacchè il mio motto è sans gêne Ma quasi mi scordavo di presentare a questi signori; il signor Silvestro Bonaventuri aiutante di... e il signor Paganino di Genova. I due nominati s'inchinarono. O'Stiary fece altrettanto. - Lei è uscito da poco dal collegio, non è vero? - Ora torna dal campo. - Dal campo!... A proposito - disse levandosi; ma disse quell'a proposito precisamente a sproposito, giacchè ciò che stava per metter fuori non c'entrava per nulla col campo - Cominciate a fare anche voi altri il vostro dovere qui su questa lista. Vi avviso che non voglio rovinarvi però. Non accetto meno di venti franchi, ma non accetto neppure più di cento franchi. - Così dicendo, la Luisa aveva levato da un tavolino una borsa, una lista, ed un lapis che presentò colla bocca aperta al Bonaventuri. - Che cos'è? - domandò questi con aria un poco sorpresa. - Ho fatto voto, che tutti quelli che i quali metteranno il piede in questa sala, dal primo all'ultimo del mese, dovranno per una volta almeno aiutarmi a fare un'opera buona. È una colletta per una povera famiglia che muore di fame. - Volontieri - rispose il Bonaventuri. - Che cosa debbo fare? - Scrivere su questa lista il vostro riverito nome e cognome, colla cifra che intendete di mettere in questa borsa, per la mia irresponsabilità. E guardò con un bel sorriso in faccia a O'Stiary. - Spero la mi permetterà di avere anch'io questo piacere di far del bene in sua collaborazione - disse Enrico traendo di tasca il portamonete. - Veramente, per la bella prima volta! - sclamò ridendo la Luisa - è un po' da sfacciata! - Faremo dunque il male in mezzo - fece il Bonaventuri parlando forte. Ecco i miei cinquanta franchi. - Ed ecco i miei - soggiunse il Paganino da Genova, mettendo i suoi cinque biglietti da dieci nella borsa. Il povero Enrico fa sopraffatto da uno sgomento indicibile. Egli aveva pensato in cuor suo di non dare che venti lire, e capiva che bisognava metterne cinquanta come gli altri, e temeva di non averli nel suo portamonete. Dei cento franchi della mezza mesata sborsatagli dal tutore, e che dovevano servirgli per quindici giorni, gli pareva di averne già spesi in guanti, in profumerie, in gingilli, in mancie e al caffè, una metà abbondante. Non sapeva bene quanto gli restasse nel portamonete, ma temeva d'essere a corto. Guardò trepidando in esso, e con lieta sorpresa vi trovò appunto i cinquanta franchi che parevano lì apposta contati. Non gli rimaneva più che un bigliettino sudicio da cinquanta centesimi, che rimase là unico e vergognoso, come una protesta contro la lèsina del tutore. - Ed ecco i miei - ripetè anche lui mettendo l'obolo nella borsa di Luisa, che lo ringraziò col suo più splendido sorriso. "Spero bene - pensò - che il tutore non mi vorrà mangiare se gli racconterò che ho dato cinquanta franchi a scopo di beneficenza - pensò Enrico, dopo che la Luisa lo ebbe ringraziato. - "Io non potevo dar meno di Paganino e di Bonaventuri, che devono essere meno ricchi di me." Poco dopo entrarono nuovi visitatori. Erano il signor Ciambelli colla Romea, un fuseragnolo di donna, con due occhi discreti e una carnagione che arieggiava la porcellana colorata, per amor dell'intonaco ch'ella si praticava sul viso. Ciambelli, suo amante, un pancione nero come un croato, le aveva messa su una buvette, dove la Romea troneggiava dal suo banco, chiamando, col desio e colle occhiate lunghe, i passanti, che non volevano saperne di entrare nella di lei bottega a bevere l'amaro prima di andare a pranzo. La Romea era una sgualdrina come tante altre, ma la si teneva ingenuamente in conto di donna onesta, e parlava delle mantenute col disprezzo d'una principessa! Quanto la godevano per questa pretesa le sue poche pratiche! A un certo punto si parlò di far un piccolo taglio di macao. La Luisa sulle prime fece finta di opporsi, ma poi, vedendo che tutti erano del parere fece recar le carte e lasciò che giuocassero. Enrico, un po' per timidezza, un po' per innata ritrosia, ma sopratutto perchè non voleva far vedere d'essere corto a quattrini stava in disparte. Sappia gli andò vicino: - Non fai conto di giuocare tu? - Ma... non ho voglia.... Non sapevo che si giuocasse.... È meglio che stia a vedere... - Ti pare? Il più giovine della brigata, far la figura del più vecchio? Mi faresti sfigurare. Ricordati che questa sera comincia a formarsi la tua riputazione di gentiluomo e di uomo di mondo. Bisogna che tu provi un po' di tutto, in società, se vorrai starci bene, e se vorrai poter educare con cognizione di causa i figli che avrai dalla signorina Elisa. Enrico si fece tutto rosso in viso. - Che c'entra? Come sai? Chi t'ha detto? - Noi sappiamo tutto - sclamò con aria di mistero il marchesino. - Ma io ho ben poco danaro con me... non sapevo. - Se non è che questo ti servo subito. Figurati! E schiuso il portamonete ne trasse un biglietto da cinquecento e lo diede a Enrico dicendo: - Quando non ce n'è più, ce ne sarà ancora. Avrebbe potuto rifiutarsi ancora il nostro collegiale garibaldino? Andò al tavolo verde. Dopo mezz'ora egli aveva perduto fino all'ultimo i suoi cinquecento franchi. La Romea gliene aveva beccati fuori la metà. Sappia gliene prestò subito altri mille. Il demonio del gioco lo aveva già preso alla strozza. A mezzanotte il disgraziato aveva perduto i mille e giocava già disperatamente sulla parola. Al tocco dopo mezzanotte il Sappia si levò dal tavoliere, e disse: - Mi pare ora di andarcene. - Facciamo i conti - gli disse Enrico che appena cessato l'incanto e l'emozione si trovò di aver indosso una febbre indiavolata. Fatti i conti trovarono di avere perduto fra tutt'e due seimila e trecentoventi franchi. Enrico ne doveva mille e cinquecento all'amico, mille e duecento a Silvestro Bonaventuri, e trecento alla Romea, Il povero giovinetto era così confuso di dover danaro perfino ad una donna, era così spaventato, così abbacinato dalla perdita, dal timore di non poter il giorno dopo farsi onore nelle ventiquatt'ore, dello spavento che il tutore e la Elisa venissero a sapere la sua scappata, che quasi quasi ne piangeva a calde lagrime. Il Sappia dovette scuoterlo più volte. - Ma domani come si fa? Pensa che debbo trecento franchi anche alla signora Romea. - Ci penso io - gli rispose l'amico. - Non seccarti. In ogni caso la Romea ne deve a me cinquecento da sei mesi, che non me li ha mai restituiti. Preso poi in disparte il Bonaventuri, che conosceva, per quel tanto che si conoscono certe persone: - Favorisca - gli disse - a indicarmi dove ella sta di casa. - Oh - sclamò il Bonaveuturi, come schermendosi - la si figuri; ha tutto il tempo; lei è padrone di tutta la mia sostanza... "Buono a sapersi" pensò il Sappia fra se. Enrico quella notte non chiuse occhio e fece il più inviolabile proponimento di non giuocare mai più. Nella ingenua purezza della sua coscienza di vent'anni, egli sentiva di quel fatto un rimorso indicibile. A mattina andò dal tutore e gli spiattellò senza reticenze la sua avventura della sera innanzi. La fu una scena di inenarrabile delusione per lui, una tempesta di maggio, un finimondo. Il tutore gli fece una parrucca che non finiva più. Egli era un di quegli uomini che non crederebbero di far il loro dovere se non quando s'accorgono d'avere ben tormentata la loro vittima. Essi hanno nelle vene, io credo, un po' di sangue di Torquemada. Questo modo di educare, essi lo chiamano saggezza. E certo se facesse l'effetto di render saggio meriterebbe quel nome; ma siccome non ottengono invece che quello di seccare dovrebbe esser chiamato seccatura. seccatura.Allo stringer dei nodi il tutore si rifiutò perfino di pagargli quel primo debito di giuoco. Enrico non sapeva più in che mondo si fosse. Corse a trovare il marchese d'Arco. Questi ascoltò in silenzio il racconto e le giustificazioni del giovinetto; poi senza dir motto si levò, andò al suo scrigno, ne abbassò l'imposta, tirò fuori un cassettino, ne trasse tre bei biglietti da lire mille e li porse al giovinetto dicendogli questa sola frase: - Ma cerca di non giuocare mai più se ti è possibile! Enrico da quel tratto restò assai più confuso che non lo fosse stato prima dalla lavata di capo e dalle smanie esagerate del suo tutore. - Oh, marchese, come è buono lei! - sclamò il giovine buttandosi al collo del vecchio e baciandolo sulle labbra. - Mi prometti sul tuo onore che non giuocherai più? ripigliò sorridendo di gioia e dopo un certo silenzio il marchese. - Sì, glielo prometto in parola d'onore e colla sicurezza di mantenere la mia promessa. - Tu devi sapere Enrico, che a' miei tempi ho giuocato molto anch'io. Allora il giuoco era di bon ton non era proibito, lo si faceva in pubblico. Il governo straniero usava di questo mezzo per demoralizzarci, per distoglierci dalle idee di patria e di indipendenza. Vedi dunque che ti parlo con cognizione di causa. Fin d'allora mi capitava sempre, che perdendo, io pagava puntualmente entro le ventiquattr'ore il mio debito; ma se vincevo pochi lo pagavano a me. - Possibile? - Possibilissimo mio caro Enrico. Credilo pure; la gente che paga i debiti di giuoco non è a questo mondo che un decimo di quella che non li paga. Questa almeno è la statistica della mia dolorosa esperienza! Non so se gli altri saranno stati più fortunati di me nella loro vita. Ma è così! Ora capisci bene. Se tu quando perdi sei certo di dover pagare, e quando vinci sei certo di non essere pagato che dieci volte su cento... la cosa diventa molto seria. Sarebbe necessario perchè tu restassi almeno in pace che vincessi novantacinque volte su cento; il che assolutamente non è possibile avvenga. Hai fatto bene dunque a promettermi che non giuocherai più. E qui si mise a parlargli di tutt'altro. Il marchese artista nell'anima tempestava Enrico di domande sulla sua posizione, sulla pittura, sulle sue idee circa le due scuole, sulle sue speranze di farsi un nome, sull'avvenire sognato. Enrico s'accalorò in quel dialogo. Il marchese godeva enormemente a sentirlo parlare così modesto, così schietto, così sincero e così pieno di illusioni. - Ma non credi tu - gli disse a un certo punto - che il positivismo, il realismo e la democrazia abbiano a uccidere l'arte? - Ah, marchese, al contrario! L'esaltazione del popolo sarà l'esaltazione dell'arte. Il marchese crollava il capo sorridendo. - Ah, entusiaste! - Non lo crede lei? - Io no davvero, - rispondeva il marchese. - Il popolo, e per popolo m'intendo quella parte della popolazione d'un paese che si stacca dall'aristocrazia illuminata e dalla borghesia ricca e studiosa, il popolo non sente bisogno dell'arte, nè la capisce. Mancando assolutamente di sentimento estetico come vorresti tu ch'essa amasse il bello nelle sue manifestazioni? - Eppure se c'è un'esposizione di quadri e di statue vi accorre...! - Il popolo no, non se ne cura. La statistica della affluenza del pubblico alle esposizioni parla chiaro. In ogni modo anche i pochi che ci vanno non vi sono attirati dal bisogno di ammirare il bello, ma dalla curiosità di veder nei quadri dei fatti interessanti, allegri o pietosi. Il quadro sarà pessimo come arte, ma rappresenterà qualche fatto ben volgare, ben chiaro, che squadri al popolo? Sarà il prediletto da lui. Esso non s'accorgerà che artisticamente parlando il quadro è uno sgorbio, un abbominio. Il popolo non monta verso l'arte se non quando l'arte discende giù fino al volgo. E il naturalismo stesso, l'impressionalismo, di cui tu mio caro Enrico, ti dichiari seguace e cultore, non è forse l'arte che abdica in favore dei grossi istinti del volgo? Enrico era impaziente di andar a pagare i debiti fatti la sera prima. Erano i primi debiti di sua vita e gli rimordevano la coscienza. Diede dunque ragione al marchese e se ne andò ringraziandolo di nuovo con espansione. Prima di spiccarsi dal suo vecchio amico, questi aveva cavato da una cartella che stava sulla tavola un foglio di carta e accostando alla mano di Enrico il calamaio gli aveva detto: - Scrivimi qui la ricevuta e la promessa di non più giuocare. Enrico si dichiarò debitore delle tremila lire al marchese e promise nella ricevuta di restituirgliele quando fosse andato in possesso della propria sostanza. Della mesata insufficiente fissatagli dal tutore non si fiatò. Non si ricordò di parlarne. Il marchese non gli aveva neppur lasciato il tempo di spiegare la cosa, e quando Enrico s'era trovato esaudito, col danaro in mano, s'era scordato di entrar in quell'argomento. Enrico corse a casa di Sappia, a cui raccontò il rabbuffo e la crudeltà del tutore e il bel tratto del marchese d'Arco. Volle andar egli stesso nella bottega della Romea, a portarle i suoi trecento franchi, che gli bruciavan le dita e dovette spenderne un'altra quarantina di giunta, in bottiglie di dichampagne ch'essa gli appioppò senza che lui, timido ancora, osasse di rifiutarle. Poi, con Sappia, ritornò a casa. - Parlerò io al tuo signor zio antidiluviano - aveva sclamato il Sappia quando Enrico gli aveva raccontato del fiero rabbuffo avutone. - Lui li chiama minuti piaceri Altro che minuti! Impercettibili, microscopici... piaceri! Il notaio a stento acconsentì di portar l'assegno di Enrico da duecentocinquanta a trecento franchi al mese. - Domando io caro signor marchese - gli disse congedandolo, e colla più profonda convinzione di dir cosa sensata ed onesta - domando io come potrà mai arrivare a spendere più di otto franchi al giorno fuori di casa? - Nei mesi di trentun giorni e negli anni bisestili - disse il Sappia con una finissima ironia che il tutore si guardò bene dal notare - gli otto franchi al giorno sì può calcolare che diventino soltanto sette e novantadue centesimi. - Ho fatto un buco nell'acqua - diss'egli tornato che fu all'Enrico, il quale non s'aspettava nemmeno i cinquanta franchi d'aumento - Bisogna che tu faccia la lite al testamento di tuo padre, che ti ha voluto tener sotto a quel mastodente fino ai ventiquattr'anni; se no finirai, col rovinarti moralmente e materialmente, te lo dico io! - No - rispose Enrico. - Prima di tutto io non vorrei fare questa lite, neppure nel caso che non offendessi l'ultima volontà e la memoria di mio padre. In ogni modo, dato che il tribunale mi desse torto, io sarei perfettamente rovinato, giacchè avrei fatta opposizione; e tutta la sostanza andrebbe ai gesuiti che stanno aspettando al varco la preda. È meglio ch'io mi stia ai primi danni. Così erano passati circa due anni, e a dispetto dei trecento franchi al mese, Enrico O'Stiary era diventato uno dei giovani più brillanti di Milano. Cavalcate, scarrozzate, scherma, cene, club, ballerine, e pur troppo di nuovo, il giuoco - nel quale era ricascato con vivo, quantunque inutile rammarico, con profondo, ma pur vano rimorso - erano le occupazioni delle sue giornate e delle sue notti. E la povera Elisa trascurata, infelice, ma orgogliosa nel suo dolore s'era fatta intanto donna. Il tutore non badava più all'Enrico. Disperava di cambiargli la testa. "Chiudeva un occhio per non inquietarsi" come diceva lui. Il marchese d'Arco dal canto suo, il quale vedeva il suo giovane amico far la vita del gentiluomo, e non s'era curato mai di sapere quale somma il tutore gli avesse fissato pei minuti piaceri, era ben lontano dall'idea ch'egli si stesse rovinando a bagno maria. Egli poi non sospettava che Enrico si fosse rimesso a giuocare. Gli sarebbe parso fargli uno sfregio pensando che un'O'Stiary avesse potuto mancare così alla parola d'onore. Quando si trovavano parlavano d'arte, di cavalli, di politica, e le miserie umane le lasciavano da parte. Enrico dal canto suo, si guardò bene dal ricorrere un'altra volta al marchese per denaro, e lo schivava come un rimorso. Il Sappia pensava largamente a tutto. Suo padre e sua madre gliene davano in una certa abbondanza, ed egli aveva un credito grande presso gli usurai! E anche lui - lo sciagurato - faceva delle orribili operazioni a babbo morto! Ma era venuto un bel giorno che anche il Sappia erasi trovato nella necessità di chiedere danaro ad Enrico. Il povero giovine gli avrebbe data la vita, ma non aveva che i suoi duecento franchi al mese. Risolse di farla finita col tutore; di parlargli fuor dei denti, di ottenere insomma quello a cui gli pareva di aver diritto. Ci pensò un paio d'ore, poi piuttosto che aver a fare con don Ignazio si aperse alla balia. La balia gli aveva detto di avere dodicimila lire alla Cassa di risparmio. Non lasciò che l'Enrico terminasse la frase; corse per quanto glielo permettevano i settantanni nella sua camera, e portò al contino le dodicimila lire in tre bei libretti puliti e fiammanti ch'era un piacere a vederli. - Ma no, non voglio, non voglio - diceva Enrico colle lagrime agli occhi. La balia alzò la destra, e con una specie di entusiasmo, sclamò: - Ma non è forse roba sua codesta? Quale uso più degno potrei fare di questo danaro... io che non ho più nessuno al mondo? Pochi mesi dopo convenne di nuovo rivolgersi altrove. Il tutore, quand'ebbe messa da parte del tutto la speranza di vedere il conte far giudizio, pensando al giorno ormai vicino in cui gli sarebbe toccato rassegnargli la sostanza taglieggiata e forse perduta, intieramente aveva cominciato a cercarsi dattorno un altro sposo per la sua Elisa, che già aveva trascorso il diciottesimo anno. Egli comandò a sua moglie di far di tutto per disingannarla nel caso ch'ella nutrisse ancora qualche speranza di diventare la moglie del contino e si mise a sparlare a tavola del suo pupillo e a tentar di metterglielo in mala vista. Ma egli non pensava che dieci anni di pensieri e d'illusioni accarezzate non si distruggono in un giorno! L'uomo adatto, del resto non tardò a presentarglisi sotto la miglior luce del mondo. Era Aldo Rubieri - che s'era fatto un bel nome e una bella sostanza, e che quantunque artista, parve al babbo un modello di uomo serio e un marito esemplare. Chi mai avrebbe detto a Enrico O'Stiary che quei cinquanta franchi da lui con lieto animo versati nella borsa di Luisa a titolo di beneficenza la sera d'un giorno d'autunno del 1866, dovessero essere il primo anello di una lunga e disastrosa catena di sagrificî, di spese, di perdite, di debiti, di rovesci, che lo dovevano condurre tre anni dopo, quando egli era lì lì per aver la piena disponibilità della propria sostanza, ad essere un uomo rovinato? Ma sopratutto chi gli avrebbe detto che la causa principale, la causa effettiva del suo rovescio, non doveva essere nè l'amico Sappia, non doveva essere la Luisa, non doveva essere il giuoco, ma piuttosto la gretta protervia del suo tutore, che aveva negato fin dal principio di fissargli quel tanto, che nella sua posizione era necessario?

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Un viaggio a Roma senza vedere il Papa

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Faldella, Giovanni 5 occorrenze

Se si debba credere che lo Spirito Santo, raffigurato in una colomba, abbia un becco reale, ovvero simbolico; 3. Se un prete, che di buon mattino, prima di dir messa, abbia fiutata una presa di tabacco, o fumato un sigaro, o colta per distrazione una fragola nel giardino e mangiatala, possa ancora celebrare. Benché si fosse nel cuore dell'inverno (anche l'inverno ha un cuore, a differenza di certi freddi banchieri d'usura), il prevosto di Monticello si era messo in maniche di camicia per ordinare un pranzo in modis et formis . Egli voleva superare se stesso nel colorire d'oro il pollo arrosto e i fagiuoli dell'aquila imburrati. Marcellina anch'essa, la cuoca, voleva coprirsi di gloria con un budino di molti colori, che raffigurassero da una parte un mazzo di fiori e dall'altro il cane di San Rocco - tutti i colori naturali e sani, di cui nessuno potesse far venire male di pancia. E già essa pregustava nella fantasia una chiamata al proscenio da quei reverendi signori preti, che portano tutti la mozzetta violacea in processione; i quali avrebbero battuto le mani, dicendole: - Brava, signora Marcellina! Vi siete fatto un onore immortale -. Ed ella con i pugni sui galloni li avrebbe ringraziati, facendo loro un inchino da autore drammatico. Ad Orsolina, la bella nipote del prevosto, si era riserbata una parte modesta, ma mignola ( mignonne ): la cottura dello zabaione. Oh povera Marcellina! povera Orsolina! povero prevosto! Quel giorno si è messo a nevicare nella valle in modo deforme . Fioccò molto più della gamba , che il padre dello studente di Torino scrisse al figliuolo. E poi sopra la neve esalò, uscì una nebbia grassa, fitta, che pareva un fumo di torba. Entrava da per tutto: riempiva tutto, non lasciava vedere più nulla alla distanza di un palmo da un naso discreto. Se ci fosse stato allora a Monticello il senatore Ferraris, son sicuro che chi avesse visto il principio della sua proboscide, non avrebbe potuto scorgerne la fine. Si racconta che quel giorno un cane vecchio del paese, il cane del droghiere, smarrì la strada, e non seppe trovarsi a casa all'ora del pranzo, e si fermò per isbaglio al macello. Appena fu, se ritornò al domicilio nell'ora della cena, dopo che si era dileguata la nebbia. Sembrava che le piante alte ululassero nella nebbia, come immaginò un poeta, che mi venne mostrato un giorno, mentre egli sedeva con la toga nera, con la barba nera, con il naso bianco e con gli occhi da aquila al tribunale della Consolata di Torino. Per cagione di quel tempaccio i parroci circonvicini non poterono muoversi per venire alla conferenza di Monticello, al budino di Marcellina e allo zabaione di Orsolina. Alle undici e mezzo antimeridiane il povero mio prevosto sbadigliava contro alla nebbia sull'uscio della Curia, su cui sta scritto: Ostium non hostium , latinetto che i parrocchiani traducono così: Oste non oste , cioè oste che dà dei buoni pranzi senza annacquare il vino e senza presentare il conto. Marcellina, asciugandosi con l'avambraccio la fronte sudata per i vapori della casseruola, borbottava di tanto in tanto in cucina: - Ah! sarebbe un po' bella, sarebbe proprio grigia, che non venisse nessuno..., dopo aver apparecchiato tanta grazia di Dio! E non veniva proprio nessuno. Marcellina e il prevosto erano così mortificati che passeggiavano silenziosi per loro conto, e non avevano più nemmeno il coraggio di sbadigliare e di borbottare. Orsolina in silenzio imbandiva la tavola di quattordici coperti. Finalmente, alle undici e tre quarti, si sentì uno scarpiccìo sotto l'atrio del presbiterio. Il prevosto si affacciò sull'uscio della sala da pranzo, e Marcel1ina si affacciò su quello della cucina. Ad ambidue si era aperto il cuore per la speranza. Essi videro in mezzo alla nebbia nuotare qualche cosa di grosso e di nero, una balena. Pareva un gruppo di quattro o cinque preti, per lo meno di tre preti. Ed invece era un prete solo, un pachiderma con il tricorno, Don Massimo Ganassone, il priore di Micottino. Egli andò subito a salutare la cuoca, toccandole la mano e dandole del lei , perché è massima di Don Massimo, che per pranzare bene da un prevosto bisogna prima del pranzo riverire la signora cuoca. Suonò il mezzogiorno con uno scampanìo lacrimevole, che pareva piangesse il pranzo derelitto. Dopo Don Massimo, non erano sopravvenuti altri convitati; onde il prevosto di Monticello dovette mettersi a tavola con il solo collega di Micottino. Questi gode una riputazione meritata di essere il prevosto di più grosso pasto in tutta l'arcidiocesi. È capace di mangiare e di bere per tre o quattro. Si racconta di lui, che un giorno, prima di un pranzo che si ritardava, aspettandosi ancora qualcheduno, egli nel passeggiare lungo la tavola, così per distrazione, si leccò ventiquattro fette di salame crudo. Si racconta eziandio di lui quest'altro fatto storico-bucolico. Trovavasi in un martedì di mercato a tavola da pasto all'albergo della Botte d'Oro , in Vercelli. Essendo dieci i commensali, il cameriere servì un piatto di dieci quaglie. Ma un commensale, negoziante di riso, per ghiottoneria, o per inavvertenza, tirò giù due quaglie sul proprio tondo; cosicché Don Ganassone, ultimo a servirsi, si vide giungere innanzi il piatto delle quaglie vuoto, senza un crostino. Che cosa fece egli? Visto un grosso tacchino arrosto, già imbandito, fu lesto a porselo innanzi, dicendo: - Lor signori l'hanno già preso l'uccello; ed io mi piglierò questo -. In effetti si mangiò tutto da sé il tacchino, lasciandone spolpato lo scheletro, che pareva l'armatura di una chiesa parrocchiale. Quanto al bere, egli a casa sua non mette mai a tavola il vino in bottiglie; ma lo tiene in un secchione, alla destra della sua sedia, e lo tira su e lo poppa a grosse ramaiolate. Quel giorno Don Massimo mangiò per cinque o per sei; ma non potè sbarazzare un pranzo preparato secondo l'usanza dei villaggi nominalmente per quattordici, ma realmente per ventotto. (Ah! fossero così i valori nominali della Borsa!) Oltre a ciò Marcellina, benché ossequiata strategicamente da Don Massimo, non volle portare in tavola il budino soltanto per quell'orcio . E Orsolina, la nipote, disse che il suo zabaione non era fatto per quella bocca da lionfante . Per questi motivi il povero prevosto di Monticello restò con quattro quinti del pranzo non esitati. Don Massimo non potè seguitare la sua opera di distruzione, avendo promesso quella sera stessa il suo intervento a una cena del maiale ; imperocché (soffrano i benigni questa nota di erudizione necessaria) nei nostri paesi si celebrano con una festa in famiglia l'uccisione e la preparazione dell' animale per antonomasia. Verso sera poi giunse alla canonica di Monticello un espresso del vicario foraneo, che con suo monito rimandava la conferenza o il pranzo dei casi al secondo martedì dopo Pasqua. - Che cosa ne facciamo adesso di tutta questa roba? - disse il prevosto alla sua Marcellina, con le braccia al sen conserte , e picchiando del mento sulla bocca del petto. - Che cosa ne facciamo di tutta questa roba? - rispose Marcellina con le mani dietro la schiena, e guardando verso i travicelli del soffitto. (Il prevosto) - Mah! ( con un sospiro schiacciato ). (Marcellina) - Mah! ( con un sospiro sbuffato ). - Per me, domani invito a pranzo tutti i cantori della parrocchia... - Misericordia! Lasciar andare il mio budino in bocca a quei canarini da ghiande! ... - Eppure, piuttosto che vederlo andare in malora... - Piuttosto che vederlo andare in malora... Marcellina si rassegnò, e l'indomani i cantori della parrocchia furono tutti regolarmente invitati alla tavola del signor prevosto. Vennero tutti con la testa umida, inchinandosi e fregandosi le mani con unzione ecclesiastica. Messisi a tavola, fecero repulisti di quanto comparve loro dinanzi. E del pranzo si può dire, come di Napoleone il Grande: " Ei fu !". Sopra gli altri si segnalò Andrea Tirella, il quale, dopo essersi servito due volte di agnellotti, capovolse la zuppiera, e se la vuotò nel suo tondo, dicendo che voleva leggere il nome del fabbricante di quella maiolica. Uscirono i cantori dalla canonica a corpo pinzo e barcollando allegrociter per il vino bevuto. Giunti in piazza, un frizzo di vento freddo mise di cattivo umore Andrea Tirella, quegli che aveva mangiato e alzato il gomito più degli altri. Il quale, voltosi ai compagni, disse loro: - Miei cari amici, vi siete accorti della brutta figura che ci ha fatto il prevosto? - Quale? - Ci ha tenuti per stoppabuchi ; ci ha invitati a mangiar ciò che aveva già preparato per i signori parroci, i quali dovevano venire alla circonferenza del caso... E noi abbiamo mangiati i rimasugli di Don Ganassone... - È vero - disse uno degli astanti. - È vero - risposero gli altri. - Non vi siete accorti - riprese il Tirella - che il pollo arrostito, il famoso pollo arrostito del colore dell'oro, era bruciato come il caffè; perché sarà stato messo al fuoco chi sa quante volte? - Hai ragione. - Altro che ragione! - ripigliò il Tirella. - Quel pollo credo persino avesse due teste. - E noi minchioni... - Più che minchioni... perché ci lasciammo minchionare da una donna. Sicuro! quella smorfiosa della Marcellina ha pigliato due polli manomessi, ed ha voluto, ha osato farne uno solo intiero, e darcelo a intendere a noi... a noi... che sosteniamo per tutto il santo anno la messa grande, il vespero e la benedizione al suo signor prevosto... - È una cosa che non va... - È una birboneria, è una infamità, dico io, - ringhiò il Tirella. - E il formaggio? Voi non ve ne siete nemmanco addati. Ma io ho alzato il pezzo, ed ho visto che di sotto era già stato grattugiato -I cantori inorridirono tutti, e si separarono di pessimo umore, dirigendosi ciascun verso casa sua. Quivi cominciarono a porgere le loro lagnanze ciascuno alla propria moglie contro i cattivi trattamenti del parroco.

Alle donne di Roma mando un saluto con maggiore rincrescimento di quello che abbia sentito nel dire addio alla campagna romana o alle cuspidi dei bufali. Domando scusa per la terza ed ultima volta alla moglie, se insisto troppo sulle donne d'altri; e mi difendo dietro un paravento, cioè dietro un proverbio poetico, che dice: La moglie, il bel non toglie. E le donne a Roma sono veramente belle. Io le distinguo in tre classi: 1. Romanone; 2. Romane; 3. Romanine. Le Romanone sono barricate, che stoppano un viottolo e fanno scuro in una sala. Le Romane sono anch'esse troni e dominazioni, messe dentro al figurino di Parigi. Le Romanine sono donnette svelte, con occhi da Beatrice Cenci, con andature da serpente del paradiso terrestre. Hanno le spalle che colano dolcissime sotto uno scialle rigatino; vanno in capelli, cioè non portano niente sulla loro testa, bionda o castana, e più spesso nera o rossa. Queste Romanine abbondano in Trastevere, dove si vedono a circoli e a righe nei corridoi e nelle camere terrene, mentre dipanano matasse e fanno frullare arcolai; sono montigiane, abitatrici dei famosi monti di Roma, i quali in Piemonte non si chiamerebbero nemmeno colline; sono granarole, cernitrici di grano, le quali di buon mattino traversano il ponte sotto castel Sant'Angelo, avviate ai magazzini; sono modiste, crestaine, le quali si trovano in ogni parte di Roma, ecc., ecc.. ecc..Il maggior pregio della forma muliebre a Roma è la purezza delle linea e della curva. Difficilmente si notano nelle donne romane quei menti piatti da Arlecchino di legno, e quelle stecche di busto, sprazzate dai fianchi che paiono saltare negli occhi di chi le guarda. Forse quella purezza di curve sarà a danno del sentimento, ciò che non posso asseverare, non avendolo saggiato né in peso né in misura. Gli è però certo in teoria, che il sentimento è una fermata agli angoli bruschi. E di angoli bruschi le donne a Roma non ne hanno proprio niente. Oltre le Romane, le Romanine e le Romanone vengono di fuori a passeggiare per Roma le Ciociare, vestite in costumi teatrali, alcune delle quali sono balie, altre venditrici di verdura, e le migliori sono apocrife - modelle di pittori. Anche la romanità mascolina è bella. Vi sono nella Guardia nazionale a cavallo delle barbe, che fanno impallidire, considerate come capi d'arte: si veggono nei caffè e davanti gli spacci di vermutte torinese al Corso certi persononi, certi torrioni di giovanotti spettacolosi, in cui non saprei, se dovrebbesi lodare di più l'abito o il monaco, imperocché l'abito inappuntabile aiuta sicuramente il monaco, e d'altra parte la formosità del monaco fa lumeggiare viemmeglio l'abito e lo splendido cappello a cilindro. Vi sono fra gli scolaretti e i lustrini dei fanciulli apollinei. I campagnuoli, i quali danno latinamente del tu, portano dei cappotti foderati di verde, che domandano alla vacchereccia. Ebbene, camminando con quei cappotti, essi fanno fra le gambe e sulle ginocchia delle pieghe e dei panneggiamenti addirittura romulei - statuari - da toga, da clamide antica. Insomma la forma dei Romani e delle Romane è ottima; ed a ragione io l'ho sentita invocare trionfalmente da un mio amico in uno dei tanti meetings di Roma o morte, che si facevano prima del settanta. - Come! signori ministri!! - strillava il mio amico con gesti brofferiani - Come! Ricusate condurci a Roma sotto il pretesto che vi sia la malaria! Menzogna! Menzogna! Le popolazioni, con la loro forma e con la loro salute, rispondono del loro clima e del loro ambiente. Ora la bellezza e la prosperità delle donne romane sono fra le nostre glorie italiane più pure e meno disputate. È un proverbio italiano: la bellezza e la prosperità delle donne romane. E questa bellezza, questa prosperità si torcono in una poderosa smentita, riescono una fiera protesta contro la vostra politica e contro la vostra malaria, o signori ministri! - (Applausi frenetici ed approvazione per acclamazione di un ordine del giorno, che ingiungeva ai signori ministri di condurci subito a Roma, senza mezzi morali e senza patti con i Francesi - ed analogo telegramma al generale Garibaldi -)Come mai potrebbe riuscire brutta, l'umanità sotto il cielo di Roma? È un cielo alto, largo, di un azzurro carico, massiccio, trionfale; è un cielo eloquente, a periodi di Cicerone. A qualcheduno dei miei amministrati sembrerà che il cielo, questa massa di atmosfera, che fa la funzione e la finzione di volta, dovrebbe, come lo Statuto del regno, essere uguale per tutti. Eppure non è così. Il cielo per i miei amministrati di Monticello è duro, cosicché pare a loro, che se potessero salire in su, sopra un globo aerostatico, a darvi una capata, si fracasserebbero le tempie, e si farebbero una ferita di chirurgia straordinaria, non compresa nell'abbonamento del medico condotto. Invece il cielo di Roma è morbido; esso invita, tira e riceve. E non dispiacerebbe a chi guarda quel cielo gli toccasse la sorte di un profeta della Bibbia; essere colto da una carrozzella aerea, ed essere menato a svolazzare frammezzo a quel blu. Il cielo di Roma, che piacque tanto a me, non dovrebbe dispiacere nemmanco a un politicone, a un deputato, che viva di interrogazioni al ministero, di ordini del giorno e di inchieste. Esso dovrebbe tirar fuori qualche scintilla anche al mio droghiere di Monticello, il quale non conosce altre figure artistiche fuorché i fregi litografici dei bottelli impiastrati alle sue scatole, e non conosce altra letteratura all'infuori dell'elenco delle droghe vive, e degli articoli della Sciarpa Rossa; a cui è associato. Di libri nuovi egli, il droghiere, non vuol sapere; perché secondo lui si è già scritto tutto, e, aggiunge, fin troppo. E tratta i letterati quasi come scrocconi ciarlatani. E chi sa quanti in Italia pensano come il mio droghiere! Ma io no! Io, sebbene sindaco di un villaggio, sono un po' dilettante di arte e di letteratura, in cui cerco di infarinarmi un tantino, come spero ve ne siate già accorti; compero dei libri nuovi, e faccio tutto quello che posso per capirli. È per ciò che mi sono intenerito del cielo di Roma, ed avrei voluto mangiarlo, salvandone però una fetta da portare ad assaggiare a mia moglie. Quel cielo intenerì anche Pier Carlo Boggio, e lo mise in vena di scrivere delle pagine liriche nelle Note del suo viaggio a Roma, che egli fece nel 1865, pigliando da Nunziatella a Termini la diligenza Marignoli. Povero Boggio! Povero nostro deputato! Chi sa quali passi avrebbe fatto a quest'ora nella vita politica se non fosse andato in bocca ai pesci! Il cielo di Roma è dolce come un tepidario; profila magnificamente ciò che gli batte incontro: le ondulazioni delle colline, la riga della marina lontana e il cupolone di San Pietro. Ah! Il cupolone di San Pietro, l'abbocco a momenti.

E mandai dai precordi un Viva , un inno al Genere , al cosiddetto Genere, che portò la borghesia e la democrazia nell'arte, come il Romanzo lo portò nella letteratura; al Genere, infusorio bersagliere, che tocca tutto, bacia tutto, vivifica e santifica tutto; la gloria e il male dei denti; la spada con cui si conquista un regno e la pezzuola con cui una mamma netta un bambino; i balocchi di un cardinale con una scimmia; e il dolore di un pievano, a cui il gatto, rovesciando la lucerna, abbia rovinato il fascicolo delle prediche. Evviva dunque il Genere, senza far torto alla Specie! Il mio segretario comunale ed io eravamo incamminati alla Costoletta , e discorrevamo di arte, e c'infiammavamo delle bellezze che avevamo veduto nei musei e nelle gallerie che io chiamava superlative. - Signor sindaco! - Avanti. - È vero che alcuni di quei quadri e di quelle statue, che anche il maestro comunale di Monticello giudicherebbe come lei di grado superlativo, è vero che potrebbero valere centinaia di migliaia di lire. ..? - Sicuro. - E che l'imperatrice di Russia, pochi anni fa, ha comperato una Madonnina piccola, una Raffaella di ultima qualità, per una somma enorme, e che per la partenza di quella Raffaella gli Italiani piansero e mugolarono come bambini, a cui il gatto avesse portato via mezza colazione? - Sicuro. - Ebbene, io invece, se fossi al posto del governo, piglierei tutti questi capi, queste gambe maiuscole da Satanasso, tutto questo sciame di angeli, queste Madonne che piegano la testa nella maniera morbida dei gatti, quando dormono, tutti questi Tiziani-Canova, e Raffaelli-Bonarroti, come diceva il cicerone, e li venderei ai governi stranieri per somme spettacolose. Con esse vorrei restaurare definitivamente le finanze dello Stato, che dalle promesse di Cavour buon'anima a quelle di Minghetti, di anima non ancora buona, - dimorano sempre nello stato cronico di quasi restaurate finanze ... e vorrei abolire il macinato -Queste ultime parole il mio segretario comunale le pronunziò con un soffio di alterezza, spalancando certi occhioni, come avesse inventato un consorzio nazionale; ma si accorse che io mi oscurava, inorridiva, e quasi a sgombrare da me l'orrore, che egli aveva indovinato, soggiunse: - Non vorrei già lasciarli vuoti i musei, e nemmanco farne magazzini da cereali. Ma li riempirei, ordinando agli scultori e ai pittori italiani viventi i quali non dovrebbero essere strangolatori nel prezzo, quanto i defunti di fabbricare dei bersaglieri e delle Belle Gigogin da mettere in luogo degli angeli, delle Madonne e dei giganti venduti, i quali tanto non si usano più. Giurabacco! - conchiuse il segretario con una vivacità che aveva tutta la buona intenzione di convincermi - Giurabacco! Se i nostri trisavoli sono stati capaci di fare dei capolavori, i quali dopo la maturazione di tre o quattro secoli salirono al valore di milioni, chi sa perché i nipotini non saranno capaci di fare altrettanto! Chi sa che i bersaglieri e le Belle Gigogin dei nostri artisti di adesso, fra qualche paio di centinaia di anni, non abbiano a far gola alle Prussie e alle Russie, e servano a pagare i nuovi debiti, che allora avrà lo Stato! Io avrei fulminato, avrei incendiato quell'Erostrato di un segretario comunale: ma per non fare una scena, che chiamasse l'intervento di una guardia civica, mi contentai di piantarlo su due piedi e di spedirlo a far colazione da solo.

Vorrei che ti avessero vista gli autori dei più cari libri, che io abbia letto. Chi sa quali stragrandi inspirazioni avresti loro suscitato, secondo la regola se tanto mi dà tanto! ... Imperocché gli scrittori d'ordinario tirano le loro inspirazioni leggiadre da modelle brutte come il peccato... ed io conosco un poeta autore di versi invulnerabili, la cui inspiratrice somiglia nel viso a un piatto di lenticchie. Bella! Bella! La suprema ciociara, mentre io parlava, o credeva di parlare, masticava una nocciuola rosicchiarella. Io le domandai che cosa faceva. Essa mi disse: - La modella -Io le domandai perché voleva fare la modella, ed essa mi rispose: perché quella mattina aveva condotto suo fratello fuori dell'ospedale, e gli doveva pagare la colazione in una osteria di cucina, dove lo aveva lasciato... Mi diedi un picchio sulla fronte. Quella ciociara era la sorella del mio ciociaro. Senza rimproccio , come dicono i miei contadini, quando sono costretti a confessare di avere sentito una messa, o di aver fatto una buona azione, di cui non intendono farsi belli davanti agli altri - senza rimproccio - stavolta deliberai di pagarla io la colazione al giallo e pigro ciociaro. Quando ritornai all'osteria di cucina, lo avevano già fatto alzare. Il garzone, stanco di domandargli inutilmente i quattrini, aveva pensato di appigliarsi ai mezzi coercitivi. Si era affacciato alla porta dell'osteria, adocchiando se passava di là qualche guardia di pubblica sicurezza. Spuntarono due magnifici pizzardoni : così si chiamano a Roma le guardie civiche, dalla punta del loro cappello che somiglia il becco di un pizzardone, classificato da Linneo tra gli uccelli acquatici municipali. Ma eglino furono tosto occupati da due popolane letichine, che si rivolsero loro per certe particolari ragioni; imperocché i pizzardoni , mentre non si trovano troppo in buona vista dei popolani, sono per lo contrario - essendo in generale pezzi di belli uomini - careggiati dalle donne del popolo, e tenuti in conto di loro pacieri e giudici Salomoni nelle piazze e per le vie. Le guardie ascoltavano dunque le due femmine, che volevano farsi raddrizzare i loro torti, quando furono chiamate dal garzone dell'osteria, perché lo aiutassero a riscuotere la cattiva paga del ciociaro. Quei magistrati stradali si trovarono nell'imbarazzo dell'imperatore Traiano, che, mossosi con l'esercito per andare al campo, fu richiesto di giustizia da una donnicciuola a cui avevano morto il figliuolo. Essi adoperarono l'unico modo razionale di sgabellarsela per chi ha da fare due cose a un tempo: farne una alla volta. Diedero la loro sentenza salomonica alle popolane, e poi entrarono nell'osteria di cucina; e con una gomitata fecero levare in piedi il povero ciociaro, come l'ho riveduto io. Meschinello! Lo ritrovai sbiobbo, piccino, quale non l'avrei mai dubitato quando lo vedeva seduto. Non c'è nessun paragone di bestia bastonata ed afflitta, che possa dare il colorito spento di quel macilente in mezzo ai due floridi pizzardoni . Avendo io pagato il suo scotto, il ciociaro e la ciociara se ne andarono con Dio; il ciociaro strascicava il suo mantello sbrandellato, e sotto il mantello le ciocie luride e penzolanti; la ciociara, nella movenza delle spalle morbide e bianche, riusciva più armoniosa che gli omeri sonanti dell' omerico Apollo. Mentre li scorgeva dilungarsi da me, correvo loro dietro con le mie malinconie. Misuravo la distanza che intercede fra quelle anime di bufalo piagato e di giovenca rigogliosa con le anime dei contadini toscani, che al padre Giuliani, amoroso della loro toscanità, risposero con discorsi in cui gongolano i colori, la moralità e la poesia. Io pensai alle famiglie contadine delle mie montagne, da cui originano vere e fiere dinastie di consiglieri comunali e di sindaci; e in cui i vecchi hanno le mani tremule, il naso adunco, le brache corte, le calze nere di fioretto, a modo dei preti - ma l'anima altiera: tanto che sanno levare il becco contro il parroco nelle questioni di confraternita, e tener testa al sotto-prefetto nelle suggestioni elettorali. E i loro figliuoli partono giovanissimi dal paese di buon mattino, con un raggio di sole nei capelli e con una fanciulla nel cuore, e vanno a lavorare in Francia, in Svizzera, in Alemagna, nelle miniere, nei trafori, eccetera, e mandano al paese dei vaglia , spesso in oro sonante, che si fa palpare volentieri dall'ufficiale postale, e che serve a quadrare il campo, o l'orto di famiglia. E le figliuole e le nuore di quei vecchi bisogna lasciarle descrivere al commendatore sì, ma poeta Regaldi, mentre scendono dai greppi con la gerla alle spalle e il rosario fra le dita, fresche, rubiconde, pittoresche e intemerate. Gli artigiani che rimangono e quelli che ritornano al villaggio entrano nella Società operaia, che ha una bella bandiera, una cassa forte per gli ammalati, e una biblioteca popolare circolante; e quando essi, i soci, discorrono della loro Società operaia e delle Società operaie consorelle , ci mettono un'enfasi e un cuore, come parlassero delle loro amorose. Quanta differenza fra le anime contadine delle mie montagne e quelle che si allontanavano del ciociaro e della ciociara, i quali nascono, vivono, mangiano, dormono, strameggiano al pari delle bestie! Mi venne voglia di chiamare a banco i signori preti (non dico a lei, signor prevosto di Monticello), ma i maggiori preti , i quali, troppo affaccendati a scagliare scomuniche sulle Corone e sui popoli al di là dei monti, e a imbarcare le benedizioni sui bastimenti che vanno in oga magoga, lasciarono quasi cassare l'effigie umana dall'anima dei poveri cristiani più vicini all'ombra delle loro cupole eccelse e pompose.

Tanto se vogliamo credere la materia sempre esistita, quanto se la vogliamo credere creata, è certo che tutta tutta la materia, niuna eccezione fatta, è antica a un modo; tanto è antico il mattone, che abbia servito alla fabbricazione della torre di Nembrot, quanto il quadrello di carta, che io pesto adesso e che ha servito ad avviluppare una caramella sfornata ieri. Nella lista di luce che il sole proietta da una fessura della finestra dentro la mia camera, danzano e si accavallano antichità microscopiche dello stesso tempo, forse peli della barba di Assalonne e certamente peluria di un tappeto, che ha scosso or ora la mia serva. Alla materia, dopo che esiste, non si è mai aggiunto niente e non si è mai tolto niente. È una massa che per suo spirito e per la sua legge; si bacia e si rimpolpetta; poi si odia o si discioglie per amarsi e aggregarsi nuovamente, e ciò per omnia saecula saeculorum . Se in questo viaggio circolare di forme, la materia naturalmente, o sotto la mano e l'ingegno dell'uomo, ne azzecca una, cioè foggia una forma, che sia utile, bella ed esemplare - la si fermi quanto si può di più, - che per sempre non è fattibile: niuna barba di archeologo può piantare un bastone o mettere una scarpa perpetua alla sua ruota. Dunque le forme, che se lo meritano, si incornicino e si incastonino anche quali gioielli, come fanno i Tedeschi, e non si lascino nella mota, come fanno alcuni dei nostri, contenti a disseppellirle. Ma a conservare un sasso, che non è bello, non è utile, non è esemplare, solo perché si crede più antico degli altri, e tanto peggio rovistare i selciati, disturbare il prossimo che vive, per cercare di queste pietre morte, mi pare la più grossa corbelleria che si possa stillare sotto la cupola di una testa umana. I dilettanti di sassi si rivolgano ai tritumi scavati dalle viscere oscure delle montagne per i lavori dei tunnels . Sono i sassi più nobili, più gloriosi e più poetici di tutti gli altri sassi, perché, levando l'incomodo della loro presenza, lasciarono penetrare la luce, il commercio, il vapore e la fratellanza, dove questi signori e signore non se lo sarebbero mai più immaginato. Adunque i prelodati dilettanti se ne attacchino alla catenella dell'orologio, di quei sassi; se ne riempiano bene le tasche, che non iscomoderanno nessuno, e sentendo le loro tasche pesanti, non penseranno più a romperle a noi. Più che le antichità mi andarono a versi le ville dei principi romani, di cui alcune dànno dei punti al Prater di Vienna. Bisogna girarvi in carrozza, tanto sono estese e piene di laberinti. Vi si trova tutto lo sfarzo della giardineria: agrumi a iosa, siepi di verde, tagliate a colonne traiane e a cannoni sdraiati, paracarri e catene di edera, boscaglie di aranci, fiori centenari, che somigliano piante, viali che fanno archi ed archi di verzura, fichi d'India, peschiere, in cui guizzano dei pesci rossi, grossi quattro volte quelli che si ammirano nelle bacheche dei nostri pizzicagnoli, e poi vaghezze di fontane. Vi sono dei getti d'acqua che paiono candelotti, sopra od intorno ad un altare. Altri sbocchi di fontana vengono giù dolcemente e curvamente, formando delle campane d'oriuolo, o delle lastre di cristallo da tagliarsi con il diamante. Sono degne di considerazione le anitre nelle vasche e nei ruscelli artificiali. Quelle anitre, come stanno bene! Pigliano dalla libertà la forza selvatica del volo, e dalla ricchezza del guazzo il lustro domestico e civile. Le loro penne hanno dei colori da paramento di chiesa. Esse sono canonichesse. Eccole: tronfie, fendono il marmo grasso e verde di erba acquatica, che fa da tappeto alla superficie della vasca; poi si fermano, voltano in su la coda a leva per pescare un vermicello. Paiono clowns . A quante cose somigliano quelle anitre! Intanto i falchi passano neri sotto la volta azzurra del cielo. In certi casotti vi sono dei conigli con occhi di agata o di amatista. Vi sono dei fagiani, che portano delle acconciature da signore, che non ha ancora descritto il signor Folchetto . Alcuni hanno un mantellino bianco, che, con i suoi fiorami, striglia magnificamente la veste-sottana di seta nera. Sugli stradoni trionfali scalpitano dei cavalli. Compaiono dei cocchi trascinati da cavalli splendidi, neri di liquorizia. I guardiani di questi giardini privati vanno in perlustrazione anch'essi a cavallo. Si incontrano pei viali dei branchi di seminaristi rossi o violacei, e di preti esotici maravigliati. Si incontrano a quando a quando delle stupende prospettive. Si vedono di lontano sopra spianate, su profili di colline, cancellate finissime e mezze cavallerizze di piante. Si vedono nella campagna vicina delle stuoie di terra a gradazioni di giallo, che si rinfocola fino al rosso della pozzolana. Non mancano le statue greche e le memorie storiche del quarantanove. Il mio segretario comunale conchiuse che ciò era troppo, e che il troppo è sempre troppo, e che la ricchezza e la grandiosità di quelle ville sono sproporzionate al concetto di una famiglia privata; tanto è vero che sono aperte al pubblico. Quindi ruminando i suoi studi del seminario, e le letture delle sue gazzette e delle leggi e decreti, che esistono nell'archivio comunale di Monticello, egli seguitò a borbottare, che quelle ville potevano far nascere l'idea di comunismo, di leggi suntuarie, o per lo meno di una legge di espropriazione per utilità pubblica. Io, quale primo magistrato di un comune, eletto dal popolo e ufficiale del governo, mi credetti in obbligo di redarguire il mio segretario comunale, anche lui uomo pubblico e rivestito della fiducia pubblica per le sue teorie avanzate e retrograde , e lo invitai categoricamente a vergognarsi dei suoi discorsi. Egli acconsentì agevolmente alla mia istanza; onde l'incidente fu chiuso ed esaurito , e non gli si diede più oltre passo, evasione ed evacuo , come scrive il mio signor segretario nelle lettere che io sottoscrivo .

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