Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questo lavoro (1) intorno alla filosofia d' Aristotele nacque tra le mani dell' Autore senza un disegno premeditato, e quasi contro la sua intenzione. Dettando il secondo libro degli « Ontologici », che ha per titolo « Le forme dell' essere », gli fu necessario esporre in qual maniera concepisse e divisasse le « Categorie », Aristotele. Non pensava che di dare un sunto del libro celeberrimo di questo filosofo su tale argomento. Ma postosi all' opera, la sua attenzione fu trattenuta dall' intimo nesso che congiunge le dieci categorie con tutta intera la dottrina dello Stagirita, e s' avvide che, per intendere a pieno il concetto che presiedette alla mente del filosofo nel compartimento dell' ente in sommi generi, si rende necessario addentrarsi nelle altre parti del sistema, ed esaminarne diligentemente le relazioni che le legano tra loro: così una questione conduceva ad un' altra, e un problema ad un altro. Troncare a mezzo queste ricerche gli spiaceva, e lo spronavano a proseguirle la curiosità non meno che la speranza di pervenire finalmente al fondo del pensiero aristotelico che si congiungeva con molti fili alle filosofie precedenti, e d' accertarsi se in questo fondo si trovava davvero un solo sistema, come fu supposto fin qui, ovvero s' avesse in fine soltanto un accozzamento d' opinioni, o anche di contraddizioni, del che gli dava gran sospetto la discordia degli interpreti, e i faticosi lavori dei conciliatori (2). Le stesse difficoltà che gli accadeva d' incontrare sulla via, nell' intelligenza dei luoghi difficili, anzichè stancarlo, acuivano in lui il desiderio e l' impegno di vincerle con confronto dei luoghi paralleli, colle determinazioni dei varii significati delle parole e delle frasi tecniche, coll' aiuto degli scoliasti antichi e dei lavori critici, sebbene ancor molto imperfetti, che alcuni dotti della Germania recentemente tentarono, all' emendazione e alla rettificazione del testo (1). Così perduto di vista il primo proposito, quel che dovea essere un brano, e anche breve, del trattato « Le forme dell' essere », crebbe in una lunga dissertazione, che ormai non poteva più appartenere al detto libro, e per la sproporzione della mole, e perchè il discorso usciva dai limiti dell' argomento prefisso al medesimo, spaziando per tutta intera la dottrina del maggior discepolo di Platone. Fu dunque separata dal rimanente questa parte, sopraccresciuta quasi a modo di gemma sulla prima pianticella; ed è quella che prese forma dall' opera presente, che intitolammo: « Aristotele esposto ed esaminato ». Colla qual narrazione dell' origine di questo scritto, intendo invocare l' indulgenza dei miei lettori sui difetti del lavoro; e nello stesso tempo giustificare in qualche modo l' ordine seguito in esso, e i limiti ad esso prefissi. Se fin da principio io avessi concepito il proposito di presentare all' Italia il sistema aristotelico accompagnato dall' esame razionale del medesimo, avrei distribuite le diverse parti in altro modo, avrei potuto più facilmente far apparire agli occhi dei lettori la conveniente simmetria di tutto il disegno. E in questa esposizione avrebbero trovato luogo quelle parti della dottrina aristotelica, che non appartengono strettamente alla filosofia, ma alla fisica, alla politica, alle arti del bello, come posto hanno trovato, per esempio, nella « Filosofia d' Aristotele » di Francesco Biese (2). Io restrinsi dunque il mio lavoro nei confini delle dottrine filosofiche, come quelle che sono intimamente connesse colla questione delle categorie, la quale diede l' occasione dello scrivere. Inoltre, se, nel primo accingermi a quella più ristretta esposizione e discussione delle dottrine prettamente filosofiche, avessi potuto prevedere dove m' avrebbe condotto l' annodata serie del discorso, avrei forse fatte andare innanzi alcune nozioni a quello che dovea seguire, le quali avrebbero sparso qualche luce su tutto il cammino. A ragion d' esempio, avrei probabilmente incominciato coll' esporre la serie delle aporie o dubitazioni, colle quali Aristotele spesso delinea l' ambito delle sue ricerche metafisiche (1): e di poi avrei esposto il libro aristotelico della significazione delle parole (2), che sebbene non sia ricco abbastanza per dichiarare tutto il vocabolario e il frasario aristotelico, pure presta un grandissimo aiuto in tale bisogna. E veramente questi due sono la chiave degli altri libri che si hanno sotto il nome di « Metafisici » e di tutte, si può dire, le opere aristoteliche. Poichè, conosciute chiaramente quali e in che modo fossero concepite le questioni che quel filosofo si proponeva, e che erano indubbiamente quelle che s' agitavano nelle altre tre scuole platoniche del suo tempo, e conosciuto il valore, sempre molteplice, dei vocaboli scolastici e di molte maniere di dire da lui usate in proprio, si può con più fiducia accingersi, quasi bene armati, all' interpretazione, e quasi vorrei dire all' espugnazione d' una filosofia, così chiusa e irta di difficoltà. Chi v' impediva, mi si dirà, di rifondere l' opera vostra, e di dare alla materia una migliore disposizione? O non era meglio sopprimerla del tutto, piuttosto che presentare al pubblico una cosa assai più imperfetta di quella che potevate fare con nuovo e maggiore studio? Se debbo addurre una scusa per meritarmi in qualche modo l' indulgenza che invoco, dirò che mi mancava del tutto il tempo necessario a rifonder quest' opera di lunga lena, ed estranea a quel disegno della filosofia che sto colorendo; che d' altra parte non ho creduto doverla del tutto sopprimere, considerando la scarsezza che di tali lavori ha finora l' Italia, e confidando, che quantunque l' abbozzo della dottrina aristotelica, che oso presentarle, sia molto imperfetto, potrà forse giovare quasi d' eccitamento e di stimolo per altri a far troppo meglio. Le imperfezioni stesse dell' opera contribuiranno per avventura a questo; perchè se l' opera fosse perfetta, chiuderebbe, quasi direi, la bocca a tutti; al contrario trovandosi da dirci sopra e da censurare, si moverà una discussione più facilmente; e la speranza che rimane agli ingegni nobilissimi della patria nostra di ritrattare l' argomento con migliore riuscita, e il diletto d' emendare falli e difetti d' un primo tentativo, li condurrà più facilmente in quella via di solidi studi, a cui abbiamo sempre desiderato di provocarli. Chè anzi a chi considera la storia dell' aristotelismo, non sarà difficile fare seco medesimo questa osservazione: « Se i libri pervenuti a noi del greco filosofo non ritenessero o dall' origine o dalle ingiurie de' tempi molti difetti, si sarebbero forse così profondamente studiati, siccome furono in tanti secoli? Se non fossero o non paressero così scomposti, e il ragionare in essi così discontinuo, il linguaggio così breve, oscuro e quasi ritenente un non so che degli antichi enigmi, avrebbe forse lo Stagirita avuti tanti commentatori? Si sarebbe accumulata tanta ostinazione negli animi e nelle menti di penetrarlo, d' intenderlo? ». In conseguenza, stavo quasi per dire che questa nostra esposizione d' Aristotele, se mostra in sè qualche difetto d' ordine, per questo avrà in certo modo diritto di partecipare a quell' impegno, che si pose per tanti secoli nello studio del « maestro di color che sanno ». S' aggiunga che, se il rifondere da capo questo lavoro potrebbe arrecare il vantaggio di una distribuzione di parti più netta e cospicua tutt' intera sin dal principio, non sarebbe tuttavia senza qualche suo scapito. Poichè il nuovo ordine caccerebbe quello che, sebbene meno appariscente, pure vi può scorgere anche nel presente dettato chi pone mente alla successione del discorso. Poichè si vedrà che noi procurammo tener dietro passo passo all' ordine d' Aristotele stesso; non all' ordine materiale de' libri, e nè pure al metodo che il filosofo tiene nell' esporre le singole dottrine, ma alla connessione intima di queste dottrine e delle sentenze che le contengono. In realtà la dichiarazione d' un luogo del nostro autore ci conduceva da se stessa a un altro chiamato in aiuto per illustrare il primo, e questo a un altro, e così via quasi per una catena continua; per la quale strada se ne va naturalmente e facilmente il pensiero; e benchè da principio non si affacci allo sguardo tutto il quadro intero delle dottrine, pure niuna sentenza è sconnessa e spezzata dalla susseguente; il qual notabile vantaggio sarebbe perduto, qualunque altro ordine si prendesse, e qualunque altra distribuzione si prestabilisse al lavoro. Vero è che quel tessuto di passi raffrontati, acciocchè reciprocamente s' illustrino, riconduce più volte il discorso ai medesimi argomenti. Ma oltre che questi sono rappresentati sotto nuovi aspetti e sotto nuova luce, difficilmente si potrebbe ritrarre al vivo Aristotele, e far conoscere la sua maniera di filosofare, senza questo, che è proprio di lui, non esser stanco mai di far ritorno sugli stessi principŒ, e ripetere gli stessi argomenti, e colle stesse parole altresì e colle stesse forme immutabili, come le forme delle statue degli Dei. E basta per convincersene dare uno sguardo al punto principale di tutta la polemica aristotelica, che è quel delle idee , su cui in luoghi diversi e tante volte ricade il suo ragionare (1). Sulle quali considerazioni e non su queste sole, presi in animo a fare di pubblica ragione lo scritto presente, qualunque sia, con tutte le sue imperfezioni. Se non m' inganno, il pensiero aristotelico nella sua totalità vi si riconoscerà ritratto fedelmente e illustrato con quel lume che presta la coerenza e il contesto di vari luoghi del filosofo. Dico nella sua totalità ; non pretendo io aver colto il vero nell' interpretazione d' ogni singolo testo, talora d' incerta lettura, e di locuzione oscura; abbandono agli eruditi queste minute, e ad un tempo importanti ricerche, e dichiaro subito che soprattutto mi sarebbe gradito vedermi emendato dai lavori di valenti filologi italiani. Non ci dimentichiamo che anche la filologia greca nacque presso di noi: e che il testo greco d' Aristotele comparve la prima volta in pubblico a Venezia per le erudite cure di Aldo Manuzio (2), e che a Giovambattista Bagolini e a Marco Oddi non costò leggeri studi critici e brevi fatiche (è cosa doverosa per noi il non dimenticarlo) la prima edizione latina dell' arabo commentatore, uscita del pari in Venezia (3). Sarebbe dunque ormai tempo che gli Italiani, che si lasciarono vincere negli studi dell' erudizione e della filosofia dai Tedeschi, dagli Inglesi e dai Francesi, si ricordassero finalmente dei loro padri, e la nostra ingegnosa gioventù, scosso il torpore e cessato l' importuno cicalio, riprendesse in mano l' opera gloriosa e tradizionale de' solidi studi filologici e filosofici, quasi del tutto lasciati. E già ce ne dà buon preludio un giovane ingegno, che sta per ora sul pubblicare colle stampe una traduzione italiana della « Metafisica », cioè dell' opera più importante d' Aristotele: arduo lavoro, a cui fin qui niuno italiano, ch' io sappia, aveva posto mano, e forse prima d' ora non si poteva. Ma ritornando a quello ch' io voleva dire, mi parve che in questo tempo, nel quale fu richiamato a nova vita lo studio di Aristotele, in Germania principalmente per le cure del Brandis e d' un gran numero d' eruditi che a lui seguirono, in Francia per quelle del Cousin e dei valenti giovani usciti dalla sua scuola, non dovesse riuscire inopportuno che si pubblicasse questo scritto in Italia, sia ch' esso adempia il tema e l' intento che gli è prefisso (di che altri giudicherà), sia che lo si consideri come un semplice tentativo di adempirlo. Poichè l' intento è certamente questo: ritrarre con fedeltà la filosofia d' Aristotele, definire come e fin dove le parti di essa siano tra loro coerenti ed atte a formare un solo tutto: se ce ne siano alcune che rimangano sospese e isolate, o ripugnanti all' intero sistema e quali siano: quali pure per la loro indeterminazione non si possano ridurre a concetti precisi: finalmente qual sia il valore scientifico di tutto il sistema e delle sue parti . Non vuol dunque esser considerata questa nostra, come un' opera di filologia e di pura storia, ma come filosofia, in una parola come un esame critico dell' aristotelismo, il quale serva a compiere in qualche modo quello che noi abbiamo fatto, troppo leggermente per verità, sopra alcune speciali sentenze del medesimo filosofo nei diversi scritti, dove la materia ce ne dava occasione (1). A portare un equo giudizio del sistema aristotelico, sono al presente rimosse quelle difficoltà che s' incontravano per addietro: prima della sua caduta, la venerazione superstiziosa che si faceva dei suoi detti, a cui era temerità il contraddire; dopo la sua caduta, l' orgoglioso e insolente disprezzo di quelli che insultavano al vinto. Ai giorni nostri è cessata l' una e l' altra passione: si sa ora quanto fosse grande l' ignoranza nel culto superstizioso reso ad Aristotele dal medio evo, e quanta più ce n' era nelle contumelie, di cui lo coprirono i sofisti del secolo XVIII: si sa come la dottrina aristotelica non fu appieno conosciuta dai moderni sensisti per un soverchio d' avversione pregiudicata e pel vezzo divenuto universale di non cercare più la scienza in uno studio serio e laborioso, ma solamente nel ridicolo. I primi erano rimasti abbagliati dalla troppo viva luce e repentina che mandava tra le tenebre il filosofo più consummato della Grecia, e il nobile entusiasmo, che la bellezza di quella luce suscitava nei loro animi, faceva tacere ogni critica. Appena si scorsero le prime macchie nel filosofo, e dopo molti contrasti appena si certificarono errori non pochi nelle cose fisiche, quell' ammirazione piena ed assoluta fu scossa, e i suoi credenti rimasero da prima come pusilli scandalizzati. Accusavano, quasi direi, di temerità la verità stessa che veniva a contraddire al filosofo per eccellenza. Ma quando una venerazione che s' è posata nell' animo umano assoluta e illimitata, rimane in qualche punto, anche minimo, offesa; prima resiste tutta intera, e poi cade tutta intera: l' uomo, che si riconosce ingannato, prova un sentimento tanto grave di sorpresa e di dispetto che lo sconcerta e lo confonde: ed è appunto allora che egli trascorre nella sua passione a bestemmiare quello che prima adorava, quasi per rifarsi, con soverchia disistima e licenza, del soverchio cieco ossequio con cui da prima aveva scemato e legato a se stesso il libero esercizio del proprio pensiero. E siccome i primi a dubitare dell' infallibilità d' un filosofo universalmente seguìto, com' era Aristotele, debbono lottare coi meno perspicaci e coi più cocciuti, quindi un grand' inasprimento di animi, che alla fine produce nei vincitori una specie di furore simile a quello che si manifesta nei soldati al prendere d' assalto una piazza forte che da lungo tempo ha resistito e non s' è voluta rendere a buoni patti. I sofisti dell' Enciclopedia, sopravvenuti dopo la presa di questa piazza, serenarono sulle sue rovine, dandosi allo stravizio, accendendovi fuochi e danzandovi intorno ubriachi. Queste superstizioni, questi disinganni, queste ire, queste licenze barbariche sono passate: ed è per più ragioni desiderabile che oggi si riprenda con calma lo studio e l' esame critico d' una dottrina, che ha occupati e affaticati e divisi per tanti secoli, non solo gli ingegni, ma gli affetti stessi e le passioni degli uomini; il dominio della quale, e il successivo ludibrio, ha immensamente influito sul mondo: e ancora ne rimangono gli effetti profondi nello stato dell' umana società. Sarebbe degno d' una mente perspicace vederli, e veduti raccoglierli in un libro, che riuscirebbe un anello non dispregevole nella grande storia dell' umanità. Ma uno spassionato esame critico dell' aristotelismo non è solo desiderabile che oggidì si faccia per una semplice curiosità scientifica, o per dare con esso ragione di tante discrepanze e scissure, che nelle opinioni degli uomini ci furono sempre intorno alle vere dottrine dello Stagirita, e al valore di esse, o prese tutt' insieme come un sistema, o considerate per parti: ma molto più pare a noi esser desiderabile, per toglier via, s' egli è possibile, e del tutto annientare l' occasione di altre scissure non meno gravi e di altri errori che quelle stesse dottrine potrebbero ingenerare in futuro, se non venissero una volta definite e giudicate in una maniera certa, chiara ed irrecusabile. Poichè le questioni che giacciono nella filosofia aristotelica sono vitali per lo uman genere, e la grandezza e l' importanza di queste, non meno che la loro difficoltà, restituirà sempre ad Aristotele un gran peso d' autorità ogni qualvolta il mondo scientifico volgerà gli occhi a quelle questioni inseparabili dal nome d' un autore che le ha trattate con tanta acutezza e con tal nerbo di pensiero e d' espressioni. Poichè le espressioni aristoteliche ancora al dì d' oggi suonano su tutti i labbri, anche di quelli che ne ignorano l' origine, e sono confitte, per così dire, in tutte le scienze, principiando dalle fisiche sino alla teologia (1), quasi sopravviventi d' una vita tenacissima al sistema a cui appartengono. Pare accertato dalle accurate ricerche de' moderni eruditi, che, eccetto l' « Organo », o alcune parti di esso, le altre opere d' Aristotele, perdute nell' occidente, vi rimasero affatto incognite sino al principio del secolo XIII, quando vi furono d' improvviso riportate da due parti contemporaneamente, cioè da Costantinopoli presa dai crociati, e dalla Spagna dominata dagli arabi. Allora furono lette con avidità, latinizzate, sia dall' arabico e dall' ebreo, sia dagli stessi testi greci (2). Tuttavia non convien credere, che le questioni principali della « Metafisica » d' Aristotele fossero del tutto sconosciute prima del secolo XIII; chè anzi se ne trovano qua e là nelle scritture di quei tempi vestigi così profondi, che sarebbe difficile spiegarne l' origine, senza ricorrere a un' antica tradizione, o a qualche estratto, tuttavia rimasto, dei libri metafisici e d' altre opere dello Stagirita (3). Ma l' epoca, nella quale lo studio d' Aristotele crebbe d' importanza e cominciò ad attrarre l' attenzione di tutti quelli che s' applicavano alle scienze, e della Chiesa stessa, risale a più d' un secolo prima che s' avessero i manoscritti arabi o greci, e quelli fossero fatti latini, quando il celebre canonico di Compiègne (circa 10.9 d. C.), Giovanni Roscellino mise in campo il nominalismo (4): dal qual tempo alcuni incominciano la storia della Scolastica, chè infatti con questa disputa tutte le menti s' accendono di nuovo ardore per le discussioni, e la Scuola acquista un carattere e una forma determinata, che più o meno si conserva fino al suo decadimento. L' universale non esiste nelle cose reali come universale, era stato detto da Boezio (n. 4.0, m. 526), che credeva di ripetere con ciò quanto aveva detto Aristotele (1). Come dunque quello, che è singolare nei reali, è poi universale nella mente? Lo stesso Boezio con molta giustezza osservava che il genere [...OMISSIS...] . Ora se l' universale è tutto in un singolare, non resta più nulla di lui da darsi ad un altro singolare. Oltre a ciò lo stesso Boezio spinge rigorosamente avanti la difficoltà. Dimostra infatti che il genere non può esser uno , perchè, essendo comune, si trova tutto in molti singolari diversi, nè può esser molteplice , poichè se fosse molteplice ci sarebbe un altro genere superiore, e così all' infinito. Come liberarsi da questa alternativa? La prima cosa che ricorre alla mente è quella di negare l' esistenza del genere e d' ogni altro universale, e così sbrigarsi di cotesto essere incomodo. [...OMISSIS...] Ora abolito l' universale, quegli universali che pur entrano nei nostri ragionamenti che cosa saranno? Non possono più esser altro che semplici vocaboli, meri nomi : ed eccoci nel nominalismo di Roscellino. Vero è che Boezio stesso si fa a risolvere poi quella difficoltà, già da lui proposta con tanta forza, per fare intendere quant' ardua fosse la questione accennata da Porfirio nella sua Introduzione , e lasciata da parte come troppo alta e bisognevole di lunga disputa. Ma la soluzione di Boezio non agguaglia certo la forza della difficoltà. E per accorgersene, basta che noi poniamo mente all' incostanza del suo ragionare. Egli ci cangia improvvisamente l' universale in una similitudine dei singolari, senza punto dirvi il perchè d' un tale cangiamento, senza giustificare questa repentina trasformazione. Ma che cos' è la similitudine ? Quest' è quello che ci si doveva dire, e quest' è quello che ci tace. E pure nell' arcana natura della similitudine giace tutta la questione, e tutta la difficoltà , che noi abbiamo dimostrato altrove (2). Di poi, si può egli dire che la similitudine d' una cosa sia la cosa, o sia nella cosa? Non è dunque vero, che gli universali sieno nei singolari, ma conviene che sieno fuori di questi, se non sono che una similitudine di questi (3). Finalmente se gli universali non fossero una similitudine , non potremmo conoscere con essi i singolari, perchè la similitudine è un astratto che nasce dal confronto di due cose simili. Ma il confronto di due cose simili non si può fare senza l' uso d' un universale precedente nella mente, che fa il confronto, al quale universale si riportino (1); e quand' ancora far si potesse, altro non s' avrebbe per risultato che una relazione di similitudine tra più cose singolari: ora una relazione tra più cose singolari è unica e singolare anch' essa, e perciò non può essere un universale. Dato dunque l' universale, si ha la relazione di similitudine e non viceversa. Che se in quella vece si volesse dire che il singolare somiglia all' universale, in tal caso converrebbe provare questa somiglianza, il che non si può se non si suppone prima, come dati avanti, l' universale e il singolare, e converrebbe provare l' esattezza di questa somiglianza, al che di nuovo si dovrebbero confrontare i singolari cogli universali, e si supporrebbero cogniti i singolari prima di ricorrere agli universali come a loro similitudini (1) per renderli noti. Era dunque naturale che tostochè si svegliasse qualche ingegno acuto e pensasse da sè, mal contento della soluzione data da Boezio, egli rimanesse in quella vece preso nella rete dell' argomentazione stessa, colla quale Boezio intendeva dimostrare la perplessità e l' arduità della questione toccata da Porfirio. Poichè quell' argomentazione conchiudeva che il genere , ossia l' universale , non esiste, e non può esistere (2): il che posto, non rimangono dei così detti universali altro che i nomi che è appunto l' induzione di Roscellino. Ma questo memorabile ingegno non aveva certo preveduto le terribili conseguenze che derivavano dall' annullamento degli universali, e quindi delle idee . Insieme con queste è tolto via dal mondo tutto ciò che c' è di divino, è sottratto il naturale veicolo, pel quale la mente umana si solleva a Dio . Il vizio del sistema cominciò ad apparire, come sempre accade, in una conseguenza particolare: non potendo Roscellino concepire che ci fosse qualche cosa di comune , era condotto necessariamente a parlare indebitamente della divina Trinità, dove l' essenza è comune alle tre persone. Per salvare dunque la Trinità delle persone, egli cadde necessariamente in una specie di triteismo, errore che fu condannato e da lui ritrattato nel concilio di Soissons del 1092 (3). Il suo discepolo Abelardo sostituì al nominalismo , il concettualismo (4), nel qual sistema gli universali non sono più puri nomi , quasi stimoli fisici che eccitino a pensare ai singolari, ma nomi, ai quali s' aggiungono gli attuali concetti della mente. Non bastava però questo a restituire agli universali una vera esistenza, perchè una cosa di cui si cangia la natura, non è più quella. Nel sistema d' Abelardo si disconosceva al tutto la natura obiettiva degli universali, e si rendevano puri pensieri subiettivi: erano nè più nè meno la « cogitatio collecta ex individuorum similitudine » di Boezio: non i veri universali. Se Roscellino, invece di salvare la Trinità delle persone in Dio, si fosse applicato a salvarne l' unità della natura, sarebbe ugualmente caduto nell' unitarismo. Poichè non potendo essere nel suo sistema comune la natura , rimaneva obbligato a scegliere tra questi due errori opposti o che le persone avessero tre nature numericamente distinte, o che, essendoci una sola natura singolare, le persone non fossero altro che attributi, qualità, rispetti della medesima. Abelardo, che disconoscendo la natura dell' universale, veniva in sostanza ad annullarlo altrettanto quanto Roscellino, per evitare l' errore condannato nel suo maestro, cadde nell' errore opposto, cioè nel sabellianismo (1) e fu condannato anch' egli dal concilio di Soissons nel 1121, e in quello di Sens nel 1140, come pure da Innocenzo II, ritrattandosi egli nell' una e nell' altra occasione, e abbruciando di propria mano la sua « Teologia cristiana » (2). Queste condanne abbatterono nella pubblica opinione il nominalismo di Roscellino, non meno che il concettualismo d' Abelardo, non solo per l' autorità da cui procedevano, ma perchè richiamavano l' attenzione alle conseguenze di tali sistemi. Il realismo puro non era men fecondo d' equivoci e di conseguenze erronee ed assurde, e Gilberto della Porretta fu condannato dal concilio di Reims del 114. per aver dedotta dal suo realismo l' erronea dottrina, che [...OMISSIS...] . Questa era conseguenza d' un sistema di realismo, che dell' essenza generica faceva una cosa reale distinta dall' individuo , e real causa del medesimo come appunto Aristotele fa della forma una causa reale della materia (2); nè questo solo però sarebbe bastato a poter dedurre quella conseguenza, se di più non fosse intervenuto nella mente di Gilberto un altro principio erroneo, quello che ci possa essere in Dio vera composizione, come accadrebbe se Dio fosse Dio per la sua forma, e non dipendesse dall' imperfezione del nostro concepire e del nostro favellare, il coniare dei vocaboli astratti: « divinità, deità », che rappresentano non Dio, ma la sua supposta forma universale (3). Ma sebbene il realismo puro sembri nel primo aspetto l' estremo opposto del nominalismo , tuttavia riesce in ultimo al medesimo: poichè l' uno e l' altro sistema annulla in sostanza l' ordine ideale (4): i nominalisti più schiettamente, dichiarando che le idee universali sono puri nomi; i concettualisti un po' meno, dichiarandole atti subiettivi del pensiero; i realisti puri finalmente coll' aria di difensori delle medesime idee, dicendo che sono reali; di che consegue, che anche per costoro rimangono in fatto i soli reali, le idee non più. Onde non senza acutezza e verità Abelardo nel concilio di Sens, dove fu condannato, rivolse, se è vero quel che narrano, a Gilberto Porretano, che l' impugnava, questo verso oraziano: [...OMISSIS...] . Tutte queste dottrine diverse erano sempre anche per innanzi venute in sul labbro dei maestri e sulla penna degli scrittori. Abbiamo veduto che il nominalismo stesso si trova nel germe in Boezio (1), e se ne trovano altre tracce nei dottori precedenti a Roscellino (2). Ma erano dottrine passeggere su cui non si fermava l' attenzione, di cui non si osservavano troppo le differenze, non si prevedevano le conseguenze, e si pronunciavano di corsa e involte in quell' indeterminato e in quel confuso, che ritiene le dottrine piuttosto in istato di feto, che di parto. Anzi anche quando i sistemi pel movimento dato al pensiero da Roscellino si separarono, essi non erano certo subito disegnati a precisione di contorni, ma tracciati alla grossa: e lo stesso realismo si divise in più scuole, nessuna delle quali andava priva delle sue nubi ed incertezze (3). Che anzi quando il realismo di Guglielmo de Champeaux, incalzato dalla inesorabile dialettica d' Abelardo, giunse fino agl' individui reali per la prima volta, allora nè pure s' accorse d' essere uscito dalla sfera delle idee, nella quale era racchiusa la questione, e confessando che gl' individui reali differivano d' essenza , non seppe distinguere tra l' essenza e la realizzazione dell' essenza , e però fu sospinto alla mostruosa sentenza, che l' essenza nella sua realizzazione , cioè l' individuo reale , fosse egli stesso, sotto un certo punto di vista, l' universale. Tutto questo per non essersi giammai distinto chiaramente e costantemente nè da Aristotele, nè da Boezio, nè dagli studiosi di tali autori fino al secolo XIII, le due forme primitive dell' essere , l' IDEALE e il REALE. Il realismo dunque prima dell' età di Roscellino esisteva solo e pacificamente, non come un sistema filosofico contrapposto al nominalismo , ma come un' opinione vagante, di cui non s' era trovata la formula. Tuttavia il realismo si conteneva nella sfera delle idee ; poichè non era venuto ancora a nessuno in mente lo strano pensiero che gli universali fossero le stesse realità individue . Ma l' equivoco, che giacea nella parola reale , lo conteneva in seme. La parola res non si prendeva come opposta a idea , ma come opposta a voce e a qualunque altra negazione d' esistenza. Quindi non c' era assurdo a dire che « gli universali fossero reali », intendendosi con ciò che non erano non esistenze, non erano nulla, non erano voci senza significato. Si dava dunque tanto agli enti sensibili e materiali, quanto alle idee, la realità , senza accorgersi che questa parola applicata ai primi e alle seconde mutava di significato: prendendosi, quando s' applicava alle idee, come un opposto di nulla , e quando s' applicava ai sensibili come un opposto d' idealità : la parola reale dunque, data egualmente ai sensibili e alle idee, impedì alla riflessione d' occuparsi seriamente nel rilevare la natura diversa ed opposta di quelli e di queste: gli uni e gli altri raccogliendosi in confuso sotto la denominazione comune di reali . In questa disposizione delle menti, trattandosi nelle scuole degli universali , si rimaneva bensì nella sfera delle idee , ma si poteva anche uscirne e trascorrere in quella delle sussistenze , senza pure avvedersene, senza avvedersi dello sdrucciolo che dava il pensiero. Il nominalismo ebbe appunto di qui l' origine. Videro alcuni ingegni dei più acuti che già incominciavano a pensare da sè, che l' universale era l' opposto dell' individuo singolare : essi non trovarono che ci potesse essere di reale altro che questo: conchiusero dunque che l' universale non esistesse, fosse un puro nome. Questa maniera di pensare e di parlare restringeva il significato della parola reale e in pari tempo lo determinava a un significato solo; il che fu un indubitabile vantaggio recato alla filosofia. Il realismo non si trovava preparato a questa battaglia, chè egli non conosceva la natura delle idee meglio che la conoscessero i nominali. Questi domandavano: « In che riponete voi la natura comune se non c' è nulla fuori degli individui? ». I realisti che si sollevavano ad una specie di platonismo, come Bernardo di Chartres, erano pochi, o piuttosto non ce n' era una scuola. Gli altri tutti, studiosi dell' aristotelismo, quali il poteano conoscere, accordavano che fuori dell' individuo non c' era nulla. Che rimanea dunque allora a rispondere? Non trovarono altro se non dire che « le essenze degli individui erano comuni, ma questi poi si dividevano per mezzo degli accidenti ». Venuti qui, non era più difficile a un dialettico potente come Abelardo cacciarli alle più stravaganti conseguenze che da quel principio veramente si derivavano. Dovettero dunque retrocedere, e confessarono che gli individui si distinguevano per le loro essenze. Ma così furono presi nell' equivoco della parola essenza ; poichè questa potea significare tanto l' essenza ideale , quanto l' essenza realizzata , equivoco che c' è in Aristotele di frequente. Confessando che gli individui si distinguevano per l' essenza , essi, con questo stesso prendevano la parola essenza in significato di essenza realizzata , e già con ciò si trovavano spinti, senz' accorgersi, fuori del territorio dell' idea . entro la quale si conteneva la questione. Dovettero allora giocare di sottigliezze per dimostrare che l' individuo reale era egli stesso universale , sia per la moltitudine , sia per la similitudine . Il realismo dunque delle idee, di cui si disputava, si cangiò in un realismo di sussistenze : appunto per l' equivoco della parola; e così si può dire che i realisti rimanessero a pieno sconfitti nel campo del ragionamento. Ma quella confusione che noi accennammo dei due significati del vocabolo reale , aveva cagionato pessime conseguenze, molto tempo prima che apparisse al mondo il nominalismo . Ella era nata, come abbiamo accennato, dalla mancanza d' una distinzione filosofica tra il sussistente , e l' ideale : ed ella stessa impediva col suo senso equivoco questa distinzione. Il realismo esisteva dunque prima di Roscellino e dominava pacificamente nei pensieri degli uomini dotti senza nome di sistema. Ma l' ammettersi che i generi e le specie sono dei reali , senza determinar di quale realità si parlasse, era al sommo pericoloso: non s' aveva altro esempio di realità che attirasse l' attenzione fuor di quella dei sussistenti e particolarmente dei corpi: anche ai generi ed alle specie davasi dunque con somma facilità questa realità che è in fatti il senso a cui fu poi ristretta questa parola. In una tale condizione delle menti era inevitabile che ogni qualvolta un pensiero potente s' occupasse della questione: dove dunque sono e che fanno nel mondo questi generi reali ? rovinasse in un baratro d' errori: vi era precipitato Aristotele ammettendo le specie eternamente congiunte colla materia. Aristotele di più diceva che niente esiste separato se non il singolare: l' universale dunque non poteva essere un reale , nel senso d' esistente, se non fosse nei singolari. Secondo questo concetto, il vocabolo reale aveva solo il significato di sussistente, poichè non c' era altra esistenza che quella dei sussistenti, che per vero sono i singolari. C' erano dunque tre sole vie per mantenere agli universali una realità di questa sorte, o che sussistessero in Dio, o che sussistessero da sè come altrettanti Dei, o che sussistessero negli individui creati. La sentenza di mezzo era un politeismo che non poteva essere facilmente abbracciato in secoli di fede cristiana. Rimanevano le altre due. Chi avesse collocati in Dio gli universali sarebbe venuto al platonismo: chi li avesse riposti negli individui creati avrebbe seguìto Aristotele. I realisti del secolo XII s' attennero a questo secondo partito, e ho accennato in una nota com' essi poi si divisero. Ma essi non ponevano mente che se questo poteva sembrar coerente in un sistema come quello d' Aristotele che ammetteva il mondo eterno, era inammissibile in un sistema, come il cristiano, che riconosce l' origine del mondo dalla creazione: poichè gli universali mostrano d' avere in se stessi una natura eterna. Questo ben videro i realisti anteriori di maggior polso, onde riposero gli universali in Dio ed anco nelle cose create. Evitando essi uno scoglio ruppero inavvedutamente in un altro, quello del panteismo . Poichè se gli universali sono in Dio come reali e sussistenti, non si possono più ricacciare l' uno dentro l' altro, (non essendo la realità suscettiva di questo involgimento), e così unificarli, nella quale unificazione solo si possono pensare esistenti in altro modo da quello in cui noi li pensiamo. Di poi , se questi reali e sussistenti sono quegli universali di cui partecipano le cose create, dunque anche queste sono composte della sostanza di Dio. Se avessero conosciuto che le idee hanno un altro modo di essere, opposto alla realtà dei sussistenti, avrebbero altresì conosciuto che il mondo è di un' altra natura diversa da quella delle idee ; perchè composto di sussistenti che sono realizzazioni delle idee , non idee. E in questo sistema soltanto è possibile una vera creazione che trae dal nulla il mondo reale. Ma se le idee s' unificano in Dio, e di esse in quanto sono reali partecipa il mondo, non ci può esser più che una cotal specie d' emanazione della divina sostanza. Io credo, coi più recenti critici (1), che Giovanni Scoto, il più grande pensatore del suo secolo, si possa benissimo purgare dalla taccia di panteismo; anzi le dichiarazioni ch' egli fa nella sua mirabile opera ch' è a noi pervenuta, sono una continua protesta contro il panteismo. E nondimeno un' opinione antica l' addita come il gran panteista del medio evo, precursore d' Amaury di Chartres e di David di Dinant, e quest' opinione è fondata in proposizioni che suonano un aperto panteismo, come queste: [...OMISSIS...] ; e somiglianti. Ora tali proposizioni conseguono necessariamente dal realismo delle idee. Se le idee, la specie e il genere sono realità, come si dicono reali le cose sussistenti, e, per esempio, le sensibili, in tal caso la realità del genere e della specie deve essere la stessa realità delle cose; perchè la realità non ha alcun altro mezzo di comunicarsi se non mettendo se stessa nelle cose: diventa così la materia di cui constano le cose. Ma tutte le idee si riducono all' essere che si chiama spesso anche da Aristotele il genere generalissimo: l' essere ancora secondo Aristotele è tutte le categorie e le categorie abbracciano tutte le specie e non hanno altra esistenza che negli individui: la loro esistenza dunque è la realità di questi. Dove si vede il realismo in Aristotele. Ma quando s' aggiunsero dottrine più elevate che non avesse Aristotele intorno a Dio, le idee reali ridotte all' essere reale erano con questa riduzione Dio stesso: perchè l' essere reale è certamente Dio. Se dunque le idee reali si riducono da una parte in Dio che è l' essere reale , e dall' altra sono nelle cose colla loro realità (non potendo esserci altramente, essendo reali), e però sono la materia delle cose (4): segue che Iddio sia la materia stessa di tutte le cose, che appunto è la proposizione di David di Dinant, chiamata insania da San Tommaso (1), e in fondo non punto lontana dalla proposizione dell' Eriugena che [...OMISSIS...] . Le idee reali dunque, l' universalissima massimamente, in cui tutte rientrano, l' essere reale essendo Dio (se rimane in questo sistema creazione , come pur vogliono i suoi fautori) (2), debbono esser creatrici del mondo . Ma poichè queste stesse idee sono nelle cose colla loro realità, di maniera che sono il fondo e la materia delle cose, quindi debbono essere anche create. Questo insegnava appunto il maestro di David di Dinant, Amaury di Chartres, cioè che [...OMISSIS...] . E questo richiama manifestamente la divisione della natura fatta più secoli prima dall' Eriugena per quattro differenze in quattro specie, la seconda delle quali specie di cose [...OMISSIS...] . Infatti, convien dire che le stesse ragioni delle cose che sono in Dio, siano create nelle cose, se (non distinguendosi il reale e subiettivo dall' ideale e obiettivo) si prendono le idee per cose reali , a quel modo che tali si dicono le cose sussistenti (5), onde ripete l' Eriugena assai di frequente: [...OMISSIS...] : il che potrebbe ricevere un senso immune da errore, qualora ciò che è nel Verbo s' intendesse d' un modo d' essere obiettivo , e ciò che è fuori di lui nel tempo s' intendesse d' un modo d' essere subiettivo , o estrasubiettivo ; e così non s' attribuisse alla natura stessa del Verbo la subiettività o l' estrasubiettività che costituisce la natura creata. Ma fatte le idee e le ragioni eterne reali, non si considerano veramente più come esemplare , da cui è totalmente distinta la copia: onde questa si confonde con quello; e non c' è più verso di distinguere quant' è mestieri la creatura dal Creatore, cioè di distinguerla per modo che la natura di questo rimanga di tutta sè ( ex toto ) diversa, e infinitamente separata dalla natura di quella. L' esperienza tuttavia e la storia della filosofia dimostrano, che c' è una somma difficoltà a distinguere e mantenere costantemente distinta nella mente la forma ideale ed obiettiva dell' essere, dalla forma reale , e ne somministrò recentemente prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce d' aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col titolo dei miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista : incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, eccetto alcuni pochi (1). Ma pace a quell' anima ardente: e torniamo alla storia. Il realismo, quale si stava nelle menti ancora indeterminato e senz' abito sistematico, aveva prodotto quelle sentenze panteistiche, che s' incontrano nell' Eriugena, a malgrado del suo indubitato proposito di non uscire dalle dottrine della fede, e che non ci sono sole, ma mescolate con altre del tutto opposte al panteismo stesso. Tali sentenze non di meno non si potevano abolire fino a che non si fosse abbattuto il principio da cui derivavano; onde a quando a quando ricompariscono nelle scuole, come si vide più espressamente in Amaury, e in David, e in altri suoi discepoli. Che anzi, prima assai dell' Eriugena, ed oso dire sempre, risonò il panteismo in bocca di quelli che meno il volevano, inevitabile conseguenza del realismo puro, cioè del concepirsi le idee siccome cose reali . Onde all' Eriugena parve d' assicurarsi sull' ortodossia della dottrina, appoggiandosi a quelle espressioni che ricorrono negli stessi Padri più rispettabili della Chiesa, come in un S. Basilio, che scrive: [...OMISSIS...] , nelle opere attribuite a S. Dionigi Areopagita e dall' Eriugena per la prima volta latinizzate, in cui si legge: [...OMISSIS...] ; in S. Massimo monaco, che non dubita pronunciare: [...OMISSIS...] , ed altre consimili. Ma qui è d' uopo distinguere un doppio ciclo dell' umana intelligenza, cioè quello del lume naturale , e quello del lume soprannaturale . I filosofi razionalisti non possono riconoscerne la differenza: ai loro occhi il lume soprannaturale è un lume falso, altro non è che l' effetto d' una esaltazione naturale dell' immaginazione. Nella dottrina all' incontro del cristianesimo quei due lumi e quei due cicli d' intelligenza sono profondamente distinti, e in pari tempo armonicamente uniti, e questa distinzione medesima ha per suo fondamento quella delle due forme, l' ideale e la reale , dell' essere. Il solo cristianesimo scoprì e produsse questo quasi doppio orbe scientifico, se pure scientifico si può chiamare il soprannaturale. Ma si dà almeno una scienza di lui. Mediante questa rivelazione, noi possiamo definire qual sia la cognizione naturale di Dio, e quale la cognizione soprannaturale; la prima « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha mediante le idee », la seconda « è quella cognizione di Dio che l' uomo ha per una percezione intellettiva di Dio stesso »: in questa s' apprende la realità divina, non già colla immaginazione ma colla pura ed essenziale intelligenza. Questo l' uomo non può fare da sè: conviene al tutto che Iddio comunichi se stesso: e lo fece prima e ineffabilmente in Cristo, Verbo di Dio incarnato, poi, e certo in un altro modo, in molti altri uomini per Cristo ed in Cristo. Nondimeno l' uomo, impotente a percepire da se stesso la realità di Dio, capace soltanto di conoscerlo idealmente e negativamente , può sentire il vuoto e la negazione intrinseca di questa sua cognizione naturale, e può anche cadere nell' inganno, dandosi a credere di poter coi suoi propri sforzi giungere a riempire quest' ammanco della sua cognizione, raggiungendo Dio stesso nella sua reale sostanza. E a tal fine, non soccorrendolo l' intendimento naturale, che non eccede la sfera delle idee, egli mette in movimento la sua immaginazione e il suo sentimento: e così pel vano sforzo, nasce l' agitazione e l' esaltazione contro natura e compariscono i falsi mistici, gli Yoga e i Buddha, i filosofi teurgici; Maometto, i sufi, Gazali e i suoi seguaci, e via via fino a Giacomo B”hme, che tanto prolificò in Germania, terreno troppo adatto a tali stravaganze e ben preparatovi dal protestantesimo. Qui il falso misticismo s' infiltrò più che altrove nella filosofia, e non poco contribuì alla produzione degli ultimi sistemi di quella per altro dottissima nazione (1). A tutti costoro mancando la materia intorno a cui pretendono lavorare col loro pensiero, cioè la realità di Dio , devono necessariamente tessere con fili immaginari, e quindi cadere nei più strani errori: talora sono obbligati di conchiudere che Iddio è il nulla, e ciò quando s' avvedono di nulla stringere per quanto si sforzino; talora poi compongono Iddio di tutti gli enti naturali, o fattili rientrare in una oscura potenzialità, alla grossa sincretizzati. Per tutti costoro il panteismo non suol essere tanto la causa, quanto l' effetto del loro misticismo. Ad ogni modo anche questi sono sempre perfetti realisti , nel senso che conferiscono alle idee una realità di sussistenza . Non si trovano certamente costoro nell' ordine soprannaturale , ma vogliono prendere il soprannaturale d' assalto colle forze del pensiero naturale, il che è impresa non solo temeraria, ma assurda. Ma se ci trasportiamo veramente in quell' ordine divino e soprannaturale che ci ha rivelato e apportato il cristianesimo, nel quale troviamo i veri mistici, in tal caso, ci si fanno incontro di quegli uomini che ci parlano della realità di Dio, per averne un' interiore esperienza. Il loro linguaggio tuttavia non si può intendere nè si può interpretare se non da altri che abbiano fatto in sè l' esperienza medesima. Onde questa è scienza chiusa e segreta. Conviene che noi lo diciamo, sebbene ci sia noto che una simile sentenza turbi non leggermente i savi del mondo. Volevo dunque osservare che molte di quelle espressioni che in bocca dei filosofi naturali suonano panteismo, nel ciclo della dottrina soprannaturale, che riguarda la realità di Dio e l' unione intima di questa colla realità umana, ricevono un significato vero e non punto panteistico, perchè si riferiscono a un oggetto diverso da quello a cui le riferisce, e a cui solo può riferirle, il filosofo naturale. Laonde tali sentenze s' incontrano nei sacri libri, e nei Padri, e in ogni pio scrittore, e soprattutto nei più celebri mistici della scuola cristiana cattolica tedesca del secolo XIV, voglio dire d' Enrico Susone, di Giovanni Taulero, di Giovanni Ruysbrock (1), i quali assai volte imitano i concetti e le espressioni stesse dell' Eriugena. Non intendo certamente dire, che tutte le espressioni di cotesti scrittori siano rigorosamente teologiche: soltanto voglio osservare, ch' essi non parlano di pure idee , ma di sentimenti reali che nelle anime intellettive si eccitano da una causa soprannaturale, che è Dio stesso, essere realissimo, che immediatamente e graziosamente presenta se stesso alla sua creatura senza confondersi con essa. Laonde quand' anco costoro diano una certa realità alle idee, non si può inferire da questo, che professino il realismo filosofico, ma il realismo mistico e soprannaturale, che è tutt' altro (2). E che sia tutt' altro si vede ancora da questo, che la realità mistica non si predica delle cose create, se non, quasi per una comunicazione d' idiomi, dell' anima umana in istato soprannaturale, come quando si dice che i giusti sono luce, aggiungendosi: « nel Signore », laddove il realismo filosofico si predica, da quelli che lo professano, di tutti gli enti finiti. Il falso misticismo si trasforma facilmente in un realismo filosofico: il realismo filosofico degenera in un falso misticismo. La differenza sta nella forma, affettando il misticismo sconnessione e disordine di esposizione; la filosofia all' incontro vestendo le stesse immaginazioni d' una scrupolosa regolarità e d' una deduzione metodica. Giacomo B”hme e Giorgio Hegel (3) presentano queste due forme; come presso gli Arabi le presentarono Gazali (Algazel) (n. 105., m. 1111) e Ibn7Roschd (Averroè) (n. 1126, m. 119.): tutti realisti nel significato di cui parliamo. Ma per vedere come il realismo arabico s' infiltrasse nelle scuole cristiane e vi si rendesse fonte di gravissimi errori, conviene che risaliamo più alto. Teniamo distinto il realismo impropriamente detto, dal realismo di cui parliamo. Il primo sta nella sentenza di quelli, che quando dicono: « le idee sono reali », altro non intendono se non che le idee « non sono un nulla ». A questo modo siamo realisti anche noi, con Alberto Magno, con S. Tommaso e coi migliori dottori che mai fossero, e che il Gioberti chiama semirealisti . Noi crediamo che tanto la denominazione di realisti , quanto quella di semirealisti , applicata al sistema di questi valentuomini, sia impropria ed equivoca. Il secondo è il sistema di quelli che dicendo reali le idee, intendono d' una realità attiva , come quella delle cose sussistenti nell' universo: questo è quel realismo, dal quale trassero origine errori innumerevoli e mostruosissimi. La parola realità non definita, non distinta coll' opposizione dell' idealità fa sì che l' umana mente sdruccioli da quella in questa, quasi per un suo proprio peso, confondendo due entità infinitamente distinte. E nel vero, ciò a cui dapprima si volge naturalmente l' attenzione umana, sono gl' individui reali e sensibili componenti il mondo. Quando la mente s' innalza a Dio, spintavi o dal magistero tradizionale, o da una sua propria argomentazione o contemplazione, trova ancora un ente reale, il cui termine esterno è il mondo. Fin qui tutto è realità nel pensiero: non già ch' esso non abbia o non faccia uso d' idee: ne ha per certo, e ne usa: ma elle sono in esso come un mezzo di pensare, non ancora come oggetto dell' attenzione e della riflessione, perciò inosservate: ci sono come non ci fossero pel ragionamento riflesso: le idee in questo stato non entrano nel calcolo, non fanno parte della scienza (1). Viene più tardi il tempo in cui la riflessione speculativa s' affissa sulle stesse idee: e in questo momento nasce la filosofia: mille problemi si presentano allo spirito: la loro diversa soluzione fa comparire una molteplicità di sistemi. Ma quello a cui lo spirito umano può difficilmente e dopo più lungo tempo pervenire, si è a risolversi che le idee abbiano una maniera di essere tutta loro propria, interamente diversa da quella delle cose reali. Non arrivandosi a questo colla mente che già specula e non sa contenersi, o si negano a dirittura le idee, e nasce il sensismo , il nominalismo , lo scetticismo ; o si cade in quel realismo , di cui noi stiamo dimostrando le assurde conseguenze. Il qual realismo nelle menti acute vacilla incoerente con se medesimo: nelle meno perspicaci procede più franco e quasi sicuro di se stesso. La sapienza orientale, che ricevette la prima una forma filosofica, non potè mai uscire da un realismo di questa natura e giungere alle idee pure , che appartengono certamente agl' ingegni italici e greci. Perciò l' oriente apparve sempre la terra nativa del panteismo; e di qui l' ebbero i greci per mezzo degli orfici e d' altri poeti mitici prima del nascimento della filosofia; c' era Iddio in tutta quanta la natura, anima e vita di questa. Dalla vita della natura Anassagora separò la parte intellettiva e pronunciò quella memoranda sentenza, che « la mente non poteva avere mistura di sorta alcuna »ma con questo non si separava ancora l' oggettivo , che per l' uomo sono le idee, dal soggettivo , che è la potenza e l' atto d' intendere. Platone fu il primo, per quanto pare, che, avuto l' indirizzo da Socrate, pose nella serena quiete della sua mente, ferma attenzione all' oggetto per sè, cioè al mondo ideale: e senz' uscirne, dall' idea, mirò e vide in essa i caratteri divini dell' eternità, della necessità ed altri tali. Ma seppe Platone evitare totalmente il realismo? Il realismo, dico, nel senso che noi riproviamo, nel senso di quel sistema che attribuisce alle idee un' esistenza subiettiva ed attiva , come quella delle cose mondiali? Circa la quale questione, per quanto pare a noi, si suol prendere errore anche dai più dotti commentatori ed espositori. Il Tennemann sostiene che le idee di Platone sono pure nozioni della mente, fuori della quale non esistano (1). Questo ancora non basta ad assicurarci che Platone non dia alle idee una propria realità , non potendosi decidere una tale questione, senza sapere in che modo esse siano nella mente. Può intendersi che ci siano come atti della mente, e in tal caso non esistono più le idee che di nome, poichè gli atti della mente, la cui esistenza nemmeno il nominalismo ha mai negata, sono tutto altro che le idee; pure sono reali. Può intendersi che esistano nella mente come oggetti in opposizione al principio d' intendere subiettivo: e qui solo trova luogo la questione: « se questi oggetti siano reali o ideali ». Se si risponde che sono reali , è ancora a domandarsi di qual mente si parli, della divina o dell' umana. Poichè se si parla della divina, l' oggetto del suo conoscere non può essere che realissimo, altro esso non essendo che la stessa divina essenza, o ciò che nella divina essenza Iddio liberamente distingue senza porre in essa alcuna distinzione: e questo realismo è verissimo, ma non è punto quello della questione agitata tra i nominali e i realisti : perchè questa controversia riguardò le specie e i generi, ossia le idee che sono oggetti della mente umana secondo il modo proprio della sua intuizione, e non secondo quel modo tutto diverso con cui conosce Iddio. Rimane certamente qualche oscurità nella dottrina di Platone, quale risulta dalle opere che di lui ci rimangono e dalle indicazioni che ce ne dà Aristotele; ma pare tuttavia indubitato che le idee proprie dell' uomo per Platone siano produzioni di Dio e non qualche cosa d' essenziale a Dio stesso (2): siano cioè la prima produzione, il disegno, l' esemplare del mondo, come la mente nostra lo può concepire. Ora la natura d' esemplare , «paradeigma» (1), che Aristotele schernisce come una vana metafora poetica (2) è pure la parola solenne che esclude il realismo , perchè per essa s' intendono chiaramente contrapposte le cose reali alle idee , onde queste, secondo la teoria dell' esemplare, sono categoricamente diverse e anteriori logicamente alla realità di quelle. Goffredo Stallbaum si oppone al Tennemann, scrivendo: [...OMISSIS...] ; e dà alle idee di Platone una forza produttrice. Questa maniera di concepire le idee di Platone viene ad attribuire a questo filosofo due sistemi di realismo ad un tempo: 1 quello che cangia le idee in principŒ subiettivi ed attivi ; 2 quello che colloca le idee nelle cose reali come loro forme o atti. E questo secondo sistema è in parte quello d' Aristotele, come vedremo. Qualora dunque collo Stallbaum si dovesse assegnare alle idee , quali sono vedute dall' uomo, quest' attività di produzione, e non la semplice natura di luce, d' intelligibile, d' esemplare, converrebbe certo classificare Platone tra i realisti : ma questo ripugna, come osservavamo, al concetto di paradigma costantemente da Platone mantenuto nelle sue idee. E` sempre Iddio, il «demiurgos», che opera in Platone: le idee sono la sua produzione, e riguardando in queste, come in esemplare, Egli crea la realità del mondo . Questa maniera di concepire, indubitatamente platonica, è aliena affatto dal realismo , le idee non vi compariscono che come norme del divino operare, oggetti conoscibili e possibili, non reali. Gli altri luoghi, dove sembra che Platone dia alle idee una loro propria attività, si devono intendere con cautela e conciliare colla sua dottrina fondamentale e indubitata: le idee operano solo in quanto Iddio opera per esse: l' attività si rifonde tutta in Dio. Ma se le idee si considerano in Dio, non quali sono nell' uomo e all' uomo appariscono, ma quali sono veramente in Dio, certo che hanno l' attività di causa, perchè si riducono necessariamente nel Verbo divino, e con questo riducimento cessano d' essere pure idee. A tal concetto pare che in alcuni luoghi s' elevi Platone, o almeno così fu inteso dai platonici nei tempi cristiani e da alcuni padri della chiesa. Del pari non crediamo potersi attribuire a Platone il secondo sistema di realismo , quello che fa esistere le idee nelle cose reali: le idee esistono fuori del tempo, molte delle cose reali soggiacciono al tempo. Tant' è lungi che secondo Platone le cose reali abbiano le idee in sè, ch' esse non ne sono altro se non imitazioni, e però servono alle menti di segni delle idee, perchè ne sono il realizzamento. Quanto poi alla partecipazione che le cose hanno delle idee, questa ha luogo solo nella mente umana , a cui è data la contemplazione delle idee stesse: e nella nostra mente le realità sensibili certo si copulano a quelle essenze eterne che le rendono conoscibili. Onde crediamo che Platone il primo e il solo abbia scosso dalla filosofia il pernicioso realismo dei suoi predecessori ed abbia conosciuta la singolar natura delle idee (1). Era impossibile che Aristotele, avendo udito per vent' anni Platone, non ne ritraesse nulla della nuova e sublime dottrina delle idee. Ritenne le idee immateriali, ma in molte maniere le realizzò, abbandonandone la parola, e sostituendo quelle di forma e di specie . Le realizzò primieramente confondendo l' oggetto , che solo appartiene alle idee, col subietto intelligente , ponendo che tutto quello che fosse senza materia dovesse essere ad un tempo e intelligibile e intelligente. Tale è il Dio d' Aristotele, tale anche la mente umana. L' oggetto non è per lui qualche cosa che involga un' assoluta esistenza contrapposta al subietto umano. Ora l' intelligente appartiene all' esistenza subiettiva e reale: quest' è dunque un sistema di realismo. Tuttavia egli descrive Iddio come una pura causa finale non attiva, ma solo intelligibile ed appetibile: il che dimostra che il concetto dell' intelligibile platonico aveva lasciato una profonda impressione nell' animo suo. A questo primo sistema di realismo in Aristotele se ne congiunge un altro. Poichè le specie mondiali sussistono ab aeterno reali negli enti reali del mondo, possono essere separate dalla materia soltanto per opera del pensiero; ma anche nel pensiero umano sono attive, come sono attive nella natura. In realtà nella natura costituiscono insieme colla materia quella causa efficiente che Aristotele chiama appunto natura , e nel pensiero costituiscono quella causa efficiente che Aristotele chiama arte . Le idee dunque per Aristotele sono principŒ attivi e non già puri oggetti intelligibili; perciò veramente reali. Che anzi egli fa della sua forma un sinonimo di atto . Tali sono le viste diverse e i principŒ (dai quali svolgendosi, o separati o confusi insieme, come per lo più è avvenuto, uscirono le diverse dottrine che apparvero intorno alle idee e dominarono nelle scuole da Aristotele fino a noi) quali ora riassumeremo ed enumereremo così: 1 il realismo orientale e orfico , che non distingue, dal mondo ideale, Iddio, ma fa la divina mente vita dell' universo; 2 l' esemplarismo di Platone, che evita ad un tempo il realismo, il nominalismo e il concettualismo; 3 il realismo aristotelico , che si parte in due proposizioni, ciascuna delle quali, prese a parte, costituisce da sè un sistema di vero realismo, e sono: a ) l' intelligibile in atto è identico all' intelligente, qualunque sia, in atto, e però l' intelligibile è un reale ; b ) le forme o specie esistono nella natura come atti nella materia , e nella mente umana come atti puri da materia , ma, nell' una e nell' altra esistenza, sono principŒ e cause attive (natura ed arte), e perciò reali. Il nominalismo e il concettualismo delle scuole ebbero il loro germe nello stesso realismo aristotelico . La prima proposizione del realismo aristotelico contiene il germe del nominalismo : la seconda quello del concettualismo , che è anch' egli una specie di nominalismo. Coloro che posero mente alla proposizione che « i generi e le specie non esistono che nella natura, cioè negli individui reali », conchiusero a ragione che dunque gli universali non esistono: sono puri nomi. Coloro la cui attenzione fu più colpita dalla prima proposizione che « le specie sono nelle menti come puri atti », conchiusero a ragione che gli universali non esistono in sè: sono puri concetti subiettivi e individuali anch' essi. Era sommamente difficile ad intendersi e a mantenersi in tutta la sua purità il sistema di Platone dell' esemplarismo : Aristotele stesso, io credo, non l' aveva bene inteso: dopo di lui, nel decadimento della filosofia, molto meno un così sottile concetto potè cogliersi dalle menti. I neoplatonici e gli alessandrini (1) bevevano grosso: tutta la fatica ch' aveva durata Platone per separare i prodotti dell' immaginazione dagli oggetti della pura intelligenza, e per distinguere ciò che andava confuso nelle dottrine filosofiche precedenti, si perdette per essi interamente: essi con pieno sincretismo rimpastarono in uno il panteismo ed il misticismo orientale e orfico, e il pitagoreismo, e il platonismo: tornò dunque a galla il realismo puro, confuso, cieco, senza contrasto, senza che nè pure si movesse nelle menti il sospetto che l' esemplarismo , di cui si riteneva il linguaggio, fosse qualche cosa di contraddittorio appunto a quel realismo che si professava. E veramente, sconosciuta la forza e il valore di questo concetto dell' esemplarità , che contiene anche quello dell' intelligibilità delle idee, il carattere che distingue la filosofia platonica da ogni altra non si vede più, e però non rimane più difficoltà a confonderlo da una parte colle contemplazioni orientali, dall' altra colle speculazioni aristoteliche. Di qui ancora venne quella sentenza così frequente in Cicerone, che gli antichi accademici e gli antichi peripatetici, d' accordo nelle cose, differissero solo nelle parole (3). Il vero carattere dunque, che rende unica da tutte le altre la filosofia di Platone, non fu ereditato dai suoi successori, e ben presto non si seppe più vedere. Il realismo dunque, distinto nei vari modi di concepirlo, ebbe libero il campo: esso regnava ugualmente nel preteso platonismo di Filone, che fu uno dei primi tra gli alessandrini, nella Cabala di Akibha e di Simeone Ben7Jochai, nei nuovi pitagorici, negli gnostici: tutti più o meno entusiasti o panteisti. Nessun filosofo di queste scuole si dava cura di rendere a se stesso o agli altri un conto accurato delle proprie idee: anzi nell' oscurità misteriosa delle loro locuzioni si piacevano d' involgere una pretesa sapienza indefinibile (4). Quelli dunque, che rifuggivano dalle cognizioni confuse e bramavano di pervenire a cognizioni chiare e distinte, inclinavano a buttarsi nello scetticismo: e questo nella bocca d' Enesidemo e di Sesto aveva un gran vantaggio dialettico a fronte di tali avversari. Onde non è maraviglia se gli scettici di questi tempi sembrano più acuti dei loro avversari, più dialettici, e abbiano conseguito una momentanea prevalenza. Ammonio Sacca, da cui prese la scuola profana d' Alessandria un nuovo vigore dopo la fine del secondo secolo, pretendeva di fondere Platone ed Aristotele insieme, come i suoi predecessori: la serie dei filosofi che ne uscì, specialmente Porfirio, Jamblico, Proclo, non dubitarono più che i due maggiori filosofi professassero una stessa filosofia: il solo Plotino si può considerare come un ingegno a parte, che pur sentì l' influenza del secolo, come vedesi dall' imperfezione del suo stile. Veramente questo era un darla vinta ad Aristotele, poichè quello che si sacrificava, senz' accorgersi, alla pretesa conciliazione dei due filosofi, era tutto ciò che Platone aveva di proprio e di eccellente, cioè la dottrina non più intesa delle idee, delle idee dico, quali si presentano alla mente nostra come eterne conoscibilità delle cose : e con ragione fu osservato che questa prevalenza d' Aristotele spiega l' origine della dottrina, tutta aristotelica, degli Arabi. [...OMISSIS...] Perdutasi quindi interamente la chiave dell' esemplarismo di Platone, il solo realismo era restato padrone del campo: e se si nominavano a quando a quando le idee, era un nome vano; chè non se ne intendeva punto la natura. Il realismo poi, lo vedemmo, ora cercava la sua base nella divinità, realità prima emanatrice di tutte le altre di cui si compone il mondo, e se n' aveva il panteismo , il misticismo , il quietismo , il teurgismo ; ora la cercava e credeva di trovarla nelle realità sensibili dello stesso universo, e se n' aveva il naturalismo , il razionalismo , il sensismo , il soggettivismo , il materialismo , e quando più tardi si osservò che di tutte queste realità niuna poteva essere universale , si trasse la naturale conseguenza della negazione degli universali, sentenza che prese le due forme e i due nomi di nominalismo e di concettualismo . Schernitore acuto di tante aberrazioni e di tante stravaganze era nato da sè, e s' era messo di contro a tutti, lo scetticismo . Una filosofia maestra di tanti errori non poteva condurre avanti il suo corso senza che venisse ad urtare, e in fine a rompersi, da una parte contro il cristianesimo, dall' altra contro l' islamismo che riteneva una parte di verità dal primo ond' era uscito. Giustiniano dunque nel 529 fece chiudere le scuole pagane di Atene; nè valse che i filosofi, dopo quattr' anni, dalla Persia dove s' erano rifugiati, potessero ritornare; chè nella luce già diffusa del cristianesimo non poteva più essere ben accolto un magistero così imperfetto: la filosofia pagana dunque, confusa da se stessa, ammutì. Pure al mondo cristiano la pagana filosofia lasciava una eredità, ma sporca. A nettarla dai pesi degli errori, ponevano già da molto tempo ogni lor cura gli scrittori ecclesiastici. Ma questo gran lavoro fu storpiato dalla violenza dei barbari, che coll' impero romano sconvolsero dai fondamenti la società e vi distrussero la civiltà, senza nondimeno poterne sterpare le radici custodite dal cristianesimo, vincitore e maestro paziente dei barbari stessi. Il lavoro cristiano dunque nei primi tempi si limitò, quasi direi, a combattere le erronee conseguenze, che propagginavano dalle antiche filosofie e dalla loro degenerazione: ma non ci fu campo, nè tranquillità sufficiente a richiamare in esame i primi principŒ e a ricostruire dal suolo una filosofia degna del Vangelo. Quindi l' esemplarità delle idee si tenne, quanto bastava a spiegare la divina sapienza e la creazione senza renderla fondamento d' un sistema filosofico (1). Il realismo dunque, che formava il vizio radicale delle ultime scuole filosofiche, rimase fitto e appiattato nel comune insegnamento, senza però che osasse metter fuori le unghie: nè ci fu alcuno degli ultimi filosofi cattolici, nè Boezio, nè Cassiodoro, nè Beda che lo scoprisse e che gettasse pure un sospetto sopra le sue conseguenze. Di che non deve cagionar maraviglia se in progresso di tempo e a quando a quando, uscissero da quel realismo medesimo che s' ammetteva a fidanza, illazioni inaspettate ed eterodosse. Queste certamente si guerreggiavano tosto dal sentimento cattolico, e si recidevano dall' autorità, come accadde a quelle che ne dedusse nel IX secolo l' Eriugena (1), ma più ancora i pretesi suoi discepoli del secolo XII e XIII Amaury e David. L' islamismo non trovava in sè quella forza logica e morale che ha il cristianesimo, e però non poteva difendersi con egual polso contro le conseguenze del realismo aristotelico . Anzi non poteva difendersi punto con armi dialettiche dalla corruzione e dal veleno di quel realismo. Non gli restava altro scampo che di combatterlo con la forza bruta, di cui trovavasi ben armato. Non ragionò dunque, ma distrusse a ferro e a fuoco la stessa filosofia; e Averroé che tirò dal realismo d' Aristotele le ultime conseguenze di razionalismo e di naturalismo puro, fu, si può dire, anche l' ultimo filosofo presso gli arabi (2). Il cristianesimo non ha paura di sorta della filosofia: egli dunque non la distrugge, e anzi ne promove e ne incoraggia lo studio; ma in pari tempo con una continua vigilanza combatte acremente e legittimamente gli errori, e li corregge, giovando con questo incredibilmente alla filosofia stessa. Tuttavia gli errori sono tenaci: lo spirito d' empietà, immortale quanto il genere umano sopra la terra, se ne impossessa e vive di essi, difendendoli a morte come la sua propria vita. Poichè la prima, la perpetua e più profonda divisione del genere umano sulla terra, è indubbiamente quella delle due società, di cui fa menzione il « Genesi » (3); e ogni qualvolta comparisce nel mondo una filosofia imperfetta, o avente qualche indeterminazione o qualche incoerenza, o, quello che è sempre inevitabile, circondata, agli occhi di molti, d' oscurità e di difficoltà, tosto ella si biparte in due, e si differenzia per la contraria interpretazione e per la piega diversa che le danno quelle due società che a gara se ne vogliono impadronire. Il che è quanto dire, che l' abuso si mette sempre al fianco dell' uso. La scissura del genere umano s' imprime dunque e si riflette nelle filosofie, e principalmente in quella che in un dato tempo è più autorevole e più acclamata, la quale così si fa segno di speciale discordia e oggetto e materia della lotta più di tutte ostinata. Il che viene confermato dalla storia del platonismo non meno che da quella dell' aristotelismo. Nelle considerazioni storiche fatte da noi fin qui, vediamo l' aristotelismo abbracciato e tirato a sè dalle due parti. Di qua la dottrina d' Aristotele insegnata e proclamata altamente come un aiuto naturale e un sostegno del cristianesimo: di costà essa medesima pure divenuta un' arma possente nelle mani dell' empietà, con cui questa tenta niente meno che l' intera distruzione del cristianesimo e d' ogni altra religione, e lo stabilimento del materialismo e dell' ateismo più consummato. Appresso gli arabi erano ricomparse le due fasi opposte del realismo che non mancano mai nella storia della filosofia: voglio dire il realismo panteista e mistico (1); e il realismo naturalista . Quando la filosofia araba comparve nella cristianità, l' uno e l' altro errore vi fu combattuto, e se rimase tuttavia il realismo delle idee, sotto questa parola equivoca s' intese dai più sani che le idee erano qualche cosa, non puri nomi. In questa lotta, il primo errore cioè il mistico e panteistico, fu del tutto vinto e dovette nascondersi per fare soltanto delle uscite momentanee: poichè, appena si affermava, veniva compresso. Quando l' errore si presenta sotto forma di religione, il cattolicismo colla stessa coscienza di sè lo ripudia. Nel cattolicismo cammina la ragione a lato della fede; due lumi che non vi possono essere nè confusi, nè disgiunti. Il razionalismo e il naturalismo all' incontro , non presentandosi con la forma d' una religione, e però non domandando, per esistere, d' occupare il luogo del cristianesimo, potevano mantenere per qualche tempo una propria esistenza, dissimulando la propria opposizione alla dottrina cristiana. Questa la ragione, per cui l' averroismo infiltrato nelle scuole lungamente vi si mantenne (1), talora coperto, talora pigliando sicurità e denudandosi; quando sterile tronco, e quando col seguito delle sue ultime conseguenze, ora senza schermi ed ora schermendosi con ridicole ed insolenti distinzioni, qual fu quella celeberrima della doppia verità, la filosofia e la teologia. L' aristotelismo fu dunque condannato da prima nel 1209, poi nel 1215 e 1231; vi fu condannato, come l' avevano esposto gli arabi, insieme col panteismo di David e d' altri nominati nella sentenza del concilio di Parigi pubblicata dal Marlene (2). Il realismo aristotelico consisteva nell' aver dato alle specie ed ai generi, cioè alle idee delle cose mondiali, una esistenza nelle stesse cose reali . Essendo le idee cosa divina e ponendosi esse come forme reali delle cose, si faceva manifestamente Iddio forma reale degli enti mondiali. Ora gli enti tutt' intieri si riducono alla forma, perchè la forma, causa della materia, è quella che li fa essere, e dalla forma si denominano. Se questo sistema, riguardato da una delle sue facce, è una specie di panteismo, riguardato dall' altra, è naturalismo e ateismo. Quanto tenacemente si abbarbichi negli animi e nelle menti cotesto realismo che, portando il suo frutto, si converte in un sistema d' empietà bifronte, lo dimostra, oltre le ripetute condanne frequenti, la dura lotta che gli scrittori più eminenti, cominciando da Guglielmo d' Auvergne e discendendo fino a quelli del secolo XVI, sostennero per abbatterlo; e le rovine che tuttavia egli andò menando, combattuto, non mai pienamente estinto. Che più? Se noi stessi, nel tempo nostro, altro non facciamo che combattere lo stesso nemico sullo stesso campo? L' averroismo , figliuolo, per generazione logica, dell' aristotelismo, diede al mondo la formula della più mostruosa empietà: ognuno intende che alludiamo alla bestemmia dei tre impostori . L' empietà sbocciata da questo fonte aristotelico ed arabico comparisce sotto forme volgari e religiose nel gioachinismo, nell' evangelio eterno, nei catari, beguardi, lollardi, bizzocchi, fraticelli, poveri di Lione, ecc., che cotanto commossero la società nel secolo XIII; e si dovettero frenare e comprimere colla forza scientifica specialmente nell' università di Parigi; e si dovette con autorevoli decisioni ecclesiastiche degli anni 1240, 1269, 1277 condannare, quand' esso si proponeva nelle tesi le più strane e le più empie, e che pure si riprodussero per molto tempo ancora (1). Sventuratamente la casa degli Hohenstaufen divenne il centro di tutta questa empietà e dell' immoralità che ne era e ne doveva essere causa ed effetto (2); la filosofia araba nella sua forma più bassa, materiale e dissoluta, annidatasi in quella corte, e ivi protetta da Federico e da Manfredi, corruppe tutto il secolo XIII, che fu pure maestro all' empietà del XIV, nè la tradizione d' empietà e d' incredulità s' interruppe più mai, e la esplosione terribile ch' ella fece nel secolo XVIII, indica troppo bene lo stesso fuoco vulcanico che coperto in parte da ceneri e da rovine, ci fa ancora sotto le piante traballare ed ardere il suolo (3). L' averroismo purtroppo corruppe specialmente la filosofia in Italia: entrato nell' università di Padova per opera di Pietro d' Abano (n. 1250, m. 1317) e cresciutovi d' autorità per opera di Gaetano Tiene (n. 13.3, m. 1465) vi durò fino al Cremonini (m. 1641), cioè più di trecento anni. E questa non fu la minore delle deplorabili calamità a cui questa nazione soggiacque. Lo stesso studio incessante d' interpretare benignamente Aristotele ed Averroè, e di confutarne gli errori, contribuì non poco a mantenere più a lungo nelle cattedre autori, i cui principŒ erano prolifici delle più perniciose dottrine: si credeva renderli innocui con interpretazioni stiracchiate o false, o con confutazioni che non distruggevano ciò che quegli errori contenevano di seducente. Coloro a cui basti la perspicacia per rannodare le conseguenze più remote ai principŒ e gli effetti alle cause, dopo aver profondamente meditato sulle sciagure italiane, non crederanno esagerazione il conchiudere che l' erronea filosofia introdottavi e pertinacemente mantenutavi, c' entra molto da per tutto. Le sciagure morali, checchè ne dicano i vani e belli spiriti, cagionano tutte le altre. E tutte le altre dell' ordine morale furono indubbiamente scosse e guaste dal realismo aristotelico e averroistico, che trovò tant' altre cause a lui affini con cui associarsi. Queste parti integranti dell' ordine e dello stato morale della società sono: 1 la religione ; e l' averroismo introdusse in varie parti d' Italia una scientifica incredulità, incominciando da quei medici atei che tentarono d' attirare al loro materialismo il Petrarca (1), e più sù ancora (2) e più giù fino al Vanini (3); 2 il costume ; e l' averroismo ci dà gli epicurei di Firenze del secolo XIV coi loro successori (1); 3 la politica ; e dalla stessa filosofia aristotelica, sorse il macchiavellismo (2), che fa perdere affatto agl' Italiani la traccia della vera politica; 4 il diritto politico ecclesiastico ; e sotto il regno dello stesso sistema filosofico, esso degenera in una guerra appassionata che si fa alla Chiesa da Arnaldo da Brescia (m. 1155) fino a Fra Paolo (m. 1623), tanta parte del decadimento di Venezia, cioè dello stato meglio ordinato che avesse l' Italia; 5 la letteratura ; e si rimane sudicia e snervata dalla scostumatezza nei suoi stessi esordi, come specchio che doveva essere della società italica e fiorentina del secolo XIV, cioè d' una società travagliata dalle quattro piaghe indicate. Tale è l' eredità ricca di guai che l' Italia raccolse dal realismo aristotelico e arabico, tenuto da essa, per sua sciagura, più tenacemente di tutte le altre nazioni (3). Certo nelle bocche del Cesalpini (m. 1603) e del Cremonini (m. 1641), che vanno contati tra gli ultimi rappresentanti dell' aristotelismo in Italia, il principio del realismo aristotelico suona così fresco e così spiccato come se fosse un trovato pur d' allora: le forme delle cose si riducono in Dio che n' è principio, causa formale egli stesso del mondo (4). Le conseguenze si possono negare, dissimulare, impugnare, ma brulicheranno tuttavia nelle menti che avranno ricevuto in sè quel principio fecondissimo. E un sistema di questa natura si continuava a insegnare, perchè non ce n' era allora un altro. Pure tostochè gli occhi cominciarono a levarsi dai libri e a riguardar la natura, esso perì, ucciso, da quegli stessi germi di corruzione che portava in se stesso (1): si tentò dunque per un poco di far senza della filosofia, ristorandosi di questo mancamento colle fisiche scoperte (2). E per vero l' avverroismo doveva necessariamente rendere la filosofia trista, barbara, pedantesca, sofistica, difetti tutti, che cresciuti col tempo, venivano infine a renderla insopportabile agli ingegni che secretamente da essi stessi progredendo si andavano svezzando (3). In questo modo invecchiò e si corruppe la filosofia scolastica; e dall' ali del nuovo genio che invase l' Europa ne furono spazzate le rovine. L' ultimo sforzo fatto da essa per prolungare la vita, se fosse stato possibile, ebbe ancora il doppio carattere di razionalismo e di misticismo. Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Epistolario ascetico Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Questa parola, a cui mi sono abbattuto nei vostri scritti, mi ha inorridito. E che spera di ritrovare un Sacerdote di Gesù Cristo in un ordine puramente temporale? No, non sarà soddisfatto il suo cuore giammai: sarà un misero che, perduta la strada, erra in una selva deserta, e vi perisce di fame o divorato dalle fiere. Non aggiungo di più: sono stato anche troppo lungo e forse importuno. Rammentate però che questa importunità viene d' amor puro, sgomentato al pensiero della perdizione eterna di un mio confratello. Se voi darete un sol minuto a questo pensiero, se lancierete un solo affetto a Gesù, non resisterete più a lungo alla voce di Dio, che non tace sicuramente nell' anima vostra. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Io so bene che non siete legato con voti all' Istituto. Se foste legato con voti, non vi proporrei la questione che vi ho proposto « se lo spirito che vi ha mosso a fare una tale risoluzione sia stato spirito di Dio, o spirito di voi stesso »; in tal caso la cosa sarebbe certa, e non dubbiosa. Ma appunto, perchè siete libero di stare e di uscire, mi pare che dobbiate fare a voi stesso una simile questione: appunto perchè siete libero potrebbe allucinarvi l' amor proprio, il quale sa essere buon teologo, alcune volte, male a proposito. Ciò che io bramo si è, che allontanata qualsivoglia sottigliezza di ragionamento, davanti al vostro Creatore, esaminiate « se i motivi del vostro passo vengano dal pensiero dell' eternità e dal desiderio di piacere a Dio, oppure vengano da qualche miseria della vita presente ». Lo spirito di Dio è lo spirito di Gesù Cristo, e lo spirito di Gesù Cristo consiste in umiltà, mansuetudine, annegazione, mortificazione; ecco lo spirito di Dio: il contrario è lo spirito del demonio: « qui spiritu Dei aguntur, hi sunt filii Dei ». Non crediate adunque, che io abbia la temerità di decidere se voi abbiate peccato, o non peccato a fare quello che avete fatto. Anzi io debbo dire che non avete peccato, perchè un uomo non può condannare il suo fratello, se non v' ha un obbligo preciso , e se non trova che quest' obbligo sia stato da lui violato. Ora io non trovo che voi aveste nessun obbligo preciso di rimanervi nell' Istituto: dunque per me conchiudo decidendo, che non avete peccato. Ma che cosa è questa mia decisione? nulla per la vostra quiete: io, se fossi nel vostro caso, non la giudicherei soddisfacente; ma direi: « qui autem iudicat me Dominus est »: convien pensarci come se fossimo in punto di morte, in quel punto, nel quale svaniscono tante distinzioni frivole , colle quali possiamo talora addormentare la nostra coscienza, ma non modificare il giudizio di Dio. La legge, che io vorrei che consultaste, si è quella dell' amore: io v' ho scritto persuaso, che voi siate un vero amatore di Gesù Cristo, o che bramiate sinceramente essere tale. Se l' oggetto del vostro cuore è di piacere più che sia possibile a Gesù, se lo scopo dei vostri desiderii è la perfezione ; in tal caso interpreterete in sano modo le mie parole. Ogni peso sostenuto per amor di Gesù Cristo è in questo senso il dolce e soave giogo di Gesù; ogni mortificazione, patita con rassegnazione e umiltà dietro il suo esempio, è la croce santa e beata de' suoi discepoli. Il « tollite iugum meum super vos », e il « qui vult venire post me, abneget semetipsum et tollat crucem suam », sono voci del più tenero amore, e gli amanti le intendono: non si riferiscono solamente a de' voti religiosi, o a degli obblighi sotto pena di peccato mortale: esse invitano tutti a cosa maggiore; la legge di grazia non è legge rigorosa mosaica: conviene in questa felicissima legge che la giustizia abbondi: « nisi abundaverit iustitia vestra », ecc.. Tuttavia se voi mi diceste « io non voglio che fuggire il peccato mortale e nulla più »; io non avrei nulla a replicarvi, ma supplicherei nel silenzio la divina misericordia a dilatarvi il cuore: perchè Cristo non si trova che coll' amore, e l' amore desidera essenzialmente, senza confini, nè limiti di sorte alcuna: vi ripeto tuttavia, che non oserei mai per questo pensar male della vostra anima. Ma fino a tanto che io sono persuaso che voi bramiate la perfezione e che bramiate di spogliarvi intieramente di voi stesso per vestirvi di Gesù Cristo, e della sua umiltà, e della sua mortificazione, permettete, che vi stimoli a pensare seriamente « se col passo che avete fatto abbiate cercato di avvicinarvi alla perfezione »: io non posso crederlo, e tengo per certo che nè pur la vostra intima coscienza lo crede. Per quanto esamino i motivi del vostro divisamento, quali esponete nella vostra lettera, supponendoli tutti veri, io trovo bensì delle cose umilianti all' umanità; ma non dei motivi spirituali. Tutto si riduce ad un lamento dell' amor proprio sdegnato! Giudicate questo motivo colle massime e cogli esempi del nostro divin Maestro, e vedrete quanto poco vale. D' altra parte che vi sia toccato un superiore, che non si affà al vostro temperamento, è un puro accidente (disposto però dalla Provvidenza). E da un puro accidente volete far dipendere la mutazione dello stato? Finalmente non vi aveva io pregato di avvisarmi, se sentivate di non poter durare alla tentazione che vi cagionava l' unione con D. Luigi, promettendovi che vi avrei mutato di luogo? Ma voi, senza scrivermi, avete fatto un passo che a me cagionò sommo dolore, somma sorpresa a cotesto Monsignore, e grave danno alle sue vedute, grave sconcerto a noi stessi! Dov' è in questo procedere la prudenza, la carità, la convenienza? Io non attribuisco certamente ciò a vostra malizia, ma bensì alla vostra tentazione che vi ha fatto precipitare in un tal passo. Per questo appunto, persuaso, come io sono, che voi non abbiate operato colla debita tranquillità, ma che sia stata una caduta accidentale; non solo non ricuso di ricevervi di nuovo nello Istituto, se vi trovate coi sentimenti propri di un discepolo del Salvatore crocifisso; ma ben anco v' invito a ciò fare, e credo che la carità me lo imponga. Io vi scongiuro a fare orazione, a pensare alla morte, e a fare atti di disprezzo di voi stesso: conviene acquistare l' abitudine del contemnere se ipsum . Iddio vi benedica: consolatemi con una risposta pienamente conforme ai miei desiderii. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 La sua lettera mi ha empito di gioia. Sia benedetto quel Signore che è bontà essenziale, e che si comunica alla creatura che a Lui si rivolge, e l' ha creata per questa ineffabile comunicazione. Certo: « Qui coepit opus bonum, ipse et perficiet ». E chi considera bene questo stesso ch' io dico risponde a quella difficoltà che Ella vien toccando intorno all' altezza della perfezione. Se questa fosse puramente l' opera nostra, ella sarebbe disperata. Ma ella è l' opera di Dio, poichè la perfezione non è altro appunto, che la comunicazione del creatore alla sua creatura; e allora dice la creatura, maravigliandosi di sè stessa e quasi non sapendo spiegare un tal prodigio: « omnia possum in eo qui me confortat ». Qui batte la gran dottrina di san Paolo, che fa venire la giustificazione non ex operibus , quasi ella venisse da noi, ma ex fide , cioè dalla confidenza in Dio misericordioso. Leggevo tempo fa in un libro questa frase, che il pentimento è la « virtù dei mortali »: ella è frase eminentemente cristiana, e coincide colla fede di san Paolo, fede nell' onnipotenza della bontà divina, per la quale l' uomo, che sente sè stesso nulla, spera tutto; l' uomo che sente d' esser impotente alla perfezione, sa insieme che Iddio, che a quella lo chiama, a quella altresì gratuitamente lo porta; l' uomo che non vede in sè che peccato, vede nello stesso peccato l' occasione della massima gloria divina, che sta in un' infinita misericordia. Che fa dunque l' uomo con questa fede? Niente altro che sentire intimamente e confessare l' infinita sua imperfezione e impotenza di rispondere alla legge di perfezione che gli sta dinanzi, e in pari tempo credere che Iddio sia tanto buono e di bontà sì potente da tuttavia farlo salvo. Ecco ciò che empie l' immenso vallone che separa noi dal poggio della perfezione: l' UMILTA`. Perciò la dottrina dell' umiltà insegnata da Gesù Cristo, che disse: « « Ognuno che si umilia sarà esaltato » », è identica colla fede di san Paolo. Sia pur vero che noi siamo colpevoli; se saremo umili, saremo esaltati. Esser umili è credere alla verità, credere alla nostra imperfezione, credere alla potenza della grazia di Dio, che ci perfeziona: « Credidimus charitati », dice san Giovanni, « quam habet Deus in nobis (1, Io. III) ». Vero è che la grazia stessa che ci comunica Gesù Cristo, ha i suoi gradi; ma ogni grado, per minimo che egli sia, è sempre infinito, perchè è sempre una comunicazione dell' Infinito. Credo che ciò riuscirà maraviglioso, ma non incredibile a Lei che conosce i diversi ordini degli infiniti matematici, che hanno qualche analogia coi gradi della grazia. Ella vede, che solamente in questa dottrina dell' umiltà cristiana e della fede si trova la soluzione alla difficoltà fortissima che Ella propone sulla pratica inarrivabile della perfezione; e che tal soluzione non venne mai prodotta in alcuna filosofia: nuova prova della divinità della cristiana dottrina! Questa dottrina sovrumana non ha timore di dire all' uomo: « Numquid homo, Dei comparatione iustificabitur? Septies cadit iustus - cum omnia haec feceritis, dicite: servi inutiles sumus », perocchè tosto dopo atterratolo, lo solleva e conforta dicendogli ancora: « Voluntas Dei sanctificatio vestra: omnia quaecumque petieritis a Patre (meo) in nomine meo, dabit vobis - confidite: ego vici mundum! » Che ci resta dunque a fare? Metter solo il collo sotto il soave giogo di Cristo, umiliare incessantemente la petulanza cieca della nostra natura sensitiva e l' orgoglio ancor più cieco del nostro ingegno. Come nell' ordine morale giace in noi stessi una infinita imperfezione (astraendo dalla grazia di Cristo); così nell' ordine intellettuale giace in noi stessi un' infinita ignoranza. La pienezza della virtù non è meno ardua, alle sole forze dell' uomo, della pienezza della verità. Onde noi riceveremo la salute malgrado delle nostre imperfezioni, indi riceveremo la vital luce della mente, il lumen vitae delle Scritture, malgrado della nostra ignoranza. Oh questa è luce solare e ardente, quando la luce del secolo non ha che dei raggi biancastri e freddi! Sono certo, mio caro marchese, che appigliandosi Ella alla grazia, Dio La porterà innanzi, il quale ha detto e Le dice: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.37 Coll' occasione che vengono a voi alcuni altri fratelli, bramo scrivervi poche parole, per rammentarvi la vocazione vostra nella santità della carità. Io prego e supplico tutti voi nelle viscere di Gesù Crocifisso, che niuno voglia divergere nè a diritta nè a sinistra, ma che direttamente tenda a quello a che è chiamato, cioè a procacciare a sè medesimo la santità che non consiste in veruna opera d' ingegno, nè in alcuna prodezza o gloria umana, nè buon riuscimento delle imprese esteriori; ma bensì nel praticare quelle virtù che Gesù Cristo, Salvatore e forma delle anime nostre, ha mostrato in sè stesso, massime pendente dalla croce: le quali sono l' umiltà, la povertà, l' abnegazione e l' ubbidienza, la mortificazione e la pazienza, e la carità ardente che tutte le contiene e non si perde in sottigliezze, ma cammina con semplicità e non cerca le cose proprie, ma quelle di Dio e del prossimo. In questo sta tutto l' Istituto della Carità che voi avete abbracciato, e che dovete avere continuamente innanzi agli occhi affine di perseverare in esso fino alla morte, non con sola l' unione dei corpi, ma con quella degli spiriti, affine di non ingannare voi stessi, perdendo di vista l' unica vera idea e forma dell' Istituto, nato al Calvario e uscito dal Crocifisso: in quanto che da lui sono uscite le virtù, in cui l' Istituto mira come in suo fine, e perciò lo costituiscono. Voi, o miei dilettissimi fratelli, avete tanto maggior bisogno di tenere fisso il vostro cuore a questo fine, non facendo conto che della pratica delle virtù evangeliche, come del solo bene (giacchè il resto è vanità), in quanto che il servizio di Dio costà ha congiunte difficoltà non poche, distrazioni e pericoli: i quali tutti però voi superare potrete, cooperando fedelmente alla grazia che Iddio non vi nega, e così essi diverranno altrettanti mezzi del vostro perfezionamento e trofei della vostra gloria futura. E questa cooperazione alla grazia non può consistere in altro, che nello aver presente la vostra vocazione per dirigervi secondo quella, uniformandovi allo spirito e alla lettera delle Regole, che vi sono prescritte, con sommessione perfetta. Ognuno in prima si persuada di non fidarsi troppo del proprio sentimento e giudizio, e piuttosto creda fermamente che fra tutti i pericoli della vita religiosa il più insidioso è quello che consiste nell' uso esclusivo del proprio raziocinio; perocchè l' uomo, essendo un essere ragionevole, inclina a ragionare, senza troppo considerare che i suoi ragionamenti sono brevi, limitati e spesso fallaci, a differenza di quelli di Dio che abbracciano in un modo infallibile le cose tutte, le presenti e le future, che rimangono nascoste agli occhi nostri. Perciò ciascuno nella propria condotta, invece di seguire le regole e i risultamenti del suo proprio ragionare, prenda a sua guida la sola altissima e semplicissima regola della volontà divina, a imitazione di Cristo, il quale, dando ragione del suo operare, non diceva già che operava per questo o quel motivo, ma diceva sempre che operava per fare la volontà del suo Padre Celeste, e acciocchè si adempissero le Scritture che contenevano appunto ciò che il Padre aveva ab aeterno prestabilito. Laonde tutto lo studio nostro, o carissimi, consista in pervenire a conoscere la volontà divina, e non in ragionare e disputare fra noi stessi, se questa o quella sia cosa buona o migliore secondo il proprio vedere limitato ed umano. Siamo solleciti unicamente di cercare quali siano i segni della divina volontà per eseguirla fedelmente e semplicemente, con pace interiore e senza contraddizione del proprio intelletto. E se voi attentamente considererete, scorgerete di leggeri, che i segni della divina volontà sono segnatamente tre, ai quali noi la riconosceremo senza fallo, se di puro cuore la cercheremo. Il primo segno è la legge di Dio , da Gesù Cristo apertaci con pienezza e perfezione; la qual legge è chiamata perciò dai teologi volontà di segno ; e perciò è anche scritto: « Voluntas Dei sanctificatio vestra ». Se dunque la volontà di Dio è la nostra santificazione, noi possiamo essere certissimi di operare conformemente a quest' amabilissima e santissima volontà divina, quando incessantemente lavoriamo a purificarci dalle nostre imperfezioni, e ad acquistare tutte le virtù che formano la santità. E ogniqualvolta una turbazione di animo ci pone in uno stato di perplessità e di dubbiezza, ricordiamoci di preferire fra i due quel partito che in sè stesso è più favorevole alla nostra santità, quello che più contiene di virtù evangeliche, appigliandoci senz' altro dubbio nè esitazione a ciò che meglio esercita la nostra abnegazione, povertà, ubbidienza, carità e disprezzo di noi stessi e delle cose nostre; perocchè facendo così, noi siamo certi di non isbagliare e di operare secondo l' altissima ed eccellentissima regola del divino volere che pur vogliamo seguire, e per questo siamo nell' Istituto. Il secondo segno che ci fa conoscere quest' ottimo e desiderabilissimo volere di Dio, si è l' ubbidienza a' nostri Superiori. A tutti voi io dico questo, e in prima al Padre Rettore e al Padre Ministro che debbono precedere coll' esempio nell' ubbidire semplicemente a' propri Superiori, e di poi lo dico a tutti gli altri fratelli soggetti. Conviene riflettere che questa è la dottrina della Chiesa cattolica, la quale insegna ed ha sempre insegnato che l' ubbidienza perfetta a' propri Superiori è la via più sicura a conoscere il divino volere e a perfezionare e salvare sè stessi. Non insorga adunque la temerità e la baldanza del proprio ragionamento, perchè così facendo non insorgerebbe già contro l' uomo che comanda, ma contro Dio che manifesta il suo volere per mezzo di quell' uomo. Egli è vero, che si può trovare nel comando del Superiore sbaglio o difetto, secondo il corto vedere umano; ma vero sbaglio o difetto non può cadere nel volere di Dio, di cui quel comando è segno indubitabile. Di maniera che è da credersi che eseguendo quel comando, sebbene accompagnato da qualche errore secondo le viste umane, tuttavia non si farà che ottimamente secondo le viste divine, e che Dio vorrà servirsi di quello sbaglio od errore del Superiore ai suoi altissimi e sapientissimi fini, che noi per la nostra cortezza ed ignoranza non arriviamo a conoscere. Non si dà nessuna eccezione a questa regola, fuor solo quando nel comando del Superiore vi avesse peccato. Fuori di questo caso, taccia il nostro intelletto davanti a ciò che viene comandato, non giudichi, non censuri, non calcoli cosa (se non forse per rappresentarla sommessamente al Superiore); ma presti con viva fede e con certezza di ubbidire a Dio, una ubbidienza intera, pronta, semplice ed umile. Quando poi non si può conoscere il voler di Dio nè col primo nè col secondo di questi due segni, perchè non v' è un comando del Superiore che prescriva il da farsi, nè la legge di Dio o l' amore della santità lo determina, allora convien ricorrere alla terza regola, molto necessaria ai Superiori, ed anche ai soggetti, ogni qualvolta i Superiori rimettono al loro giudizio il modo di operare. Questo terzo segno del divino volere si è la voce della divina Providenza , che si fa sentire negli avvenimenti esterni e nel complesso delle loro circostanze. Conviene che questa voce sia da noi raccolta col lume tranquillo della propria ragione, soccorsa dal lume della fede, con una maniera di vedere al tutto logica, senza prevenzioni nè fantasie, o niente che abbia del superstizioso e dell' arbitrario. Fare tutto il bene, che la divina Provvidenza ci presenta nelle occasioni esterne da noi non cercate, farlo senza ingiusta predilezione, ma sempre col debito ordine: ecco ciò che in questo caso vuole Iddio certamente da noi. Iddio è l' essenza del bene; dunque egli vuole da noi tutto il bene possibile, ed è quello che, venendoci presentato a fare dalla sua Provvidenza, non è scelto a nostro, ma a suo arbitrio. Questo terzo segno è subordinato al secondo, come il secondo è subordinato al primo, cioè a dire se la legge di Dio ci obbliga ad una cosa, a quella dobbiamo attenerci; ma se non ci obbliga, dobbiamo attenerci all' ubbidienza. Se poi neppur questa determina il da farsi, allora dobbiamo studiarci di conoscere il voler di Dio per mezzo del lume di ragione e della grazia che il deve accompagnare, il quale per non fallire non deve prevenire, ma seguire la Provvidenza nei fatti esterni. Dal primo poi e dal secondo de' tre segni scaturisce la necessità che voi tutti avete, quando pur vi piaccia di attenervi strettamente alla volontà del vostro Dio, di meditare attentamente e amorosamente le regole dell' Istituto da voi abbracciato, come quelle che contengono in compendio e applicano la legge di grazia portataci da Gesù Cristo, e come quelle, a cui debbono prestare egualmente ubbidienza e i Superiori e i soggetti. Ognuno adunque cerchi di vivere confidato grandemente in Dio, unito strettamente col proprio Superiore, in cui ravvisi come in imagine Dio stesso, uniti ancora tutti fra di voi in congiuntissima carità, la quale non sia turbata mai da cosa alcuna, sopportando i difetti altrui nell' abbondanza dell' amore, onde ciascuno dee avere ricolmo il cuore, avendo gran premura non solo del profitto proprio, ma ben anco di quello di tutti gli altri fratelli che formano con lui una famiglia in Gesù Cristo, edificandoli col suo contegno e cooperando alla loro purificazione e perfezione, secondo lo spirito dell' Istituto e la volontà de' Superiori. E così facendo voi, l' umile vostro fratello che ha tanto di fidanza di scrivervi queste cose con ogni libertà nel Signore, spera di dover partecipare della pienezza de' vostri meriti e delle vostre preghiere che con un cuor puro e retto innalzerete senza posa al trono di Dio, nel quale egli assai vi ama e dal quale vi prega ogni benedizione e aumento di grazia, consolazione e fortezza nelle tribolazioni e corona di gloria immarcescibile. [...OMISSIS...] 1.37 Se nelle confessioni non troviamo materia grave, è misericordia del Signore nostro, e nel dobbiamo ringraziare; peraltro ciò non ci dee distorre dalla confessione, la quale è un atto di profonda umiltà e di compunzione di tutti i nostri peccati in generale, i quali si possono sempre detestare e sottomettere di nuovo alla sacramental confessione; tanto più che possiamo sempre temere per cagion d' essi, sebbene sottomessi già al giudizio del sacerdote, non sapendo con assoluta certezza se le disposizioni nostre erano del tutto quelle che si richieggono ad ottenere da Dio un pieno perdono. D' altro lato la confessione, e sopratutto poi la comunione, aumenta la grazia e le forze spirituali. In quanto ai peccati veniali, conviene che li combattiamo con tutta pace e senza pretensione di riuscirvi in breve tempo. Vi ha un mezzo generale e soavissimo di far ciò, ed è quello di accrescere in noi la carità coll' orazione e con atti frequenti di amor di Dio e del prossimo: in ragione che cresce in noi la carità, vanno cadendo i peccati veniali, quasi senza che ce ne accorgiamo, ed ogni attacco a noi stessi ed alle cose proprie. Questo è un mezzo eccellente specialmente per quelli che fossero inclinati ad assottigliare, ai quali il troppo pesare e scrutare le minime cose può cagionare turbazione e inquietezza. Quanto poi alle opere di sopraerogazione, non conviene mai cangiarsele in doveri; perchè sarebbe un rendersi grave da sè stessi il giogo del Signore. Anche qui conviene procedere per la via di quell' amore che dilata il cuore; ma perchè questo stesso potrebbe affannare l' animo, pensando che è troppo scarso il nostro amore verso il bene infinito che dobbiamo amare, perciò ci è uopo d' altro lato riflettere che questo amore soprannaturale è esso stesso un dono di Dio, dono che egli ci fa in certa misura; e però si contenta che l' amiamo con quella misura colla quale possiamo amarlo, e non pretende di più. Perciò Gesù Cristo, comandandoci l' amor di Dio non ci ordinò di amarlo infinitamente , com' ei si merita; ma ci ordinò di amarlo con tutto il cuore ecc., che è quanto dire con tutta la potenza che abbiamo di amare. Di più non chiede; e però convien fare quel che possiamo, e poi starci contenti riposando in Lui e sperando in Lui; ed egli farà di più in noi. E quanto al precetto dell' amor del prossimo, che ci comanda di amare gli altri come noi stessi, non parla di uguaglianza , ma di somiglianza ; e parla dell' amor volontario e non dell' istintivo; e queste considerazioni debbono quietare, se ci sembra di non amar gli altri quanto noi stessi, bastando che li amiamo come noi stessi. Buona cosa è tuttavia e che fa fare all' anima molti progressi, l' occuparsi in opere di carità e specialmente di carità spirituale, che è la più eccellente, e nel promuovere tutte le opere sante. Quanto a ciò che mi dice circa la differenza di specie fra l' anima di un buono e di un malvagio, non si potrebbe sostenere, perocchè la specie umana è costituita dall' aver per lume l' essere iniziale , e questo l' hanno tutti o lo amino o no. Si potrebbe dire bensì che fra un buono e un malvagio vi ha una differenza maggiore che non sia dalle stelle alla terra e più ancora, voglio dire una diversità maravigliosa, incredibile, che nel Vangelo viene espressa con quel chaos magnum che sta interposto fra Lazzaro ed Epulone. Se si tratta di bontà soprannaturale la distanza è infinita, ed è certo che la grazia opera un cangiamento sostanziale e non puramente accidentale, come insegna San Tommaso. Mi è stata carissima la sua lettera e l' altra che mi ha scritta, e la prego di continuarmi la sua cara benevolenza, e comandi a me come ad uno che la stima e l' ama... [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Sebbene risponda tardi alla vostra lettera, non dovete credere che ella mi sia riuscita meno grata, nè prenderete errore se attribuirete la lunga dilazione in farvi risposta alle troppe mie occupazioni... Quanto a ciò che nella vostra lettera mi dite intorno agli studii, non si richiedono molte parole, giacchè essendo questo tempo del vostro noviziato sacro all' esercizio della virtù e della santità più fervente, il resto non è che accessorio; e dal Padre Maestro saprete quello che vi convenga di fare. Sommamente importante all' incontro mi parrebbe lo scrivervi qualche cosa sul conto del dubbio venutovi in cuore circa l' ubbidienza cieca , se già questo vostro Maestro e amorosissimo superiore non mi avesse fatto intendere, esservisi questo dubbio dileguato dall' anima. Tuttavia un nonnulla voglio dirvi su ciò, mio caro Giacosa, e questo si è in prima che il conoscere intimamente l' eccellenza altissima dell' ubbidienza cieca prestata per amor di Gesù Cristo, ella è cosa al tutto divina , e quelli soli ciò intendono, a cui lo Spirito Santo comunica questa sapienza sopraumana. Laonde vorrei esortarvi a domandare questa soprannaturale illustrazione con intensissime preghiere, annientandovi davanti al trono della Maestà di Dio e chiedendogli con gran fervore di poter intendere le lezioni che ci ha dato Gesù Cristo suo Figlio dalla sanguinosa cattedra della Croce. Ci potrebbe anco condurre all' intelligenza e al possesso di questo tesoro dell' ubbidienza cieca, un amore intensissimo che noi avessimo verso il nostro Signor Gesù Cristo; perocchè questo infiammato amore ci porterebbe indubitatamente ad intendere gli ammirandi suoi esempi e le parole con cui ce l' ha insegnata: parole ed esempi non compresi se non da quelli che l' amano svisceratamente, e che all' opposto sono stati e saranno gentibus stultitia . Un' altra via da poter giungere a capire la preziosità di questa virtù dell' ubbidienza, per la quale l' uomo spirituale è sempre pronto anco a morire, è quella della fede fermissima e viva nel magistero della Santa Chiesa, come quella che è colonna e firmamento di verità, e nell' esempio dei Santi che furono dalla Chiesa canonizzati. Perocchè chi ha questa viva fede, ha lo spirito e le parole di sua madre la Chiesa, e senz' altro ragionare si persuaderà pienissimamente che il cieco ubbidire è un atto di virtù squisitissima e di sommo merito presso Dio. Veramente Chiesa Santa l' ha creduto ed insegnato in tutti i secoli ed in tutti i luoghi; ed ha coronati gli eroi di questa virtù. E parimenti quegli che crede che i Santi sieno i veri sapienti, non dubiterà che ciò che hanno fatto tutti essi, nessuno eccettuato, cioè l' ubbidire ciecamente, non sia ragionevole, e giusto, e santissimo; e se insorgeranno a costui dubbii nella mente, chiamerà sè stesso scioccherello e pazzo, e si atterrà immobilmente al lume de' Santi, i quali, atteso lo Spirito Santo che avevano in sè, intesero assai bene la forza di quelle parole dette da Cristo, « qui vos audit, me audit ». Le quali parole del divin Maestro sono per vero un inconcusso fondamento all' ubbidienza cieca, imperciocchè esse furono dette per gli Apostoli alla Chiesa, e la Chiesa parla ed opera pe' suoi ministri, e massime per li superiori delle sante Religioni e Congregazioni. Sicchè vi è tanta ragione di ubbidire ciecamente ai Superiori, quanto ragion vi è di credere ciecamente a Cristo. E come credendo ciecamente a Cristo, si rinunzia bensì a tutte le altre ragioni, ma per attaccarsi ad una ragione altissima, ed unica vera ragione; così ubbidendo ciecamente ai superiori, si rinunzia bensì, in un senso, alla propria ragione individuale e a tutti i suoi speciali ragionamenti, ma nello stesso tempo, in un altro senso, si ubbidisce alla stessa propria ragione; perocchè è la propria ragione di chi ubbidisce, illuminata dalla grazia di Dio, che persuade al vero ubbidiente essere cosa convenientissima che egli ubbidisca, senza cercare altre ragioni che la bellezza stessa dell' ubbidienza. Qui poi osservate, mio caro, l' errore che commettete, dicendo nella vostra lettera che due soli sono quelli che ci possono comandare, la ragione nostra ed il superiore esterno. Voi lasciate fuori il principale, che è Dio che parla per mezzo del superiore e vale molto più della nostra ragione individuale, la quale è soggetta ad ingannarsi, ed anzi inganna sempre ed indubitatamente ogni qualvolta non vuole ubbidire ciecamente alla volontà divina, che Dio manifesta per la bocca del suo ministro e del suo rappresentante sopra la terra che è il superiore religioso. Dico che s' inganna sempre la ragione nostra individuale , quando ci persuade di non ubbidire. Imperocchè quando è, di grazia, che noi veramente c' inganniamo? Quando invece di cercare ciò che è meglio pel nostro fine, cioè a dire per l' acquisto della virtù, della perfezione, dell' umiltà, dell' annegazione, della mortificazione, della penitenza, della imitazione in una parola di Gesù Cristo Crocifisso, noi ci fermiamo a delle considerazioni umane e di altro ordine interamente diverso da quello delle virtù evangeliche. A ragion d' esempio, quando quel celebre solitario, insigne maestro di perfezione, comandava al suo discepolo, che ogni giorno portasse certa quantità d' acqua per inaffiare una pianta disseccata da molto tempo, se quel discepolo avesse disubbidito col pretesto di seguire la propria ragione, egli si sarebbe ingannato e avrebbe operato al tutto contro ragione. Perocchè era bensì vero che l' inaffiare quella pianta, come gli veniva comandato, era inutile e irragionevole, quando si consideri solo il fine di farla rinverdire, ma se all' incontro si considera quell' altro fine molto più sublime, che consiste nell' atto di virtù, di umiltà, di annegazione, di mortificazione, e in una parola d' ubbidienza (perocchè tutte quelle cose sono contenute nella sola ubbidienza); allora si vede manifestissimamente che l' ubbidire a quell' irragionevole comando era cosa ragionevolissima, sapientissima, e santissima. E tanto è grato a Dio questo cieco ubbidire, che si degnò, non di rado, di manifestare la sua approvazione coi miracoli; come accadde nel fatto che vi accenno; perocchè quella pianta disseccata, narrano le storie, che a quell' atto di ubbidienza rinverdì e rifiorì. Ed ora chi non vede, che in ogni atto di ubbidienza, fatto per amor di Dio, al proprio superiore, vi è sempre rinchiuso l' abbassamento di se stesso, l' annegazione, l' umiltà, e l' amor di Dio, e che queste virtù vi sono tanto più belle e grandi, quanto la cosa comandata è più ripugnante e contraria al nostro senso proprio ed al nostro proprio giudizio? E se Gesù Cristo ci ha insegnato che la perfezione nostra sta in quell' annientamento che l' uomo fa di se stesso per amor suo, ed a sua imitazione, chi non vede che vi è sempre una ragione di ubbidire a qualsivoglia comando, e che questa ragione è l' ultima di tutte le ragioni a cui tutte le altre debbono cedere? Perocchè la ragione del rendere noi stessi perfetti, annientandoci per amor di Cristo, è tanto grande che non ve ne può essere un' altra più grande: è il sole della ragione che ecclissa tutte le stelle. Deh! qual ragione di operare vi può essere più grande di quella di ottenere il fine, per cui siamo creati, e di ottenerlo nel più perfetto modo insegnatoci da Cristo? L' ubbidienza che si dice cieca è dunque un' ubbidienza illuminatissima , e con essa si rinuncia a tutte le ragioni frivole e vane per solo attenersi all' unica ragione vera, solidissima e beatissima. Ma tutto questo discorso da chi può venire inteso, se non dall' amatore di Gesù Cristo? Da chi può essere gustato, se non dal semplice ed umile di cuore? A chi risplende tal lume se non al poverello di spirito e al fanciulletto che ha lo sguardo schietto e sincero? [...OMISSIS...] Conviene adunque, mio caro, acciocchè capisca in noi la cognizione di questi tesori della sapienza e della scienza di Dio, che prostrati bocconi per terra innanzi al trono della Maestà, domandiamo, come dicevo, al Padre che ci tragga a Cristo Signor nostro; perocchè indubitatamente è vero quanto pronunciò l' oracolo dell' infallibile verità: « Nemo potest ad me venire, nisi Pater traxerit eum ». Che se il Padre, udendo quel prego che gli innalzeremo dal profondo del cuore in nome del suo diletto Unigenito, ci aprirà gli occhi dell' anima e ci farà cadere le cateratte che le nostre passioni su vi coagularono; allora non solo vedremo l' intrinseco prezzo inapprezzabile dell' evangelica virtù della ubbidienza cieca, ma vedremo di più che, povero il nostro naviglio, se avesse per proprio conduttore noi stessi e la nostra propria ragione e volontà! Vedremo andarsene esso a caso qua e colà trabalzato da flutti in mare immenso, tempestoso e tenebroso, senza discernere mai a che direzione sia volta la miseranda nostra navigazione. Vedremo il lume della ragione nostra, rimastosi solo, non valerci più ad altro che a farci conoscere la condizione disperata in cui siamo gittati. Vedremo che la sola stella che ci possa scorgere a certo segno, non è la povera e inutile nostra ragione umana, ma la sola luminosissima, benignissima, e sicurissima volontà di Dio; e che il nocchiero che possa guidarci dietro a quest' astro di presagio lietissimo, è quel superiore appunto datoci dalla Provvidenza e dalla misericordia di Dio nella religione qualunque ei sia; perocchè qualunque ei sia (purchè non ci comandi il peccato), egli è sempre l' inviato da Dio, è sempre l' interprete dei divini disegni e il ministro delle divine misericordie. Vedremo tutto questo rispetto a noi; ma vedremo molto più se ci viene dato il lume dell' umile sapienza di Cristo, rispetto al bene che potrebbe per noi farsi ai prossimi nostri ed alla santa Chiesa. Perocchè Dio Padre di tutti gli uomini è quegli che pensa a tutti, e Gesù Cristo, Capo della Chiesa ricomperatasi a prezzo di sangue, è quegli che pensa alla sua Chiesa. E Iddio padre e Gesù Cristo suo figlio non elegge alle opere della sua gloria in beneficio del mondo e della sua Chiesa, se non di quelli che, conformati a Cristo, crocifiggono se medesimi, e muoiono a se stessi nella virtù della santa ubbidienza, annegazione, umiltà e amore della croce. Nè altri, ma anzi il solo seguace della santa ubbidienza evangelica è colui che veramente si offerisce a Cristo ed al Padre, e che il Padre e Cristo, secondo il loro beneplacito, elevano, come dicevo, a loro ministro e l' adoperano a tutte quelle cose grandi a cui l' hanno ab eterno predestinato. Stringiamoci adunque all' ubbidienza dei superiori, rinunciando una volta per sempre a noi medesimi, e otteniamoci una grazia sì squisita coll' assiduità di un' umile e non mai interrotta orazione. Questo, o mio caro, io mi aspetto da voi e da tutti cotesti nostri Novizi carissimi; aspetto che tutti usciate infiammati d' amore divino, e atti ad appiccarne l' incendio ai quattro angoli della terra; aspetto che usciate pieni della umile sapienza di Gesù Cristo, che è stoltezza ai vani ragionari del mondo, ubbidienti, docili, mansueti, illuminati, morti alla terra, vivi a Dio, gloriosi di non sapere altro se non Gesù Cristo, e questo crocifisso, da cui vi prego salute e benedizione ne' secoli. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.3. Le dovea pervenire questa mia lettera sul cadere di agosto secondo il promesso, se alcuni accidenti, fra gli altri quelli del corpo sempre malazzato di chi la scrive, non lo avessero trattenuto finora. Essa è incaricata di farle di nuovo molti ringraziamenti del prezioso dono della magnifica « Introduzione » della sua « Storia Universale », letta da me e trovata quale mi aspettavo, e più ancora che io non mi sapessi aspettare ampia e ricca di cose, specchio di una gran mente e di un animo buono e gentile come dee esser quello dello storico. Questa lettura mi ha captivato alla dolce fatica di dover leggere tutta altresì la storia che segue, cosa che ripugnerebbe a queste mie presenti strettezze di tempo e di forze che mi divietano la lezione di tante altre opere egregie e mi prescrivono severamente di non isvolgere altri libri se non i soli necessariissimi alla giornata; pure egli mi è forza ubbidire alla prepotenza che mi usò la sua « Introduzione ». Ma pazienza se questa fosse la sola conseguenza dell' essermi io arreso al suo cortese invito! Ella non vuole da me udire prette lodi, ma mi dimanda un parere, delle osservazioni: come di quelle mi sarebbe facile il mandargliene molte e sincere, così mi pare oltremodo difficile il mandarle di queste, che siano ragionevoli e discrete ed utili; nè sarebbero tali se non fossero anche nuove. E come Le dirò io cosa che non Le sia forse stata detta da altri, se non anco prima pensata e discussa da Lei stessa? Che le cose belle e grandi non mancano di censori numerosissimi, nè saprei dire se la sua stessa grand' opera sia stata più onorata dal pubblico colle lodi o colle censure. Tuttavia forse dirò cosa non detta da altri se parlerò della religione, che come la più importante di tutte, così è quella di cui men parlano i letterati. Tutta da capo a fondo è religiosa la sua « Introduzione », e per entro ad essa lo scrittore non si vergogna mai di far pubblica e dignitosa professione di cristiano. Tanto più posso parlarle liberamente con sicurezza, che il mio parlare non Le torni molesto anzi gradito, paresse quanto si voglia di soverchio sottile e scrupoloso. Ciò dunque che mi cadde in animo di dirle si è, che talora le espressioni e le maniere, che vengono qua e colà usate nell' « Introduzione » parlando del cristianesimo, mi parvero risentirsi e quasi avvicinarsi a quelle che si trovano in molti scrittori moderni, massimamente francesi, i quali parlano umanamente della cristiana religione e, per così dire, la rifanno a lor modo: sogliono evitare tutto il soprannaturale, almen tacendolo, se non negandolo: niente di miracoli, niente di misteri, niente della grazia divina, che è propriamente la vita della fede nostra; confondono la vera rigenerazione dell' uomo, che viene operata da Cristo in un attimo nel battesimo, con ciò che essi chiamano impropriamente rigenerazione , intendendo con questa parola il successivo incivilimento nazionale o sociale che si opera col decorso de' secoli. Le darò un solo esempio di ciò che intendeva. Alla faccia 2. dell' « Introduzione » si dice molto nobilmente: « il cristianesimo elevò la storia e la rese universale, dacchè proclamando l' unità di Dio proclamò quella del genere umano, e insegnandoci ad invocare il Padre nostro , ci fè riconoscere tutti per fratelli ». Niente di più vero nella sostanza: tuttavia osserverei, che il cristianesimo non operò tanta maraviglia col proclamare solamente l' unità di Dio. Questa unità era stata proclamata anche in principio del mondo, e non valse a sostenerlo dalla corruzione: la stessa tradizione antichissima della unità di Dio si conservò fino presso gli Otaiti, adoratori del grande Spirito, e non impedì quelle popolazioni di scadere a stato selvaggio: questa unità fu proclamata dai più insigni savi delle Indie, di Grecia e di Roma: Maometto la proclamò, e quasi direbbesi, più di Cristo, giacchè negò la Trinità delle Persone; e questo dogma della unità tanto proclamato non elevò la storia, non fece nulla di quello che fece il cristianesimo. Il dogma proprio e fecondo della Religione del Salvatore del mondo si è quello della Trinità, e il conseguente della Incarnazione. Pure il proclamare questi dogmi sarebbe stato un profferire delle vane o pazze voci, se la onnipotenza della grazia non avesse acceso il lume della fede nelle anime de' battezzati: ecco lo stromento segreto, che mancò a Maometto, a Confucio, a Platone, a quanti vissero savi in sulla terra dichiarati da Cristo latrones ; ma che non mancò al Verbo incarnato. Questi solo ebbe virtù di mettere in sulle labbra degli uomini il Padre nostro , parola che non poteasi pronunziare senza la dottrina della Trinità, perocchè quella parola tutto racchiude in sè questo mistero, non potendo Dio ricevere nome di Padre se non ha un Dio per figlio. - Siccome in questi ed in altri simili luoghi la grazia avrebbe espressa tutta la verità del pensiero dello scrittore, così dove si legge che « « i poveri, deboli, mal conosciuti, calunniati, coll' autorità, l' istruzione, le ceremonie, l' esempio propagarono il regno di Dio »(facc. 46) » si sente che manca il mezzo principale onde il cristianesimo si propagò, cioè quello de' miracoli ; giacchè, come osservò S. Agostino, se questi fossero mancati, un miracolo massimo sarebbe stata questa sì rapida diffusione della cristiana verità. Mio carissimo signor Cesare, io credo ora di averle dato prova della stima che fo di Lei e dell' affetto sincerissimo che Le porto comunicandole queste poche osservazioni sul suo egregio lavoro. Ella ne faccia quel conto che il suo senno Le suggerirà. Io son certo che le cose da me dette non tolgono all' opera sua l' esser un gran monumento dell' italiana letteratura, ed oso anche dire fin qui l' unico nel suo genere. Ella mi conservi la sua preziosa amicizia, e mi saluti il veneratissimo nostro don Alessandro. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.39 Il mio sentimento è che facciate i voti, essendo io appieno convinto, che, facendoli, voi farete cosa grata a Dio. Con questa persuasione intima ho messo il vostro nome nel decreto che mando al vostro Superiore, il caro D. Luigi, e al quale viene stabilito quali siano quelli, che costì faranno i voti. La sottigliezza del vostro ingegno e sopratutto la vostra fantasia, ecco i vostri principali nemici, che voi stesso conoscete. Cercate di vincerli coll' orazione e con atti generosi di volontà ripetuti molte volte. Gli atti generosi della volontà e le proteste fatte a Dio di frequente e i gemiti cavati dal profondo del cuore hanno grande virtù di ottenerci la grazia e la fortezza di cui abbisogniamo continuamente in questa nostra peregrinazione. Non riprendo che si ragioni ; ma io dico che vi sono delle ragioni primarie e di assoluta verità, e delle ragioni secondarie , e che hanno una verità relativa solamente e parziale. Ora noi dobbiamo dirigerci in tutte le nostre opinioni ed azioni con quelle ragioni primarie che sono poche, semplici, sublimi, universali, madri di costanza e di pace; e non colle ragioni secondarie che appartengono ad una sfera di cose più bassa ed angusta, e non sogliono essere concludenti per la pratica, nè mai si esauriscono, perchè ripullulano infinite, e però mettono l' animo in una perpetua inquietudine e turbazione. Questa non è solamente dottrina logica, è dottrina sacra: Gesù Cristo ha insegnato a' suoi discepoli a far conto solamente delle ragioni grandi o primarie, di cui parlo: elle sono quelle che formano la semplicità, la costanza e la magnanimità della vita dei Santi. Ecco alcuna di queste ragioni che hanno potenza col loro peso di annientare innumerabili ragioni secondarie, minute e querule. Vi ha una Provvidenza amorosissima che tutto regola e dispone: dunque io debbo essere contento di tutto ciò che non dipende da me: debbo tenere per certo, che anche ciò che mi sembra storto è l' istromento migliore per la massima mia santificazione e beatitudine se io me ne approfitto. Essendo Iddio infinitamente buono, debbo confidare e buttarmi in Lui, anche quando io sono cattivo, debole, infermo: debbo sforzarmi, come posso (ma senza ansietà e turbazione), a vincere me stesso e far le cose perfette; e mi riesca o no di farlo debbo considerare che gli stessi miei sforzi, gli stessi miei desiderii sono un dono suo e un pegno che Egli mi vuol soccorrere: i desiderii santi costantemente ripetuti in un cuore non possono andare a male, e perciò nella Scrittura si esprime un uomo santo col dire semplicemente Vir desideriorum . Debbo sommessamente seguire l' autorità della Chiesa, de' Sommi Pontefici, e oltracciò il senso e, per così dire, l' istinto de' Santi. Il senso de' Santi e l' autorità della Chiesa mi dicono che l' ubbidienza ai superiori religiosi è una via sicura di salute e di perfezione. Io mi accorgo, che Iddio mi fa sentire profondamente al cuore questa verità. Che importa dunque che i miei Superiori fallino? Io sono sicuro. D' altra parte se fallano i miei Superiori, come uomini che sono, non falla Iddio che permette il loro fallo, e son certo che lo permette pel mio massimo bene. I Superiori non sono che istromenti nelle mani di Dio: quel comando dunque, che è sbagliato se lo considero con una ragione secondaria e di bassa sfera, non è dunque sbagliato se lo considero con una ragione primaria e sublime: la ragione primaria mette la tranquillità nel mio cuore; m' infonde l' affetto e il compatimento verso i miei Superiori; mi rende dolcissimo e sommamente meritorio l' ubbidire in questi casi appunto, nei quali le ragioni secondarie mi offuscano la mente, mi turbano ed amareggiano il cuore, mi rendono disamorevole verso i miei Superiori, ritroso ad ubbidire, vacillante nella stessa vocazione. Periscano adunque queste ragioni secondarie, si scaccino, come le nubi dinanzi al sole, si faccia sereno il cielo dell' animo nostro. Non conviene ragionare con esse, ma colla forza onnipotente delle ragioni primarie soffocarle appena nate, annientarle, prima che nascano, senza misericordia. Debbo fare grande stima di tutti i miei prossimi e specialmente de' miei confratelli e de' miei Superiori; debbo presumere e interpretar bene ogni cosa, facendo che tutto il mio ingegno sia a piena disposizione della mia carità. Per l' opposto debbo diffidare infinitamente di me stesso, di tutti i miei giudizii, e pospormi a tutti in ordine alla virtù. Se io fo un atto generoso e santo, sono certo che non me ne pentirò mai: sono certo, che gli effetti di quest' atto saranno buoni per me: e se io mi butto in Dio (per quanto miseramente posso) son certo, che Egli non mi lascerà cadere in terra, ma mi raccoglierà nel suo seno. Queste ed altrettali ragioni primarie e sublimi, e che formano la base del nostro Istituto, danno gran pace al cuore e fanno andare innanzi i deboli e gl' infermi e i peccatori. Io sono persuaso che nel fondo del vostro cuore prevalgono queste ragioni primarie; ma mi sembra che, sebben vittoriose, non abbiano ancora distrutte ed annientate le ragioni secondarie, e che vi sia una grande attività nel vostro ingegno e nella vostra immaginazione tendente a fabbricare incessantemente di queste ragioni di bassa sfera, le quali sono veramente inesauribili e rendono l' uomo loquace, involgendolo in disputazioni che non han fine alcuno, e molto meno danno edificazione. Io vi esorto a distruggerle al tutto, facendo che le ragioni primarie e divine sieno le dominatrici pacifiche e sole dell' animo vostro. In questo senso vi esorto a far guerra alla vostra propria ragione, sottomettendovi ciecamente all' autorità ed ubbidienza, fermo in quella parola della Scrittura: « Vir obediens loquetur victorias ». Così si debbono intendere i Santi e i maestri di spirito, quando ci esortano a rinunziare alla nostra ragione e giudizio proprio: sublime ed altissimo documento, sicuro fonte di santità! Qual cosa più bella che il navigare con sicurezza di giungere al porto, sebben s' ignori la strada che dovrem percorrere ed i cimenti che incontreremo per essa? O bella e santa Fede! a te, quantunque abbi le bende agli occhi, io mi attengo con tutto il cuore. [...OMISSIS...] In quanto al modo, col quale fu governato l' Istituto fin qui, credetemi, carissimo mio fratello, che ignorando voi le più minute circostanze, non potete portarne un giudizio sicuro. Io ho riandato molte volte ciò che si è fatto e credo che nel complesso si sia fatta la volontà di Dio: si sia fatto tutto quello che si è potuto e saputo, e che il resto l' abbia fatto mirabilmente Iddio. Quanto alle mortificazioni, voglio rettificare un vostro concetto. Voi dite che quando una cosa è stabilita come appartenente alla vita comune, non si può a meno di conformarsi alla generalità de' fratelli per non dare scandalo. Se si tratta semplicemente di mortificazioni, io non sono del vostro avviso. L' Istituto pregia sopratutto l' umiltà; e se un nostro compagno che non può fare la mortificazione, riceve quella specie di umiliazione, che gliene viene, da Dio e nel suo interno ne cava profitto, umiliandosi e riconoscendosi debole; egli pratica con ciò una virtù molto propria dell' Istituto. Ma gli altri ne prenderanno scandalo? Questo è quello che non deve essere: io bramo, e spero che si otterrà col tempo, che tutti i membri dell' Istituto aborriscano i giudizi sui propri fratelli e sappiano stimarli altamente ed amarli anche se non fanno le mortificazioni comuni, pensando che nelle anime loro possono trovarsi infiniti tesori di grazie anco senza di ciò, e attribuendo il non fare la mortificazione a cause oneste ed anco sante. Il pensare il contrario e il perdere la stima dei fratelli per così piccole cose, è una vera ignoranza: io voglio che tutti i nostri fratelli sieno in ciò istruiti bene, e bene avvezzi a conservare una gran carità in cuore. Stimo e bramo più questa disposizione della stessa uniformità della vita comune: sebbene anche questa uniformità la desideri, per quanto ella è possibile. Desidero tuttavia nel medesimo tempo, che tutti facciano grande stima della penitenza e antepongano all' altre quella della comunità; perchè questo è lo spirito della Chiesa, e di Gesù Cristo, e de' Santi suoi, e il voto dell' Istituto nostro. Quanto ad opinioni, l' Istituto dà piena libertà a' suoi membri, secondo quella regola bellissima di sant' Agostino, « in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas ». Circa all' opinioni politiche, io son certo che voi vi atterrete alle dottrine espresse dal Sommo Pontefice nelle Encicliche pubblicate a condanna delle opinioni dell' abate De La Mennais. Forse voi avrete anco letta la lettera, che io ho diretta a questo sacerdote e che fu tradotta anche in francese. L' attenersi alle dottrine dell' Enciclica è cosa necessaria, « in necessariis unitas ». Del resto voi siete libero: ed ho piacere che mi diciate non professar voi alcuna opinione, perchè la materia essendo difficilissima e delicatissima, sarebbe un esporsi a grave pericolo il prendere un' opinione, senza averne studiata la questione complicatissima, da tutti i lati. Bramerei, che leggeste la mia opera intitolata « La Società ed il suo fine », dove ho cercato di render chiare alcune idee importanti, che hanno uno stretto rapporto con quella questione. Ma questa lettera è già lunga, e il tempo assolutamente mi manca di dir di più. Credo d' aver sostanzialmente toccate le cose principali da voi scritte. Coraggio adunque, libertà di coscienza, risoluzione generosa, irrevocabile. Iddio vi venga incontro e vi abbracci. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 La lettera vostra del 3 mi ha cagionato una dolorosa sorpresa. Voi vi mostrate vacillante sul punto di abitare in Italia. Ma il disegnare da se stessi il luogo in cui si deve abitare, non è ella cosa direttamente contraria al voto dell' ubbidienza religiosa, e specialmente al voto proprio dell' Istituto nostro, che esige l' indifferenza ad ogni luogo , come espressamente dichiarano le regole? Avete ben letto il « Memoriale della prima prova », e tutte l' altre regole nostre, che espressamente dichiarano tali cose? Avvertite che il sacrificio, che noi dobbiamo fare al Signore e che gli abbiamo fatto co' sacri voti, dee essere simile a quello di Gesù Cristo in sulla croce, nostro maestro ed esemplare. Ha forse detto Gesù Cristo al suo celeste Padre: io non voglio stare nella Giudea, perchè provo delle tristezze, o perchè mi espongo al pericolo della morte? Per lo contrario « obedivit usque ad mortem ». E notate che i Ss. Padri, tra i quali S. Basilio e S. Tommaso, dichiarano che l' ubbidienza religiosa obbliga sino alla stessa morte. E non vale mica il dire, io non intendevo di prendermi queste obbligazioni quando feci il voto; perocchè, questa sarebbe una maniera assai facile di sottrarsi da un' obbligazione così sacra; massime dopo essere precedute tutte le istruzioni sulle regole nostre, che dichiarano la forza de' voti. Ah non vogliate, mio caro, essere così illiberale col Signore, e far dei passi che al punto della morte vi potrebbero levare la tranquillità della coscienza! Egli è vero che potrete forse trovare dei consiglieri ed anco de' teologi che favoriscono le vostre imperfezioni e passioni; ma poco giovano certi consigli, fondati sopra sottigliezze, dinanzi al tribunale di Dio. Permettetemi che vi parli con libertà. Voi non sarete mai quieto fino a tanto che il sacrificio che fate di voi stesso a Dio non sia intero e perfetto ; e non sarà mai intero e perfetto se non la rompete generosamente con tutti gli attacchi a voi stesso e alle cose di questo mondo, e non vi stringete a Dio solo. « Deus meus et omnia », dee essere la vostra divisa, e la divisa di tutti noi. Quando voi vi mettete nelle mani di Dio (e nelle sue mani vi siete messo coi sacri voti e colla professione del nostro Istituto), allora dovete stare costante e quieto in quelle mani, vivo e morto . Iddio non abbandona certamente chi si fida intieramente a lui, e da lui riceve per mezzo de' propri Superiori il bene ed il male. Questo abbandono nella divina Provvidenza è essenziale al nostro Istituto, e non si dà vero sacrificio, non si dà vera imitazione di Gesù Cristo, senza di questo. Chi ragiona diversamente, ragiona umanamente, e però s' inganna. Se Iddio vedrà che al maggior bene, non del vostro corpo, ma dell' anima vostra, giovi che meniate una vita mista, egli farà nascere tali circostanze, che condurrete una vita mista. Se Iddio vedrà il contrario, egli permetterà il contrario; permetterà che siate anco attaccato da' nervi, perchè finalmente « virtus in infirmitate perficitur »; e voi, se rimarrete costante nella vostra vocazione e nelle prove che vi darà il Signore (le quali non sono mai superiori alle forze, purchè si preghi), diverrete giusto e caro agli occhi di Dio, giacchè « vir obediens narrabit victorias ». La necessità dunque della vita mista il Signore la vede, e se ella è reale per l' anima, e non per il corpo, vi provvede sicuramente a favore di un servo che gli è fedele; ma non di un servo che gli è infedele. Avvi anche pericolo che in queste cose giochi in gran parte la fantasia, la quale spesso c' inganna, e a cui convien resistere valorosamente, opponendole lo scudo della fede. Ma la fantasia non opererebbe, se in noi non ci fosse l' attacco a noi stessi, ai paesi da cui noi proveniamo, ai conoscenti, al proprio benessere, e alle sostanze temporali. Rompiamo dunque con forza tutti questi attacchi, e la fantasia cesserà di operare. Potremo allora cantare: « Laqueus contritus est et nos liberati sumus ». Il demonio c' inganna coll' attrattiva di una vita apostolica; ma la vita apostolica può ella essere priva delle più solide virtù? Si dà egli vita apostolica senza ubbidienza e senza povertà? Gli apostoli erano mandati : ma come può esercitare l' apostolato un religioso che non riceve la missione de' suoi Superiori, e che dice: io voglio fare l' apostolo per impedire l' attacco de' miei nervi? come può esercitare l' apostolato chi non vuole lasciare le sue reti e la sua barca? S. Paolo tremava, non forse predicando agli altri si facesse reprobo egli stesso; il che dimostra che le fatiche apostoliche non si debbono assumere nè per inclinazione, nè per gusto o consolazioni che vi si trovino; ma perchè Iddio vuole, perchè Iddio manda. Se dunque i vostri Superiori vi mandano, fate bene ad ascoltarli, e ad andare, perchè « qui vos audit, me audit »: ma se volete andare da voi stesso, o cercate che altri vi mandino, dovrete renderne conto a Dio, e il giudizio che vi si farà dei falli che voi commetterete nell' apostolato sarà inesorabile: « ego non mittebam eos, et ipsi currebant ». Ah! temiamo pure nell' accingerci alla grand' opera di ammaestrare gli altri, come temeva e tremava s. Agostino e tutti i Santi; e desideriamo piuttosto di prepararci all' apostolato, che non sia di esercitare l' apostolato stesso; desideriamo piuttosto di convertire noi stessi, e così di prepararci a convertire gli altri, quando e come il Signore lo vorrà. Se avremo vinto noi stessi, debellate le tentazioni, sacrificati i nostri gusti, resi noi stessi perfetti nell' ubbidienza e nell' annegazione; allora saremo divenuti istrumenti idonei nelle mani di Dio, e potremo sperare che egli forse si serva di noi a fare qualche bene. Ma fino che siamo così imperfetti, pieni di volontà propria, di giudizi proprii, così mal mortificati, abbiamo troppa ragione di temere di noi stessi. Quegli solo sarà un vero apostolo, che a imitazione di Gesù Cristo sa aspettare la missione celeste per 30 anni nell' oscurità della vita occulta. Ecco la virtù che non falla, perchè non lusinga l' amor proprio: la virtù che noi sacerdoti dell' Istituto della Carità ci siamo proposto di esercitare. Coraggio adunque, mio caro fratello nel Signore! Vada tutto, vada la vita, vada la roba, vadano i gusti e tutti i nostri giudizi particolari; ma non vada la virtù vera, evangelica e veramente apostolica che forma l' essenza della nostra professione. Abbandoniamo ogni altro nostro pensiero e desiderio fuor di quello di divenire veri membri dell' Istituto della Carità . Quest' unico pensiero vi occupi più che non ha fatto per lo passato. Il membro dell' Istituto della Carità è contento in ogni luogo, in ogni grado, in ogni ufficio, perchè cerca Iddio solo. Egli si stacca da tutto. La nostra povertà deve essere piena, assoluta, simile a quella di Gesù Cristo sulla croce. Io non potrei mai permettere che nessuno dei nostri compagni amministrasse i suoi beni proprii, o che menomamente ne disponesse o che impedisse all' Istituto il disporne, giacchè peccherei io stesso mortalmente contro il voto e farei peccare i miei compagni condiscendendo alla loro imperfezione. E perciò vi prego e vi scongiuro, mio carissimo fratello in Cristo; e non bastando ciò, vi comando altresì in virtù di santa ubbidienza (notate bene) di consegnare fedelmente tutto ciò che avete in beni mobili e stabili a questo mondo nelle mani del vostro Superiore, in maniera che non vi resti più nè bene alcuno, nè disposizione, nè amministrazione di sorta alcuna; acciocchè siate sciolto intieramente da tali imbarazzi, e possiate servire il Signore in una vera e intera povertà, e si compia in voi la volontà divina. Spogliato interamente dei beni temporali, la virtù della grazia di Dio si aumenterà in voi; e così reso più forte, e da Dio illustrata la mente, non finirete di benedire il suo Nome per la grazia grande che vi ha fatto. Intanto vi raccomanderò indegnamente al Signore, e spero che nella prossima vostra lettera mi restituerete quella consolazione che mi ha fatto perdere la precedente, per la giusta sollecitudine che ho dell' anima vostra. Addio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Non dubito che la bontà e misericordia del Signor nostro non voglia da voi una sempre maggior perfezione. Quel tenerissimo nostro amico e Sposo picchia incessantemente alla porta del nostro cuore; vi entra se noi gli apriamo, e vi entra per renderlo più bello e per fugarne tutte le tenebre. Oh! ma quanta è mai la nostra miseria! Impastati di fango vilissimo, e peggio ancora, di vilissima carne, non siamo buoni da altro che da oppilare gli spiragli della luce celeste, che da turare gli occhi dell' anima nostra, fatti pure per ricevere quella luce e vivificarsene, e ostruire gli orecchi acciocchè non sentano le divine parole! Quand' io considero da una parte l' insistenza di Dio per fare del bene a me, sua povera creatura, e dall' altra non dico la mancanza della corrispondenza da parte mia, ma gli ostacoli ch' io oppongo al mio infinito benefattore e la guerra che gli faccio, inorridisco; e se egli stesso non mi aiutasse ancora, chi mi terrebbe dal non avvilirmi e disperarmi? Coll' esperienza mia propria adunque misuro benissimo e comprendo come simiglianti sentimenti ed anche agitazioni e desolazioni possano entrare nell' anime altrui, possano entrare anco nella vostra. Ma che perciò? non ci sarà per noi, mio carissimo, anche una larga vena di consolazione? Ah sì, ed infinita! Io la trovo sempre in quelle parole: « Surgam et ibo ad patrem meum ». Oh dolce nome di Padre! Quanti mercenari « in domo patris mei abundant panibus; ego autem hic fame pereo! » Alla nostra casa adunque, alla casa del nostro Padre! e vi troveremo ogni cosa che ci bisogna: gli amplessi paterni ci aspettano. E` vero che se noi dovessimo sperare in noi stessi, la sarebbe finita; ma noi possiamo contare talmente sulla tenerezza del nostro Padre Iddio, che da lui stesso possiamo aspettare fin anco che ci muti il cuore, fin anco che produca egli in noi la corrispondenza nostra alla grazia sua, fin anco che ci comunichi egli stesso il coraggio e la fortezza che ci manca per fare quelle risoluzioni generose e grandi di cui abbisogniamo. Non n' abbiamo noi il desiderio? E bene, questo desiderio benchè sterile è la caparra che ci dà Iddio di voler fare con noi de' prodigi di misericordia; perocchè lo stesso desiderio del bene è suo dono. Dietro a questo desiderio mandiamo a Dio delle voci, delle suppliche, de' gemiti almeno; se non possiamo pregar molto, preghiamo poco, ma con frequenza ed ardore; preghiamo che ci accresca il dono di pregare: egli ci esaudirà, e dietro la preghiera verranno a noi tutte l' altre grazie che ci bisognano, e più ancora. Non meritando che di essere mercenari nella casa paterna, ci troveremo senza saper come ridivenuti figliuoli, e della bella stola vestiti e dell' anello prezioso fregiati. Oh insomma non può nulla mancare a chi desidera, a chi spera, a chi fa quello che può, ed aspetta dal suo ottimo Creatore e Padre quello che non può! Coraggio adunque, fiducia illimitata, tranquillità nello stesso dolore, nella stessa umiliazione! Mio caro, quanto bramerei di potervi recare qualche sollievo nella vostra afflizione, se io sapessi il modo! Chi sa, che forse non vi gioverebbe l' assentarvi per qualche tempo da Roma, e dalle vostre ordinarie occupazioni! Nel caso che ciò trovaste potervi giovare, venite da me, staremo insieme: o se le mie occupazioni non mi lasceranno molto tempo libero, voi avrete la compagnia di alcuno de' miei compagni. Il riposo, la novità della vita e degli oggetti che vi circonderebbero, potrebbero ristorarvi. Non vi prometto però delizie, ma povera vita. Se non poteste fare il viaggio per la spesa, ciò non vi trattenga; pagherò io per voi. In somma disponete di me, come si fa de' veri amici. Farò pregare, pregherò; voi pure pregate. Il nostro caro Signore e la dolce nostra Madre, stiamone certi, ci esaudiranno: ci faranno suoi , che è quello solo che noi vogliamo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Ho aggradito la vostra lettera colla quale mi date notizia di voi stessa. Il consiglio principale che vi do si è, che vi mettiate sempre avanti gli occhi la vita di Gesù Cristo vostro sposo per imitarla, e i suoi celesti insegnamenti; fra gli altri quei due tanto da lui raccomandati dell' abbandono di sè nella Provvidenza , e della carità del prossimo . Egli ha detto che gli uomini conosceranno quali sieno i suoi discepoli, dalla carità che eserciteranno fra di loro. Questa è la vera perfezione, la più alta perfezione religiosa che si possa concepire: e questa è quella a cui siete chiamata nell' Istituto della Provvidenza. Badate di acquistare idee diritte, e di non credere che la perfezione religiosa consista nella clausura, in certa regolarità di preghiere, e in cose somiglianti. No, mia figlia, non consiste in queste cose la vera perfezione, sebbene tali cose possono esser buone ed aiutare a conseguire la perfezione, se Iddio ce le concede. Eleggete dunque per vostro maestro nella via della perfezione il solo Gesù Cristo: vedete che egli nè i suoi apostoli, esempi della più alta perfezione, non vissero chiusi e addetti a certo fisso regolamento; ma andarono dovunque li chiamava la Provvidenza divina e la carità del prossimo . Iddio vi aiuterà da per tutto dove andrete per amor suo, e per far bene alle anime da lui redente. Ciò che ora dovete fare si è d' impegnarvi grandemente a divenir perfetta nello stato in cui vi trovate e in cui certamente vi ha posta il Signore, cacciando ogni altro pensiero, che non farebbe che nuocere al vostro profitto, e innamorandovi del vostro Istituto, tutto sacrificato alla Provvidenza ed alla carità. Le tentazioni vi saranno, e verranno anche più forti; ma non temete. Iddio sarà con voi, se da parte vostra non vi lasciate distrarre con pensieri alieni, coi quali il demonio suole disturbare le anime coll' apparenza del meglio. Fate per me una santa comunione, e ogni qualvolta abbiate bisogno di consiglio, scrivetemi pure liberamente. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.40 Niente ritrovo in quanto Ella mi espone che mi faccia menomamente dubitare che l' ecclesiastico, che dirige l' anima sua, non sia degno della piena sua confidenza; e però sono intimamente persuaso che la più compita ubbidienza al medesimo sia la strada più sicura per Lei di piacere a Dio, come desidera, e di far progresso nelle virtù. La voce del suo Direttore deve essere per Lei la voce di Dio stesso, e perciò se il Direttore Le concede licenza di accostarsi all' altare per ricevere la SS. Comunione tre o più volte la settimana, e in quei giorni ch' Ella desidera, questo è anco il voler di Dio; ed Ella non ha da far altro che di riempirsi di riconoscenza verso la bontà del suo Creatore, che con tanta generosità d' amore la chiama a sè mediante la voce del suo ministro e La ammette al suo divino banchetto; non ha da far altro che di confondersi nel suo niente, nella sua indegnità, accostandosi in pari tempo alla sacra mensa confidente, lieta, umile, magnificando il Signore coi sensi di Maria Santissima, perchè egli si degnò di riguardare alla bassezza della sua serva. Non si tratta qui della questione se siamo degni o no di un tal favore; trattasi di sapere se Iddio ce lo vuol fare o no un favore sì segnalato, sebbene noi siamo e ce ne riconosciamo pienamente fuor di questione indegnissimi; trattasi di sapere se noi ci possiamo credere di quegli avventurati zoppi e storpi e guerci dell' Evangelio, che pur furono, nonchè invitati, quasi cacciati dentro a forza nella sala delle nozze di quel gran signore. E come possiamo noi saperlo? Ce lo fa sapere la voce di Dio che noi udiamo dalla bocca del suo Ministro che ha cura dell' anima nostra: entriamo dunque con fiducia e col cuore esultante, perchè il Signore che abbiamo offeso si degna di sopraffarci in tal modo e vincerci in bontà: pensiamo che egli è infinito, e non ce ne faremo più meraviglia. Ma io sono stata una gran peccatrice, Ella mi dice, e dov' è la penitenza? Il desiderio di soddisfare alla divina giustizia colle opere penitenziali è cosa giusta e santa, e certo un tal desiderio non si dee reprimere quando Iddio lo fa nascere nell' anima nostra: tuttavia questo desiderio, come tutti gli altri buoni desiderii, dee sottomettersi alla più grande delle virtù, all' ubbidienza, e da questa esser interamente diretto. Se il suo Direttore non crede di permetterle alcune mortificazioni e penitenze esteriori, ch' Ella stimerebbe troppo giuste e desidererebbe grandemente di fare; Ella riconosca anche in ciò l' amabile volontà di Dio, riconosca che Iddio stesso La dispensa per ora da tali penitenze, che si contenta del suo desiderio, e sopra tutto poi della ubbidienza ch' Ella esercita, non facendole. Egli è tanto grande il merito che ha presso Dio l' ubbidienza, che nella Scrittura stessa vien detto che questa piace più a lui delle vittime. Nell' ubbidienza adunque stanno per Lei racchiuse le penitenze, di cui si sente verso Dio debitrice. Ella le fa tutte ubbidendo. Ma questa stessa dichiarazione, che Le fa Dio, dee di nuovo confonderla ed umiliarla, essendo un nuovo tratto della benignità di Dio verso di Lei, non dee diminuir punto nel suo cuore il sentimento di tutto ciò che deve a Dio in conseguenza delle sue colpe; dee considerarsi come doppiamente debitrice e per le soddisfazioni delle quali Iddio La dispensa, e per la grazia della quale Iddio La ricolma. L' essere dispensata in tal modo da certe penitenze dee oltracciò impegnarla ad accendersi di maggior tenerezza verso il nostro Signor Gesù Cristo, riflettendo ch' Egli La dispensa così dal patire per aver patito Egli a sua vece; giacchè se Gesù Cristo non avesse sborsato per noi peccatori il prezzo del suo sangue, noi non potevamo essere dispensati dal dovuto pagamento. Ecco la ragione per la quale il suo Direttore, qual organo di Dio stesso, Le può impedire alcune penitenze senza scapito della soddisfazione dovuta: la penitenza fatta da Cristo per noi n' è la gran ragione: sopra questa ci possiamo riposare. Come Ella vede, io parlo di alcune penitenze, delle arbitrarie ch' Ella stessa s' imporrebbe: non resterà perciò priva di penitenze e ben meritorie. Molte ne farà ricevendo con gran pace e contento tutte quelle che impone Iddio alle anime mediante i varii accidenti della vita, praticando quelle che riguardano la mortificazione interiore, quelle che s' incontrano nello studio stesso di piacere a Dio solo, nella meditazione delle cose eterne, nell' orazione, nel combattimento contro tutti i propri nemici spirituali non meno piccoli che grandi. Ella dice che non fa profitto nella emendazione de' suoi difetti: questa è una nuova penitenza, il sopportare se stessa. Ne vuole ancora di più? Eccogliene. Faccia per quanto può una vita di carità; faccia il maggior bene ch' Ella possa a' suoi prossimi, e quando non può farlo coll' opera, lo faccia loro col desiderio, colla compassione, coll' intercessione verso gli uomini, colla preghiera verso Dio. Oh quanto bene c' è da fare a questo mondo, mia pregiatissima signora, purchè si voglia! E non dubito ch' Ella lo faccia, che lo farà; e la carità sua riuscirà tanto più graziosa agli occhi di Dio, quanto più Ella procurerà di dirigerla non solo al ben dei corpi, ma ciò che più monta, alla salute eterna dell' anime de' suoi prossimi. Serva Ella dunque il Signore, che la favorì e La favorisce, con ampiezza di cuore senz' angustie, nè timori: dei difetti nè rimarranno, ma non se ne sgomenti: questi li permette il Signore per tenerci umili: approfittiamocene per questo appunto, staccandoci sempre più da noi stessi e dal mondo. Io sono stato più lungo in questa mia di quello che avrei voluto: se troppo, me ne scusi. Ma sopra tutto preghi il Signore anch' Ella (come io farò pure indegnamente per Lei) per i molti miei bisogni d' ogni specie. Mi son servito, com' Ella vede, della licenza ch' Ella mi diede di risponderle nella lingua italiana, e ne ho certo una buonissima ragione, il non saperne altra: il che però non vuol dire che io sappia questa in cui scrivo. [...OMISSIS...] 1.41 La sua cara lettera è un pegno di vera cristiana amicizia: uno di quei pegni che non si dimenticano più. Io ne La ringrazio con tutto il cuore. L' opuscolo di cui Ella mi parla, come messo in giro anche costì, ma da Lei non veduto, neppur io potei averlo ancor nelle mani. Ne seppi l' esistenza solo pochi giorni fa: una persona lo portò all' Em.mo Card. Tadini Arcivescovo di Genova, il quale lo mostrò ad un mio amico. Questi n' andò in traccia per Genova a fine di rinvenirlo: tutti i librai lo conoscevano, tutti ne parlavano, niuno seppe dirgli dove fosse, d' onde lo si potesse avere. Ho ragione di credere che una copia ne sia stata recata altresì all' Arciv. di Torino, e ad altri Prelati e Magistrati. Tosto che mi verrà fatto di procacciarmelo potrò dirle qualche cosa del contenuto. Le posso però parlare fin d' ora del più importante. Il più importante è la mia fede, che, come sento si attacca. Io non pretendo già di essere infallibile; ma guai se la fede cristiana dovesse riposare sull' infallibilità dell' uomo! essa riposa tutta sull' autorità di Dio rivelante, il quale ci fa conoscere la verità col mezzo della S. Chiesa. Su quest' autorità la mia fede, come quella di ogni altro semplice fedele, è basata: ella è dunque indipendente tutta dal ragionamento, ed io non ho mai fatto dei miei ragionamenti (Dio me ne guardi!) il sostegno e l' appoggio della mia credenza, gli ho considerati sempre come cosa affatto da questa diversa. Quindi, come ho sempre tenuto per falso quel ragionamento che fosse anco menomamente opposto all' autorità della Chiesa; così, qualora mi fosse avvenuto di fare un ragionamento, che senz' accorgermene riuscisse opposto a quanto avesse deciso quest' infallibile autorità, ciò proverebbe bensì in me dell' ignoranza e della fallacità di giudizio, ma non per questo la mia fede ne soffrirebbe. Ora io non sono già nato per esser dotto o per acquistarmene la gloria presso gli uomini, nè mai a questa fama ho rivolte le povere mie fatiche; ma sono nato bensì per esser credente e fatto degno delle promesse di Cristo, qual figliuolo devoto della sua Chiesa. Da questo Ella conoscerà, che io non posso valutar molto quella qualsiasi riputazione di letterato che Ella mi dice avermi per l' addietro acquistata, e che l' esser io convinto d' ignoranza, non è quel che mi pesa. Il mio tesoro è la santa fede, e qui è anco il mio cuore. Laonde se avvenisse, poniamo il caso, che la S. Sede Apostolica mia maestra, e maestra di tutto il mondo, trovasse di che riprendere nelle cose mie, non sarebbemi certo difficile il fare qualsivoglia pubblica dichiarazione, che rendesse la mia intemerata credenza più luminosa; giacchè tutto ciò che io avessi detto contro questa credenza, l' avrei detto certamente contro il mio proprio sentimento, e ritrattandomi non farei che esprimere quel pensiero immutabile, che m' ebbi sempre permanente nel cuore, e solo correggerne l' espressione esterna, che mancherebbe a rendere con esattezza quell' intimo pensiero, voglio dire, la mia piena fede. Che anzi Le dirò di più; a chi mi ebbe mostrato qualche mio sbaglio io professai sempre gratitudine, come voleva il dovere, nè alcuna difficoltà sentii mai a correggerlo per amore di quella verità che sola voglio ed amo in tutte le cose mie; e se questo feci e fo nelle cose più indifferenti, come nol farei io in un punto sì capitale come è quello della mia religione, dove, oltre l' offendere la verità e nuocere all' anima mia, mi esporrei al pericolo di rendermi maestro di errore al mio prossimo? Che cosa ho io voluto mai altro nei poveri miei scritti, che giovare alle anime? Ed ora le pervertirò io stesso? e ad occhi aperti? Iddio nol permetterà mai; io n' ho tutta e in lui solo la fiducia, in lui che m' infuse la fede bambino, e mi diede una illimitata devozione alle decisioni della S. Sede Apostolica, in lui che spande nel mio cuore la gioia quando posso fare un atto di fede, e che mi farebbe desiderar quasi d' esser caduto in un involontario errore, purchè senz' altrui danno, per potergliene rendere una confessione più alta e solenne. - Ma questo involontario errore ci sarà egli dunque nelle vostre opere? Ella mi domanda. Le risponderò con S. Paolo: « nihil mihi conscius sum, sed non in hoc iustificatus sum ». Mi parla nella sua lettera di errori di Baio, di Quesnello, di Giansenio, di Calvino, di Lutero: il solo sentir questi nomi, mette, a dir vero, raccapriccio. Le detestabili dottrine di questi eresiarchi, eretici, o fautori d' eresia sono state condannate giustissimamente dalla Chiesa: io le ho sempre condannate e detestate insieme con essa; e com' è egli dunque possibile che io segua costoro? e voglia esser anch' io un tralcio reciso dalla vite, buono da gittarsi solo sul fuoco? Dio mio! l' udir questo è certo una grande umiliazione. Le Bolle de' Sommi Pontefici che condannarono il giansenismo in tutte le sue diverse gradazioni, sono certamente sotto i miei occhi; e pure io non veggo che un solo dei sentimenti espressi nelle mie opere, e nominatamente nel « Trattato della Coscienza », che come credo, si prende specialmente di mira, s' approssimi ai sentimenti condannati di que' novatori. Che anzi più volte, io citai le proposizioni condannate in essi, a fin di mostrare qual sia la strada perversa in cui quelli eransi incamminati, e qual sia per ciò la contraria che noi dobbiamo percorrere; più volte mi son dichiarato in modo da non lasciare intorno a ciò il minimo dubbio. Che dunque si pretende con tali accuse? qual progetto si cova nascosto? vuol Ella che Le dica in fine di più ancora? vuol Ella che le apra tutta l' intima mia persuasione? vuol che Le faccia conoscere quanto la mente mia chiaramente prevede dover avvenir da quest' aggressione alle spalle, che or mi si fa? M' ascolti benignamente, e non attribuisca a presunzione alcuna quanto la chiara consapevolezza e il testimonio interiore dell' animo mio depone in me stesso, ed a Lei ingenuamente confido. L' autore dell' opuscolo, che secretamente si sparge, sarà stato mosso da buon zelo per la purità della fede; egli è probabile assai, che siasi grandemente riscaldata la testa, e che mal pratico delle dottrine filosofiche e dello stile rigoroso, che io stimai bene d' adoperare nel « Trattato della Coscienza » come nelle altre mie opere per ridurre le questioni complicate ai loro semplici principŒ, abbia preso, come si suol dire, delle cantonate. Egli è facile, appigliandosi a qualche frase staccata, a qualche periodo mal inteso, farne uscire un senso a rovescio; come è facile comporre un centone di passi che dicano tutt' insieme precisamente l' opposto di ciò che volle dire l' autore; ed ognuno sa che collo stile stesso e colle frasi del Vangelo si può benissimo scriver la vita di Cagliostro. Ma che perciò? Certo che dee nascere necessariamente da una tal frode qualche sussurro per ogni canto, massime che vi sono anche assai di quelli a cui buccinano da sè gli orecchi. Questo dee portare di conseguente una costernazione nei buoni, un gaudio nei tristi, un cotal sospetto nella moltitudine che non può giudicare del merito dei partiti ardenti, uno scatenarsi delle passioni; ciò appunto che voleva « inimicus homo, qui superseminavit zizaniam ». Io ne addoloro pel ben comune: per veder quelli che doveano esser meco uniti, così dividersi. Ma in fine, non vive egli Iddio? non regna egli Cristo? non vede egli i cuori? non conosce egli i suoi servi? non dispone egli forse tutto per la sua gloria e pel bene della sua Chiesa? che c' è a temere? gli darò io cagione di dirmi: « modicae fidei, quare dubitasti? » No certo, colla sua grazia. E in terra non ha egli il suo Vicario? il Papa non è egli ispirato e condotto dallo Spirito Santo? i giudizi della S. Sede hanno forse niente di comune coi giudizi precipitosi e riscaldati di alcuni uomini forse zelanti, ma non sempre secundum scientiam? Ecco dunque ciò che avverrà. La S. Sede tutto esaminerà colla sua solita posatezza, imparzialità, prudenza e sapienza divina: ella andrà al fondo della cosa, e giudicherà con piena cognizion di causa. Il suo giudizio è stato sempre la mia regola, sarà tale ancora. Io amerò egualmente una regola sì cara, sì dolce, sì certa, sì sicura qualunque ella sia, qualunque cosa Ella prescriva. Ma che cosa in fine prescriverà? Eccole la persuasione mia fermissima. Non solo giudicherà pure e sane le mie dottrine, e il suo autorevole giudizio le renderà più utili ai miei prossimi pei quali io le scrissi, credendo di scrivere quello che il lume del Signore mi suggeriva; ma di più la S. Sede riconoscerà in esse degli argomenti validissimi, coi quali sterpare fino le radici degli errori di Giansenio, Baio, Quesnello ed altri sopra nominati, e in questa vista veramente furono da me scritte. Ma Ella ritenga sempre, che questa mia persuasione dettatami dalla coscienza insieme e dalla cognizione non leggera delle materie nei miei scritti trattate, non ha ancora da far niente colla mia fede: la quale è semplice e in altro non fondasi affatto che in Dio e nella santa sua Chiesa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Mi consola assai il sentire che Ella è risoluta di amare a qualunque sia prezzo la verità e di non tradirla giammai. Io sono persuaso che questa sia la più bella disposizione che Ella possa avere per ottenere da Dio i lumi e la fortezza di cui Ella abbisogna nelle circostanze in cui Ella si trova, e che nella sua lettera mi descrive. Non è certamente bisogno, che io osservi che i doveri nostri verso la verità sono molti, giacchè noi dobbiamo non solo amarne quella bellezza che dimostra al nostro intelletto ( « agnoscere veritatem »), ma ben anco realizzarne colla condotta nostra quella bontà che propone alla nostra volontà ( « facere veritatem »). Questo secondo dovere è più difficile assai del primo, ed è quello ad eseguire il quale specialmente noi abbiamo bisogno del divino aiuto, e, per averlo, di domandarlo incessantemente. [...OMISSIS...] come dice S. Giacomo. Perciò io credo che Ella si troverà ben contenta se in tutti i suoi viaggi, tenendo presente Iddio, lo invocherà senza posa, praticando i doveri imposti dalla santa Chiesa Cattolica, e facendo uso, con viva fede e nihil haesitans , de' Sacramenti della medesima. Le sarà altresì di grandissimo aiuto e difesa contro ai pericoli l' abituarsi a non pregiare le cose e le cognizioni stesse, se non in ordine alla verità ed alla giustizia, e perciò a Dio ed alla santa Chiesa Cattolica, a cui ha la grazia di appartenere. Con questa retta intenzione viaggiando, Ella non si contenterà meramente di acquistare cognizioni, ma di mano in mano rifletterà all' uso che potrà fare delle cognizioni che Le verranno acquistate, e stimerà più quelle che più Le possono servire un giorno a far valere la causa della religione, della giustizia e dell' umanità. Questo stesso riflesso gioverà assai a farle considerare come mere vanità molte cose di questo mondo, intorno alle quali gli uomini impazziscono; e La difenderà da molti pregiudizi ed opinioni false, di cui sogliono essere imbevute le società particolari, e i particolari. [...OMISSIS...] 1.41 La vostra cara lettera di ier l' altro mi è un nuovo caro pegno di quella vera cristiana amicizia che mi professate. Vi assicuro per altro, che nella « Risposta al finto Eusebio Cristiano » ho temperate secondo il vostro consiglio alcune espressioni che riescivano un po' pungenti; sebbene sento ora che vi sembra ancor troppo acerba. E tale sarebbe anche agli occhi miei, se io avessi così scritto, perchè il mio avversario fu il primo ad offendermi e ferirmi nella parte più delicata, qual' è l' integrità della fede , come vi credete che io abbia fatto. Ma io protesto che questa è per me una ragione che non val nulla; giacchè, per grazia di Dio, non mi curo nulla delle ingiurie personali, nè me ne sono mai curato. Laonde se non avessi temute le conseguenze funeste per le opere della gloria di Dio e per la dottrina vera del nostro Signore, state pur certo che non avrei risposto nè pure una parola ad Eusebio. No, ve lo ripeto, per ispirito di vendetta, grazie a Dio, non iscrivo, nè ho mai scritto. Perchè scrivo io dunque? Scrivo pel bene pubblico; e dal momento che io stimo che questo sia il mio dovere, reputo di scrivere in quel modo, nel quale si possa ottenere più facilmente, più speditamente e pienamente questo bene che ho in vista. Per ottenere questo bene non si deve mentire, che Iddio me ne guardi! ma della verità si deve dire quella parte che sembra necessaria ad ottenerlo in maggior abbondanza. Talora questa verità è una pillola amara, ma anco i rimedi che danno i medici sono amari; e se v' ha un modo di fare del bene al mio avversario, io credo che sia questo da me adoperato, e di cui nostro Signore e tutti i Santi ci hanno dato l' esempio. Fino che considererete la causa, di cui si tratta, come mia personale, mi condannerete, può essere, come mancante di mansuetudine; ma quando considererete la causa come di Dio, allora vedrete che talora è mansuetudine e vera carità anche il parlar forte, e che il nostro divino Maestro non era meno mansueto nè men umile allorquando diceva volpe ad Erode, o ipocrita e cieco al fariseo, di quel che sia quando pregava pei suoi crocifissori. Il bene che si deve avere per fine è sempre un solo, e questo è la carità anche verso gli avversari, anche verso i nemici; ma i mezzi di esercitare la carità sono molti, talora vi ha anche quello di dire cieco al cieco, e di dir volpe a chi è volpe; come è pur troppo il caso mio, per quanto mi pare. Io non ho avuto in vista altro che di scuotere gli avversari, perchè intendano che sono deliberato di resistere fortemente, e di discoprire tutte le loro trame che vanno ancor tessendo continuamente contro l' Istituto, e che io debbo dalle loro tenebre tirare in manifesta luce. Credo che io sono nelle presenti circostanze obbligato a fare fronte, anche pel loro stesso bene. So che non farò nulla, e che le persecuzioni subdole e artificiose non cesseranno: ma si persuaderanno almeno che troveranno ostacolo a farle riuscire. Siamo d' accordo in dover fare tutto ciò che è più conforme allo spirito del divin nostro Maestro: e chi può dubitarne? Tutto il resto è inganno e pazzia. Ma io non ho inteso di dipartirmene, e vorrei morire più tosto che farlo scientemente. Continuate a pregare il Signore, perchè m' illumini se sono in errore, e non permetta giammai che altro spirito mi diriga fuor che il suo, che solo desidero ed amo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Ier sera prima di notte siamo giunti felicemente in questo seminario, dove questi ottimi sacerdoti ci accolsero colla loro solita cordialità. Non è però solo il darvi notizia del nostro viaggio lo scopo di questa mia, ma ancora il fare qualche risposta alla carissima vostra del 1 corrente: giacchè non ve n' ho potuto parlare nel mio passaggio da Milano con quella comodità che sarebbe stata necessaria, e se nulla affatto vi replicassi, sembrerebbe che io non avessi aggradita l' amorevole vostra ammonizione, o non ne facessi quel conto, che pure ne fo. Vi parlerò dunque con tutta candidezza, come sono solito e come voi volete certamente che io faccia. E in primo luogo vi dirò, che il sentimento vostro esposto con tanta sicurezza, m' incute timore, e comincio a dubitare non forse io abbia ecceduto nell' uso di espressioni biasimanti ed umilianti col mio avversario; spero che il vostro avviso mi sarà utile per l' avvenire, se non mi può più essere utile nella causa presente. Sia pur dunque vero, che io abbia errato, e voi condannatemi pure; ch' è io non intendo difendermi, sapendo troppo bene di essere capace di qualsiasi male, se Iddio non mi sostiene. Ma io crederei di ostentare una falsa umiltà e di mancare alla veracità e insieme all' amicizia, se ingenuamente non aggiungessi, che le ragioni, che voi adducete nella cara vostra, non sono punto solide, come vi sembra; e ne converrete anche voi, se vi farete sopra le seguenti riflessioni. Voi dite che non potete concepire come le ingiurie scagliate contro il prossimo possano servire di gloria a Dio; e dite certamente benissimo. Nè pur io posso concepire una tal cosa; perchè le ingiurie sono peccati, e i peccati si oppongono direttamente alla gloria di Dio. Ma le parole biasimanti e umilianti, sono esse sempre ingiurie? No certamente. Ingiuria vuol dire ingiustizia, e perciò le parole e gli appellativi di biasimo non sono ingiurie, se esprimono il vero; non è ingiuria, per esempio, il dire ladro al ladro , e perciò Gesù Cristo non ha detto un' ingiuria, quando ha chiamati ladri i venditori nel tempio. Voi dite poscia, che il nostro divin Maestro poteva usare degli epiteti umilianti come ne usò, perchè era Dio, a cui solo conviene il mihi vindictam , e nol possiamo mai noi, perchè siamo uomini che non veggiamo l' interno dei cuori. Ma se attentamente considererete la cosa, vi accorgerete che non si può dire che nostro Signore nella sua prima venuta abbia mai operato per vendetta , la quale fu intieramente da lui riserbata per la seconda sua venuta. Egli ha adoperato sempre per carità e per dare a noi esempio di essa, e non ha mai offesa la mansuetudine, nè pure quando disse stolti, tardi di cuore, ciechi, ladri, volpe , e a tutta la generazione degli ebrei nequam , e a Pietro satanasso , e tali altri epiteti: i quali tutti sono stati detti senza ingiuria alcuna, senza vendetta, e senza abbandonare la sua divina mansuetudine, e per insegnarci che talora conviene essere acerbi nelle parole e duri per carità ; il che ha luogo quando si crede che questo sia il mezzo di essere utili al prossimo, pel quale si parla. Ma per esercitare questo atto di carità, bisogna certamente essere spogli di passione umana e d' illusione; perocchè le parole forti, biasimanti ed umilianti stanno benissimo colla carità e colla mansuetudine: ma non così la passione umana e l' illusione che questa produce. Voi poi recate l' esempio di san Paolo che maladetto benediceva. E qual dubbio che questo sia dovere dell' uomo di Dio e del discepolo del Signore? Ma non si può egli benedire chi maledice, e nello stesso tempo parlargli forte e con epiteti umilianti? La civiltà non istà nella materialità esterna delle parole, ma nello spirito con cui sono proferite. Sono certo che voi ben vi ricorderete che san Paolo ebbe più volte l' occasione d' imitare Gesù Cristo anche nel dire parole acerbe contro i suoi avversari, o, per dir meglio, contro gli avversari della gloria di Dio. Al mago Elima sapete che disse niente meno che, « o plene omni dolo et omni fallacia »; e non contento di questo lo chiamò figliuolo del diavolo (imitato poi da san Policarpo, che incontrando a Roma un eresiarca, lo onorò col titolo di « primogenitum diaboli »; e non contento ancora vi aggiunse « inimice omnis iustitiae »). Nè si può dire che san Paolo era peccabile, e che avrà peccato, perchè sarebbe un manifesto giudizio temerario, e smentito da Dio stesso, che confirmò la condotta di san Paolo in tale occasione con un miracolo «(Act. XIII). » Considerate ancor l' altro fatto di san Paolo narrato al cap. XXIII degli « Atti ». Avendo san Paolo detto ingenuamente d' essere proceduto con buona coscienza , Anania, giudicandolo temerariamente, gli fece dare uno schiaffo. Allora san Paolo non dubitò di chiamarlo muraglia imbiancata ; nè con questo si può dire, che si sia vendicato, o che abbia offesa la mansuetudine o peccato contro la carità; ma più tosto imitato il Signore in un atto di zelo e in dire una verità acerba, credendola opportuna all' effetto del bene. Egli è poi vero che sono più i tratti di dolcezza usati dai Santi, che di durezza; ma ciò non vuol dire altro se non che le occasioni in cui giova usare questi secondi sono più scarse, che le occasioni in cui giovi usare quei primi. E certo in tutte le cause personali che riguardano noi o le cose nostre, dee aver luogo la mansuetudine e la dolcezza; ma nella causa della giustizia, della virtù, della verità cattolica e del bene del prossimo, qualche volta può aver luogo la durezza; la quale non è una vera durezza, perchè non viene da un cuor duro, ma anzi da un cuor tenero e mansueto, checchè del resto ne giudichino gli uomini. I tratti adunque di apparente durezza che si scontrano nelle parole e negli scritti dei Santi, cominciando da san Giovambattista che chiamava gli Ebrei razza di vipere , non si possono così facilmente imputare all' essere stati essi peccabili; ma dobbiamo piuttosto attribuirli al loro zelo, e all' adempimento di quel precetto dello Spirito Santo: « responde stulto iuxta stultitiam suam, ne sibi sapiens videatur »; il qual precetto dee potersi qualche volta mettere in pratica, se pur noi non vogliamo dire, che lo Spirito Santo abbia parlato inutilmente. Tuttavia queste cose non mi giustificano, se ho ecceduto nel mio scritto; ed io vi ripeto che non voglio scusarmene; e che, se non provano le vostre ragioni, prova però a me moltissimo il sentimento, che in voi ha prodotto la lettura del mio opuscolo; sebbene potrebbe essere che questo sentimento nascesse in voi dal non conoscere a pieno lo stato delle cose e delle circostanze, e la natura del male, a cui si deve opporsi. Ad ogni modo, nel dubbio in cui mi avete messo, io approfitterò del vostro avviso in altre occasioni; e voi vogliatemi compatire, acciocchè giunga a quello che solo desidero, a conoscere senza inganno alcuno il nostro Signore e ad imitarlo con sincerità e pienezza. Pregate anche, acciocchè Iddio benedica questi santi esercizi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.41 Statevi certo che io non ho rancore con nessuno, ma che credo fermamente che la Verità e la Religione nostra santissima sono una cosa sola; e che le frodi e gli artifizi, se si svelano, non è che un bene che si fa alla Religione. Il nostro Dio è Dio di verità, e il Maestro nostro è la verità in persona. Ma pur troppo al mondo si ama poco la verità, e perciò poco si ama Iddio; e si crede in quella vece di onorarlo, formando dei partiti, e mettendo le apparenze nel luogo della sostanza! No, no; se noi amiamo Dio, amiamolo semplicemente e senza umani partiti: il credere che questi sono utili alla Religione, è un deplorabile inganno che ha fatto molto male alla santa Chiesa. Io credo, che voi converrete meco; perchè son certo che siete di quegli adoratori che adorano Iddio in ispirito e verità. Abbracciovi nella vivissima speranza che riceverete nel loro vero senso anche queste mie schiette parole, e non vorrete interpretarle male. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Voi avete fatto un ragionamento assai storto, quando avete argomentato che il vice7rettore, che presentemente è superiore di cotesta casa, non avesse facoltà di mutare gli ordini del rettore assente. Tenendo egli il luogo di superiore nella casa, egli può cangiare a quel modo che Iddio gli ispira essere migliore; come un superiore può sempre cangiare i proprii ordini, tostochè lo crede necessario. E qualora anco fosse vero (il che non è) che il vice7rettore non potesse cangiare gli ordinamenti del rettore assente, sapevate voi forse se il cangiamento non fosse stato accordato prima col rettore stesso o con un superiore maggiore? E poi tocca forse al suddito di fare il processo a suoi proprii Superiori? Dov' è qui, mio caro Arnoldo, la vera ubbidienza, quell' altissima virtù che contiene la vera soprannaturale sapienza? Avreste forse fatto un somigliante temerario ragionamento, se il nuovo ordine dato dal nuovo superiore vi fosse andato pienamente a genio? Esaminatevi bene: e badate attentamente, se la mancanza di quell' aurea indifferenza e di quell' annegazione che debbono professare i discepoli di GESU` sia stata forse la cagione che vi ha inalberata la mente fino a giudicare della condotta di quello che dovete considerare come vostro giudice e come indicatore dolcissimo della volontà divina. Lo stesso vi debbo dire su tutto ciò che mi venite esponendo nella lettera vostra del risentimento che avete sofferto per non essere stato ascoltato, come voi volevate, e interrotto da cotesto vostro superiore. Non sapete voi adunque ancora, mio caro Arnoldo, a quale altezza di perfezione siate stato chiamato da Dio? Non sapete ancora quale sia la scuola del nostro Signor GESUÙ Cristo, in cui vi trovate? E non intendete voi il senso profondo di quelle parole, « qui vult venire post me, abneget semetipsum »? Ah! pregate, pregate il buon GESU` che vi dia l' interno conoscimento della sua profondissima dottrina, tutta d' annegazione, di umiltà e di preziosissimi patimenti: perocchè questa dottrina non la potrete certo intendere se leggeste migliaia di volumi, non apprendendosi essa che a' piedi del Crocifisso. Quello che mi fece meraviglia, leggendo le espressioni vivaci e i ragionamenti assai umani della vostra lettera, si è che non abbiate conosciuto ancora, che i Superiori sono obbligati di esercitare i soggetti nell' umiltà, nella mortificazione, nella pazienza e nell' annegazione di ogni proprio volere; e non siate giunto a capire qual tesoro infinito di vera sapienza si contenga in queste divine virtù. Qual dubbio, che se lo capiste, ne sareste innamorato, le cerchereste giorno e notte, accogliereste lietissimo le occasioni d' esercitarle, e lungi dal risentirvi, se un superiore carico d' affari non può udirvi così pacatamente come vorreste, anzi gli sareste gratissimo, lo ringraziereste, lo preghereste di non volervi risparmiare l' amor proprio, ma anzi in ogni modo di abbassarvi, e in esso mortificarvi! Oh felici contraddizioni e mortificazioni per un' anima che ama GESU` Cristo e sospira di rendersi a lui simile il più che mai possa! Oh felice voi, mio Arnoldo, se otterrete dal Signore la grazia di tali lumi! Credete voi, che un servo di Dio, un religioso a lui consacrato, il quale non sia capace di ricevere con pace e con allegrezza nè pure di essere interrotto nel suo parlare dal proprio superiore o di non essere ascoltato, potrà mai rendersi degno ministro delle opere divine? Che farete, se or siete tanto delicato, quando si trattasse di esporvi a tutti i sacrifici e gl' insulti presso le nazioni infedeli, se ci foste mandato ad annunziarvi il Vangelo? E forse che sognate di poter resistere ai gravi combattimenti lontani, quando non siete capace di tollerare una parola, un tratto ruvido al presente, e nè pure dai vostri stessi Superiori? Oh qual enorme presunzione, qual deplorabile cecità sarebbe questa! Per carità di voi stesso, riconoscete da questa infausta esperienza, come pur troppo dentro di voi stia ancor molto da riformare, stia ancor molto da deporre dell' uomo vecchio. Umiltà, umiltà: ecco la sapienza veramente sublime! abbassamento di sè: stima e rispetto a tutti: ubbidienza pronta, allegra, indifferente, universale: ecco lo studio principale che io aspetto da voi: ecco la vera scienza dell' Istituto a cui Iddio si è degnato di chiamarvi, Istituto che professa di non saper altro se non JESUM CHRISTUM , et HUNC CRUCIFIXUM . State certo che io non avrò altra allegrezza da voi che questa di vedervi simile a Cristo: ubbidiente « usque ad mortem, mortem autem crucis »: non esaminatore de' comandi de' Superiori, ma fedele esecutore, pronto ed allegro. Ad arrivare a questo, veggo io bene che vi bisogna altresì di mettere lo studio in secondo luogo nell' ordine de' vostri affetti: nel primo luogo dee stare quella virtù che abbraccia tutte le altre, e perciò tutto il bene morale, la perfetta e mortificata ubbidienza: questa dee avere il primo seggio nel vostro cuore, e dovete riputare di aver fatto un gran guadagno quando per essa avrete dovuto lasciar lo studio e ogni altra cosa. Ricordatevi del gran detto dell' illuminatissimo S. Francesco d' Assisi: « Tantum scimus, quantum operamur ». Non vi do penitenza, perchè le vostre lettere mi fanno temere che non siate compunto del fallo. [...OMISSIS...] 1.42 Sì, mio caro in Cristo figlio, accogliete il lume della grazia, il quale non parla al cuore dell' uomo che dell' inenarrabile bene che egli è l' umiliarsi incessantemente: nè l' umiliazione è vera se non si trasfonde nel fatto. In quale fatto? Nel fatto sublime della CIECA UBBIDIENZA. Questo non opera dentro di noi che la sola parola di vita di Cristo. Beati quelli a cui la parola: « qui vult venire post me, abneget semetipsum » ha penetrato le ossa e le midolla! Ecco quali ossa esulteranno: « exultabunt ossa humiliata . Io veggo dalla cara vostra, che mi ha rallegrato, come il Signore sta ad ostium et pulsat »: spero che gli abbiate aperto, che gli aprirete sempre. State certo, che se cercate la verità e la giustizia, come grandemente confido, voi troverete l' una e l' altra nell' umiliazione del vostro cuore; perocchè abitano qui, ed altrove non vi ha di esse che il simulacro. Nè solo per amore della verità e della giustizia usate di lasciar da parte i ragionamenti interni favorevoli alle inclinazioni naturali e opposti all' ubbidienza; ma di più all' ubbidienza di Dio e all' amore della penitenza e della mortificazione sacrificate tutte le ragioni e i diritti che vi paresse d' avere secondo natura, per purissimo amor di Dio e ardore di rassomigliare al vostro dolce Maestro e Salvatore. Gustai molto il sentire che mi promettete indifferenza a tutto, anco a non istudiare, se Iddio pe' Superiori così dispone di voi. La rettitudine e la perfezione vuole assolutamente che siate disposto a fare a Dio anche questo sacrificio. E tutto farete per la grazia che vi darà valore. Ma vi arricorda di rivolgere sempre le vostre orazioni a dimandare la giustizia e la grazia di vincere interamente voi stesso. Or poichè vi credo ben disposto, darovvi anco la penitenza da voi desiderata; e sarà che leggiate e meditiate altamente le prime quattro regole del capitolo X delle Comuni , che procuriate di gustarne la bellezza, di scrivervele nel cuore, di domandare a GESU` Cristo che egli stesso ve le scolpisca. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sento con mio sommo dispiacere che in cotesta Casa non ci sia quella perfettissima unione, che è il segnale dei veri discepoli di Gesù Cristo, e perciò dei veri membri dell' Istituto, che non si propone che il discepolato del Signor nostro. Nella vostra lettera vi accusate è vero di molti difetti in generale, e in ispecie interni , ma non ispecificate nessuno di questi; anzi mi assicurate di amare i vostri fratelli e di esser sollecito della loro e della vostra perfezione. Ma nello stesso tempo mi dite che A. vi fugge da un mese e mezzo, e dite che « se vi dicono i vostri difetti, è allorquando hanno qualche cosa contro di voi, e non altramente », mostrando così di giudicare delle loro intenzioni, quando l' umiltà è il precetto di nostro Signor Gesù Cristo, che dice: « nolite iudicare ». Ah, mio caro, pur troppo è da temere che nel vostro cuore non sia ancora entrata nè l' umiltà, nè l' annegazione, nè la carità del nostro Signor Gesù Cristo! Altro è credere di amare i propri fratelli, altro è amarli veramente. Chi non sa umiliarsi ed annegare sè stesso, non sa amare come vuole Gesù Cristo. Può ben avere un' amicizia, come detta il mondo; ma non avrà mai la carità di Gesù. La prima è capricciosa ed instabile; ma questa seconda è immutabile e sempre uguale, perchè fondata in Cristo che non si muta. « La carità »dice san Paolo « è paziente, benigna, non ha gare e non pensa il male, « omnia suffert, omnia credit, omnia sperat, omnia sustinet » ». Ma voi invece di sofferire e sostenere ogni cosa, vi risentite, vi mostrate offeso; e Dio non voglia che abbiate voi stesso forse dato, se non in tutto, almeno in parte cagione al dissapore nato tra fratelli, che debbono essere in Cristo una cosa sola; perchè, come vi ripeto, nella vostra lettera vi accusate in generale de' difetti, ma nulla dite della causa di un tanto male. Ah! temo pur troppo che non abbiate inteso la gran parola, che è il fondamento dell' Istituto, che « non v' ha altro bene che la giustizia e la perfezione, e che quest' unico bene, questo tesoro si ottiene coll' abbassare, annegare e crocifiggere incessantemente sè stessi. [...OMISSIS...] . Il mio dubbio nasce da questo: se aveste ben inteso una dottrina così profonda e contraria all' inclinazione della natura, insegnata al mondo dal solo Verbo Incarnato nostro unico Maestro di verità, qual mai dubbio che vi mostrereste tutto sollecito di abbassare e impiccolire voi stesso, di darvi sinceramente il torto in ogni cosa, di cercare ne' vostri falli l' origine di tutti i mali, e di pregare e gemere e sospirare a' piedi del crocifisso Gesù, perchè egli vinca in voi e squagli ogni durezza di amor proprio, di superbia, di orgoglio, di confidenza ed opinione di voi stesso: egli che, come dice la Scrittura, fa squagliare col suo fuoco celeste le montagne stesse? qual dubbio che sareste insaziabile di umiliazioni, e fin anco d' obbrobrii, e che vi mettereste in ogni cosa, coi fatti, dico, e non colle parole, l' ultimo de' vostri compagni, considerandovi come il rifiuto e la peste della Casa? [...OMISSIS...] Ecco adunque il rimedio, mio caro: umiliarsi, ma interamente e non per metà, ma con tutta l' anima, e non con uno sterile sentimento e con più sterili parole; e perchè questa piena umiliazione dell' uomo non è che l' opera della divina grazia e misericordia che illumina e vivifica, pregare e pregare incessantemente, e con atti i più grandi di umiltà. Non occupare mai il pensiero de' difetti o torti che gli altri possano avere in verso di noi; ma occuparci unicamente delle nostre colpe, iniquità, ingiustizie, nequizie, impertinenze, sciocchezze, ignoranze, balordaggini, presunzioni, temerità, debolezze e miserie senza limite e misura; e non esser mai contenti di temere e tremare per noi stessi, di compungerci, e di sospettare dei nostri stessi sentimenti, dei nostri pensieri, delle nostre parole ed azioni, anche quando ci sembra che nulla di male sia in esse: tenendo per fermo che noi siamo stolidi e ciechi e che non possiamo mai esser sicuri di nulla, e che Iddio solo è il nostro giudice, che col suo sguardo acutissimo vede tutto, e se il nostro cuore è retto o non è retto, vede le magagne, e Dio non voglia, anche le cancrene più nascoste e più puzzolenti. Mio caro, che dunque sia finito fra voi e per sempre ogni segno di dissidio da parte vostra . Se gli altri non fanno il loro dovere, non vi affannate: affannatevi solo grandemente se non lo fate voi: di questo piangete pure e pregate, e Iddio vi ascolterà. Prefiggetevi che la vostra conversazione sia uguale con tutti , come vuole la carità e le regole nostre, senza affezioni: che il vostro tratto sia amabile, grave, senz' affettazione e sempre uguale. Se gli altri non corrispondono, dissimulate e non pretendete corrispondenza; piuttosto prendete occasione di umiliarvi in voi stesso, come di una giustizia che vi si usa. Non pretendete che i compagni vi correggano, perchè questo è contrario alle Regole (Reg. Com. 24); quantunque se lo fanno, dobbiate essere loro grato; ma vi stia ben a cuore che i compagni comunichino i vostri difetti al Superiore (Reg. Com. 22); e quando di questo vi sentirete allegrezza e verso di loro gratitudine, allora sarà segno che cominciate ad amare la virtù sinceramente . L' anima vostra dee essere aperta a' Superiori, pel canale de' quali Iddio comunica le sue grazie, e la sua volontà; e beati quelli che conoscono il prezzo infinito di quelle due parole lasciateci da Gesù: « qui vos audit, me audit »! Quanto poi alla grazia che mi domandate di essere dispensato dall' ufficio di Prefetto io ne scriverò a cotesto vostro Superiore. Gesù Cristo vi faccia sentire la verità delle cose che vi scrivo, e vi muova il cuore a praticarle, e allora solo condurrete a felice termine la santa vostra vocazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Mi ha grandemente consolato il sentire che siete risoluto di proporvi, colla grazia divina, un' ubbidienza perfetta, cioè a dire un' ubbidienza che inchiuda l' intero sacrificio di sè fino alla morte. Oh qual compendio di tutte le virtù non è questa obbedienza, qual via di renderci simili a Cristo, « qui factus est obediens usque ad mortem, mortem autem crucis », a una morte cioè obbrobriosa, come dovuta ad uno scellerato! Ma ho poi trovato anche nella cara vostra delle cose, che sono ben lontane dalla vera sapienza spirituale. Sul detto comune « niuno è buon giudice in causa propria », voi distinguete: chi giudica sè stesso per passione, non è buon giudice; ma giudicando senza passione, ciascuno è ottimo giudice di sè stesso. Questa distinzione pecca di circolo: perchè si dice che niuno è buon giudice in causa propria? Appunto perchè niuno può essere ben sicuro di giudicare senza passione, appunto perchè la passione si nasconde agli occhi di quello che più la ha, appunto perchè Iddio nega i lumi a quelli che vogliono giudicare di sè stessi contro il giudizio dei savi e de' Superiori, punendo così la loro presunzione. Ah mio caro! I Santi diffidavano sempre di sè stessi, e volevano sempre esser diretti dall' altrui autorità e dall' altrui giudizio; e statevi pur certo che l' occuparsi a giudicare ed a giustificare sè stesso è cosa che impedisce il profitto nella vita spirituale, toglie la pace, distrugge l' umiltà vera dell' anima e vi semina la superbia, diminuisce la stima e la carità verso gli altri, e rende impossibile quella cieca obbedienza che è un tesoro inapprezzabile, e che voi stesso desiderate tanto di conseguire. Oh bella diffidenza di sè stesso! questa dee essere tanto grande quanto la confidenza in Dio, cioè infinita: questa non inganna: questa non è la scienza dell' albero vietato, ma è il frutto dell' albero della vita. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Nel tempo stesso che ho inteso con vero piacere che Ella sia pienamente contenta della cura, a cui sottomise costì la figlia maggiore, mi recò gran pena il sentire dal venerato suo foglio, che Ella stessa soffre per la malattia manifestatalesi. Io la farò raccomandare al Signore da delle anime buone, come Ella desidera, ed io stesso indegnamente presenterò le mie povere preghiere al trono dell' Altissimo, acciocchè egli benedica la cura, Le dia fortezza e consolazione in sopportarla, e faccia il tutto ridondare in aumento di meriti per l' anima sua, acciocchè diventi più pura e più bella, con questa occasione di patire, agli occhi di Dio. Infatti quantunque l' umanità se ne risenta, tuttavia lo spirito ammaestrato dagli insegnamenti e dagli esempi di N. S. GESU` Cristo, e sopratutto illuminato dalla sua grazia, sa ben conoscere che nel patimento delle malattie si nasconde una preziosissima occasione di meritare e di renderci simili al Signor nostro, praticando le virtù soprannaturali da lui praticate; e le riceve quindi come grazie speciali e segni dell' amore che Dio ci porta, poichè, come dice la Sacra Scrittura: « Iddio castiga quelli che ama ». Questi so e vedo dalla sua lettera che sono i sentimenti da cui Ella è penetrata, e però non dee sgomentarsi, se sente la ripugnanza che la natura nostra ha al patire, come quella che sarebbe fatta da Dio per godere, non essendo lo stato di patimento che una irregolarità prodotta dal peccato. Basta che nel fondo dell' animo nostro portiamo la rassegnazione e l' uniformità al volere divino, e stimiamo le cose col lume verace della fede; il qual lume ci mostra, che là appunto sta nascosto il maggior bene, dove la carne nostra peccatrice esperimenta il maggior male; e ci fa rallegrare e gioire immensamente di quello, di cui piange la carne e mena alti lamenti. Basta adunque che rivolgiamo i nostri sforzi, non già ad estinguere in noi il rincrescimento naturale dei mali, ma a far sì che unitamente con esso vi sia in noi una gioia soprannaturale, superiore e vincitrice di quello. Perciò io non ho punto dubitato a dirle in sul principio di questa mia, che sento un sincero dolore della sua infermità, perchè questo dolore secondo la natura non è male, ed esige solo di esser sottomesso a quella più alta considerazione dello spirito, che fermamente crede all' amorosissima bontà di Dio, e la ravvisa questa bontà nello stesso dolore e nella stessa tribolazione temporale, che da essa ci viene. Onde posso anche aggiungere con uguale sincerità, che, unitamente al rincrescimento del suo male, lodo il Signore che l' ha permesso per tutto quel gran bene, che egli ha destinato di cavarne. Imperocchè qual dubbio, che l' effetto di questo suo male sarà una maggior purificazione dell' anima sua e un maggior distacco dalle cose di questa terra, un' unione maggiore con Dio e ardente desiderio delle cose del Cielo, un disinganno e accrescimento di luce spirituale, un fervore nuovo e brama vivissima di spendere il tempo che le rimane di vita nelle opere della gloria del Signore, in lodarlo, e amarlo, e servirlo nei suoi prossimi? Ella offerirà quello che dovrà soffrire in isconto dei suoi debiti, e questa oblazione volontaria sarà ricevuta con gradimento: Ella avrà dei momenti in cui sentirà profondamente il proprio nulla, e farà di quegli atti di umiltà che sono la maggior giustizia che la creatura possa rendere al Creatore: Ella nelle sue angustie sentirà intimamente il bisogno di Dio, e gli dirigerà quelle preghiere, che non sanno fare se non le anime strette da ogni parte dalla tribolazione, e che giungono al cuore dell' Eterno; Ella insomma avrà occasione di far mille atti d' amor divino, che son quelli che migliorano le anime ed assicuran loro l' eterna salvezza. Tutti questi beni, che mi rappresento come il fine che ebbe il Padre celeste nel sottometterla a questa prova, sono argomenti di santa speranza e letizia; ed io fin d' ora la divido con Lei. Del resto affine di poter esercitare questi atti più perfettamente, e con maggior facilità ottenere che lo spirito pronto prevalga sopra la carne inferma, la consiglio ad aver presente ora più che mai il ricordo di GESU` Cristo: « Non vogliate pensare al giorno di domani ». Procurar di allontanare il pensiero dell' avvenire ed i timori che l' accompagnano, è già questo un grand' atto di virtù e di abbandono nelle mani amorevoli del Signor nostro: è ciò che forma il camminare semplice davanti al Signore tanto lodato nelle divine Scritture. E perchè dipingerci innanzi alla mente quello che non sappiamo e che Iddio ha voluto celarci? e perchè accrescerci il male che abbiamo coll' immaginazione di mali temuti che non sono, e che forse non saranno giammai? Non è egli meglio lasciare la cura di noi intieramente a Dio, senza volerne saper cosa alcuna, e viverci tranquilli di giorno in giorno, e di ora in ora, persuasissimi che l' amor suo verso di noi vince l' amore di ogni madre più tenera? Questa tranquillità non c' impedisce d' altronde di rivolgerci a lui incessantemente colla più filial confidenza, dicendogli non solo i nostri bisogni, ma ancora i bisogni creati dalle nostre debolezze e dalle nostre ignoranze. Poichè egli non se ne adonta; ma ascolta anche questi e ci compassiona nella sua immensa tenerezza; e o ci fortifica, o a quei bisogni stessi immaginari maternamente sovviene. Nè pure c' inquieti la vista dei propri difetti. GESU` Cristo è morto per noi; ci ha conservata fin qui la vita, perchè abbiamo tempo di lavarci nel suo sangue: la penitenza nostra non importa che sia lunga, ma che sia cordiale: la migliore poi di tutte le penitenze è la pazienza nelle croci che egli ci manda, adattandole amorosamente alle nostre spalle, ed aiutandoci a portarle. Dunque larghezza di cuore, mia veneratissima signora contessa, e dolore sì dei peccati, ma dolor confidente, dolore che si perda e trasmuti in amore: i timori per altro, che talora inevitabilmente si suscitano nell' imaginazione, nè sono peccati, nè distruggono la rassegnazione: talora non sono che nuove pene da sopportarsi come tutte le altre con ispirituale pazienza. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La partenza vostra da Stresa ha lasciato, quasi direi, un vuoto nell' anima mia. L' uomo s' abitua alle cose dolci, ed io m' ero così abituato alla cara e pia vostra conversazione, benchè sì brevemente da me goduta, che ne ho sentito, ve n' assicuro, la mancanza. La consensione pienissima nei religiosi sentimenti è pur cosa soave e confortante, massime dopo che il Signore ha detto: [...OMISSIS...] . Io non cesso d' innalzare al nostro Padre quella stessa preghiera che gl' innalzate voi: « da quod iubes, et iube quod vis ». Oh volontà dolcissima del Signor nostro, nel cui solo compimento sta tutta la nostra beatitudine! Ella poi è tanto alta, di una sapienza e d' una bontà sì sproporzionata al vedere ed al sentir nostro, che non la possiamo nè raggiungere per acume d' intelletto, nè adempire per forza di volontà; sicchè non ci resta che di pregare colla faccia in terra che ella si manifesti a noi colla sua luce, e ci avvivi colla sua vita, e si compia in noi da sè medesima colla sua efficacia in noi trasfusa. Per questo dobbiamo essere in verità fanciulletti, come ci ha insegnato il Maestro nostro, e così entrare nel regno dei cieli, che è il regno degli umili che non hanno volontà propria, ma la cui volontà è quella di Dio. In questa nostra nullità possiamo bene sperare contra speranza; giacchè la grandezza di Dio si manifesta e spiega in quelli che sono nulla; e la volontà sua si rivela e compie in quelli che hanno perduta la volontà propria, perchè non saprebbero più cosa volere, se non lo stesso voler di Dio. Io certo quando mi sento più infermo nel corpo e nell' anima, allora Iddio mi dona maggior fiducia, veggendo io che egli ha qui un' occasione maggiore dove spiegare la magnificenza della sua carità. E parmi che allora appunto quando siamo e ci sentiamo più infermi, dobbiamo dimandar cose più grandi ancora, giacchè è infinito il Signore a cui le dimandiamo, e le nostre miserie non gli possono metter limite, ma anzi dilatano i limiti della sua gloria. Teniamoci adunque pur certi, mio caro signore, che seguitando noi a dire quel FIAT, FIAT VOLUNTAS TUA, col desiderio che egli disponga di noi senza limiti , e facendo che sulla bilancia della nostra stima non pesino che i motivi della maggior perfezione morale nostra propria (il solo bene assoluto per noi), avverrà che la volontà divina sarà fatta in noi in un modo ancor più grande di quello che noi possiamo concepire, o che osiamo espressamente sperare. La santità, il desiderio della santità , tutto verrà dietro a questo: i disegni di Dio si compiranno: la legge di Dio ha una virtù nascosa: nella sua massima semplicità è infinitamente feconda: la Provvidenza è tutta rivolta in servigio di quelli, che nella legge di Dio volunt nimis , e in essa (non nei proprii disegni) ripongono tutta la loro speranza. La Chiesa non ha da sperar altro che dalla santità , a cui serve tutto. La parte dell' uomo consiste nello studio di emendare sè stesso e di ottenere la giustizia e la santità: Iddio dopo di ciò fa il resto, elegge quelli che egli si degna d' impiegare a vantaggio della sua Chiesa, li manda, li dirige, li assiste. Beati allora cotesti che non vanno da sè stessi, ma sono mandati! Sta dunque il tutto nel fare la dovuta stima della propria perfezione, e quivi trovare ogni fiducia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 La dolorosa nuova della perdita che abbiam fatto della sì buona, sì amabile, sì edificante contessa d' Auzer mi riuscì tanto più amara, quanto più improvvisa. Avevo bensì udito dal M. Gustavo, quando passò rapidamente di qui, che le era tornata la febbre, ma s' attribuiva a cagione affatto accidentale, e venivo già rassicurato che stava meglio. Ma il Signore aveva disposto altramente. Egli è buono anche quando ci castiga. Per altro parmi veramente di poter dire, che il padrone è venuto nel suo giardino e n' ha colto la frutta che n' ebbe trovata matura: egli ne volea imbandire la celeste sua mensa. Vero è che per noi che l' abbiamo conosciuta e l' abbiam trattata, e specialmente per le sue indivise sorelle, per tutti i suoi congiunti, a cui s' era resa tanto amabile, e da cui era tanto amata, egli è pur questo un acerbo distacco! Mia venerata signora, mi creda che nol capisco solo, ma l' esperimento nel fondo dell' anima. Nel tempo che io mi sono trattenuto in Torino, e fui gentilmente alloggiato in casa Cavour, io m' ebbi tante prove della bontà e purità di quell' anima, ne ricevetti tanto buono esempio, e mi trovai sì fattamente legato di stima ad essa per quella sua religiosa cordialità, per quel suo candore, per quell' avidità insaziabile di sentir parlare delle cose di Dio, per la rettitudine delle sue intenzioni, e in somma per la solida sua virtù; che l' annunzio che ella mi dà del gran passo che ha fatto la buona dama in lasciandoci quaggiù per sempre, mi trapassa il cuore, e mi fa troppo partecipare all' angoscia di lei, ed a quella della duchessa di Tonner e di tutta cotesta famiglia, di cui ella era divenuta per affetto sì cara parte. Se non che dando poi luogo alla riflessione, io ben mi accorgo che quegli stessi aurei pregi della defunta che ce la fanno tanto rincrescere e piangere, debbono esserci in pari tempo un gran lenimento al dolore e un' ampia fonte di spirituale consolazione. A quanti superstiti a cui muoiono i parenti, anche dopo esser giunti al colmo delle umane prosperità, manca poi questa solida ragione di conforto, senza la quale è ben piccola ogni altra! Ecco donde io credo che potremo, mia cara signora, attingere quella consolazione vera che Ella mi domanda nella sua lettera. Quanti motivi non abbiamo, per grazia di Dio, di credere che la sua amata sorella or si trovi in uno stato migliore di prima! Noi non la troviamo ora più in quella sua stanza, in quel suo letticciuolo, accanto al quale passavamo delle ore gradevoli: ma invece abbiamo motivo di contemplarla in Cielo. Sì, quella virtuosa ha già superato il gran passo, ha già compita questa faticosa navigazione piena di pericoli e ancor di naufragi, è pervenuta alla sponda, è entrata in porto. Ella ha portata seco la vera fede, di cui le aveva Iddio fatto dono conducendola alla Chiesa cattolica, caparra della sua predestinazione; ha portato seco una vita immacolata, è stata oltracciò lungamente provata e appurata nel crogiuolo delle tribolazioni. Quando l' oro è reso tutto puro e mondo dal fuoco, allora l' artefice lo riversa nello stampo e fonde una statua preziosa, ornamento al gabinetto del re. Così noi abbiamo troppo a sperare, che il Re celeste abbia già formato della nostra cara Contessa un bell' ornamento del suo Paradiso. Non lasciamoci ingannare dalla carne: il punto della morte è penoso, è vero; ma finalmente non è che un punto, e questo punto per la defunta è passato. Hanno pur troppo ragion di temere per dopo la morte coloro, che durante la vita non hanno amato il loro Creatore. Ma quelli che lo amarono, le anime buone e rette, come la nostra Contessa, quelle che visser di fede e di viva speranza nella divina misericordia, ah! per queste fortunate che è mai la morte? Un istante di merito, un sospiro prezioso; dopo il quale ogni patire è cessato per sempre, la salvezza è assicurata, il gaudio eterno incomincia, un gaudio perfetto, di cui non possiamo formarci un' idea adeguata, ma di cui però sappiamo che l' unire insieme colla nostra imaginazione tutti i piaceri e le soddisfazioni della vita presente, tutti gli onori e le grandezze, tutti i tesori, ogni cosa insomma desiderabile, non è ancora che formarcene in mente un' idea imperfettissima; vincendo la realtà di quello stato di gaudio quanti desiderii e quante brame sappia accendere in sè l' uman cuore. Allorquando adunque l' umanità nostra si sente oppressa nel suo dolore, concediamole pure il suo sfogo, mia veneratissima signora Marchesa; ma poscia ritiriamoci dentro noi stessi, e nell' anime nostre, dov' è stata infusa la fede col santo Battesimo, troveremo insieme con questo lume divino un grande sollievo, un immenso conforto. Oh come le cose cangian di aspetto al lume della fede! oh come questo lume di soprannatural verità tramuta i mali più intollerabili alla natura, in argomenti d' indicibil letizia! E nel vero, facciamo un po' tacere in noi questa cieca nostra natura, per contemplare in quella vece silenziosi al lume di santa fede, quale di presente dobbiamo noi sperare che sia la persona amata che piangiamo perduta. La vedremo noi forse pentita e dolente di aver abbandonata la terra? Anzi ella se ne chiama felicissima, benedice quel prezioso momento, nel quale lasciò questa valle di lacrime e ruppe quei ceppi della carne che le impedivano di goder pienamente il suo Dio, e nel quale uscì per sempre da ogni battaglia di spirito e da ogni sofferenza di corpo: ella ora guarda in giù ed ha compassione di noi, che ci vede ancor nell' esilio, e sorride alla nostra semplicità scorgendo che, compassionando lei felice, spargiamo lagrime amare e meniamo lamenti di tanto suo bene. Non rifiuta ella l' amor nostro, ma vorrebbe comunicarci un po' del suo; vorrebbe comunicarci di quel lume intellettivo, col quale ella apprezza tanto meglio di noi il vero valor delle cose: vorrebbe che noi potessimo uscir colla mente e col cuore dai limiti di questo mondo sensibile, e che sull' ali dello spirito salissimo sino a lei, infino alla sua gloria, infino al suo trionfo, e che colassù, invece di gemere oppressi dal dolore, godessimo insieme con lei del suo gaudio, del suo regno che è quello di Dio medesimo. Ecco quanto brama ora da noi la nostra buona dama, innalzata al grado di regina, e di regina celeste; perocchè tal grado sortono tutti in Paradiso gli eletti. Riprendiamo adunque salutarmente, mia venerata Marchesa, la nostra umana sensitività, dicendo a noi stessi: come sarebbe assai strano che una sorella piangesse l' altra sorella perchè la vede trascelta alle nozze di un re, così egli è assai più strano che noi piangiamo sull' avventurata sorte di un' anima che abbiamo ragione di credere eletta sposa di sua Divina Maestà. Egli è vero, che ci si farà innanzi eziandio il pensiero che, non ammettendosi nella reggia del Cielo niente che porti il minimo segno di terra, che serbi la minima macchia od adombramento, ed essendo pur tanto grande la umana infermità e fragilità, possiam dubitare che anco all' anime che ci paiono le più monde, uscite di questa vita rimanga tuttavia qualche imperfezioncella a rimondare nel purgatorio. La grande stima che noi portiamo ai cari defunti non ci renda adunque meno solleciti a suffragarne le anime con sagrifizi e preghiere, e da parte mia ho celebrato a tal fine questa mattina per la cara estinta, e le feci fare altri suffragi. Ma da una parte questi stessi suffragi che rilevano l' efficacia loro dal sangue di Cristo, il cui merito è infinito, debbono esserci nuovo motivo di consolazione, pensando che il buon Dio ci ha voluto dare anche questo soccorso, prova della tenerezza che egli ha per le sue inferme creature; dall' altra possiam riflettere che le anime sante del Purgatorio, benchè patiscano, patiscono però sì volentieri, che elle non vorrebbero mai accettare il partito di ritornare su questa terra, e sono veramente felici in isperanza, onorate dagli angeli perchè sante, piene di dignità perchè spose di Dio: la gloriosa loro destinazione è assicurata per sempre, non si tratta che d' un po' di ritardo posto al sospirato momento, in cui venga lo Sposo divino, e tutte belle e lucenti le introduca nel suo talamo, a' suoi amplessi. Entriamo adunque nei sentimenti di quella che noi amiamo e che a torto piangiamo; e ci si cangierà la scena; ci cadranno piuttosto lagrime di dolce letizia per la sua felicità che di dolore per la nostra solitudine. Sarà questa una prova che le daremo di vero amore, cioè d' un amore spirituale e sublime, e troppo a lei più caro di quello della natura; chè ella non desidera oggimai da noi, se non il nostro vero bene, e si rallegra solo in veggendoci fare atti di virtù, di rassegnazione, di fortezza, di uniformità perfetta al divino volere, di rendimento di grazie a Dio che in ogni cosa è buono egualmente, e che tutto dispone collo stesso amore infinito per noi. Che se noi oltracciò piglieremo questo avvenimento, sì grave al cuore di carne, come un' occasione dataci dal Signor nostro ed un avviso acciocchè ci disinganniamo vie più delle cose terrene, e ci innamoriamo delle celesti, ed a queste ci prepariamo; oh quanto renderemo contenta quella che ci ha preceduti nel gran viaggio! Ella altro non vuole da noi, altro non aspetta, altro non ci domanda: ed altro non domanda altresì per noi al celeste suo Sposo. Che se noi dopo di ciò, dopo tutti questi riflessi, sentiamo tuttavia quaggiù un vuoto difficile da riempirsi; se di quando in quando quasi senza accorgerci, cerchiamo col cuore e cogli occhi il noto volto, le care parole, la dolce consuetudine di Colei che ci fu tolta; se all' improvviso ella ci si affaccia alla mente come per dirci che non c' è più, che non la rivedremo mai più in questa vita; e se questo pensiero che ci restituisce di nuovo in vita Colei che è morta, per rapircerla subitamente, questa imaginazione che ci mette lì come ancora esistente e parlante quella con cui eravamo soliti di passare tante ore, per dissiparci un momento dopo crudelmente la cara illusione, se tutto questo ci stringe il cuore e ci manda agli occhi delle lagrime involontarie; e che per ciò? Non inquietiamoci punto; chè non sarà per questo meno perfetta la nostra rassegnazione, men piena la nostra conformità al divino volere. Fino che viviamo in terra, noi siamo pur troppo due esseri in uno: e questi due esseri, la carne e lo spirito, combattono insieme: ma la battaglia adduce la vittoria, e la vittoria reca alla corona. E` l' orazione, mia signora Marchesa, che ci conduce alla vittoria dello spirito; come è il tempo che medica le ferite profonde, di cui si risente la carne. Godo che il mio buon abate Molinari sia stato in Torino in questa occasione ed abbia potuto colle sue parole contribuire a consolare tante persone afflitte: egli ha un cuore dolcissimo ed è pieno di quella carità, che val meglio di ogni balsamo in tali occasioni. M' imagino anche il dolore del mio carissimo marchese Gustavo, rientrando massimamente in famiglia. Sono stato sfortunato quest' anno per non averlo potuto aver meco a Stresa qualche giorno, come avrei desiderato e m' avea fatto sperare. Ora dovendo io partire in sui primi di settembre per Bergamo, dove debbo dettare gli spirituali Esercizi a quel Clero; nè posso recarmi a Torino, nè posso sperare di rivederlo a Stresa quest' autunno; ben prevedendo che in ottobre egli farà la sua solita campagna. La prego, mia venerata signora Marchesa, di presentare i miei ossequi al signor Marchese, alla signora Marchesa madre, alla signora Duchessa ed ai suoi figliuoli; e di partecipar loro ad un tempo i sentimenti dell' umana mia condoglianza per la perdita fatta, e più ancora quelli della spirituale consolazione, co' quali ho procurato di attemperare, scrivendole la presente, il mio ad un tempo ed il suo dolore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ho ricevuto le vostre due lettere da Lione e da Londra, e ho ringraziato di cuore il Signore, e l' Angelo suo, che v' abbia sì felicemente condotto. Rispondo alla prima intorno a ciò che dite sulla facilità di ricevere all' Istituto. Vi posso assicurare che il desiderio di accrescere il numero dei nostri non mi muove a ricevere alcuno. Sono contentissimo del piccol numero che ci manda il Signore: vedo anche in questo la sua sapienza e bontà; l' adoro e ne giubilo. Vi spiegherò dunque le massime che io tengo in ciò, e che sono conformi a quelle delle nostre « Costituzioni ». Io distinguo fra il ricevere in Casa e il mandare avanti nei successivi gradi dell' Istituto quelli che abbiamo ricevuti. Quanto al ricevere semplicemente, ricevo tutti quelli che domandano e che mi lasciano qualche speranza di riuscimento. Questa speranza me la danno tutti quelli che nella prima prova dichiarano e promettono di intendere e praticare le cose contenute nelle « Massime » e nel « Memoriale della prima prova », senza ch' io abbia una ragione positiva da dover giudicare assai probabilmente il contrario. Le ragioni che mi muovono ad essere così facile nella prima ammissione sono le seguenti: 1 Temo assai di giudicare temerariamente de' miei fratelli, onde inclino sempre a presumere bene di essi, e, piuttosto di fare il contrario, mi espongo volontieri ad essere ingannato, a sostenere delle spese, a patire degli incomodi. Non mi sono mai pentito di aver operato così: questa condotta mi reca una gran pace e consolazione interiore: e il Signore non ha mai permesso che gl' inganni che mi sono stati fatti, avessero ree conseguenze. 2 Parmi questa una maniera di imitare la bontà di N. S. Gesù Cristo, il quale dice: « et venientem ad me non eiiciam foras »: parole che ci mettono davanti a questo proposito le Costituzioni, e che citano pure allo stesso proposito le più celebri regole de' santi Fondatori. E` vero, che molti vengono a noi coi piedi e non col cuore; ma non posso io giudicare che facciano così, fino che non ho delle prove positive. D' altra parte, io considero la venuta a noi d' un fedele di Cristo sotto due aspetti: come mandato acciocchè forse egli diventi un membro dell' Istituto, e come mandato acciocchè l' Istituto eserciti verso di lui la carità. Essendo tale lo spirito dell' Istituto ch' egli vuol accettare, purchè possa, tutte affatto le occasioni che gli presenta la Provvidenza d' esercitare la carità; anche questa, dico io, n' è una; accettiamo dunque questo fedele di Cristo, ed usiamogli intorno tutta la carità possibile del corpo e dell' anima. Il N. S. Gesù Cristo vedrà di buon occhio che noi facciamo così con colui; e l' Istituto non ne avrà da questo scapito, ma vantaggio di buone opere. Il fratello che venne a noi sentirà intanto la parola di Dio; e quand' anco egli non riesca nostro membro, egli porterà via quel seme che forse frutterà un giorno nel suo cuore. 3 Quanto l' Istituto è alieno dal cercar cosa alcuna di proprio moto, altrettanto egli si propone di esser attento e premuroso di non trascurar niente di quel bene che gli offre la divina bontà, andando incontro premurosamente alla Provvidenza divina, non risparmiandosi in nulla per secondarla. Or se io rimando un aspirante senza esser certo che gli manchi la vocazione, non m' espongo io a rifiutare forse un dono che mi voleva fare la divina bontà? Uno dei segni della Provvidenza è la domanda del prossimo. Dunque, se un mio fratello in Cristo mi domanda, e non ho ragioni positive in contrario, io debbo accoglierlo non solo, ma affaticarmi con pazienza e carità intorno a lui, e durar tanto in questa fatica fino che mi sono persuaso che egli non può riuscire membro dell' Istituto: allora solo io sono giustificato davanti a Dio, se lo licenzio; ed anzi debbo tosto licenziarlo. Ma se l' Istituto non fa tutto quello che può da parte sua con pazienza longanime per formare quell' aspirante, istruendolo, educandolo, provandolo, non deve sempre temere di essersi da sè stesso privato di un membro che Iddio gli volea forse dare, ma gliel volea dare a condizione che sel guadagnasse col merito delle fatiche, coll' orazione per lui fatta al trono della sua Maestà? Perocchè, stiamone certi, Iddio vuole, non che aspettiamo da lui le cose belle e fatte per intero, ma che ce le procacciamo coi nostri sudori, che egli è pronto a benedire, se li spandiamo con viva fiducia in lui solo. Niente, niente trascuriamo mai per indolenza da parte nostra: « particula boni doni non te praetereat », dice la sacra Scrittura. Queste massime vorrei io seguite con semplicità da ogni Superiore dell' Istituto che ha facoltà di accettare gli aspiranti: queste sono le massime delle Costituzioni. Resta a farne l' applicazione; e questa riesce diversa nelle circostanze diverse, restando le massime sempre le stesse. A ragione d' esempio egli è certo che un Superiore può avere maggior lume di Dio da conoscere prontamente chi è chiamato e chi non è; e in tal caso, avendo maggior lume, potrà anche non accettare o licenziare più prontamente gli aspiranti che giudica inetti. Ma i Superiori debbono diffidare in questo di sè stessi, non dando luogo a giudizi suggeriti dalla fantasia, che è la madre dei giudizi temerari; ed è più sicuro il procedere per via di ragioni intellettive e positive, ricorrendo anche al giudizio dei consultori, ai quali, appunto perchè ne sento il bisogno, io sempre, quando posso, ricorro. Un' altra varietà cade nell' applicazione delle dette massime, a cagione delle circostanze esterne. Se queste fanno sì che il ricevere gli aspiranti di riuscita dubbiosa sia di troppo gran peso e danno all' Istituto, come sarebbe in Inghilterra, dove mancano i mezzi di esercitare verso essi la carità temporale e spirituale, si deve certamente restringersi a ricevere i migliori e di vocazione più chiara. Aggiungasi ancora un' altra osservazione, che m' era scappata, su quello che voi dite intorno all' ingegno ed altre doti di cui bramereste forniti i nostri. Il vero scopo dell' Istituto, che non si deve mai perdere di vista, si è la santità. Tutto il resto dobbiamo riputarlo niente affatto; e dobbiamo avere speciale tenerezza per i nostri fratelli poveri, difettosi secondo la carne, e anche idioti. Vi assicuro che a me è tanto caro il più semplice e plebeo dei nostri fratelli, purchè sia buono e santo, quanto il più dotto, di nobil lignaggio ed avente splendide doti in faccia al mondo; ed anzi più quel primo, se ha più virtù, standomi in mente l' amore che portava Gesù Cristo ai poveri ed agli spregiati. Penso dunque che dobbiamo ricevere tutti gli uomini di buona volontà nell' Istituto. E` vero che quanto più i nostri compagni hanno ingegno ed altre doti anche esterne possono fare più del bene al prossimo, se sono buoni, e possano fare andar più avanti l' Istituto. Ma io mi contento che si faccia al prossimo tutto quel bene che si può, e che l' Istituto vada avanti come può. Accogliamo tutti i mezzi, tutte le doti, tutti i talenti che ci dà Iddio; non ne vogliamo di più, ma nello stesso tempo non ne rifiutiamo nessuno; e dopo raccolti questi talenti colla maggior cura perchè niuno ce ne cada di mano, traffichiamoli tutti colla maggior industria e fedeltà possibile. Tutti i talenti vengono buoni all' Istituto, anche i più piccoli e di minor conto, perchè l' Istituto non ricusa nessun' opera di carità. Chi non è buono da fare il predicatore, sarà buono da far l' infermiere; e chi non avrà destrezza di trattare un negozio o dottrina da comporre un libro, verrà utilissimo come maestro di scuola, foss' anco per insegnare l' abbiccì. Vengo ora al secondo punto, cioè alle massime che soglio tenere, quando si tratta di promuovere gli aspiranti a de' gradi ulteriori. Quanto mi sembra di dover facilitare in ricevere gli aspiranti, altrettanto stimo bene di essere rigoroso nel promoverli ai successivi gradi. Come non ricuso nessuno senza avere delle ragioni positive per rifiutarlo, così stimo essere assolutamente necessario di aver delle ragioni e prove positive che l' alunno abbia le qualità richieste al grado, prima di promuoverlo ad esso. Se l' alunno dà delle prove positive di non essere chiamato, non indugio un solo istante a licenziarlo, tosto che abbia potuto su quelle prove formare un giudizio prudente: se non mi dà prove positive nè per l' una parte nè per l' altra, porto pazienza, procurando che gli sia usata ogni carità d' istruzioni, d' eccitamenti, fino che possa aversi un ragionevole scioglimento della cosa. Abbiamo avuto persone in Casa per lungo tempo senza che neppure siano state ammesse al Noviziato. La trafila per cui devono passare i nostri è lunghissima, come sapete, vi ha tempo di conoscerli, e possono essere sempre licenziati. Così operando, parmi che non debbano seguire quelli sconci che voi temete; e quantunque s' abbiano degli incomodi e dei piccoli danni da questo procedere, conviene riflettere, che il volere evitare tutti gl' incomodi e i danni non è un buon principio, secondo la perfezione e semplicità evangelica; ma è un principio che ha dell' umano. Siamo pazienti e longanimi, e il nostro Signore ci proteggerà. Col dirvi questo, non intendo scusare tutto ciò che è stato fatto; ma unicamente esporvi le massime che generalmente parlando ho seguìto, e che potrò seguire più pienamente in progresso. Nei cominciamenti di un Istituto vi sono molte difficoltà che non si preveggono. Raccomandiamo adunque al Signore Iddio l' Istituto, e poi andiamo avanti semplicemente e con coraggio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Sentendo i vostri sentimenti, quali me li esprimete nella lettera vostra, e la fiducia che Iddio v' ispira al cuore di dovervi consecrare tutta a lui solo in servigio de' prossimi, io non dubito punto che siate chiamata, come dite, all' Istituto della Provvidenza. Queste Suore fanno appunto quello che vi proponete far voi, una rinunzia totale al mondo e ad ogni sua lusinga, un sacrifizio totale di se stesse, per servire Gesù Cristo, sposo delle anime loro, ne' prossimi, attendendo specialmente all' eterna salute di questi. Un' umiltà profonda, un' annegazione continua, una perfetta ubbidienza, una carità ardente, uno studio d' imitare in tutte le cose il divino loro Maestro: ecco a che si riducono le loro regole. Nessun' opera di carità è aliena dal loro Istituto: quella poi a cui attendono con più cura presentemente, si è l' educazione delle fanciulle povere e ricche, per le città e per le ville, dove la divina Provvidenza le vuole. Esse si compiacciono del titolo di povere serve delle serve dei poveri . Professano la povertà per imitare anche in questo Gesù Cristo, fanno i tre voti, da prima ogni anno (dopo il noviziato) e poscia di tre in tre anni, finalmente anche perpetui, se i Superiori lo permettono. Se questa adunque è la via a cui vi sentite chiamata, fatevi coraggio; chè non manca il Signore di aiutar sempre le anime, che lo scelgono per unico loro bene, signore, maestro, esempio e sposo. A lui alzate le vostre voci, domandategli la grazia di poter consumare il vostro sacrificio a imitazione sua sulla croce santissima della religione, confittavi co' tre chiodi de' sacri voti; e poi lasciate fare a lui: vi esaudirà certamente, vi aprirà la via soavemente, sarete consolata: ma quando? Questo egli solo lo sa: a voi appartiene solo il desiderare, il pregare, il sospirare notte e giorno verso lui con rassegnazione e tranquillità. Egli vi ha dato un buon padre terreno, che può anche farvi da padre spirituale. Qual grazia non è già questa! Aprite tutto il cuore con vostro padre. Appena che gli avrete date prove della vostra solida virtù; appena che si sarà convinto che non è il vostro un fervore passeggiero, ma una vera vocazione divina; son persuaso, che non avrete più bisogno della mia mediazione: egli da se stesso vi condurrà a me, ed io vi riceverò fra le povere serve e felici spose del Signore. Rassegnazione adunque e preparazione al gran passo. Conviene prepararvisi con tutta la maturità, la considerazione, l' orazione, il santo affetto, la pratica d' ogni virtù. Io so che lo farete, e perciò non dubito punto del buon esito: MARIA Santissima, a cui sono tanto devote le Suore della Provvidenza, v' accoglierà nella sua famiglia: la farò pregare anche a questo fine. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Noi dobbiamo guardarci assai di non far torto a quell' infinita bontà e misericordia di Dio, che vince gli ostacoli stessi che noi poniamo coi nostri mancamenti e peccati alle copiose sue grazie; quando noi facciamo due cose, cioè SPERIAMO e PREGHIAMO. Ah dolcissima speranza del mio Signore che niuno confonde! oh preghiera potentissima! Io non vorrei che vi lasciaste dall' inimico rinserrare mai il cuore, quando Iddio anzi vuole che lo dilatiamo, perocchè « viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum ». DILATAZIONE adunque di CUORE: ecco ciò che sopra ogni altra cosa vi raccomando. Noi siam cattivi, ma Iddio è INFINITAMENTE buono. Oh quanto poco si pensa a questa parola INFINITAMENTE! Se ci si pensasse, non cadrebbero a terra tutti i nostri timori? non ci terremmo sicuri della vittoria sopra tutti i nostri nemici? non diremmo: « si exurgat adversum me praelium, in hoc ego sperabo »? Non ci lasciamo adunque ingannare dall' inimico che tende talora a spargere la tristezza nei nostri cuori, angustiandoli col pretesto talora di compungerci dei nostri peccati. No, la compunzione nostra sia sempre congiunta ad una INFINITA SPERANZA; perchè questa è ragionevole, e perchè Dio la gusta dalle sue creature. Guai a confidare in noi stessi! ma quanto al nostro Dio non ci stanchiamo di dire: « In te Domine speravi, non confundar in aeternum », e di ringraziarlo: « Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me ». Chi spera è forte, chi spera può tutto; quest' è àncora immobile, quest' è arma invincibile. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.42 Ella m' onora colle sue domande più ch' io non merito. Non le direi certamente cosa ch' ella non sappia: e tuttavia per ubbidire a quanto m' ingiunge nella cara sua non tralascerò di accennarle, che a mio parere il maggior studio a cui dee applicarsi chi predica a' giovanetti, si è quello di far loro ben intendere la religione, che sol intesa è amabilissima per sè stessa. A tal uopo è più necessario che non si creda, che l' istruttore religioso studi assai prima di tutto per intenderla a fondo egli stesso: il che non è piccol affare trattandosi d' un sistema ampiissimo di dogmi misteriosi e di precetti sublimi. Forse quel volume che io ho stampato col titolo di « Catechetica », le potrà somministrare qualche concetto. Ma dovendo ella, come sento, spiegare il Vangelo, non potrà osservare un ordine di connessione nelle materie. In tal caso ogni ragionamento fa quasi un tutto da sè; e può egli solo esser chiarissimo e semplicissimo. La somma chiarezza e semplicità dello stile fa poi luogo all' affetto; e in niun esemplare si dee più guardare che nello stile del Vangelo. Poche idee alla volta, ma sublimi; pochi sentimenti, ma generosi. Oh quanto bene risponde a questi il cuore del giovanetto! Non ha bisogno che d' intendere la verità per amarla, che di vedere la virtù per eleggerla. Ma di solito la verità si copre di troppe vesti, e volendola troppo spiegare, s' oscura; la virtù poi si falsifica per troppe distinzioni umane, e la s' impiccolisce sperando così di renderla agevole. E pure l' animo innocente anela più tosto d' ergersi a volo, che di serpeggiare per terra. Se nel cuore d' un giovanetto si giunge a inserire un sentimento nobile ed elevato, la riuscita di lui può dirsi assicurata. E` dunque un errore quello di sdolcinare soverchiamente l' austerezza della virtù, e di abbassarne l' altezza: privata della sua eccellenza non più esige un santo entusiasmo; spoglia della sua maestà non riscuote più ammirazione, nè attira a sè l' uomo creato per l' infinito. Io vorrei che si parlasse ai giovanetti sempre in modo come si trattasse di farne degli eroi. Con questo pensiero non ha a far niente lo stile gonfio, ampolloso, concitato: anzi un tale stile produce l' effetto contrario. Il grande e lo squisito dee consistere nelle cose; del resto la dote precipua delle parole e mai studiata abbastanza, nel caso nostro è la chiarezza: chiarezza di elocuzione, chiarezza di pensieri, chiarezza d' ordine. Il conseguimento d' una dote che par sì facile costa sudori, meditazioni, prove e riprove, pertinacia di tentativi: è uopo che s' abbia in testa il tipo della perfezione, e nell' animo la volontà risoluta di conseguirla. Cose scritte per la gioventù ve ne sono tante, e molte di buone; io difficilmente potrei indicargliene di quelle ch' ella non conosca; e conoscerà senza dubbio anche il libricciuolo intitolato « La gioventù dabbene » stampato dal Pogliani in Milano. Vi ha in que' sei discorsetti un cotal principio di ciò che io voglio dire, ma ancor lontano dal perfetto. Del resto, come le dicevo, io non ho a dirle che quelle cose che ella già sa, e che d' altra parte non si possono restringere in breve lettera. Presenti, la prego, i miei cordiali saluti a' Padri Villoresi e Dalla Via, e i miei ossequi al M. R. P. rettore di cotesto collegio; e mi raccomandi al Signore. Godo di sentire, che i due valorosi giovani Dandolo e Gazzola approfittano, e benchè non li conosca, ho già cominciato ad amarli sulle sue parole. [...OMISSIS...]

Epistolario ascetico Vol.III

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Niente vieta però che in occasione di dare l' istruzione religiosa, si vengano insinuando alcuni de' più necessari e principali principŒ d' una buona logica, quelli appunto che più sembrano opportuni a difesa della Fede, supplendo così alla mancanza della scuola di filosofia. E come questi principŒ di logica religiosa , dirò così, gioverebbero a formare le menti de' giovanetti, così non poco conferirebbe a formare il loro cuore il presentare loro quegli argomenti morali, che dimostrano la Religione nostra a un tempo che vera, bella altresì ed umana, ed utile fin anco alla vita presente. E qui l' insegnamento della storia greca, romana e patria, potrebbe maneggiarsi in modo che consuonasse all' insegnamento religioso e lo confermasse, se il professore di storia non dimenticasse mai di fare il confronto fra i vizi e le miserie delle società pagane, e la virtù e la grandezza delle società cristiane; se moralizzando con opportuni e brevi cenni, s' adoperasse ad imprimere nelle menti giovanili qual sia la vera misura, onde si dee giudicare le azioni degli uomini illustri, quanta vanità si nasconda spesso nelle clamorose loro virtù, e come la grandezza e la celebrità umana non sia che una deploranda illusione, e però non quella a cui il vero virtuoso, il vero grande debba rivolgere i suoi desiderŒ e i suoi sforzi. Anche le belle lettere possono non poco giovare a rendere sana la mente e religioso il cuore, se si fa ben conoscere come elle sono belle e lodevoli solo allora che servono a mettere il vizio in orrore agli uomini, in amore ogni vera virtù. Queste cose spianano la via e dispongono l' anima alla impressione che debbono poi farvi le massime eterne, e specialmente quella, come Ella ben dice, de' giudizi spaventevoli di Dio, e dell' inferno. E a ribadire queste in mente con frutto, gioverà assaissimo l' avere persone atte a dare gli esercizi spirituali con efficacia e degli ottimi confessori. I fatti e gli esempi hanno potere grandissimo sull' animo della gioventù; e poichè Ella brama che Le additi qualche autore che ne contenga, mi sembrano commendevoli le opere dell' abate Carron, che, se non erro, ha anche una raccolta di vite di virtuosi militari. Ella mi dimanda in fine della sua pregiatissima qualche cenno sul modo di educare la numerosa gioventù affidatale dalla Provvidenza, e benchè le angustie di una lettera non permettano di dire delle mille cose l' una, tuttavia per esserle ubbidiente Le dirò parermi ottimo mezzo di educare quello che alla dolcezza congiunge la fermezza e una somma ragionevolezza ; sicchè il giovane debba sempre, almeno nel suo interno, essere persuaso, che l' educatore ha ragione sempre in tutti i punti, ed egli ha sempre il torto: cosa difficile a conseguirsi, poichè richiede somma prudenza in ogni passo, e perfetta coerenza e uguaglianza in tutto ciò che si opera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Rimanendomi un pocolino di tempo libero fra le occupazioni di questi santi esercizi, voglio scrivere a voi per certa cosa che mi diè noia nell' ultimo fascicolo dell' Amico Cattolico , a voi dico che ben so essere un devoto fervente della Madonna Santissima, che l' avete non solo per madre, come l' abbiamo tutti, ma quasi anche per compatriotta. Or come avete lasciato correre nel detto fascicolo, senza almen farne lamento, che Maria giunta a Betlemme fu sorpresa dai dolori del parto? Non vi offende, non vi strazia orribilmente gli orecchi una tale espressione? Ve ne può essere alcun' altra che sia cotanto, per dir poco, piarum aurium offensiva? La Madonna avere sofferto dolori nel parto del Salvatore? La Vergine che si fa madre di Dio, soggetta alle miserie penali delle altre madri? Or dove avete trovata che sia fatta per Maria la legge, che fu solo intimata ad Eva peccatrice, « in dolore paries »? Non vedete che questa legge incomincia: « multiplicabo aerumnas tuas et conceptus tuos », e che perciò è legata, quasi direi, a quella cagione impura che fa moltiplicare alle altre donne le concezioni, cagione che non potè cadere in Colei che non fu sposa effettiva d' altri che di Dio, coniugio spirituale che nulla ha di carnale, nè madre d' altri che dell' Unigenito di Dio, maternità che non toglie punto la verginità? E non vedete che la medesima legge prosegue a dire: « et sub viri potestate eris, et ipse dominabitur tui (Gen, III, 16) », parole che esprimono di nuovo la cagione de' molteplici concepimenti delle altre donne? Ora Maria a qual mai uomo fu soggetta? Perocchè Giuseppe, giuridicamente suo sposo, la venerava, a non dubitarne, come la sua Signora, e non vedeva certo in essa la sua soggetta. A chi dunque fu soggetta veramente Maria, se non a Colui, di cui disse ella stessa: « Ecco l' ancella del Signore? »Onde se Giuseppe tenne in terra la dignità, se così si vuole, di capo di casa, egli non sostenea tanto ufficio se non considerandosi come un mero vicario o rappresentante dello Sposo celeste, a cui aveva ben di cuore la sua sposa ceduta e tutta sacrata. Tant' è lungi adunque che Maria Santissima possa aver provato alcun dolore in depor al mondo il Sole della giustizia, che anzi io tengo (e credo che voi pure lo terrete meco, perocchè io lo tengo con autorità venerande e con tutti i devoti della gran Vergine) che, allorquando fu compiuto il tempo in cui dovette nascere il Redentore, ella dovette essere sorpresa da gaudio indicibile, da gioie celesti, da rapimento ed estasi amorosa così sublime, che non può da uomo alcuno concepirsi, e che le diede un cotal saggio della superna felicità. No, mio caro, non è da lasciarsi passare una frase caduta, son certo, dalla penna dell' illustre scrittore per mera inavvertenza, ma che stride tuttavia e lacera gli orecchi cristiani; non è da lasciarsi passare, io dico, senza qualche emendazione, ed io prego voi di procurarla questa emendazione a vantaggio de' comuni lettori, ne prego voi per l' amore che voi portate a Maria. Io per me non solo veggo che la divina Scrittura favella sempre in modo da rimuovere da Maria ogni pensiero d' infermità materna, ma ce la mostra divenire madre senz' aiuto di altra persona, e tosto dopo messo al mondo il suo Portato, ella stessa, non usando già dell' opera di Giuseppe, involgerlo ne' poveri pannicelli e colle proprie mani nel presepio acconciarlo, siccome suol fare non già una persona addolorata e ammalata, ma sana e lesta. « Et peperit Filium suum primogenitum, et pannis eum involvit, et reclinavit eum in praesepio (Luc. II, 7) », volle fare tutto da sè. E pure qual dubbio, se avesse avuto bisogno in sì dolce ufficio di alcun aiuto, che Giuseppe non si sarebbe mosso a soccorrerla? Ma che? Non vedete voi in quella vece il buon Giuseppe, che in un angolo della grotticella si sta in silenzio adorando e contemplando il gran mistero, senza pur osare di fare un passo innanzi ed offerir l' opera sua alla sua dolce regina, la quale da sua parte non cede a nessuno de' mortali, non divide con nessuno le materne sollecitudini a cui ella sola, come sola genitrice in terra, ha tutto il diritto? E per darvi maggior prova di quel parlare vigilantissimo della divina Scrittura, tutto ad onor di MARIA, io vo' che facciate un' altra osservazione, e non è l' unica che potrei farvi. Vedete quel luogo dell' Esodo (Cap. XIII) dove Iddio promulga la legge dei primogeniti serbati al sacrificio, e prescrive che il primogenito dell' uomo si riscatti a prezzo. Or bene che ne dite di quella frase: « sanctifica mihi omne primogenitum quod aperit vulvam »? E perchè non si contenta la legge di dire « omne primogenitum », senz' altro aggiungere? Non era chiaro abbastanza? Voi mi direte forse, che la spiegazione che vi si aggiunge è tutta conforme all' indole delle lingue orientali. Ma posciachè le stesse lingue orientali furono ordinate dalla Provvidenza e scelte ad esprimere gli oracoli della divina rivelazione, io non mi trattengo dal dire, che quella frase orientale ed ebraica fu eletta non a caso da Dio, come acconcissima ad esprimere ciò appunto che Dio voleva, fu eletta cioè a limitare quella legge per modo, che ella avesse sì vigore per tutte le madri, venendone nel tempo stesso eccettuata la Madre di Dio, MARIA. E quale espressione potea essere più acconcia a questo intento del divin Legislatore? Senza bisogno di aggiungere alcuna speciale eccezione, nella stessa lettera della legge è già l' eccezione contenuta, con un laconismo veramente legislatorio. Voi potete riscontrare la stessa circospezione di parlare, dove s' intima la legge della purificazione (Levit. XII), le cui espressioni tutte sono tali, che dichiarano quella legge non essere fatta se non per le femmine ordinarie, non già per colei, che senza aver conosciuto mai uomo divenne Madre e restò vergine intemerata. Non dunque da dolori, ma da gaudii ineffabili fu accompagnato il parto della Vergine, di quella che fu sempre « hortus conclusus, fons signatus »: parole registrate nella sacra Scrittura in onore della pura Sposa del Re della celeste Gerusalemme, a cui le applica la Chiesa, di quella per la quale passò il Verbo incarnato siccome raggio solare per cristallo purissimo, come uscì dal sepolcro senza infrangerne punto i suggelli, come penetrò dove erano raccolti gli Apostoli « ianuis clausis »; di quella finalmente che ad altro dolore forse non fu soggetta mai, se non a quello atrocissimo e tutto spirituale, tutto volontario, che le trafisse l' animo come spada, quando compatì il Figlio in croce, e la passione del Figlio fu riflettuta e rinnovata nell' anima della Madre. Io spero, anzi sono certo, che all' illustre e pio autore dell' articolo, dove è scorsa la frase che a me e a voi pure, son certo, mal suona, non possono dispiacere queste mie osservazioni, nè il desiderio che vi manifesto che quella frase sia emendata. Il suo scritto, tacendo del merito dello stile e della erudizione, è pieno di affetto per MARIA, ed io credo che a lui stesso gradir dovrebbe l' udire cosa, da lui forse non saputa, che tanto torna ad onore di quella Eroina che egli descrive e quasi dipinge con sì bei colori di sua eloquenza e di sua divozione. D' altra parte il non essere egli ecclesiastico lo scusa appieno dell' inavvertenza che può benissimo scorrere dalla penna anche di noi ecclesiastici. Laonde, se a voi non gradisse di mandare qualche vostra noticella ai direttori del giornale, io non ho minima difficoltà di permettervi, che li preghiate d' inserire nel prossimo fascicolo la presente mia lettera. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Per esser breve, e soddisfare alle sue diverse interrogazioni, soggiungerò alle sue dimande la risposta: D. Qual autore reputa migliore per dare gli spirituali esercizi? R. S. Ignazio. Sulle tracce di S. Ignazio io misi insieme il libro intitolato: « Manuale dell' esercitatore », che ella potrà vedere nel volume pubblicato col titolo di « Ascetica ». D. Giovano gli esercizi una sola volta all' anno o più? R. In via ordinaria non più d' una volta all' anno; ma se si tratta d' un semplice ritiro di qualche giorno, può giovare assai replicando questo breve e pio ritiro. D. Qual regola particolare mi proporrebbe per mantenere la gioventù nella santa castità? R. Già le regole che danno i maestri di spirito sono eccellenti, nè di altre particolari ne avrei. Pure stimo che l' infondere un pensare elevato, nobile, spirituale, generoso, e insistere sulla purità d' intenzione in tutte le cose che si fanno, e sul buon uso del tempo, giovi più che non si creda all' intento. D. E` meglio reggere i giovani con mite governo o con severità? R. Il mite ragionevol governo, unito alla fermezza dee essere l' ordinario; il rigore dee usarsi come le medicine ne' casi rari e straordinari. D. Qual governo è preferibile nel reggere le comunità religiose, dove sia taluno poco inclinato alla pietà, all' ubbidienza, all' osservanza delle regole? R. E` preferibile quel governo che: 1 Convinca i sudditi che il superiore non opera che per puro amore del loro vero bene, senza alcun puntiglio, nè fine secondario, e con grande umiltà; 2 Che illumini i sudditi, predicando e inculcando assiduamente le verità evangeliche, e dando loro buon esempio; 3 Che dimostri nel superiore un giudizio sicuro e ben maturo, onde egli non parli che cose vere e ben fondate, non interpreti male i fatti, e molto meno le intenzioni, ecc. giovando più una correzione, quando non lascia luogo a scusa, che frequenti correzioni contro le quali il corretto possa concepire scuse plausibili; 4 Che sia fermo nel mantenere la disciplina, ma senza irritazione; e dove la disciplina è rilasciata, cominci ad essere inflessibile sopra alcuni punti essenziali, e di mano in mano diventi rigoroso sopra un numero maggiore di punti disciplinari; 5 Che sia coerente a sè stesso, sempre uguale, con un fine costante in tutte le disposizioni, non si contraddica mai, nè un giorno si mostri debole, dopo che nel precedente si è dimostrato forte; 6 Che sia vigilantissimo, sappia tutto senza mostrar curiosità, accompagni i suoi sudditi co' suoi sguardi in tutti i loro passi, non gli esponga a tentazioni sopra le loro forze, e rimuova da essi i pericoli di dissipazione; 7 Che sia concorde, cioè che i diversi Superiori maggiori o minori abbiano lo stesso spirito ed unità di governo, e l' uno sostenga l' autorità dell' altro nelle cose giuste; . Che sia penetrante, cioè atto ad intendere gli uomini ed i caratteri diversi, e ad ovviare i disordini nei loro principii, facendosi gran conto delle piccole cose, quando queste possono essere seme di maggiori; 9 Che a queste regole del governo ordinario, aggiunga delle scosse straordinarie quando v' è il bisogno; gli esercizi spirituali fatti con tutto il rigore delle regole di S. Ignazio, e dati da un sant' uomo che abbia la discrezione degli spiriti, possono rinnovare lo spirito in un religioso rilassato. D. A mantenere il buono spirito come si fa? R. Presenza continua di Dio, orazione assidua, purità d' intenzione in tutte le opere, occupazioni continue di carità, ecco dei mezzi sicuri da mantenere e crescere lo spirito. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.44 Il P. Provinciale Pagani mi rimise da Roma la lettera che gli avete scritto in data del 23 settembre p. p., e con molta soddisfazione intesi i sentimenti in essa contenuti. Sopra tutto approvo la riflessione che voi fate sull' universalità della carità. Questa è la divisa di Cristo, de' suoi discepoli, della Chiesa, e perciò è anche quella dell' Istituto della Carità. Le nostre Costituzioni prescrivono di seguire in tutto la nostra santa Madre, la Chiesa Romana, anche negli esterni riti e cerimonie, perchè la santa Chiesa Romana ha missione da Cristo di regolare e fissare la disciplina della Chiesa universale; la quale non potrebbe essere universale se non avesse unità, di cui Roma è centro. Se si trattasse di sapere quali sono le più belle vesti e i più bei parati di Chiesa, si potrebbe sostenere che i gotici vincono tutti gli altri in maestà religiosa. Ella sarebbe una questione di gusto, e come i gusti sono diversi, così a certi uomini piacerebbe una forma, a certi altri un' altra, e la uniformità non si potrebbe giammai ottenere: i vestiti e i riti varierebbero in ogni chiesa di una nazione stessa e dello stesso tempo. Volendo seguire questo sistema, si finirebbe con introdurre i capricci della moda nella Chiesa di Dio. Dunque la scelta de' sacri parati non dee essere una questione di gusto, nè può decidersi da chicchessia. E` questione d' istituzione ecclesiastica: gli abiti sacri non possono essere variati, se non da quell' autorità che gli ha istituiti o approvati. Solo in tal modo si può ottenere l' uniformità degli abiti sacri e delle cerimonie, che è un' espressione visibile dell' universalità e dell' unità della Chiesa di Gesù Cristo. Dicendo a voi queste cose, non intendo già di comandarvi che vi opponiate con forza all' inclinazione che si manifesta in cotesto Distretto medio pe' paramenti sacri di stile gotico; rimetto la cosa alla vostra prudenza. Se tutti i nostri Superiori si terranno passivi ed indifferenti, la cosa non andrà molto avanti. Raccomando bensì di predicare opportunamente a tutti i nostri: 1 che la carità di Cristo è universale, ed esclude qualsivoglia egoismo, specialmente il nazionale; 2 che la Chiesa Cattolica è universale come la carità; 3 che la Chiesa universale è fondata nella unità della S. Sede Romana; 4 che gli uomini all' opposto tendono sempre a restringere l' universalità e a spezzare la unità; 5 che l' Istituto nostro, che trae il nome dalla carità di Cristo, dee opporsi alla tendenza degli uomini, e promuovere la causa dell' universalità e dell' unità della Chiesa, coll' universalità della carità. Questa dottrina dolcemente insinuata nelle menti produrrà i frutti desiderati a opportuna stagione. [...OMISSIS...] 1.44 Se ha qualche cosetta da sofferire per amor di Dio, va bene che se ne rallegri, pensando nello stesso tempo a tanti che sofferiranno più di lei. M' è parso sempre un buon pensiero quel di riflettere a chi patisce in ogni momento nelle diverse parti del mondo. Quanti lottano colle agonie della morte, anche violenta! quanti combattono colle più fiere tentazioni! quanti sono martoriati da pene interiori! Noi non conosciamo distintamente quelli che in tante diverse maniere sono angosciati, ma basta anche solo conoscere un po' in generale quanto passa continuamente in questa valle di lagrime, per poter raccogliere che il Signore tratta noi assai dolcemente al paragone, ed essergli grati anche di questo. Supponendo che ella brami che le dica alcuna cosa sui punti della relazione comunicatami, non dubito di farlo colla presente. Sul punto del chiamarsi vittima , Le ho già scritto; e da quello che le ho scritto Ella avrà già inferito, quanto sarei ora per dirle, cioè che io non consiglierei mai ad una società religiosa di pigliare il titolo di vittime del sacro cuore di Gesù , perchè troppo pomposo; giacchè non v' ha cosa nè più grande, nè più onorifica che di essere vittime dell' amor divino. La vittima dell' amor divino è più che santa, è giunta all' apice della perfezione, alla quale non si giugne propriamente che in cielo, dove quelli destinati da Dio ad essere sue vere vittime avranno compito il loro sacrifizio. Ora come nessuno quaggiù in terra può sapere di essere santo, senza un' espressa rivelazione, così molto meno niuno può sapere d' essere vittima, nè dee riputarsi tale, ma solo desiderare di essere. D' altro lato tutto ciò che appartiene alla santità si dee procurare di nasconderlo agli occhi degli uomini: onde come mai tutte le religiose d' una congregazione potrebbero da sè stesse pubblicare che sono vittime del santo amore, e pretendere che gli uomini le chiamino con un titolo così magnifico? Queste buone religiose, imponendo a se stesse una tale denominazione, si canonizzano da sè stesse, mentre per essere canonizzate converrebbe prima che morissero, e poi facessero di que' miracoli solenni e pubblici, sui quali solo la Chiesa istituisce il processo della canonizzazione. Di più, gli uomini non potrebbero in coscienza dare loro un tal titolo, senza esporsi a mentire; perocchè quantunque le religiose fossero persuase di meritare tanto onore, tuttavia, non consterebbe della verità della loro persuasione agli altri uomini, se pur loro non rivelasse Iddio espressamente che tutte quelle religiose sono destinate da lui vittime da immolarsi sull' altare dell' amor suo. Fino dunque che noi viviamo quaggiù in terra pensiamo pure ad amare Iddio, e a divenire vittime del suo amore, domandandone ed aspettandone da lui la grazia; ma non pensiamo a chiamarci con sì bel nome, e molto meno a volere essere così chiamati da tutto il mondo. Se ella si compiacerà di riflettere tranquillamente su tutto ciò, s' accorgerà facilmente che, quanto al titolo di Vittime del sacro cuore da darsi alla istituzione alla quale le parve essere chiamata, altro non può essere stato che un gioco della sua fantasia. Spero che ella abbraccierà questo mio ingenuo sentimento, e l' abbracciarlo le riuscirà di profitto. Non cesserà già per questo di fare il più gran bene ch' ella possa al prossimo, secondo le occasioni che le verranno offerte dalla divina Provvidenza, perchè non v' ha niente di più caro al nostro Signor Gesù Cristo che l' amare ed il fare del bene al prossimo, e specialmente alle anime: l' amor del prossimo è il più sicuro segno e il più bell' esercizio dell' amor di Dio. Dopo di ciò ella mi domanda consiglio intorno alle letture che mi sembrassero a lei più convenienti, e glielo darò in breve. Nessun autore di mistica, nè pure le opere tanto pregevoli di Santa Teresa. Tutto ciò che dicono gli autori, che trattano degli stati d' orazione e delle divine operazioni nell' interno dell' anima, può essere utilmente studiato dai direttori per altrui direzione; ma è di poco profitto, di grande imbarazzo, di difficile intelligenza, ed anche di pericolo alle anime che quelle dottrine vogliono applicare a sè stesse. Il mio e suo S. Francesco raccomandava oltremodo la semplicità in trattando con Dio e cogli uomini, e v' ha gran pericolo di perderla avvolgendosi nelle sottigliezze della mistica. Egli è assai meglio amare, contemplare, pregare il Signore col menomo possibile ritorno sopra di sè stessi, su ciò che avviene nell' anima nostra, o che fa l' anima nostra. Il nostro bene è fuori di noi, è Dio in sè stesso e nel prossimo. Giova dunque pensare a Dio e non a noi stessi; cercare lui specialmente ne' prossimi, e non assottigliarci per misurare i passi nostri, con cui l' andiamo cercando. Esclusi i mistici, a lei sono già noti i più sicuri ascetici e non dubito che ne sia riccamente fornita. Mi restringerò adunque a darle un sol consiglio, quello di leggere abitualmente il « Nuovo Testamento », specialmente le proprie parole di nostro Signor Gesù Cristo, che hanno una soavità e forza infinita, sono adattate ai dotti ed agli indotti, rendono un sapor celeste, prestano un alimento divino, sono della più esatta verità, senza che nessun pensiero umano vi si intrometta, e d' una inesauribile sapienza. Le proprie parole di Gesù Cristo , ecco il cibo a lei adattato, e adattato a noi tutti. Le altre parti del Nuovo Testamento, oltre i Vangeli, servono a intendere meglio le parole di Cristo. Potrebbe anco ricorrere ad alcuni libri dell' Antico Testamento e specialmente ai Salmi, ai libri Sapienziali, a Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, e al Deuteronomio, procurando di ridurre questi libri a Gesù Cristo ed al suo amore: perchè a Cristo veramente tutti si riferiscono: tutti ben intesi lo annunziano e lo celebrano venturo: e insomma alle parole di Cristo Gesù convien sempre ritornare col pensiero, e abitare e riposare in esse con tutta l' anima. In queste parole s' impara massimamente il precetto tutto proprio di Cristo, e nuovo nella sua bocca divina, quello dell' amor del prossimo. A questo gioverà infinitamente, per dirlo di nuovo, ch' ella diriga le principali sue cure e meditazioni. Spero ch' ella mi scuserà, se mi diffondo più del bisogno, e vorrà riconoscere anche in questo, che altro non mi muove che quella carità del Signor nostro in cui ritrovo contenuto ogni bene. Credo però d' avere ora soddisfatto alle sue domande. Resta ch' ella mi compatisca e mi continui quel soccorso d' orazioni, che considero come abbondantissimo conpenso a questa leggera e dolce fatica. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Presumendo il suo permesso, ho confidato a un mio compagno, il sacerdote Pagani, il progetto inviatomi della pia unione, e meco conviene nel riconoscere che l' atto, con cui un cristiano offerisce sè stesso, la propria vita, il proprio sangue a Dio, insieme col sangue e colla vita di Cristo, e coi patimenti di Maria, è il più bello ed eccellente che si possa fare; e però approva in sostanza, che si promuova questa divozione, eccitando i fedeli a praticarla. Ma perchè è molto ardua a farsi con sincerità (cosa importantissima se deve essere buona ed utile), perciò gli sembra da tenersi piuttosto fra pochi, che da propagarsi fra molti, con pericolo che diventi una comune e languida formalità, com' è accaduto ad altre divozioni per sè stesse ottime. Egli anche suggerisce che il titolo della pia unione sia più breve e più semplice; che l' offerta che si stabilisce venga recitata tre volte al giorno dagli ascritti, o almeno una, e che, lasciate le altre regole, all' offerta sussegua il modo di praticarla o, per dir meglio, i sentimenti e gli affetti da cui essa deve essere accompagnata quando si recita; acciocchè essa sia recitata bene, con sincerità d' affetto e cognizione di ciò che importa l' offerire sè stesso al Signore. Che se si volessero aggiungere delle piccole meditazioni o riflessioni sul sangue sparso da Gesù Cristo, sul Sacro Cuore, e sui patimenti di Maria, dove gli stessi sentimenti contenuti nell' offerta venissero più ampiamente esposti in forma di soliloquio, per chi ha comodità di usarne, anche questo potrebbe riuscir vantaggioso. Gesù la ricolmi dell' amor suo; e penso che ciò Le basti. Non cessi di pregare per me e pei sommi bisogni miei propri e di quelli che meco insieme servono il Signore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Restituisco i manoscritti favoritimi, pieni di fervorosi sentimenti, pei quali ho lodato il Signore da cui provengono. Avendomeli Essa mandati per ubbidire al suo Direttore, il quale pure mi prega di dire il mio parere sulle cose in essi contenute, riconoscendo prima di tutto la mia poca perizia, glielo esporrò con tutta la dovuta sincerità. In generale non dubito punto dire, che Ella si trova, per misericordia del Signore, in sulla buona via, per la quale non è a pensare altro se non che a tirare avanti con prudenza e semplicità. Non disapprovo adunque che continui a scrivere quanto passa nell' anima sua, per sua propria edificazione, e per informazione di quelli che la debbono guidare nel suo cammino. In particolare non feci che poche osservazioni e sono queste: La prima, che per altro calcolo poco o nulla, riguarda certe espressioni colle quali Ella sembra di credere che in certi stati, in cui Le avviene di trovarsi, le potenze del suo spirito sieno oziose: il che non è, mancando solo l' avvertenza delle loro operazioni, ed essendo l' oggetto, in cui sono occupate, generale, onde non ammette discorso e distinzioni. Ma, come dicevo, di questo non faccio caso, perchè ho veduto in altri passi che Ella viene poi a spiegarsi meglio, dicendo presso a poco altrettanto. La seconda è più importante, ed è, che mentre in descrivere certi sentimenti avuti si diffonde notabilmente, pare che mostri della ripugnanza ad esprimersi francamente ed interamente sopra certe altre cose più necessarie a sapersi per chi la deve guidare, e questi sono massimamente tutti quei luoghi, nei quali tocca, sembrarle che Iddio voglia da Lei qualche impresa misteriosa da compirsi fuori del suo Monastero. Fino a tanto che si tratta di opere buone, specialmente riguardanti la carità del prossimo, da farsi restando Ella nel luogo dove Iddio l' ha collocata, converrà esaminare le cose per minuto, ma poi non ci sarà forse difficoltà. Ma non così la penso, se si trattasse di dovere uscire dal luogo, in cui ora felicemente si trova: perocchè, già per questo solo, la cosa dovrebbe tenersi per sospetta, fino a tanto che Iddio non desse delle prove palmari della sua volontà, per esempio, che il Papa gliel' ordinasse; il che non è per ora verosimile. Su di questa materia dunque trovo necessario che Ella ponga ogni cura ad esprimere e manifestare distintamente ciò che passa nell' anima sua, essendo il punto più importante per chi la deve dirigere; a meno che Ella deponesse ogni pensiero di ciò, e la cosa finisse così. La terza osservazione si riferisce alla stessa materia, e mi si presenta forse dal mio non bene intendere il suo pensiero. Quando Ella parla delle vittime che vuole il Signore, parmi che Ella intenda di essere chiamata a fondare un monastero o una società di queste vittime. Ma converrebbe distinguere più cose. Egli è certo, che Iddio ha mandato il suo Verbo a incarnarsi ed immolarsi vittima pei nostri peccati. E` certo ancora, che la missione di Gesù Cristo è appunto questa di fare, che i suoi seguaci diventino simili a lui, vittime immolate sull' altare del divino amore. « « Io sono venuto a portare il fuoco in terra » », Egli disse, e il fuoco è quello che deve incenerire l' olocausto. « « Chi vuol venire dietro di me prenda la sua Croce » », e la croce è il supplicio dove Cristo è morto, e dove i suoi seguaci debbono pure morire. « « Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi » » e anche questo, perchè Gesù Cristo voleva dai suoi discepoli il sacrificio di se stessi. S. Paolo vuole, che i Cristiani sieno morti e sepolti con Cristo; e di sè dice, che era crocifisso al mondo, come il mondo a lui. Insomma le Scritture sono piene di questo sentimento, e Iddio ebbe sempre ed ha le sue vittime. Tali furono prima i Santi Martiri, e poi tutti i Santi Confessori, che morirono col cuore a se stessi, e non vissero e non operarono che per Cristo. Questa immolazione adunque di tutto l' uomo in onore del Creatore è il fine della missione di Gesù Cristo e della stessa creazione dell' universo. Felici quelle anime, che possono essere vere vittime bruciate dal fuoco di Cristo e condite del suo sale! Il predicare questa dottrina è cosa santissima, perchè è la dottrina stessa di tutto il Vangelo. Ma dopo di ciò, sarebbe un' altra ricerca da farsi quella « se si potesse fare una vera società di tali vittime ». Primieramente le vittime di Cristo ben sovente non sanno di essere tali: perchè chi può conoscere i secreti del proprio cuore, e sapere con sicurezza, che ci abbia nel fondo, dove non vede che l' occhio di Dio! Di poi, le vittime di Gesù Cristo non soffrirebbero di essere chiamate con questo nome, come appunto i celebri martiri di Lione non soffrivano d' essere chiamati martiri, benchè avessero sofferto moltissimo per Gesù Cristo, perchè dicevano: « non siamo ancor morti, il nostro martirio non è ancor consumato ». In terzo luogo, per formare una società di vittime, converrebbe conoscerle, ma Iddio solo conosce le sue vere vittime, e se l' uomo volesse giudicarle tali, prima di vederle coronate in cielo, andrebbe a rischio di raccogliere degli armenti, che, venuto il tempo dell' immolazione, gli sfuggirebbero dall' altare. In quarto luogo le società religiose hanno per iscopo di prendere gli uomini imperfetti e di aiutarli acciocchè, colla divina grazia, tendano alla perfezione; ma le vittime sono già perfette, non hanno bisogno di essere associate, e nè pure di conoscersi come tali. In quinto luogo, le vittime non si fanno tali se non con quell' ultimo atto di perfezione, col quale immolano se stesse; e quest' atto è l' opera di Dio; onde nessuno al mondo per quanto predicasse, eccitasse al bene o somministrasse i mezzi, che egli può al bene, potrebbe fare una vittima sola: e perciò una società, che s' incaricasse di formare delle vittime usurperebbe l' opera di Dio. Non è dunque possibile, a mio parere, istituire una società con questo titolo che agli uomini spirituali parrebbe ambizioso, ed al mondo, pur troppo, ridicolo. Che cosa adunque sarebbe possibile di fare? Quello stesso che hanno sempre fatto i santi fondatori delle religioni; unire delle persone che aspirano alla perfezione, e dare loro tutti i mezzi al perfezionarsi coll' orazione, colla mortificazione, colla povertà, colla solitudine ecc., eccitarli quanto è possibile al fervore, a non volere che il piacere di Dio, a cercare il più perfetto in ogni cosa, a caricarsi specialmente di tutte le opere di carità verso il prossimo, e dare il proprio sangue in aiuto dei loro prossimi: e in questi ministeri verso i prossimi è appunto dove possono trovare numerose occasioni di fare il sacrificio di se stessi, come l' ha fatto Gesù Cristo per nostro amore e per nostra salvezza, adempiendo così il precetto di Gesù Cristo di amarci scambievolmente, ed adempiendolo con perfezione, cioè spendendovi la vita stessa. E in questi esercizi della carità del prossimo è dove più sicuramente si esercita e spiega la carità verso Dio, non potendovi essere illusione di sorta nel fare ogni bene possibile ai nostri prossimi con fatica, umiliazione, e patimento nostro proprio: purchè sopra tutto anche in tali esercizi abbiamo la guida dell' ubbidienza, che è l' interprete fedele del divino volere. « « Se ci amiamo scambievolmente, dice S. Giovanni, Iddio si tiene in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Figliuolini miei, non amiamo colla parola o colla lingua: ma coll' opera e colla verità dei fatti » ». Or poi se fra queste persone, che si propongono di fare in tutto la volontà sua, e di spendersi a vantaggio dei prossimi, Iddio si sceglierà delle vittime, egli sia benedetto e lodato in eterno: questo è quello che bramiamo e che da lui dimandiamo. Colle orazioni nostre dimandiamo pure dal Signore, che egli mandi il fuoco celeste anche sopra tutto il mondo, e ne riceva l' olocausto in odore di soavità. Da parte nostra, dopo avere fatto quello che possiamo, in lui speriamo, che avrà pietà dei nostri peccati, e in lui riposiamo. Quanto a noi dunque, offriamo pure noi stessi al suo amore, senza crederci perciò già divenuti sue vittime; offriamocegli nel modo, che le scrivevo in sulla fine dell' anno scorso. Eccitiamo anche i prossimi a sì bella offerta, ma senza ingerire loro nell' animo il pensiero di essere divenuti vere vittime; perocchè è da lasciare tutto ciò al Signore; e più tosto procuriamo che tutti si credano ben lontani da tant' altezza. Facciamo, come S. Ignazio martire che solamente quando udì il ruggito dei leoni che doveano divorarlo, pieno d' allegrezza disse: « « Ora incomincio ad essere discepolo di Cristo » ». Eccole, Molto Reverenda Madre, le mie osservazioni. Ora vengo ad informarla dello stato del libretto progettato, che dee contenere gli esercizi per l' offerta di se stessi . Il tempo destinato a questo piccolo lavoro nel passato autunno, mi fu tutto rubato da minuti affari e convenienze a cui la carità non permetteva che mi sottraessi. Sono però desideroso, se a Dio piace, di applicarmi a così dolce fatica: ma quando il potrò? Dio solo lo sa; ma per qualche mese vedo la cosa impossibile. Ella preghi che il Signore, mi dia i lumi, gli affetti, le parole necessarie, acciocchè possa essere utile alle anime. [...OMISSIS...] 1.45 Partecipe delle gentilezze del Conte e più ancora della Contessa Masino, non posso a meno di venire a solvere un doloroso uffizio con Lei, ottima signora Contessa, un uffizio della più sincera condoglianza in questa nuova tribolazione che il Signore Le ha mandato, privandola della più intima persona di sua famiglia che sola Le rimaneva. Il Signore è certo egualmente buono, egualmente saggio anche in questi momenti che colla prova del dolore purifica le anime a lui care, come in altri momenti in cui le ricolma di prosperità e le incoraggia colle consolazioni al suo più fedele servizio. Io so, che Ella piena di Fede, e nutrita delle profonde verità della nostra Religione santissima, consolatrice di tutti i mali, non ha bisogno de' miei conforti, e che sa vincere il dolore della natura coll' altezza dell' animo rassegnato e costante. Anzi mi imagino che, avendo Ella conosciuto intimamente la bontà del cuore e le beneficenze del Conte Masino, a cui non mancarono, come mi fu scritto da Torino, nè pure nell' ultima malattia gli aiuti spirituali dei SS. Sacramenti, Ella raffrenerà la naturale afflizione colla ferma fiducia nella misericordia del Salvatore, che egli si trovi in un luogo assai migliore di questo misero mondo, che anche in mezzo alle illusioni che produce, pure si sente essere una terra d' esilio, un albergo di viaggiatori, o più tosto una mobile tenda nel deserto. E questi amari casi che ci fanno sentire vie più che questa non è la nostra patria, che non abbiamo quaggiù una città permanente, destano nelle anime buone come Lei, mia Signora Contessa, un indefinibile sentimento di speranza e un sospiro verso cose migliori e non periture, che ben dimostra quello che è stato detto ancora, che come in seno ai piaceri spunta la spina del dolore, così in seno ai dolori nasce pei veri Cristiani la rosa bella e fragrante della spirituale consolazione. E quel che è più, le disgrazie nostre temporali ci migliorano il cuore, ce lo fanno più umile, più dolce, più caritatevole, più distaccato ed anzi disgustato delle vanità. Onde il Signore che ama i suoi d' un amore perfetto, che ha per oggetto il loro miglioramento spirituale, permette che sieno così sbattuti, e si compiace di quel combattimento fra la natura e la grazia, in cui egli li vede valenti e trionfanti: ed anzi li fa tali egli stesso. Chi non ha più in terra le persone in cui riponeva i suoi legittimi affetti, questi ha più diritto di chiamare Iddio suo protettore, suo padre, suo sposo; chi è sciolto dai vincoli umani, benchè carissimi, questi ha acquistato una maggiore libertà di darsi a Dio e di consecrarsi a tutte le opere della carità e della pietà. Onde S. Paolo parlando della donna che non ha marito, dice che « pensa quelle cose che sono del Signore, ad essere santa di corpo e di spirito ». Certo che, essendo noi vestiti di corpo, quando ci viene rapita dai sensi nostri un' amata persona, non vedendola più, nè udendola parlare, nè potendo noi più parlare a Lei; ci sembra d' averla intieramente perduta. Ma quant' è più sublime il senso della Fede! Questa ci dice tutto il contrario, questa ci assicura che ciò che è perduto della cara persona è il meno, è un nulla in paragone di ciò che s' è conservato: la persona desiderata vive ancora, e non ha fatto che deporre la veste, una veste logora, sdruscita, già non più degna d' esser portata, e tuttavia questa veste non l' ha dismessa per sempre, ossia l' ha dismessa per cangiarla poscia in una nuova, magnifica, nuziale, che non prende più macchia, nè si lacera più, nè si corrode dalle tignuole, nè si consuma dal tempo, e che sempre nuova e bella rimane in eterno. Nè periscono gli affetti della persona resa invisibile ai nostri sguardi carnali, nè la memoria; ma ella pensa a noi ancora, e ci ama di più puro amore, ed è grata ai benefizi ricevuti nella pristina vita, ed è potente per rimeritarceli; perocchè ella sta vicina al trono della grazia e della misericordia. Ed è scambievole tuttavia il commercio degli affetti del cuore, perchè anche noi saliamo coll' ali del nostro spirito e della nostra fede fino a lei e, se ha bisogno ancora di noi, possiamo prestarle i più amorevoli e preziosi uffizi colle nostre orazioni ed opere buone; e, se non ne ha più bisogno, possiamo contemplarla colla speranza nostra nella sua altissima felicità e gloria, e compiacercene, ed esultarne nello spirito del Signore, e renderne a Dio misericordioso le grazie più vive. Ed anzi l' una e l' altra di queste due cose possiamo e dobbiamo fare ad un tempo, secondo la disposizione e l' invito del nostro cuore. Poichè anche quando le virtù conosciute delle persone passate di questa vita ci danno piena fiducia della loro salvezza, non possiamo però presumere che questa povera umanità sia comparita dinanzi all' Essere santissimo priva d' ogni legger mancamento da scontare e purgare; e però dobbiamo suffragarla, se mai di suffragi avesse bisogno. E quanto a me ben Le prometto, mia ottima Signora Contessa, che lo farò, e lo farò fare dai miei compagni, e da questi ottimi Novizii, e sopra tutto dalle nostre Suore della Providenza che tanto debbono a Lei, e che La venerano come madre. Che se il buon defunto non avesse bisogno di questi spirituali soccorsi, il Signore ne accetterà l' offerta a vantaggio della Signora Contessa, acciocchè sulla sua afflizione sparga la grazia, e, buona com' è, vie più la santifichi. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Mi congratulo che Ella sia fatto Rettore di cotesto venerato Seminario, perchè questa è una buona occasione che la divina Provvidenza Le mette in mano di poter fare un gran bene alla Chiesa di G. C.. Ma non mi fa stupore l' intendere, che Ella si trovi in molte perplessità e dubbiezze circa la maniera di condurre un sì importante Istituto, in cui si formano ai più sacri ministeri i giovani leviti. E` già un bel lume che le dà il Signore quel di sentire le difficoltà dell' impresa e il bisogno urgentissimo ne' nostri tempi di riformare l' ecclesiastica educazione. Il clero oggidì, parlando in generale, è debole, pur troppo, prostrato e avvilito, rincontro a un secolo che tanto esige da lui: da sè stesso si è ridotto così malamente; ed una delle più grandi e delle più prossime cagioni fu il meschino disegno, le anguste proporzioni a cui si ridusse l' istituzione ne' Seminari. Vorrei poter versare nel suo seno tutto ciò che sento nel mio su questo argomento, se potesse capirsi in una lettera; e perciò attutendo quel sentimento ch' io provo di continuo, direi quasi, di sdegno, Le dirò in quella vece qualche parola almeno in generale, che risponda alla sua generale dimanda. La base immobile dell' educazione ecclesiastica è la SANTITA`. Ah quanto poco s' intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si contenta ne' chierici d' una bontà mediocre, d' una vocazione ingombra e macchiata di fini umani, a cui l' acquisto d' un benefizio, d' un posto lucroso, d' uno stato onorevole secondo il mondo, agiato secondo il senso, è termine e scopo principale per non dir unico! Quanto poco si va al fondo per scrutinare la coscienza dei chierici; ond' entrano nel sacerdozio assai spesso schiavi di perverse abitudini, ignari del gravissimo incarico che egli è, con una maniera di pensare bassa, ignobile ed egoista, senza alcun amore agli studi, con amor grandissimo all' ozio, leggieri, mondani, senz' alcuna sodezza di vera virtù! Privi della coscienza della propria dignità, senza pur intendere la propria abbiezione, molti giovani sacerdoti, forse appena usciti da' Seminari, sottopongono le spalle a delicati offici di cura d' anime, delle quali non conoscono il prezzo, e perdendone molte perdon sè stessi. Di che io voglio raccogliere che la persona più di tutte importante in un Seminario è il Direttore spirituale, senza il quale è impossibile farne alcun bene; e vuol essere uomo di gran pietà e di molta testa altresì, giacchè le teste piccole guastano con ottimi fini. Soggiungerò a questa un' altra generale osservazione, ed è che il Rettore, per quantunque grand' uomo egli sia, non può cavare gran frutto dal suo governo senza che gli altri sacerdoti che lo coadiuvano sieno bene scelti, ciascuno a suo posto, e formino con essolui buona unione, per la quale il piano che viene abbracciato si possa eseguire con unità di pensiero e consenso di operazioni. Dopo la santità, radice e fonte d' ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale ne' Seminari si dà ai tempi nostri troppo mutilata, anzi pur come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, neppure s' istituisce solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le più vitali questioni, credendole inutili alla pratica, quando esse anzi sono della pratica stessa la vita e la forza; e talora si assolvono i chierici dallo studio della dogmatica, senza dare pur loro altra morale, che quella de' soliti trattatisti, tutti volti a decidere ciò che è o che non è peccato in uso de' confessori, ma poveri di ciò che riguarda l' alta idea della virtù, e della vita virtuosa, e dell' evangelica perfezione. Onde gli studi, debbono essere, mio egregio signor Rettore, troppo più ampi che non si costuma ne' Seminari a' dì nostri; ed io credo che la sua penetrazione volesse forse alludere a questo difetto, quando mi accennava le sue perplessità ed i suoi timori. Ottimo è il pensiero che Le venne d' introdurre una Cattedra di scienza pastorale e di sacra eloquenza; ma queste scienze, e specialmente quella che insegna a praticare il pastoral ministero, dovrebbe formare il riassunto e quasi la corona di tutte l' altre; giacchè al pastore dell' anime viene il bisogno d' avere alla mano ed applicare ai casi tutte le cognizioni raccolte dallo studio delle varie scienze teologiche e delle ausiliarie. Per l' insegnamento di questa scienza gioverebbe trovare un uomo dotto in tutta la teologia, di gran pratica della cura dell' anime, fornito di naturale prudenza e di gran zelo; acciocchè potesse informare i suoi uditori. Ma non più, benchè l' argomento troppo più richiederebbe. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.45 Nel giornale francese « L' ami de la Religion », 6 novembre 1.45, è riportata una lettera sulla conversione al cattolicismo del dottor Newman, e viene attribuita a V. S.. Io pensai che, se questa lettera è veramente sua, a Lei non dispiacerà che io soddisfi al bisogno del mio cuore che brama farle conoscere quanta consolazione in me e in molti de' miei amici ne abbia prodotto la lettura. La confidenza che Ella ripone nella preghiera, l' esclusione dell' eresia, come di un ostacolo dell' unione, il desiderio d' essere guidato dallo spirito di Dio nella verità, l' uniformità al divin volere, la speranza viva nella divina misericordia, e la sete della giustizia e della santità sono altrettanti doni del Signore, di cui la sua lettera contiene una non dubbia espressione. Voglia Ella dunque permettere, che un sacerdote cattolico del continente, che, nella carità del Signore, La considera come fratello, Le apra tutto intero il sentimento, che provò in leggendo quella sua lettera. Soprattutto il consolò l' intendere ch' Ella riconosce la potestà delle chiavi lasciata da GESU` Cristo alla sua Chiesa, e non potè a meno di dire seco stesso: « Sì, il buon Dio, che ha dati tanti lumi a quest' amico sincero della verità, gli farà anche conoscere, che la divisione dell' Inghilterra dalla Chiesa cattolica è avvenuta per un atto di questa potestà ». Quando io lessi nella medesima lettera, che ciò che tiene lontane dalla Chiesa cattolica le persone religiose d' Inghilterra, non sono le dottrine, ma alcune pratiche della Chiesa Romana, io ho concepito la più viva speranza, che Iddio, compiendo le sue misericordie, farà conoscere altresì a tali persone che la Chiesa Romana, che si professa nemica di ogni superstizione, non approva ciò che potrebbe esservi di men retto nelle pratiche di alcuni individui cattolici; e molte pratiche che in se stesse non sono cattive, salvo il dogma, non le impone come obbligatorie ai fedeli. Sì, tutti noi cattolici, da ogni parte del mondo, abbiamo ora rivolti gli occhi a cotesta illustre terra inglese, e facciamo incessanti e concordi preghiere, perchè il Signore voglia compire le sue misericordie sopra di quella, e speriamo, che quando il Signore, venuto il tempo, ci avrà esauditi, rinnestando questo tralcio separato nella vite del Supremo Padrone, la quale non può essere che unica, secondo le parole di Gesù Cristo; allora questo tralcio debba dare « fructum plurimum »: noi siamo persuasi, che Iddio prediliga cotest' Isola, e che il suo santo Spirito, spirito d' unione, operi in molte persone di buona fede, che pregano il Signore nella rettitudine del loro cuore, e che quest' operazione divina non potendo rimanere imperfetta, condurrà tali persone all' unità. Noi bramiamo che tutte queste persone possano prima di morire arrivare a quest' unità, verso cui sono mosse dal divino Spirito, senza però che il loro libero arbitrio rimanga legato. Specialmente noi lo bramiamo e lo speriamo per quelle che, riconoscendo già il potere delle chiavi, possono invocarlo e dimandare che loro sia aperto, se prima fu loro chiuso, e, riconoscendo il potere di legare e di sciogliere, possono dimandare d' essere slegati, se prima furono legati; il che appunto fece colui, nel quale V. R. nella sua lettera riconosce che operò lo spirito di verità. Questo spirito di Dio certamente lo illuminò a vedere che, se nella Chiesa non vi fosse un poter supremo delle chiavi, ma questo potere fosse dato a molti in egual grado o alle stesse condizioni; egli sarebbe esposto al disprezzo, e riuscirebbe incerto ed inutile, perchè mentre l' uno chiuderebbe, l' altro aprirebbe; mentre l' uno legherebbe, l' altro slegherebbe; si legherebbe e si slegherebbe a vicenda. Io confido nella retta intelligenza di V. R. e nel lume che Le dà e Le darà il Signore, che Ella riconoscerà come una verità di fatto, che quelli che rientrano nella Chiesa Romana, non solo riconoscono il potere delle Chiavi, ma il poter supremo delle Chiavi in S. Pietro e ne' suoi successori, avendo GESU` Cristo consegnate le chiavi nominatamente a quest' Apostolo, e impetrano che questo potere supremo delle chiavi apra loro la porta del regno de' cieli, che prima era loro chiusa. Questo è il fatto, tale è la loro credenza. Se questa loro credenza fosse falsa, sarebbe un' eresìa; ed Ella stessa riconosce che nella Chiesa Romana eresìe non ve ne sono. Se fosse un' eresìa, od anche semplicemente un errore professato da tutta la Chiesa Romana, come lo spirito del Signore avrebbe condotto nell' errore colui, di cui Ella parla nella sua lettera, ed altri, in cui Ella stessa riconosce l' operazione e la volontà di Dio? E se in tali persone la grazia del Signore, data probabilmente alle loro ed alle altrui preghiere, com' Ella giustamente osserva, produsse questo frutto; non è egli da credersi, che i bei semi che si sviluppano nel seno della Chiesa anglicana, siano appunto doni di Dio, che non abbandona le anime religiose di questa chiesa, per condurle soavemente allo stesso termine, cioè nell' unico ovile dell' unico Pastore? Che se non si può negare che la separazione dell' Inghilterra si operò per un atto della podestà delle chiavi, non si può nè pur negare che vi avesse una giusta ragione per un tal atto, cioè l' eresia che Ella, col lume datole dal Signore, riconosce esistere, più o meno, nel seno della chiesa anglicana. Non si può negare che l' eresia fu considerata sempre nella Chiesa per un giusto motivo di separarne le parti infette, privandole della comunione ecclesiastica, e che i fedeli, in un tal caso, si riconobbero sempre gravemente obbligati di tenersi uniti colla parte sana della Chiesa, dividendosi dall' altra; come pure è certo che la parte divisa dalla Chiesa non può esservi ricongiunta, se non per un altro atto della potestà delle chiavi che riapra loro la porta. Dio pur volesse che tutti i Vescovi separati che sono in Inghilterra, insieme colle loro diocesi, venissero all' unità! E parmi che il suo cuore, pieno di zelo per la gloria di Dio, miri a questo, ed aspetti questo, e lo solleciti colle sue preghiere. Se il Signore la esaudirà, noi ne benediremo tutti insieme con Lei il Signore in eterno! Ma se qualcheduno fosse chiamato dal Signore alla prima, alla terza, o alla sesta ora della giornata, io non vorrei che egli aspettasse a venire a lavorare nella vigna del Padrone per entrarvi insieme con quelli che fossero chiamati all' ora undecima. Quando il Signore chiama un popolo, suol nascere una specie di giudizio, una separazione fra quelli che egli assume e quelli che egli lascia: difficilmente rispondono tutti alla chiamata, « quidam credebant his, quae dicebantur, quidam vero non credebant »: i primi fanno la strada agli altri. Io credo che quelli che si unirono testè alla Chiesa cattolica, abbiano trovata la via più sicura e più breve di ristorare a nuova vita la chiesa anglicana. Le mie preghiere, o piuttosto quelle di noi tutti cattolici tendono a questo: ma noi preghiamo specialmente per colui, di cui il Signore si servì e si serve per purificare la chiesa anglicana dall' eresìa, per mezzo del quale ha fatto nascere in essa un movimento sì consolante: noi preghiamo caldamente, acciocchè il Signore si degni di fare divenire costui una di quelle pecore che affidò a Pietro, quando gli disse: « « Pasci le mie pecore » ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Il P. Molinari mi avea pur troppo reso consapevole del pericoloso stato dell' ottima Signora Marchesa, sua madre, e preparato a sentire d' un giorno all' altro il doloroso annunzio, ch' ella ci ha abbandonati. Mi figuravo il dolore di tutta l' egregia famiglia, e particolarmente l' afflizione del mio carissimo amico Gustavo, di cui troppo conosco il tenero cuore. Ed ecco la sua lettera, che m' annunzia compiuta la trista aspettazione. Quell' ottima Signora adunque, delizia de' suoi congiunti, ornata di tanta carità, piena di tanta fede e ricca di tanta pietà, non è più visibile agli occhi nostri, non si trattiene più con noi in famigliari e virtuosi colloqui, non più appare qual centro, intorno a cui consorte, figliuoli ed amici si trovavano così volentieri uniti, e con sì virtuoso affetto! Ah diamo pure il suo tributo di lagrime alla natura che si risente della grave sua perdita; e poi diciamo col più famoso esemplare di religiosa fortezza che presentasse il tempo antico: « Dominus dedit, Dominus abstulit; sit nomen Domini benedictum! » Tale è certo l' esclamazione, che avrà già fatto più volte, con tutta la sincerità del religioso suo cuore, il mio carissimo marchese Gustavo, di cui ho prova nella stessa sua lettera: e quanta soavità di conforto non avrà già gustato! Quale salubrità di balsamo non è egli questo versato dalla fede nelle piaghe sanguinanti della natura! La volontà di Dio: che sublime parola! che luce per l' intelletto che conosce ed ama Dio! che bene ineffabile ed infinito che supplisce e compensa ogni altro bene! Oh volontà santissima, volontà sapientissima ed ottima, fuori della quale anzi non è più bene, ma sola illusione di bene, fiat, fiat! Oh adesione fortunatissima del nostro volere col volere sommamente buono, unicamente buono e perfetto dell' Onnipotente, adesione che trasforma in beni tutti i mali, in felici avventure tutte le umane calamità! Tali sono i sentimenti che io veggo in Lei, mio caro Marchese, e di cui io pure traggo come in questa, così in ogni altra sciagura temporale, indicibil sollievo, ineffabile consolazione. Ed ora specialmente mi è oltre misura caro il pensiero di avere questo conforto con Lei indiviso, al cui dolore partecipo. Ma dobbiamo ancora non poco rallegrarci considerando con che pietà la Signora Marchesa compì la sua carriera mortale, avendomi il P. Molinari raccontato con quale fortezza si faceva incontro al suo fine, con quanta sollecitudine dimandò e con quanta divozione ricevette i Sacramenti della Chiesa, e quanto rassegnata e sperante mutò questo albergo transitorio colla patria intrasmutabile. Onde se noi rimaniam privi per brev' ora di Lei, ella non rimane però priva nè di Dio, nè di noi, che in Dio ci rinviene e possiede. Che se qualche leggera macchia tenesse questa carissima anima, che fu viatrice per questo cammino del mondo, tutto fango e belletta, dove è sì difficile andare senza imbrattarsi ed è pure difficile nettarsene interamente, ancora lontana dalla visione della faccia del suo Creatore, a cui non può essere ammesso chi sia della luce men puro: il Signor nostro Gesù Cristo nella sua immensa bontà ci ha lasciati anche i mezzi efficaci per accelerare, coll' applicazione de' suoi meriti, la purificazione delle anime trapassate e renderle degne del suo cospetto. Ed anche questa istituzione divina e questa efficacia, che ci attesta la fede delle orazioni, e dei suffragi, e delle buone opere a vantaggio de' nostri cari defunti, è pur cosa preziosissima pei passati e consolantissima pei superstiti che possono accelerare il momento della beatitudine di quelle anime. Io unirò certamente le mie povere preci alle sue ed a quelle della famiglia, e anzi vengo pur ora (giacchè ho dovuto interrompere ier sera questa lettera) dall' aver celebrata la Santa Messa in suffragio dell' anima della Signora Marchesa, e così farò pur fare de' suffragi a' Sacerdoti miei ed alle nostre buone Suore della Provvidenza. Se si considera con viva fede che cosa sia la visione beatifica, oh quanta voglia viene d' invidiar santamente quelle anime, che già la godono! e quanto sdegno nasce contro la fiacca nostra natura che vorrebbe piangere di ciò che era pur necessario che avvenisse perchè fossero felici! Quanto stimolo altresì possiamo cavare da sì duri avvenimenti per istaccarci e liberarci vieppiù dalla servitù delle cose visibili ed unirci con Dio, considerando il tempo della vita presente come datoci dalla Provvidenza per fare il maggior bene possibile a' nostri prossimi e così ottenerci poi il riposo di un' eterna felicità! Le parole di S. Paolo: « dum tempus habemus operemur bonum », saranno forse corse al suo pensiero in questi momenti, come occorrono al mio. Mi imagino pur troppo quanto sentiranno vivamente la perdita fatta l' egregio Signor Marchese suo Padre, e l' ottima sua ava. La prego di presentar loro, come pure al Conte Camillo, le mie condoglianze più sincere. Potessi essere a Torino e dar loro qualche conforto! Ma sono anch' essi sì religiosi, che troveranno nella mano che flagella la mano altresì che copiosamente consola. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.46 Io spero che vedrò il sig. Newman, che Ella menziona nella venerata sua lettera, al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Phillipps, che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di prestargli qualche servizio da queste parti. Del resto ciò che Ella dice della sommissione di noi Fratelli della Carità all' Ordine gerarchico, ella è un punto capitale del nostro Istituto. Ho ben veduto che un Istituto generale non potrebbe esistere, se fosse, assolutamente parlando, soggetto alla giurisdizione dei Vescovi delle singole diocesi, ciascun de' quali pensa naturalmente pel suo gregge, e non allo stesso grado pel bene generale della Chiesa, che più importa, e che dee formar lo scopo di un tale Istituto; ho conosciuto che gli Ordinari delle diocesi non potrebbero reggere un Istituto colle stesse massime, collo stesso spirito, con perfetta concordia d' azione, e quel che è più, che, occupati nella cura esteriore delle anime, non avanza loro tempo (nella presente condizione di cose) per coltivare, quanto importa, la vita religiosa ed interna de' membri d' una tale società, che è pur la radice ed il fondamento delle virtù e delle opere esteriori. Ma d' altra parte, essendo essi i legittimi successori degli Apostoli, avendo la missione da GESU` Cristo, chi mai potrebbe, secondo una retta dottrina, voler operare qualche cosa nella Chiesa, senza la loro direzione, senza esser mandati da essi? Procurai dunque nell' Istituto della Carità di conciliare questa sommissione, obbedienza e religiosa servitù all' ordine gerarchico colla universalità dell' Istituto, colla indipendenza necessaria per poter esistere in un corpo ben unito, e perciò stesso forte, ordinato al di dentro e animato da un solo spirito, senza pericolo che ne venisse a patire la vita e la perfezione interiore. Ad ottenere tale doppio intento l' Istituto fu esentato dalla giurisdizione vescovile, acciocchè i propri Superiori potessero liberamente occuparsi a formare i loro soggetti alla santità; ma ebbe in pari tempo per sua regola e massima fondamentale di considerarsi come professore di vita ritirata e nascosta, aspettando dalla Provvidenza le occasioni di esercitare la carità, senza cercarle, e aspettando dai Prelati della Chiesa la missione necessaria per esercitare la cura delle anime e la predicazione apostolica; esercitando in tutto e per tutto questi ministeri secondo il voler dei Vescovi e prestandosi in ogni cosa di carità alle loro domande preferibilmente a quelle di qualsivoglia altra persona. E poichè, qualora i Parrochi e Vescovi fossero dell' Istituto stesso, cesserebbe ogni difficoltà; perciò fu pure stabilito come regola precipua, che qualora alcuno dell' Istituto fosse chiamato da Dio alla cura d' una parrocchia, egli fosse parroco e ad un tempo Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della parrocchia, e così se fosse innalzato al vescovato, egli sarebbe Vescovo ad un tempo e Superiore nato di tutto l' Istituto entro i confini della diocesi. Ciò deve sempre aver luogo, verificandosi alcune condizioni stabilite dalle Costituzioni. Così l' Istituto è diviso per parrocchie, diocesi, provincie ecc., divisione rispondente a quella dell' Ordine gerarchico a cui deve servire. Venendo ora al discorso de' riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual' è. L' attaccamento dei varŒ popoli ai loro riti è così grande, e, se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientrare nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell' Oriente, quando si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito, inducendole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito, che mutar di fede. L' attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sappia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede raccomandò sempre a' Missionari che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie de' popoli orientali, posto altresì l' efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso, io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell' opera d' invitare a sè que' Cristiani che sono fuori del suo seno, debba essere e sia di mantenere o restituire a quei riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell' Occidente, com' Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pensiero quello che mi accenna, l' introdurre i diversi riti fra i membri delle Congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionari e Pastori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all' Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla sua dimanda, basta il motto che lo caratterizza omnibus omnia . Ma acciocchè non nascesse confusione da tale provvedimento si dovrebbero istituire collegi di missionari, destinati a vantaggio di que' popoli che professano quei riti. E l' Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli suole dividere i suoi membri in altrettanti collegi, quante sono le opere principali di Carità ch' egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v' avesse, poniamo, un Collegio di Missionari pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo per le diverse chiese scismatiche di rito diverso. Vero è che nella regola nostra si dice che i membri dell' Istituto usano il rito romano; ma questo fu detto unicamente per escludere i diversi riti occidentali, che discordano dal romano, essendo troppo desiderabile che l' Occidente abbia un rito solo; ma non fu detto per escludere i riti orientali. Per altro, come Ella osserva, dovrebbe sempre intervenire in ciò la facoltà e l' approvazione della S. Sede Apostolica. Noi non cesseremo di pregare il Signore, che le eccellenti vedute di Lei e l' ardente suo zelo per l' avvenimento del suo regno apportino un frutto abbondantissimo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Voi volete qualche indirizzo che vi scorga a ben giudicare delle cose presenti. Io non dubito che il movimento italiano sia ordinato da Dio a trionfo della sua Chiesa: ma anch' egli è un conflitto de' più opposti elementi, e la luce e le tenebre pugnano mescolati insieme, e pugnano a morte. Fra i campioni dell' inferno e quelli del cielo v' ha un partito mezzano simile a quello « degli Angeli che non furon ribelli, nè fur fedeli a Dio, ma per se foro (Dante) ». E benchè anche i primi sappiano qual sia l' arte dell' ipocrisia raffinata, tuttavia egli è men difficile guardarsi da essi che non sia giudicare rettamente di quelli che occupando il mezzo, partecipano dei due estremi. Per additarvene il carattere mi basta che voi consideriate quelle parole che Cesare Balbo pose in fronte al suo libro delle « Speranze »: «porro unum est necessarium ». A costoro l' un necessario non è più liberare l' anima dalla servitù del peccato, ma liberare l' Italia dalla servitù degli Austriaci. Dal qual principio logicamente procede che gli si può dare tutto, anche l' anima, per ottenere, quell' uno necessario; quindi agli occhi o almeno nella pratica di costoro, tutti i mezzi sono buoni per arrivare a quell' uno. Questo principio spiega maravigliosamente i loro costumi: bugie, calunnie, artifizi, sommovimento di passioni popolari, adulazioni, latrati, seminazioni di odŒ e di astŒ sopratutto nel clero, schiavitù della Chiesa, provocazioni alla violenza e alla guerra ecc.: tutto è buono, tutto è santo, tutto è perfettamente cristiano per ottenere il grand' uno necessario del loro nuovo cristianesimo, del loro nuovo evangelio. Da questo voi potete raccogliere che è una somma grazia che Iddio ci fece traendoci fuori dal caos di questo mondo e mettendoci in un cantuccio al sicuro da tanti inganni che avremmo potuto prendere, e da tante occasioni nelle quali avremmo potuto offenderlo. Per me ne giubilo, e non ho lingua da ringraziarnelo a sufficienza. Del rimanente ancora io vi ripeto essere io persuasissimo che tutto ciò che accade di bene e di male, mosso o permesso dall' altissima Provvidenza, tutto sarà in fine condotto ad uno dei più splendidi trionfi e delle più magnifiche glorie della sua Chiesa. Noi, e come cristiani e come italiani e come sacerdoti e come religiosi, potremo aiutare grandemente il felice esito del terribile dramma combattendo coll' orazione incessante, e con una diligenza, una carità vie maggiore nell' adempimento di tutti i nostri doveri. Per questa via le due parti, in cui non voi solo, mio dolcissimo, ma tutti siamo pur troppo divisi, diverranno un solo tutto; o almeno quella che è degna di vincere, vincerà e dominerà l' altra, che n' è indegna e che perirà come merita, lasciando che la prima s' integri e si compia in Dio suo principio, ove tutto ritrova, onde tutto ricupera. Nella separazione dal mondo, nella dolce pace della solitudine aspirando alla patria celeste, gioveremo alla patria terrena, perocchè i flagelli delle nazioni vengono dai peccati degli uomini; e dalla fede, dalla speranza, dall' amore, dalle sopraumane virtù vengono chiamate tutte le benedizioni sopra di esse. Ecco l' indirizzo che do a me stesso, e che do a voi, mio dolcissimo: [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.47 Rilevo dalla cara sua lettera che il Signore sapientissimo ed ottimo lavora dentro e fuori di Lei, e tutto dispone acciocchè Ella, distaccato da tutto l' universo, tutto a lui si consacri ed alla carità che è lui stesso. « Deus Charitas est . » A lui solo onore e gloria. Tanta grazia, che Iddio vuol fare a Lei, la desidero e prego a tutti, acciocchè sia fatta in terra la volontà del Creatore nostro com' ella è fatta nel cielo. Non badi alle parole ancorchè buone in se stesse, e di buoni, e fatte per bene, o sub specie boni , che la potessero raffreddare o disviare da quel santo proponimento in cui Ella ha posto la mira, e a cui non conduce, nè invita le anime giammai il nemico dell' anime. E se il movimento non può venire da di giù, dunque viene da di su; ne stia certo. Ella mi domanda alcune ragioni che persuadano come giovi sommettersi al giogo di una ubbidienza pienissima, qual si pratica nell' Istituto della carità, e vorrei scriverne un librettino, se avessi tempo, ma eccone alcune delle principali: 1 Il sentimento costante della Chiesa e specialmente di tutti i Santi schierati in ogni secolo, e per nominarne due soli, di san Basilio che raccolse le tradizioni orientali, e di san Benedetto che raccolse le tradizioni occidentali. 2 Le parole di Gesù Cristo: « qui vos audit, me audit »; le quali furono costantemente intese anche dell' ubbidienza religiosa « usque ad sanguinem », attesochè i Superiori degli Istituti approvati da' Sommi Pontefici ricevono dalla Chiesa l' autorità in quel modo che viene dichiarata nelle regole. 3 L' essere l' ubbidienza descritta la maggiore umiliazione ed annegazione dell' uomo, e però il contenere in sè l' adempimento compiuto delle parole di Gesù Cristo: « Qui vult venire post me, abneget semetipsum »; quindi ella ha un merito intrinseco, indipendente affatto dall' oggetto intorno a cui si esercita, o dall' essere prudente o non prudente il comando del superiore, purchè quanto viene comandato sia onesto; il vero bene sta nel prezzo morale dell' atto, non nella materia intorno a cui s' esercita; e la perfezione consiste nel cercare solo il vero bene, il valore morale. 4 L' umiltà , che è virtù evangelica intrinsecamente buona e perfetta, e che adduce un bassissimo concetto di se stessi e comparativamente un alto concetto di tutti gli altri, persuade il sottomettersi all' altrui parere, anche opposto al proprio, e quindi adduce all' ubbidienza , nella quale ci ha sempre un atto di umiltà, all' ubbidienza verso tutti, come dice san Francesco di Sales, molto più verso i superiori legittimi. 5 L' essere l' ubbidienza perfetta di molti ad un solo l' unico mezzo di esercitare la più estesa carità possibile a vantaggio del prossimo, e di compire le più grandi opere possibili per la gloria del Signore e della Chiesa; e ciò perchè un corpo, una società unita, diretta da una sola mente, è una macchina potentissima che ottiene assai più di quello che possano ottenere le forze sparpagliate dei singoli individui. Così un esercito regolare è immensamente più forte dei combattenti isolati senza direzione comune. Sarebbe un inganno manifesto quello dei soldati che volessero uscire dalle file o perchè non approvano le mosse ordinate dal condottiere, o perchè credessero di operare di più, liberi ed isolati: adoprerebbero forse di più, affaticherebbero forse di più, ma otterrebbero molto meno, ed anzi si farebbero ammazzare con poco frutto. Lo stesso è a dirsi dell' esercito del Signore. E` impossibile che individui divisi, per quantunque siano attivi, possano fare quello che possono fare società intere, rese forti dall' unione dell' ubbidienza. Conviene considerare che la perfezione consiste nel desiderio efficace di fare o di occasionare il maggior bene possibile a bene del prossimo e a gloria di Dio e della Chiesa. « Non si può dunque raggiungere la cima della perfezione se non unendosi in un corpo, associandosi in molti con perfetta ubbidienza, che è il vincolo dell' unità ». Tutto deve cedere a questo riflesso, se il desiderio del bene, di ogni bene, del bene maggiore possibile è veramente quello che vive e domina nelle anime nostre. Chi non adopera quel mezzo, che è l' unico ad ottenere di promuovere tutto il bene possibile, questi non è perfetto. Questa fortissima ed evidentissima ragione, che persuade la più piena ubbidienza, acquista un peso assai maggiore rispetto ad una società, che si prefigge appunto la carità nella sua immensa universalità, il precetto di Cristo senza limite alcuno. Il pensiero che il superiore potrebbe sbagliare nel comandare, non ha più forza alcuna contro quella grande ragione, perchè l' uno o l' altro sbaglio del superiore, d' uno o d' altro superiore, non toglie che, considerando la cosa in universale, la società a malgrado di tali sbagli accidentali, produca immensamente più bene che non gli individui separati, i quali sono pure anch' essi esposti qualche volta a prendere inganno, e tanto più quanto più sono liberi e abbandonati, e quanto sono meno umili. 6 Dimostrato che l' ubbidienza pienissima è intrinsecamente cosa santa e perfetta, e che racchiude in sommo grado le virtù evangeliche dell' umiltà, dell' annegazione, e della carità del prossimo, ne viene di conseguente che l' ubbidiente è preso sotto la protezione di Dio stesso, a cui intende ubbidire ed ubbidisce nel superiore, perocchè colui che fa tutto per Iddio, ha Dio che lo guida. « Justum deduxit Dominus per vias rectas ». Iddio dunque è quello in cui l' ubbidiente confida, e questa confidenza non può essere confusa, perchè Iddio « non confundit sperantes in se ». L' ubbidienza dunque da una parte è un atto di fede perfetta e di speranza in Dio, dall' altra ha seco la certezza che non può produrre all' obbediente se non il massimo bene, perchè tale è sempre lo scopo della direzione che presta Iddio a quelli che in lui s' abbandonano. Iddio conduce dunque l' uomo ubbidiente, ogni dì più, al vero suo bene, e per fare questo si può servire ugualmente d' ogni cosa, fin anco degli sbagli del superiore, i quali non sarebbero permessi se non fossero occasioni di bene all' ubbidiente preso in cura da Dio. Se dunque sbaglia talora il superiore, non isbaglia Iddio che lo permette, e lo permette sol quanto giova all' ubbidiente e non più: del resto Iddio illumina i superiori, dando loro tutta quella sapienza appunto, che è necessaria a conseguire il sommo bene degli ubbidienti, la somma loro santità a cui risponde una somma gloria. Per questo lo Spirito Santo dice in modo assoluto: « vir obediens cantabit victorias ». Eccole, mio carissimo in Cristo fratello già e compagno, alcune delle ragioni da lei dimandate. Nella lettera di S. Ignazio sull' ubbidienza, che la esorto a leggere, troverà altre belle cose. Da questo apparisce che l' ubbidienza, benchè pienissima, non è mai cieca: è cieca di ragioni umane, ma non è cieca di ragioni divine: si rinunzia per essa alle ragioni piccole e minute, ma non si rinunzia alle ragioni grandi, universali, soprannaturali: con essa si può talora fallire ad un fine mediato, ma non mai e poi mai al fine ultimo ed assoluto, all' unico nostro fine, a quello che è vero fine, e da cui tutti gli altri ricevere possono qualche valore. Dunque « exultemus in Domino » di avere trovato il tesoro nascosto nel campo. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. Nelle più gravi sventure, da cui noi siamo colpiti, vi è la mano dell' amore infinito. « Deus charitas est . » Se a noi fossero palesi i misteri della sua misericordia che si nascondono talora fra i più giusti rigori, se fossero palesi e svelati come agli occhi dei comprensori celesti, l' anima nostra non potrebbe conoscere altri affetti che quelli della riconoscenza e del gaudio nelle prospere e nelle avverse cose egualmente. La santa fede supplisce alla nostra ignoranza dei grandi disegni dell' infinita bontà di Dio, ella basta a conservarci la pace del cuore nelle più gravi avversità, com' Ella esperimenta in questo momento; ma essendo la fede un lume infallibile sì, ma velato, se rassicura e conforta d' ineffabili speranze la parte nostra superiore, non impedisce sempre in noi che la nostra parte inferma senta potentemente la scossa della sciagura che ci priva delle cose più care. Così Iddio permise che fossimo ridotti per effetto del primo peccato, acciocchè il patire diventasse un merito, una purificazione, un sacrificio accetto al Signore unito a quello del suo diletto Unigenito che più di tutti ha patito, crocifisso di amore. Chi sa da quanti pericoli, da quante colpe, fu salvato il suo Augusto? Forse era questa l' unica via di condurre quell' anima al cielo, dove ora adora ed esalta la divina bontà, e reputa per la maggiore di tutte le sue fortune la ricevuta ferita e il breve patire, e prega pel suo tenero padre. Forse in una malattia non avrebbe ricevuto i Sacramenti colla stessa divozione e collo stesso fervore, lusingandosi di campare, e, se avesse avuto da rendere il conto di una vita più lunga, sarebbe forse stato còlto dalla diffidenza, o mancatogli quell' ardore che è proprio dell' età giovanile non ancora pervertita. Deh quanto mai non v' ha a temere e a tremare per la gioventù in questo secolo nequam! Quand' io considero i rischi d' un giovane in mezzo al mondo, reputo che Iddio debba fare un prodigio ogni volta che ne conduce uno sano e salvo all' eterna città dei santi. Tutto ciò che Iddio fa, lo fa per salvare le anime: questo è il fine della creazione: per questo fine è morto Gesù Cristo: i santissimi Sacramenti sono istituiti per questo ed hanno un' efficacia infinita, perchè hanno in sè la potenza di Gesù Cristo; egli ce li ha lasciati quand' è asceso al cielo, in suo luogo. L' opera di Dio non è mai priva del suo effetto: riposi dunque tranquillo nella grazia dei Sacramenti, munito dei quali il suo Augusto partì da noi. Suffraghiamo dunque colla più gran fiducia nella divina bontà il carissimo defunto, che fu sempre raccomandato al Signore anche prima della sua fine: celebrerò la S. Messa per l' anima sua, e raccomanderò a tutti i miei compagni di unire pure le loro preghiere al medesimo fine. Il dogma del Purgatorio è pure anch' esso un dogma consolatore! Quanti peccati che a giudizio degli uomini sembrerebbero mortali, agli occhi di Dio che considera le subbiettive disposizioni, riescono forse pure venialità, o per mancanza di piena cognizione, o per mancanza di deliberazione al male ch' essi contengono! Si conforti adunque, mio carissimo e veneratissimo Marchese: le orazioni non sono mancate in vita, non mancheranno in morte al suo Augusto: e l' orazione fatta per Gesù Cristo ottiene ogni cosa. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.4. L' umanità mia soggiacque ad un gravissimo dolore leggendo nella cara vostra del 12, ieri pervenutami, che il nostro carissimo fratello Giov. Battista Boselli sta per abbandonare il consorzio di noi suoi compagni nel terreno pellegrinaggio. Egli ebbe ripieni i suoi giorni di buone opere: fu un di quelli che portò il calore ed il peso della giornata; e la sua dolcissima serenità in sul letto di morte, di cui voi mi parlate, come è pegno e preludio della prossima mercede che sta per isborsargli il Padron della vigna, così deve essere a noi d' ineffabile conforto e stimolo acutissimo per imitare i suoi esempi, la sua instancabile assiduità nel confessionale e in ogni altro penoso ufficio riguardante la salute delle anime, la sua pazienza conosciuta da pochi, ma ben nota a Dio, la rettitudine delle sue intenzioni, il fervore del suo zelo, la sua carità che il faceva tutto a tutti, la sua profonda umiltà e pieno distacco da ogni applauso degli uomini che temeva potergli diminuire la pienezza della mercede. Sì, io lo conobbi intimamente questo caro nostro fratello, che fu uno dei primi, di cui gustassi lo spirito: l' ho venerato profondamente, e molte e molte volte santamente invidiato. Quante volte non m' ebbe egli comunicato dei sentimenti celesti, e dei documenti preziosissimi! Quante volte non mi sono avveduto che nel suo spirito si diffondevano degli sprazzi di lume divino, lume intimo che forma il secreto dei santi! Ah sì, se egli se ne è andato, forse a quest' ora che scrivo, al possesso di quel Bene che ha sempre e solo amato, noi non dimentichiamo per questo di tenerlo vivo e presente agli occhi nostri, come un esempio di molte e rare virtù donatoci da Dio, perchè noi ne caviamo copioso profitto. Io intanto mi sono subito a Dio rivolto, sia per offerirgli il sacrifizio di questo caro compagno, sia per pregarlo che se qualche macchia dell' umana infermità lo rendesse tuttavia men degno del suo cospetto, purgata la macchia nel sangue di Cristo, e reso del tutto immacolato, volesse accoglierlo nel beato suo seno; sia finalmente perchè esaudisse l' orazione che nel suo seno il nostro felice compagno gli rivolgesse per noi che lasciò quaggiù pellegrini. Ma nel mentre che la virtù, la fortezza, la generosità del nostro compagno ci brilla dinanzi agli occhi più bella e più desiderata nel momento che ci vien tolta, dovremo noi forse, mio carissimo, pensare a gettare giù dalle spalle la soma che ci ha imposto il Signore, quasi sfiduciati per la mancanza dell' aiuto che ci prestava quell' operaio, che avendo finita la sua giornata entrò nel riposo e nel gaudio del Signore? Sono questi gli altissimi sentimenti della sublime vocazione a cui Iddio ci ha fatto la grazia di chiamarci? Pensa forse il soldato valoroso ad abbandonare il posto, dove il suo capitano lo ha messo in guardia? o non preferisce anzi di lasciarvi la vita più tosto che mancare al suo dovere? E` questo l' esempio che il divino nostro Capitano Gesù Cristo lasciò a coloro che si arrolarono al suo vessillo? E l' agricoltore, che semina il campo in un fondo, perde forse la speranza della raccolta al vedere che sopravviene il verno, e che si copre la terra di neve e di ghiaccio? o il vignaiuolo che pota la vite vuol forse raccogliere i grappoli maturi da oggi al domani, o anzi non aspetta con pazienza e fiducia che venga il sole a maturarli e colorirli, alla stagione ordinata dall' Autore della natura? Avremo noi meno longanimità, meno fede nella Provvidenza divina di quella che s' abbia il bifolco, o qualunque altro uomo industrioso e prudente del secolo, che ben conosce le cose tutte avere un periodo, ed il principio di un' opera od una intrapresa lucrosa esigere prima grandi spese e fatiche, e solo dopo gran tempo potersi adunare nello scrigno il guadagno? o saremo noi così indiscreti, così presuntuosi e temerari da pretendere da Dio favori e grazie, frutto di anime a lui guadagnate senza alcuna nostra grave fatica, senza sforzi, nè stenti, nè patimenti da parte nostra? Quando mai fece Dio tale cosa coi santi suoi? Non abbiamo noi forse lette le vite degli uomini apostolici, la loro costanza ne' travagli, la fiducia che non venne loro mai meno nella superna pietà, il sudore, il sangue, le ambascie, le malattie, i patimenti d' ogni maniera, coi quali essi ricomperarono insieme con Cristo le tante anime che hanno condotte a salvamento, arrivando S. Paolo a dire, che essi supplirono a ciò che mancava a' patimenti di Cristo? Ai quali non mancava certo niente in ragione di merito, essendo in essi il fondo di ogni merito, ma mancava in ragione di applicazione, volendo Gesù Cristo stesso in via ordinaria, per la sua infinita bontà e sapienza, che i Santi apostolici, unendo i loro patimenti a' suoi, ottengano che i suoi meriti vengano applicati a tante anime, che altramente andrebbero perdute, e che così partecipino anch' essi di ogni maniera di sua gloria, fatti quasi con esso lui corredentori del mondo. Beati quelli che intendono questa dottrina e se l' appropriano! Ingannati quelli che, invitati da Cristo alla vita apostolica o comecchessia chiamati legittimamente alla cura delle anime, cercano in un' altra dottrina la loro beatitudine! Vi debbono dunque, mio dolcissimo fratello, incoraggiare queste riflessioni fondate nella parola di Dio, a non lasciarvi venire meno l' animo, tenendovi fermo al luogo che vi è assortito, acciocchè non « excedas de loco tuo »; nè vi commuova punto il poco frutto, che sembravi fare tra questa popolazione, dovendo anzi per ciò stesso essere più cara al cuore del pastore partecipe di quella carità, di cui ardea colui che è il buon Pastore, e che cercò noi stessi prima di tutto come pecore sbrancate, e ci ridusse, senza badare a ciò che gli costavamo di affanni e di sangue, nel suo sicuro e dolcissimo ovile, nè contento di farci sue pecore, volle parteciparci il suo proprio pastoral ministero. Vi sovvenga di ciò che c' insegna la Scrittura divina, quando ci ammonisce che [...OMISSIS...] . Dalle quali parole s' inferisce che pel contrario riesce alla fine benedetta quella eredità che s' acquista con lunga aspettazione di stenti e fatiche. Vi sovvenga che non si edifica la casa se non colla sapienza, che non si consolida se non colla prudenza, non s' empisce di cose preziose se non colla dottrina, cioè colla pratica della dottrina che è la virtù, e che la stessa Scrittura ci avverte che l' uomo non è sapiente se non è forte, e non è dotto nel bene se non resiste con robustezza ed efficacia alle tentazioni; tutto ciò imparandosi colà dove si legge: [...OMISSIS...] E` dunque mio sentimento e mio volere (e questo equivale per voi altri a una manifesta dichiarazione della volontà divina) che rispetto a cotesta fondazione di Verona si mantenga quella massima delle nostre Costituzioni, che prescrive la costanza nelle opere intraprese, senza lasciarsi turbare dalle difficoltà che s' incontrano più o meno in tutti i principii, e che sono utili e necessarie nell' ordine della Provvidenza, acciocchè colla fiducia in Dio e colla lotta valorosamente sostenuta, meritiamo noi stessi dalla divina bontà la grazia del consolidamento dell' opera intrapresa. Conviene dunque, mio caro, rinforzarsi coll' orazione e con ogni maniera di spirituali esercizi, risuscitando nell' animo nostro abbattuto i sentimenti della fede, la quale se viene meno e vacilla, è indeclinabile il nostro affondare nell' onde. Conviene scuotersi ed operare più virilmente che pel passato, con maggior fervore e zelo, con maggiore efficacia ed energia, badando anche che una soverchia prudenza non leghi le forze, e non c' impedisca d' operare tutto il bene che possiamo, e per operarlo d' aprirci un campo più largo... Conviene dunque, mio carissimo, che voi subiate dolcemente ed alacremente la croce che vi vuole imporre quel Dio, il quale si giova delle cose più inferme all' opere sue, e al bisogno le soccorre d' ogni fortezza. Fatene la deliberazione fermissima, offerite pieno il vostro sacrificio, e non vi date altra cura che di consumarlo. Quello che è da fare con tutta sollecitudine, si è di fare approvare confessori il Mazzotti e l' Aimo. Qualora colla grazia di Dio, con uno zelo ardente, con pastorali esempi e documenti di sacra dottrina vi riesca nel corso di qualche anno di formare l' uno o l' altro di questi giovani sacerdoti, alle virtù, alla esperienza e alla prudenza del pastorale ministero: allora avrete in qualche modo il diritto di domandare, se il peso, che non avete ancora incominciato a portare, e che v' impaurisce all' imaginarlo, vi si rendesse per l' età più grave, d' essere esonerato sopra quello che sarà riuscito nella vostra scuola miglior discepolo. Ma rigettare ora un fardello, di cui vi aggrandite colla imaginazione il peso senz' averne sperimentate le dolcezze, è cosa che non conviene nè alla perfezione del vostro stato, nè all' imitazione di quell' esempio, a cui tutti i cristiani debbono conformarsi. Ed io menzionavo le dolcezze che non avete ancora sperimentate, perocchè la vita del buon pastore, piena certo di spine e di travagli, ha tuttavia le sue secrete dolcezze, le quali sono tali e tante per un' anima amante che vincono le amarezze, ed anzi rendono il pastore felice. Oltre di che, quale non è la gloria riserbata al pastore fedele! quanto diversa da quella dei cristiani comuni! quanto più splendida e più magnifica! altrettanto quanto è più sublime della comune la pastorale carità, che è tutta carità verso il nostro Signore Gesù Cristo. Ascoltate dunque, ed applicatelo a voi stesso, ciò che Cristo disse a Pietro: « Petre, amas me? si amas me, pasce oves meas ». A fine di giovare spiritualmente e corporalmente a cotesta parrocchia, trovo indispensabile che voi specialmente, dopo che sarete parroco, facciate bel bello relazioni colle migliori e più pie famiglie di Verona, le quali non mancano, e non mancherò di mandarvi io stesso delle commendatizie. Quindi potrete avere soccorsi a pro di cotesti poverelli, i quali dovete avere carissimi; e di mano in mano, s' intende col tempo, l' elemosine vi apriranno la strada a guarire le loro miserie e le loro infermità spirituali. Qui certo conviene che la carità del pastore sia ingegnosa ed anche ardita, non arrossendo di domandare. Vi esorto adunque a domandare l' elemosina ai più ricchi e più pii signori della città, sia quando si tratta di levare dal pericolo qualche zitella, sia per ogni altro grave bisogno, come la educazione di qualche fanciullo, o necessità somiglianti: con far questo vi introdurrete, vi farete conoscere, si saprà in Verona che a S. Zeno vi sono uomini zelanti per sovvenire alla poveraglia. Oggi 23, ho ricevuto anche l' altra vostra del 13 corrente, che non abbisogna d' altra risposta: ella bensì appagò il mio desiderio di sapere la malattia di cui è aggravato e che forse a quest' ora ci ha tolto il caro Boselli, benchè sulla natura di tal malattia mi si dia appena qualche cenno. Del resto, di nuovo coraggio nel Signore; non mancate all' espettazione che io e l' Istituto abbiamo posto in voi, e non mancherete, se vivrete di quella fede di cui vive il giusto, e che tanto ingrandisce i nostri cuori, perchè è la sostanza delle cose che abbiamo a sperare. [...OMISSIS...] 1.4. Non Le dirò quanto il tenore della venerata sua mi abbia fatto arrossire di me medesimo, ma ubbidirò senza proemio al suo desiderio, dicendole quale mi sembra dover essere la condotta di un Vescovo nelle presenti gravissime circostanze. L' incarico che un Vescovo ha ricevuto da Gesù Cristo di predicare il Vangelo e di condurre le anime degli uomini all' eterna salute è così sublime, santo e divino, che non v' ha cautela soverchia da adoperarsi, perchè nessun altro affare terreno ne impedisca od intralci e disturbi l' esercizio. Questo esercizio può essere intralciato sopratutto dalle umane opinioni in materia politica, le quali si dividono e contrariano secondo il vario sentire e pensare delle menti, e pur troppo ancora secondo le varie passioni da cui si lasciano agitare gli uomini e le cieche fazioni che ne derivano. Sopra di tutti questi interessi umani, di queste opinioni, passioni e partiti, che agitano e travagliano la società e l' umanità, si leva il Vangelo, e col Vangelo il Vescovo, che n' è il maestro istituito da Dio, e in questa regione celeste dell' Evangelio egli abita col suo spirito la città della pace imperturbata e felice: « Nostra autem conversatio in coelis est ». Parmi adunque che ogni Pastore della Chiesa cattolica adempia il suo ufficio e corrisponda all' altezza della sua missione divina, se, astenendosi dal prender parte in qualsivoglia politica controversia e dal dichiararsi per qualsivoglia fazione, si limiti a predicare a tutti egualmente e in modo generale la giustizia, la carità, l' umiltà, la mansuetudine, la dolcezza, e tutte le altre virtù evangeliche, riprovando i vizi contrari e difendendo acremente i diritti della Chiesa, dove venissero da qualsivoglia parte violati. Reputo che il Vescovo debba, sopratutto in questi tempi, spargere un olio balsamico di dolcezza nelle piaghe dell' umanità, debba guardarsi da ogni giudizio temerario, da ogni parola ingiuriosa a chicchessia, da ogni adulazione strappata dal timore, da ogni connivenza al male che gli fosse persuasa da speranza di giovare, conservando un contegno grave, riservato, fermo, con una conversazione verso tutti soave ed amorevole, ed insieme atta a far distinguere con una santa dottrina, ma senza alcuna veemenza, il bene dal male. Colla preghiera più assidua ed intensa, col promuovere più studiosamente il culto divino tra i fedeli e tutti gli esercizi di pietà, coll' eccitarli sopratutto ad una frequenza maggiore de' Sacramenti, commendandone l' eccellenza, e facendoli loro amministrare con abbondanza, potrà il Pastore attirare le benedizioni divine sopra il suo popolo, e preservarlo da molti mali richiamando molte menti traviate al retto sentire. E` dall' alto che ci dee venire l' aiuto, è il lume celeste che dee sgombrare le tenebre. Dopo averla ubbidita, debbo domandare scusa dell' ardimento d' averla ubbidita scrivendole cose nelle quali Ella a tutto buon diritto è mio maestro. [...OMISSIS...] 1.49 Una delle opere più vantaggiose, che conviene prefiggersi evangelizzando i popoli, si è di introdurre nelle famiglie e nelle popolazioni cristiane consuetudini le quali, quando si giunge a ben praticarle, propagano il bene di generazione in generazione, e diventano altrettante difese o ripari posti alla corruzione del mondo. Una di queste si è la pratica di recitare nelle famiglie giornalmente il santo Rosario; ed io bramerei che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' inculcare costantemente questa pratica dappertutto ove vanno, e durante la missione trovassero tempo d' insegnare al popolo la maniera di recitarlo, spiegandogli anche il contenuto dell' orazione domenicale e dell' Avemmaria , non meno che l' ordine col quale il Rosario è disposto, del quale è parlato in quel discorsetto sul Rosario che si trova nella raccolta de' miei discorsi. Un' altra pratica da inculcarsi a tutti i cristiani che sanno leggere si è quella di andar sempre in Chiesa con un libro di divozione, col quale possano accompagnare le sacre funzioni. E` impossibile, in generale parlando, che il popolo stia raccolto nelle Chiese, e vi faccia veramente orazione, se non è provveduto dell' aiuto d' un simil libro. Mi è occorso più volte di vedere nella Chiesa una moltitudine di persone starvi coll' apparenza di statue o peggio, quasi non sapendo che fare o che pensare in quel luogo santo. Questo è troppo increscevole a vedersi fra i cattolici ed assai pernicioso alle anime, e in Inghilterra riesce di scandalo ai protestanti, i quali tutti vanno in Chiesa col loro libretto di preghiere. Io vorrei dunque che tutti i nostri missionari si prefiggessero d' accordo d' indurre i cristiani cattolici, a cui sono mandati a predicare, a provvedersi d' un simil libro, e a portarlo sempre seco e leggerlo in Chiesa. Ma perchè la cosa riesca, gioverà che tutti i missionari suggeriscano lo stesso libro, il quale potrebbe essere l' Eucologio stampato in Torino dai Fratelli delle Suole Cristiane. Converrebbe altresì, che i missionari ne facilitassero l' acquisto nei paesi ove vanno, portandone seco un buon numero di copie, o facendo che un libraio od altri ve ne porti, e che siano smerciati a buon prezzo, ma siano tuttavia legati in modo forte ed elegante. Leggete questa lettera a tutti i nostri missionari, ed esortateli tutti ad adoperarsi che queste due consuetudini s' introducano; e se prenderanno la cosa con calore, e sopratutto con uniformità e con costanza, riusciranno allo scopo. Coll' introduzione di queste consuetudini faranno un bene incalcolabile e duraturo, assai maggiore di quello che ottener potrebbero da molte prediche. Già è noto con quanto calore e zelo S. Domenico fece predicare il Rosario, e quanto bene abbiano fatto i Domenicani con questa divozione. Vorrei che tutti i nostri avvivassero in sè stessi lo spirito di San Domenico: così saranno benedetti dalla Madonna. Ma l' altra pratica, del libro di devozione da portarsi in Chiesa, non arrecherà meno di vantaggio alle anime, ed anzi ancor più. Se s' insegna a' cristiani a fare buona orazione, la causa è vinta. Il mondo va così male, perchè molti non fanno orazione, e molti altri la fanno malamente. Conviene cominciare dal poco per renderla facile, e il mezzo che conduce a ciò è appunto la pratica del libretto divoto che suggerisco. Voi tutti adunque, o fratelli carissimi, che siete sacrati alla grand' opera delle Missioni, accingetevi all' impresa di introdurre dappertutto queste due consuetudini; ma fatelo con perseveranza, senza la quale non può riuscire, e così avrete adempita la volontà del vostro Superiore, e in essa quella di Dio, da cui imploro sopra di voi ogni celeste benedizione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto le due lettere, del dì di Natale e pel primo dell' anno: e prima la ringrazio de' suoi buoni augurii che di tutto cuore Le ricambio; di poi La avverto che non mi appartiene ancora il titolo di Eminenza di cui mi onora, giacchè l' esule Pontefice ha sospeso per intanto la promozione degli stabiliti Cardinali, non pel motivo che addussero i giornali, ma per le dolorose circostanze in cui si trova al presente la Chiesa Romana. Venendo ora all' argomento della prima sua lettera, non parmi che Ella bene interpreti le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli disse beati i poveri di spirito, per encomiare e raccomandare il distacco di cuore da tutte le cose mondane; le quali si possono anche possedere e tuttavia esserne pienamente distaccati, usandone pienamente alla gloria di Dio. Così fecero gli Apostoli, ai cui piedi i fedeli della primitiva Chiesa ponevano il prezzo delle possessioni vendute; così fecero tanti Vescovi, che amministrarono le ricchezze della Chiesa a vantaggio de' prossimi senza restar macchiati dal loro contatto, e cavandone anzi grandissimo merito di carità per le sollecitudini spinose che sostenevano nella loro amministrazione; così fecero tanti monarchi che onoriamo sugli altari, un santo Stefano di Ungheria, un san Luigi di Francia ecc., i quali vissero tanto poveri di spirito quanto il minimo fraticello; così fecero tanti sommi Pontefici, che portarono il peso della temporale corona come fosse corona di spine unicamente pel ben della Chiesa, pei popoli loro affidati dalla divina Provvidenza. Il sommo Pontefice non considera mai sè stesso come possessore, ma semplicemente come amministratore e depositario degli Stati della Chiesa: è una sollecitudine di carità che gli è imposta, non un mondano dominio. Nè prova in contrario l' esempio o la parola di Cristo, a cui Ella si appella. Non l' esempio, perchè Cristo, sebbene re degli ebrei e del mondo, non volle assumere la corona temporale del popolo d' Israele; perchè questo non ne era degno, come assai ben mostrò quando invece di accettarlo per re lo confisse al patibolo, e Cristo voleva che il suo regno non gli venisse dalle mani de' perfidi che formavano il mondo, ma lo aspettava da Dio e dai Santi che operano per impulso di Dio: e qual dubbio che, se la nazione ebrea fosse stata fedele e santa, egli avrebbe accettato d' esercitare col mezzo di essa anche il temporale reggimento? Non la parola, la quale altro non significa, secondo la lettera e secondo l' interpretazione de' Padri, se non che il suo regno non era del mondo , cioè non proveniva dalle arti del mondo, dalla violenza, dall' astuzia, nè dagli uomini del mondo; ma bensì traeva l' origine dalla potestà di suo Padre, e dalla santità colla quale egli avrebbe tirato a sè tutte le cose: « omnia traham ad meipsum ». E in vero dalla santità da lui infusa nel mondo provennero poi tutte le largizioni dai fedeli fatte alla Chiesa, e i vari dominii che ella possedette o possiede, dei quali dominii uno è lo Stato ecclesiastico, forse il solo che ancor resta: giacchè come la santità è quella da cui vengono alla Chiesa i beni temporali ch' ella riceve, come dicemmo, unicamente in deposito e in amministrazione a comune vantaggio degli uomini, e massime de' poveri e de' sofferenti, così l' improbità è quella che spoglia la Chiesa di tali beni; e l' improbità se potesse, torrebbe non solo tali beni alla Chiesa, ma ancora l' esistenza e la vita, come già fece del suo Capo divino. D' altra parte non vi hanno regole di governare più giuste, più umane, più liberali, più fratellevoli di quelle che professa la Chiesa, la quale possiede la dottrina della carità. Si possono bensì mescolare nella pratica degli abusi e dei difetti umani, e contro questi è giusto che s' adoperi la censura; ma perchè il Governo ecclesiastico sia perfetto, basta che questi sieno rimossi: non conviene schiantare l' utile pianta, ma coltivarla a regola d' arte. [...OMISSIS...] 1.49 Quanto mi annunziate nella vostra lettera del 6 marzo mi caverebbe dagli occhi del cuore amarissime lagrime, se non assicuraste nella lettera stessa che Iddio vi ha preservato dalle cadute. Ma a buon conto apritevi con una apertissima e sincerissima confessione al P. Provinciale, giacchè questo è un mezzo utilissimo per rinforzarsi coll' aumento della grazia del Signore. Di poi è necessario che produciate in voi stesso una vera compunzione dei falli passati e risoluzioni più forti d' abborrimento al male per l' avvenire. Ma come si può avere la compunzione? Non si può avere se non si dà tutta la colpa a se stesso de' proprii peccati e della propria fragilità. Chi invece di far così, come fanno i veri penitenti, va cercando le proprie colpe nella condotta degli altri, e gli accusa ed incolpa anzichè incolpare e accusare unicamente se stesso, costui non acquisterà mai compunzione nè umiltà, nè distacco da se stesso, nè per conseguenza fortezza spirituale. Molto più se s' incolpano i Superiori a torto, il che è un atto di ingiustizia e di superbia; e finchè dura la superbia, come si può ottenere da Dio la grazia d' esser liberi da gravi tentazioni? I Superiori vi hanno trattato con tutta la carità, e questo lo so perchè il cuore non mente; essi hanno sopportato la vostra inquietudine e indocilità, ed i vostri lamenti, così contrarii alla vostra santa vocazione, in occasione che vi hanno rimosso dalla scuola: ora voi non ricordate più le molestie che voi avete loro arrecato colle vostre censure continue delle loro paterne disposizioni. I Superiori nondimeno hanno presunto bene di voi, giacchè sogliono sempre giudicare nel modo più favorevole de' proprii figliuoli, ed hanno supposto che foste interamente emendato, fondati anche sulle vostre promesse; e dopo aver lasciato trascorrere qualche tempo e datovi agio di esercitarvi in cose spirituali, hanno creduto di poter contentarvi rimettendovi in una scuola di fanciulli d' età maggiore: voi non avete fatto alcuna osservazione in contrario. Ora invece di umiliarvi profondamente davanti al Signore di una condotta così contraria alla perfezione religiosa, che cosa fate? andate col pensiero fuori di voi, e sospettate temerariamente che i Superiori non abbiano cura e sollecitudine della salvezza dell' anima vostra. Come può stare la compunzione, la penitenza, il raccoglimento, l' umile e fervorosa orazione in compagnia di sentimenti che vengono ispirati nel cuore dell' uomo dallo spirito della superbia? No, mio figlio, senza umiltà, senza profonda umiltà non si può conoscere se stesso, non si può avere quegli affetti di perfetta contrizione e di alto disprezzo di sè, che sogliono arrecare una grazia abbondante, colla quale l' uomo umiliato è preservato dai pericoli. A questo dunque tendete con tutto lo studio, ad acquistare un grande amore di Dio. Custodite con somma cautela i sensi: fate orazioni e mortificazioni: e sopratutto esercitate con perfezione l' ubbidienza e l' umile sommissione in tutti i vostri pensieri, parole ed atti. Del resto, certo che vi leverei anche subito dal posto ove siete, se temessi che non poteste tirare innanzi senza pericolo prossimo. Ma non conoscendo ben le cose, nè potendo in tanta distanza esaminare da vicino lo stato vostro, rimetto ogni disposizione a prendere al zelantissimo vostro P. Provinciale, a cui vi raccomando di aprir tutto voi stesso, e di ricorrere come allo stesso Dio, che prego di benedirvi, illuminarvi, santificarvi. [...OMISSIS...] 1.49 Figlio devoto ed ubbidiente alla Chiesa, che è la colonna ed il firmamento della verità, sommesso a tutte le sue decisioni, contro le quali non sorse mai un dubbio nell' animo mio, aderente coll' intime viscere alla dottrina celeste da essa insegnata, dove solo è la pace, il gaudio e la gloria della mente umana e la speranza dell' eterna felicità, io ho sottoposte le molte e molte volte con pubbliche e private dichiarazioni tutte le opere mie e tutte le mie opinioni a quella infallibile maestra e madre, nel grembo della quale per grazia di Dio sono nato e sono rinato alla grazia. Il tenore dell' ossequiatissimo foglio, di cui Vostra Beatitudine mi onorò in data 10 corrente, mi fa provare il bisogno di protestare di nuovo avanti di Lei il pienissimo mio attaccamento alle dottrine della Santa Romana Chiesa di cui sono figlio. Beatissimo Padre, io bramo modificare tutto ciò che ci fosse da modificare nelle mie opere, di correggere tutto ciò che ci fosse da correggere, di ritrattare tutto ciò che ci fosse da ritrattare. Ma il conoscere questo assai più che dalle mie proprie riflessioni, lo aspetto dalla sapienza dell' Eminentissimo Cardinale Mai, a cui ora intendo che Ella ha rimesso da esaminare nuovamente i miei scritti. Egli mi proporrà la dottrina della Chiesa, ed io la sottoscriverò ciecamente. Qualunque cosa nelle mie opere risulterà, dall' esame del Cardinale Mai, di contrario alle decisioni di santa Chiesa, io con giubilo la ritratterò e la condannerò. Io voglio appoggiarmi in tutto sull' autorità della Chiesa, e voglio che tutto il mondo sappia che a questa sola autorità io aderisco, che mi compiaccio delle verità da essa insegnatemi, che mi glorio di ritrattare gli errori in cui potessi essere incorso contro alle infallibili sue decisioni. Nello stesso tempo io desidero ardentemente, e, se oso supplicare Vostra Beatitudine di una grazia, La supplico che una tale definizione si solleciti per mia quiete e per edificazione del prossimo. [...OMISSIS...] 1.49 Ier sera mi fu recata la veneratissima sua scrittami per ordine di N. S. il Santo Padre, colla quale mi dichiarava, che la Santità Sua lascia a me la libertà di scegliere il luogo dove dovessi condurmi in queste circostanze. In conseguenza di che io mi dirigerò domani verso Capua per trattenermi qualche tempo, ed ivi in appresso prenderò consiglio dalle circostanze. Ella mi aggiunge un dolcissimo conforto dicendomi che il Santo Padre mi accompagnerà col suo affetto paterno, e che « pregherà costantemente il Signore, acciocchè mi conceda i lumi da poter conoscere tutto ciò che nelle opere da me scritte potesse dispiacere al divino dispensatore dei doni, la qual cognizione potrò avere volendo assoggettarmi al giudizio della Santa Sede ». Confido grandemente che qualora anche nelle mie opere io avessi inavvertentemente scritto cose erronee e perniciose, la misericordia di Dio Signore mi userà indulgenza, non avendo io mai cercato altro colle mie povere fatiche che la sua gloria, il bene della Chiesa e la salute delle anime; e questo stesso sentimento me l' ha infuso Egli per pura sua bontà. Qualunque decisione poi fosse per emanare dalla Santa Sede, io l' accoglierò con tutto l' animo mio e mi vi conformerò con gioia, non cercando io di sostenere le mie opinioni, ma le dottrine della Santa Chiesa Romana mia maestra, e questo pure lo spero dalla grazia di Gesù Cristo. La comunicazione che V. E. Rev.ma mi fa in iscritto e la benedizione che Sua Santità mi comparte espressa nella sua lettera mi avvisano di trattenermi dal venire in persona prima di partire a baciare il piede al Santo Padre, e fo volentieri questo sacrificio, raccomandandomi anche alle orazioni di Lei, che una volta si compiaceva chiamarmi suo fratello in Gesù Cristo, quale appunto da parte mia io Le sarò sempre e quale ho l' onore di dichiararmi umil.mo servo e fratello in Gesù Cristo. [...OMISSIS...] 1.49 Ricevo pur ora dalla mano del R. P. Boeri il veneratissimo suo foglio dato da Viterbo 12 agosto corrente, nel quale Ella mi significa che, essendosi radunata in Napoli per espresso comando di Sua Santità la Sacra Congregazione dell' Indice, di cui è Prefetto l' Eminentissimo signor Cardinale Brignole, questa fu di unanime consentimento, approvato poi dal Santo Padre, che si dovessero proibire le mie due operette aventi per titolo, l' una: « Delle cinque piaghe della Santa Chiesa », e l' altra: « La Costituzione secondo la giustizia sociale », ecc., e in pari tempo m' interpella sulla mia sommissione al relativo decreto, acciocchè possa esserne fatta menzione nel decreto medesimo. Coi sentimenti pertanto del figliuolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore, e me ne sono anche pubblicamente professato, io le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile, pregandola di assicurare di ciò il Santissimo Nostro Padre e la Sacra Congregazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ho ricevuto qui in Albano una lettera del caro Gilardi in data del 4 agosto, nella quale trovai copia di un' altra lettera che voi mi avete scritto in data del 7 luglio, dirigendola a Santa Lucia di Caserta, la quale debb' essere andata perduta. A questa prima di tutto rispondo pregandovi di non far cosa alcuna di ciò che mi esponete di aver deliberato coi vostri due Consultori in occasione della persecuzione mossa contro di me. Questa persecuzione conviene lasciare che si sfoghi, perchè è Dio che la vuole, cioè che la permette pe' suoi adorabili fini, ed io perciò ne sono contentissimo. Sono ormai certo che verrà proibito tanto il libro delle « Cinque piaghe » quanto quello della « Costituzione », senza che a me venga comunicato il motivo o la ragione della proibizione. Io mi sommetterò pienissimamente al decreto, come è cosa doverosa di farsi, e non ne domanderò la ragione, la quale già non mi sarebbe comunicata. Ho ragione di credere che quasi tutti i Cardinali e specialmente il Prefetto dell' Indice mi sieno contrari: prove di amicizia non ricevo che dal buon Cardinale Castracane e dal Cardinale Tosti, il quale ha la bontà di ospitarmi qui in Albano, ma nè l' uno nè l' altro di questi possono cosa alcuna nei momenti presenti. Sono momenti di turbazione e di passioni. Ottenuta la proibizione di quelle mie due operette, è ben naturale che non si possa parlar più di Cardinalato. Tuttavia, per le ragioni stesse che voi dite, io mi devo trattener qui fino che non mi sia noto espressamente il volere del Santo Padre, e vi sto tranquillissimo e contento. Il Padre Theiner fece stampare a Napoli un opuscolo contro il libro delle « Cinque piaghe », nel quale si dicono molti errori evidenti ed eresie. Io ne sto componendo una risposta, la quale mi sembra dover riuscire concludentissima; ma venendo proibito il mio libro, non conviene più che io la stampi, perchè sembrerebbe che volessi difendere una cosa proibita, e darei nuovo appiglio ai nemici. Le ragioni, per le quali io vi prego di non fare alcun fatto in questa bisogna, sono: 1 perchè essendo voi altri lontani, e non conoscendo le persone che attorniano il Pontefice, potreste fare dei passi assai falsi con pregiudizio dell' Istituto; 2 perchè sembrerebbe la cosa mossa da me, e la persecuzione, lungi dal cessare, si incalorirebbe vie più; 3 perchè non essendo io consapevole di aver fatto, detto o scritto cosa alcuna maliziosamente, conviene avere una viva fede in Dio, il quale dispone ogni cosa pel bene della sua Chiesa, e se sarà di sua volontà e di utilità alla Chiesa, farà indubitatamente tornare il sereno dopo la tempesta, e tanto più presto, quanto meno ci porremo dell' opera nostra e più della fede in lui; 4 perchè una persecuzione che non ha alcun solido fondamento, va a cessare da sè stessa solo tacendo e sopportando. Dirò come diceva San Francesco di Sales quando era messo in pericolo il suo onore: « Iddio sa di qual grado d' onore noi abbisogniamo per poterlo meglio servire; quel tanto d' onore che ci bisogna a un tal fine, Egli saprà mantenercelo, senza che noi ce ne prendiamo sollecitudine ». D' altra parte da tutti questi avvenimenti nascono molti beni; e fra gli altri io ne vedo uno, del quale sono a Dio gratissimo, e questo si è del tenermi più lontano dal mondo e da uno stato di cose così imbrogliate e difficili, in cui al presente si trova lo Stato Romano, dal quale non si vede alcuna uscita. Povero me, se dovessi o come Cardinale o con altro impiego prender parte agli affari di questo Governo! Io sarei intieramente sacrificato senza produrre alcun bene agli altri. Così lontani, come voi siete, non potete conoscere nè immaginare questo orribile caos. Iddio adunque per la sua singolare misericordia mi salva ora dal perdermi in un vortice divoratore. Ben intendo il trionfo che meneranno i nemici, le dicerie dei malevoli, l' alienazione da noi di molti deboli amici; ma noi dobbiamo sapere servire al Signore « per infamiam et per bonam famam ». E se possiamo sperare di avere Iddio con noi, « quis contra nos? Si consistant adversum me castra... in hoc ego sperabo ». Acciocchè poi voi vediate chiaramente tutto ciò che è avvenuto fin qui in questo affare, vi mando copia della relazione che ne ho data al nostro buon amico il Cardinale Castracane, raccomandandovi nello stesso tempo di usare il più gran secreto e una somma prudenza nel favellare. Questo è il tempo di tacere e di pregare. Il Papa non rientrerà nello Stato, a quanto si crede, prima del mese d' ottobre, e perciò non ispero ricever ordini prima di quel tempo. Attenetevi dunque ai miei consigli, e siate superiori a tutto ciò che dicono gli uomini, nei quali non dobbiamo confidare, e i quali non dobbiamo temere. Scrivetemi quanto prima d' aver ricevuto la presente. Dite al caro Gilardi, che per ora non si può più parlare della ristampa del libro delle « Piaghe ». Io vi ho sempre tutti nel cuore, e vi metto ogni dì sulla patena e nel calice di Cristo. Egli vi custodisca e benedica perchè possiate arrecare quel frutto plurimum che esige dalla vite che egli va potando. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Ringraziamo il Signore, il quale ora permette che io sia preso assai di mira anche da persone, che moltissimo influiscono sul Pontefice. Si fa ogni sforzo perchè vengano messi all' Indice i due miei scritti delle Cinque piaghe , e la Costituzione ; e vi riusciranno per certo non avendo io alcuna via aperta a difendermi. Io mi sommetterò alla condanna con tutta la sincerità del cuore. So che non mi verranno comunicate le ragioni, e un Cardinale mi disse che errori non ve ne sono: saranno probabilmente proibite per l' inopportunità di quegli scritti e il pericolo d' abuso. Non ci affliggiamo punto di questo, mio caro, ma, come dicevo, ringraziamone il Signore, il quale vuole provarci, o permettere a Satana di cribrarci. Io mi fermerò in Albano, dove convivo coll' Em.mo Tosti in questo suo casino: il Cardinale mi usa ogni atto gentile. Quando rientrerà il Papa nei suoi Stati, e non sarà certo prima di ottobre, allora saprò forse qualche cosa delle sue disposizioni a mio riguardo. Qualora voi poteste senza inconveniente venire in Italia, io ve lo permetto: nè sarebbe da tardare per non incontrare la stagione troppo fredda al ritorno. Potreste forse sbarcare a Napoli, e di là recarvi qui meco, il che mi sarebbe di grande consolazione. Ma tutto si dovrebbe fare in modo che non ne soffrisse cotesta cara e importantissima Missione inglese per la vostra assenza. Voi coi vostri Consultori giudicherete. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Non ho fatto che puramente il mio dovere nel sottomettermi pienamente al decreto della sacra Congregazione che fu poi approvato dal Santo Padre. E perchè non intendo di scrivere la presente al Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, ma alla privata persona del Rev.mo Padre Buttaoni, a cui ho somma devozione e stima, aggiungerò che, per pura grazia di Dio, non ho mai avuta in vita mia alcuna tentazione in materia di fede, e non ho mai esitato un solo istante a condannare qualunque cosa la santa Sede fosse per condannare ne' miei scritti o altrove. Quando nel mese del prossimo passato settembre il Santo Padre si era degnato ordinarmi di scrivergli una lettera, nella quale dichiarassi o correggessi alcuni punti osservati nelle due note operette che mi avrebbe fatto indicare da Mons. Corboli, io per desiderio di uniformarmi colla più saggia esattezza alla mente del Sommo Pontefice, pregai lo stesso Mons. Corboli di estenderne la precisa minuta, e quindi copiata la sottoscrissi e la presentai al Santo Padre. Quando poi lo stesso Santo Padre mi disse che la facessi esprimendo più esplicitamente il punto che riguardava le vescovili elezioni, ubbidii subito come era debito, e mandai da Napoli a Gaeta quanto mi sembrava desiderare il Papa, di che egli non mi fece più alcun cenno. Avendomi in appresso il Santo Padre stesso scritto di aver deputato ad esaminare le mie opere il Cardinal Mai e ordinato di conferire con lui, ne lo ringraziai e mi recai tosto dal detto Cardinale per adempire tutto ciò che mi avesse indicato; ma ebbi per risposta dal Cardinale, che egli non avea voluto accettare un tale incarico, e che il Santo Padre ne lo avea dispensato. Così stavano le cose quando ricevetti qui in Albano il veneratissimo suo foglio del 12 corrente, riuscitomi del tutto improvviso. Ora Iddio è testimonio della mia sincera e costante disposizione di sottomettermi in tutto, e di ubbidire in tutto ai miei superiori. Perdoni, Rev.mo Padre, se La ho trattenuta con questa inutile lettera, a cui non s' incomodi a rispondere. La ho scritta pel dovere di renderle grazie de' benignissimi conforti che mi dà colla gentile sua del 20 pur ora ricevuta. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 « Sit nomen Domini benedictum », al quale è piaciuto che si proibissero i due libri delle « Cinque piaghe » e della « Costituzione ». La cosa mi venne assai improvvisa, perchè mi fu tenuta secretissima: si fece in un' adunanza della sacra Congregazione tenuta a Napoli straordinariamente, non col solito segretario, ma con altro a ciò delegato: con quei cardinali che ivi si trovavano, essendo alla presidenza Brignole, sempre avverso alle cose del nostro Istituto, e per consultore si adoperò Secchi7Murro: niuno che fosse a noi benevolo. Ringraziamone di nuovo Iddio: io mi sono sottomesso alla proibizione ciecamente, benchè mi sia tenuto segreto il motivo, il quale, a dir di taluni, fu più politico che religioso. - Mi ha dato non leggera consolazione spirituale l' intendere che vi siete adoperati nell' assistere i colerosi: faccia Iddio che siate i primi di tutti in tali opere di generoso zelo. Beati, se vi toccasse la grazia di esser vittima della carità! Ma anche il sacrificio che non si consuma materialmente, spiritualmente è perfetto: e Iddio che è spirito ve lo imputa a corona. - Vi raccomando di governare i fratelli nello spirito del Signore, secondo le norme e le regole dell' Istituto, con dolcissima carità e con fortezza costante. Non chi comincia, ma chi persevera sarà salvo. Abbraccio e benedico tutti cotesti miei carissimi in Cristo. Non pensate alla traslocazione del Cesana, ma a sopportarlo e renderlo migliore: fategli fare il cinto ed il tabarro di cui abbisogna, come vedrete dalla annessa lettera. La carità pazientissima usata da lui col caro Don Roberto, la cui anima godrà ora la vista di Dio, merita che noi pure siamo verso di lui in particolar modo caritatevoli, rendendogli il cambio de' suoi servigi. Addio, non vi prendete pena delle cose mie, perchè in qualunque modo vadano a sciogliersi, il Signore mi dona una pace perfetta, e spero nella sua misericordia che me ne continuerà il dono, com' io ne lo prego, e voi altri meco. [...OMISSIS...] 1.49 Gli amici che sempre eguali si dimostrano e non cangiano clima come le rondini, sono quel tesoro inapprezzabile di cui parlano le divine Lettere. Voi, mio soavissimo Paolo, siete uno di questi rarissimi, e la vostra cara lettera, nella quale il minor fregio è l' eleganza della latina favella, mi conferma quello che da lunghi anni conoscevo; perciò vi porto sempre, non dirò in oculis , ma nel cuore riconoscente. Tanto è poi vero quello che voi dite, che non si può rinvenire nulla di più dolce che il sapere con certezza di ragione e di fede, e il tener fermissimo, averci un Nume ottimo, sapientissimo, potentissimo, regolatore di tutte le umane cose, soccorritore di quelli che in lui confidano; che l' improvviso avvenimento testè accadutomi del vedere due mie opericciuole ascritte all' indice de' libri proibiti per nulla alterò la mia pace e la contentezza dell' animo mio, anzi espresse dal medesimo sentimenti sinceri di ringraziamento e di lode a quella Provvidenza divina, che disponendo ogni cosa coll' amore, anche questo per solo amore permise. Ma non crediate tuttavia che questa tranquillità sia cosa mia propria: perchè ben so che io sarei in balìa di ogni perturbazione e passione, se Colui che ascolta le umili nostre preghiere e conosce i bisogni della nostra infermità, non me ne avesse protetto misericordiosamente colla sua grazia, e in me sostituito al mio disordine umano il suo ordine divino. Laonde di questa stessa grazia del Signore nostro ho gran cagione d' umiliarmi e di essergli grato senza misura; di che conviene che i veri amici, come voi siete, mi aiutino a ringraziarlo anche di questo, il che io non so fare nè degnamente, nè bastantemente. E di vero quanto non sarebbe stato facile che io mi turbassi ad un annunzio così impreveduto, se non altro pel danno che ne potrebbe venire a' miei fratelli, che servono il Signore nell' Istituto della Carità, e pel dolore che ne proveranno? Ma in questo stesso mi confortano assai due pensieri: l' uno che so di certo che tutti si uniranno a me nella sottomissione e nella docilità, baciando anche la mano che ci percuote; l' altro che non si raffredderanno punto, nè diverranno perciò più lenti in quelle opere che prestano alla Chiesa ed alla carità de' prossimi con tante loro privazioni e fatiche. Quanto poi a quello che potranno soffrire dagli uomini, Iddio che li raccolse e che disse: « « Ove due o tre di voi si uniranno nel nome mio, io sarò nel mezzo di loro » », distenderà le sue ali, sotto le quali sicuri e fidenti troveranno ricovero. In quanto a me dirò sempre: « Tollite me et mittite in mare, et cessabit mare a vobis: scio enim ego quoniam propter me tempestas haec grandis venit super vos . » Sto anche pensando come possa recarmi quanto prima in mezzo di loro a consolarli: ma l' ingombro delle cose che ho a Roma, e di cui non so ancora come disporre, mi rallenta l' esecuzione di questo mio desiderio. Or basta: quando mi toccherà la buona ventura di riabbracciarvi, di più a voce. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Rispondo alle care vostre del 2 e 7 corrente, che non è d' affliggersi per la proibizione delle mie due operette; e ciò perchè non è da prendersi affanno che del peccato. Fu retta l' intenzione con cui furono scritte, la coscienza mi rende questo testimonio. Noi dobbiamo rimanere sinceramente sottomessi al decreto, e dobbiamo prendere anche questo avvenimento dalle mani dell' amorosissima Provvidenza che lo permise. Se fui obbligato ad accettare la porpora e a fare gravissime spese per provvedermi del corredo cardinalizio, se ne fu differito il conferimento per la fuga del Papa da Roma, se ora, come credo, il Papa non me la conferirà più; questo è affatto nulla, perchè non ci pregiudica, ed anzi ci può aiutare ad ottenere il nostro fine. Se questo è un disonore presso gli uomini, che giudicheranno esserci noi resi colpevoli di qualche grave mancanza, dobbiamo avere presente che noi dobbiamo essere ugualmente disposti a servire Gesù Cristo « sive per infamiam, sive per bonam famam ». Stiamo dunque tranquilli ed allegri, se possiamo essere umiliati e patire qualche cosa ad imitazione di GESU` Cristo. Quando il Papa mi annunziò il cardinalato, il nostro caro e santo fratello Gentili mi scriveva queste belle parole: Padre mio, si ricordi della porpora di cui coprirono le spalle di nostro Signor GESU` Cristo : egli parlava forse in ispirito quasi profetico. Spero che il nostro caro Istituto non soffrirà alcuna scossa da questo avvenimento; e se dovesse sofferirne, sarà per risorgere più bello e più glorioso nel Signore. Quanto a me, non vi prendete alcun pensiero umano. Non so ancora se e quanto mi fermerò qui: vorrei prima conoscere più esplicitamente la mente di Sua Santità. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Consideriamo, com' è dover nostro, le cose dall' alto. Una somma bontà e sapienza il tutto dispone per nostro bene e per la sua gloria. Quindi ho benedetto il Signore nella proibizione delle due mie operette, come in ogni altro evento più felice, e con tutta la sincerità e devozione del cuore mi sono sottomesso al decreto, senza conoscerne o ricercarne i motivi. Furono proibite: dunque c' erano ragioni di proibirle, altro a me non importa sapere. Sono bensì grato all' amicizia ch' Ella mi dimostra in questa occasione, di che mi è testimonio la sua letterina. Ho sentito con molto dispiacere, che cotesto ottimo Mons. Vescovo sia incomodato: prego Iddio che ce lo conservi. Spero che Ella qualche volta visiterà cotesti miei buoni fratelli di S. Zeno: li raccomando alla sua amicizia. Quest' anno non potrò vederli, come oltremodo bramerei; ma sia fatta anche in questo la volontà di Dio. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando vi scrivevo che sarebbero state poste all' Indice le due note operette, io sapevo che il decreto era stato fatto il 30 maggio e confermato dal Papa il 6 giugno, perchè il Maestro del sacro Palazzo m' aveva scritto officialmente per domandarmi se io mi sottomettevo. Per quantunque improvviso mi sia riuscito un tal decreto (fattosi in Napoli in adunanza straordinaria, con segretario straordinario, essendo uno dei Consultori il P. Secchi7Murro), tuttavia non mi turbò, perchè raccomandandomi a Dio, non solo ebbi la grazia di sottomettermi senza difficoltà, ma anche con consolazione dell' animo mio, pensando che così ed io e l' Istituto sentiremo meglio di essere nelle mani paterne del Signore, e a quelle dolcemente ci abbandoneremo. Nessun motivo mi fu comunicato della proibizione, e proibendosi certi libri non solo per errori che contengano, ma ben anco per una prudente economia che intende sottrarre agli occhi del pubblico quelle dottrine di cui si potesse temere abuso, è verisimile che per quest' ultima causa si sia venuto alla accennata proibizione. D' altra parte non sarebbe la prima volta che con un nuovo esame si sieno tolti dall' Indice dei libri che vi erano stati inscritti, e fra gli altri, i libri che insegnavano il movimento della terra. Ma l' autorità ha parlato, e basta; noi tutti staremo sempre sottomessi ad ogni decisione. Conviene però che in pari tempo accresciamo la nostra fede, e confidati in Dio, stiamo fermi, come scoglio, nella fiducia della sua infinita bontà e provvidenza: sotto le sue ali poniamo noi e l' Istituto, lavoriamo allegramente, e senza avvilirci od abbatterci, per la sua gloria e pel bene de' nostri fratelli: e questa confidenza e santo coraggio domandiamolo a lui stesso caldamente, perocchè egli ce lo darà. [...OMISSIS...] Io mi sento a segno tale contento, che altrettanto non fui innanzi al decreto: la mia coscienza non mi rimprovera nulla: « Deus autem est qui iudicat ». Quando siamo umiliati, umiliamoci ancor più e saremo esaltati: la parola è di Gesù Cristo. Rinunzio alla consolazione di vedervi se la venuta vostra potrebbe pregiudicare cotest' opera santissima, che Iddio v' ha posto così manifestamente alle mani. Vi avrei detto molte cose, che non posso comunicare ad una lettera. La vostra supplica al Papa, benchè giunga tardi, farà buon effetto. Nei disegni di Dio sta qualche cosa di grande, di grande dico, anche agli occhi nostri, perocchè in sè stessi i suoi disegni sono sempre grandi, anzi infinitamente grandi. Circa il rimanente, vi risponderò dal Piemonte, dove conto ritornare, giacchè va da sè, io credo, che il Cardinalato, che il Papa mi obbligò di accettare (onde spesi da otto a nove mila scudi pel corredo), sia andato a finire nella proibizione dei due opuscoli; benchè questi fossero stampati e noti al Papa prima che mi ordinasse di prepararmi ad essere promosso alla porpora nel prossimo Concistoro, che doveva cadere nel passato dicembre. L' essere alleggerito del peso di questa dignità mi è caro, salvo il disonore che me ne viene presso gli uomini; ma anche questo lo sopporto pensando che uno molto maggiore tollerò Gesù Cristo, e che egli sa qual sia il grado d' onore che ci faccia bisogno per meglio servirlo in quelle cose nelle quali egli vuole essere da noi servito. Il nostro caro fratello D. Luigi fu profeta, quando, udita la promozione intimatami dal Papa, mi ammonì di ricordarmi di quel cencio di porpora di cui furono coperte le spalle di Gesù Cristo. Coraggio adunque! Io partirò pel Piemonte entro i prossimi quindici giorni, ma mi fermerò alcuni giorni a Firenze. Orazione, orazione, orazione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi con retta coscienza cerchiamo di servire il Signore conviene riposarsi in lui, nè troppo rattristarci di ciò che avviene. Al Signore è piaciuto non solo che venissero poste all' Indice le due note operette, ma che questo affare mi si celasse con tanta secretezza, che allora solo il seppi quando vi scrissi, essendosi bensì fatto il decreto il giorno 30 di maggio e confermato dal Papa il giorno 6 giugno, ma non pubblicato se non sulla fine di luglio. Se avessi saputo prima che questo affare si trattava, non avrei mancato di avvisarvene. Ma come poteva formarne nè pure un prudente sospetto, se dai colloquii avuti col Santo Padre io dovevo anzi indurre tutt' altro? Già molto prima il Santo Padre m' avea detto che i miei avversari avenano la veduta corta d' una spanna. Io l' aveva veduto anche il 9 giugno e i giorni successivi cioè alcuni giorni dopo la conferma del decreto: m' avea trattato come il solito, m' avea parlato delle cose dello Stato, e solo nell' ultima udienza o nella penultima gli uscirono queste parole: « stanno esaminando le sue opere », il che io intesi di qualche esame privato, di cui mi sarebbe comunicato il risultato. In quella vece non si esaminavano, ma il decreto era già fatto, e confermato a voce da alcuni giorni. Lungi da me ogni maniera di cavillazione o di sottigliezza legale; ma ben vi dico, che se un uomo di legge volesse instruire su questo avvenimento un processo, avrebbe molti e validi indizi da far parere verosimile che il Papa non fu libero in tal negozio, che pronunciò contro il suo sentimento a me manifestato più volte, e che la conferma del decreto fu ottenuta orretiziamente e surretiziamente, e per una umana e diplomatica pressione. Ma come dicevo, tutte queste cose, e la mia causa stessa l' abbandono intieramente al Signore, da cui viene ogni cosa e per la causa del quale ho scritto quello che ho scritto: perchè la causa della Chiesa è la causa di Cristo. Le quali considerazioni fecero sì che, pel divino favore, la proibizione non mi abbia recato nè turbamento grave, nè grave dolore; e mi sia sottomesso con semplicità di cuore, senza fatica. Questa finalmente non importa una condanna delle dottrine; ma importa la proibizione fatta a' fedeli di leggere que' libri giudicati inopportuni e dannosi nelle presenti circostanze de' tempi. Così il Pontefice Alessandro II sottrasse agli occhi del pubblico il libro intitolato « Gomorrhianus » di S. Pier Damiani; e non è unico quell' esempio, senza intendere con ciò di paragonare me stesso con uomini così santi e dottissimi; e senza nè pure volere affermare nulla sulla dottrina dei due libri proibiti, sulla quale è certo che non ha parlato ancora la Chiesa. Io credo che se voi conosceste le circostanze in cui si trovava a Gaeta ed ora in Napoli il Santo Padre, vi farebbe assai meno maraviglia l' avvenuto. Persuadete dunque il caro Bertetti, che io nulla vi tenni nascosto di quello che seppi, non vi ho ingannati; ma bensì sono stato ingannato io, e tosto che rilevai la cosa, ve la scrissi con ogni schiettezza. A vostro conforto, voglio altresì aggiungere che l' effetto della proibizione e della mia sommissione, fu più favorevole a noi che contrario; tanto in Roma quanto in Piemonte e a Verona; eccetto nel partito de' nostri avversari. Non temiamo adunque come v' ho scritto nell' ultima mia, ma confidiamo grandemente in Dio, che caverà anche da questo, come da ogni cosa la sua gloria. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Vi sono oltremodo obbligato della cara vostra lettera, che dimostra ad un tempo ardente zelo per la causa di Cristo e della Chiesa, e molta amicizia per me. Ora lasciamo fare a Dio, mio carissimo, e noi non pensiamo che a fare il dover nostro; sforzandoci col divino aiuto di compiere ogni giustizia, secondo l' esempio datoci dal Signor Nostro Gesù Cristo. Questa giustizia voleva che io mi sottoponessi, con sincerità di cuore, al decreto dell' autorità competente, senza badare al modo straordinario col quale venne emanato e alle eccezioni alle quali potesse soggiacere, fra le quali una è il trovarsi in contraddizione colle private parole dettemi dal Sommo Pontefice. Deve essere nel grand' ordine della divina sapienza anche questo un mezzo necessario a fare andare avanti il regno di Dio e la gloria di Cristo: e noi, che altro non vogliamo, esultiamone. Nostro Signore, che non dà mai un peso a portare senza aggiungere forza a chi lo deve portare, ove umilmente gliela dimandi, mi ha conceduto in questa bisogna una pienissima pace ed anche letizia. Che vogliamo noi di più? Intanto uno de' beni che ne verranno, oltre quello della maggior nostra umiliazione e pratica uniformità al suo volere, sarà quello di poterci presto rivedere; perocchè conto di partir da Roma in pochi giorni e per la via di Firenze, Livorno e Genova, affine d' evitare i luoghi infetti di colera, restituirmi al nido di Stresa. Io non so più nulla dell' affare del Cardinalato, dopo esser partito da Gaeta, e dopo la proibizione; ma quello che io credo si è che non avrà luogo alcuna promozione alla porpora prima del ritorno del Santo Padre a Roma, dove è ancora incerto quando si potrà condurre, non prendendo un buon avviamento le cose pubbliche di questi Stati. Godo sentendo che siete stato incaricato dal Vescovo d' insegnare il metodo alle Monache della diocesi, e che lo stesso abbiate fatto colle nostre Suore: l' opera che avete alle mani è opera grande, opera di Dio, cui prego di cuore di volervi rendere un nuovo Calasanzio. Salutatemi in Domino tutti i nostri carissimi maestri, e confortateli ad intendere la dignità e la bellezza della loro santa missione. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Quando noi non vogliamo altro che quello che vuole Iddio, godremo sempre la pace di Cristo che contiene ogni bene. L' improvvisa e inaspettata proibizione delle mie due operette non ha potuto togliermela; nè il modo segreto con cui fu condotta, nè i maneggi d' ogni specie che vi si mescolarono, impedirono che io mi sottomettessi con tutta la sincerità del cuore a ciò che stimò bene di pronunciare la competente autorità. Nondimeno mi conforta l' essere stato assicurato che la proibizione non fu fatta perchè si fosse trovata nelle dette mie operette alcuna proposizione degna di censura teologica, ma perchè si credettero inopportune alla condizione politica dei tempi, dispiacendo sopra tutto a qualche potenza temporale ciò che vi si trova scritto intorno alla maniera d' eleggere i Vescovi, quantunque scrivessi con sincera persuasione di dir cosa non meno utile alla Chiesa che agli Stati, cosa che influirebbe a mio vedere a temperare le esorbitanze de' popoli dando a questi una tendenza religiosa; i quali se non si avviano a pensare ed occuparsi delle cose religiose, rovescieranno la loro esorbitante attività sulla società civile, e ne turberanno tanto più l' ordine, quanto più saranno empi e indifferenti ai negozi religiosi. Comecchè sia, io mi sono ciecamente sottomesso a quel decreto, com' era mio debito. Godo assai de' buoni avanzamenti de' tuoi figliuoli, nei quali il Signore ti benedirà. A me non meno che a te dispiace che la nostra unione sia tolta, o almeno differita. Io credo che non ci saranno promozioni alla porpora prima che il Papa entri in Roma, il che non so davvero quando possa essere, lo stato delle cose pubbliche e delle opinioni rimanendo ancora tutt' altro che sicuro e consolante. Quando poi il Papa sarà tornato alla sua capitale non so quello che sarà di me. Perocchè quantunque a Gaeta stessa m' abbia assicurato che nella prossima promozione avrebbe compreso l' umile mia persona, tuttavia dopo la mia partenza di là venni a sapere ciò che si lavorava in Napoli, di cui fu effetto la congregazione straordinaria che proibì le mie operette: e questo può aver mutata la deliberazione del Papa, benchè nessuno avviso io ne avessi. In questa oscurità e contraddizione di avvenimenti, io penso di tornare per intanto a Stresa ed ivi aspettare l' esito definitivo che mi farà conoscere la volontà divina. Tu già sai che io nulla omisi per declinare l' onore e il peso del cardinalato, e che fui obbligato in coscienza a sottomettermi. Se dunque come tutte le cose sembrano tornare nello statu quo , anche io ritorno nello statu quo ; non è certamente questo che mi rincresca. 1.49 Non ho risposto prima alla dolcissima sua lettera piena de' sensi della più vera cristiana amicizia, ricevuta anche tardi, per diverse occupazioni che mi sottraevano il tempo destinato al carteggio cogli amici. Nel sottomettermi, come ho fatto con pienezza di cuore, al decreto emanato dalla autorità competente e riuscitomi del tutto improvviso ed inaspettato, non ho fatto che un semplice atto doveroso per ogni figliuolo della Chiesa, di cui io sono l' ultimo; nè per grazia di Dio un tale avvenimento mi diminuì punto nè poco la pace. Iddio mi è testimonio che quello che ho scritto, l' ho scritto pel bene della santa Chiesa e del prossimo, ma dichiarando in pari tempo che io non mi reputava il giudice di ciò che potesse convenire ai tempi ed alle circostanze, e quindi che io sottometteva ogni cosa al giudizio supremo della Chiesa stessa, che n' è il vero giudice. Ella ha trovato che fosse meglio sottrarre agli occhi de' fedeli que' miei suggerimenti o consigli; e così sia. Mi conforta che da più persone di merito fui assicurato, che niuna proposizione si riscontrò in quelle scritture degna di particolar censura teologica: onde inferisco che debbano probabilmente essere state proibite per timore dell' abuso, e perchè non rimanessero offesi alcuni Governi tenaci delle nomine vescovili; benchè io credessi in buona fede, che la libertà delle elezioni diventerebbe un vantaggio non meno della Chiesa che degli Stati, ai quali niente più nuoce dell' irreligione dei popoli, nè veggo come questa possa cessare se i popoli non abbiano Pastori di tutta loro confidenza, e i popoli stessi non prendano un vivo interessamento per tutte quelle cose che riguardano la religione e la Chiesa. Rivolta l' attenzione e il pensiero de' popoli alle cose religiose, non rovescierebbero la loro attività aumentata sulle cose politiche con sì gran danno dell' ordine pubblico, come pur troppo veggiamo avvenire e dolorosamente sperimentiamo. Molti già intendono la cosa così, ma non osano zittire, perchè il timore di far peggio comprime i buoni: ed anzi, venendo l' occasione di doversi manifestare, si mettono dalla parte contraria. Io però non veggo tutte le cose presenti della nostra religione santissima di color così fosco come la veggon taluni: ma confido vivamente che la divina Provvidenza vada preparando uno stato novello di cose, alla religione ed alla causa della Chiesa, utile e glorioso. Quanto poi s' attiene alla mia persona, nulla affatto ci penso, come nulla so di quanto sarà per disporre il sommo Pontefice, dopo tutti i precedenti. Intanto conto di restituirmi a Stresa fra i miei carissimi compagni che da tanto tempo non veggo, e m' accompagna la dolce speranza di poter ivi riabbracciare il mio carissimo amico Gustavo. Con sommo dolore debbo dire che qui le cose non procedono come si desidererebbe, nè lo spirito pubblico migliora, nè ancora si sa quando il Santo Padre potrà rientrare con fiducia nella sua capitale. Del pari mi danno gran dolore le cose pubbliche del Piemonte, mia seconda patria, e mi ha pur sommamente attristato vedendo i tentativi sacrileghi che si stanno ordendo per ispogliare la Chiesa delle sostanze temporali, e renderla schiava del Governo che le getti un tozzo di pane perchè viva. Chi avrebbe aspettato in un regno, poco fa così devoto alla Chiesa, macchinazioni così empie e così opposte ai principŒ più elementari del giusto e dell' onesto? E questa dev' essere la strada della libertà? Povera Italia! traditi Governi! Ho ricevuto a suo tempo la lettera scrittami prima in Albano, come pure ho consegnata l' acchiusa per l' Em.mo Tosti, a cui fu aggraditissima. Non è facile a dire quanto La ami e La stimi; egli ha dovuto tornare in Roma per alcuni giorni, dove lo rivedrò domani. Mi usò ogni immaginabile tratto d' amicizia pel lungo soggiorno che feci presso di lui. Mille ossequi a tutta la sua famiglia. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Avrete ricevuto risposta alla vostra precedente lettera; ora aggiungo poche linee per rispondere all' ultima che mi avete scritta in data 17 p. p. settembre. L' abisso della divina sapienza e scienza di Dio merita un abisso di adorazione e di amore; e se la tardità e durezza del nostro cuore di carne non può toccare il fondo di questo abisso, dobbiamo almeno esercitare quegli atti di adorazione e di amore che possiamo maggiori, e il più che vi manca e che ci resta quasi in abito deve supplirsi colla conoscenza del difetto nostro e colla umiltà che ne consegue. Così avremo l' inalterabile pace di Cristo, che non il mondo, ma noi soli sentiamo. Questo principio verissimo ci dispensa altresì dal sottilizzare sull' autorità che ci parla e sugli atti suoi, e ci dispensa da una scienza travagliosa e pericolosa. Tanto più che della proibizione d' un libro non è conseguenza necessaria il contenere esso dottrine degne di censura, perocchè colla proibizione non altro fa la Chiesa che giudicarlo inopportuno a' fedeli, agli occhi dei quali il sottrae, come avvenne di un libro di S. Pier Damiani, e più recentemente dell' opera del P. Lacunza, del quale, parlando io una volta col Papa, mi assicurò egli stesso, che in quel libro non ci avevano dottrine condannabili, ma era stato proibito per una cotal prudenza ed economia della Chiesa. Conviene adunque che noi facciamo quello che è tante volte inculcato nelle divine Scritture colle frasi « expectare Dominum, sustinere Dominum », e ciò con viva sicurissima fede. Del rimanemente ringrazio di cuore il Signore che, mediante l' accidente intervenuto, egli siasi degnato di illuminarvi nella cognizione di voi stesso con aumento di umiltà (la più preziosa di tutte le virtù, perchè fondamento di tutte) e di saviezza. Domani parto per Roma, e di là m' incammino verso coteste anime a me carissime, e tutte colla mia nel Signore conglutinate. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.49 Godo che la lettera del Cardinal Franzoni sia venuta a confortarvi in questa prova che v' ha mandato il Signore. Ma assai più ho goduto in vedere che la divina Provvidenza chiaramente si manifesta a favore del progetto, tanto da voi bramato, di erigere costì un Collegio di Missionarii per le Nazioni estere. Ora mi sembra cosa di somma importanza di cominciare dallo stabilire alcune massime fondamentali che servano di norma alla istituzione di detto Collegio. E prima di stabilirle, bramo di sentire tutti i vostri sentimenti e concetti, dandovi intanto su di ciò un cenno de' miei. Per quanto ho potuto osservare, parmi che nel preparare i Missionarii ad opera così sublime, si possano commettere due sbagli egualmente dannosi, i quali potrebbero isterilire le Missioni. Il primo si è di credere che Iddio doni la grazia dell' apostolato assai largamente, quand' ella anzi essendo di tutte sublimissima, non è data a tutti, ed esige la maggiore cooperazione da parte dei vocati, il cui numero potrà essere accresciuto soltanto per virtù d' orazioni, avendo detto Gesù Cristo: « « La messe è molta per certo, ma gli operai sono pochi: pregate dunque il Signore della messe che mandi operai nella messe sua » ». Sì certamente sono scarsi ed anzi scarsissimi gli uomini apostolici, i quali non possono essere tali, se non sono eminenti nell' orazione e nello zelo di annunziare la parola di Dio. « Nos vero orationi instantes erimus . » E questo ci dee fare conchiudere di non eleggere alle Missioni straniere, in cui si tratti di diffondere il Vangelo agli infedeli, se non quei pochi che sono di provata vocazione, e con zelo ardente a questa cooperano. L' altro errore si è di credere che per le Missioni agli infedeli faccia bisogno una grande scienza analitica, su quella forma nella quale s' instituiscono i Sacerdoti in Europa. Io credo che si dovrebbe studiare per trovare un modo d' instituire tali missionari all' apostolica, un modo che congiungesse insieme la pratica e la teoria, e che questa piuttosto venisse da quella, anzichè il contrario. Vorrei che si procurasse di accendere, o piuttosto nutrire in essi un ardentissimo zelo delle anime; e dico piuttosto nutrire, perchè lo zelo deve già prima ardere in essi, come un dono di Dio e segno della vocazione: le anime fredde e comode si dovrebbero escludere. Vorrei che fossero esercitati prima di tutto nel culto e nell' amministrazione de' Sacramenti, ne avessero il gusto, ne cavassero profitto cercando d' intenderne lo spirito e la lettera, e che dalla Liturgia si traesse, come da uno de' fonti, l' istruzione loro teologica. Vorrei che avessero un' altissima stima e devozione allo studio delle Sacre Scritture siccome ispirate da Dio, e sopra tutto del Vangelo, che n' avessero famigliare la lettura e la spirituale meditazione, ed indi come da un altro fonte si deducesse la loro istruzione teologica. Quando ci fosse tutto questo, ove avessero appreso un compendio contenente tutte le verità definite dalla Chiesa, un compendio di Morale, un altro di Diritto ecclesiastico per ciò che riguarda specialmente la gerarchia della Chiesa, potrebbero essere presso che formati, colla sola giunta di quelle notizie o cognizioni che richiedesse la missione particolare a cui si destinano. Io vorrei che, se Iddio ci dà la grazia di vedere istituito e consolidato questo collegio, gli alunni di esso si destinassero fino a principio tutti ad una Missione determinata, perchè conviene restringersi, e non sparpagliarsi, e perchè, se si prende in vista una sola Missione determinata, si può dirigere tutta l' istituzione a preparare missionari idonei alla medesima; laddove formare in un solo Collegio missionari per più Missioni, sembrami cosa impossibile. Mi pare che noi dobbiamo scegliere fra l' America inglese e le Indie pure inglesi. La Missione americana parrebbe più facile perchè s' avrebbe la lingua, e altro non si richiederebbe che imparare poi sopra il luogo, se non si può prima, le lingue dei selvaggi, nè v' ha quasi bisogno di filosofia. All' incontro se si preferisce l' India, io credo che noi dovremmo tentare una strada diversa da quella che s' è fatta finora, prefiggendoci d' andare ad assalire i bramini, al che fare si esige moltissimo studio delle loro filosofie, oltre alla lingua indiana e l' indiana antica, la sanscrita. Io credo che non si è fatto ancor molto in quel popolo, perchè essendo egli sommamente legato ai loro bramini, non si fa niente o poco rivolgendosi al popolo senza attaccare i bramini stessi, se non convertendoli, almeno confutando le loro dottrine, e facendo loro perdere quel credito di sapientissimi che si mantengono, e dimostrando che i missionari sanno anch' essi tutte le dottrine braminiche, e ne sanno di più, perchè le sanno confutare. Credo che senza questo le Indie non saranno conquistate alla fede, e questo è un lavoro duro e lento, al quale si esige anche molto ingegno, perchè quelle loro filosofie sono veramente maravigliose, e quasi l' estremo sforzo dell' errore. L' Inghilterra sarebbe un paese acconcissimo dove formare dei missionari ben addentro in tali dottrine, le quali sono state fatte conoscere all' Europa dagli Inglesi, specialmente dalla loro società di Calcutta; ma converrebbe mettere a suo tempo i nostri missionari, cioè quando sono più formati nello spirito, e in tal caso si dovrebbero anche formare, nella filosofia, e più avanti nella teologia, in relazione coi letterati e dotti in tali studi che debbono essere a Londra e in altre Università. Io bramerei che consideraste tutte queste mie riflessioni, e mi diceste, dopo invocato il lume divino, se vi paresse meglio assumere l' impresa di formare missionari per l' America, o per le Indie. [...OMISSIS...] 1.50 Voi mi proponete due sottilissime questioni, l' una fin dove, preparandosi a favellare al popolo, possa giungere la confidenza nel divino soccorso, senza che traligni in temerità o presunzione, l' altra come si compongano insieme la semplicità e la prudenza evangelica. Queste sono cose, o mio caro, che nessuno degli uomini può insegnare, e che Iddio ha riserbato a se stesso per insegnarle egli solo ai suoi servi. Ed egli le insegna un poco alla volta, perocchè questa scienza, o piuttosto questa sapienza è troppo grande per essere ricevuta tutta in un tratto da noi così poco preparati. Il perchè niuno ha finito d' apprenderla mai, e i santi v' impiegaron tutta la vita, e ne restava ancora. Conviene dunque dimandarla al Maestro, e non cessare mai di dimandarla con intensissime istanze, e con grida e gemiti, presentandogli l' anima aperta a ricevere tutto quello che egli ci mette, e gli orecchi del cuore aperti a non perdere sillaba della sua istruzione. Perocchè la dottrina celeste è così fatta, che quand' anche ci avesse un uomo che la sapesse e potesse ridurla ad una teoria umana ed esprimerla con parole, ancora avverrebbe che i suoi discepoli non la intenderebbero, se Iddio non aprisse loro l' intendimento alla sua luce, o la fraintenderebbero, se Iddio non dirigesse al vero la loro intenzione. Una cosa nondimeno io vi dirò sulle generali, e questa si è, quanto alla prima questione, che giova prepararsi, specialmente nel caso vostro, con tutta diligenza, nelle cose prima, e poi anche nelle parole, ma senza sollecitudine od inquietezza; nell' escludere questa consiste l' abbandono in Dio, e quest' abbandono esclude la sollecitudine sull' esito, non lo studio e la diligenza. Pensare all' oggetto e dimenticare il soggetto, cioè dimenticare affatto noi stessi, ma intendere con tutto l' impegno nell' oggetto, cioè nella dottrina che dobbiamo annunziare. Quanto alla lingua, di cui fa d' uopo vestirla, chi n' ha più bisogno e chi meno, e chi n' ha più bisogno dee più occuparsi: conviene che ognuno prenda regola in questo da quella misura di cognizione e di facilità che sa di avere. Credo che costì in Inghilterra vi abbia qualche copia di quell' eccellente libro che io raccomando ai nostri Predicatori, e che ha per titolo: « Guide de ceux qui annoncent la parole de Dieu (Chambéry, Puthod, 1.29) »: è una raccolta di precetti dei Santi intorno al vero modo di predicare, e vi troverete anche cose che fanno alla vostra domanda. Quegli poi è uomo semplice , il quale dice sempre la verità, e s' attiene ne' suoi pensieri, affetti ed operazioni, alla giustizia; quegli che non usa frodi per comparire più che egli non è, e che non fa uso di cavillose riflessioni per fare che la verità sia quello che a lui piace, ma accetta la verità qual' è, amandola come tale, senza intendimenti stranieri o fini secondarii: quegli è semplice che non si vergogna di confessare il Vangelo, anche in faccia agli uomini che non lo stimano se non come una debolezza o una fanciullaggine, e di confessarlo in tutte le sue parti e in tutte le occasioni, alla presenza di tutti, e senza fasto, ma unicamente perchè è vero: quegli è semplice che, piuttosto che fare un giudizio temerario, si lascia ingannare e pregiudicare dal prossimo, che prende tutto in buona parte, nè perde il sereno dell' animo suo per qualunque contegno gli altri tengano con esso lui. Questi è quello che è veramente semplice, che è un umile sincero, conoscendo schiettamente tutti i propri mali, e non ischivando altresì di riconoscere e confessare i beni che gli ha dati il Signore, con rendimenti di grazie e infinita gratitudine, non riputandoli a' suoi propri meriti, nè tampoco esagerandoli. Ma il prudente è quegli che sa tacere una parte della verità, la quale sarebbe inopportuna a manifestare, e che taciuta non guasta la parte di verità che dice, falsificandola: quegli che sa giungere ai fini buoni che si propone, scegliendo i mezzi più efficaci con solerzia ed energia di volere e di operazione: quegli che in qualunque affare sa prevedere tutti i casi possibili e le difficoltà che potrebbero incontrarsi, e sa per tempo evitarle: quegli che per tempo antivede ancora le difficoltà opposte o contrarie, cioè le difficoltà che nascono dallo stesso studio di evitare le difficoltà, e quindi sceglie la strada di mezzo che è quella che incontra difficoltà minori e minori pericoli: quegli che avendosi proposto qualche fine buono, ed anche nobile e grande, non lo perde più di vista giammai, e colla costanza del suo proposito giunge a superare tutti gli ostacoli, dirigendo a quel fine tutti i suoi atti, nè lasciandosi scappare occasione alcuna che a quello conduca: quegli che in ogni affare distingue nettamente ed afferra la sostanza, nè trattenendosi, nè lasciandosi impacciare dagli accidenti, trascurati i quali, più rapidamente giunge a cogliere il suo fine, e quindi bada che le sue forze non divergano e si sparpaglino in varie direzioni, ma tutte le tiene serrate e converse nel fine che si propone: quegli finalmente che, dopo aver fatto tutto ciò, spera il buon esito da Dio solo, e a lui lo domanda, e lo vuole se lo vuole Iddio, e non si raffredda, nè si cruccia, nè si pente, nè rallenta il suo bene operare, se non gli riesce, contento d' aver fatto tutto ciò che sta in lui, e sicuro che il fine ultimo non gli è mancato, perocchè questo fine ultimo all' uomo prudente del Vangelo non è più altro che la volontà e la maggior gloria di Dio. Voi vedete, mio caro, che questa semplicità non ha nulla che contraddica a questa prudenza, e questa prudenza nulla che contraddica a questa semplicità. La semplicità sta nell' amare e la prudenza nel pensare: l' amore è semplice, l' intelligenza prudente: l' amore prega, l' intelligenza vigila: « vigilate et orate », ecco la conciliazione della prudenza e della semplicità. L' amore è come la colomba che geme, l' intelligenza operativa è come il serpente che non cade mai in terra, nè mai urta, perchè va tastando col suo capo tutte le ineguaglianze del suo cammino. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ancor domani celebrerò la santa Messa in suffragio dell' anima di sua madre e la farò suffragare colle orazioni de' miei compagni. Le quali orazioni non sono utili soltanto ai defunti, ma di conforto anche ai sopravviventi; perocchè, in virtù di quel lume della fede che non inganna, noi sappiamo con una immobile persuasione che quelle care persone, le quali partendosi di questo mondo nella fede di Cristo ci si tolgono dagli occhi, non è vero che sieno morte, ma solo che vivono in un altro modo. E di più dobbiamo sperare, che questo nuovo modo di vita sia troppo migliore e più perfetto di quello che aveano prima: chè per verità il verme o la crisalide non muore quando diventa farfalla, ma riceve l' ultima forma dell' esser suo. E credo veramente che, se noi ci staccassimo col retto giudizio e coll' affetto da questa vita di senso e di carne, la quale è in fine un' incomoda e corruttibile prigione, e giungessimo a dimorare col vigore della nostra volontà in quell' altra forma di esistenza serena e spirituale, nella quale lo spirito entra tostochè è liberato dall' ingombro corporeo; proveremmo una letizia spirituale della morte nostra o de' nostri, la quale tempererebbe ed anzi vincerebbe la naturale tristezza che induce in noi l' animalità che si scioglie. Non che questa letizia possa venire all' uomo dalla condizione della sua natura, ma certo da quel Cristo Signore, nel quale siccome membra al capo siamo incorporati, e il quale vive di vita immortale e beatissima, e comunica alle sue membra della stessa vita quando ancora militano quaggiù, e più pienamente quando passano di quaggiù colà dov' egli si trova, e dove compensa abbondevolmente l' anime ignude di quello che collo spoglio de' sensi corporei hanno perduto. Ma veramente ardua cosa è mantenere lo spirito nostro così sollevato, e anzi ella è opera della grazia e della fede che in noi si aumenta coll' orazione. Onde io dicevo che questa non riesce di minor conforto e consolazione ai sopravviventi che di suffragio ai defunti. Voglia, mio carissimo amico, trovare alleggerimento al suo gravissimo dolore in queste belle e preziose verità, e non abbandonarsi di soverchio alla tristezza. So pur troppo quanto il Signore in questi due anni passati L' abbia voluto provare e purificare colla tribolazione, la quale è un segno indubitato dell' amor suo. E se la compagnia de' mali può attenuare, come si suol credere, il dolore ai compazienti, io bramerei ch' Ella potesse vedere nell' anima mia; poichè in allora chiaramente conoscerebbe che non Le mancano compagni nelle sofferenze e nelle tribolazioni, e forse Le parrebbero scarse le sue. Ma colui che castiga è quegli ancora che consola: riceviamo l' una e l' altra cosa dalle stesse mani amorose: al doppio regalo corrispondiamo con doppio amore, cioè coll' amore della rassegnazione e con quello della riconoscenza. Così perverremo, aiutandoci Iddio, ad una condizione di animo che gode mai sempre, come quello che sa derivare un cotal gaudio dallo stesso dolore: « Ut gaudium vestrum sit plenum . » Ma più lungamente e forse più soavemente ragioneremmo di tali cose se Ella fosse presente, e però Ella mantenga il promesso, venga a passare alcuni giorni nella solitudine di Stresa, dove filosofando insieme procureremo di darci l' un l' altro conforto. [...OMISSIS...] 1.50 Pervenne a' miei orecchi una cosa di voi, mio caro figlio, la quale mi ha molto amaricato, cioè che vi siete non poco rilassato nello spirito, e divenuto negligente nello studio dell' orazione. Se la cosa è così, conviene che abbiate grande timore e sospetto di voi medesimo, acciocchè Iddio non vi castighi. Perocchè Iddio ha usato con esso voi ogni liberalità, e oltre il farvi cristiano, vi ha eletto fra quelli che si debbono dedicare al suo più stretto servizio, e arrivare alla perfezione della vita; e vi ha raccolto dal mondo in una casa a lui consecrata, e quasi direbbesi nel suo stesso palagio, cioè nella religione. Ora se Iddio è liberale, egli è anche geloso, e pretende che quelli, a cui egli è andato incontro il primo, offerendo loro i più alti posti nel suo regno, riconoscano il valore e la preziosità di tale sua grazia, e non la prendano a festa, ma le corrispondano siccome è degno. Il che non fanno sicuramente quelli che sono pigri ed accidiosi, e hanno quasi noia e fastidio di trattare con esso lui nell' orazione, la cui conversazione non ha amarezza nè fastidio, ma ogni letizia ed ogni gaudio; e chi non la prova questa letizia e gaudio ineffabile nello stare in istretta conversazione con Dio nella orazione, è manifesto segno che ha l' animo rozzo e duro, quasi privo di senso spirituale, e senza lume a conoscere l' infinita grandezza e dolcezza e bontà di quel Dio a cui si sta presente, e a cui parla. Onde se costui vuole veramente il bene e il vero, nè ama ingannarsi da se stesso, deve provare grandissimo dolore e timore in conoscersi così freddo, insensato e stupido, e non dee aver quiete nè dì nè notte, fino che non ha trovato la compunzione, e ricuperato il gusto spirituale e il fervore della preghiera e di tutti gli esercizii di pietà. E lo troverà se vince se stesso, se vince la sua carnalità superba, colla mortificazione e colla umiltà prima di tutto, e poi col durarla imperterrito nella fatica del pregare; la quale fatica, se colla buona e forte volontà si sostiene e supera generosamente, cessa dopo qualche tempo d' essere fatica, e diventa soavissimo esercizio, a cui l' anima infervorata trae e anela, siccome l' affamato al cibo più ghiotto. Sollevatevi dunque, carissimo figlio, dalla bassezza della tiepidità in cui pare siate caduto, e staccandovi da voi stesso e da ogni pigrizia, siccome buon soldato, senza temere patimento di corpo, riprendete alacremente i santi esercizii della orazione, specialmente quelli che sono ordinati dalle nostre consuetudini, e più ancora, se potete spronare lo spirito vostro ad una maggiore generosità. Considerate che se noi non vogliamo ridurre veramente in pratica gli insegnamenti di Gesù Cristo, e tenere dietro da vicino a' suoi esempi, egli è vano e falso il chiamarci suoi discepoli, e la vita che abbiamo intrapresa non si sa dove se ne andrà a riuscire, ma non certo a buon punto. Se dunque non vogliamo faticare indarno ed esserci messi per questa via della religione senza pro, conviene che quelle parole: « sine intermissione orate », e quelle altre: « vigilate et orate », e ancora: « petite et accipietis », ci stieno presenti, e siano da noi adempite coll' opera, acciocchè diventino per noi un titolo alla mercede e alla gloria, e non anzi una legge che ci condanni: conviene altresì che portiamo di continuo dipinto innanzi agli occhi nostri Gesù Cristo, che pernotta in orazione o sul monte, o nell' orto con effusione di sangue, o sulla croce con un valido clamore, siccome nostro vivo modello, in cui ci sforziamo continuamente di trasformarci, facendo in lui e con lui quello che egli faceva e che fa tuttavia, « qui sedens ad dexteram Patris interpellat pro nobis ». Non inganniamoci, mio carissimo, chi non prega non può reggersi in piedi, nè stare con Dio: chi prega poco, fa poco bene; chi prega molto, ne fa assai, e noi ci siamo obbligati, mio caro, colla nostra professione di vita tutta ardente di carità, di farne assai; e però dobbiamo pregare molto e, se non lo facciamo da vero, veniamo meno al nostro dovere, falliamo al nostro fine, ci pasciamo di vento, non possiamo avere quella carità a cui ci obbligammo, a cui, in cui, e per cui debbono essere tutte le nostre operazioni. Voi direte che l' ufficio vostro di Maestro di belle lettere ha del profano e distoglie l' animo dalle cose di Dio. - Appunto per questo dovete più fortemente e più assiduamente pregare; il vostro officio è tale, che esige che voi otteniate da Dio, a forza di orazione, di renderlo innocuo all' anima vostra, e utile spiritualmente ai vostri prossimi; egli è necessario che colle più fervide e perseveranti istanze otteniate da Dio una sì gran misura di carità, che santifichi i vostri studii, e, quasi direi, da profani li faccia divenire santi e spirituali; il che avverrà se li professate con una profonda umiltà di cuore e disprezzo di voi medesimo, con una retta e pia intenzione di servire Iddio ne' prossimi, e con un' industria di giovare con essi anche spiritualmente, ed anzi prima di tutto spiritualmente, ai vostri discepoli, guidato da un vero e ardente zelo della salute delle loro anime, alle quali un maestro di scuola può sempre in molte maniere giovare, perocchè l' Istituto della carità non prende propriamente a insegnare se non per questo gran fine, in cui la carità di Gesù Cristo consiste. Onde il fermarsi coll' istruzione o coll' operazione nella letteratura, o nella grammatica, o nella filosofia, o in altra scienza profana, senza pervenire fino al Vangelo, in cui sta la salute, è somigliante a chi si trattenesse in sul viaggio a mezzo del cammino, senza pervenire allo scopo del viaggio stesso. Questo scopo (che finalmente è la patria celeste, a cui noi siamo avviati, e a cui dobbiamo trarre con ogni industria insieme con noi quanti più possiamo, tale essendo la professione della nostra vita e l' intento dell' Istituto della carità) non si può certamente ottenere senza la grazia di Dio, nè questa senza l' orazione, nè l' orazione si fa utilmente senza mortificazione, che dura e resiste alla ripugnanza e alla fatica che oppone la carne, e senza umiltà che abbassa lo spirito internamente ed esternamente altresì, sommettendo il collo in tutto e per tutto al giogo santissimo della religiosa disciplina ed obbedienza. Queste cose io vi metto sott' occhio, o carissimo, e quell' amore che vi porto in Cristo, com' è mio debito, farà che di qui avanti io tenga gli occhi aperti specialmente sopra di voi, per conoscere i vostri andamenti e il vostro profitto nella via dello spirito e nell' osservanza delle nostre sante regole. Che se mi dovessi accorgere che l' ufficio di maestro, che vi ho affidato, potesse menomamente nuocere a quello che più, ed anzi, che solo importa, voglio dire all' anima vostra, non tarderei di richiamarvi al Noviziato. Ma spero che voi compirete tutti i miei desiderŒ, svegliando voi stesso, e dandovi al servizio del Signore con nuova lena e vigore. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Vi sono obbligato della parte che prendete alle mie tribolazioni, e dei conforti che con ciò mi porgete. Io posso dire veramente col Salmista: [...OMISSIS...] . E nulladimeno, a malgrado di tanti motivi di afflizione, di tante acque ingrossate che « intraverunt usque ad animam meam », procuro di tender l' udito a quella parola di vita che rianima i morti stessi: [...OMISSIS...] . Ci ascolterà, ci esaudirà, se lo pregheremo: perocchè questo, mio caro, egli è per verità, più che ogni altro, tempo di preghiere e di supplicazioni, e di umili confessioni al Signore dei nostri peccati; e dobbiamo perciò congiurarci insieme, direi, per fare alla lotta con Dio, siccome Giacobbe. Questo io mi aspetto da voi, carissimo D. Michele, che facciate qualche sforzo di bene per me in questi momenti, e suggeriate ai fratelli di farlo anch' essi. Viviamo di fede: [...OMISSIS...] . Sia in noi l' afflizione che salutarmente ci umilii, non l' avvilimento che ci sgagliardi, o l' indifferenza che ci insuperbisca: sia il rispetto e l' affetto filiale e l' obbedienza all' autorità che ci percuote e che castiga, secondo il divino beneplacito, le colpe di cui pur troppo siam gravi. [...OMISSIS...] 1.50 Ho inteso dalla vostra lettera, mio carissimo in Cristo figlio, le vostre tentazioni ed i vostri combattimenti, e sento tuttavia compassione del vostro stato. Ma il valoroso atleta di Cristo non si smarrisce alla moltitudine de' suoi nemici spirituali, perchè sa di poterne riportare compiuta vittoria, quando milita sotto le insegne del suo invincibile capitano Gesù Cristo, che colla sua preziosissima morte ha debellato il diavolo e tutti i suoi angeli, e a lui si stringe, e da lui domanda incessantemente aiuto e soccorso. Io v' insegnerò dunque ad uscire dai pericoli e dalle angustie in cui vi trovate, purchè mi diate ascolto e adoperiate i seguenti mezzi: 1 Ogni giorno fate almeno per tre volte una fervorosa protesta di odiare e aborrire qualunque peccato anche minimo, e di voler piuttosto morire, che accondiscendere ad alcuna tentazione: e procurate di rinforzare il decreto della vostra volontà di voler sempre il bene, il giusto, l' onesto, ciò che in una parola vuole Iddio santo per essenza, e ciò che piace agli occhi suoi. 2 Siate semplice e sincerissimo col vostro Superiore, e dite a lui candidamente tutte le vostre tentazioni, e tutti i pericoli che vi pare d' incontrare, e le debolezze, le cadute di cui vi rimorde la coscienza: e ricevete da lui con grande umiltà e gusto le correzioni, le mortificazioni, le penitenze, cercando sempre ciò che più serve ad umiliarvi ed a mortificarvi. 3 Domandate spesso e fervorosamente a Dio, a Gesù Cristo ed alla vostra amabilissima madre Maria, di cui spero che sarete figlio amoroso e devoto, e sempre più diverrete, la grazia: 1 di esser umile; 2 di esser casto e puro; 3 di amare il prossimo senza limitazione o parzialità di sorta, distruggendo in voi ogni sentimento d' invidia, di malignità, spirito di censura, disprezzo, ira, impazienza, intolleranza, vendetta. Convien che vi facciate forte a pregar molto e fervorosamente, e la vittoria è sicura. 4 Usate gran mortificazione de' vostri sensi, non guardando, o almeno non affisando mai le persone pericolose, non avvicinandovi mai ad esse per pura inclinazione, ma solamente quando lo vuole la necessità, o l' ordine, o il caso. 5 Cercate di far del bene a tutti senza distinzione, e quando sorge nell' animo vostro un pensiero di poca carità, o qualche immaginazione contraria all' angelica virtù, subito fate un atto contrario; e con forza e valore, invocando il nome di Cristo, di Maria, degli Angeli o de' Santi, datele addosso senza lasciarle tempo, acciocchè la vostra volontà si renda superiore ai nemici e non si lasci giammai dominare o indebolire. Mio caro, con questi pochi mezzi potete vincere, se volete; e certo lo vorrete. Adunque coraggio, all' armi! In breve tempo vi sentirete confermato più che mai nella vostra santa vocazione, e imparerete a conoscere qual tesoro preziosissimo vi abbia dato Iddio in essa: e quando avrete ben conosciuto questo, da quell' ora farete progressi grandi nella via dello spirito, verso a quella perfezione, a cui voi dovete con animo generoso, ma umile insieme, corrispondere. 1.50 Parmi di rilevare dalla vostra ultima letterina che non abbiate ben inteso lo spirito di quanto io vi ho scritto. Non trovate voi nella mia lettera suggeritivi de' mezzi opportuni per uscire dallo stato di tentazione in cui vi trovate? E` vero che io non v' ho detto di essere disposto a trasportarvi in un' altra Casa, perchè non l' ho creduto necessario; ma se sarà necessario, farò anche questo, farò tutto per vostro bene. Ma badate di non angustiarvi senza cagione, perchè non dovete già credere che le tentazioni, a cui si resiste, sieno peccati: fatevi coraggio, e da una parte combattete colle armi della fede, dall' altra non v' inducete a credere d' avere acconsentito e d' esser caduto, quando per grazia di Dio, non avete acconsentito e non siete caduto. Il sentire delle molestie venienti dai nemici infernali è una prova che permette il Signore, ma voi opponete la volontà ferma nel Signor vostro amabilissimo. E poi fate di tutto per poter conoscere ed amare questo Signore, e trovar piacere nella sua dolcissima conversazione: perocchè in questa maniera non vi riuscirà grave il pregarlo e il supplicarlo; ma troverete esser cosa allo spirito dolcissima, benchè penosa alla carne. Già sapete che i santi trovavano le loro delizie nell' orazione, la quale non si può sentire quanto sia dolce, se non si pratica. E se non vi sentite inclinato all' orazione, domandate anche questa grazia al Signore, che è la grazia delle grazie; e se vi sforzerete a dimandarla istantemente con tutto il cuore, ve l' accorderà e vi farete santo. Se non vi pare di aver approfittato del Noviziato, cominciate adesso; e se non vi riesce costì, scrivetemi, che, quantunque mi rincresca farvi interrompere gli studi, farò anche questo, vi richiamerò. Ma cacciate i pensieri contro la santa vocazione, in cui Iddio vi ha chiamato, e dove potete assicurare la vostra eterna salute; e per una leggerezza non inclinate mai l' animo a buttar via un così grande tesoro, chè ne lamentereste poi forse la perdita inconsiderata, tutta la vita, ed anche l' eternità. Orsù adunque, cominciate ad operar virilmente: Maria Santissima sia il vostro rifugio, stringetevi al suo patrocinio, ed abbiate viva fede nella sua pietosissima intercessione. Spero che dopo qualche tempo mi darete migliori nuove del vostro spirito, nuove liete e consolanti. Alleluia . [...OMISSIS...] 1.50 La lettura della cara vostra ha destato in me grandissima compassione del mio caro fratello, il quale però confido che dalla presente lotta uscirà vincitore, e ritrarrà grandissimo vantaggio. [...OMISSIS...] Nella prossima settimana, se il tempo me lo permette, io verrò a trovarvi, come tanto desidero e vi condurrò meco lasciando un altro a fare le vostre veci nella scuola per alcuni giorni, e spero che, variando un poco tenore di vita, vi refocillerete, coll' aiuto di Dio, il corpo e lo spirito. Del resto consideriamo che siamo posti in questa breve vita per fabbricarci una casa eterna, dove riposeremo dalle fatiche e dalle noie, nè ci sarà più cosa che ci arrechi tedio o fastidio. Col pensiero a questa grand' opera, a compir la quale Iddio ci ha posti quaggiù, quello che in sè stesso è molesto e alla nostra infermità pesante, ci parrà cosa preziosissima: il tesoro infinito del merito che è nascosto nel travaglio e nel patimento, stando sempre davanti agli occhi nostri, ci conforterà, e ci rallegrerà assai più che non faccia al cuore dell' avaro un monte tutto d' oro e di gemme che gli si offre a guadagno. Se guardiamo in giù o d' intorno, è vero pur troppo, siamo « lutea vasa portantes quae faciunt invicem angustias »; ma se all' incontro guardiamo in su, si dilatano subito immensamente gli spazi della carità. [...OMISSIS...] Se guardiamo a noi stessi, è giusto che ne prendiamo orrore; ma se guardiamo al nostro Creatore e Redentore Iddio, è impossibile (colla sua grazia) che non sentiamo fiducia e allegrezza infinita, e un bene che condisce ogni amarezza, e in cui si perde dolcemente il cuore che non può abbastanza ingrandirsi e vorrebbe rompere la propria limitazione. - Che se sorgono in noi delle antipatie alle cose e alle persone, reprimiamole, mio carissimo, per l' amore del nostro Dio; perchè esse sono un difetto, e ci rubano la dolcezza del cuore, e diminuiscono in noi la carità e le forze spirituali per progredire costanti nel cammino della virtù. Non così facilmente conosce l' uomo il male ed il danno delle antipatie, che si manifestano nell' animo suo; e però, senza accorgersi, egli non le combatte, ma piuttosto le lascia in pace, o pur anche le coltiva e le nutre con ragioni speciose e col pretesto del bene: perocchè sembra che nascano dal volere tutte le cose e le persone perfette su quell' ideale che ci sta nella mente, e questo sembra che sia un volere il bene, onde parendoci d' essere mossi da un nobile sentimento, non badiamo a quel vizio funesto che esse contengono: non badiamo che esse sono opposte alla sapienza, la quale ci dice di non doversi aspettare quaggiù la piena perfezione, sono opposte alla santissima umiltà come quelle che presumono troppo dell' uomo e di noi stessi, e sopra tutto sono opposte alla dolcissima carità, [...OMISSIS...] Conviene adunque queste antipatie, forse troppo neglette fin qui, in noi combatterle e distruggerle, e sostituire ad esse altrettante simpatie d' altissima carità, di quell' altissima carità che ha il punto della leva fuor di questo mondo, nell' astro del cielo eterno che è GESU` Cristo. - E GESU` Cristo stesso volle passare più di trent' anni in queste nostre angustie, ed ebbe anch' egli a desiderare la morte, quella morte però nella quale stava il volere del Padre, e potè dire anch' egli: « Baptismo habeo baptizari: et quomodo COARCTOR usque dum perficiatur »! Quanto le angustie di Cristo sono state maggiori delle nostre! Certo di tanto, di quanto egli era più grande di noi; e tuttavia ristretto e angustiato alla nostra misura, e fra uomini come noi imperfetti, che colle loro imperfezioni lo angustiavano e pressavano d' ogni parte, fu suo cibo il fare la volontà del Padre suo, e per fare questa volontà, li sopportò, visse con loro, e patì e morì per loro, anzi per noi tutti: perchè anche noi, noi stessi, l' abbiamo premuto, e angustiato, ed afflitto e, Dio non voglia, fin anco crocifisso. E` dunque giusto, equo e doveroso che anche noi sopportiamo in pace e in rassegnazione le nostre angustie, e in esse ci consoliamo al pensiero di rassomigliarlo da lontano e di compensarlo in qualche modo colla nostra pazienza; perchè egli si rallegra se ci vede portare con fortezza le nostre afflizioni, e si rallegra per l' amor che ci porta, cioè perchè vede che il nostro patire generoso ci ammigliora e ci perfeziona, giacchè la sola pazienza « opus perfectum habet », e arreca a noi stessi, se ci pensiamo al vero suo lume, l' indicibile contento d' essere così suoi imitatori. « Similes ei erimus » in cielo, quale inebriante speranza! Ma se non abbiamo un cuore di sasso, non ci deve essere men cara la speranza, ed anzi la certezza, di essere a lui simili in terra. Questa certezza ci abbellirà e spargerà di fiori e di viole, e di gigli, tutte le nostre occupazioni, le quali per se stesse ci fossero pure ingrate, ma specialmente quelle che noi facciamo per amor di Dio e per amor del prossimo; e così aggiungerà vita alla nostra vita, e come noi dell' Istituto ci proponiamo di fare tutto per questi amori, tutto altresì ci ritornerà abbellito, e infiorato, e illuminato dal brillantissimo lume della vera vita. Coraggio adunque, mio carissimo, all' opera, all' opera! vincendo noi stessi, vinceremo i nostri nemici che ci vogliono offuscare quel cielo sereno, sotto cui dobbiamo e possiamo vivere, in cui astro fulgidissimo è il sole della giustizia, che « exultavit ut gigas ad currendam viam ». La carità, la pazienza, il compatimento, la fede, ma sopra tutto l' orazione, una tenera e perseverante orazione, ci arrecherà quella luce di cui abbisognamo per intendere praticamente tutto quello che ho scritto in questa lettera, traendola dalle divine carte, e ci confermerà in quei santi propositi, a cui l' uomo non può venire meno se non si abbandona alle tenebre della carne, e del sangue, e del demonio. Perocchè queste sole sono quelle cose che distolgono l' uomo dalla virtù e dalla giustizia, non mai alcuna ragione, alcuna intelligenza, alcuna virtù. Spero nel Signore, che quando verrò costì, vedrò la vostra faccia serena e lieta: così spero nel Signore, così ne lo prego. Ci consoleremo a vicenda, abbiamo entrambi delle afflizioni, abbiamo entrambi delle consolazioni, accomuneremo insieme le une e le altre, e faremo, o piuttosto Iddio farà in modo che prevarranno le seconde alle prime. [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Ho sempre apprezzato altamente le scritture di V. S. chiarissima, e appena saputo che l' annunziato suo libro era uscito alla luce, avea data commissione che mi fosse provveduto. Ed ecco che ora lo ricevo, doppiamente caro, dalla sua gentilezza, accompagnato da una cortese lettera. E` appunto uno di que' libri, ove si tratta di quegli argomenti nei quali sono consegnati i semi, così scarsi tutt' altrove, delle speranze che ci rimangono. Gli educatori e le educatrici, che io in qualche modo dirigo, e che già si giovarono della « Guida dell' educatore », profitteranno anche del nuovo ordine e della nuova perfezione ch' Ella aggiunse alle dottrine pedagogiche, colla gratitudine dovuta a chi, con tanto senno, lucidezza ed amore, porge così utili documenti e validi conforti alla laboriosa e difficile vocazione. Io ne ringrazio V. S. anche a loro nome. Ma con questo solo non mi parrebbe di averle significata compiutamente la mia gratitudine e la stima grande che ho sempre avuta della sua persona: un segno più certo Le sia dunque il pensiero che oso soggiungerle. Io sono persuaso che l' uomo (e molto più la società) non possa raccogliere nè anco in questa vita tutto il bene che la Provvidenza ha disposto per lui, se non a condizione, che egli, come a termine fisso, volga tutta la sua attività a' suoi eterni destini. Non trovo un altro punto d' appoggio così fermo che mai non ceda, dove puntar la leva per movere, in qualunque circostanza, l' uomo alla virtù, se non quello che è fuori di questa terra, un bene eterno. E` un sentimento intimo al cristianesimo espresso in quelle parole del Salvatore: « « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno aggiunte » ». E mi sembra, che questo sia appunto quel più alto ordine di cose, ch' Ella m' accenna nella sua lettera « aver procurato d' insinuare negli animi senza che paia ». Rendendo piena giustizia alle sue intenzioni, mi si offriva qui all' animo spontanea la domanda; se non sarebbe naturale, non sarebbe almeno conveniente, che apparisse in tutta la luce, quel principio che dee pur reggere tutto l' uomo in ogni suo fatto, e al quale tutti gli altri principii vogliono essere subordinati, dal quale sono corroborati e santificati. Il rifiuto o l' indifferenza che ne mostra il mondo, potrebbe forse essere una ragione di più per insistervi. Ecco quanto affido alla sua saviezza ed alla sua benevolenza. Il grave argomento che Ella tratta sotto il titolo: « Ragionevolezza dell' uso delle punizioni »mi pare che dovrebbe ricevere delle importanti modificazioni, considerato in quell' ordine più sublime. Mi è non poco doluto che il mio celere passaggio da Firenze m' abbia privato del vantaggio di riveder Lei, e di conoscere di persona l' egregio Gino Capponi di cui ho tanta venerazione; e ben mi desidero, ma non ispero così presto, qualche altra fortunata occasione. [...OMISSIS...] 1.50 Duolmi di sentire dalla cara vostra del 26 corrente i difetti di alcuni nostri fratelli. Io voglio darvi alcune regole per arrivare a toglierli, se si può, e quando usati tutti i mezzi che sono in nostro potere, non si riesca, per licenziare dall' Istituto gli inosservanti. Le regole sono queste: 1 Il Superiore deve dimostrare una ferma volontà che tutte le regole sieno osservate. Se i fratelli sieno una volta ben persuasi che il Superiore vuole , state certo che non si prenderanno facilmente certe libertà; 2 Il Superiore deve dimostrare questa ferma volontà in un modo coerente, in maniera che da tutte le sue parole e da tutti i suoi atti chiaramente risulti, senza che sia mai trovato in contraddizione per ragione di parzialità o di fiacchezza; 3 Questa ferma volontà deve essere dimostrata con tutta la dolcezza, e l' amabilità di modi, e le dimostrazioni d' affetto; ma quella dolcezza deve cadere sul modo e non sulla cosa : deve stabilire la fermezza della volontà, non distruggerla; 4 Deve ancora questa fermezza essere dimostrata colle più chiare ed esplicite parole, senz' alcun timore o riserbatezza, cioè non conviene dire le cose a mezzo nè oscuramente, ma precise e bene determinate, e vale anche qui il proverbio: patti chiari e amicizia lunga ; 5 Il Superiore nel dimostrare questa fermezza di volontà in esigere l' osservanza e l' obbedienza, non deve escludere la discrezione , che consiste nel dispensare nei casi particolari da qualche regola, quando o il bisogno della salute, o altra buona ragione lo esiga; 6 Conviene che il Superiore parli aperto e senza riguardi, ma nello stesso tempo con mente fredda , protestando di non voler altro che il bene e l' emendazione; 7 Il Superiore non deve risparmiare le correzioni e le penitenze; ma deve prima ben accertarsi del fatto e prendere notizia delle circostanze. Deve ascoltare a testa fredda le giustificazioni, e se conoscesse d' aver preso uno sbaglio, deve tosto cedere, dando prove che lo moveva il solo zelo del bene e l' amore della giustizia. Deve anche distinguere i falli che traggono seco rilassatezza e conseguenze funeste, da altri falli accidentali e materiali, e rispetto ai primi deve essere inesorabile. Deve graduare la forza della riprensione e della penitenza, e, se non c' è emendazione, deve dichiarare al fratello francamente che va a scrivere al Provinciale e successivamente al Generale; i quali indubbiamente lo sosterranno a qualunque costo, anche a costo di licenziare il fratello dall' Istituto, se sarà necessario; . Se nelle correzioni il Superiore deve conservare al maggior segno la testa fredda, e dichiarare in un modo esplicito la sua volontà senza parole inutili che dicano di più di quello che esige il caso, le quali dimostrano qualche irritazione o riscaldo; in tutto il resto del tempo il Superiore deve dimostrare la più grande amabilità, famigliarità e umiltà, usando spesso qualche attenzione e graziosità a' suoi sudditi, specialmente a quelli che sono stati corretti, e si sono emendati, od hanno promesso emendazione. Già s' intende che questi atti gentili non debbono essere tali da rilasciare per nulla l' osservanza delle Regole, il che sarebbe contro il fine; 9 Finalmente il Superiore deve prestare aiuto e sostegno ai fratelli nell' esecuzione delle loro incombenze ed officii. Facciamoci dunque coraggio, o mio carissimo, e se siamo uomini, pensiamo che abbiamo vicino Iddio che aiuta sempre colla sua onnipotenza quelli che confidano in lui, e che operano per lui. 1.50 Quello che mi dite nella cara vostra è tutto vero. Un giovane che deve fare il Superiore ha pur troppo delle grandi difficoltà da superare, ed è solo con un grande aiuto ottenuto da Dio coll' orazione, con un' assidua vigilanza sopra se stesso, su tutti i suoi atti e su tutte le sue parole, ch' egli riuscirà in un tale e tanto ufficio. Nello stesso tempo questa prova gli riuscirà infinitamente utile per emendare e formare se stesso, se con grande spirito di Dio e con grande impegno la intraprende. I due perni del suo reggimento debbono essere: 1 disciplina ; 2 dolcezza. Disciplina , non lasciandosi per debolezza o per alcuna leggerezza rimuovere dal proposito di mantenere e far mantenere la perfetta osservanza in tutte le cose importanti, usando qualche volta nelle meno importanti la debita discrezione. Dolcezza , non potendo egli per la sua età far uso di molta autorità e rigore, e dovendo pure ottenere il fine assolutamente necessario della religiosa disciplina; la dolcezza, la persuasione, la ragionevolezza, l' affabilità de' modi, ma ferma ed irremovibile, è quell' arma a cui deve di continuo por mano, ed è un' arma così potente che può ottener con essa le più belle vittorie. Ma quando fosse necessario, avrà poi un' altra arma, quella di ricorrere ai Superiori maggiori, dando loro imparziali e chiarissime relazioni de' casi, ne' quali debbono intervenire per sostenerlo. Questo vi scrivo per incoraggiarvi, e perchè tali documenti vi saranno sempre utili. V' abbraccio intanto teneramente, e abbraccio con voi tutti cotesti carissimi, a cui prego dal Signore grazie e virtù da conoscere ed amare quanto sia bella e gradita a Dio l' opera della carità che esercitano. [...OMISSIS...] 1.50 Con una veneratissima sua lettera del 20 maggio p. p. Vostra Eminenza mi manifestava, come l' animo del Santo Padre non era punto cangiato in verso l' umile mia persona: « e come il desiderio di darmene una pubblica testimonianza si manteneva egualmente vivo: in prova di che per ben due volte Le aveva ordinato di scrivermi su questo proposito per manifestarmi questa sua disposizione, ed insieme farmi conoscere che manderebbe con tanto maggior compiacimento ad effetto le intenzioni già manifestate sulla mia persona, facendo io precedere qualche spiegazione declaratoria di quelle proposizioni, di cui hanno abusato gli avversari per sollevarmi contro la censura ». Grato a tali sentimenti dell' augusto Pontefice, nella mia risposta in data 30 maggio p. p. io esprimevo la profonda mia riconoscenza verso Sua Santità, e poi, rammentando i diversi atti co' quali avevo procurato di soddisfare al volere della Sua Santità medesima per quanto aveva potuto conoscerlo, dichiaravo di esser pronto a fare con egual docilità quanto per mezzo di Lei mi si richiedeva di nuovo: al qual fine pregavo Vostra Em.za d' indicarmi le proposizioni bisognose di quelle spiegazioni declaratorie che il Santo Padre desiderava. Non ricevendo pel corso di più mesi alcuna risposta, e dubitando che la mia lettera si fosse smarrita, ne ho replicata un' altra in data del 5 agosto p. p., raccomandandola a persona sicura; e in risposta a questa ieri ho ricevuta la veneratissima sua del 2. agosto, nella quale, senza far più menzione delle spiegazioni declaratorie, di cui già aveva espresso desiderio il Santo Padre, invece Ella mi dice che: « il desiderio esternatole da Sua Santità sarebbe, che io scrivessi un' operetta in opposizione a quella intitolata « Delle Cinque Piaghe » »: e di più mi aggiunge che: « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me ». Eminenza, io non posso che ripetere quello che più volte ho detto, cioè: Che la mia maggior gloria e felicità è sempre stata e sarà sempre, Iddio così aiutandomi, nell' essere figlio divoto e ubbidiente alla Chiesa Romana, madre e Maestra di tutte le Chiese; Che in ubbidienza alla detta Chiesa io sono pronto a fare qualunque dichiarazione, correzione o ritrattazione che mi fosse richiesta dal Santo Padre; Che per fare alcuna delle dette cose, io ho bisogno che mi venga indicato quali siano in particolare le proposizioni, che richiedono spiegazione, correzione o ritrattazione: senza di che mi riesce egualmente impossibile il fare un' operetta in opposizione al noto libro. Onde non mi resta che tornare a supplicare, perchè mi si comunichi quello che in particolare io debba emendare, correggere o ritrattare. In quanto poi a quello che Vostra Eminenza soggiunge che « questo passo dovrebbe, a senso dei discorsi di Sua Santità, appianarmi la via all' esecuzione di quei disegni, sui quali si era già aperto con me », Eminentissimo Principe, io non ho mai scritto una linea, nè ho mai fatto un passo per appianarmi la via al Cardinalato. Io considero quest' onore come un peso spaventoso, non da desiderarsi ma da fuggirsi. Se l' avessi bramato assai probabilmente sarei già prima d' ora Cardinale: già fino dal 1.23 il Papa voleva nominarmi Uditore di Rota, e la persona che a nome del Papa me ne fece l' invito, mi assicurava che sarei stato ben presto Decano e poi Cardinale. Io non accettai nè questo invito nè altri posteriori. Fu la Santità di Pio IX che (essendo già pubblicate le due note operette) mosso dalla bontà del suo cuore, spontaneamente mi manifestò il suo fermo volere di elevarmi nel prossimo Concistoro ad una tal dignità. Io feci quello che potevo per declinare un tanto onore; ma obbligato ad accettarlo per ingiunzione di chi mi poteva comandare, io abbassai il capo e l' accettai. Non per lusinga della mia ambizione, come ora dicono i miei nemici, ma sulla parola del Papa io mi sottomisi alla gravissima spesa per fornirmi delle cose necessarie. Quelle carrozze ed altri oggetti, che ora sono in Roma, e che già mi rendono la favola del pubblico, non gli ho venduti sinora per rispetto alla parola del Sommo Pontefice. Ora però io mi sottometto con vero gaudio di spirito alla diversa disposizione che di me ha fatto la Provvidenza, e in breve darò gli ordini opportuni perchè sia venduta ogni cosa: non lasciando per questo di rimanere fermo e inalterabile il mio sincero attaccamento e la piena mia sommissione alla santa Sede Apostolica e al Sommo Pastore della Chiesa. Vostra Em.za in fine alla sua lettera mi domanda un esemplare di quello che ho scritto sulla legge Siccardi: mi duole di non poterla servire, perchè non ne ho. Ma sarà facile che costì Ella trovi il giornale di Torino intitolato l' « Armonia », dove furono appunto inseriti i quattro articoli che scrissi su quell' argomento. [...OMISSIS...] 1.50 M' accorgo dalla informazione che mi date del vostro interno, che il vostro adorabile Signore e carissimo sposo GESU` vi ha regalata assai in questi ultimi spirituali Esercizi, specialmente dandovi lume a conoscere voi stessa e quel segreto tarlo di vanità che, quuantunque non distruggesse intieramente il merito delle vostre buone azioni, tuttavia andava purtroppo corrodendole e rubacchiando una parte di quella mercede, che ad esse è promessa. Ora, per grazia di Dio, è scoperto, convien dunque impedirlo di rodere, e, appena si sente il picchiettare de' suoi denti, picchiare e scuotere; come appunto col tarlo materiale, che, se sta foracchiando un vecchio armadio o qualche altro arnese di legno, e se n' ode il tich, tich , col picchiar l' arnese o scuotendolo, la mala bestiola ristà dal suo tristo lavoro. Così devono fare i servi di Dio, perchè il pigliare il cattivello e ammazzarlo interamente pur troppo è cosa tanto difficile che par quasi un miracolo. Tuttavia se esso si fa continuamente tacere, senza lasciarlo in pace giammai, si muore poi da se stesso, quasi di morte naturale, e allora che felicità! Non regna più nell' anima che l' amor di Dio, vi regna libero e potente in ogni parte di essa, in ogni sua facoltà, in ogni sua azione, o patisca, od agisca. Voi felice, mia cara Bonaventura di GESU`, se arrivate a questo, ed anzi felice, perchè ci arriverete sicuramente, avendo con voi il vostro sposo sempre pronto ad aiutarvi, purchè in lui fedelmente ed intieramente confidiate, in lui, in lui solo. L' aver conosciuto dunque il difetto che si nascondeva nel secreto dell' animo è già una grazia grande. Ora poi vi lamentate che vi manchi un' altra conoscenza, cioè dite di non potere ancora abbastanza conoscere quel bene che è degno di tutto l' amore; ed avete ragione, avete ragione di dire che non lo conoscete abbastanza, perchè sapreste voi che cosa ne sarebbe se lo conosceste così, come voi vorreste e come egli è? Ne sarebbe quello che S. Agostino dice di se stesso, che egli sentiva talora un tale affetto, e in questo affetto divino un tal gaudio, che se fosse cresciuto più oltre, egli certo non saprebbe dire che cosa sarebbe stato, ma questo sapea dire che non sarebbe stata certo la vita presente. Capite che vuol dir questo? Se voi conosceste abbastanza quel bene, a cui aspira, ed a cui è consecrato tutto il vostro cuore, non sareste più qui, in una parola, sareste, senz' accorgervi, in paradiso. E` dunque giusto e ragionevole che voi accusiate la vostra ignoranza in questa parte, e che, conoscendo questa vostra ignoranza che si può dir sempre infinita, non lasciate nascervi più mai alcuna vanità dal saper voi molte altre cose, che non vi tolgono quella ignoranza grandissima del vostro bene, ne sapeste anche infinite: è giusto che vi lamentiate altresì di continuo col vostro sposo, che è la sapienza eterna, perchè non vi faccia conoscere un po' più, ed anzi molto più, di sè medesimo; perchè questi affettuosi lamenti sono a lui cari, ed egli non potrà resistervi, se li farete di continuo, ma cederà coll' accordarvi una comunicazione maggiore del suo essere amabilissimo. E poi questi lamenti che altro sono, a che altro tendono, se non a spingervi fuori delle angustie e della povertà di queste cose visibili e corruttibili? Sono in fine i desiderii della morte, famigliari a tutti i Santi, cominciando da S. Paolo che diceva: « desidero di esser disciolto e di trovarmi con Cristo », e venendo a tutti gli altri. Sapevano quel che desideravano. Ma io voglio che desideriate ancora più di meritare, che di godere, perchè anche Cristo, pregando il Padre pe' suoi discepoli, disse che egli non chiedeva, che fossero tolti dal mondo, ma solo preservati dal male; voglio che desideriate di servire a Cristo nei suoi pargoli più ancora che di goder Cristo, dicendo anche voi collo stesso Apostolo: « Io desidero di essere separato (dal godimento di Cristo) per la salvezza de' miei fratelli ». Tanto più che conoscerete maggiormente Cristo, quanto maggiormente vi affaticherete a pro di quelli pe' quali egli è morto in croce, perocchè niuna via più spedita di conoscerlo che quella di esercitare la sua carità: « Dio è carità, e chi rimane nella carità, in Dio rimane e Dio in lui ». [...OMISSIS...] [...OMISSIS...] 1.50 Non vogliate attribuire la scarsezza delle mie lettere a poca carità che io abbia verso di voi, perchè il Signore sa che io vi porto nel cuore e vi offerisco a Lui ogni giorno sull' altare, ma sì attribuitelo alla scarsezza che ho di tempo, alla debolezza delle mie forze, ed al sapere che siete provvedute di un Superiore pieno di sollecitudine e di zelo per l' incremento vostro in Gesù Cristo. Non di meno, ora che ritorna a voi dal suo viaggio d' Italia questo vostro Superiore e mio fratello carissimo in Cristo, non posso a meno di accompagnarlo colla presente, sì per ringraziarvi dei doni che mi ha mandato la vostra carità, e che mi sono pegno della vostra filiale devozione, e sì per rispondere brevemente alle tre importanti questioni che mi proponete, e di cui mi domandate la soluzione. Poichè quantunque sappia che in tali argomenti potete sentire la voce di chi vi dirige immediatamente, voce piena di sapienza e di spirito di Dio, tuttavia penso che il sentire le stesse cose da me, come desiderate e chiedete, se non vi torna di maggiore istruzione, vi deve almeno tornare di consolazione e di conforto nel bene, per quell' affetto in Gesù Cristo, e quell' ubbidienza che mi prestate. La prima questione adunque da voi propostami è: Come si può usare lo spirito d' intelligenza senza mancare alla semplice e cieca ubbidienza? La quale questione, come le altre due che le vengono in appresso, dimostrano il vostro discernimento in Cristo, perchè manifestano il desiderio che avete di essere istruite nelle cose più perfette; chè appartiene alla perfezione il saper congiungere ed armonizzare nelle azioni giornaliere quelle virtù che sembrano a primo aspetto opposte, quasi che si escludessero reciprocamente. E in fatti, quantunque niuna virtù possa giammai riuscire veramente opposta ad un' altra virtù, come una verità ad un' altra verità, tuttavia l' arte di unire tra loro in amichevole società quelle virtù che presiedono a facoltà e passioni aventi una tendenza contraria, e che vanno sempre abbinate e possedute solo dall' uomo perfetto, è quella appunto a cui si deve applicare chi allo studio della perfezione si è consacrato. Nel che avviene come nella musica, che quantunque la voce del contralto, poniamo, paia oppostissima a quella del baritono e del basso, tuttavia il perito compositore di musica, trovati i loro accordi, ne fa riuscire un' unica ed aggradevole armonia. Venendo dunque alla questione, dico, che la semplice e cieca ubbidienza si può ben congiungere e compenetrare coll' esercizio dello spirito d' intelligenza, e ciò in diverse maniere. Prima maniera . Conviene considerare che lo spirito di intelligenza si esercita tanto più quanto più è alta ed universale la ragione secondo la quale noi dirigiamo le nostre operazioni; chè, operare con ispirito d' intelligenza non vuol dir altro se non operare con ragione, senza lasciarsi mai muovere o perturbare da passione alcuna. Ora la più alta e la più universale di tutte le ragioni d' operare è quella di far sempre in ogni cosa la volontà di Dio; su di che penso che abbiate veduto un mio ragionamento a stampa, e l' abbiate anche letto. Ma chi fa l' ubbidienza con semplicità e purità, egli è certo di fare la volontà di Dio, il quale ha detto di tutti i Superiori ecclesiastici: « Chi ascolta voi, ascolta me ». Questa è una ragione semplice, ma efficacissima e sublimissima, e contiene tanto bene in sè stessa, che quando ella c' è, rende superflua qualunque altra ragione inferiore; e perciò l' ubbidienza si dice cieca , non perchè sia senza lume, ma perchè ne ha tanto, che non ha più bisogno di prenderne d' altronde, come chi dicesse che sta senza lume colui, che non accende le candele perchè risplende il sole. Seconda maniera . Oltre di ciò colui che obbedisce ciecamente e semplicemente, può esercitare lo spirito d' intelligenza nel modo di eseguire quello che gli viene comandato. Possono essere due persone che eseguiscono il comando del Superiore, ma una di esse lo eseguisca senza giudizio, senz' attenzione, senza spirito, senza rifletter bene a ciò che gli è comandato, e alla vera intenzione di chi comanda, l' eseguisca, ma di mala grazia, senza persuasione, e quasi per dispetto; l' altra poi eseguisca la stessa cosa cercando prima di tutto di ben intendere la mente del Superiore, poi studiando il modo migliore di eseguirla facendo quello che fa con impegno, come se fosse un affar suo proprio, desiderando di riuscire, usando la debita circospezione, mettendovi il buon garbo, trovandovi la sua contentezza, certissima di piacere a Dio. Questa seconda ubbidisce con semplicità e ad un tempo con ispirito d' intelligenza. Non ubbidisce come una macchina che si fa muovere con qualche ingegno, ma come una persona viva e intelligente. E di vero non può il Superiore quando comanda, prescrivere tutte quelle cose che riguardano il modo d' ubbidire, ma dà il comando, poi lascia fare al suddito, e il suddito che ha più spirito d' intelligenza si conosce subito, osservando il modo che egli tiene nell' eseguire quanto gli è comandato. Terza maniera . Accade spesso che il comando stesso sia più o meno generale, e lasci molte cose al buon giudizio di chi lo riceve. In tal caso il suddito deve osservare qual sia la sfera che gli determina il comando del Superiore, e dentro quella sfera egli è obbligato dalla stessa ubbidienza ad operare da sè, non però a capriccio, ma col suo criterio, che è quanto dire con ispirito d' intelligenza. Se voi considerate, mie carissime figliuole, i vari membri di un Istituto religioso, vedrete che tutti operano per ubbidienza, se hanno spirito, foss' anche il Generale dell' Ordine, perchè anch' egli è soggetto almeno al Papa; ma tuttavia l' ubbidienza lascia un campo libero a chi più a chi meno, ai Superiori un campo maggiore, agli inferiori uno minore. Entro questo campo libero ciascuno può e deve mostrare il suo spirito d' intelligenza. Così nella vostra Casa, cominciate dalla Superiora centrale, e venite giù agli altri uffizi della Casa insino all' ultimo, vedrete che tutti questi uffizi essendo subordinati l' uno all' altro, e quindi diretti dall' ubbidienza, possono tuttavia e devono essere esercitati con ispirito di intelligenza, perchè ad ogni ufficiale è prescritto di usare lo spirito d' intelligenza entro la sfera del suo ufficio in quanto è lasciato libero alla sua discrezione. Prendete anco a considerare un ufficio di carità verso gli esterni, come sarebbe quello di maestra o d' infermiera. E` l' ubbidienza che impone quest' ufficio, epperò il merito dell' ubbidienza accompagna tutte le azioni; ma tuttavia quanto spirito di intelligenza non ci vuole ad adempirlo con perfezione? Prendete a considerare anche dei comandi particolari, troverete che la maggior parte di essi lascia qualche larghezza di libertà, dove può aver luogo lo spirito d' intelligenza. Sia comandato ad alcuna di voi di scrivere una lettera e ve ne sia anche tracciato l' argomento; non vi resta ancora molta intelligenza da esercitare nello studiare quella lettera con senno e con intelligenza? L' ubbidienza adunque non suol mai determinare tutti gli atti della persona, il che sarebbe impossibile, ma ne restano sempre molti liberi in cui l' intelligenza può e deve avervi un luogo grandissimo. Quarta maniera . Lo spirito d' intelligenza si può esercitare in altro modo, ed è col fare ai Superiori che comandano, delle rispettose osservazioni, qualora sembri che nel comando che danno vi sia qualche cosa da osservare. Ma per fare queste rispettose osservazioni con vero spirito di intelligenza, ci vogliono tre condizioni: la prima, che non procedano da alcuna passione d' amor proprio, ma dal puro zelo del bene e della gloria di Dio; la seconda, che non sieno fatte con leggerezza, dicendo ogni cosa che venga in capo o in bocca senza avervi riflesso od esaminato bene l' affare; la terza, che sieno fatte con ispirito di sommissione, di modo che se il Superiore persiste nel suo comando, il suddito non se l' abbia a male, ma eseguisca con eguale alacrità e contentezza il comando. Che se si trattasse di un negozio molto importante per la gloria di Dio, e sembrasse proprio che la cosa non andasse bene come la vorrebbe il Superiore, si può ricorrere ad un Superiore maggiore; chè, questo non è contrario alla semplicità dell' ubbidienza, ma si debbe fare anche questo colle dette tre condizioni. I Superiori hanno piacere di sentire tali ingenue osservazioni dei loro sudditi, purchè tutto si faccia con ispirito di carità e di umiltà. Che se poi dopo tutto ciò avviene che quello che si deve fare e si fa per ubbidienza, porti qualche inconveniente (che non sia però mai un peccato), chi ubbidisce non perde nulla, anzi vi guadagna, perchè quell' atto d' ubbidienza contiene una mortificazione delle più grate a Dio. Chi mortifica sè stesso per ubbidire, sia perchè nega la propria volontà, sia perchè sacrifica il suo amor proprio e sottomette la stessa sua ragione ad una ragione superiore, che è quella di Dio onde viene il comando, questi ha dato un gran passo avanti nella via della santità. E su questa quistione basti il detto fin qui. La seconda è: In qual modo si può praticamente unire lo spirito di contemplazione alla vita attiva nelle opere di carità ? L' unione della santa contemplazione coll' esercizio delle opere di carità è l' intento del nostro Istituto; epperò noi non dobbiamo essere appagati fino a che non abbiamo ottenuto da Dio il lume di congiungere in noi queste due cose. E dico che da Dio dobbiamo ottenere la virtù di annodare insieme in tutta la nostra vita la contemplazione e l' azione, perchè non c' è nessun maestro che ci possa insegnare una scienza così sublime, se non quel Gesù Cristo che in sè ne mostrò un perfettissimo esempio. Perocchè questa scienza non consiste in altro se non nell' unione intima con Gesù Cristo, in una unione la più attuata possibile. Ed Egli per sua misericordia ne ha già preparati i mezzi nella sua Chiesa, prima ancora che noi nascessimo o lo sapessimo desiderare. Quali adunque sono i mezzi per ottenere questa unione intima, e continuamente attuata con Gesù Cristo, che non ci distoglie dalle opere di esterna carità, ma che anzi vi ci sprona ed aiuta? Il primo di tutti i mezzi è l' intenzione pura e semplice di cercare Gesù Cristo solo in tutti i nostri pensieri, parole ed azioni. Questa rettitudine d' intenzione si offende di qualsiasi altro affetto che influisca nelle nostre azioni, e resta da esso poco o molto macchiata. Quindi l' intenzione di cercare in tutto il solo Gesù Cristo non è perfetta, se l' uomo non ha rinunciato intieramente all' amor proprio e ad ogni sensualità. Dissi però che quell' intenzione, che cerca in tutto Gesù Cristo solo, rimane offesa da ogni affetto che influisca nelle nostre azioni sieno interne o sieno esterne, perchè un affetto od una sensazione, che non avesse alcuna influenza sui nostri pensieri volontarii, nè sulle nostre parole, nè sulle nostre opere (nel qual caso quell' affetto o quella sensazione sarebbe interamente opposta alla nostra volontà) non diminuisce niente la purità della nostra intenzione, ma piuttosto la eserciterebbe ed acuirebbe secondo il detto di Dio a san Paolo: « che la virtù si perfeziona nella tribolazione ». Il secondo mezzo, che viene in soccorso del primo, consiste nell' eseguire tutti gli esercizii di pietà, e principalmente il ricevimento de' Ss. Sacramenti e l' assistenza al Santo Sacrificio, col maggior fervore, tenerezza, gratitudine, sincerità ed intelligenza possibile; giacchè in questi esercizii avviene la special comunicazione fra Gesù Cristo e l' anima divota. Il terzo mezzo si è quello di sforzarsi continuamente a tener vivo nel cuore l' amore di Gesù Cristo, portando sempre il divino Maestro quasi dipinto davanti agli occhi dell' anima nostra, udendo le sue parole quali sono scritte nel Vangelo, contemplando le azioni da lui fatte nel corso della sua vita mortale e nella sua preziosissima morte (cose tutte che devono essere familiari ad una persona spirituale), facendo delle applicazioni delle sue parole e de' suoi esempii a noi stessi e a tutto quello che abbiamo a operare, considerando altresì come opererebbe egli nel caso nostro, e come egli vorrebbe che noi operassimo, consultando nei casi dubbii con sincero desiderio di conoscere e di fare unicamente ciò che è più perfetto e che più gli piace, ed ascoltando con riverenza ed amore la sua voce, quando egli parla dentro di noi. Il quarto mezzo è di vedere Gesù Cristo nei prossimi coi quali parliamo o trattiamo, proponendoci nel nostro trattare o parlare coi prossimi, di esser loro utili in Gesù Cristo, e di cavare da loro anche edificazione per noi stessi. Se noi abbiamo un vivo zelo per la salute delle anime, noi faremo tutto il possibile per acquistarle ed avvicinarle a Gesù Cristo; epperò saremo nemici di tutte le parole inutili ed oziose, e parimenti delle superflue conversazioni e di ogni vana curiosità. Ma per fare che ogni nostra parola, ogni nostra operazione sia indirizzata a migliorare gli altri e noi stessi, e quindi a portar frutti di vita eterna, ci vogliono due cose: la prima e principale è, che la carità sia sempre quella che ci diriga, e poi che domandiamo a Gesù Cristo il lume della sua prudenza, il quale moltiplica i frutti della carità. Un' anima che si propone in tutto quello che fa o che dice, il bene delle anime, sì delle altrui che della propria, starà sempre raccolta anche in mezzo a molte opere esterne, perchè il suo spirito è sempre inteso alla carità, e chi pensa sempre alla carità di Gesù Cristo, e non ha altro in cuore, è sempre raccolto in Gesù Cristo ed in Dio, perchè la Scrittura dice: « Dio è la Carità ». Ma per acquistare quest' abito ed ottenere che questi quattro mezzi fruttino un raccoglimento costante dello spirito, anche in mezzo alle esterne occupazioni, è necessario di fare degli sforzi a principio e mortificarsi molto e risolutamente in tutto quello che distrae la mente e si oppone al detto stato di raccoglimento e di presenza di Dio, è necessario domandare istantissimamente a Gesù Cristo la grazia; e solo colla perseveranza in una intensa orazione si può stabilire l' animo e fargli acquistare quella condizione permanente di quiete in Dio, la quale, se la volontà da se stessa non si dà al male, non si perde più per nessuna azione esterna. Convien sapere che quella potenza, la quale propriamente comunica con Dio e con Dio si congiunge, è una potenza diversa dalle altre con cui si opera esternamente; e però quando l' uomo è venuto ad un certo stato di contemplazione e di unione, allora egli opera colle sole potenze che risguardano le azioni esterne, senza impedire alla potenza suprema la sua quiete e il suo riposo in Dio. Onde si legge di certe persone sante, che mentre sembravano tutte occupate al di fuori, esse conversavano internamente col loro Dio e Creatore; e questa conversazione non le impediva, anzi le aiutava a far meglio quello che facevano al di fuori, come viceversa, quello che facevano al di fuori non le frastornava da quella interna affettuosa comunicazione. Un così desiderabile stato si suole acquistare da quelle anime fedeli e costanti, che da principio soffrono molto mortificandosi e pregano con intensità ed assiduità. E questo stato le Suore della Provvidenza devono cercare di ottenerlo nel tempo del Noviziato, dove hanno tutto il campo, se vogliono, di stringere questo intimo e indissolubile nodo con Dio, Sposo delle anime loro, nodo che deve poi durare tutta la loro vita. E quelle che non hanno finito d' ottenerlo nel Noviziato, devono procurare di ottenerlo al più presto. Ma oramai passiamo alla 3 quistione. Questa era: Come si può unire perfetto zelo e desiderio ardente di perfezionare la carità col perfetto distacco dalla propria stima e desiderio sincero dei disprezzi ed obbrobrii? E` questa una questione non meno difficile delle due precedenti, non dico difficile a risolversi in parole, ma a risolversi col fatto. Ma che cosa è difficile a Gesù Cristo ed a quelli che in Gesù Cristo sperano e ne lo pregano?... Per rispondere adunque anche a quest' ultima vostra dimanda, dico che è necessario supporre che nella persona ci sia il fondamento di una solida umiltà, la quale consiste nel non attribuire a se stessi quello che appartiene al solo Dio, od agli altri uomini, di modo che umiltà non è altro che giustizia. In fatti è giusto che l' uomo si reputi un nulla, perchè è tale, e che reputi Dio essere tutto: è giusto che l' uomo sappia ancora che la gloria non appartiene al nulla, ma al tutto, epperciò non voglia alcuna gloria per sè, ma voglia bensì procacciare a Dio solo tutta la gloria possibile: è giusto che l' uomo che sa queste cose, senta un certo rammarico quando viene lodato dagli uomini, perchè il nulla non può desiderare di esser lodato senza usurpazione, e che senta un gran diletto per l' opposto quando vede che gli uomini glorificano Dio. Ma l' uomo non essendo solamente un nulla, ma qualche cosa di peggio, cioè un peccatore (non solo per i peccati che ha commessi, ma perchè ne potea e ne può commetter di continuo, se Iddio non ha di lui compassione), perciò è giusto altresì che egli desideri di esser disprezzato, e che egli goda quando viene maltrattato dagli uomini. Questi sentimenti devono essere inconcussi e profondamente scolpiti nell' animo di una persona religiosa. Ma ella dee sapere anche un' altra cosa. Quantunque l' uomo sia un nulla, e di più soggetto ad ogni peccato, tuttavia Gesù Cristo per sua gratuita misericordia lo ha redento, lo salva, e lo riveste di se stesso per siffatto modo che il cristiano ha intorno gli ornamenti di Gesù Cristo; e questi sono più o meno ricchi e preziosi, secondo l' abbondanza delle virtù, dei meriti e della grazia. Sarebbe una gran pazzia che l' uomo trovandosi ricco di siffatti ornamenti, ne insuperbisse; mentre anzi, se pensa che tutti questi tesori gli sono stati dati gratuitamente e contro ogni suo merito, egli dee confondersi e attribuire a Dio solo anche la gloria dei medesimi, senza usurparne per sè la più piccola parte. Ma come Iddio donò all' uomo questi tesori di virtù e di grazia per un suo preveniente e gratuito amore, così egli, gli partecipa ancora una parte della sua gloria. Ora di nuovo l' uomo deve considerare questa gloria che gli viene attribuita, come gloria non sua, ma di Gesù Cristo, che per sua misericordia l' ha voluta diffondere anche ai suoi credenti, e loro partecipare. Ciò posto, le regole da tenere per unire insieme il desiderio di condurre a perfezione le opere di carità e il distacco dalla propria stima, e di più il desiderio sincero del disprezzo (cosa preziosissima), sono le seguenti: Non dare (generalmente parlando) agli uomini alcuna occasione di disprezzarci, almeno con alcun proprio fallo; ma quando, a malgrado di ciò, ci viene il disprezzo, noi dobbiamo riceverlo con allegrezza, come cosa assai cara, e ringraziarne il Signore, senza temere che da ciò proceda danno alle opere di carità, perocchè se anche qualche danno ne procede, questo è voluto dal Signore, per i suoi fini, e allora non dobbiamo averne dispiacere, ma confidare nella Provvidenza che saprà ricavare da quel danno altri beni maggiori. Non far mai nulla per acquistare applauso dagli uomini, che è un fine ignobilissimo; ma quando tuttavia quest' applauso viene da sè, attribuirlo a Gesù Cristo, a cui solo appartiene, e per conto proprio averne paura come di un pericolo, e per cautelarsene fare nel proprio interno atti di umiltà e di disprezzo di se stessi, protestando di non volerlo ricevere come una parte della mercede. Dopo di ciò, se quell' applauso può riuscire di utilità alle opere di carità, si può anche averne piacere, purchè se ne abbia piacere per questo solo fine, e senza alcun riguardo a se stessi, badando bene che non nasca in noi alcun sentimento di vanità o di pretesa, anzi preparandosi ad essere, dopo ricevuto l' applauso, più umiliati di prima e persuasi di non essere per quell' applauso divenuti nulla più di quei miserabili che eravamo prima. Accorgendosi che la lode sia esagerata averne dispiacere, anche perchè è contraria alla verità e giustizia, ed attribuirla al buon cuore di chi la dà, che non bada alla misura. Per conoscere poi se siamo distaccati da noi stessi, dobbiamo esaminare se godiamo delle lodi date altrui, e specialmente voi dovete esaminarvi se godete delle lodi che vengono date alle sorelle; chè sarebbe un gran difetto l' averne anche un minimo dispiacere od invidia. Conviene che cogli altri, e specialmente colle sorelle siate generose, ne consideriate assai più le virtù che i vizii, e procuriate che conservino la stima con mezzi sempre giusti; e ognuna deve declinare le lodi date a sè, facendo in modo che cadano invece nelle sorelle, dovendo ciascuna amar di essere la prima nell' impegno e nella sollecitudine di mettersi l' ultima. E questo non è difficile a farsi quando una persona considera i proprii difetti e le altrui virtù, astenendosi dal considerare o dal giudicare gli altrui difetti, come quelli di cui non appartiene ad essa il giudicare, ma al solo Iddio; il che insegnò Gesù Cristo con quelle parole: « Non vogliate giudicare, e non sarete giudicati ». E in fatti, l' esporsi al pericolo di giudicare a torto sinistramente de' proprii fratelli, è lo stesso che far loro un' ingiuria: onde per non esporci a commettere contro di essi un' ingiustizia, non c' è altra via che astenerci da ogni giudizio definitivo ad altrui danno. Non parlare nè dir cose che cadano in propria lode, il che è riprovato anche dagli uomini. E quantunque non si debba neppure parlare, senza buoni motivi, in biasimo di se stessi, tuttavia si deve cercare di coprire le proprie virtù, per quanto si può, agli occhi altrui, e qualche volta si può anche parlare con disprezzo di se stessi, purchè ciò si faccia con sincerità. E` poi lodevole il farlo, mossi sempre da un sincero sentimento, quando si parla colle sorelle, o con persone famigliari e senza affettazione. [...OMISSIS...] 1.50 Ho ricevuto la gratissima sua del 20 settembre, ed oggi anche la seconda del 23 detto. Da quest' ultima mi accorgo che Ella non deve aver ricevuto una mia, data di Caserta 3 luglio 1.49, colla quale rispondevo alla sua 11 giugno, che mi partecipava la risoluzione da Lei presa nei santi Esercizi d' entrare nel minimo Istituto della Carità. Avendo io conservato copia di quella mia risposta, mi permetta che gliela trascriva. Non m' era mai venuto in pensiero, che questa mia lettera si fosse potuta smarrire, e però mi astenni dal farle parola di questo argomento, essendo mio costume di esortare bensì ad abbracciare lo stato religioso in generale quelli che ve li posso conoscer chiamati, ma non eccitandoli perciò a scegliere l' Istituto della Carità, bramando di accogliervi unicamente quelli che vi sono « missi a Deo , » non mai chiamati da me; che Dio me ne guardi. Tuttavia avendo Ella eletto questo minimo Istituto ne' santi Esercizi colla debita ponderazione, io non credo di doverle tacere (poichè me ne domanda espressamente) esser mia massima, che quando una volta si è presa, dopo consultato Iddio, una deliberazione in cosa per se stessa buona od attenente alla perfezione, convenga perseverare nella medesima, e non lasciarsene debolmente svolgere, se non fosse per ragioni gravissime ed evidenti. E reputo una sottile insidia dell' inimico, il fare che l' uomo vacilli in quella deliberazione, fosse anche sotto pretesto e colore di far meglio. Tale è la mia ferma opinione, non solo per ciò che riguarda la vocazione ad uno o ad un altro Istituto religioso, ma ben anche in altre materie. E credo che questo si potrebbe confermare colla dottrina e coll' esempio de' Santi, ed altresì coll' esperienza, la quale mostra sovente, che gli uomini che mutano leggermente, anche sotto specie di meglio, non raccolgono poi gran frutto. Circa quello che mi domanda, se nel nostro Noviziato ella potrebbe attendere per quattro o cinque mesi ad ultimare il compendio dell' Alasia, le rispondo che in ciò non si farebbe difficoltà. Perchè quantunque siano esclusi dal nostro Noviziato, ordinariamente parlando, gli studi severi, tuttavia per qualche grave cagione e quando si tratta di poco tempo, il Generale può dispensare. Eccole, mio carissimo signore, il mio sincero sentimento circa quanto mi domanda: mi sono raccomandato a Dio prima di darlo, ed ho consultato qualche persona rispettabile. Ma ella ne faccia quel conto che crede. Prego di cuore Iddio che La empisca di lumi e di benedizioni: mi tengo anzi certo che lo farà. 1.50 Aspettavo che mi deste qualche relazione della vostra nuova posizione e del nuovo vostro ufficio, secondo che eravamo stati intesi, quando ci siamo ultimamente veduti. Ora ricevo infatti la cara vostra del 1 dicembre, nella quale mi dite alcune cose dell' essere vostro e dell' andamento della scuola. E per rispetto agli Esercizi spirituali, non dubitavo della vostra diligenza, non essendomi venuta parola in contrario, e nondimeno ho inteso con piacere quello che me ne dite. Continuate, e sopratutto datevi all' esercizio della presenza di Dio e dell' orazione incessante che si fa col cuore, mantenendovi nello spirito d' orazione , che è veramente quello che alimenta il fuoco interiore e dà la vita all' anima. Procuriamo di convincerci sempre più dell' infinito bisogno che abbiamo della grazia divina che ci sostenti e preceda, e accompagni, e sussegua; poichè chi è altamente persuaso di ciò, non cessa di gridare a Dio dal profondo del cuore per ottenerla e averla sempre in ogni atto, in ogni istante della propria vita. Mi pare poi di rilevare da quello che mi dite in appresso, che voi facciate sì con tutto l' impegno e lo zelo la scuola, ma piuttosto per rassegnazione che per amore. E pure io vorrei che la faceste proprio per amore . V' assicuro che in questo sta l' eccellenza della virtù. Sforzatevi di pervenire a quest' alta disposizione d' animo, che l' amore sia proprio quello che faccia tutto in voi, e vi renda tutto soave e grato. A questo fortunatissimo stato giungerete certamente colla grazia divina: 1 Se concepirete colla mente l' eccellenza della carità del prossimo, a cui la divina bontà ci ha chiamati: nella quale carità consiste la sicura e vivente sapienza, « supereminentem scientiae caritatem , » come dice S. Paolo: onde ogni opera di carità ha per questo solo un infinito valore; 2 Se nella carità verso il prossimo avrete per oggetto continuamente presente il divin Redentore GESU`, il quale disse: « « Qualunque cosa avrete fatta a questi miei minimi, l' avrete fatta a me stesso ». » Quali parole per chi ha viva fede! quale incoraggiamento a qualunque sacrifizio! L' amore dunque di GESU` Cristo cresca ne' nostri cuori, e con esso crescerà l' uomo interiore, e si farà adulto e robusto. Mi è rincresciuto assai ciò che mi dite nell' ultima parte della vostra lettera, nella quale pare che crediate di essere trattato con diffidenza dal vostro Superiore. Mio caro Marco, io non so certamente come la cosa sia; ma non vorrei che fosse una vostra illusione o tentazione. Io so di certo che cotesto vostro Superiore vi ama, e potrebbe essere che egli vi tenesse d' occhio con ispecial cura. Ma che per questo? Interpretate bene, riputate all' affetto che ha per voi la sua sollecitudine. Badate che qui non ci sia nascosto dell' amor proprio, il quale noi dobbiamo scoprire e combattere, come nostro infaticabile nemico. Fondiamoci, mio carissimo Marco, nel vero e solido fondamento dell' UMILTA`, diamo addosso a noi stessi: e quante cose allora, che prima ci offendevano, ci sembreranno innocenti, o frivolezze, o fors' anche motivi di giubilo! Sopra questa cosa procurate di esaminarvi e di fortificarvi, e scrivetemene ancora: poichè atteso l' amor che vi porto, vorrei vedere la più perfetta concordia e carità fra voi e il vostro Superiore; la quale è tanto facile e tanto dolce, quando si abbassi ogni amor proprio e si facciano trionfare i bei sentimenti di umiltà e di mansuetudine. [...OMISSIS...] 1.50 Due sistemi sono stati sperimentati circa la relazione degli ordini religiosi coll' Episcopato: quello della dipendenza dagli Ordinarii, e quello di una moderata indipendenza dai medesimi, quale fu stabilito dal sacro Concilio di Trento. Fu provato che un ordine religioso universale è alla Chiesa utilissimo, assai più utile di molti ordini particolari; e in pari tempo, che quello non può fiorire, anzi nemmeno esistere, con un' assoluta dipendenza dai diocesani. All' incontro esso trae seco facilmente l' incomodo di essere dai diocesani veduto con gelosia, insorgendo anche talora collisioni coi medesimi. Questo incomodo manca nelle Congregazioni particolari e diocesane, ma in quella vece l' esperienza dimostra che queste sono deboli, poco utili alla Chiesa, di breve vita anche senza corrompersi, e causa sovente di scissure col resto del clero diocesano; ma quello che più di tutto importa, lontane dall' evangelica perfezione, la quale esige essenzialmente una carità universale, un distacco dalla patria, dalla famiglia, da tutte le cose proprie, e un campo vasto, anzi illimitato di azione quant' è illimitato l' amor di Dio per gli uomini e la sua Provvidenza, e l' indifferenza perfetta a tutto ciò, a cui può esser chiamato un uomo dalla medesima Provvidenza, senza distinzione di luogo o d' uffici, e senza limitazione di pericoli e di travagli per la divina gloria. Egli è adunque da preferirsi senza paragone un ordine universale, benchè involga qualche incomodo, a Congregazioni particolari che con incomodi maggiori arrecano tanto minori beni; e però è da preferirsi la moderata indipendenza dalla giurisdizione vescovile e la stretta unione e sommessione al Capo universale della Chiesa, condizione necessaria ad un ordine universale. E dico moderata indipendenza , perchè il Vescovo è anch' egli in alcuna parte, benchè non in tutto, legittimo superiore dei religiosi che sono nella sua Diocesi e che hanno il privilegio dell' esenzione, assegnandogli sopra di loro il Concilio di Trento, come dicevo, una parte di giurisdizione. Ma voi mi domandate: non si potrebbero vincere le difficoltà e gl' incomodi che trae seco un ordine universale nelle sue relazioni coi reverendissimi Vescovi? Vi rispondo che, avendo noi sommamente desiderato una tal cosa sino dalla prima formazione dell' Istituto, abbiamo studiato di avvicinarci a conseguirla il meglio che noi sapemmo colle norme fissate intorno a ciò nelle Costituzioni. Ma tali disposizioni, acciocchè riescano nella pratica efficaci, richieggono due condizioni che non si sono finora dappertutto verificate. La prima è, che le relazioni tra i Vescovi e l' Istituto avessero per base comune i grandi principii della carità di Cristo: e la seconda, che i Vescovi, informati ben addentro della natura dell' Istituto, fossero solleciti della sua conservazione, come ne sono gli stessi superiori, e non pensassero soltanto ad approfittarne, senza darsi cura di coltivarlo e mantenerlo in florido stato. Infatti se partiamo dai grandi principii della carità cristiana, questa non si restringe nei limiti di una Diocesi, e un seguace di Cristo, che ne sia animato, si compiacerà di un bene maggiore, anche col sacrificio di un minore. E quindi un Vescovo che non deve amare la sua Diocesi particolare più della Chiesa universale, non potrà vedere di mal occhio che qualche religioso abbandoni la sua Diocesi per arrecare un bene maggiore al regno di Dio sopra la terra. E a questo fine intenderà facilmente essere necessario il lasciar libera la disposizione dei loro soggetti ai Superiori generali dell' Istituto, come quelli che meglio vedono dove possono produrre un maggior frutto al padrone della vigna. E così fecero sempre i santi Vescovi, che talora si privarono di eccellenti soggetti a fine di procurare la salute a popoli lontani. E` dunque necessario che, come i Superiori dell' Istituto sono obbligati dalla loro professione di promuovere coll' attività dell' Istituto medesimo il massimo frutto di carità, come lo si propose Gesù Cristo nel governo della sua Chiesa: « ut fructum plurimum afferatis »; così si propongano lo stesso i Vescovi secondo lo spirito dell' episcopato: e in tal modo questi e i Superiori dell' Istituto abbiano un solo ed unico fine, non arbitrario, ma dallo spirito del Vangelo additato e determinato. E questo è già una prima base della concordia desiderata, sulla quale si può facilmente edificare domum pacis . L' altra base è, come dicevo, che i Vescovi investendosi del governo stesso dell' Istituto, come ne fossero Superiori, e bene intendendone la natura, non pretendano da lui di quelle cose che esso non può fare senza guasto della religiosa disciplina, senza dissipazione dello spirito dei suoi membri, senza disorganizzazione del suo ordine interno: nel qual modo soltanto ne possono trarre un grande e permanente profitto. Perocchè se abbiamo una macchina congegnata artificiosamente, vano sarebbe sperare che essa produca a lungo l' effetto pel quale è inventata e fabbricata, qualora non si badasse punto a conservarla in buono stato; ma o adoperandola soverchiamente, o ad altro uso da quello per cui è fatta, si logorasse in breve tempo, disordinasse od infrangesse. E per conservarsi in suo buono stato, senza di che non può giovare, è necessario, che i Prelati abbiano la ragionevolezza di ascoltare intorno a ciò i Superiori, che sono quelli che conoscono davvicino le forze e l' abilità dei loro soggetti, e le forze e l' abilità delle singole Case e Famiglie religiose: come fanno i padroni di un gregge, che per la cura del medesimo ascoltano i pastori e i mandriani, e come fanno i possessori di case e di campi, che ascoltano gli architetti ed i fattori circa il modo di amministrarli, e s' attengono ai loro consigli, riuscendo questa deferenza a loro vantaggio. Questa massima adunque ragionevole di dover adoperare il corpo religioso colla debita discrezione e deferenza al giudizio de' Superiori, acciocchè egli si conservi nello spirito della perfezione e nella sua propria naturale organizzazione, è un' altra base su cui edificasi l' armonia desiderata fra esso corpo ed i reverendissimi Prelati della Diocesi a cui serve. Quando si convenga in questi principii e si verifichino queste due condizioni preliminari, le disposizioni, stabilite dalle regole nostre e dalle nostre Costituzioni, compiranno la detta armonia, ed oso dire altresì, che la renderanno perfetta ed inalterabile. Perocchè appunto col fine di facilitare ed ottenere questo desiderabilissimo intento viene da noi stabilito quanto segue: Che quando si è presa un' opera di carità, piccola o grande, difficile o facile, leggera o faticosa, non si abbandoni più per nessuna ragione umana, e si procuri di adempierla, accrescerla e perfezionarla in tutti i possibili modi. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dell' Istituto nelle loro Diocesi, e della sollecitudine dei Superiori di applicare i soggetti più idonei che si possono avere all' esecuzione delle opere assunte; Che i soggetti applicati ad un' opera di carità non si rimuovano da quella leggermente, cioè senza che lo richieda il bene spirituale degli stessi soggetti o quello delle stesse opere intraprese. Questa costituzione assicura i reverendissimi Vescovi della stabilità dei soggetti, non già di una stabilità illimitata e incondizionata, la quale sarebbe irragionevole e contraria alle due massime fondamentali di sopra stabilite, ma di una stabilità ragionevole, quale sola si può e si deve da essi desiderare; Che a tutte le opere di carità si preferiscano quelle desiderate dai Vescovi. Questa costituzione mette l' Istituto alla disposizione dei reverendissimi Vescovi, giacchè per essa l' Istituto si obbliga di fare tutto quel bene che essi bramano da lui, dentro i limiti delle sue forze e della sua possibilità; ed anche qui non si potebbe ragionevolmente desiderare di più; Che quando i Vescovi si degnano di affidare all' Istituto delle opere appartenenti alla gloria di Dio ed al bene della Chiesa e dei prossimi, l' Istituto le adempia in quei modi che bramano i Vescovi stessi; ed in questo egli riceve ben volentieri da essi i regolamenti e i metodi che volessero comunicargli; nè si ricusa di entrare anche con esso loro in positive convenzioni. Voglia, a ragion d' esempio, il Vescovo affidare all' Istituto il suo seminario; i membri dell' Istituto che ne assumono la direzione, si obbligano di governare il seminario in tutto e per tutto come piace a lui, e in questo gli sono pienamente soggetti. Lo stesso si dica delle altre opere che il Prelato della Diocesi volesse affidare all' Istituto: questo non userebbe, se non quella parte di libertà che il Vescovo stesso gli accordasse; neppure in questo io vedo come ragionevolmente si possa bramare di più. Considerate bene queste quattro costituzioni, sarà facile di cavare una conseguenza inaspettata ma pure verissima, e questa si è che il Vescovo può esercitare sopra l' Istituto una maggiore autorità, e ricevere maggiori servigi che non da sacerdoti secolari suoi diocesani. Vero è che i sacerdoti secolari della Diocesi hanno promesso ubbidienza al Vescovo; ma conviene vedere la cosa in pratica non in teoria, conviene vederla nel fatto e non in astratto diritto. I reverendissimi Vescovi non possono già in fatto dimandare tutto quel che vogliono ai loro sacerdoti diocesani; ma debbono usare con essi molti riguardi, e gli usano infatti, evitando le resistenze che prevedono di ritrovare. Queste resistenze procedono da una virtù imperfetta; ora dall' interesse temporale; ora dall' attacco alla famiglia, alla patria o al luogo in cui tali sacerdoti si trovano; ora dall' ambizione e da certi diritti di onore, nei quali venendo offesi si irritano, insorgono, resistono; ora da pretensioni acquistate per meriti e per dottrina; ora finalmente da inclinazioni o avversioni naturali a questo o a quell' altro ufficio. I membri dell' Istituto della Carità promettono al Signore nella loro stessa professione di essere indifferenti ad ogni opera buona, che loro venga ingiunta da esercitare; hanno per voto rinunziato ad ogni interesse temporale, ad ogni onore, alla patria, ai parenti; professano di amar l' umiltà senza mercede di onor temporale, e la carità illimitata. Non v' ha dunque cosa alcuna che non si possa loro liberamente comandare, salvo solo quelle limitazioni che trae seco l' infermità umana, la quale rimane sempre in ogni caso. E` dunque molto più ampia e più libera la sfera, in cui può spiegarsi l' autorità e la volontà del Vescovo, trattandosi dei membri dell' Istituto, che non sia dei suoi proprii sacerdoti diocesani. Che se egli è legato a doversela su di ciò intendere coi Superiori dell' Istituto, questo non pregiudica, anzi giova molto al bene da ottenersi; avendo egli, se così gli piace, negli stessi Superiori dell' Istituto altrettanti fedeli che lo aiutano a dirigere con più ordine e sicurezza il corpo dei sacerdoti soggetti, e gli danno una guarentigia maggiore di buon riuscimento. Vi abbia dunque carità e ragionevolezza, e vi avrà perfetta armonia; non vi avrà no, assoluto dominio dalla parte del Vescovo, ma non è questo che fa il bene nella Chiesa, dicendo l' Apostolo: « neque ut dominantes in cleris »; vi avrà da parte dei reverendissimi Vescovi una dominazione di carità, che nel fatto è la più potente per fare il bene, e vi avrà dalla parte dell' Istituto la più umile e perfetta sommissione, e quella servitù di Cristo, che non è disgiunta dalla libertà pure di Cristo. Se i reverendissimi Vescovi entrassero in questo spirito, ed io spero che presto o tardi sarà, dall' Istituto trarrebbero tutto quel maggior servizio che in Cristo possono desiderare. Tanto più che l' Istituto nel suo contegno esteriore non si distingue dal clero secolare, e brama di affratellarsi con questo e giovare e servire a questo, tirandolo, per quanto gli concederà il Signore, a quei sentimenti di perfezione che vengono insegnati dal Vangelo, e che l' Istituto si è proposto di praticare; senza inclinare egli stesso a quei sentimenti che fossero meno perfetti in alcuni sacerdoti secolari. [...OMISSIS...] 1.51 Ho letto io stesso con tenerezza la sua lettera. Ella si conforti pure nella misericordia di Dio, la quale è infinita. Questa parola infinita ci deve aprire il cuore ad ogni speranza. Ella e il suo figlio defunto discendono da santi genitori, e la stirpe de' santi non suol mai essere abbandonata dal Signore: il Signore può aver dato a quel suo figlio un ultimo sentimento, un solo atto della volontà, di quelli che salvano l' uomo. Forse ha disposto che questo tratto di misericordia rimanesse secreto, perchè questo mistero giovasse ad un tempo e a salvare quell' anima e a santificare Lei e tutta la sua famiglia. Le vie del Signore sono ammirabili e superiori al pensar nostro: dobbiamo adorarne la Maestà, e non dimenticarci ad un tempo degl' infiniti tesori della sua bontà. A questo riflesso costante aggiungiamo le preghiere (anch' io ne farò e farò fare): quelle che facciam al presente, stavano davanti alla mente divina prima che morisse suo figlio, e da tutta l' eternità le ascoltava. Ricordiamoci che non c' è nulla di più caro al Signore che una grande confidenza in lui. Questa confidenza è sempre coronata, ed è il miglior modo di onorare il Signore; poichè non gli si può dare più bella gloria, che quella di esaltare la sua bontà. Gusta ancora che noi ci accostiamo a lui coll' intermezzo di Maria santissima, a cui Ella è figlio divoto: che dubitar dunque con tale interceditrice? Rimuova il pensiero, per quanto mai può, dal figlio, abbandonandosi nelle mani di Dio e in quelle della Vergine: e in questo abbandono si conforti e incoraggi. Abbiamo bisogno di coraggio e di confidenza per andar avanti in questo misero mondo, e Iddio volle farne della speranza una virtù divina. Abbiamo bisogno altresì della tranquillità e della pace del cuore; e nella speranza cristiana questa pure si trova, perchè è qualche cosa di più di speranza. Gesù Cristo ci ha portato la sua pace, riposiamo in lui. La ringrazio di tutto ciò che mi scrive nella sua lettera, e prego Gesù Cristo stesso a ricompensarla. Colla sua saviezza, colla rettitudine delle sue intenzioni potrà giovare a queste difficili condizioni di cose pubbliche; ma in ogni caso, ancorchè gli sforzi de' buoni non riescano a bene, essi hanno fatto il loro dovere e n' hanno il merito, e di questo devon esser contenti, perchè è un bene impareggiabile. [...OMISSIS...] 1.51 La lettera che le Reverenze Vostre, tutte unanimi, si degnarono d' indirizzarmi, mi fece gustare, in leggendola, di quella dolcezza e giocondità di cui parla il Profeta Reale in quelle parole del Salmo: [...OMISSIS...] Se i conforti e le caritatevoli espressioni d' un amico in Cristo sono sempre soavissime e salutari, quanto più non riescono tali quelle che non vengono da un amico solo, ma da molti Padri e fratelli, uniti fra loro coi più sacri vincoli, e formanti una sola famiglia di servi del Signore, i quali concordissimi con un solo cuore, con una sola voce che risuona celeste sapienza, c' incoraggiano nelle avversità e ci si dimostrano quasi nostri compagni in essa, e, deplorandola come propria, vi arrecano quei documenti di consolazione celeste di cui fanno uso ancor prima con sè stessi per attenuare il partecipato dolore? Laonde come le Vostre Reverenze, animate da quella carità che arde così bella nel serafico Ordine, quasi trasformate in me, si risentono alle ingiurie, che a me va facendo il soverchio zelo di alcuni; così io mi sento mosso dalla riconoscenza e dalla carità reciproca, quasi trasformato in esse, essere divenuto del loro numero. Questa è quell' unione in Cristo che avvicina i lontani e che li fa abitare insieme collo spirito siccome fratelli. Perocchè non è tanto la convivenza de' corpi che celebrava il Salmista nelle citate parole, quanto quella degli spiriti: per questa è che noi siamo fratelli e che abitiamo insieme, e il luogo dove abitiamo è Cristo. Accettino dunque le Reverenze Vostre i miei sincerissimi e cordialissimi ringraziamenti dei sentimenti ed affetti che mi manifestano, e, quasi osava dire, le mie congratulazioni, perchè non solo esse alimentano, ne' loro animi, ma ben anco appalesano, e appalesandolo comunicano altrui quel fuoco di santa carità, che edifica col suo splendore e che solo è potente di unire in un solo corpo, pieno di onestà e di bellezza, i religiosi, quantunque in varii Ordini distribuiti, di cui è ricca la Chiesa, e tutti i servi di Dio; e non solo in un solo corpo, ma in un solo cuore e in un' anima sola. Perocchè tale deve essere l' esercito del Signore, e così si rende formidabile ai nemici di lui ed invincibile. E le Vostre Reverenze poi dicono nella loro venerata lettera una verità che io riconosco per esperienza, cioè che la presente tribolazione non manca punto del suo compenso. Primieramente il mio dolore si tempera quando penso che coloro che mi vanno assalendo, sebbene con modi poco decenti, sono mossi in qualche guisa dallo zelo per la purità della fede, cosa così preziosa che va a tutte le altre anteposta. Di poi considero che tali cose sono permesse da quell' Eterno nostro Signore e Creatore, senza il cui volere niente si fa, nè in cielo, nè in terra, e ogni cosa permette con altissimo consiglio, e da ogni cosa anche rea, sa cavare con infallibile effetto un bene maggiore; onde anche questo solo pensiero basta a dare all' animo nostro pienissima tranquillità e dirò anche consolazione in ogni avvenimento, benchè nell' apparenza sinistro. Nè manca il Padre comune di dare colla tentazione il provento, e di aggiungere forze a sostenerla, purchè in lui si confidi e lui si preghi. E quanto a me, non mi sarebbe facile l' enumerare quanti furono i vantaggi e i compensi oggimai raccolti, datami l' occasione dagli avversari. Perocchè quanti amici in Cristo mi si sono manifestati in questa occasione che non sapeva pur d' avere! quanti a me sconosciuti, anche persone ragguardevolissime, presero a petto la mia causa! e gli amici che già possedevo quanto più intimamente si strinsero a me e mi diedero prove d' un affetto cristiano maggior dell' usato! Non conto fra questi vantaggi le lodi pur troppo sempre pericolose al nostro amor proprio, colle quali in voce e in stampa molti cercarono di ristorarmi del biasimo degli avversari; ma conto fra i vantaggi più preziosi e più cari le tante orazioni che per me s' inalzarono al Signore da un gran numero di fedeli, studiosi e seguaci della caritatevole verità e della vera carità. E la lettera delle Reverenze vostre è di tutto ciò un nobilissimo documento. Che poi da tutti questi avvenimenti permessi dal Signore e intessuti di qualche amarezza e di molta dolcezza tragga profitto il mio povero spirito per servire il Signore con maggior fedeltà e maggiore alacrità e coraggio, il quale non si nutrisce che nelle lotte; questo è quello che ardentemente desidero; questo è quello che aspetto e spero dalle orazioni dei buoni e delle Reverenze Vostre particolarmente. E quando, ritornando sopra me stesso, mi sento quasi indifferente a questo che avviene intorno di me, e vedo gli amici tanto più amareggiati di me stesso, dubito quasi di cavare poco profitto da queste avversità, parendo che molto non giovi al profitto dello spirito quel dolore che così poco si sente. Ad ogni modo però confido che il Signore nella sua misericordia riguarderà piuttosto al mio desiderio di approfittare della tribolazione, desiderio che a lui solo debbo, piuttosto che al grado del patimento. [...OMISSIS...] 1.51 « Militia est vita hominis , » e chi nol sa? e chi non l' esperimenta? e a quale di noi manca il combattimento, la prova, l' arduo cimento? Quegli che ci ha assegnato il posto nell' esercito è un capitano che contrabbilancia alle forze nostre l' impeto del nemico; che ci somministra le armi; e quali armi? Le armi della fede. E a qual fucina temprate? A quella del divino amore. Non meritiamo dunque il rimprovero: « modicae fidei, quare dubitasti? » Anzi imbracciato lo scudo della fede, contro cui tutte le saette si spuntano, consoliamoci in quelle parole: « qui perseveraverit usque in finem, hic salvus erit », e in quell' altre: « in patientia vestra possidebitis animas vestras ». Acciocchè poi non ci venga meno la fede, preghiamo senza intermissione: preghiamo fino che otteniamo: « Omnis qui petit, accipit; et qui quaerit, invenit; et pulsanti aperietur ». Nell' orazione troviamo la forza, la consolazione, la tranquillità, il rimedio alle malattie dell' anima, il sollievo a quelle del corpo. Certo in quanto a queste ultime gran conforto possiamo avere anche dal pensiero che dobbiamo colla penitenza scontare le offese che abbiamo fatte a Dio; e anche da quell' altro che « levius fit patientia quidquid corrigere est nefas ». Del rimanente a me passò per la mente che vi potesse recare qualche sollievo il fare qualche passeggiata fino a stancarvi un po'; e però vi proporrei di venire a Stresa, ma prendendo il cammino inverso, cioè per la valle Vigezzo, la Canobbina, facendo un devoto pellegrinaggio a Nostra Mamma di Re, dividendo il cammino a marcie discrete: e quando poi foste qui, dove c' è tutta la comodità, vi consiglierei a fare alcuni bagni, e da tutta questa cura mi riprometto buon effetto. Coraggio dunque, concertate ogni cosa con cotesto Superiore, poi all' opera, dandomi avviso del risoluto. 1.51 Il sentire dalla vostra dell' 11 agosto che voi col dilettissimo Furlong occupate tutto il vostro tempo a vantaggio di cotesto popolo sedente nelle tenebre e nell' ombra della morte, mi produce una somma consolazione, considerando specialmente che la fatica che fa colui che è mandato dal Signore nel curare e pascere le anime, è il maggiore segno che possiamo dare a Dio della nostra carità; onde Cristo dopo aver domandato a Pietro se lo amasse, gli soggiunse per tre volte « « pasci il mio gregge » »; donandogli questo quasi in pegno dell' amor suo. Vero è che anche tutti gli altri uffici di carità imposti dall' ubbidienza ai membri dell' Istituto della Carità hanno lo stesso merito, perchè hanno lo stesso fine, e però si può dire che tutti esercitino la cura delle anime, perchè le loro fatiche tendono finalmente alla salvezza delle anime. Questo sublimissimo intento è l' effetto che deve produrre tutto il Corpo nostro, e però a questo effetto concorrono tutte le diverse membra, di cui il Corpo si compone, e i loro diversi uffizi. Onde avviene che tutti quelli che ben intendono questa gran verità, sono facilmente contenti di ogni uffizio, esercitandolo, qualunque sia, coll' intenzione di cooperare al bene morale e spirituale; è sempre la carità quella che vi si nasconde, come preziosa margarita: questa sola è amata da tutti, e da tutti quelli che l' amano, trovata. E ciò non ostante, coloro a cui Iddio ha dato la missione di lavorare immediatamente alla salute dell' anime e di predicare la divina parola, devono avere una speciale gratitudine alla divina bontà che a tanto li elesse; e sono simili a coloro che, lavorando nel fuoco, non possono a meno di riscaldarsi. E non solo bramo che voi e cotesti miei carissimi fratelli vi riscaldiate nell' impegno in cui siete di dover riscaldare gli altri, ma che v' incendiate altresì d' amor di Dio e del prossimo. A questo dunque attendete; e a tal fine mantenete pura l' anima vostra da ogni contagione di questo secolo, vivendo della vita nascosta in Gesù Cristo; la quale ha per intento di spogliarci d' ogni qualunque attacco alle cose sensibili per attaccarci totalmente alle invisibili. Da per tutto la cattolica fede trova contrasti, ma da per tutto ancora trova trionfi: « oportet ut veniant scandala . » Voi ne avete tanti sott' occhio in cotest' Isola, ma noi certo non ne difettiamo. Che anzi reputo in qualche modo migliore la condizione vostra che la nostra, mentre appresso di voi si edifica, sebben combattendo, e presso di noi si distrugge quello che è edificato e si combatte perchè non sia distrutto. Abbracciate tutti nella carità di Cristo i cinque compagni che vi mando, sui quali ho concepito grandi speranze. Diverranno operai zelantissimi per la divina gloria: che Iddio li difenda dal maligno. [...OMISSIS...] 1.51 Anch' io ho conosciuto che, come voi dite nella carta che m' avete scritto, il vostro difetto è la timidezza; e questa, parte v' impedisce il ragionamento rendendovi esitante, e parte v' impedisce l' operazione trattenendovi dal farla subito, intera e colla dovuta franchezza. Conviene che vi prefiggiate di vincere questo difetto e di rendervi per l' opposto santamente coraggioso. I mezzi di vincere o piuttosto di deporre la timidezza soverchia sono i seguenti: Il primo mezzo è non aver paura della timidezza medesima: perchè questa paura accresce assaissimo la timidezza stessa. Convien dunque non pensare alla propria timidezza e non rivolgere soverchiamente la propria riflessione sopra sè stesso quando si delibera o si opera, ma porre la semplice attenzione sul partito da prendersi e le ragioni solide pro o contra, e dopo averlo preso pensare all' operazione che s' ha da fare, e non ad altro. Il secondo mezzo è di raccogliersi qualche volta e considerare che il timore che sopravviene è irragionevole, e poi disprezzarlo; e anche avendone il sentimento, operare come se non ci fosse, nè ragionare più con esso, come si fa colle tentazioni. Il terzo mezzo è ragionare molto cogli uomini e specialmente con uomini grandi sotto ogni rispetto, e imitare i loro modi e la loro buona franchezza: ancora mettersi dentro nei negozii, avendo grand' impegno di ben condurli: e però non esser parco di parole in conversazione (purchè i discorsi sien buoni ed importanti), e sostenere anche delle questioni o scientifiche o d' altro genere, spiegandovi forza e impegno, senza asprezza, già s' intende. Chi ha grand' impegno di condur bene un affare, per la gloria di Dio, questi si dimentica del timore, e fa il fatto suo. Quarto mezzo . Conviene badare di non voler essere troppo perfetto, cioè falsamente perfetto, dandosi un soverchio fastidio di tutte le piccole ragioncelle, che vengono per la mente, e fermando il passo ad ogni lontano pericolo d' inconvenienti minimi; il che non facevano già i santi, nè farà mai cose grandi per la gloria del Signore colui che si obbligasse a questo; ma andrà sempre impacciato e dibattendosi tra le tele di ragno; non acquisterà mai la perfezione, che domanda un cuore largo, delicato solo quando si trattasse d' offesa contro i precetti o i comandamenti del Signore. Quinto mezzo . Una delle più potenti maniere di prendere coraggio è quella di persuadersi che la buona riuscita delle opere nostre non dipende da noi, ma da Dio, e quindi d' acquistare una grande, infinita confidenza in Dio, che opera in noi, quando noi operiamo per ubbidienza o per carità; ed allora egli cava la sua gloria anche dalla nostra debolezza, da' nostri errori, dalle nostre stesse mancanze. Sesto mezzo . Come conviene evitare l' asprezza, e ciò che veramente offende la carità, così conviene evitare la falsa mansuetudine , che è quella che non vuol mai venire a battaglia con nessuno, e vuole evitare tutti gli urti; quando all' incontro senza sostener battaglie e far testa al male, specialmente uno che dovesse essere Superiore, non riuscirà mai a procacciar molto gl' interessi della divina gloria e migliorar sè e gli altri. All' incontro l' uomo che per amor di Dio ha fatte delle battaglie, non può mancare d' acquistar ben presto il coraggio e il polso forte che gli è necessario. Settimo mezzo . Non credere che il sentimento del timore che coglie improvviso, debba subito scomparire, e non avvilirsi se ritorna dopo i più bei proponimenti e la speranza d' averlo vinto del tutto: perchè quel sentimento non si può scacciare se non con lungo tempo, ma si può operare come se non ci fosse, senza lasciarlo influire nelle nostre azioni, nelle quali dobbiamo dirigerci colla ragione e col calcolo, e non con altro. Questo deve cautelarci contro l' avvilimento, che potrebbe sopravvenire, quando si vedesse ritornare quel senso di timore che si credeva vinto; o si pretendesse di far più di quel che si può in un momento. Ottavo mezzo . L' orazione, e specialmente l' uso dei salmi, che ispirano tanti affetti di fiducia e d' aspettazione di cose grandi dalla bontà divina che ci ha in cura. - Con questi mezzi e colla costante volontà di proceder avanti con buon ordine, ci riuscirete. [...OMISSIS...] 1.51 Avreste fatto bene ad avvisarmi prima d' ora delle tentazioni e delle battaglie che vi dà il nemico dell' anima vostra. Iddio ne ha preavvertiti tutti quelli che egli chiama al suo più stretto servizio con queste parole: « Fili, accedens ad servitutem Dei, sta in iustitia et timore, et praepara animam tuam ad tentationem (Eccli., II, 1), » dove ci comanda di stare nella giustizia e nel timore dell' umiltà, e di apparecchiarci , certo colla buona volontà e coll' orazione. Nello stesso tempo ci ha confortati e assicurati, se noi così facciamo, del suo aiuto, ed anzi si trova scritto: « Beatus vir, qui suffert tentationem: quoniam cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae, quam repromisit Deus diligentibus se (Iac. I, 12) ». Indarno taluno vorrebbe darsi alla sequela più intima di GESU` Cristo, pretendendo di non dover essere tentato e provato in varie guise; ma colui che fu chiamato a questa felice sequela è obbligato a respingere tali tentazioni colle dette armi della fede, dell' umiltà e dell' orazione; e quando lo fa, è beato , come Dio stesso ha detto per la bocca di san Giacomo, perchè diventa un servo di Dio provato . All' incontro, chi non lo fa, mette in grave pericolo l' anima propria, tanto se, cedendo alla tentazione, cade in peccato, quanto se, col pretesto di non poter resistere alla tentazione, pretesto ingiurioso a Dio, abbandona lo stato di perfezione; giacchè questo abbandono fatto con tanta viltà è una gravissima ingiuria a Dio vocante, della quale Dio solo è giudice e punitore. Ora voi, mio carissimo figlio, siete stato chiamato e già entrato ne' debiti modi nello stato della perfezione, e vi siete obbligato in esso in perpetuo e irrevocabilmente, da parte vostra , col vincolo sacro dei voti perpetui, dai quali non v' è più lecito di sciogliervi. Nè vi verrebbe a salvezza dell' anima l' esser dimesso dall' Istituto; chè i Superiori non possono dimettere alcuno se non allorquando la sua condotta lo rendesse dannoso al corpo de' suoi fratelli; onde questa stessa dimissione ricade a colpa di colui che viene dimesso, e con essa non si migliora già la sua condizione davanti a Dio, qualunque cosa appaia davanti agli occhi degli uomini. Io giudico dunque che voi non solo siete obbligato gravemente a respingere il pensiero di abbandonare l' Istituto, nel quale Iddio, per sua misericordia, v' ha fatto la grazia d' entrare; ma di più siete obbligato di mantenere la sacra promessa, che avete fatta a Dio medesimo in presenza della corte celeste, e a compiere la beata oblazione di tutto voi stesso, vivendo e morendo santamente in questo Istituto. Dovete dunque riconoscere nei pensieri che vi vengono la voce del maligno serpente, che v' insidia l' eterna salute, e vuol perdere l' anima vostra; e dovete respingere questa voce seduttrice, non essendo già connivente coi detti pensieri, nè coltivandoli, nè fiaccamente contenendovi quando vi assalgono; ma subito dovete discacciarli, e rivolgere il pensiero a cose più degne, e aprirlo ai dettami dello Spirito Santo, spirito di purità e di santità, castigando anche voi stesso, e stringendovi a Dio colle più fervorose orazioni, fino che sia passata e pienamente vinta l' infernal tentazione. Sotto specie di bene questa v' inganna facendovi credere che vi sarebbe più facile salvarvi in un altro stato: quasicchè per chi ha fede in Dio e conosce chi è Dio, l' abbandonare il posto, nel quale egli ci ha messi, non sia un buttarci all' inferno. Anche lo spaventarvi della perfezione che propose Gesù Cristo ai suoi eletti, e che tale quale l' ha egli insegnata, è proposta nell' Istituto, è un diabolico artificio che si fonda nella mancanza di fede; onde avviene che si crede poco all' efficacia degli aiuti che ci dà lo stesso GESU` Cristo che ci ha data la legge di perfezione, e si ha la stoltezza riprovevole di non volerli adoperare, e nello stesso tempo par che si creda che quella perfezione si consegua colle forze umane, delle quali, sentendosi poi deboli, si dispera. Ma chi ha fede e piena confidenza in Dio, ancorchè si senta debole, è fortissimo, ed il suo coraggio va crescendo ogni giorno di mano in mano che Iddio gli si rivela, e gli fa conoscere e sentire la sua potenza e misericordia. Lungi dunque da noi tanta bassezza, miseria e perversità da prender consiglio da quello che ben conosciamo, se pur non vogliamo ingannarci, essere lo spirito delle tenebre e della menzogna, e però essere il nemico più arrabbiato della perfezione evangelica; onde co' suoi mortiferi argomenti vorrebbe condurci al termine da essere scacciati dal paradiso della virtù evangelica, cioè dalla Religione. Al fine di vincerlo e svergognarlo, facendolo dare indietro, ecco le armi: Non ascoltare i suoi seducenti discorsi; e però ribattere subito , al primo sentore, tutti i pensieri i quali tendessero a farci perdere l' amore e la stima della nostra santa vocazione e dello spirito di consacrazione in questo Istituto; rinnovando spesso al Signore di voler vivere e morire in esso, con azioni molte di grazia a lui, che per pura misericordia vi ci ha condotto. Dar opera diligente ad arricchire la mente di santi pensieri, l' anima di santi affetti e la volontà di frequenti propositi di avanzare in ogni maniera di virtù, ma sopra tutto nell' umiltà , nella sofferenza e nella carità . Dedicarsi all' orazione come alla prima e alla più importante nostra occupazione, e fare tutto quello che si può da noi, per riscaldare in essa il nostro cuore e acquistare un gran zelo della maggior gloria di Dio, e di poter farlo conoscere agli uomini; sopratutto è necessario l' abito di frequenti e quasi continue giaculatorie. Amare gli uffici umili , come cosa grata al Signore, e riprendere in noi ogni movimento di superbia, di vanagloria e simile, dandosi alla perfetta ubbidienza , e godendo di questa come di cosa che piace a Dio e che ci ottiene indubitatamente le grazie più preziose per l' anima, facendo di conseguente grande stima di un' osservanza la più esatta che sia possibile. Evitare ogni parola oziosa coi compagni, e in quella vece servirsi della lingua per edificarli e santificarli, giacchè la santità che noi procacciamo in questo modo ad essi ritorna sopra di noi; e cooperare in ogni modo al progresso spirituale de' proprii compagni. Non avvilirsi mai, anche se ci occorresse di cadere, o di non fare quel profitto che speravamo; perchè la nostra emendazione viene a gradi per lo più, qualora Iddio non faccia qualche cosa di straordinario. Ecco dunque quello che dovete fare, mio carissimo fratello: spero che lo farete, e sarete consolato, ed io godrò della vostra consolazione. 1.51 L' incomodo d' un occhio che m' impedisce di leggere e di scrivere, unito alle occupazioni, fu cagione, che io differissi finora a riscontrare la pregiatissima sua lettera, e mi obbliga al presente di usare della mano di una fidata persona per istendere la presente. Del resto quest' incomodo non è gran cosa, ma una piccola croce che mi dà il Signore troppo inferiore a' miei meriti. Comprendo a pieno, mia pregiatissima Signora Baronessa, tutto ciò che deve soffrire il suo spirito allo spettacolo delle cose di questo mondo: nello stesso tempo conosco quanto sia immobile, inalterabile, infinito quel bene che si trova nella nostra Religione santissima, e come questo bene ci compensi di tutti gl' incomodi e le noie e i travagli, che ci vengono dalle cose terrene e corruttibili di cui siamo composti e in mezzo alle quali viviamo, e come noi stessi possiamo e dobbiamo partecipare dell' immutabilità di quel bene. Poichè anche l' anima nostra acquista una certa sostanza ed immutabilità, e quindi una pace stabile, quando si congiunge alle cose immutabili. Iddio sia il luogo della nostra perpetua abitazione; così tutte le cose che cangiano, rimarranno al di sotto del luogo dell' anima nostra. Io so, mia veneratissima Signora, che questi sono i suoi conforti, come sono i miei. Da molto tempo non ho da Roma nuova alcuna, spero nondimeno che lo stato delle cose pubbliche colà si vada migliorando. 1.51 Ecco finalmente la lettera che m' aspettava dal mio caro Setti. La lessi con vera consolazione: specialmente mi consolò il vedere, che la prova che aveste a sostenere, v' abbia persuaso che chi confida nel Signore non perisce in eterno. Conviene abbandonarsi a lui e temere sempre di noi stessi, ma senza alcuna sorte d' avvilimento: non assicurarsi mai di noi, di Dio sempre, in qualunque condizione ci ritroviamo. D' altra parte è necessario, mio caro, di conservare l' interiore tranquillo e non permettere che vi nasca tumulto, nè pur quando un certo tumulto d' affetti sembra buono e a buon fine diretto; perchè un certo confuso tumulto è spesso un' esaltazione dell' immaginativa sommossa dal demonio che si trasforma in angelo di luce e rende l' uomo inquieto, fisso ne' suoi pensieri, indocile, ostinato, angustiato, esclusivo, e di somiglianti cose ripieno, che sono grandissimi difetti ed impedimenti al compimento dell' opera della nostra salute e perfezione secondo la volontà di Dio. Godo dunque che amiate cotesta solitudine, dove avete trovato il riposo dell' anima, ma in modo però d' essere sempre pronto ad abbandonarla, quando l' ubbidienza ve lo imponesse. A questa condizione l' amore che avete ad essa è buono, utile e a Dio gradito. Ma senza questa condizione sarebbe un' illusione e per certo un inganno dell' inimico che è sottilissimo, prendereste il male per bene, e quella che è vostra propria, per cosa di Dio. Quando amaste cotesto luogo e cotesta vita, che ci fate, con attacco impeditivo dell' ubbidienza, benchè apparentemente per un fine e un intento buono e santo, quell' attacco vi pregiudicherebbe alla vera perfezione dello spirito. E sapete che cosa ne potrebbe avvenire? Che quello che ora appare un così forte attacco , dopo qualche tempo potrebbe non essere più nè pure un affetto , e convertirsi in avversione: nè è già la prima volta, che quelli che dicevano di volere per puro amor di Dio un certo genere di vita che credevano indispensabile per salvarsi l' anima, poi si cangiassero, prendendo sentimenti del tutto opposti, e per la stessa ragione del salvarsi l' anima ne volessero un altro tutto diverso e con un' uguale ostinazione. Onde mettiamo per inconcusso fondamento il principio che non falla e che non inganna di sicuro, quello della semplice ubbidienza. E non è già necessario di occupare la nostra mente di pensieri sull' avvenire, e di domandare a sè stessi che sarebbe di noi in questa o quella ipotesi; chè non ci sono pensieri più vani di questi, nè più atti a turbare la pace interiore e scompigliare l' immaginazione. All' incontro la bella semplicità che s' abbandona a Dio senza pensare all' indomani, ma che adempie alacremente tutti i doveri dell' oggi, ecco la maniera d' andare avanti in « pulchritudine pacis . » Pregate dunque, servite la Chiesa e la casa, edificate il prossimo, acquistate collo studio assiduo e ordinato le cognizioni necessarie per rendervi atto a esercitare i ministeri della predicazione e della confessione, abbiate un grande zelo delle anime del prossimo e un grande amore di fargli del bene in ogni modo, conservate un umore ugualmente lieto ed affabile con quelli con cui trattate, e del resto non pensate più avanti: Iddio ci pensa. Scrivetemi poi a quando a quando, se le cose vi continuano bene, come grandemente spero e prego.

Psicologia Vol.II

641953
Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Imperciocchè, siccome l' anima naturalmente progredisce alle sue operazioni, simigliantemente l' ingegno degli uomini, che si applicano a meditare su di sè stessi, tiene questo naturale andamento e progresso (e lo dimostra la storia della filosofia) di attendere prima ad investigare che cosa sia l' anima, e poscia com' ella si modifichi, che faccia, come lo faccia. Ma corre questa notabilissima differenza tra il progredire dell' anima al suo spontaneo svolgimento nella vita dell' uomo, e il progredire della scienza psicologica per le varie età della vita dell' umano genere, che l' anima, per quantunque si svolga fino agli ultimi atti, non abbandona mai sè medesima, rimanendosi gli atti anche estremi congiunti necessariamente alla radice che li produce; laddove la considerazione e l' attenzione del filosofo, che s' allontana per lungo cammino dal primo argomento, dimentica in fine, per una cotale sua limitazione e stanchezza, la meta onde mosse, la quale è quella stessa a cui dovrebbe pur ritornare. E questa obblivione è il decadere della filosofia, che, abbandonate le essenze delle cose sì avidamente e generosamente cercate al cominciamento, non s' occupa oggimai più che delle loro efficienze e dei loro effetti, i quali, separati dalla loro prima e sostanziale cagione, si rimangono fenomeni vani, apparenze inesplicabili. Il qual fatto rende manifesto il perchè, dopo essere stati periodi fiorentissimi di filosofia profonda, nei quali risplendettero a tutta la terra ingegni nobilissimi, ardimentosi, sublimi, rapiti di divino entusiasmo nella contemplazione del vero, varcando i secoli, accada quello che nel primo aspetto parrebbe impossibile ad avvenire; cioè che lo stesso progresso adduca altri periodi di tempo, ove la filosofia, erede di tanti monumenti, di tante antiche verità, appaia nulladimeno al tutto superficiale, materiale, priva della sua vita, senza una favilla di genio che la riscaldi. E in sì tapino aspetto cenciosa e smemorata, orgogliosa non meno, noi la vedemmo nel secolo XVIII andarsene per le nostre contrade. Al quale miserevole termine, benchè più cause insieme concorse la riducessero, tuttavia prima e profonda causa ci pare quella psicologica che noi accennavamo, di cui le altre sono per avventura effetti e cause seconde. Ci pare che ciò non sia stato per manco di naturali ingegni, compartiti da natura ad ogni secolo con equa mano; anzi, che gli ingegni abbondassero ben lo dimostrano i grandi svolgimenti sociali, allora compiuti, e le naturali scienze, le arti e i commerci fiorentissimi; ma sì per la legge di quel mentale progresso che accennavamo, il quale nell' umanità di generazione in generazione trascorre una serie dei pensieri così ordinata, che il primo anello si ferma alla natura delle cose, e gli altri di mano in mano riguardano le operazioni e gli atti delle diverse nature; di maniera che gli ultimi dal primo lontanissimi, occupando intieramente di sè le menti, le distolgono dagli anteriori, e soprattutto allontanano l' attenzione dal primo di tutta la serie generatore; pel quale allontanamento, rotta la catena delle scientifiche verità, trovasi l' umana scienza esser divenuta, nè ben si vede il perchè, superficiale ed ignobile; e il perchè misterioso è questo, appunto, che gli ultimi veri, le estreme conclusioni non hanno valore, nè stabilità, nè ragione, tostochè al principio immobile non si attengono, cioè alla natura ed all' essenza delle cose. E che alla filosofia del secolo precedente mancasse cotesta fermissima base, ella stessa lo confessava con vanto di sua vergogna. Di niuna cosa si gloriavano più quei filosofi che di « non voler entrare a discutere l' essenza delle cose », pronunciando con presuntuosissima ed orgogliosissima modestia che « l' essenza delle cose è inescogitabile ». La qual massima è il vero principio, il fonte di ogni sapere superficiale (1). Ma quel vanissimo periodo di superficialità filosofica, il che viene anche a dire di materialità e di sensismo, siane lode a Dio, è ora passato, o certo si sta in sul passare; e già ciascheduno sente il bisogno di rannodare la infranta catena, e raggiungerne gli anelli saldamente fra loro dagli ultimi sino al primo. Ad aiutare il quale utilissimo e necessarissimo lavoro, noi abbiamo posto, come meglio potemmo, l' ingegno; e però alla parte moderna della Psicologia che ci resta ad esporre, trattante dello sviluppo dell' anima, noi anteponemmo la parte antica dell' essenza, quasi del tutto dimenticata nei trattati comuni, rifacendola però e ristorandola in modo, se non ci fallì il consiglio, che non dovesse offendere il gusto dei nostri contemporanei. Di che qual vantaggio raccolga la scienza e qual perfezione ella ne acquisti, apparirà nel progresso; ora, senza più poniamo sotto gli occhi dei lettori la principale divisione di questa seconda parte, nella quale entriamo, delle psicologiche ricerche che ci siamo proposti. Volendo noi accuratamente descrivere lo sviluppo dell' anima umana e porgerne la dottrina, due questioni ampie del pari e del pari necessarie ci si presentano: Quali atti, potenze, funzioni, abiti, produca di sè l' anima umana. Quali leggi ella segua in questo suo continuo produrre ed operare. Delle quali ricerche, la prima addimanda un ragionare analitico , perchè ella intende a spezzare, quasi direbbesi, l' essenza dell' anima in tutte le sue diverse attività, ove ella si rifonde; la seconda poi esige una via sintetica , perocchè ella vuole adunare sotto certe leggi universali le maniere del diverso operare, in cui l' anima continuamente si espande, riducendo così la moltitudine infinita degli atti suoi alla semplicità delle norme prescritte loro da natura, dalle quali essi mai non deviano. Di che si scorge che tutta la materia che noi abbiamo alle mani, si distribuisce da sè stessa in due sezioni, la prima delle quali, movendo dall' essenza dell' anima, procede alle sue svariatissime operazioni, quando la seconda muove anzi dalle operazioni di lei per ricondurle tutte nella fine a quell' unità medesima di essenza, ond' elle uscirono, ed in cui riposando si giacciono. Poniamo mano alla prima ricerca delle attività dell' anima umana. Noi ci proponiamo in essa non pure di annoverare quasi storicamente coteste attività, ma più ancora di dedurle, di farle scaturire dalla essenza del soggetto, a cui elle appartengono. Laonde il nostro lavoro di nuovo si biparte in due questioni: « qual sia il modo nel quale le diverse attività sono contenute nell' essenza dell' anima, e da lei si distinguono »; e « quali elle sieno, come queste attività si possano enumerare e classificare ». Dissero gli antichi che le potenze dell' anima non si conoscono che pei suoi atti (1). Anzi si levarono alla sentenza più generale, che [...OMISSIS...] : principio dialettico ed ontologico nobilissimo (2). Quindi l' errore da noi notato di quei filosofi che, parlando dell' anima, dalle potenze, siccome da cosa cognita, incominciarono, invece di muovere dall' osservazione degli atti (3). Perchè dunque, ci si dirà, avete voi tolto in prima d' ogni altra cosa a parlare dell' essenza dell' anima? Rispondo esser vero che gli atti vengono alla nostra cognizione prima delle potenze, tuttavia non prima dell' essenza. Perocchè insieme cogli atti si conosce l' essenza, che negli atti indivisa rimane. Che se l' atto e l' essenza si conoscono ad un tempo, nulladimeno queste due notizie tengono fra sè un ordine logico, pel quale l' essenza è prima conosciuta, e in essa e per essa gli atti accidentali. Veramente è una illusione il credere che si possa conoscere l' atto, senza conoscere in qualche modo l' ente di cui egli è atto, cioè senza riferirlo al suo subbietto. Conciossiachè niun atto possiamo noi percepire, nè conoscere se non come una entità, e però, o dobbiamo pigliare lui stesso per un ente, una sostanza, ovvero dobbiamo pensare qualche cosa d' altro, in cui e per cui egli sia: il che altrove abbiamo dichiarato (1). Noi dunque ci giovammo degli atti, in cui esce l' essenza dell' anima, come di occasione ad acquistare il conoscimento di essa essenza; ma di questa, come di primo e naturale fondamento ad ogni altra cognizione psicologica, dovemmo prima di tutto parlare. Il che dimostra vie più il difetto di quei trattati psicologici, che, od omettono al tutto di ragionare, o ragionano assai leggermente dell' essenza dell' anima come di cosa poco importante ed inutile; ovvero anche dichiarano apertamente non sapere che pronunciarne. Ai loro autori manca oltracciò il principio onde dedurre razionalmente le umane potenze e facoltà; laonde essi non possono altro che venirne facendo una cotale enumerazione empirica, arbitraria, casuale, senza deduzione; non possono mostrarne il nesso e l' unità, che loro si deriva dalla comune origine; non giustificarne il numero; non additarne le intime relazioni, senza le quali cose non si dà una scienza dell' anima. Ancora, come potranno cotesti trattatisti risolvere l' apparente contraddizione fra la semplicità dell' anima e la moltitudine di sue potenze ed operazioni? Riesce facile all' opposto il risolverla, ove si sappia che la essenza dell' anima si sta unicamente nell' essere ella primo principio di sue operazioni; e di più, che un principio reale può avere un' unica attività idonea a produrre più effetti. Ma noi sappiamo ancora che un ente, un' entità o più entità, possono inesistere in un altro ente, qualora questo secondo sia di natura spirituale, al contrario di quanto accade nelle reciproche relazioni dei corpi, la cui natura è di essere impenetrabili. Abbiamo trovato questa verità ontologica importantissima, considerando immediatamente il fatto con quella osservazione intellettiva, che sola somministra i primi dati della scienza. Dalla quale poi ce n' è venuta la dottrina dell' individualità, perocchè un principio s' individua in virtù delle relazioni attive, passive, ricettive, che egli mantiene con ciò che ha in sè di straniero, e più generalmente con ciò che è suo termine. I quali veri discoperti, ci condussero a disaminare quali termini e quali entità straniere inesistano nell' anima semplicissima, e la costituiscano in gran parte coll' individuarla; trovate le quali entità ed accuratamente descritte ed annoverate, elle ci spiegano siccome avvenga che l' unica virtù dell' anima riferita ad esse, che sono più, si vada moltiplicando, e così apparendo anch' ella molteplice nei suoi atti ed effetti, senza nulladimeno cessar mai di essere unica in sè stessa, cioè nel principio che ne forma l' essenza. Laonde nella medesima essenza dell' anima rinvenimmo tutti gli elementi, che occasionano e spartono le attività di lei, tutti i germi di sue potenze. Perocchè noi vedemmo che nell' anima umana trovano loro sede permanente queste entità da lei diverse, e a lei in diverse intime relazioni connesse: 1 l' essere ideale , unito a lei per via d' intuizione; 2 l' animalità , a lei copulata per una fondamentale ed immanente percezione. Nell' animalità medesima distinguemmo più elementi: 1 un principio sensitivo , che contiene anch' esso altre entità straniere, a cui egli si lega con sue proprie relazioni; 2 l' esteso corporeo , contenuto nel detto principio colla relazione immanente di sensilità; 3 la materia , ossia una virtù che non agisce immediatamente sul principio sensitivo, ma sull' esteso corporeo, e violentemente lo immuta, onde mediatamente si fa sentire allo stesso principio sensitivo. Ed ecco qui nel seno dell' essenza dell' anima tutte le radici della umana attività; ecco la ragione di tutte le varie potenze e facoltà; le quali per quelle loro radici sono distinte e determinate a dover essere piuttosto queste che quelle, tante, e non una di più, non una di meno. Tale è la deduzione delle potenze umane dalla stessa essenza dell' anima; l' essenza perscrutata a fondo somministra dunque il principio della loro legittima deduzione. Ma qui, prima d' innoltrarci più avanti, posciachè lo sviluppo dell' anima è un cotal movimento che la conduce da uno stato ad un altro, ciò che in essa si giace in potenza uscendo al suo atto, appare dover essere necessario ed utile il chiarire le stesse nozioni di potenza e di atto , e ancor prima quelle di materia e di forma , provvedendo altresì che l' imperfezione del linguaggio filosofico non c' impedisca il passo, siccome sterpo che trova il piè tra via, o non trattenga la mente di chi prende con noi il faticoso e pure ameno viaggio di queste investigazioni, dal tenere la diritta via, senza che, trasviata dagli equivoci, si smarrisca per avventura a destra od a sinistra. La parola atto significa ogni entità; e sotto questo aspetto ella non si può definire, ma si deve supporre conosciuta (1); però non significa l' entità mera, ma con di più la relazione mentale alla potenza . Ora, la mente è condotta a questa distinzione fra atto e potenza dall' esperienza che ella prende delle cose contingenti, colle quali trovasi in comunicazione. Toglie dunque questa distinzione dalle realità finite, che cadono sotto ai sentimenti, la trova nel sentimento stesso, il quale è realità. Di che apparisce che l' uomo non potrebbe mai dedurre a priori cotale distinzione dall' « essere ideale », che egli intuisce per natura senz' altro aiuto; perocchè l' essere ideale, dall' uomo intuìto, fa conoscere l' essere puro , non per sè solo il modo dell' essere, non l' ordine che l' essere interiormente contiene; il quale ordine appartiene del tutto alla realità , che si esperimenta nel sentimento (2). Di qui è che l' ordine interiore dell' essere non si rivela mai tutto all' uomo; perocchè l' uomo, essendo un reale limitato, non comunica se non con una parte della realità, e con essa in modo limitato (3). E questo è ciò che limita essenzialmente la cognizione umana, e che impone al filosofo di proporre le dottrine ontologiche, che meditando raccoglie, colla modestia che si addice all' essere umano, « cioè non pretendendo di descrivere a fondo tutto l' essere e tutto l' ordine dell' essere, ma sapendo e confessando di non abbracciare col suo pensiero più di una particella di quest' ordine immenso, quella che fu data a conoscere alla umana intelligenza ». La quale modestia è religioso dovere di ogni uomo, come uomo; quanto più dell' individuo umano, per quanto si voglia fornito di eccellente intelletto, il quale deve pur credere, se non folleggia, di rimanersi ancora colle sue investigazioni molto al di qua dal segno, a cui può giungere l' intendimento della sua specie? Consapevoli noi adunque di raccogliere quei soli elementi dell' ordine dell' essere, che sono presentati al nostro conoscere in quella limitata porzione di realità , che ci è data quaggiù a percepire e sperimentare, e anche ciò quanto le forze della nostra individuale intelligenza lo consentono; dobbiamo di questi, quasi frammenti di dottrina, comporre quella ontologia imperfetta, che sola all' uomo e a noi particolarmente è conceduta. Ora, la realità comunicataci sta compresa nel sentimento nostro; dove, come dicemmo altrove (1), quasi sopra scena apertale innanzi, può la mente cogliere gli esseri reali; e tutti quelli che su questa scena del sentimento non si rappresentano, ella non può in modo alcuno percepire, nè riconoscere come sieno fatti. Conviene dunque che ci domandiamo: quali sono quelle realtà che si comunicano a noi nella realtà nostra? Già noi trovammo che esse si riducono a tre, le quali sono i corpi, l' anima in quanto è sensitiva in modo corporeo, e la stessa anima nostra in quanto è intellettiva. Ecco le uniche realità a noi percettibili . Oltre di queste tuttavia noi abbiamo ancora l' idealità che è intuibile, ed è il mezzo col quale conosciamo per via di percezione le dette realità . Come dunque tutte le nozioni ontologiche che riguardano l' ordine dell' essere , così medesimamente le nozioni di materia e di forma , di potenza e di atto , noi dobbiamo cavarle dall' esperienza che abbiamo della materia, del sentimento animale e del sentimento intellettivo; le quali realità, essendo tutte finite e contingenti, dar non ci possono che nozioni appartenenti all' ordine dell' essere finito e contingente; che di conseguenza non si adeguano all' essere infinito se non per un cotal modo di analogia, che altrove più chiaramente dichiareremo. Prendiamo ad esaminare le condizioni di quell' ente che si chiama corpo; il che noi faremo accennando e rimettendo pel di più i lettori all' Antropologia , dove ampiamente se ne ragiona. Ma primieramente s' avverta che noi dobbiamo considerare il corpo tale quale a noi immediatamente si rappresenta; perocchè questo solo significa il vocabolo corpo , e non altro. Che se pur vogliamo col raziocinio argomentare che ciò che noi percepiamo supponga qualche altra virtù antecedente o entità, causa del percepito, conviene ricordare che noi abbiamo riserbato a questo immediato principio del corpo, che non cade nella percezione, ma sembra nascondersi quasi giocolatore dietro alla parete, la denominazione di principio corporeo (1). Non dunque da questo essere occulto, ma dal corpo percettibile noi dobbiamo cavare le nozioni ontologiche, che andiamo cercando. Nell' Antropologia fu distinto il sensifero , che è la causa prossima delle sensioni corporee, dal sentito o sensibile, che è il termine esteso e proprio del sentimento. Ma ivi si raccolse sotto la denominazione di sensifero tanto quella virtù, che produce immediatamente il sentito nel sentimento fondamentale, quanto quella virtù che, operando nel sentito fondamentale, lo immuta e così occasiona la sensazione. Dovendo ora noi spingere l' analisi più innanzi, ci è necessario distinguere queste due virtù (che pur si riducono alla stessa attività che opera in due modi, come vedremo) mediante due vocaboli, e però riserbando la denominazione di sensifero alla virtù che soggiace al sentito del sentimento fondamentale, chiameremo forza esterna quella che altera il sentimento fondamentale medesimo, provocandovi la sensazione passeggera. Ora, dichiarata così la maniera di parlare che seguiremo in appresso, diciamo che la percezione del corpo ci somministra tre entità strettamente connesse: 1 un sentito esteso; 2 un' attività, che concorre a produrre immediatamente quell' esteso sentito nell' anima, ossia il sensifero; 3 una forza straniera, che con violenza immuta il sentito esteso. Il concetto di sentito esteso, unito a quello di sensifero, è propriamente il concetto di corporeità , laddove il concetto di agente, che immuta il sentito, è il concetto di materialità . Il sentito esteso si percepisce come una cotal proprietà del sensifero, e con esso forma il nostro proprio corpo; se non che noi non gli imponiamo il vocabolo di corpo, se non quando siamo giunti a conoscere la sua solidità; e non ne conosciamo la solidità, se non aggiungendo all' esperienza soggettiva del sentito esteso i dati dell' esperienza extra7soggettiva , per la quale percepiamo i confini del nostro proprio corpo mediante le sensazioni superficiali (1). Ma in ogni esperienza extra7soggettiva , oltre percepire il nostro corpo, noi percepiamo anche la forza straniera, ossia la materia; perocchè sentiamo un impulso che muta il nostro sentimento corporeo, di maniera che nello stesso luogo dove nasce la nuova sensazione, ivi appunto percepiamo un agente estraneo al nostro sentire, il quale non si fa conoscere per alcun' altra proprietà che per questa virtù d' immutare il nostro sentito. Di più, ben presto ci accorgiamo che il sensifero, immediata causa del sentito in noi, ha la virtù di immutare con violenza qualche altra parte del sensifero, e così qualche altra parte del nostro sentito medesimo; di che concludiamo che il nostro proprio corpo è materiale , ossia che ha la stessa proprietà della forza straniera di operare con violenza. Ma pur questa non parrà una rigorosa dimostrazione della identità della forza straniera e del sensifero, potendo concepirsi nello stesso luogo due entità diverse, il sensifero e la forza straniera, e spettare al primo la produzione del sentito, alla seconda l' immutazione violenta del sensifero; fra le quali entità la sapienza creatrice avesse posto una armonia di operare così ammirabile, da manifestarsi entrambe nel luogo medesimo, simultaneamente, con certe leggi. Perocchè, quantunque il sensifero producendo il sentito si dimostri essere un agente sul principio senziente, che è l' anima, tuttavia la sua azione è grandemente diversa da quella che viene esercitata sull' agente stesso, e lo fa operare sull' anima in modo diverso. Pare adunque che qui intervenga una serie di quattro termini: l' anima , che al suo modo è passiva; il sentito , che è prodotto nell' anima; il sensifero , che lo produce; una forza straniera , che immuta il sensifero, la quale si manifesta ora nel luogo stesso dov' è il sentito e il sensifero, ora in luogo diverso. Dai quali quattro elementi noi certo raccogliamo ogni concetto di corpo e di materia, che abbiano gli uomini. Cerchiamo, adunque, se fra il sensifero e la forza straniera vi sia o no quella identità di sostanza che parrebbe, considerando l' identità del luogo che occupano, e non parrebbe, considerando la diversità dell' effetto. Acciocchè la ricerca proceda con ordine, nè lasci indietro difficoltà atte a intralciare il ragionamento, o turbare l' attenzione di chi con noi ragiona, cominciamo a ben notare la differenza fra l' anima ed il sensifero. Primieramente l' azione dell' anima, movente il proprio corpo, deve essere immediata almeno su qualche parte di esso, perocchè si deve trovare un luogo nel corpo nostro, dove il primo moto venga comunicato. Infatti, supponendo anche che noi moviamo la mano mediante il movimento dei nervi, che per essa si allungano, e che il movimento impresso a questi nervi si comunichi longitudinalmente, conviene in fine ricorrere ad una o più estremità nervose, alle quali da prima il moto sia comunicato dalla stessa anima. In secondo luogo, si consideri che l' azione dell' anima sul corpo non ha per suo termine immediato il sentito , ma il sensifero , ossia la forza che produce il sentito. Poichè il sentito stesso non si cangia, se non cangiandosi, ossia movendosi, la virtù o forza che immediatamente lo produce; giacchè il sentito , essendo passivo, suppone un sensifero che con azione immanente o transeunte lo produca. Ma il sensifero si dà a noi a percepire in tre modi: Quale immediata cagione del sentito, e come tale agisce immediatamente sull' anima, senza alcuna violenza, perchè la violenza è quando l' azione, che si fa sull' anima, è in opposizione all' azione spontanea dell' anima stessa, e nel sentito l' anima concorre anzi con quella prima spontaneità, che abbiamo chiamata istinto vitale (1). Quale ricevente l' azione dell' anima, che lo immuta. Infatti, quando l' anima, a ragion d' esempio, colla fantasia produce a sè stessa un' interna sensione, ossia immagine, allora essa opera sul sensifero e lo modifica in modo che le produca quell' immagine, o che cessando di produrre un' immagine ne produca un' altra; e in tutte quelle azioni, colle quali l' anima produce a sè stessa nuovi sentimenti corporei, o li cangia (il che ella fa col movimento del proprio corpo), l' anima, immutando il sensifero, immuta il sentito dal sensifero immediatamente in essa prodotto (2). Il quale fatto pure accade senza violenza rispetto a ciò che riguarda l' azione immediata dell' anima, perocchè il mutamento, che avviene nel sensifero, lungi d' essere opposto all' azione spontanea dell' anima, è ad essa conforme. Ora che questo sensifero, immutato dalla azione immediata dell' anima, sia identico al primo è manifesto; perocchè egli è quello appunto che produce immediatamente i sentiti dall' anima. O quale ricevente l' impulso d' una forza esterna, che lo immuta con violenza, senza che l' anima da principio vi concorra colla sua spontaneità; la quale, essendo sempre attiva, se non concorre alla azione, già per questo solo le è opposta (3). Ora qui, in questi due ultimi casi, già noi scorgiamo la differenza che passa fra l' anima ed il sensifero , essendo quella attiva, e questo passivo. Vediamo ancora la differenza che passa fra l' anima e la forza straniera; poichè, quantunque tanto l' anima, quanto la forza straniera abbiano virtù d' immutare il sensifero, tuttavia questa è azione violenta , e quella spontanea; il che è quanto dire che l' anima umana nel primo caso ha la coscienza di essere ella che opera; nel secondo ha la coscienza di essere passiva da un agente diverso al tutto da lei. Ora, se si considera che il sensifero, che produce immediatamente il sentito, viene immutato da due agenti, l' uno dei quali è l' anima, e l' altro è una forza totalmente all' anima straniera, s' intende primieramente non essere ripugnante che questa stessa forza straniera abbia un principio spirituale; giacchè anche l' anima è un principio spirituale, e tuttavia ella ha virtù di operare e di mutare il sensifero producente il sentito, senza che a ciò ponga ostacolo l' estensione del sentito, la quale estensione ha di natura sua l' esistere nel semplice (1). Ma dell' operare dell' anima noi conosciamo non solo il termine che vediamo esteso, ma ancora il principio che riconosciamo semplice; laddove noi non conosciamo la forza straniera che nel suo termine, e non ne percepiamo il principio, conciossiachè non la percepiamo che nel sentito , il quale rimane da lei mutato. Percependo adunque questa forza nel suo effetto, che è l' immutazione del sensifero, causa immediata del sentito, non possiamo determinare la natura del suo principio stando alla sola percezione che noi ne abbiamo; cioè non possiamo affermare che ella sia spirituale, ma possiamo bensì affermare che non ripugna che sia. Lasciando dunque da parte per ora la questione: « che cosa sia in sè stesso il principio di questa forza immutante il sensifero, causa immediata del sentito », passiamo all' altra: « se si possa provare l' identità di questa forza straniera colla forza immediatamente sensifera ». Noi abbiamo osservato che ciò che è immediatamente sensifero, in quanto egli è tale e non in quello che può essere in sè stesso, presenta l' estensione commisurata perfettamente a quella del sentito, che produce nell' anima (2); il che di nuovo prova che il sensifero, come precisamente tale, non è l' anima, la quale è semplice. Ora lo stesso argomento prova altresì che anche la forza esterna, che immuta ciò che è immediatamente sensifero, deve avere l' estensione ed una estensione medesima, anzi identica a quella del sensifero immediato; ancora prova che neppure la forza esterna, in quanto è precisamente tale, è spirito. Ma l' identità dell' estensione non è propriamente l' identità della forza, poichè la identità della forza non si può desumere che dall' identità dell' effetto; e qui l' effetto è diverso, poichè l' effetto del sensifero immediato è quello di produrre il sentito, laddove l' effetto della forza esterna è quello di mutare il sensifero. Converrebbe dunque giungere a dimostrare che anche la forza esterna ha virtù di produrre immediatamente il sentito, ed allora solo si sarebbe trovata la dimostrazione della cercata identità. Ma per questa via non si va molto innanzi. Vero è bensì che, se una parte del mio proprio corpo agisce sopra un' altra parte, sorge una sensazione in un modo del tutto simile a quella che sarebbe prodotta da un corpo esterno, ossia dalla forza straniera. Chiamo mio proprio corpo, come è chiaro, quello dove sento, dove è continuamente prodotto un sentito (fondamentale). Dunque nello stesso luogo dov' è il sentito, vi è una forza che produce lo stesso effetto della forza esterna, cioè che immuta ciò che è immediatamente sensifero. Possiamo dunque intanto raccogliere che questa forza è della stessa natura della forza esterna, giacchè abbiamo detto che la natura identica di tali forze si desume dall' identità degli effetti. Un altro effetto identico si trova ancora in queste due forze, ed è che tanto il mio corpo, quanto il corpo esterno, producono effetti eguali sopra un terzo corpo esterno. Ma circa l' identità del sensifero e di questa forza straniera e violenta rimane sempre il dubbio, che dicevamo prima, non forse nello stesso luogo dov' è il sentito vi fossero contemporaneamente due forze diverse, l' una sensifera, l' altra immutante il sensifero, e che questa seconda fosse identica alla forza esterna, e non la prima. Conviene dunque prendere un' altra via a dimostrare che è identica la forza sensifera e la forza immutante il sensifero; non provando tutto ciò se non l' identità dello spazio che occupano, e la inesistenza della stessa forza straniera nel sentito. Andiamone in cerca. Tutta l' azione dell' anima sensitiva ha per suo principio formale il sentito; comincia dunque nel sentito; quella stessa spontaneità con cui concorre a sentire, è quella che ha virtù d' immutare il sensifero (1). Ritenuto adunque che la sua azione non può eccedere il sensifero, perchè non può eccedere il sentito, a cui quello inerisce come causa prossima o formale, converrà vedere se l' anima possa anche mutare immediatamente la forza straniera od esterna. Perocchè se l' anima coll' immutare il sensifero immuta anche la forza straniera, converrà dire che il sensifero e la forza straniera sono identici, cioè sono attività d' un medesimo subbietto. Ora così appunto avviene; perocchè l' anima non muta mai il proprio sentito, se non per via di movimento prodotto nelle parti del corpo. Ma il movimento è un fenomeno appartenente alla forza straniera. Se dunque l' effetto dell' anima non può eccedere il sensifero, e tuttavia ella immuta la forza straniera, convien dire che la forza straniera e il sensifero sieno identici, ossia appartengano allo stesso subbietto sostanziale. Questa prova è fondata sul principio che, « se l' effetto di un' azione, determinato e limitato ad una entità, apparisce anche in un' altra entità, conviene dire che le due entità sono identiche di sostanza » (1). Un altro argomento, appoggiato allo stesso principio, si trae dal considerare che s' intende bensì come la forza esterna, nella quale non si conosce né sentito, nè sensifero, possa produrre il movimento, che non è che uno spostamento della stessa forza esterna, ma non s' intende poi come ella possa agire sul sensifero, senza supporre che il sensifero formi una stessa sostanza colla forza straniera. Infatti, l' immaginare che la forza straniera produca due azioni così diverse come sono: I spostare un' altra forza esterna (moto); II e immutare il sensifero; sarebbe confondere in uno due concetti di forze affatto diverse, e quindi un mutare il concetto della mera forza straniera, e moltiplicare questa in due forze, le quali si debbono escludere anche pel principio che vieta moltiplicare gli enti senza necessità. Conviene dunque dire che la forza esterna in questi due effetti così diversi operi sopra una stessa sostanza, e però il sensifero e la forza esterna siano identici di natura. Un terzo argomento ci è somministrato dalla vita dei primi elementi, che noi crediamo di aver munita di sufficientissime prove. La quale ammessa, toglie via dalla radice la difficoltà; perocchè non vi è più una forza meramente straniera, ma ogni forza straniera è divenuta sensifera. E questa stessa conseguenza sembra una nuova prova di quella nostra sentenza. Ma supponendo il contrario, supponendo che una parte della materia non sia animata, è ancora argomento, atto a provare l' identità del sensifero e della forza straniera, il fatto dell' animazione che in questa ipotesi la materia bruta riceve; scorgendosi che quella stessa forza straniera, che prima non presentava altri fenomeni che quelli dello spostamento di un' altra porzione di simile forza, diviene ella stessa sensifera. E che sia ella stessa quella che diviene sensifera, si deduce da questo, che quando la forza bruta immuta ed altera il sensifero per mezzo di un certo contatto, ben presto il sentito si distende a lei; e poichè dov' è il sentito, ivi è il sensifero, quindi dove è la forza bruta, appariscono pure i fenomeni del sensifero. E` vero che hoc post hoc, ergo propter hoc , non è valido argomento; ma se si unisce questo argomento al primo, e si considera che la forza bruta diviene così in potere dell' anima, la dimostrazione riesce rigorosa. Un quarto argomento si può trarre dalla natura del contatto . Se due forze estese fossero semplicemente di posizione contigue, non si potrebbe ancor dire esservi fra esse contatto. Il concetto del contatto suppone un' azione reciproca delle due forze, la quale, trattandosi di forze brute, si manifesta col fenomeno della coesione. Ma se si applica una forza bruta ad un nervo, l' effetto di questa coesione, od anche impulso, è la sensazione . Sia pure che la sensazione nasca per un movimento intestino dell' organo sensorio, ma questo movimento non potrebbe nascere, se il movimento della forza bruta non fosse passato nel sensifero, il quale così produce l' alterazione nel sentito. Se dunque il sensifero comunica colla forza bruta per via di moto, e ne riceve l' azione, uopo è che sia anch' egli un esteso capace di moto e di impulsione; al che si riduce appunto il concetto della forza bruta, ossia straniera. Questi argomenti provano l' identità di sostanza fra la forza straniera (materia) e il sensifero, il quale ha concetto di corpo animato, laddove la forza bruta non presenta che il concetto di corpo inanimato. Ora qui, dopo aver veduto il rapporto d' identità che ha quello che è immediatamente sensifero, con quello che da prima si presenta alla nostra esperienza come pura forza straniera o bruta, vediamo come tanto il sensifero , quanto la forza bruta , siano, quasi direi, vestiti del sentito; sicchè il sentito si mescoli col sensifero, e se ne abbia il concetto di corpo, e colla forza bruta, e se ne abbia il concetto di materia . Quanto al sensifero, è manifesto come egli debba apparire vestito di sensazione, dappoichè, essendo il sensifero l' immediata e prossima cagione del sentito, egli è presente dovunque v' è il sentito medesimo, e da lui indiviso e termine dell' atto dell' agente che lo produce. Ma riesce alquanto più difficile intendere come questa unione intima ed individua nasca fra il sentito e la forza straniera o bruta; il qual nesso non è mai considerato abbastanza. Primieramente questo avviene perchè l' anima, immutando il sensifero, lo immuta là appunto dov' egli è, cioè nello stesso luogo che tiene il sentito (1). Questa identità di luogo fa sì che il sensifero appaia necessariamente vestito dell' estensione stessa, e delle qualità del sentito. Ora, alla forza straniera e bruta, che produce le sensazioni, s' unisce individualmente il sentito per una ragione simile, e di esso si veste. Perocchè, quando l' immutazione del sentito viene da un principio straniero all' anima, allora questa forza non si sente che dov' è il sentito, che ella immuta. Quindi è pel luogo stesso, in cui ella agisce, che il sentito si unisce a lei; ed ecco la cagione, per la quale noi attribuiamo alla materia esterna il colore, il sapore, il gusto e tutte le qualità seconde, che a dir vero sono nostre proprie sensazioni, o per dir meglio, sono il nostro sentito. Ma in questo sentito, manifestandosi la forza straniera, del sentito e di lei facciamo una cosa, poichè percepiamo le due entità coll' atto stesso e nell' identica estensione. Quando poi i corpi esteriori cessano dall' agire sui nostri corpi, noi non li possiamo immaginare se non a quel modo nel quale ci comparvero nell' atto del percepirli; perocchè la percezione di essi è l' unica nostra maniera originale ed immediata di conoscerli. Quindi ad essi, anche separati dai nostri sensi, diamo le qualità sensibili, delle quali noi li abbiamo investiti nell' atto della percezione; poichè la memoria di essi non è che la memoria della percezione. Quando i corpi esterni sono già staccati e separati dal nostro sentito, non più nell' atto di agire in esso, noi allora li consideriamo come agenti in potenza . Ora, come li immaginiamo noi separati? Che cosa vuol dire separati dal nostro sentito? Vuol dire esistenti in altro luogo diverso da quello in cui esiste il nostro sentito; il che accade per cagione del movimento, come abbiamo dichiarato nell' Ideologia e nell' Antropologia. E tuttavia, quantunque noi li pensiamo esistenti non più nel luogo del sentito , ma in altro spazio, immaginiamo però che abbiano portato seco il nostro medesimo sentito, per la ragione detta, che nel primo percepirli occupavano lo stesso luogo del sentito, e ne abbiamo percepita la forza insieme con questo, con un atto solo di percezione. Ma perocchè il considerarli in potenza ad agire su di noi, e il considerarli vestiti e accompagnati dal sentito è cosa contradittoria, perciò i filosofi col ragionamento spogliano giustamente i corpi7materiali delle qualità sensibili in atto, e non le lasciano loro che in potenza; concepiscono cioè i corpi come agenti, atti a modificare il nostro sentimento in modo da produrre le sensazioni, ma non già aventi seco il colore giallo o verde, il sapore agro o dolce, il suono acuto o grave, ecc.. E tuttavia è difficilissimo a fare questa separazione colla mente nostra; perocchè la potenza non è determinata e conosciuta se non dall' atto che essa produce, onde è necessario che noi riferiamo sempre la potenza materiale alla sensazione, ossia al sentito, se vogliamo pure formarcene un concetto determinato; riferir poi la potenza di modificare il sentito al sentito medesimo non possiamo, se non pensando la potenza congiunta a questo nell' atto di modificarlo, e però in quel modo stesso nel quale noi l' abbiamo da principio percepita e conosciuta come tale; il qual modo importa che la potenza sia in atto, unita individualmente al sentito per l' identità del luogo. Quindi ci tornano sempre i corpi a riuscire colorati, sonori, saporosi e delle altre maniere di sentito rivestiti od accompagnati, anche quando noi ce li immaginiamo chiusi in un armadio, dove non entra raggio di luce, né da essi può venire a noi alcuna sensazione; e il filosofo stesso difficilmente si libera da una cotale immaginazione. Ma in appresso, facendoci la riflessione conoscere che queste qualità non possono essere annesse ai corpi separati dal nostro sentito, si ritorna colla ragione a concepirli da esso divisi, e così l' uomo si forma finalmente il concetto d' una materia7bruta, inanimata, priva di sentito (1). Nè basta; il sentito è opposto al senziente, ma si trova nel senziente, altrimenti non sarebbe sentito. Ma la forza corporea esterna che modifica il sentito, quando è separata da questo, è meramente in potenza d' agire, non è nè sentito, nè senziente; ella rimane dunque una mera potenza . Quindi se si osserva attentamente il ragionare degli uomini intorno ai corpi, facilmente si scorge che essi usano alternativamente di due concetti di essi, senza accorgersene; talora parlano della materia come di cosa inanimata, a cui non danno punto di ciò che appartiene a sensazione; altre volte attribuiscono al corpo sensibili qualità, come fosse sentito in atto, senza pensare che il sentito è nel senziente, e che se si dà ad un ente il sentito, forza è dargli ancora un principio senziente. Ma la mera potenza è un concetto, che non racchiude alcuna relazione se non all' atto o effetto che ella produce, relazione esterna a lei; dunque la potenza da sè sola non racchiude l' atto del proprio sussistere . Ora niuna cosa si può concepire dall' intelletto, se non si concepisce l' atto pel quale ella sussiste, pel principio di cognizione . Dovendo dunque l' intendimento concepire una potenza di modificare il sentito, e non potendo egli dare a questa potenza nè l' atto onde sussiste il sentito, perchè separata da questo, nè l' atto onde sussiste il senziente, perchè aliena affatto dall' attività senziente; trovasi obbligato di supporre nella potenza di modificare il sentito un atto suo proprio, altrimenti non la potrebbe concepire. Ma questo atto non si conosce punto, nè egli è termine di alcuna percezione, altrimenti non si avrebbe più il concetto della potenza, ma d' un atto; dunque l' atto è meramente supposto in virtù della legge dello stesso intelletto; nè questa supposizione è tuttavia senza ragione o meramente soggettiva; anzi si fa per logica necessità, cioè pel principio di cognizione , come dicevamo (1); pure quell' atto di sussistere rimane una cosa del tutto incognita, di cui non si sa altro che l' esistenza. Ebbene, questo atto così concepito per via di supposizione, è la sostanza materiale , la cui esistenza riesce certa per logica necessità, ma la sua natura rimane occulta. Tuttavia l' uomo determina questo occulto da lui scoperto, in modo da non poterlo confondere con altra entità, mediante la sua relazione; perocchè egli sa che una tale sostanza, o atto di sussistenza, è il soggetto di quella potenza che immuta il sentito come sensifero, e che immuta il sensifero come forza straniera; essendo il sensifero e la forza straniera potenze, che convengono nella medesima sostanza, come fu dimostrato. Il principio di sostanza può prendere anche questa enunciazione, più comoda al nostro presente ragionamento: « Un atto, che passa in un ente, non può essere concepito senza un altro atto fisicamente anteriore che non passa; e questo atto che non passa è la sostanza, per la quale esiste l' atto che passa ». L' atto, che non passa in un ente, chiamasi anche atto primo, ed è l' atto per cui tutto l' ente (l' essenza piena) sussiste. L' atto che passa dicesi atto secondo. Come conosciamo l' atto che passa? Percependo l' effetto che egli produce in noi, il quale effetto ci si presenta come passivo. Così il sentito, che esperimentiamo in noi stessi, è una passività nostra, un modo nostro che ci viene imposto, il quale suppone l' atto che ci produce quella passività, o che c' impone quel modo; e tale atto è il sensifero. Ma il sensifero, come tale, esprimendo un atto che passa, ed essendo pure un atto che passa quello della forza straniera che immuta il sensifero, e quello che immuta la forza straniera, tutti questi tre atti non si possono concepire se non supponendo un atto primo, che è la sostanza; i ragionamenti poi, che prima abbiamo fatto, dimostrano che tutti e tre quegli atti appartengono ad una medesima sostanza; la quale è la sostanza dei corpi. Solamente qui conviene avvertire, che non si deve già credere che la mente passi dal sentito al sensifero, dal sensifero alla forza straniera, da questa ad un' altra forza straniera, e finalmente a trovare la sostanza per via di raziocinio; no, anzi con un solo atto semplicissimo, quale è la percezione , ella abbraccia contemporaneamente tutti questi termini, e comincia a conoscerli ed a conoscere il corpo, solo quando li ha abbracciati tutti e non prima, siccome abbiamo dichiarato nel Nuovo Saggio , ed altrove (1). La sostanza materiale, ossia l' atto primo, è adunque un quid incognito, di cui non si conoscono che gli atti secondi (il sentito, il sensifero, e la forza straniera). Ma l' atto primo, l' ente materiale supposto a tutta ragione dalla mente, non essendo per noi determinato che dai suoi atti secondi, noi lo pensiamo individualmente con questi unito. E poichè l' effetto di questi atti secondi sono i sentiti, il cui modo è l' estensione, perciò noi uniamo individualmente questi effetti, benchè prodotti in un altro ente, cioè nel senziente ossia anima, agli atti secondi, e quindi anche alla sostanza materiale; la quale ci riesce così estesa e fornita di tutte le qualità sensibili. Ma qui è da considerarsi bene la differenza fra l' estensione e le sensazioni . Noi abbiamo definita l' estensione « « il modo del sentimento corporeo »(1) »; tale infatti ce la presenta l' osservazione, che ne coglie il concetto alla sua origine, « « giacchè la vera natura degli oggetti del nostro pensiero non si rileva, se non risalendo alla prima origine della formazione dei loro concetti » ». Quindi anche l' estensione misurata appartiene al sentimento, e da questo non si divide che per astrazione. Come dunque l' abbiamo noi posta fra le qualità primarie del corpo, cioè fra quelle che ce ne somministrano l' essenziale concetto? (2). E` da confessare che se noi spogliassimo il concetto di corpo da ogni sentito, noi con questo stesso lo spoglieremmo anche della sua estensione; perocchè la sua estensione non si pensa che come il modo del sentito, e però come sentita. Ma in tal caso ci svanirebbe affatto di mano il concetto di corpo e di materia, quale tutti gli uomini lo si formano ed esprimono con quei vocaboli. Noi all' incontro ci proponemmo sempre « di parlare delle cose, quali l' uomo le percepisce e le esprime »; giacchè, dovendo usare i vocaboli comuni, e quelli esprimendo le cose concepite dal senso comune degli uomini, che si fonda sulla percezione, qualora noi volessimo adoperare quei vocaboli a significare altro, ne falseremmo il significato, e introdurremmo equivoci senza fine, e questioni in cui non ci sarebbe più possibilità d' intenderci. Quindi noi già definimmo il corpo « « la causa prossima delle sensazioni e il subbietto delle qualità sensibili »(3) ». Secondo questa definizione il corpo è il sensifero, identico, come abbiamo veduto, alla forza straniera. Ora al sensifero, come causa prossima delle nostre sensazioni, benchè si spogli delle qualità sensibili, forza è attribuire la estensione; perocchè noi lo consideriamo per tutto là, dove è il sentito; ma il sentito è esteso, dunque la sua causa prossima deve essere « una virtù che, quanto al suo atto, si diffonde nella estensione medesima del sentito, essendo l' attivo dov' è il passivo ». Questa è la dimostrazione da noi data dell' estensione del corpo (4). Si opporrà che il sensifero, non essendo proprio la sostanza, ma un atto della sostanza, che si conosce a cagione del suo termine, e corpo essendo un nome sostantivo, cioè esprimente sostanza, non si può attribuire al corpo (sostanza) quell' attributo che appartiene al termine della sua azione sensifera. A cui noi rispondiamo, che noi pigliamo il sensifero come sostanza, pel bisogno che abbiamo di far ciò volendolo concepire; il che non ci autorizza ad aggiungere, nè a togliere nulla al sensifero. L' aggiunta non è, non deve essere se non puramente il mezzo di conoscere, deve essere puramente quanto a noi basta per arrivare a percepire intellettivamente il sensifero come ente . Ci rimane dunque il concetto di corpo, quale ce lo dà la percezione e quale viene nominato dalla parola, tutto racchiuso nel sensifero; al quale, come vedemmo, appartiene il concetto di « forza operante nella estensione, e però estesa ». Ma se dopo di ciò noi colla riflessione vogliamo salire più su, troveremo benissimo che l' ente subbietto della virtù sensifera, considerato in sè stesso e non come lo percepiamo, potrebbe essere un ente inesteso; e ciò anzi s' induce al vedere che l' estensione appartiene originariamente al sentito e al senziente, e però all' inesteso (1). Ma in tal caso noi non avremmo già più in mano il concetto di corpo, ma di altra cosa che non percepiamo, e che nominammo principio corporeo . Fin qui abbiamo sufficientemente dichiarato che cosa sia corpo , tale quale la percezione ce lo somministra, come sensifero e come forza straniera. Abbiamo veduto come questa forza, o si manifesti come sensifera o come straniera, si dà a percepire a noi per estesa nel termine della sua operazione; e come è per questa estensione che chiamasi corpo (sensifero), o materia bruta (forza straniera). Abbiamo veduto come questa forza estesa venga rivestita delle qualità sensibili, e propriamente del sentito. Abbiamo veduto finalmente come la meditazione filosofica salga dal corpo ad un principio corporeo , che è la cagione incognita producente il corpo, quale da noi si percepisce. Possiamo dopo di tutto ciò passare a dichiarare come nascano i concetti opposti di forma e di materia , i quali non sono alieni dal senso comune, e di cui i più antichi filosofi, generalizzandoli, fecero sì grande uso nelle loro filosofie. A far questo convenevolmente ci bisogna primieramente osservare in che modo diverso noi vestiamo il corpo (secondo il concetto datoci dalla percezione) di estensione e di sentito . L' estensione misurata, noi abbiamo detto, è il modo del sentito; e questo modo vi è sempre, benchè ne variano i limiti, e quindi la figura e la grandezza; ma lo stesso sentimento varia oltracciò specificamente, varia del tutto, perocchè il colore è cosa specificamente diversa dal sapore, e nella medesima specie di sensazione, per esempio nella sensazione del vedere, il sentito può variare frequentemente, senza che varii il modo dell' estensione (1), giacchè una stessa superficie può presentare successivamente colori e gradazioni diverse all' infinito. Se dunque noi prendiamo l' estensione misurata in genere, questa è cosa invariabile nella sensazione corporea; cioè ogni sensazione corporea ha sempre qualche estensione. La quale costanza dell' estensione, nella variabilità di tutte le altre note o caratteri del sentito, fa sì che noi ravvisiamo nell' estensione qualche cosa di permanente, un esteso permanente. E poichè l' atto onde una cosa sussiste, ossia la sostanza, si considera permanente relativamente agli atti suoi accidentali, quindi noi attribuiamo al corpo l' estensione, come qualità a lui essenziale e precedente a tutte le qualità variabili in esso. Nominando dunque forza, o forza corporea, tanto il sensifero, quanto la forza straniera, che abbiamo dimostrati identici, diremo che « una forza estesa »è ciò che v' è di permanente e di sostanziale nei corpi. Non si dimentichi però mai che, quando diciamo la forza estesa essere la sostanza dei corpi, la mente nostra ci suppone l' atto primo necessario alla sussistenza della « detta forza estesa », e l' immedesima colla forza estesa, perchè altro ella non vuole che percepire questa forza estesa, e non cercare ciò che esser vi possa oltre di essa. Quindi il principio corporeo non è la sostanza corporea, di cui tutti gli uomini parlano pronunciando il nome sostantivo corpo , ma è un principio incognito al di là di questa sostanza. Conviene adunque qui, prima d' inoltrarci, considerare attentamente in che modo l' uomo si formi il concetto delle varie sostanze, che egli percepisce. Essendo la percezione un' azione, che viene esercitata in noi esseri suscettivi di riceverla, cioè di sentirla e d' intenderla, questa azione in noi è la prima cosa che conosciamo dell' agente, e perciò in quella ci fermiamo colla mente, perchè anteriormente ad essa nulla percepiamo; quindi l' azione percepita diviene base, atto primo, della sostanza che pensiamo; il che è quanto dire, noi erigiamo quell' azione in un ente, supponendovi il mero atto del sussistere, che è la sostanza; il quale atto certamente non manca, perchè di fatto quell' azione sussiste. L' azione prima adunque, l' azione percepita nel senso e pensata come sussistente, tale è il concetto umano delle sostanze (1); e questo concetto è vero, benchè limitato, non ascendendosi con esso all' atto assolutamente primo, il quale è a noi impercettibile, ma solo all' atto primo relativamente a noi, che è quello che percepiamo, il quale indubitatamente sussiste, e come a tale poniamo un nome sostantivo. Ciò che percepiamo, in una parola, è l' agente in atto, e questo atto può essere atto secondo rispetto all' agente in potenza, ma rispetto a noi è primo, e però è a noi l' agente stesso. La ricerca poi degli atti anteriori alle sostanze percepite appartiene alla Filosofia trascendentale, ossia alla Teosofia. Veniamo al concetto di materia prima . Il sensifero e la forza straniera appariscono a noi vestiti: 1 di estensione limitata; 2 di limiti a questa estensione, ossia di figura; 3 di quelle qualità sensibili, che dicemmo secondarie. Queste qualità sensibili non si percepiscono mai che in una figura; la figura non si percepisce mai che nell' estensione; l' estensione limitata poi ci si presenta siccome indivisibile dal sensifero e dalla forza straniera, in modo che noi non possiamo in alcuna maniera nè percepire, nè pensare il sensifero o la forza straniera senza una qualche estensione, per guisa che nella stessa immediata percezione vi è sempre ed invariabilmente l' estensione; mentre può variare la figura e le altre qualità sensibili. Appartenendo dunque l' estensione limitata (in generale) invariabilmente a ciò che di primo pensiamo e percepiamo, ed essendo l' essenza sostanziale appunto « ciò che di primo pensiamo », noi, come si è detto, dichiariamo il sensifero e la forza estesa un' essenza sostanziale, di cui la figura e le altre qualità sensibili siano accidenti, e quell' essenza sostanziale la chiamiamo corpo. Ma quantunque questi accidenti sieno variabili, alcuni di essi accompagnano sempre il corpo. Ond' è che l' essenza sostanziale del corpo non esiste mai sola; e acciocchè possiamo pensarla da sè, dobbiamo farla divenire un oggetto di nostra mente, dal quale separiamo tali accidenti. L' essenza sostanziale del corpo non è adunque separata che nell' idea nostra, è un astratto che non può essere realizzato se non a condizione d' essere vestito di certi accidenti. Quindi si dice che « l' essenza sostanziale del corpo ha in potenza i suoi accidenti »; il che è quanto dire che « una tale idea, quando viene realizzata, può e deve essere vestita di accidenti, benchè non debba essere vestita di tutti i possibili, ma solo di alcuni ». Ma se il corpo è « una forza estesa », non si può ben conoscerne la natura, se non si conosce quella dell' estensione. Ora tale è la natura dell' estensione che colla immaginazione si può dividere in parti; onde la forza, che è vestita d' una parte di questa estensione, è al tutto separata dalla forza, che è vestita di un' altra parte contigua alla prima o no; il che vuol dire che le forze corporee non operano punto l' una nell' altra, ma nella propria estensione, senza eccedere un punto da quella. Quindi « l' essenza sostanziale del corpo »ha la proprietà pure essenziale di essere divisibile in parti; di modo che ella non ha per sè unità, poichè il suo principio agente non si vede, non è il corpo, e se esiste, appartiene alla filosofia trascendentale, come dicemmo, ma è anzi l' azione percepita da noi nel suo termine; questo termine adunque, che è l' azione da noi percepita, è essenzialmente divisibile in modo che quell' entità che si mostra attiva in una parte, in una estensione, non è identica di numero (ma solo di qualità) a quella entità, che si mostra attiva in un' altra parte, in un' altra estensione. Ora qui abbiamo tutti i dati, dai quali possiamo raccogliere il concetto di materia prima. Se noi spogliamo la forza corporea di ogni estensione, ella ci si annulla, non operando oggimai più in luogo alcuno (1): ella dunque non può essere la materia prima, perchè la materia prima non è il niente (2). Di poi la materia prima non può essere la mera estensione, perchè questa per sè non si divide; ma si divide solo per immaginazione, laddove la materia è subbietto di reale divisione. In terzo luogo la materia prima, da Dio creata e realmente esistente, non può essere infinita; nuova prova che essa non è l' estensione, la quale si percepisce naturalmente immensurabile e così infinita, come pure si concepisce immobile e non in potenza ad alcuna figura; ed è soltanto la mente che disegna le figure nella pura estensione con dei segni immaginari, i quali non sono l' estensione stessa. In quarto luogo la materia prima non ha confini determinati, perocchè in tal caso avrebbe figura; ma è tuttavia un ente reale concepito dalla mente, astrazione fatta dai suoi confini; ha dunque confini e figure in potenza. In quinto luogo la materia prima ha parti sostanziali e reali in potenza; cioè può essere divisa in parti indefinite, ciascuna delle quali è materia nel concetto eguale, in realtà diversa; e ciò a cagione della qualità estesa, che è il suo modo di essere; il qual modo è in potenza a qualunque dimensione (1), figura, forma e moltiplicità (2). Dal che concludiamo: Che il concetto della materia prima è un concetto astratto, che nondimeno dimostra alla mente un primo elemento dei corpi ancora indeterminato, appartenente alla loro realità, ma che non può sussistere se non aggiungendovi le determinazioni. Dove si noti che l' astrazione fa due uffici: I) fa pensare qualche elemento realizzabile, ma privo delle sue determinazioni ( astrazione tetica ); II) fa pensare altresì un quid non realizzabile, come allorquando separa di quelle cose, le quali non si possono al tutto separare, senza che ciò che rimane sia del tutto inconcepibile, come sarebbe il centro del circolo senza la circonferenza, la forza corporea senza alcuna estensione neppur generica, ecc. ( astrazione ipotetica ). Questa seconda specie di astratti, se vogliamo ridurla ad una formula generale, si può definire così: « astratti, nei quali l' astrazione ha tolto via anche la potenza di ricevere le determinazioni necessarie a divenire reali ». Ora, il concetto della materia prima non si ha coll' uso di questa seconda astrazione, ma della prima. Quindi: La materia prima è una forza estesa, la quale è in potenza: 1) ad avere una quantità determinata di estensione; 2) ad avere una determinata figura; 3) ad essere divisa in parti, ciascuna delle quali ha la sua quantità determinata e la sua figura; 4) ad avere un determinato sensibile. Ancora, la materia prima è la sostanza dei corpi , e in questo senso ha ragione Aristotele attribuendole il nome di sostanza; e le determinazioni della quantità, figura, numerosità quantitativa e sensibilità, sono altrettante condizioni, alle quali ella può avere l' atto del sussistere. Le quali condizioni, insieme prese, costituiscono la forma del corpo. Ora queste determinazioni possono variare, ma ad ogni modo le une o le altre sono necessarie. In quanto sono necessarie, costituiscono la forma sostanziale del corpo unitamente all' atto della sostanza. Cioè l' estensione determinata o quantità, la figura e il sensibile, in quanto terminano e perfezionano l' atto che le fa sussistere, che è l' atto della sostanza materiale dal quale ricevono unità, in tanto si dicono forma sostanziale dei corpi (1). In quanto poi sono variabili, in tanto costituiscono altrettante forme accidentali o accidenti; e come tali, non si considerano nell' unità della sostanza che le fa sussistere, ma separate le une dalle altre coll' astrazione (2). I diversi elementi della natura corporea hanno un ordine fra loro, e l' ordine è questo: 1 vi è la forza, il cui modo essenziale è la quantità estensiva. La forza non si può considerare divisa dalla quantità estensiva se non per via dell' astrazione di secondo genere, cioè ella in tal caso rimane un assurdo, poichè è la forza, e pur le manca l' elemento necessario a costituirla, è la forza in potenza, e la forza in potenza non è la forza da noi concepita, la quale è in atto; 2 la quantità estensiva ha dei confini, i quali le determinano una figura; la figura adunque è nell' estensione, come i limiti sono nel limitato; 3 la figura non si presenta a noi senza qualche sentito, e quantunque coll' astrazione si possa prescindere da ogni sentito, tuttavia non si può prescindere da un sentito in genere; sicchè la figura astratta non è già una figura senza sentito, ma una figura che « si pensa come possibile a sentirsi, senza determinare qual sia questo sentito che racchiude, poichè può racchiuderne separatamente diversi ». Quando dunque si pensa l' astratto della forza, si pensa insieme l' estensione, ma questa si lascia indeterminata; e questo è il concetto di materia prima dei corpi. Quando si pensa l' astratto minore della forza con una estensione o quantità estensiva determinata, si pensa insieme la figura, ma questa si lascia indeterminata; e questa è la materia con una sua dimensione (materia non prima). Quando si pensa l' astratto ancor minore della materia con quantità determinata e con figura, si pensa insieme il sentito, ma si lascia indeterminato qual sia la qualità, o quali sieno le qualità sensibili che vi si appongono. Quando finalmente si pensa la materia con quantità, figura e sentito determinato, allora si pensa il corpo formato, la materia insieme alla forma, la specie piena , l' idea universale, ma non astratta del corpo (1). Il corpo stesso poi reale si percepisce intellettivamente, quando si unisce la percezione sensitiva all' idea che a lei corrisponde, cioè alla specie piena. Ciò che si pensa anteriormente alle sue determinazioni si dice il subbietto delle determinazioni; quindi la materia prima è il primo subbietto di tutte le determinazioni corporee; la quantità estensiva si prende come subbietto dialettico della figura; la figura come subbietto dialettico delle qualità sensibili. Ma si osservi bene che il ragionamento umano percorre due vie opposte, o per meglio dire, percorre la stessa via in due direzioni, va e viene. Quando va, procede per l' ordine naturale e comune, e questa è una direzione analitica dal tutto alle parti; quando ritorna, procede coll' ordine scientifico o dotto, e questa è una direzione sintetica dalle parti al tutto; questo ritorno della mente suppone quella prima andata, la sintesi dotta suppone l' analisi volgare. Quando dalla materia prima si discende fino al corpo reale, dalle parti si ritorna al tutto; lo spirito prima di fare il cammino in questo senso dovette farlo nel senso contrario, dal tutto alle parti; ed in tal processo si cangia l' ordine dei predicati e dei subbietti. Prima dunque si ha il sentito, poscia la sua figura, poscia la sua quantità. Quindi si predica la figura del sentito e la quantità della figura, ossia si dice che la figura è un modo del sentito, la quantità estensiva un modo della figura. Ma la materia, essendo la causa prossima attuale del sentito, non si può predicare; ma di lei si deve predicare tutto ciò che si predica del sentito, che è il termine del suo atto, in cui ella si percepisce; e perciò rimane sempre che della materia si predichi la figura, e la quantità, e il sentito come suo effetto. Onde in ogni direzione in che vada la mente, la materia ha sempre ragione di primo subbietto, ossia di sostanza; non può essere mai predicata, ma solo subbiettata. Dalle cose dette apparisce che la materia è l' atto, nel quale e pel quale esistono i corpi (1), cioè l' atto, pel quale e nel quale sussistono le qualità corporee; è ciò che primo s' intende col pensiero, quando si concepiscono i corpi. Ma poichè questo atto non può essere realizzato nudo e solo da tutte le qualità corporee, che in lui si concepiscono essere potenzialmente, perciò v' è qualche cosa che lo perfeziona, e sono queste qualità corporee determinate, le quali si chiamano forma . Ma poichè alcune sono variabili, perciò in quanto esse sono al tutto necessarie a poter pensare la materia realizzata, esse si chiamano forma sostanziale del corpo, perchè anch' esse concorrono a costituire quell' atto, pel quale il corpo si può concepire come idoneo ad essere realizzato; e in questo senso si dice che la forma è anch' essa sostanza, cioè entra a formare parte della sostanza. In quanto poi queste qualità sono variabili, sicchè ciò che è necessario alla sussistenza d' un corpo rimane indeterminato, perchè basta che delle dette qualità ve ne sia l' una o l' altra, in tanto diconsi forme accidentali . Ma posciachè si possono concepire dei corpi forniti di tutte le qualità sì sostanziali e sì accidentali, a cui nulla manchi acciocchè sieno realizzati, e tuttavia possono essere realizzati con grandezze maggiori e minori, e anche può ripetersi la stessa grandezza un numero qualunque di volte; perciò dicesi che la quantità continua o discreta della materia non è determinata nè dal concetto di materia , nè da quello di forma , ma da quello di realizzazione; la quale dipende dall' arbitrio dell' Autore, che realizza i corpi. La ragione prima adunque, onde tutto ciò che v' è in un corpo si concepisce come sussistente, si è la materia, che perciò riceve per la prima il nome di sostanza e di primo subbietto; quindi essa è anche il subbietto della forma sostanziale, come questa è il subbietto degli accidenti. La realizzazione poi non ha la sua ragione nel corpo, ma nella causa creatrice; e non è subbietto del corpo, ma quella che fa sussistere il subbietto. Ora che abbiamo svolto il concetto di materia prima , e veduto che questa si trova nei corpi, nei quali la perfezione di questa materia e gli ultimi atti di essa si chiamano forma , possiamo dimostrare (avvegnachè ciò risulta anche dalle cose dette nella prima parte) che nell' anima una tale materia non si rinviene. Ma per evitare le questioni di parole, e porgere altresì una chiave per intendere i maggiori filosofi sanamente, gioverà che prima accenniamo come quei filosofi non sempre parlano della materia prima con precisione, nè fissarono accuratamente il suo concetto, come noi abbiamo tentato di fare, adoperando il vocabolo di materia o di materia prima in varie significazioni; onde avvenne che incorsero in apparenti contraddizioni, ed agitarono fra loro caldissime ed inutili questioni. E primieramente quasi tutti confusero la materia prima colla realità sussistente , da cui noi l' abbiamo distinta. Così accadde a Platone, facendo che il quanto sia una dipendenza o conseguenza della materia, laddove il quanto non si trova punto inchiuso nel concetto di materia, ma è posto dalla realizzazione di essa, ed è determinato dall' arbitrio del realizzatore. Così pure accadde ad Aristotele, il quale pose la materia essere il principio dell' individuazione; il qual principio noi dimostrammo doversi anzi porre nella realità sussistente (1), che è sempre pienamente determinata. Come noi abbiamo veduto, se dal concetto di materia leviamo ogni pensiero di estensione in genere, quel concetto non esprime più cosa alcuna; noi allora consideriamo la forza coll' astrazione ipotetica e non più colla tetica. Quindi anche S. Tommaso insegna che, qualora si astragga da ogni estensione, si astrae con ciò stesso da ogni materia. Consideriamo le sue parole: [...OMISSIS...] Noi abbiamo veduto che v' è una materia prima , che è « la forza che opera nell' estensione », la quale è in potenza: 1 all' estensione determinata o quantità, che può essere una o più, e quindi ancora numerizzabile; 2 alla figura; 3 alle qualità sensibili. Che cosa sono le specie matematiche? Sono le figure e i loro termini, la superficie, la linea, il punto. Le specie matematiche non sono adunque la materia prima , ma una materia già ridotta all' atto della quantità e della figura, e però in parte informata; solamente che si prescinde dal considerare le qualità sensibili, alle quali è in potenza; ed appunto perchè è in potenza, si chiama ancora materia . Questa è la materia matematica degli Scolastici. Quando dicono adunque che nel concetto della materia matematica si astrae dalla materia sensibile, tanto individuale, quanto comune, intendono che si astrae dalla potenza alle qualità sensibili, tanto considerate come reali, quanto considerate come ideali. Quando poi dicono che si astrae dalla materia intelligibile individuale , intendono per materia intelligibile individuale la quantità determinata e figura (con ciò che appartiene alla figura) realizzata; ma questo dicono in modo improprio, poichè gli Scolastici stessi già posero che l' individuo non si concepisce dall' intelletto, onde incoerentemente alla propria dottrina ponevano una materia, che fosse intelligibile insieme ed individuale . Ma essi davano il nome d' intelligibile a questa materia, perchè la quantità e la figura, astratta dal sensibile, è puramente oggetto dell' intelletto; non vedendo poi che, come tale, non è mai individuale, se non si fissa arbitrariamente ad un luogo dello spazio. Tuttavia, perchè ciò che è nell' intelletto possiamo riscontrarlo nella realità, non è del tutto vana una tale denominazione. Dicendo poi che il concetto di materia matematica non astrae dalla materia intelligibile7comune, vengono a dire che la quantità e la figura è considerata dai matematici non solo astrattamente dalle qualità sensibili, ma ben anche senza riferirla a un corpo reale, come possibile a realizzarsi. Ora vediamo quel che segue: [...OMISSIS...] . Ed ecco qui come, se si prescinde dalla estensione e da ogni quantità continua, già siamo fuori da ogni materia; il concetto di materia ci svanisce al tutto dalle mani, ed altro non ci rimane che alcuni astratti ultimi, i quali possono essere realizzati nella materia o fuori di essa. Vi è dunque qualche cosa di anteriore alla materia, vi è qualche cosa di atto e di potenza attiva (2). Il concetto dunque della materia non comincia nella nostra mente, se non allora che si pensa ad « una potenza sensifera nell' estensione ». Ma questo concetto non fu ritenuto sempre, come dicevamo. Onde, quando alcuni Scolastici dicono della materia che « talis potentia non est ad operationem, sed ad esse (3) », invece di dire ad formam , allora allargano il concetto della materia in modo che la materia già può appartenere ad ogni creatura, perchè ogni creatura anche spirituale, prima di essere, ha la potenza ad esse , il che equivale a dire: potenza di ricevere la sussistenza. Secondo questo principio inteso letteralmente, la materia si converte nella « cosa possibile », che è l' idea; il che non conviene di fare, poichè si ha idea non meno delle forme che della materia, come abbiamo detto di sopra. Di che alcuni Scolastici fecero che tutte le cose, tanto visibili, quanto invisibili, tanto mobili, quanto immobili, tanto corporee, quanto incorporee, sieno composte di materia e di forma; ma, come assai bene osserva S. Tommaso, questo è un prendere la parola materia in due significazioni, e non nella sua propria e vera significazione (1). Quelli che prendono la materia come sinonimo di « ciò che è in potenza », escludendo dal suo concetto ogni relazione coll' estensione, ne fanno di necessità un ente, da cui è già astratta la stessa materia, e perciò rimane indivisibile, come osserva lo stesso S. Tommaso, il quale scrive: [...OMISSIS...] , dove per quantità conviene intendere non una particolare quantità determinata, ma qualunque sia. I filosofi accennati non si accorsero che il concetto di materia dimostra all' intelletto tal cosa, che ha relazione coll' estensione; e però con una soverchia astrazione, togliendo via questa relazione, distrussero il concetto di materia, non restando loro in mano che il concetto di cosa immateriale ed indivisibile, che precede a quello della materia. Vi furono altri, i quali non abolirono intieramente la relazione coll' estensione, accordando alla materia di poter essere mossa nello spazio; ma le tolsero la facoltà di muovere e la dissero inerte. Ebbero questi ragione? La cagione logica, che condusse costoro a un tal pensiero, si fu che posero la loro attenzione ai fenomeni della mole materiale , la quale si presenta a noi come un mobile, un' entità ben diversa dal sensifero. Ora, essendo la mole materiale talora in moto, talora in quiete, dedussero rettamente che dunque il moto non le è essenziale, che esso non entra nel suo concetto, che la materia riceve il moto da un altro principio attivo da essa diverso. E certo è indubitato che niun corpo muove sè medesimo, onde il principio del moto si deve trovare altrove. Ma i fenomeni extrasoggettivi del moto non sono i primi che ci si presentino nel concetto di corpo; come vedemmo, il primo fenomeno è il sentito, dove abbiamo la percezione intellettiva del sensifero, il concetto del quale è quello di un' attività sull' anima nostra, che si espande nell' estensione del sentito. Questa attività dunque, che produce il sentito, è indubitabile, ed è prima nel concetto del corpo; perciò è quella che costituisce l' essenza conoscibile e nominabile di lui. Ora questa attività medesima è anche il subbietto del moto, il quale moto altro non è se non « la manifestazione del sensifero in un sentito, che occupa una estensione successivamente diversa ». Sotto questo aspetto è dunque vero che il sensifero è passivo, cioè atto a ricevere il moto ed a trasmetterlo, non a darlo. Dove dunque troveremo noi il principio del moto? Primieramente noi lo troviamo nell' anima, la quale muta di luogo il sensifero. Noi intendiamo altresì che fuori dell' anima umana deve esservi qualche altro principio che lo produca; ce lo dimostra il fenomeno dell' attrazione. Noi intendiamo in terzo luogo che questo principio del moto, fuori dell' anima umana, non può essere la mole, nè la forza straniera; perocchè se questa non riceve il moto, non lo può trasmettere ad un' altra forza; ella deve dunque aver ricevuto già in sè stessa il moto, e non produrlo, non esserne il principio. Sarà dunque principio del moto quello che noi abbiamo denominato principio corporeo? Per rispondere a ciò dobbiamo esaminare quale è il concetto di principio corporeo. Noi abbiamo dedotto questo concetto dal vedere che il sentito , come pure la forza sensifera che in esso noi percepiamo, non è che il termine di un' azione, che viene fatta nell' anima nostra, e l' agente è incognito quale è in sè stesso, cioè nel suo principio, non conoscendolo noi che dall' azione viva nel suo termine. Ignorando dunque il principio di questa azione, noi gli abbiamo dato il nome di principio corporeo . Ora secondo questo concetto, noi sappiamo che il principio corporeo è il principio di quell' azione, che chiamammo sensifero , denominandola come un ente pel bisogno di concepirla intellettivamente. Ma questa azione sull' anima non è ancora il moto, la cui natura consiste nello spostare il sensifero. Dunque non possiamo neppure affermare che sia il principio corporeo . Noi non vogliamo qui parlare della facoltà di trasmettere il moto, che costituisce propriamente la forza straniera e la mole; la quale facoltà si deve indubitatamente attribuire al principio corporeo, come a suo subbietto. Ciò che qui cerchiamo unicamente si è il principio del moto. Ora l' opinione che abbiamo esposta nella prima parte, che ogni elemento materiale sia termine di un principio senziente, colloca un principio di moto nella natura; spiega i movimenti naturali dei corpi, senza bisogno di fare intervenire Iddio quasi causa seconda; e concilia la grande questione agitata sempre sull' inerzia e sull' attività della materia. Perocchè alcuni filosofi, ponendo mente al concetto di materia, trovarono ripugnante con essa l' essere causa di moto; e questi, secondo noi, hanno piena ragione; altri, vedendo che tutta la natura si muove, e che non solo ci si presentano i fenomeni dell' urto meccanico dei corpi, ma quelli delle attrazioni, dell' espansione, dell' elasticità, ecc., ripugnanti di ricorrere ad un' azione immediata di Dio per ispiegarli, nè sapendo a quale altra causa appigliarsi, fecero la materia attiva; senza avvedersi che l' attribuirle tale attività cozza col concetto, che di essa ci porge la percezione; e tuttavia avevano ragione in questo, che riconoscevano sparso in tutta la natura un principio di spontaneo moto. Il che conferma l' opinione indicata dell' animazione della materia, come quella che spiega con somma facilità e senza assurdo tutti i fenomeni naturali (1). La ragione per cui il concetto di materia (e neppur quello di forma del corpo) non ci somministra il principio del moto, si è che il concetto di materia e di corpo noi l' abbiamo dalla percezione, e la percezione ci mostra l' atto nel suo termine (il sentito), e non il suo principio. Questo termine (il sentito) è esteso, e quando questa estensione sentita si sposta, allora vi è il moto; ma questo spostamento del termine non è nel termine stesso, perchè il termine si percepisce quando è già costituito, e non prima, perchè prima non è termine, non è sentito. All' incontro l' azione che sposta il termine, trasportandolo da un luogo ad un altro, è un' azione anteriore alla costituzione del termine (al sentito), e quindi non cade sotto la percezione. Ora, se noi consideriamo che il termine (il sentito), da cui solo caviamo il concetto di mole, di corpo, di materia, e anche di forza straniera, perchè è quello solo di cui abbiamo esperienza, è tal cosa cui noi sentiamo nello spirito nostro, nel principio senziente; non possiamo dubitare che lo stesso spirito non concorra insieme col sensifero a produrlo, giacchè il principio senziente riceve l' azione nel modo suo proprio, che è quello di essere principio attivo. Ma in che concorre a ciò il principio senziente? Certo vi concorre in tutto, cioè in entrambi gli elementi, che sono: 1 il sensibile; 2 il suo modo, cioè l' estensione; concorre a produrre il sensibile, perchè dove non è principio senziente, ivi non può essere sentimento; concorre a produrre il suo modo, cioè l' estensione, perocchè l' estensione, ossia il continuo, non può essere che nel semplice. Che cosa dunque può fare il sensifero? Certo non altro se non suscitare lo spirito a produrre il sentito col suo modo, cioè coll' estensione. Ma questo è il concetto trascendente del sensifero, concetto che dimostra il sensifero nel suo principio, nel principio corporeo. Questo dunque giova a spiegare come si genera la materia ed il suo concetto, ma non è il concetto della materia. Vedesi pertanto che la materia, quale ci viene data dalla percezione (concetto comune o volgare), involge non poco del soggettivo; e che conviene tenersi in guardia per non ragionare di lei, come se il detto concetto della materia avesse una verità anche fuori della percezione. Esso è vero, ma nella percezione. Se noi cerchiamo che cosa sia la materia al di là della percezione, la materia ci sfugge; non parliamo più di quello, di cui parla tutto il mondo, che parla sempre della materia quale è percepita. Così anche i sensi non illudono, se la ragione riconosce in essi quello che ci danno e non più; ma se noi pretendiamo che i sensi ci somministrino quello che non sono nati a somministrarci, incontanente cadiamo nell' inganno; e non sono già i sensi, ma la ragione che erra, giudicando al di là di ciò che portano i dati sensibili. In secondo luogo giova assai meditare sul concetto trascendente della materia, o per dir meglio sul concetto trascendente di quella entità, che risponde al concetto comune di materia; perocchè intendiamo per esso quanto sieno connesse l' una coll' altra le cose della natura, e nel caso nostro lo spirito e il principio corporeo; e come dalla loro connessione e mutua azione vengano prodotte alcune entità (1), le quali noi concependo isolatamente, le consideriamo come enti o sostanze; e con ragione, perchè con ciò non pronunciamo sulla loro natura, ma altro non diciamo se non che esse sono « quell' atto primo che noi percepiamo, nel quale e pel quale sussistono molti atti secondi »; giacchè « la sostanza è l' atto primo, che fa sussistere la cosa ». Onde questa parola di sostanza ha due significazioni: l' una trascendente, che esprime quell' atto che è assolutamente primo, e fa sussistere tutte le cose; e in questo significato la parola sostanza non conviene che a Dio; l' altra comune, che esprime « quell' atto dell' entità da noi percepita, che è primo nella percezione nostra »; e in questo significato relativo a noi, noi distinguiamo più sostanze, che possiamo acconciamente chiamare sostanze relative e non assolute; in tal senso anche la materia è sostanza. Finalmente la distinzione dei due concetti, cioè del concetto di materia e del concetto trascendente, a quello corrispondente, giova oltremodo a spiegare come nacquero le diverse sentenze dei filosofi sulla materia, ed a conciliarle insieme. Ora che abbiamo chiarito il concetto di materia e di materia prima, ci è facile dimostrare che l' anima umana è scevra interamente di ogni materia. Infatti il concetto di materia, per riassumere il detto, risulta da più elementi. Esso: 1) ci presenta un' attività in atto nel suo termine , e non nel suo principio; 2) ci presenta un' estensione, una mole, come modo di questa attività in atto nel suo termine; 3) ci presenta mobilità, cioé attitudine a ricevere il moto e a trasmetterlo, non attitudine a produrlo; perchè il ricevere e trasmettere il moto appartiene al termine; il produrlo, al principio dell' attività. Ora tutte queste cose ripugnano all' anima. E veramente l' anima, come noi l' abbiamo definita, « è il principio senziente, razionale e attivo, secondo il sentimento e la razionalità ». Ora questa definizione pone non solo una differenza, ma una vera opposizione fra il concetto dell' anima e quello della materia. L' anima è il principio dell' atto, e la materia non ha ragione che di termine . L' anima come principio è inestesa, e la materia ha per sua propria ed essenziale condizione l' estensione, la mole. L' anima come principio è movente, ma non è mobile; è principio di moto, ma ella stessa è immobile. Dunque l' anima esclude da sè tutti gli elementi, che entrano a costituire il concetto della materia. Forse a primo aspetto non s' intenderà come l' anima sia immobile . Ma per intenderlo basta considerare attentamente che ogni cosa mossa ha ragione di termine , perchè il movimento è il termine dell' azione movente. In secondo luogo, il moto non si fa che nell' estensione. Ma l' anima non è nell' estensione, nè come continuo solido, nè come le linee e i punti, che altro non sono se non i confini astratti del solido, e perciò al solido appartengono. Infatti il solido, e perciò anche i suoi confini, non esistono che nel semplice, onde l' anima è detta dai maggiori filosofi contenente il continuo, e non da lui contenuta (1). Onde come il continuo solido è nell' anima senza che esso sia l' anima, essendo anzi in opposizione con essa, come il termine è in opposizione col principio, e l' obbietto col soggetto (e ciò per quella connessione e comunicazione di sostanze, che costituisce il sintesismo della natura); così si può ben dire che il moto avvenga in quel continuo che è nell' anima, ma non mai nell' anima stessa, che ha in sè il continuo, suo termine. Si opporrà che, trasportando il corpo da un luogo nell' altro, si trasporta anche l' anima. Ma ciò non è vero; l' anima non si trasporta; altro non nasce che una nuova sua relazione fra il suo corpo e il luogo dal corpo occupato; perchè è questo che si cangia e non l' anima. Ma trovandosi il corpo dell' anima in relazioni con altri oggetti esteriori e con altro spazio, sembra che l' anima sia trasportata insieme col suo corpo, mentre non si è mosso altro che il sentito dell' anima, e non il principio senziente. Perocchè tutto il sentito, che sopravviene all' anima pel movimento, è nell' anima come il sentito che è passato via; dove per sentito si avverta bene che s' intende anche il luogo del proprio corpo, e che l' anima d' altra parte è presente a tutto lo spazio (2). La nozione adunque di materia importa un' attività considerata nel termine della sua azione. E poichè il termine dell' azione e ciò che viene fatto e non ciò che fa , quindi la materia ha in sè il concetto di potenza passiva e non di potenza attiva (1). Ma il concetto di materia non importa solo l' attività giacente nel suo termine, ma questo termine considerato come ente, un ente termine. Poichè l' intendimento non concepisce nulla se non come ente, pel principio di cognizione. E l' ente si aggiunge a ciò che primo di una entità si percepisce. Se si percepisce dunque un' entità termine, e niente di anteriore, il concetto nostro ha per oggetto un ente7termine; e in questo ente7termine ciò che si concepisce come primo atto dell' ente, contenente tutto il resto che in quello si può distinguere, dicesi atto, o sostanza, o subbietto. In due modi adunque noi percepiamo gli enti: come principio e come termine. Noi percepiamo gli enti come termine, quando noi siamo passivi e riceviamo nel nostro sentimento la loro attività; allora noi percepiamo l' attività in noi come nel termine dell' azione, e desumiamo la natura dell' ente percepito dalla natura del termine dell' azione di lui, unica cosa da noi percepita. Questo è ciò che avviene nella percezione dei corpi. L' ente poi, che percepiamo come principio di attività, altro non è che noi stessi, l' anima; essa si percepisce come un proprio sentimento, nel quale ciò che pensiamo come primo atto, in cui sussiste tutto il resto che in esso si distingue, è la sostanza, il subbietto. L' anima umana, dunque, è un ente7principio. Vero è che, oltracciò, l' anima percepisce sè stessa anche come termine, appunto perchè percependosi come sentimento, il che involge una passività, intende che la sua stessa esistenza deve avere una causa; e così si solleva al pensiero del Creatore. Ma ella si percepisce tuttavia anche come principio attivo; ed è sotto questo aspetto che il suo concetto ha opposizione col concetto del corpo, il quale si percepisce unicamente come ente7termine, e non come ente7principio. La considerazione adunque della materia fatta sotto la guida dell' esperienza, cioè della percezione, colla quale il nostro intendimento è posto in comunicazione con essa, e quindi ne ha il concetto, ci dimostra quale sia l' ordine intrinseco dell' essere nell' entità corporea. Noi vediamo che in tale entità, che corpo e materia si dice, vi è un atto anteriore agli altri, sul quale si fondano gli altri, un atto senza di cui non ci è possibile pensare gli altri; e il quale noi possiamo ben pensare senza gli altri, benchè dobbiamo insieme sottintendere che, venendo realizzato, egli s' accompagni con altri, e questi in parte variabili. Ora questo atto primo concepito è la sostanza, e gli altri, che hanno quel primo come loro subbietto, noi li pensiamo di poi e li chiamiamo sostanziali , in quanto sono al tutto necessari alla sussistenza di quel primo, benchè non al concetto di lui (e questi atti nella loro unità diconsi forma sostanziale ); li chiamiamo poi accidentali in quanto non sono necessari, in quella parte cioè nella quale essi possono variare, senza che venga meno la sostanza, nè gli atti sostanziali; e sono le forme accidentali o accidenti . A cui s' aggiungono certe determinazioni estrinseche venienti dalla realità e non dall' idea dell' ente. Tale è dunque l' ordine intrinseco dell' ente materiale, che in esso si distinguono coll' intendimento: Un atto primo, sostanza, senza del quale non s' intendono gli altri atti, e al quale si riferisce la denominazione di ente . Atti o forme sostanziali, che hanno per subbietto che li regge la sostanza, ma che sono necessari al concetto compiuto dell' ente. Atti o forme accidentali, che hanno per subbietto le forme sostanziali. Determinazioni non comprese nella idea specifica7piena dell' ente, ma venienti dalla sua realità . Il primo atto adunque, che si concepisce nell' oggetto della percezione, è la sostanza. Ma questo primo atto talora ha ragione di principio , talora ha ragione di termine . Di più talora quel primo atto (s' intenda sempre primo, rispetto all' ordine intrinseco dell' entità percepita, o concepita) ci si presenta come essenzialmente e unicamente principio; talora ci si presenta come essenzialmente ed unicamente termine dell' atto medesimo, di cui ci rimane occulto il principio; talora come avente in sè i due rispetti di termine d' un atto e di principio di un altro atto. Quindi tre specie di sostanze, l' una delle quali è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di principio; l' altra è l' atto primo (nell' oggetto concepito), che ha e non perde mai la natura di termine; la terza è atto primo (nell' oggetto concepito), che ha ragione di termine rispetto ad un atto precedente a sè (che è perciò una sostanza diversa da sè), ed ha ragione di principio rispetto all' atto proprio e agli atti susseguenti, dei quali soli essa è atto primo ed atto7principio. L' essere atto, essenzialmente ed unicamente principio, appartiene a Dio solo; l' essere atto primo, essenzialmente ed unicamente termine, appartiene alla sostanza materiale; l' essere atto primo, termine rispetto ad un' attività precedente a sè e principio rispetto all' atto del proprio sussistere e agli atti secondi, appartiene alle creature spirituali, e quindi all' anima umana. E` bene notare che questa è classificazione di sostanze, ossia di atti primi (intendendo per primo quello che nel concetto di un ente, noi, secondo l' ordine logico, prima degli altri concepiamo); e non è classificazione degli atti in generale. Se non si pone mente a ciò, si farà l' obbiezione che anche i corpi sono principii di loro operazioni. Ora non è così, perchè in tutte le apparenti operazioni dei corpi si considera sempre il termine; onde abbiamo provata già innanzi l' inerzia della materia. Le mutazioni dei corpi adunque non sono operazioni della sostanza corporea, ma modificazioni di essa; onde l' attività si percepisce sempre nel suo termine, e mai nel suo principio. Noi abbiamo detto che l' anima si può considerare come termine di un' azione precedente a sè (del Creatore); ciò ha bisogno di spiegazione. Altro è il dire che l' anima sia termine di un' azione precedente a sè, altro è il dire che questa azione, giacente e operante nel suo termine, sia l' anima. Il dir questo sarebbe errore manifestissimo. Il che non solo si scorge dall' assurdo che ne verrebbe, giacchè in tal caso l' azione creatrice sarebbe l' anima; ma si prova anche direttamente, com' è dovere del filosofo, dalla percezione dell' anima, confrontata colla percezione che abbiamo della materia. I corpi si percepiscono come effetti immediati di un' azione straniera nell' anima; il concetto di essi adunque risulta dalla loro azione in un altro ente che si percepisce; quindi è che si percepiscono, in quanto l' attività loro è nel suo termine, nelle passività dell' anima. Ma questa attività dei corpi nell' anima, come in loro termine, non è il principio che li fa sussistere come enti in sè stessi, il quale principio noi non percepiamo. All' incontro l' anima non si percepisce come agente in un altro ente diverso da sè, ma come essente in sè; si percepisce adunque tutta intera fino nel principio della sua attività. L' azione dunque, di cui ella è termine, è cosa straniera a quel principio che si chiama anima, ed a questo anteriore. Ciò che è principio di un atto non può essere termine dello stesso atto, ma di un atto precedente. Dunque il concetto dell' anima è quello di essere principio; e non è termine rispetto allo stesso suo atto primo (sostanziale), ma è termine rispetto ad un altro atto diverso da lei, che non si percepisce. Abbiamo veduto quale sia l' ordine intrinseco dell' ente che si chiama corpo. In quest' ordine abbiamo distinto: 1 la materia, primo subbietto delle altre qualità, o sostanza; 2 la forma sostanziale ecc.. Ma nell' anima umana non v' è materia. Non vi sarà dunque alcuna distinzione fra la sostanza e la forma sostanziale dell' anima? Come in ogni questione, così in questa conviene prima ben intendersi sul valore delle parole, cioè conviene definirle accuratamente, e quindi procedere conseguenti alla data definizione. Che cosa dunque si intende per forma sostanziale? Per forma sostanziale noi intendiamo « un atto perfezionante un altro atto, per modo che da questa perfezione, che il nuovo atto riceve, viene denominato con un nome sostantivo ». Così la materia non si chiama col vocabolo sostantivo corpo , se non concepita con quelle determinazioni che si concepiscono necessariamente nei corpi, come sarebbe una data grandezza, una data figura, ecc.. Ciò posto, è da notarsi che « l' atto perfezionante un altro atto »può concepirsi in due modi; cioè in modo che « l' atto perfezionante dia perfezione e finimento ad un atto, nel quale e pel quale egli stesso esiste », come accade pure della materia, nella quale, come in subbietto, e per la quale sussiste la sua determinazione, cioè la sua grandezza, la sua figura, che la compie e perfeziona. Ovvero l' atto perfezionante può intendersi in modo che dia perfezione ad un altro atto, pel quale e nel quale egli non esiste, ma sia un atto diverso da quello, in cui e per cui esso esiste; e così l' anima si concepisce essere forma del corpo extrasoggettivo, in quanto che il corpo animato presenta all' osservazione esterna i fenomeni della vita, che si hanno come una sua perfezione (relativa a noi). Considerato poi il corpo soggettivamente, esso risulta: 1 da un' azione di un agente nell' anima; 2 dalla natura dell' effetto che questo produce nell' anima, che è il sentito ed il suo modo, cioè l' estensione. E poichè questi effetti avvengono nell' anima e per la natura essenzialmente sentimentale dell' anima, quindi ancora l' anima è quella che si modifica, in modo da presentare in sè stessa tali sentimenti. Quando dunque il pensiero dell' uomo prende questi sentimenti e li unisce all' agente, cioè al sensifero, questo riceve dall' anima le qualità sensibili colla loro estensione; e quindi è ancora l' anima, che col suo atto veste il corpo (il termine dell' agente) di ciò a cui s' aggiunge il vocabolo sostanziale corpo; e perciò è l' anima, anche sotto questo aspetto, che dà alla materia la sua forma sostanziale. Dico che dà alla materia la sua forma sostanziale, perchè in questa operazione la forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell' anima e il termine interno della sua operazione, e però non è l' anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo. Se si considera dunque l' anima come perfezionante e informante il corpo, ella è forma sostanziale non di sè, ma d' un altro ente, cioè del corpo; ed in sè stessa considerata, piuttosto che forma sostanziale si deve chiamare sostanza senza più (1). Si dirà che l' anima ha per sua essenza di essere forma o entelechia del corpo. Sebbene noi abbiamo già dichiarato come ciò si debba intendere nella prima parte, tuttavia conviene che, a dissipare l' obbiezione, qui si aggiunga qualche cosa. Se per corpo s' intende un ente diverso dall' anima, in tal caso non si può dire che l' essenza dell' anima consista nell' essere forma del corpo, perchè l' azione o la relazione di due enti non costituisce mai l' essenza, nè la sostanza di niuno di essi. Questa relazione può bensì conseguire necessariamente alla sostanza di uno d' entrambi questi enti; ma ciò che consegue alla sostanza, non è sostanza. Dico che consegue alla sostanza, perocchè le sostanze sono così fra loro unite e quasi costipate nella natura dell' universo che le une colle altre si sostengono e producono, sicchè diventano condizioni reciproche della loro esistenza; e queste conseguenze noi le chiamiamo conseguenti sintetici delle sostanze . Ma se noi consideriamo la sostanza dell' anima in sè e non in questi suoi conseguenti sintetici , in tal caso noi dobbiamo primieramente distinguere fra l' anima meramente sensitiva dei bruti e l' anima umana. E in quanto all' anima sensitiva, ella deve avere certamente, oltre il principio, anche il termine (sentito7esteso) del suo atto; ma la sua sostanza non istà in questo termine, ma nel principio; e questo termine non è che condizione di sua esistenza e ragione della sua individuazione. Che se questo termine si vuole tuttavia chiamare forma dell' anima, in quanto perfeziona l' atto pel quale ella è e lo individua, non ne viene però che l' informante sia la materia; perocchè ciò che informa ha ragione di principio e di atto, quando è essenziale alla materia essere termine. Ma la materia, intesa come sensifero, è occasione suscitatrice della forma , cioè del sentito fondamentale che individua l' anima, e che è dove si svolge e dimora il principio senziente. Il sentito adunque può dirsi forma sostanziale dell' anima, ma non la materia; perocchè egli non riceve la perfezione sua dal principio, ma piuttosto la dà al principio, al contrario di ciò che fa la materia, che è quanto d' imperfettissimo e di sommamente indeterminato (1) si può pensare nei corpi. Onde in ogni modo la nozione di materia non può convenire all' anima. Tanto più ciò s' intenderà, quando si considera che lo stesso termine dell' anima è in essa come in suo principio, come dichiareremo più ampiamente in appresso. Onde nell' anima dei bruti vi è sostanza e forma sostanziale indivise, in modo che non si può pensare l' una senza l' altra, ma non vi è materia. Se poi si parla dell' anima umana sensitiva ed intellettiva ad un tempo, noi vedemmo che la sua essenza sta nell' essere un principio razionale, e che lo stesso principio sensitivo riceve natura di termine a tal principio, in quanto è unito al principio razionale con naturale e continua percezione. Onde rispetto all' anima razionale si possono fare tutte le riflessioni, che facemmo rispetto all' anima meramente sensitiva per escludere da essa la materia; oltre agli argomenti particolari, che provano l' intelletto essere immune da ogni materia, per la ripugnanza che passa fra i caratteri essenziali di questa e i caratteri essenziali di quello. Per le quali cose convien dire che se nell' anima si distingue la sostanza dalla forma sostanziale, ad ogni modo la sostanza dell' anima non ha ragione di materia, ma di atto7principio, benchè in questo atto7principio si possa distinguere qualche cosa che lo perfezioni e individui, e che ha ragione di termine, rimanendo però l' anima anche in questo suo termine essenzialmente principio; e questa perfezione e termine si può chiamare forma sostanziale. Sotto la parola atto noi intendiamo qualsivoglia entità . Tuttavia la parola atto esprime l' entità con di più una relazione, cioè colla relazione a potenza , onde è necessario ricorrere al concetto di potenza acciocchè sia dichiarata pienamente la nozione di atto. E` nondimeno da osservarsi che la nozione di atto involge la relazione con quella di potenza, talora in un modo positivo, e talora in un modo negativo. La involge in un modo positivo , contrapponendosi la potenza all' atto , quasi che la potenza non sia ella stessa un atto. La involge poi in un modo negativo , escludendo la potenza dall' atto, come quando si parla di un atto, a cui non risponde alcuna potenza. Noi abbiamo detto che l' ordine intrinseco dell' ente non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' esperienza di quegli enti, che cadono nel nostro sentimento, i quali sono i corpi e l' anima propria. Abbiamo quindi posta la nostra attenzione su questi enti per conoscerne l' intrinseco loro ordine, ovvero come essi siano internamente costruiti e quasi organati. Noi rilevammo, da questa attenta osservazione, che ogni ente ci presenta una unità, ma che la mente in questo uno discerne più elementi con tale ordine fra loro, che taluno si concepisce anteriormente a tal altro, di modo che questo non si può pensare esistente se non insieme con quello che nell' ordine logico lo precede; onde questo secondo si dice che esiste nel primo e pel primo. Il primo poi di tutti, che si può concepire da sè innanzi agli altri, si dice che contiene gli altri, li sorregge e li fa esistere; e a lui si dà il nome di sostanza . Ma fra quegli elementi (che diciamo anche entità) non tutti e in egual modo sono necessari a pensare l' ente, e a denominarlo con un nome sostantivo. Quegli elementi o entità, che possono variare senza toglierci il concetto dell' ente, e senza aver bisogno di mutare all' ente il nome sostantivo che gli abbiamo dato, furono da noi chiamati forme accidentali o accidenti . Gli accidenti dunque sono certe attualità o entità non necessarie al concetto dell' ente, le quali però lo perfezionano; ovvero sono le privazioni di tali attualità o entità, che soggiacciono a variazioni. Ma anche queste attualità accidentali non si possono concepire senza la sostanza e la forma sostanziale dell' ente, onde si dice che esistono nella sostanza e per la sostanza. Di qui avviene che si possa concepire l' ente, ora fornito di queste attualità, ed ora privo di esse. Quando noi concepiamo l' ente privo di tali attualità, allora noi vediamo ad un tempo che egli può averle, e che, avendole, rimane lo stesso ente; e questo è considerare l' ente come una potenza . Diciamo ancora che quelle attualità esistono nell' ente in potenza e non in atto, volendo con ciò significare che quell' ente è suscettivo di tali attualità, benchè non le abbia. La potenza adunque è quella relazione, che la mente concepisce in un ente colle sue attualità accidentali, o colle variazioni e privazioni di esse. Dal quale concetto scaturiscono più conseguenze. E in primo luogo si scorge che non vi può essere potenza, la quale sia mera potenza senza alcun atto, poichè la potenzialità d' un ente suppone sempre l' ente, e quindi l' atto ond' egli esiste come sostanza e come forma sostanziale. In secondo luogo si vede che l' atto precede, assolutamente parlando, alla potenza, giacchè la sostanza è un primo atto, e la forma sostanziale ne è la sua perfezione necessaria a costituirlo; e la potenza non è, come dicevamo, se non la relazione che concepisce la mente fra quel primo atto e gli atti accidentali, e loro variazioni e privazioni. In terzo luogo è manifesto che ogni potenza è congiunta ad un atto, e che non forma un ente diverso da quello dell' atto a cui aderisce. All' incontro gli atti possono dipendere e ricevere la loro esistenza da altri atti a loro precedenti, in modo che questi atti precedenti costituiscano enti diversi. Di che si scorge perchè S. Tommaso con molta acutezza insegni che [...OMISSIS...] (1). Ora, se noi seguitiamo a considerare l' interna costruzione degli enti, che cadono sotto la nostra esperienza, facilmente conosceremo che le potenzialità, di cui parliamo, hanno tre modi; di che nasce la divisione delle potenze in tre classi. Poichè talora vediamo che un ente può riceverne in sè un altro senza confondersi con lui, come, a ragion d' esempio, gli oggetti conosciuti sono nell' anima che li conosce; e questa potenzialità dà luogo ad una classe, che chiameremo di potenze recettive (2). Talora un ente, ricevendo l' azione d' un altro ente, ne rimane in qualche cosa modificato, e questa sua passività dà luogo ad un' altra classe, quella di potenze passive (1). Finalmente l' ente stesso può porre degli atti che gli sono accidentali, e così gli si attribuisce quella relazione, che noi chiamiamo potenze attive . Ben si noti che tutto ciò che si dice degli atti in potenza, si dice, in senso contrario, anche della loro privazione, onde il poter essere privato di tali attualità prende forma di potenze negative . Dappertutto dove vi è una sostanza (unita all' idea), vi è un ente, perchè la sostanza è il primo atto che concepiamo, il quale fa sussistere gli altri nel modo detto. Ora le sostanze, e conseguentemente gli enti, furono da noi distinti in due classi, chiamate degli enti7principio e degli enti termine . Gli enti7termine sono quelli che non si concepiscono come senzienti; tale è la materia. Gli enti7principio sono quelli che si concepiscono come senzienti; tale è l' anima e tutte le intelligenze. Tanto gli enti7principio, quanto gli enti7termine sono sostanze, perchè si concepisce in essi un primo atto, pel quale esistono tutti gli altri atti (attivi e passivi) in essi discernibili col pensiero. Questi atti distinti (attivi e passivi) dalla sostanza, altri sono necessari (forme sostanziali), altri accidentali (forme accidentali). Essendovi dunque tanto negli enti7principio, quanto negli enti7termine atti accidentali, si distingue in essi la potenza dall' atto . Di più possono cadere, tanto in enti che appartengono alla classe degli enti7principio, quanto in enti che appartengono alla classe di enti7termine, delle potenze ricettive, attive e passive; e quindi possono soggiacere ad uno sviluppo, cioè a modificazioni e attualità che li perfezionino, come pure, al contrario, che li deteriorino (privazioni, potenze negative). Ma è da osservarsi che l' ente7principio conserva la sua natura di principio in tutto il suo sviluppo; e parimente l' ente7termine conserva la sua natura di termine in tutto il suo sviluppo, poichè l' essere principio o termine appartiene alla sua essenza, che non può variare senza cessare di essere quell' ente che era prima, e divenirne un altro. Dalle cose dette apparisce manifesto come anche nell' anima umana, oltre l' atto , vi sia la potenza . Anzi, dandosi in essa molti atti accidentali, conviene che molte sieno le potenze, che ad essi si riferiscono. Le quali potenze dovendo noi trar fuori e diligentemente descrivere, come ci siamo proposti a principio, ci conviene prima d' ogni altra cosa investigare in che modo nell' anima sì gli atti che le potenze possano essere contenute. Gravissima e difficile questione, come sono tutte quelle che considerano l' interna costruzione dell' ente, si trova esser questa: « come gli atti accidentali sieno contenuti potenzialmente nell' ente ». Conviene anche qui che noi cominciamo dalla lunga. In prima, si rammenti che, quando noi parliamo di un ente per riconoscerne la natura e l' interna costituzione, l' ente, di cui parliamo, è quello che esiste innanzi alla mente nostra, e non alcun altro; poichè se non l' avessimo concepito, non potremmo riflettere su di lui, nè parlarne; chè altra cosa è l' esistenza d' un ente non concepito, ed altra l' esistenza d' un ente concepito, essendovi in questo secondo di più la concezione nostra, l' opera del nostro spirito. In secondo luogo si rammenti ancora che noi conosciamo in diversa guisa l' ente e il modo dell' ente, ossia il suo ordine intrinseco. Poichè, come abbiamo detto, l' ente lo conosciamo per un naturale intuito; il suo ordine intrinseco poi lo raccogliamo a posteriori, dall' esperienza, percependone la realità. In terzo luogo si avverta bene alla regola, non mai abbastanza ripetuta, colla quale si distingue ciò che v' è di oggettivo e ciò che v' è di soggettivo nell' ente da noi percepito, la quale si è: « tutto ciò che riguarda l' ente, e che è somministrato dall' intuito, è oggettivo essenzialmente; e tutto ciò che riguarda l' ordine intrinseco dell' ente, e ci viene dall' esperienza, è soggettivo ». Il quale principio si potrebbe fraintendere; lo si fraintenderebbe, se si volesse inferirne che tutto ciò che è soggettivo nel nostro conoscere fosse falso; poichè in tal caso niente vi sarebbe più di vero intorno al soggetto. All' incontro, tutto ciò che sappiamo del soggetto e sue pertinenze è vero, allorquando non pretendiamo che il soggetto e sue pertinenze siano l' oggetto. E così ciò che sappiamo soggettivamente è pur vero, se noi l' affermiamo soggettivamente, come sarebbe falso, se noi affermassimo a noi stessi di conoscerlo oggettivamente. E tuttavia il vero nasce sempre dall' oggetto come da sua causa formale, a quel modo che dall' oggetto nasce ogni cognizione, sì fattamente che il solo soggetto, e tutto ciò che è soggettivo, non sarebbe neppure conosciuto, nè come soggetto, nè come soggettivo, senza il lume dell' oggetto. A ragion d' esempio, quando dico: « Io soggetto esisto », allora affermo l' esistenza del soggetto Io. Ora l' esistenza è oggettiva, benchè la cosa cui ella si riferisce sia il soggetto; e ciò vale tanto rispetto all' esistenza possibile, quanto rispetto all' esistenza reale. Che se io non annettessi al soggetto nè l' esistenza possibile, nè la reale, il soggetto rimarrebbe cosa sconosciuta al tutto, e quindi per me essere intelligente non esisterebbe in modo alcuno. Di che procede questa conseguenza, che non solo a noi uomini, ma ad ogni altra intelligenza altresì, esiste la realità solamente in tanto, in quanto è conosciuta; poichè l' atto stesso del conoscere è quello che aggiunge al reale soggettivo l' idea, cioè l' essere oggettivo che si chiama esistenza, e quindi altresì egli è quello che vi aggiunge la verità, perchè la verità non è altro se non ciò che è (1). Premesse queste cose, veniamo alla nostra questione: « in che modo gli atti accidentali sieno contenuti virtualmente nell' essenza dell' anima ». E` chiaro che è una di quelle questioni che riguardano l' ordine intrinseco dell' ente, e che perciò non si possono sciogliere se non ricorrendo all' esperienza del fatto. Tutto ciò che si può dire di più, riducesi a dimostrare che nel fatto non vi è contraddizione o assurdo; poichè questo appunto avviene talora, che il fatto ci apparisca a prima giunta pregno di elementi ripugnanti fra loro. Nel caso nostro l' apparente contraddizione non manca, e sta in questo che, mentre l' anima da una parte è un ente solo e semplice, dall' altra presenta pluralità di atti e di potenze. A quello che noi abbiamo detto su di ciò nella prima parte, è ora d' aggiungere altre considerazioni. Lume ci viene in sì arduo argomento dal principio ontologico annunziato, che « le sostanze, di cui si compone l' universo, stanno tutte coerenti e costipate insieme, così fattamente che l' una sorregge l' altra, e la fa essere quasi informandola, senza però che niuna di esse perda la propria distinzione e si confonda coll' altra ». Di che nasce una legge di continuità fra le sostanze, tale però che non distrugge la loro specifica distinzione. Ne deriva altresì quello che abbiamo chiamato sintesismo della natura. A ragion d' esempio, la natura dell' anima sensitiva non si può concepire senza ammettervi un esteso, che è il sentito o il sensifero, onde ci viene il concetto di corpo. Eppure l' anima è sostanza al tutto diversa dall' esteso e dal corpo. Alla sua volta il sentito esteso non si può intendere, nè concepire, se non si suppone che egli esista nel semplice, onde riceve l' unità; eppure di nuovo l' esteso corporeo è sostanza al tutto diversa dall' anima. Sono dunque due sostanze, l' una delle quali sorregge e fa esistere l' altra, niuna delle quali si concepisce senza l' altra; eppure l' una è dall' altra differentissima. Se noi parliamo dell' anima razionale troviamo la stessa legge. E` impossibile concepire un' intelligenza senza un oggetto primitivo (1). Ora l' oggetto essenziale dell' intelligenza è l' essere in universale, al quale non conviene a dir vero la denominazione di sostanza, perchè è più di sostanza. Quindi fra la sostanza dell' anima razionale e l' oggetto che la informa vi è una infinita distanza di natura, sicchè si rimangono cose al tutto inconfusibili; ad ogni modo l' anima razionale non è se non in virtù di quest' altra cosa, che non è lei, e che in lei a suo modo dimora; e l' essere in universale non di meno, benchè si possa intendere senza l' anima umana od altra intelligenza contingente, tuttavia, essendo essenzialmente intelligibile, l' intelligibilità stessa, non si può concepire se non in quanto per l' essenza sua propria è inteso; onde deducemmo a priori l' esistenza di Dio, cioè d' una realità intelligente, che non ha natura diversa dallo stesso essere intelligibile, anche se quella si distingua da questo per intima relazione (2). Se noi dunque consideriamo questa coerenza ontologica delle sostanze, onde risulta il creato, riceverà lume maggiore quanto abbiamo detto, venendocene la seguente classificazione: Talora due sostanze si sorreggono e si attuano reciprocamente, in modo che una di esse ha ragione di principio, la quale si dice sostanza7principio, e l' altra ha ragione di solo termine, la quale si dice sostanza7termine. Che queste sieno due specie di sostanze diverse apparisce da ciò, che l' idea prima di ciascuna di esse è non solo diversa dall' idea prima dell' altra, con cui tiene sintetica relazione, ma ben anche opposta; il che si riscontra nelle due sostanze di anima e di corpo. Talora la sostanza è sorretta ed attuata da un termine, che, come dicevamo, non è propriamente sostanza; il che si avvera nell' anima intellettiva, il cui termine è l' essere ideale, per essenza oggetto. Ora nella concezione dell' essere noi non troviamo già un atto diverso da lui, anzi chiaramente intendiamo che l' atto, con cui è l' essere, non può essere che l' essere stesso; quindi in questa elevata regione cessa quella comunicazione di più sostanze che, quasi facendo l' una puntello all' altra, si sorreggono a vicenda, ed altro non v' è che l' essere a tutte le sostanze superiore. L' anima intellettiva, adunque, s' appoggia a questo essere, e così appoggiata, per così dire, ella esiste. Dalla quale ispezione, per noi fatta nell' interno delle sostanze contingenti affine di scorgervi l' ordine della loro costituzione, ci scaturisce un' altra classificazione di esse, che rientra nella prima, ma che è degna di essere distintamente accennata. Alcune sono extrasoggettive, non hanno che un' esistenza relativa ad altre sostanze finite. Il che si riconosce vero, qualora tengasi presente che noi dobbiamo parlare della sostanza secondo quel concetto che ce ne presta la percezione, al quale s' appoggia l' imposizione dei vocaboli di cui usiamo. Ora nel concetto della sostanza corporea o materiale, sostanza7termine, escludendosi qualunque principio sensitivo, rimane escluso anche l' atto di una soggettiva e propria esistenza, e non rimane a tale sostanza che l' esistenza relativa ad un principio senziente, non percependosi ella che come sentita. E` solo l' intendimento nostro che le aggiunge l' atto dell' esistere in modo assoluto; ma già notammo che lo fa, perchè altrimenti non potrebbe concepirla; nè intende egli con ciò di mutarne la natura o di aggiungervi cosa straniera; sicchè l' atto dell' esistenza subbiettiva, che vi deve certamente essere, non è più cosa che appartenga alla realità corporea da noi percepita, ma è supposto virtualmente dal pensiero per necessità del conoscere, è un atto non specificato e non specificante, sul quale riflettendo poi, si può indurre che appartenga a qualche altro ente fuori del corpo, in una parola a ciò che abbiamo chiamato principio corporeo. Alcune sono soggetti perché sono principŒ; e il principio, quantunque abbia col termine suo una relazione sintetica, tuttavia si concepisce avanti il termine, e quindi la sua esistenza reale non è fisicamente relativa a cose precedenti a lui, ma solo a cose che a lui conseguono. Tali sono le anime sensitive. Tuttavia queste non hanno ancora una suità, ad esse non compete il sè , e però neppure propriamente il suo , nè loro si addice in proprio alcun pronome personale. Ma l' uomo pensa e parla di loro, come avessero un' esistenza in sè, e loro applica i pronomi personali. Il che egli fa di nuovo, non a fine di trasnaturarle, ma di concepirle; non vuole con ciò attribuir loro la propria suità, ma quel modo oggettivo e soggettivo di essere, senza il quale egli nulla concepisce. Perocchè questo modo suppone che « l' ente abbia un atto suo proprio, sia in sè stesso qualche cosa, e però abbia un sè , una personalità ». Infatti non si dà essere completo, se non è persona; la persona è condizione ontologica dell' essere. Onde le anime meramente sensitive sono soggetti, ma soggetti incompiuti; e però non hanno tutta quella realità, che è necessaria a costituire un ente reale. Alcune finalmente sono soggetti perfetti, perchè hanno il sè , e quindi si può a tutta ragione dire di esse che hanno un' esistenza in sè; queste sono le sostanze intellettive, le quali sono enti7principio e non dipendono da niuna sostanza contingente, nè antecedente, nè conseguente ad esse; ma dipendono soltanto dall' essere eterno e divino. Queste sole hanno la suità, e possono dire Io a quel modo che abbiamo spiegato; ed esistendo un Io, esiste una vera causa, onde sono veri agenti, dotati di libertà. L' atto, con cui queste sostanze esistono, è indipendente da ogni sostanza creata; esse possono quindi sovrastare a tutte, ed operare in modo da non essere necessitate dall' azione di alcuna creatura; intendasi sempre in quanto sono pure intelligenze, e non legate all' essere sensitivo o corporeo, come accade dell' uomo, essere misto di sensitività corporea e d' intelligenza. Classificate così le sostanze secondo l' intrinseco loro ordine, giusta il quale sono costruite, noi possiamo finalmente riprendere la questione propostaci: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza dell' anima umana », la quale dipende dall' altra più generale: « come gli atti accidentali sieno contenuti nell' essenza delle sostanze ». E la risposta generale a questa questione nasce dalle cose dette, e si può esprimere così: « Posciachè le diverse sostanze contingenti sono reciprocamente così unite che l' una sorregge l' altra e la fa esistere, basta concepire una mutazione in questa unione ontologica, acciocchè si concepisca altresì come le sostanze debbano riuscire variamente modificate, e queste modificazioni sono gli atti accidentali di esse ». Gli atti accidentali adunque delle sostanze dipendono dalle connessioni ontologiche , che esse hanno fra loro, e quindi si può dire che siano ad esse estrinseci. In questo modo l' unità della sostanza è mantenuta nella moltiplicità e varietà dei suoi atti, e così è sciolto uno dei più difficili problemi dell' Ontologia. Perocchè tale è la natura di quell' atto, che si chiama sostanza contingente , che egli si congiunge ad un' altra sostanza, e per questa congiunzione sussiste. Onde, quantunque non si ponga alcuna mutazione nell' atto stesso della sostanza in sè considerato, tuttavia se si cangia il contatto ontologico che ella ha con ciò che è diverso da lei, ella acquista un altro modo, viene ad essere attuata diversamente. Sicchè, quantunque il cangiamento non istia nelle sostanze, ma nella diversa loro congiunzione ontologica, tuttavia ne risulta un cangiamento nella sostanza, in quanto che la sua attualità dipende dal modo di quella congiunzione. Vediamo adunque in quante maniere si può concepire variata tale congiunzione. In prima si può pensare tale congiunzione affatto distrutta; e in tale supposto si annullano le stesse sostanze sintesizzanti. Così se noi separiamo il senziente dal sentito, si annulla l' anima sensitiva, poichè non è più anima sensitiva dove è spento affatto ogni sentimento ed ogni possibilità di sentire. Se noi separiamo il sentito dal senziente, si annulla la sostanza corporea e materiale; poichè non troviamo più nè estensione, nè forza sensifera, nè forza esterna, che immuta la sensifera, nè qualità sensibili, che sono gli elementi costituenti il concetto di corpo. Se noi separiamo l' anima intellettiva dall' essere ideale, quella già non è più, perchè ciò che nulla affatto intende non è in alcun modo anima intellettiva. Ma se noi separiamo l' essere ideale dall' anima, noi intendiamo tuttavia che egli deve essere inteso per essenza, e quindi non si annulla, perchè è indipendente dall' anima e da ogni altra sostanza mondiale, ma suppone un reale che abbia con esso lui un' identica esistenza. In secondo luogo possiamo concepire che la sostanza congiunta ad un' altra, a cui dà l' attualità, si cangi, o venendole sostituita un' altra, o venendole aggiunta un' altra, ovvero congiungendosi con lei un' altra parte sostanziale, come accade trattandosi di materie le cui parti sono sostanze numericamente separate, benchè della stessa natura. Il primo di questi casi è impossibile; perocchè se la sostanza che dà l' attualità ad un' altra, si cangiasse interamente, anche la sostanza che riceve l' attualità non sarebbe più, ricevendo ella la sua natura e formale esistenza dalla congiunzione con quella. Così se l' anima non avesse per suo termine il sentito corporeo, ma un essere intelligente, non sarebbe più anima. Il secondo caso, in cui trattasi che ad una sostanza se ne aggiunga un' altra della stessa specie, è possibile, ed è possibile in più modi. Qui trattasi di sostanza corporea e materiale, e però di porzioni diverse della stessa sostanza. Si considerino le diverse specie di animali bruti. Propriamente parlando, tutti gli animali non intelligenti costituiscono una sola specie, sono sostanze specificamente eguali, concependosi in tutti un primo atto eguale di esistere, che consiste nell' unione del principio senziente col sentito armonicamente eccitato. Ora gli animali appariscono di tante maniere diverse, perchè varia la quantità del sentito, dell' eccitamento e dell' armonia, colla quale il principio senziente è eccitato, che sono i tre elementi della sostanzialità degli animali. Questa variazione adunque nella connessione fra le due sostanze (anima e corpo) non cangia propriamente la sostanza, ma la mette più o meno in atto, onde si hanno animali più o meno perfetti, senza tuttavia che si possa dire che queste varietà sieno accidenti passeggieri, perchè si è cangiato sostanzialmente e stabilmente il sentito; onde il senso comune le considera come specie diverse. Che se si volessero chiamare varietà, converrebbe in tal caso distinguere due specie di varietà, chiamando le prime varietà costitutive , e le seconde consecutive o passeggiere, che sono accidenti rispetto alle prime. Se ad un animale si aggiungesse un senso nuovo (il che è possibile a concepirsi negli animali imperfetti, benchè non credo che si possa affermare possibile nei perfetti, se parlasi di sensi corporei), in tal caso seguirebbe in lui una mutazione costitutiva e stabile a cagione dell' unione d' un nuovo sentito, il quale differirebbe dai precedenti non pure per la quantità, ma ben anche per la qualità della congiunzione. Dalla quantità e dalla qualità, che può variare nelle sostanze congiunte ontologicamente ad altre, nasce altresì il concetto di quelle che si chiamano parti integrali d' un tutto; poichè l' uomo, a cui fu recisa una gamba, sofferse un cangiamento costitutivo e stabile, in quanto che non gli aderisce più una parte di quella sostanza, che a lui doveva aderire secondo il suo tipo ideale; eppure l' essenza dell' uomo rimase intatta, poichè non si cangiò nulla di ciò che cade nell' idea prima di uomo, cangiò bensì la congiunzione ontologica per la quale l' uomo sussiste. Finalmente la congiunzione ontologica talora non muta in modo che l' una delle due sostanze si cangi stabilmente, ma muta solo in questo, che l' una si unisce più o meno, o in diversa guisa alla sua compagna, e ciò per modo passeggiero e variabile, onde nascono quei cangiamenti accidentali, che sono gli accidenti comuni, a cui le sostanze create soggiacciono. Applicando tutto ciò all' anima umana, due sono gli elementi che la informano, il sentito corporeo (sostanza corporea), in quanto l' anima è sensitiva, e l' essere ideale, in quanto è intellettiva. Che l' anima umana sia sensitiva in un modo perfetto risultante dall' organismo umano, questa sembra una predisposizione necessaria all' intelligenza, come abbiamo veduto. Ma l' organismo umano che è il sentito, benchè debba avere una data conformazione acciocchè l' anima sia sensitiva al modo umano, cioè a quel modo al quale si aggiunge l' intelligenza, tuttavia quella conformazione non è tanto determinata che non possa menomamente variare. Quindi le diversità del sesso, delle età, dei temperamenti, dello stato diverso di salute, della maggiore o minore perfezione dell' organismo, ecc., le quali diversità: 1) parte sono stabili, e appartenenti perciò alle varietà o accidenti costitutivi secondo natura , come il sesso; 2) parte sono mutazioni di parti integrali , come accade nei mostri, a cui manca qualche parte o qualche parte si è aggiunta; e questa è un' altra classe di varietà o accidenti costitutivi contro natura; 3) parte non sono che di qualità , come la maggiore o minore robustezza, o il colore nero o bianco della carnagione. Ora poi, essendo la costituzione animale una predisposizione necessaria alla razionalità, in quanto che l' uomo riceve dall' animalità la materia della cognizione e le segnature secondo le quali ragiona, e quindi anche l' attitudine a ragionare con più o meno di perfezione, dipendente dalla facilità di avere, richiamare, mantenere, o mescolare a sua voglia le segnature sensibili delle cose; risultano nella facoltà ragionatrice ed affettrice altrettante varietà, quante sono le varietà indicate spettanti all' animalità umana. Che se poi l' essere, dall' uomo intuìto, acquistasse una realità, il suo stato intellettivo si cangerebbe sostanzialmente; ed è il passaggio che fa l' uomo dallo stato naturale allo stato soprannaturale; il quale argomento appartiene alla Teologia. A questo cangiamento però, risguardante la forma soprasostanziale dell' uomo, seguita un cangiamento relativo nella sua facoltà ragionante e nello stesso suo corpo, per l' attività che ha la parte intellettiva sulla parte animale, di che parlammo. Ma queste varietà secondo, o contro, o sopra natura, integrali o qualificative, che in qualche senso accidentali si dicono, cioè nel senso che non si racchiudono nell' idea di uomo, riguardano tutte varietà di stato , e non sono atti transeunti , dei quali noi dobbiamo parlare. La materia corporea, avendo ragione di termine, è necessariamente inerte; perciò non si avvera rispetto a lei che vi sia passaggio dalla potenza all' atto; ma tutte le mutazioni di lei procedono dal di fuori; ella è meramente passiva; onde non ha che atti passivi, che non sono propriamente atti, ma passioni. Le passioni poi dell' ente corporeo riguardano sempre la quantità, e quindi cagionano mutamento nella pluralità, nelle forme, nelle località dei corpi, ecc.. L' essere sensitivo pare che abbia degli atti accidentali, e così si possono chiamare. Ma se si considera attentamente come egli è costituito, si scorge che questi atti non hanno la loro ragione sufficiente in lui, ma nella sostanza che lo sorregge e lo attua, che è la sostanza corporea. L' essere egli adunque sorretto ed attuato diversamente, è ciò che cangia il modo accidentale della sua attività. Poichè egli è un' attività, giacchè, come vedemmo, è un ente7principio. Ma questa attività è sostenuta, informata ed attuata dal suo termine, cioè dal sentito; onde al cangiarsi di questo, quell' attività diventa maggiore o minore, e spiegasi in diverse guise, ma senza che muti la legge o il tema della medesima. A ragion d' esempio, se noi teniamo aperti gli occhi sopra una superficie, sulla quale trapassino diverse figure variamente colorate e disposte, la ragione della mutazione successiva giace al tutto fuori dell' occhio; l' attività dell' occhio inteso a riguardare rimane la medesima, benchè cangino quelle rappresentazioni; l' occhio vede sempre colla stessa virtù, collo stesso atto; pur egli pare che cangi l' atto visivo, ma non cangia da parte sua, sì bene è il termine che cangia. E tuttavia questo termine dell' atto dello sguardo è necessario al vedere, ed è ciò che fa che l' occhio veda attuando la visione. Onde secondo il cangiare della superficie veduta, cangia di conseguente anche l' atto dell' occhio, ma restando immutabile il suo tema, cioè il principio veggente e la legge del vederla. Ora è indubitato che se sulla superficie rimirata dall' occhio diminuisce il numero delle figure e s' impiccioliscono, l' occhio vede meno cose di prima, e se cessano affatto quelle rappresentazioni, l' occhio non vede più che una superficie uniforme. Ma se questa superficie visibile all' occhio andasse restringendosi, anche l' atto del vedere diminuirebbe, e se la superficie visibile sparisse del tutto, l' atto del vedere insieme con lei cesserebbe, non rimanendo più visione alcuna. Il che nasce perchè l' atto visivo non dipende unicamente da sè, ma è condizionato al suo termine, onde l' attività visiva non aumenta, nè cala, nè cessa per sua propria deficienza, ma per deficienza del termine che l' attua ed informa. Così ogni principio sensitivo, risultando da questa duplicità di sostanze, cessa col cessare della sostanza che gli presta il servigio di forma e di termine, e muta col mutare di questa sostanza, non che egli muti o cessi per propria deficienza, o per ispontaneo accrescimento e diminuzione di attività. Nè si opponga che da ciò verrebbe la conseguenza che il senziente fosse unicamente passivo, e perciò che rimarrebbero inesplicati tutti quei fenomeni animali, dove si manifesta l' azione del principio sensitivo sul corpo, come, per esempio, la circolazione del sangue; perocchè tutti questi movimenti hanno la loro ragione appunto nell' attività primitiva del principio senziente, la quale attività è sempre agente sul suo termine, secondo la legge stessa e secondo lo stesso tema. Onde se un' irritazione, poniamo un veemente dolore, cagiona aumento di circolazione, il che significa, secondo noi, crescimento di azione nel principio senziente, non nasce già questo perchè il principio senziente abbia da sè medesimo aumentata la propria attività, ma unicamente perchè l' attività, che egli aveva prima, trovò un altro termine che maggiormente l' attuò ed informò, e quindi potè spiegarsi a quel modo. Così se dinnanzi ai raggi del sole io pongo qualche corpo opaco, e poi vi sostituisco uno diafano, i raggi del sole percuotono il corpo loro opposto colla stessa loro legge, colla stessa celerità e veemenza; ma nel primo caso s' arrestano e danno indietro, e nell' altro trapassano, non perchè essi stessi abbiano modificato la propria attività, ma perchè la loro propria attività nel modo dello spiegarsi è condizionata a quei corpi di diversa natura, che incontrano nella loro via. Gli atti accidentali dell' uomo sono sensitivi ed intellettivi . E in quanto sono sensitivi, si spiegano al modo detto. In quanto poi sono intellettivi, non si possono spiegare se non ricorrendo al termine loro proprio, che è l' idea che attua l' attività intellettiva, l' oggetto, l' essere in universale. L' essere in universale è semplicissimo e per sè stesso immutabile; onde l' intelletto, come tale, è pure immutabile nell' ordine della natura, e non suscettibile che di una mutazione soprannaturale, quando l' essere ideale gli si realizza dinnanzi; il che non accade che nell' ordine della grazia e della gloria, fatto superiore all' umana filosofia. E` vero che si può dubitare se lo stesso essere ideale risplenda di egual luce a tutti gli intelletti umani; ad ogni modo io inclinerei a dedurre la primitiva diversità degli ingegni dall' ordine razionale, anzichè dal solo ordine intellettivo. L' ordine razionale comincia colla percezione fondamentale e il suo sviluppo, tostochè l' uomo percepisce le realità esteriori nell' idealità. Gli atti delle percezioni dipendono adunque dalle realità, che cadono nel suo sentimento; e quindi si spiegano anch' essi ricorrendo alla varietà del termine della percezione e all' attività razionale primitiva, per la quale l' anima è sempre tesa e per così dire inarcata verso il termine percettibile, che gli si presenta nel sentimento, senza bisogno di riporre alcuna mutazione spontanea cominciante in questa stessa attività primitiva. I bisogni poi determinano la riflessione dell' uomo, e questi atti riflessi rimangono spiegati allo stesso modo, perocchè i bisogni si fanno sentire dapprima nell' animalità. Solamente quando l' uomo è giunto all' uso della propria libertà (1), si presenta in lui un genere di atti affatto nuovo, la cui spiegazione sembra richiedere che l' agente si muova siffattamente da sè, che il passare dalla potenza all' atto non dipenda dal termine, ma dal principio operante. E qui sta appunto la difficoltà maggiore, nello spiegare cioè come quegli atti accidentali non tolgano l' unità del principio agente. La quale difficoltà è tanta che colui, che pur giunge ad intendere lo scioglimento di questa specie di mistero filosofico, trova somma difficoltà ad aprire il suo pensiero in parole per modo da farsi altrui ben intendere. Il che tuttavia noi tenteremo di fare. In prima si ricordi che la libertà (parliamo di libertà bilaterale) è la facoltà di eleggere fra due volizioni (2). Di poi si consideri come non vi ha luogo a vera libertà bilaterale se non nell' ordine morale, quando si tratta di eleggere fra una volizione consentanea alla legge e la sua contraria; perocchè fuori di questo caso non vi è ragione che possa indurre l' uomo a posporre il bene al male soggettivo, o il maggior bene al minore bene soggettivo (3). Ma qualora si tratta di porre a confronto l' ordine soggettivo coll' ordine oggettivo7morale, allora s' intende come possa essere che l' uomo anteponga il minor bene oggettivo7morale al maggiore fra i beni soggettivi; ovvero anche faccia il contrario, anteponendo il bene soggettivo a qualsivoglia gran bene oggettivo7morale. La ragione di ciò si è che l' ordine soggettivo e l' ordine oggettivo7morale non appartengono alla stessa categoria, nè i gradi loro si possono confrontare o commisurare insieme; onde niente hanno di comune, nè la specie, nè il genere, e però neppure vera somiglianza, nè manco vera analogia. Quindi se si considera il bene morale puramente tale (il quale si scorge nella necessità dell' obbligazione morale), egli non ha forza per sè solo di staccare l' uomo dal bene soggettivo, col quale venisse in collisione, se l' uomo stesso non vi pone della sua forza, e a favor suo non si determina; nel che consiste appunto la libertà. L' ordine morale adunque, ossia l' ideale7morale (la legge), è il termine dell' attività morale, come il bene soggettivo è il termine dell' attività reale. Essendo questi due termini categoricamente distinti, anche le due attività che sorreggono ed attuano, sono categoricamente distinte, e ciascuna di esse varia i suoi atti accidentali secondo le mutazioni del proprio termine. Ma poichè l' anima ha questo doppio termine, ella ha una doppia attività categoricamente distinta, i cui termini non potendosi commisurare insieme, quando vengono in collisione, non possono determinarla a spiegare piuttosto l' una che l' altra, onde ella stessa deve entrare in campo e decidersi; e in questo, per dirlo di nuovo, sta la libertà. Ora tutta la difficoltà consiste nello spiegare come l' anima, essendo unica, abbia queste due attività sì distinte, e possa liberamente aderire piuttosto all' una che all' altra, senza essere da niuna di esse determinata. Ora, che l' anima umana, essendo unica, abbia due termini, non è assurdo, poichè la duplicità sta nei termini e non nel principio; che in lei si suscitino due attività, è conseguente alla duplicità del termine, poichè abbiamo detto che il termine aderente attua il principio a cui aderisce; essendo dunque i termini categoricamente distinti, devono suscitare nell' anima due attività categoricamente distinte. Ma il difficile sta primieramente a spiegare come queste due attività, essendo categoricamente diverse, possono avere un unico principio, cioè l' anima. A tal uopo conviene considerare che le categorie conseguono alle forme dell' essere. Noi abbiamo detto che l' essere identico è in tre forme o modi, cioè nel modo reale, ideale e morale . Nell' essere dunque, nell' unità dell' essere convengono le tre categorie, benchè distinte fra loro assai più che genere da genere, ed incomunicabili. Trovato il nesso, ossia la sede unica delle categorie, dove vi è un' unità semplicissima con una trinità distintissima, si potrà intendere ancora come l' essere, che si comunica all' anima sotto la categoria reale e sotto la morale, possa mantenere nell' anima l' unità e non distruggerla, solo che si concepisca nell' anima anteriormente all' attività reale ed all' attività morale, e contemporaneamente una attività che riguarda l' essere nella sua unità; e questa attività si prova di fatto essere nell' anima, solo considerandosi l' intelligenza che ha per termine l' essere. Poichè, quantunque questa facoltà abbia per termine l' essere sotto la forma ideale, tuttavia ella ha prima ancora per oggetto l' essere puro , non potendosi comunicare colla forma ideale dell' essere senza comunicare coll' essere stesso, che in questa forma si manifesta. Onde anche nell' anima vi è unità e trinità di efficienza, vestigio manifestissimo della divina Trinità. In quanto adunque l' anima comunica coll' essere, ella ha un' unica attività, dove si unificano tutte le altre anche categoricamente distinte, siccome sono le due attività, reale e morale, di cui parlavamo. Non è dunque assurdo che come l' essere, essendo unico e semplicissimo, tuttavia ha tre forme, così l' anima, a cui l' essere si comunica, benchè semplicissima, abbia nell' unità sua tre attività categoricamente distinte. Ma rimane sempre a spiegare come quella attività unica che risponde all' essere, nella quale si unificano le due attività reale e morale, che rispondono alle due categorie dell' essere, possa determinarsi da sè stessa a preferire gli oggetti dell' una agli oggetti dell' altra quando vengono in collisione, per modo che non possa abbracciare gli uni e gli altri ad un tempo. A giungerne a capo (ed è l' intento di tutto il nostro ragionamento), conviene considerare che nell' essere intero, completo, assoluto, le sue forme non possono venir mai in collisione fra loro (1). E come la forma reale ha ragione di principio, la forma ideale di mezzo, e la forma morale di fine, così l' ordine di questo essere è tale, che la forma morale sta alle altre quasi loro compimento e perfezionamento. Quindi anche dove l' essere è partecipato con limitazione, la forma morale ha questo di proprio, che non può mai perdere la ragione di fine e di perfezione, che ne forma il concetto. Qualora dunque ella fosse posposta alle altre, e fatta servire siccome mezzo, o al tutto negletta, vi sarebbe disordine, cioè distruzione dell' ordine intrinseco e naturale dell' essere; vi sarebbe intestina lotta nell' essere medesimo, tendente a distruggerlo, poichè l' essere non può esistere se non coll' ordine suo proprio. Quindi l' anima, o una intelligenza qualunque avente a suo termine l' essere colle sue categorie, deve necessariamente nel suo primo atto serbare quell' ordine che gli somministra l' essere, il quale la sostiene e la attua colla comunicazione di sè stesso. Di che seguita che, qualora l' anima (non guasta ancora) operasse secondo questa sua prima attività così ben ordinata, nelle sue operazioni conserverebbe un ordine del tutto analogo e corrispondente all' ordine dell' essere stesso; e dall' ordine dell' essere sarebbe determinata ad operare con morale perfezione. Si deve dunque supporre che vi sia nell' anima una spontaneità di moralmente operare, cioè di tenersi sempre al bene morale, senza mai sacrificarlo al bene reale. Con ciò si restringe la nostra questione, poichè ella si riduce a spiegare come l' anima possa abbandonare l' ordine morale per correr dietro al bene semplicemente reale o soggettivo, cioè come sia possibile il peccato; perocchè spiegato questo, rimane spiegata altresì la libertà e gli atti suoi accidentali. E` dunque da considerarsi che l' anima, in quanto possiede l' attività reale, è mobilissima, cioè basta qualunque bene e qualunque male, quantunque piccolo egli sia, per determinarla all' operazione (1). E fino a tanto che questa operazione non si oppone all' ordine morale, ella opera secondo la spontaneità propria della sua attività reale. Ma allorquando l' operazione si oppone all' ordine morale, allora vengono in collisione dinnanzi a lei due attività, che la determinano in senso contrario, ciascuna delle quali, se fosse sola, basterebbe a farla operare, ma essendo l' una in opposizione dell' altra, quale vincerà? L' attività morale è superiore in quanto all' eccellenza e all' ampiezza del termine che la produce, poichè il suo termine è l' essere nel suo completamento e nella sua ultima perfezione, la quale abbraccia tutto. Onde se quest' ordine morale operasse nell' anima con quella efficacia di cui sarebbe capace, dovrebbe prodursi una spontaneità sempre mai prevalente. Ma questo ordine, benchè sia il termine dell' anima, non opera su di lei con sì piena efficacia. Quindi è che ella intende bensì la dignità di lui e la necessità assoluta di preferirlo, ma non ritrae indi la forza necessaria a reprimere la spontaneità dell' attività reale. Tuttavia ella può riuscire a ciò, ma ad una condizione, che da sè stessa si unisca più strettamente al termine morale che la informa e la attua, e così cresca la forza salutare di questo termine su di lei, onde ella stessa s' avvigorisca moralmente. Di ciò fare ella ne vede la necessità, come dicemmo; e il vederne la necessità non la determina certamente, ma la avvisa che, se ella vuole, può determinarsi da quella parte; dico se ella vuole, cioè se ella cresce il vigore della sua spontaneità morale con istringersi più intimamente al termine morale, con che riceve aumento di forza (2). Così il vedere la necessità morale , questo speciale termine della sua intelligenza, è il fonte della sua libertà, perchè sa per esso di potere e di dovere, benchè non sia determinata a volere. L' intelligenza adunque è il fonte della libertà, poichè l' intelligenza rappresenta all' anima l' ordine morale e la sua necessità suprema; le rappresenta che da quest' ordine le può venire quella forza che non ha, e che dipende da lei l' avere. Come dunque le altre attività dell' anima si determinano ai loro atti dagli oggetti o termini loro, che le attuano e le sorreggono, perchè tali oggetti sono determinati, così la libertà è determinata dal suo oggetto; ma questo oggetto, che è quello dell' intelligenza, abbracciando le due parti opposte, il reale e il morale, non la determina all' uno di essi; ma trovando l' anima in questo oggetto la possibilità di far prevalere il morale, perchè gliene viene rivelata l' eccellenza suprema, ed anche la necessità, e finalmente la potenza illimitatamente attuabile, ella rimane capace di determinarsi da sè stessa dalla parte migliore, o di cedere alla peggiore. Concludiamo: ogni sostanza reale, quando per la congiunzione ontologica sostiene ed attua un' altra sostanza, le dà un' attività determinata; ma l' essere ideale, congiunto ontologicamente con un' altra sostanza (l' anima), non le dà un' attività determinata, ma solo la potenza di determinarsi. Ma le potenze, che si rinvengono nell' anima, sono esse distinte dall' essenza dell' anima? In primo luogo si distingua fra la potenzialità generale dell' anima e le potenze speciali . Ora noi dobbiamo parlare della potenzialità dell' anima in genere, e cercare come ella si distingua dall' essenza dell' anima; perocchè della distinzione delle potenze fra loro parleremo nei libri seguenti. La potenzialità dunque dell' anima si concepisce dai filosofi in due modi: I - Come il principio dell' anima separato dal suo termine; e questa nozione rappresenta al pensiero un principio informe, il quale non è più anima, nè cosa dell' anima, perchè non ha alcun atto proprio dell' anima, neppur quello di suo principio, chè non è più se si stacca dal suo termine. Che se questa potenzialità si considera in relazione col suo termine, e non da lui separata, in tal caso cessa di essere potenzialità, perchè è atto primo, è l' anima (1). II - O come il principio dell' anima informato dal suo termine, ma da un termine, come già dicemmo, variabile . - Ora questa variabilità, che è la causa delle potenzialità, spetta al termine dell' anima e non al principio, che è l' anima stessa, la quale dal suo termine viene diversamente attuata. Onde questa, che è la vera potenzialità, rimane distinta dall' essenza dell' anima, la quale si potrebbe concepire anche se il termine non variasse giammai. A ragion d' esempio, non si può concepire anima sensitiva senza un sentito , ma questo sentito può essere vario in mille modi, e variare da un modo all' altro. Quindi ciò che si esige a concepire l' anima (a pensare la sua essenza) è un esteso sentito, ma senza bisogno di determinare la qualità di questo sentito esteso. Nel concetto dell' anima adunque, in cui si pensa l' essenza e non più, rimane indeterminato il sentito. In quanto adunque l' anima ha un sentito esteso qualunque, ella si concepisce nella sua essenza; in quanto l' anima può avere l' uno o l' altro sentito, si concepisce nella sua potenzialità . La potenzialità dunque è diversa dall' essenza dell' anima. Lo stesso ragionamento si può fare dell' oggetto, che è termine dell' anima intellettiva, solamente che l' anima intellettiva ha un oggetto determinato, che è l' essere in universale; e la variabilità non cade in lui propriamente, come quello che è immutabile, ma nelle realità, che in lui e per lui si conoscono (2). Ma perchè i termini dell' anima sono variabili? La ragione si è perchè i termini suoi sono limitati; giacchè in ogni limitato si può concepire variazione, e più e meno. Se all' incontro esistesse un ente, il cui termine fosse tutto l' essere e conseguentemente tutto l' ordine dell' essere, questo ente non avrebbe potenzialità di sorte alcuna, ma sarebbe puro atto. Perocchè tutto l' essere con tutto il suo ordine è perfettamente uno ed immutabile; il che si prova all' uso dei matematici, per l' assurdo che ne verrebbe dal supporre il contrario. Infatti supponiamo che nascesse variazione nel tutto. Ogni variazione appartiene all' ordine dell' essere. Dunque il termine dell' ente non era tutto l' essere con tutto il suo ordine, contro il supposto; perocchè dall' ordine mancava quella variazione, che ne è seguita. Quindi Iddio solo di necessità non può avere alcuna potenzialità, ma egli è atto puro; perocchè il suo termine è tutto l' essere con tutto l' ordine dell' essere, perocchè è sè stesso. Quindi ancora ciò che si concepisce in Dio come potenza, non può distinguersi dalla sua essenza senza errore. Deriva ancora da ciò quest' altra conseguenza, che se si concepisce una potenza che sia la stessa essenza dell' essere, anche gli atti, che si attribuiscono a questa potenza, debbono identificarsi coll' essenza dell' essere, dovendo essere un atto solo, che abbia per termine tutto l' essere nella sua perfetta unità e semplicità (1). E tuttavia l' essenza dell' anima è il fonte delle sue potenze, poichè consistendo l' essenza dell' anima nella natura di principio , il quale viene attuato dal suo termine, è chiaro che è il principio , cioè l' anima , che, attuata diversamente dai diversi termini, fa tutti quei diversi generi di atti, a cui si riferiscono le potenze; onde l' anima è dichiarata dal sommo filosofo italiano il principio degli atti, ma il principio remoto, laddove le potenze il principio prossimo (2). Rimane che parliamo degli abiti, e che dimostriamo come la loro moltiplicità non nuoccia all' unità dell' anima, a quel modo che abbiamo dimostrato questo stesso della moltiplicità degli atti e delle potenze. E la via ci è aperta da quello stesso che abbiamo fin qui ragionato. Ma per procedere più chiaramente, cominciamo dal definire che cosa s' intenda per abito, fissandone bene la natura. L' abito , in generale, è una certa disposizione acquisita ed accidentale dell' anima, per la quale ella è posta in uno stato migliore o peggiore, ed è più atta ad operare in un dato modo (1). Quindi la parola abito riceve due significati principali: o si considera relativamente all' essenza dell' anima, o relativamente alle sue potenze. Se l' abito si considera relativamente all' essenza dell' anima, egli è quello che aggiunge qualche cosa in meglio od in peggio allo stato naturale di lei, e perciò pone l' anima in uno stato migliore o peggiore di quel che ella avrebbe priva di lui. Se poi si considera relativamente alle potenze dell' anima, l' abito è una disposizione che dà loro maggior facilità di operare in un dato modo, ordinato o disordinato, buono o cattivo. Ad esempio del primo di questi due significati, recheremo la condizione dell' anima resa moralmente migliore da un atto di virtù o dall' acquisto di un merito, ovvero resa peggiore da un peccato o dalla commissione di una colpa. Ad esempio del secondo, valgano tutte le arti, le quali altro non sono che disposizioni acquistate di operare facilmente in un dato modo, per produrre ciò che l' arte intende produrre. Ora, se ben si considera, non sarà difficile accorgersi che l' abito in entrambi i significati conviene propriamente all' anima intellettiva e morale, e che all' anima sensitiva non conviene, in senso proprio, se non nel secondo significato. La ragione di ciò si è che l' anima meramente sensitiva, non avendo alcuna personalità, nè essendo causa delle proprie azioni, nè avendo alcuna norma ideale da seguire, non è suscettiva se non della perfezione naturale di fatto. Onde un' anima sensitiva può essere più o meno perfettamente naturata di un' altra, ed anche la stessa anima può acquistare e perdere, ma ella acquista e perde della natura, e non dell' abito che la rende migliore o peggiore. A ragion d' esempio, se un' anima sensitiva ha un termine maggiore, più molteplice, più organato a conservare la vita, più eccitante, quell' anima è maggiormente attuata; ma questa maggiore attuazione è della stessa indole dell' attuazione naturale; onde si deve dire che la sua natura è cresciuta o diminuita, non che ella è migliorata o peggiorata, se non in un cotal senso traslato, in quanto si riferisce dall' uomo alla idea archetipa di quell' animale. Così pure un corpo se è più grande, non è che sia migliore, o che abbia un abito; soltanto egli ha più quantità di materia. All' incontro le potenze dell' anima sensitiva possono avere degli abiti, intendendo la parola abito nel secondo significato, cioè come una disposizione della potenza ad operare in un dato modo. L' anima razionale poi, avendo una norma ideale da seguitare, non è solamente suscettiva di avere più o meno attività naturale, ma ben anche di essere migliore o peggiore, secondo che è più o meno conformata alla sua norma, dalla conformazione alla quale ella riceve dignità, merito, diritto al bene eudemonologico; il che non appartiene alla sua natura propriamente, poichè è una relazione con cosa diversa da lei; e perciò appunto si dice abito, perchè ella acquista una condizione migliore o peggiore in virtù di tale relazione, la quale relazione è migliore o peggiore; onde la bontà o malvagità della relazione si riflette sull' anima. Ove ancora rimane chiarito come l' anima possa avere degli abiti soprannaturali, se si congiunge a lei Iddio, il quale, non essendo oggetto naturale, non appartiene alla natura dell' anima, ma è cosa che le viene dal di fuori, benchè in qualche modo questa maniera di abiti aggiunga all' essenza dell' anima ciò che niun altro abito le aggiunge, quasi una nuova natura. Venendo ora a parlare degli abiti nel secondo significato, cioè come disposizioni delle potenze ad operare in un dato modo, conviene circa la loro natura più cose osservare. E primieramente è da osservare che la classificazione degli abiti delle potenze deve seguire necessariamente la classificazione delle potenze. Ora le potenze sono di due maniere: altre hanno uno scopo solo, altre poi, superiori, sono ordinate a reggere e a dar ordine alle inferiori. Quindi anche gli abiti o perfezionano la potenza rispetto al suo proprio scopo, o perfezionano l' ordine fra le potenze, disponendo bene ed avvalorando quelle che debbono reggere le altre. Quantunque poi l' abito di sua natura perfezioni la potenza, tuttavia talora produce indirettamente un danno ed un disordine nel soggetto; e ciò avviene quando l' abito perfeziona quelle potenze, che debbono essere dirette e subordinate, dando loro una forza e prontezza di agire maggiore di quella che non abbia la potenza ordinatrice; nel quale caso la potenza perfezionata dall' abito rimane sbrigliata, e adduce il disordine, e talora la distruzione dell' ente. Vediamo ora come gli abiti si producano; al che ci fa strada l' aver veduto come si producano e costituiscano le potenze e i loro atti accidentali. Noi abbiamo detto che gli atti accidentali nascono pel cangiamento accidentale del termine che informa l' ente; questi atti secondi suppongono l' atto primo, cioè l' ente stesso informato. Ora nell' ente informato vi è principio e termine; e il termine è quello che suscita l' attività del principio, qualora il termine si cangia accidentalmente in modo da suscitare l' atto accidentale e secondo. Ora, benchè questo atto sia transeunte, tuttavia, anche cessando, lascia nel principio un resto di attualità; onde il principio più attuato si fa più pronto; perciò è più energico a rispondere ad un nuovo eccitamento che egli riceva dal termine, che s' immuta per la seconda volta nel modo stesso in cui si è immutato la prima, quando suscitò la prima volta l' atto accidentale. Secondo questa legge apparisce come la frequenza degli atti, quanto è maggiore, debba produrre un abito maggiore, benchè l' abito incominci pure col primo atto accidentale. Forse si dirà non potersi capire come il principio di un ente debba rimanere più attuoso quando cessa l' atto accidentale, posciachè il cessare di questo atto involge che sia tolto il termine che lo suscitò. Che se la cosa fosse tuttavia così, non sarebbe più vero che l' attualità nel principio di un ente dipenda, come si supponeva, dall' azione e dall' inerenza del termine; ma si dovrebbe cercare un' altra cagione della maggiore o minore attuosità del principio, indipendente da quella che gli viene dal termine, se, anche cessato questo, egli resta più attuoso. Al che rispondiamo che quando cessa l' atto transeunte, non cessa del tutto l' inerenza del termine. E ciò si vede sì negli atti delle facoltà sensitive, come in quelli delle facoltà razionali. E veramente in quanto alle facoltà sensitive, dopo avuta una percezione esterna o provato un sentimento passivo od attivo, rimane nel senso il vestigio dell' una e dell' altro. Infatti è cosa indubitata che il principio sensitivo conserva nel suo sentito una modificazione prodotta dall' azione dei corpi esteriori sul corpo da lui avvivato, anche quando essi hanno cessato di agire; è indubitato che una passione qualsiasi o una inclinazione istintiva rimane, anche dopo cessata un' azione nel nostro sentito. E queste modificazioni permanenti sono la cagione degli abiti, o piuttosto sono la stessa attività abituale del principio sensitivo. Il che meglio s' intenderà, quando si consideri che l' attività del principio sensitivo è più ampia ed estesa che non sembri, non terminando ella già nella sola sensazione, nel solo sentito, ma operando sul sensifero. Ad ogni mutazione del sentito, ella sorge ad operare sul sensifero, per accomodarlo a sè siffattamente da trovarsi il meglio che ella possa; di che le viene la sua virtù organizzatrice. Quindi, dopo avere ella provate certe sensazioni, e, coll' attività per esse in sè suscitata, avere accomodato a sè medesima il sensifero nel modo più opportuno che per lei si possa, ella è rispettivamente migliorata di condizione. Il che via più si scorge, se si considera la legge dell' istinto sensuale , che è una parte di sua attività. Poichè il principio senziente prima d' aver provato una piacevole sensazione, non può volgere la sua attività a produrla a sè stesso; ma quando l' ha provata, allora mette tutte le sue forze a ritenerla; e non potendo ritenerla del tutto, perchè gli è tolto lo stimolo esterno che la suscita, egli la ritiene in parte, accomodando, più che egli può, ad essa il proprio sensifero, che non gli è tolto; onde si rimane in conato e tensione per riprodurla tostochè egli possa; e però allorquando gliene torna l' occasione, coll' essergli applicato nuovamente lo stimolo esterno, egli è già pronto ed avido di cooperare subitamente con esso a riavere lo stesso piacere; e ad essere in tale attività maggiore lo aiuta, come dicevamo, il sensifero da lui ritenuto in quell' atteggiamento che fa bisogno per esserne così attuato, od averlo pronto all' effetto. Poichè la piacevole sensazione non sorge già per la sola opera dello stimolo esterno; ma intervengono principalmente a suscitarla i movimenti del sensifero, i quali pure dipendono da quella disposizione dell' anima, che sorge durante l' atto accidentale, e che, cessato, non cessa interamente, non cessando il sensifero da rimanersi attuato al bisogno, quantunque cessi lo stimolo esteriore. Della qual dottrina è conferma il vedere che gli abiti sensitivi cessano, ove il corpo umano e però il sensifero sia mal disposto, come cessa la stessa attività sensitiva, se quello le venga disorganizzato e distrutto. Così adunque si spiegano gli abiti delle facoltà sensitive e tutto lo sviluppo dell' istinto sensuale, che appartiene principalmente ad un' attività abituale. Quanto poi agli abiti delle facoltà razionali, essi si spiegano in un modo somigliante, per via di quel termine che rimane quasi infisso nell' anima, anche cessati i sentimenti corporei che occasionano il ragionamento. E veramente nell' ordine della razionalità vi è: Un termine costante e immutabile, il quale è l' essere indeterminato nella sua forma ideale. Di poi vi sono le percezioni, le quali sono atti transeunti. Ma posciachè esse lasciano nel sentimento, come abbiamo detto, dei vestigi, degli istinti suscitatori d' immagini e di altri sentimenti attivi e passivi, in questi vestigi e rimasugli si contiene lo stimolo agli atti dell' intelligenza, coi quali si suscita l' attività dei concetti, ecc.. Il linguaggio pure appartiene all' ordine sensibile, in quanto si compone di suoni e di altre sensazioni, le quali lasciano i loro vestigi del pari nella sensitività interiore. Cogli abiti adunque delle facoltà sensitive e cogli istintivi movimenti si spiega come la potenza razionale sia suscitata e tratta a molti suoi atti dal sensibile, anche quando niuno stimolo esterno opera nella sensitività. In terzo luogo avviene dell' attività razionale quel medesimo che della sensitiva; dopo fatto un atto, ella ritiene la propensione a ripeterlo, e ciò a cagione che rimane qualche cosa dell' oggetto nell' intelligenza. Questo s' intende quando si considera che l' oggetto della ragione è il sensibile, considerato come ente. L' ente appartenendo unicamente all' intelligenza, ella ne ritiene il concetto (ideale), anche passato l' atto del percepirlo. Ma due cose qui rimangono da investigare: Se il concetto ideale possa rimanere, senza che vi sia alcun vestigio sensibile a cui riferirlo. Se possa rimanere la percezione dell' esistenza reale dell' ente concepito. Quanto al primo, noi teniamo che il concetto determinato di un ente non si possa pensare attualmente, senza che egli si riferisca a qualche vestigio della realità. Tuttavia, durante questo vestigio è certo che l' attività intellettiva acquista degli abiti rispetto a lui. Contro la prima parte di questa nostra posizione nulla prova il fatto degli astratti , i quali non sembrano riferirsi a nessun vestigio di realità; poichè, se ben si considera, essi si appoggiano e si riferiscono pure a qualche elemento di vestigio, benchè non all' intero vestigio. Laonde pare che la mente possa pensare attualmente gli astratti, solo allora che ella venga a ciò aiutata da qualche vestigio di loro realità. Quanto poi alla persuasione della loro sussistenza esperimentata in passato, si richiede qualche prova a convincersi che un ente, di cui si esperimentò la sussistenza in passato, sussista anche in presente, ed ogni prova involge qualche percezione di realità. Del pari ad essere persuaso di avere percepito in passato un sussistente (cioè ad averne memoria), sembra indispensabile l' aiuto di qualche sensibile vestigio, giacchè il sensibile talora è la materia propria della cognizione razionale, talora è lo stimolo al suo atto, come si dirà a suo luogo. Quindi è che gli abiti delle singole potenze razionali dovrebbero interamente cessare, se venisse tolto all' anima ogni sentito corporeo, e non gliene fosse dato alcun altro, che avesse con quello alcuna relazione. Non procede però da questo che cessino interamente gli abiti remoti del principio razionale, perocchè l' anima separata conserva, come abbiamo detto, il principio dello spazio, che è il principio remoto del corpo, e questo principio può essere subbietto di abiti remoti, reliquie degli atti del vivente. Conosciuta così la natura degli abiti, e come essi sieno attività mantenute dai termini dell' anima che suscitano gli atti e le potenze, è chiaro che neppure la loro moltiplicità pregiudica all' unità dell' anima; conciossiachè la moltiplicità non dipende dall' anima, ma dai suoi termini; e le diverse sue attività si riducono all' identico principio, che astrattamente si può concepire come una cotale attività per sè indeterminata, che variamente si attua secondo il variare dei termini suoi. Il quale pure, unito ai suoi termini, ha un' attività propria, perchè egli è sostanza dai suoi termini distinta; e però cresce di attuosità e di tensione; ma diviso interamente dai suoi termini già non è concepibile, e per ciò stesso neppure possibile. E` ammesso da tutti che l' anima è il principio di tutte le sue operazioni e di tutte le potenze; ma alcuni dicono che il subbietto delle potenze, che hanno bisogno di organo corporale, è il composto, e non l' anima sola (1). Il che è vero sotto un aspetto, cioè in quanto che l' anima non potrebbe avere una speciale sensazione, se non fosse fornita del corpo organico; le sensazioni speciali adunque (e lo stesso dicasi d' ogni altro atto, a cui abbisognano organi corporei) non si hanno dall' anima per un' attività sua propria, e non in lei suscitata. Ma noi abbiamo dimostrato che gli atti, le potenze e gli abiti, dipendono dalla stessa legge, cioè « sono attività suscitate nell' anima da entità diverse dall' anima, ma ontologicamente a lei unite come forma e termine ». Di che avviene che il composto non possa essere il soggetto nè delle potenze, nè degli atti, nè degli abiti, perchè ciò che nel composto non è l' anima, ha ragione di termine e non di principio, e il soggetto ha sempre ragione di principio (1); ma l' anima sola, appunto perchè ella è in egual modo il principio di tutte queste sue attività. Solamente che alcune hanno bisogno di un termine, ed altre di un altro termine. Così la potenza intellettiva deve avere per termine l' essere ideale, le potenze sensitive il corpo colle sue mutazioni, e le potenze razionali l' uno e l' altro annodati. Dissero gli antichi la Filosofia andar contenta di pochi giudici (1). E a fine di cessare da lei la moltitudine, i maggiori savi in segreto affidavano ad orecchi sceltissimi di provati discepoli il più sincero frutto di loro meditazioni. Noi all' opposto amiamo il popolo, parliamo a tutto il genere umano; quello che crediamo poter dire a un uomo, ci rallegriamo che sia detto a tutti. E ciò nonostante, il solo giudizio di pochi ci appaga; chè gli uditori o i lettori hanno tutti diritto di giudicare, a condizione che sappiano; ma i più non sanno, e questi provvederebbero alla propria dignità e all' avanzamento della scienza, se udissero tacendo. Perocchè anche gl' ingegnosi, che non ebbero voglia od agio di cercare il fondo delle questioni, distratti dai negozi della vita o da altri studi, ovvero che non credettero necessario impiegarvi diligente meditazione (volgare pregiudizio e comune consuetudine!), e però non giunsero a produrre a sè stessi una chiara ed intima persuasione della verità, profitterebbero meglio al decoro proprio ed a quello della filosofia, astenendosi dall' infrascarla e confonderla con imperfetti ragionamenti. E tuttavia molti di questa medesima schiera, invece di fare ingombro, potrebbero esserle di gran pro, qualora fra noi una critica severa castigasse gli scrittori troppo confidenti ed incuriosi, e una novella educazione, rendendo viva e gagliarda la morale nazionale (come oggimai pare indubitato che avverrà), accrescesse la dignità degli scrittori, e facesse loro sentire onesta vergogna di scrivere quanto non ebbero maturamente pensato e lungamente meditato. La qual vergogna nobilissima chi è ora che senta? Chi dimostra persuasione che all' ufficio dello scrittore debba presiedere la coscienza? O almeno quanto pochi stimano essere un dovere morale il ben pesare, prima di comunicarle al pubblico, le proprie opinioni, e ridurle a quella chiarezza e certezza, che possono ricevere da pazienza di assiduo studio, e il non confondere con concetti indigesti le menti altrui? Laonde io non mi prenderei meraviglia, se udissi condannare, con quella sicurtà che sogliono, non tutti per grazia del Cielo, ma pure alcuni dei nostri connazionali, le questioni svolte nel libro precedente siccome inutili, difficili, e però fastidiose; quasicchè le verità, che riguardano l' umanità ed altri esseri, si potessero rendere facili o difficili a nostra volontà; o convenisse meglio appagarsi di quella superficialità di scienza, che è dottrina mentita e presuntuosissima, anzichè adoperarvi fatica ed amore, e farsi discepoli alla natura, disposti di seguitarla coraggiosamente, quanto ci basta la lena, per tutto dove ella si avvolge fino addentro ai suoi più cupi recessi. Il che se fosse, lasciando noi giacere cotesti Italiani in su quei loro morbidi origlieri, e cantarci eziandio fra la veglia e il sonno il « pochi compagni avrai », noi riprenderemo il filo interrotto del nostro ragionare, sordi al dileggio, e così ci verremo continuando: Fin qui, o miei generosi lettori, noi svolgemmo la distinzione fra l' essenza dell' anima e le sue potenze o attività, e vedemmo come quella sia unico principio, queste sieno molteplici; di che ci diede ragione una bellissima legge ontologica della comunicazione degli esseri, per la quale molti e diversi possono comunicare con uno, e suscitare in lui medesimo diverse attività relative alla loro varietà. Il che non toglie l' unità del principio; chè egli si rimane sempre un primo ed unico atto, che abbraccia virtualmente gli atti secondi e molteplici; così essendo fatto l' ordine dell' essere, che quelle entità che sono molteplici considerate in sè stesse, sono une, considerate nel loro comune principio. Ora poi ci rimane a distinguere le attività dell' anima fra loro, deducendole dall' essenza, cioè dimostrando come di mano in mano vengano fluendo da quell' atto primo, uno ed ampissimo, che in virtù le contiene. Al quale intento rammentiamoci che l' anima non si può dividere realmente, senza distruggersi. E tuttavia, noi lo vedemmo, ella ha una costituzione sì fatta che le bisognano due entità per esistere, l' una principio , e questa è ella stessa; l' altra termine , il quale non è dessa, ma sì è suscitatrice di sua attività, condizione senza la quale ella stessa non è. Quindi se il principio si stacca da ogni suo termine, ci svanisce in nulla; ma unito al suo termine, egli è qualche cosa di ben distinto da questo; ha un' attività sua propria, benchè ella sia suscitata dal termine quasi causa della forma. Altra è dunque l' attività suscitata dal termine, che pone in essere il principio; altra è l' attività di questo principio già posto in essere. Le potenze sono determinate dal termine, e variano secondo il variare di esso; gli abiti procedono, come da loro fonte, dall' attività propria del principio già costituito. Ora quali sieno le leggi, secondo le quali l' attività propria del principio cresca, diminuisca, si modifichi indipendentemente dal termine, questo, noi dicemmo, non si può dedurre a priori, ma si deve rilevare dall' attenta osservazione. L' osservazione poi ci attesta che il principio ha tal virtù, per la quale egli si sforza di tenere a sè unito il termine suo, e di conservarlo in quell' atteggiamento e in quella disposizione che più gli piace, od anche di modificarlo alquanto per atteggiarlo così, ed anche stringerlo a sè con più intenso legame; i quali sono quattro modi diversi, in cui il principio, ossia l' essenza dell' anima, spiega la sua attività. E da questi modi nascono gli abiti, pei quali le potenze operano più facilmente , più prontamente , più efficacemente e più dilettosamente . Poichè, quando l' anima esercita qualche sua attività, sente diletto; chè ogni attività è in lei essenzialmente sensibile e dilettevole, in quanto è attività; e l' esercizio dell' attività è attività anch' esso, e però anch' esso è dilettevole. Ora, cessato l' atto accidentale, rimane nell' anima un resto del provato sentimento; la quale ritentiva del sentimento dilettevole cresce l' attività, che intende a riprodurlo rinnovando l' atto accidentale; questa propensione attiva è appunto l' abito. Come poi perdura nell' anima quel rimasuglio di sentimento provato nell' esercizio dell' attività? Per l' attività propria dell' anima stessa, che tiene seco unito, come dicevamo, e a sè stringe, quanto mai può, quel termine che le suscitò l' atto dilettoso; e lo tiene nell' atteggiamento convenevole a riprodurlo, ed anche l' aiuta a mettersi in tale atteggiamento, che sono i quattro modi detti, in cui il principio, cioè l' essenza dell' anima, è attiva. Nè osta a ciò, parlandosi dell' anima sensitiva, la cessazione dello stimolo esterno, che suscita la sensazione attuale. Perocchè non è lo stimolo esterno che immediatamente la suscita, ma il corpo vivente, che è termine costante dell' anima; onde, cessato lo stimolo esterno, cessa è vero la sensazione attuale, ma non cessa la disposizione del corpo animato, mantenuto dall' anima in quell' atteggiamento e mobilità necessaria a riavere prontamente e vivacemente la sensazione, tostochè lo stimolo esteriore si raccosti. Oltre di che rimangono i vestigi nella fantasia, in cui l' anima coll' aiuto degli interni movimenti casuali, che accadono nel corpo vivo dove tutto è movimento, risuscita facilmente le immagini; le quali pure appartengono agli atti accidentali della sensitività, e prestano all' anima razionale nuovo ossia variato termine, come fanno le sensazioni. Ma l' anima razionale stessa ritiene i rimasugli degli atti suoi, che costituiscono la memoria, anche cessati quegli atti accidentali. Onde i rimasugli sensibili e intelligibili, che restano nell' anima dopo gli atti accidentali, sono accrescimento del suo termine e aumento in lei di attività abituale. Quando poi l' anima razionale è pervenuta ad aver presente attualmente un fine, allora ella è fatta arbitra di molti atti sensitivi e intellettivi, che le valgono di mezzi a quel fine, onde può muoversi da sè, e accostarsi e stringersi più al suo termine, e applicare a sè gli stimoli esteriori. Il termine adunque dell' anima può ricevere cangiamento o modificazione da due parti: dal principio stesso, che è l' essenza dell' anima, e da una causa diversa dall' anima. Il cangiamento del termine si può concepire in diversi modi. Può concepirsi diviso intieramente dal suo principio, e in tal caso non è più termine. Può concepirsi che sia tolto un termine e sostituito un altro specificamente diverso, e in tal caso l' essenza dell' anima è cangiata, l' anima non è più quella di prima. Può concepirsi che il termine sia specificamente ingrandito, e in tal caso l' essenza dell' anima è quella medesima, ma ingrandita anch' essa. Ma ora noi mettiamo da parte questi cangiamenti concepibili, per parlare di quelli che non pur si possono concepire, ma avvengono ogni dì come l' esperienza ci attesta. Circa questi è da dire: Che il termine dell' anima in parte è costante e invariabile, e specifica l' anima umana, ne determina la natura. La parte invariabile del termine è duplice: a ) un esteso sentito, dove vi è continuo cangiamento di parti, causa del sentimento di eccitazione, e vi è organismo determinato; b ) l' essere ideale indeterminato. Che il termine dell' anima in parte è variabile. La quale variabilità consiste: a ) rispetto al corpo, nel cangiamento dell' estensione, del movimento intestino, causa dell' eccitamento, e dell' organismo, causa della perpetuità della vita; b ) rispetto all' essere ideale, la mutazione è soltanto dalla parte dell' anima, in quanto questa vede in lui i reali percepiti nel senso, e ne cava la dottrina della realità, onde così si arricchisce il suo oggetto, non cangiandosi in sè stesso, perocchè è l' anima che vede in esso ciò che prima non ci vedeva. Ora tutti questi cangiamenti danno luogo agli atti accidentali, i quali, cessando, lasciano gli abiti nell' anima. Gli atti accidentali adunque nascono pei cangiamenti che avvengono nei termini dell' anima, senza che si mutino questi termini specificamente. Ma questi cangiamenti, o avvengono in virtù dell' attività propria dell' anima, nel quale caso sono atti attivi , o avvengono in virtù d' una causa straniera all' anima, nel qual caso sono atti passivi . Gli abiti nascono da quel rimasuglio di attività, che resta nell' anima al cessare degli atti accidentali. Le potenze , finalmente, nascono dalla specifica diversità dei termini, accoppiata all' attività dell' anima stessa. Alla sentenza che l' attività dell' anima sorge in virtù dell' azione del termine, consegue che nell' ordine logico si concepisce prima nell' anima la passività e la ricettività , poscia l' attività . Dico nell' ordine logico , poichè non sempre nell' ordine cronologico è posteriore l' attività alla passività. Si distinguano dunque gli atti secondi e accidentali dall' atto primo, che mette in essere l' anima stessa. Negli atti secondi l' osservazione dimostra che la passività precede nell' anima l' attività, non solo nell' ordine logico, ma anche nel cronologico; giacchè prima l' anima sente e riceve, e poscia si muove ed opera. Ma questo non è possibile che avvenga rispetto all' atto primo, che è quello pel quale l' anima esiste, giacchè prima d' esistere ella non può essere passiva; ond' è forza che rispetto all' atto primo la passività e l' attività sieno contemporanee. Ma posciachè si vede che la relazione, che hanno fra loro la passività e l' attività nell' atto primo, è simile a quella di causa ed effetto, sicchè l' atto primo sorge in virtù dell' azione del termine; quindi si dice che nell' ordine logico precede la passività e l' attività sussegue, quantunque fino a che non vi è l' attività, non vi è l' ente. Nascendo dunque l' attività dalla passività, rimane a cercarsi se le potenze passive si possano dire specificamente distinte dalle attive. Stando a quello che abbiamo detto, che le potenze si distinguono secondo la distinzione specifica dei termini, propriamente parlando, la passività e l' attività non costituiscono potenze diverse, ma piuttosto diverse facoltà o funzioni della stessa potenza; perocchè l' attività è una continuazione di quel movimento che incomincia nella passività, quasi come la linea è continuazione del punto (1). Infatti il termine è nel principio come agente; quindi il principio appare passivo, ma nello stesso tempo è sorto all' atto ed alla sua operazione, e così si fa attivo, così è divenuto principio individuato. Quando poi il principio è già posto in essere, egli può da prima essere passivo al suo modo, e successivamente attivo; onde non v' è difficoltà a concepire che nel processo degli atti secondi una cotale passività preceda l' attività non solo logicamente, ma anche cronologicamente. Essendo dunque nella passività il cominciamento dell' attività dell' anima, onde nasce lo spontaneo o libero movimento del principio attivo costituente l' anima, la facoltà passiva e l' attiva, che le corrisponde, costituiscono una sola potenza, avente un solo termine, distinta però in due facoltà pel diverso modo ond' ella si esercita. Dove conviene aver presente che nell' intelletto in luogo di passività vi è ricettività , poichè il termine non è nè in tutto, nè in parte prodotto dall' attività del principio; che egli è di natura sua immutabile, inalterabile, onde fra lui e l' anima non v' è propriamente relazione di azione e passione, ma di presenza e d' intuizione. Tale è l' essere ideale; laddove il sentito riceve natura di sentito dallo stesso principio senziente, come abbiamo dichiarato, e però dal principio stesso egli è posto e costituito come tale, cioè come sentito. Si distinguono adunque le potenze come si distinguono i termini dell' anima umana, con questa sola avvertenza che i termini primieramente informano l' anima, cioè le danno il suo primo atto; di poi, modificandosi senza perdere la propria natura specifica, suscitano ed occasionano gli atti secondi. Ora l' attività dell' anima, considerata rispettivamente a questi atti secondi, si chiama potenza . Di che deriva ciò che abbiamo altrove detto, cioè che v' è nell' anima un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alla sua natura, perchè ne mette in atto l' essenza; e vi è un sensibile ed un intelligibile, che appartiene alle sue potenze, cioè alle potenze di sentire e d' intendere. Ma se la diversità dei termini è fondamento alla diversità delle potenze, noi non potremo classificare a rigor filosofico le potenze, senza indagare come i termini diversifichino specificamente fra loro. Entriamo in questa ricerca. I termini sono entità agenti nell' anima; il cercare come essi diversifichino fra loro è questione che riguarda l' ordine intrinseco dell' essere, il quale, noi abbiamo detto, non si può inventare, nè discoprire a priori, ma si deve rilevare quale egli è dall' attenta osservazione; e tanto lo conosceremo, quanto l' osservazione ci aiuta, nè un capello di più; onde dobbiamo restarci contenti a ciò che ci dà l' osservazione, se non vogliamo comporre la filosofia di vani deliramenti. Ora, tutto ciò che dall' osservazione si raccoglie circa l' ordine primitivo dell' essere, viene a questo; che qualsivoglia entità, che noi possiamo pensare, si riduce in una di queste tre categorie: 1 o ella è sentimento , oppure cosa che cade nel sentimento, per esempio la forza che immuta il sentimento; 2 o ella è idea; 3 o ella è ordine fra il sentimento e l' idea. In ciascuna delle quali categorie noi troviamo l' essere identico; e in quanto egli appartiene al sentimento, lo chiamiamo essere reale; in quanto appartiene all' idea lo chiamiamo essere ideale; in quanto appartiene all' ordine completo fra l' essere reale e l' ideale, lo chiamiamo essere morale . Riducendosi adunque a tre categorie tutte le entità possibili, forza è che anche i termini dell' anima, che sono entità, si riducano prima di tutto a questi tre modi dell' essere. Di che potremmo agevolmente scorgere che la trinità dell' anima deve apparire sì nella sua essenza , e sì nelle sue potenze; e ciò senza impedimento dell' unità, poichè in tutti questi tre modi vi è l' essere uno ed identico, non partito, ma intero. Solamente è degno di considerarsi che l' essere morale, risultando dall' unione dei due primi, nell' ordine logico sembra ai due primi posteriore. Ma è da distinguere l' ente finito dall' ente assoluto. In questo l' essere morale non è posteriore, perocchè il completamento e la perfezione è essenziale all' ente assoluto. Ogni ente finito e intelligente all' apposto è costituito dall' essere sotto forma di realità, e dall' essere sotto la forma di idealità; ma non è necessario che vi concorra attualmente l' essere sotto la forma di moralità. Tuttavia, laddove si trovano unite le due forme di realità e di idealità, non può mancare una ordinazione fra loro; perocchè l' essere sotto questi due modi tende necessariamente a completarsi e congiungersi seco stesso, facendone risultare la terza forma, che è la forma morale in atto. Donde, se negli esseri intelligenti finiti non vi è necessariamente l' ordine morale in atto, che è ciò che si dice anche bene morale , non può tuttavia mancare la potenza di conseguirlo, ed anche la tendenza , e finalmente la necessità , acciocchè sia perfetto. Dico che non può mancare la potenza, perchè questa è annessa alla compresenza dell' essere reale ed ideale; poichè l' essere reale e ideale, come termini dell' anima, suscitano in lei due potenze. Ora queste, congiunte insieme nell' unità dell' anima, fanno luogo prima ad una terza potenza, cioè alla ragione , e poi questa alla potenza morale. Perocchè la ragione congiunge l' ideale col reale, appercependo questo nel lume di quello; e quindi ella vede quale sia l' ordine dell' essere, a cui l' anima, aderendo con tutta la sua razionale attività, si fa moralmente buona, o a quell' ordine contrastando, si fa malvagia. Ma l' anima non possiede a principio questa potenza se non virtualmente, perchè ella non ha l' ordine dell' essere presente per natura, ma soltanto ha l' essere nella sua forma ideale e in parte nella sua forma reale altresì. Onde nell' anima la potenza morale è posteriore e solamente virtuale. Conviene dopo di ciò considerare in che maniera l' essere reale e l' essere ideale concorrano a costituire l' anima; perocchè non vi concorrono al modo stesso. La differenza sta qui, che l' essere reale è principio e termine dell' anima; e in quanto è principio, egli costituisce l' essenza stessa dell' anima; all' incontro l' essere ideale non è principio, ma soltanto termine; ond' egli non costituisce l' essenza dell' anima, ma concorre a produrla siccome causa formale, o, se più piace, causa della forma, in quanto suscita in essa l' atto dell' intelligenza. Dal sapere poi che l' essere reale rispetto all' anima è di due guise, cioè principio e termine, si chiarisce via meglio come si generi l' atto dell' essere morale, perocchè l' essere morale si radica nell' essere reale in quanto egli è principio, e non in quanto egli è termine; chè la moralità ha propriamente ragione di principio e non di termine, consistendo nel compiacersi che fa un intelligente dell' essere conosciuto, in quanto è essere; nel quale compiacimento consiste l' ordine compiuto fra il reale e l' ideale. Ma quest' ordine deve essere prima presentato all' uomo dalla ragione, quale oggetto della sua attività razionale, cioè della volontà, e così costituisce il termine della potenza morale. Ora l' ordine morale nasce così: L' essere reale intelligente conosce nell' ideale l' essere sotto tutte le forme, e proporzionatamente se ne compiace. Perchè se ne compiace? Perchè lo conosce, o, che è il medesimo, lo trova nell' ideale; onde per mezzo dell' ideale si compiace dell' essere, in quanto è essere sotto tutte le forme. Questo compiacersi è l' ordine morale nell' anima, è il bene. Raccogliendo ora quanto abbiamo detto in questo capitolo, intenderemo facilmente che, essendo due i termini attuati nell' anima, due altresì debbono essere le potenze primitive, cioè la sensitività e l' intelligenza; ed essendovi un terzo termine solo virtualmente compreso nei due primi, deve esservi una terza potenza virtuale, la quale è quella della moralità. Al che aggiungendo ciò che abbiamo veduto nel capitolo precedente, cioè che ogni potenza incomincia dall' essere passiva o recettiva, e passa all' essere attiva, le due potenze della sensitività e dell' intelligenza avranno ciascuna due facoltà: la facoltà passiva e la facoltà attiva. Quanto poi alla potenza morale, non avendo termine in atto, ma solo in virtù, cioè dovendosi produrre questo termine dagli atti delle altre due potenze, o, per dir meglio, dell' anima stessa razionale che le dirige; ella non può avere passività, e quindi si rimane potenza puramente attiva; giacchè la passività, che a lei si riferisce, non è altro che quella delle potenze che la producono. E` dunque necessario distinguere due sorta di potenze nell' anima, le attuali e le virtuali , intendendosi per attuali quelle, di cui l' anima reca seco il termine nella propria natura; e per virtuali quelle, di cui l' anima non reca seco stessa il termine, ma lo produce ella medesima operando. Vero è che anche le potenze che chiamiamo attuali, fino a che si stanno immerse nell' essenza dell' anima non si distinguono, unificandosi nell' unità del principio, in cui si giacciono come quiescenti; o certo almeno non si possono distinguere come potenze, il cui concetto involge una relazione a diversi generi di atti accidentali, che sono ordinate a produrre. Ma quando gli atti accidentali nascono, quando s' immuta quel termine che è già nell' anima senza cangiare la specifica sua natura, allora appariscono le potenze, che si dicono attuali. Ora, come due sono i termini propri dell' anima umana, il sentito e l' inteso , così due sono le potenze attuali e primitive, il senso e l' intelletto , dotata ciascuna di facoltà passiva ed attiva; il senso della facoltà attiva dell' istinto, l' intelletto della facoltà attiva della volontà. Ma posti nell' anima il sentito e l' inteso, in cui terminano le due potenze del senso e dell' intelletto, sorge il termine di una nuova potenza, il quale si è l' accoppiamento del sentito e dell' inteso; pel quale accoppiamento « il sentito si conosce nell' inteso », cioè nell' idea, e conseguentemente si può volere ed amare, in quanto è conosciuto; quindi una potenza derivata, che è la ragione , il cui officio è quello di apprendere l' unità dell' ente, ossia l' identità del medesimo ente nel sentito e nell' inteso, ossia nella realità e nell' idea, come pure nell' ordine suo. Ora questa potenza, benchè sia conseguente alle due prime, e perciò si possa chiamare derivata , non è tuttavia nella natura dell' uomo solamente in virtù, ma è in atto; perocchè, come abbiamo veduto, nell' anima umana vi è una prima percezione fondamentale della propria animalità, in cui consiste l' unione dell' anima intellettiva col corpo, onde risulta il composto umano; e questa prima e fondamentale percezione è l' atto primo, pel quale la ragione esiste. Ma non basta avere nell' anima il reale e l' ideale, termini del senso e dell' intelletto; non basta neppure avere il loro accoppiamento logico, termine della ragione, a far sì che sia posta in atto la potenza morale . All' esistenza di questa è uopo che almeno esista la percezione di un essere intellettivo, a cui si possa porre tanto affetto, quanto egli si merita; il che viene a dire che lo si possa stimare ed amare per sè, non quale semplice mezzo a noi stessi, il che niente vieta di fare cogli esseri bruti. Ora in questa misura giusta della nostra stima comincia la moralità. La natura poi della moralità inchiude certa relazione a tutto l' essere, perocchè ella è quell' atto che lo compie e perfeziona, e quindi non può avere per oggetto se non l' essere intelligente che ha ragione di fine, ed ha ragione di fine perchè attinge l' infinito (1). L' uomo adunque, benchè senta, non percepisce però, nè conosce per natura alcun essere intelligente, e neppure sè stesso; giacchè la propria animalità, di cui ha la naturale percezione, non è sè stesso. Il perchè gli manca il termine della potenza morale, e se lo deve procacciare coll' uso di sua ragione. Onde la potenza morale giustamente da noi si chiama non pure conseguente e derivata , ma ben anche virtuale , non trovandosi nell' umana natura se non la virtù di produrre il termine di questa potenza, e così metterla in essere. Lo stesso è a dirsi della libertà bilaterale, che consegue all' ordine morale, come abbiamo dichiarato. Lo stesso della riflessione , che suppone dinnanzi la percezione, ed è una funzione della ragione. Dal che si raccoglie che le potenze, come pure le facoltà e le funzioni, nascono l' una dall' altra, allorquando le potenze, e facoltà, e funzioni precedenti cogli atti loro accidentali danno un prodotto, che diviene termine anch' esso dell' attività dell' anima; e termine variabile, onde l' attività, che a questo suo variare si riferisce, acquista ragione di potenza, di facoltà o di funzione. E qui stimiamo opportuno, prima di dire alcuna cosa delle potenze speciali, di porre sotto gli occhi del lettore una tavola sinottica delle potenze attuali, derivate e virtuali, acciocchè egli, considerandola, se ne rappresenti il complesso, e possa più comodamente seguirci nel viaggio che siamo per fare. Uno dei termini dell' anima umana, noi abbiamo detto, è il sentito esteso. A questo termine si riferisce la sensitività corporea. Ma non è a credersi che ogni sensitività dell' umana natura finisca qui; la sensitività corporea non è che una sensitività speciale. Si richiami alla mente che l' anima ha natura di principio, il quale non si può concepire senza concepire insieme il suo termine correlativo, di maniera che un principio senza termine è un assurdo, perciò nulla. Ma se noi concepiamo il principio unito al suo termine, abbiamo tosto il concetto di cosa, che ha la sua propria esistenza distinta essenzialmente dal termine a cui va unita, e quindi che è fornita di attività sua propria. La natura di questa attività è quella di essere sentimento, onde noi abbiamo anche definita l' anima umana un sentimento sostanziale . Ora un sentimento non si può concepire senza quei due quasi poli, che noi abbiamo nominati senziente e sentito . Se dunque l' anima umana da una parte è essenzialmente sentimento, e dall' altra ha natura di principio e non di termine, conviene dire che è essenzialmente sentita come principio, e non come avente natura di termine. Ma poichè il sentito, come tale, ha natura di termine, perciò nel principio sentito s' identificano il principio ed il termine; il che viene a dire che quell' anima stessa che sente è quella che è sentita nel suo termine, sicchè il principio, nel termine sentito, diventa sentito anch' egli, il che è quanto dire, s' individua. Si debbono adunque distinguere due maniere di sentire, quella che spetta al principio del sentimento, e quella che spetta al termine. Il principio è sensibile in altra maniera da quella in cui è sensibile il termine. Ciò che si sente è propriamente il termine, ma nel termine si trova il principio; sicchè questo viene ad essere sentito unicamente perchè aderisce e giace nel termine, la cui essenza è di essere sentito. Quindi l' anima, cioè il principio, non ha già una sensibilità propria, ma mutuata dal suo termine. Eppure il suo termine, in quanto è suo termine proprio e non straniero, è prodotto da lei stessa, appunto perchè ella ne è il principio. Ma se si considera l' anima in quel momento, nel quale ella non ha ancora prodotto il suo termine, ella è cosa del tutto insensibile, e non è anima. E quantunque quel momento si possa e si debba concepire colla mente, perchè infatti appartiene all' ordine dell' essere, tuttavia sarebbe un errore il credere che quel momento fosse un istante di tempo diverso da quello, in cui l' anima è naturata e individuata per avere prodotto il suo termine. Perocchè l' anima si natura in un solo istante, di guisa che l' anima, che produce il termine, e l' anima, che ha prodotto il termine, non si dividono per alcuna mora di tempo; ma in quel medesimo istante in cui il termine è prodotto, in quello l' anima è producente; sicchè nel prodotto si sente l' anima producente. Il principio adunque dell' atto che produce, e il compimento dello stesso atto, cadono nel medesimo istante senza pausa di sorte alcuna; e tuttavia questi sono due momenti ontologici distinguibili alla mente, la quale negli enti vede un' azione intrinseca, e in questa azione un ordine, e in questo ordine un prima e un poi diverso affatto dal prima e dal poi del tempo, non cronologico in una parola, ma ontologico. Tornando dunque al nostro proposito, quando l' anima è già formata, ella sente il principio ed il termine; ma la maniera, con cui è sensibile il principio senziente, differisce oltremodo dalla maniera, in cui è sensibile il termine sentito. Poichè: Il principio senziente non è sensibile in sè come semplicemente producente, ma pel sentito e nel sentito da lui prodotto; laddove il sentito è sentito, e perciò sensibile per sua propria essenza. Il senziente è sensibile egualmente in ogni sentito, perciò si può dire senso universale; laddove vari sono i sentiti che si escludono a vicenda, la cui sensibilità può dirsi senso speciale . Il senziente come tale è sempre identico, quantunque varii il sentito; perchè, avendo natura di principio, egli è come il vertice di un angolo uno e semplice, quantunque le due linee che lo formano sieno più o meno divergenti, e più o meno lunghe. E tuttavia il senziente si sente coi suoi nessi ai diversi sentiti, e così l' anima sente le sue potenze, funzioni, facoltà, atti, ecc.. A questa maniera, con cui l' anima sente sè stessa e tutto ciò che ella fa, noi diamo il nome di sensitività psichica . Rimane che noi diciamo qualche cosa delle sensitività speciali. Nell' anima umana noi possiamo concepirne quattro, almeno come possibili, che chiameremo corporea, pneumatica, ideologica, teorica . La sensitività corporea e l' ideologica non ammettono alcun dubbio; la pneumatica e la teorica non sono egualmente evidenti a tutti. La natura della sensitività speciale esige che il sentito sia un' entità diversa da quella del senziente. Quindi in ogni sensitività speciale vi è un' alterità , cioè l' anima sente un diverso da sè. Quest' alterità è carattere comune a tutte le sensitività speciali possibili. Ma ella si manifesta in due modi, come passività e come mera ricettività . La passività si riscontra nella sensitività corporea e nella pneumatica; la ricettività nella sensitività ideologica e nella teorica . Conviene accuratamente distinguere la passività e la ricettività , che sono i due modi pei quali l' anima sente e percepisce l' alterità, cioè un' entità diversa dalla propria. Ecco il doppio carattere che le distingue: Nella ricettività la cosa ricevuta non soffre alcuna modificazione dall' anima che la riceve, perchè è immutabile; come una moneta d' oro, che si mette in una borsa, non cangia natura, nè cessa di essere quella di prima perchè fu ivi collocata. Così l' essere ideale è nell' anima umana (1). All' incontro nella passività l' entità, che agisce nell' anima, prende qualche cosa dalla natura e dall' attività del paziente, cioè dell' anima stessa, che contribuisce a dare a quell' entità il suo essere. Così l' esteso sentito riceve dall' anima l' estensione (2) e la forza straniera che lo cangia, benchè, contro la tendenza dell' anima, produce l' effetto coll' aiuto di questa, che è suscitata a terminare spontaneamente il suo atto in un' altra estensione. Nella ricettività l' anima non è, propriamente parlando, modificata, solo acquista ciò che non aveva prima. Così la borsa, in cui si mette la moneta d' oro, non cangia natura, ma la borsa vale più piena che vuota. E se pigliamo un' asta e vi attacchiamo un ferro a forma di dardo, l' asta primitiva non è cangiata, nè modificata; ma ne è uscito uno strumento nuovo, a cui si dà nuovo nome ed ha nuova virtù. E così coll' aggiungersi l' essere ideale ad un principio senziente, il principio propriamente non s' è modificato; ma acquistò quel che non aveva prima, e da anima sensitiva divenne anima razionale. All' incontro la passività modifica propriamente l' anima, come accade nel senso corporeo. Intanto, se il sentito è posto in atto dall' anima stessa, ella fa più che ricevere, opera; e l' operazione di lei si riduce al concetto generale della modificazione. Di poi quando le viene cangiato il sentito, ella ha nuovamente bisogno di concorrere a ciò, e per un poco può ripugnare; ora il ripugnare, e poi l' essere indotta ad una operazione, è già una modificazione del soggetto operante. All' essere ideale l' anima non può opporre resistenza di sorte alcuna; neppure può cooperare a formarlo; deve dunque unicamente ricevere senza più, poichè rispetto a lui, ella non è prima che egli sia venuto in essa, e però non può opporsi a lui, perchè prima di essere non può operare. Dunque niente in questo fatto interviene nell' anima che abbia natura di modificazione; ma soltanto di nuovo acquisto da parte dell' anima, e di creazione da parte di quella virtù, che pone in lei l' essere ideale. Alla passione risponde dunque il fare; alla ricezione risponde il dare . Gli Scolastici confusero talora questi due modi, il che introdusse nelle loro dottrine qualche vena di sensismo , venendo tratti a parlare dell' intelletto come fosse una potenza interamente passiva, quando è ricettiva, e quindi ad assomigliarlo troppo al senso. La sensitività corporea ha per termine l' esteso e le sue passioni e modificazioni, cioè il movimento intestino dell' esteso sentito e l' organizzazione, ossia un dato collocamento delle parti, e quindi l' armonia dei movimenti sensibili. L' esteso sentito suppone il continuo , ed un solo continuo (1); perocchè se fossero due, i due sentiti non avrebbero alcuna attinenza, nè comunicazione fra loro. E poichè dove è il sentito, ivi è il senziente, perciò anche i senzienti sarebbero due, pari ai continui, senza attinenza, nè comunicazione fra loro. Ma se le parti del continuo si muovono con certa legge, senza cessare d' essere continue, nasce l' eccitamento del senziente, e la sensazione viva rispondente al moto intestino delle parti sentite. I quali moti e le corrispondenti sensioni possono essere molti in uno stesso tempo e in luoghi diversi; e la ragione si è che essi sono congiunti dal continuo sentito unico, in cui nascono, e quindi dall' unicità e semplicità del principio senziente. L' attenzione attuale e riflessa dell' uomo si reca assai più facilmente sulle sensioni eccitate, che rispondono ai movimenti intestini locali, che non sia al sentimento universale ed uniforme di tutto il continuo; indi a noi pare di sentire contemporaneamente in più luoghi separati, quando il vero si è che sentiamo un unico esteso continuo in modo non uniforme, in certe parti di esso più vivamente e variamente, a cagione dei minimi moti, come dicevamo, che ivi si suscitano. Il sentito esteso fondamentale è limitato , ma per sè solo non è figurato , giacchè a percepire la figura è necessario distinguere le linee o le superfici, che la circondano e formano; e queste non sono distinte nel sentimento fondamentale, nè possono distinguersi se non colla percezione di qualche cosa al di là dei suoi confini (2). Ora il sentimento fondamentale non va al di là dei confini del suo esteso, e perciò neppure distingue i confini dell' esteso, oltre i quali cessa il sentimento. Per intendere la differenza che passa fra i confini segnati con una linea o superficie percepita , dai confini determinati dalla cessazione del sentimento, si può recare un esempio tolto dalla visione. Se io guardo la tavola quadrata alla quale sto scrivendo, distinguo le linee con cui la tavola finisce; e le distinguo perchè coll' occhio abbraccio anche ciò che va al di là di quelle linee, un resto della stanza. Ma se io, tenendo gli occhi aperti, voglio vedere i confini della mia visione, cioè dello specchio visivo, io non posso vederli nè precisarli, molto meno confrontare lo specchio visivo con altro spazio maggiore, perchè oltre lo specchio visivo non si estende la visione, ma cessa; onde mi è impossibile il dire che lo specchio, a cui si stende la mia visione, sia piuttosto rotondo che quadrato, o d' altra figura, se pretendo desumere questa figura dalla sola visione e non dal raziocinio. Ora poi, come le sensioni speciali nascano dall' eccitamento del sentimento fondamentale fu da noi altrove ragionato. Ma è da confessare che la filosofia non è ancora giunta a conoscere la ragione di tutte le varietà singolarissime delle sensioni, e neppure a classificarle ed enumerarle compiutamente. Noi le abbiamo distinte in figurate e non figurate . Le figurate le abbiamo anche chiamate superficiali , perchè costituiscono la superficie o parte della superficie del corpo nostro e dei corpi al nostro esteriori, quali sono quelle del tatto, della visione, ecc.. Le non figurate furono quasi dimenticate dai psicologi, con più attenzione le considerarono i fisiologi. E` necessario osservare che il sentito figurato non si sente in noi, cioè non si sente riferendolo a noi, ma si sente in sè stesso come una superficie; la quale certo non è in noi come una superficie piccola sarebbe in una grande, anzi per sè non ha luogo, o, se si vuole, ella stessa è il suo luogo. Così lo specchio visivo non è già in un altro spazio più grande di lui, poichè egli è tutto lo spazio che si vede, nè più nè meno. Il luogo, in cui sono le sensazioni, si viene adunque formando, quando si considera una parte della sensazione superficiale in relazione a tutta intera la superficie sentita; ovvero quando più superfici sentite si pongono insieme colla immaginativa, formandosene una superficie sola, se non sentita, almeno immaginata o intesa, a quel modo che abbiamo detto formarsi da noi per via di moto il concetto dello spazio illimitato (1). Ma della località delle sensioni abbiamo ragionato nell' Antropologia . Qui solamente vogliamo osservare che da questa proprietà delle sensazioni figurate e superficiali, di non avere per sè altro spazio in cui sieno che sè stesse, s' intende come il senso interiore della fantasia può riprodurle; giacchè quelle sensioni non hanno per sè rapporto locale al nostro corpo, cioè esse non ci appaiono nè come collocate alla superficie del nostro corpo, nè come collocate nell' interno del nostro corpo; ma, come dicevamo, in sè medesime. Quindi niente osta che ai movimenti, per esempio, di quella parte del nostro cervello, che è l' organo della fantasia, risponda l' apparizione d' un campanile e d' una chiesa; giacchè il sentito non è già il cervello, quale anatomicamente lo conosciamo, ma è ciò che ci apparisce; e non apparisce già nel cervello che non si vede, anzi non ha altra località che quella, che nell' immagine stessa o nella visione apparisce. Come dunque, si dirà, percepiamo noi la superficie del corpo nostro? Come sappiamo che la superficie del corpo umano, che ci apparisce, è la superficie del corpo nostro e non dell' altrui? - Certo, la sola sensione superficiale non ce lo dice; ma lo sappiamo dalla sensione superficiale in rapporto con altre sensioni; per esempio, se io sono toccato da un corpo straniero ho una sensione sola, ma se io tocco me stesso ho due sensioni, che riferisco allo stesso luogo; di che conchiudo che io non sono solamente il toccato, ma anche il toccante. Così se io vedo un corpo, e quando questo corpo è toccato da un altro corpo qualunque in un punto da me veduto, provo una sensazione tattile, conchiudo che il corpo che vedo è il mio. Ma anche di ciò più a lungo fu ragionato nell' Antropologia . Ora la ragione delle diverse maniere di sensione, come dicevo, non fu ancora investigata. Il principio generale da cui dedurla, si può nondimeno raccogliere da tutta la nostra teoria dei sentimenti corporei, ed annunziare così: « Essendo il movimento intestino che avviene nel continuo sentito, se non la causa, almeno il fenomeno extrasoggettivo correlativo alle sensioni, alla varietà nelle sensioni deve rispondere altrettanta varietà in esso movimento; e questa varietà del movimento se non è, può almeno rappresentare la ragione di quella varietà delle sensioni ». Per applicare un tal principio conviene enumerare tutte le varietà, che si possono concepire nell' intestino movimento del continuo sentito e dei vari organi; e di poi, coll' aiuto dell' esperienza, ricercare quale sia la varietà di sensione, che corrisponde a ciascuna di quelle varietà. Quest' opera appartiene ai futuri progressi della filosofia; noi, che siamo ben lontani dal poterla intraprendere, ci contenteremo di soggiungere solamente qualche cenno, che aprirà forse la via al grande studio da porsi nell' applicazione del detto principio. Il moto intestino riesce diverso primieramente, secondo che è diversa l' organizzazione. Che anzi la diversa maniera di organizzazione non solo occasiona diversità nei movimenti intestini, ma prima ancora fa luogo ad una diversità nel sentimento fondamentale, e ciò in più maniere. A ragione d' esempio, in quelle parti del corpo sensibile dove la tessitura è più fina e compatta, è mestieri che si trovi accumulato maggior sentimento fondamentale che non in altro spazio di eguale grandezza, dove la tessitura è più larga e porosa, e meno compatta. La stessa grandezza totale del corpo animale sensibile determina l' estensione del sentimento fondamentale, e questa è varia siccome quella. Il moto intestino, che produce le sensioni acquisite, varia altresì secondo che nelle diverse parti del corpo animale varia il moto intestino fondamentale, prodotto dall' istinto vitale e dall' istinto sensuale. Che anzi l' operare stesso di questi istinti riceve di nuovo la legge dall' organizzazione. Ad ogni modo si può dire che il moto intestino, che risponde alle sensioni acquisite, trova la ragione di tutte le sue variazioni in queste tre cagioni: 1 nella varia organizzazione del corpo e delle singole sue parti; 2 nella varia attività dell' istinto animale; 3 nella varietà degli stimoli suscitatori di quei moti. Ma il movimento intestino, di cui parliamo, è un fenomeno meramente extrasoggettivo? o è anche un fenomeno soggettivo? - Per rispondere con chiarezza, descriviamo il fatto. Le sensioni dei colori e dei suoni seguitano ad un tremare od oscillare del nervo ottico e del nervo acustico; questo tremare od oscillare è il movimento intestino, di cui parliamo; i colori ed i suoni sono le sensioni. Ora in queste sembra che non si percepisca punto nè poco l' oscillare o il tremare dei nervi sensorii. Dunque il movimento intestino, di cui parliamo, è fuori della sensione, non è il sentito; dunque egli è extrasoggettivo. Ma come sappiamo noi che avvenga quel tremore nel nervo ottico ed acustico? - Noi lo sappiamo per ragionamento. Tuttavia non è assurdo l' immaginare che quel tremore potesse essere materia all' osservazione esterna; e certo quando noi immaginiamo un tremare ed un oscillare, noi parliamo di cosa che conosciamo per via di osservazione esterna; poichè se nessun tremore avessimo mai veduto od esperimentato, non potremmo immaginare che tremassero i nervi della vista o dell' udito. Questo tremore, adunque, è fenomeno della natura di quelli che cadono sotto la vista e gli altri organi esteriori. Applichiamo perciò l' occhio a riguardare i movimenti oscillatorii di una molla a spira. In tal caso qui abbiamo un' altra sensione visiva, nella quale il sentito è la detta molla col suo movimento. Ma un movimento simile ad esso è appunto il movimento intestino del nervo ottico, a cui rispose la prima sensazione del colore. Ora questo movimento intestino, che rispetto alla prima sensione abbiamo veduto essere extrasoggettivo, rispetto a questa seconda sensione è divenuto soggettivo, perchè ne forma il sentito medesimo. Ogni movimento intestino adunque, a cui risponde una sensione, è cosa extrasoggettiva relativamente a quella sensione; ma può divenire stimolo ad una seconda sensione, che lo prende per suo termine. E qui è da riflettersi che circa la seconda sensione si può fare lo stesso ragionamento, che si fece circa la prima; poichè se la seconda sensione ebbe a suo termine il movimento intestino della prima, non ebbe già a suo termine il proprio movimento intestino, che può divenire termine ad una terza sensione. Così l' occhio, che vedesse il movimento frequente che fa la molla a spira accorciandosi ed allungandosi, o vedesse anche il tremore dell' altrui nervo ottico, non vedrebbe perciò il tremore suscitato nel nervo ottico del suo proprio occhio, a cui risponde la sua propria sensione. Si può dunque andare all' infinito colla serie delle sensioni, rimanendo sempre vera in generale questa proposizione, che « il movimento intestino di ciascuna sensione non è il sentito della stessa, ma può avere natura di sentito per la successiva; e però essere cosa extrasoggettiva rispetto alla prima, e soggettiva rispetto alla seconda ». Qui si deve bene considerare come il movimento possa appartenere al sentito. Il movimento nel sentito non è già un' unica e semplice sensione; è una successione di sensioni eccitate nello stesso esteso sentito. Posciachè dunque con un organo, poniamo coll' occhio, noi percepiamo un movimento, per esempio vediamo cadere una stella filante, è necessario supporre che il nostro organo sia organizzato di un complesso di parti, ciascuna delle quali si possa muovere liberamente indipendente dall' altra, e così egli sia quasi un complesso di organi distinti. Tale infatti noi abbiamo descritta la costruzione del nervo ottico, non come un nervo solo, ma come un fascicolo di filamenti, quasi piccoli tubi, ciascuno dei quali può tremare dentro e fuori con diversa frequenza, e così occasionare un diverso colore e diversi colori successivi, secondo i successivi tremori dei vari filamenti (1). Ed ecco come la diversa organizzazione rende diversa la maniera di sentire, giacchè se l' occhio non fosse così fabbricato, che i minutissimi fili componenti il cordone non si potessero muovere ciascuno a parte con proprio moto, ma si dovessero muovere tutti insieme con uno stesso metro e nello stesso tempo, non si avrebbero le varietà dei colori, nè la sensazione del movimento. I vari colori e i vari suoni rispondono al numero dei tremiti o delle oscillazioni dei nervi, che a loro presiedono. Ora è chiaro che la prontezza e celerità, colla quale si muovono alcune parti del corpo nostro più che altre, dipende: 1 dalla loro organizzazione speciale, che contribuisce a renderle più pronte e celeri al moto; 2 dall' attività maggiore dell' istinto animale, che in esse si manifesta. Onde, di nuovo, la diversa organizzazione e la diversa azione conseguente dell' istinto rappresentano la ragione dei diversi sensorii. Ma quale rapporto ha mai il numero dei tremiti con la sensazione del suono, quale similitudine? - Nessuna; e perciò dicemmo che quello è un fenomeno extrasoggettivo rispetto a questo, che è soggettivo, d' indole tutta diversa. Pure, se si ammette che il sentimento sia annesso agli atomi della materia, non è più difficile il concepire che il movimento intestino, che non toglie la continuità, debba non già spostare il sentito, perchè ha per natura d' esser continuo e però senza parti sensibili, bensì alterarlo, producendovi quella eccitazione, che altrove abbiamo descritta, e che dipende dalle primitive leggi dell' istinto vitale, la cui ragione ultima si perde nell' abisso della creazione. La grandezza adunque del corpo sensibile, la sua forma, la forma dei singoli organi, la diversità dei tessuti, la diversità delle molecole le une incartocciate nelle altre, e quindi di ordini diversi sempre più intimi, la loro diversa minutezza, la diversa loro figura, i loro diversi contatti, la loro speciale mobilità, le varie direzioni in cui si muovono, la comunicazione varia del loro moto, il moto più o meno propagabile, la celerità e frequenza dei movimenti, ed altre simili varietà che si possono riscontrare nei corpi animali e nelle loro parti, sono le circostanze che vanno studiate in relazione alle varie maniere di sensioni, e ai modi e gradi che in ogni maniera si riscontrano; le quali circostanze rappresentano la ragione di tutte queste varietà e modificazioni. La seconda sensitività speciale, da noi distinta, fu quella che chiamammo sensitività pneumatica . Intendiamo per questa specie la facoltà di sentire gli spiriti altrui, o di ricevere da essi un sentimento, che ce li rappresenti. Questa facoltà è così poco studiata che sembrerà quasi cosa nuova; tuttavia l' osservazione mi rende probabile la sua esistenza. E` però da osservarsi che, essendo l' uomo un essere misto, la sensitività sua non può mai avere a termine immediato uno spirito puro; ma io credo che un' anima senta l' altrui anima od altro spirito coll' intermezzo del corpo e nel corpo. Infatti è certo che un corpo animato dà sensioni d' indole affatto diversa da quelle che dà un corpo inanimato. Io mi ricordo di aver letto in qualche opera del Conte de Maistre un tratto eloquente e assai fine su quel misterioso e recondito, che è nel bacio e nei sentimenti che esso produce. Pare che in tali comunicazioni vi sia qualche cosa di vivo e di spirituale, che non si possa attribuire alla sola materia. Nell' amore e nell' amicizia sembra che, nell' affezione e nell' unione dei corpi, le due anime stesse si sentano e si comunichino. Anche mi pare che questa comunicazione spirituale non si debba restringere fra esseri della stessa natura; gli angeli stessi potrebbero in qualche maniera rendersi sensibili agli uomini, operando nei corpi in modo loro conveniente. L' argomento è fecondo e meriterebbe di essere accuratamente studiato. Lasciandolo noi all' investigazione dei filosofi che ci succederanno, vogliamo qui arrestarci un poco a considerare che merito abbiano i lavori di Gall e Spurzheim, al lume delle cose fin qui ragionate. Il principio, onde muove la dottrina dei mentovati fisiologi, si è che « il cervello non è un organo unico, nel quale nascano tutte le operazioni dell' intendimento, ma un complesso di sistemi nervosi, ossia di organi distinti, a ciascuno dei quali appartenga la produzione d' una speciale facoltà ». In questo principio e nella dottrina che ne derivano i loro autori, conviene distinguere una parte vera, che rimane solida base alla frenologia, ed una parte falsa, associata con essa dall' ignoranza delle più importanti ed evidenti verità psicologiche. Le osservazioni, a cui appellano i detti autori, suffragano alla parte vera; la parte falsa che le associano, lungi dall' essere il risultato di accurate osservazioni sulla forma del cervello e delle sue parti, altro non è che il prodotto della immaginazione e dell' arbitrio, che s' intromette di continuo nei lavori di questa classe di studiosi della natura. Ecco a che si riduce la parte vera. L' anima è un principio unico, ma ella ha più termini. Uno di essi è l' esteso, che suscita nell' anima la sensitività corporea in generale. Ora è un fatto che in questo termine esteso si distinguono varii organi, i quali sono cagione che la sensitività corporea variamente modificata si sparta in diversi modi di sentire, che si considerano poi come altrettante facoltà. Quindi niente vieta che il cervello, considerato prima come un organo solo, si riconosca essere un aggregato di varii organi, ciascuno dei quali presieda ad un ramo della sensitività corporea, purchè non si creda che ciascun organo sia indipendente dagli altri, che sia un esteso continuo dagli altri diviso; giacchè è cosa indubitabile, come abbiamo veduto, che il termine di un' anima è un continuo solo, le cui parti sono variamente organate, e si muovono con tanta armonia che al movimento speciale d' una di esse concorrono tutte le altre. Questo e non altro può essere il fondamento della Frenologia , e quindi appariscono gli errori che vi hanno mescolato Gall, Spurzheim ed altri frenologi; i quali errori sono principalmente i seguenti: I errore . - Essi confondono l' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza. Le funzioni dei diversi organi, di cui si compone il cervello, possono riguardarsi come altrettante facoltà della sensitività, non mai dell' intelligenza. Ciò che produsse questa confusione si fu che, prestando la sensitività materia all' intelligenza, per ogni ramo nuovo di sensitività si spiega in un modo nuovo l' intelligenza, ricevendo nuova materia. II errore . - Essi non avvertono, o per dir meglio, taluno d' essi non avverte che, anche stando nell' ordine della sensitività, questa potenza non è produzione del mero organo, il quale non è altro che il termine del principio senziente, che si chiama anima; e la potenza di sentire nasce dall' unione del principio e del termine, dell' anima e dell' organo, e non da quest' ultimo solamente; anzi la potenza è del principio e non del termine, dell' anima, non dell' organo; perocchè il principio è il soggetto di tutti gli atti della potenza, e però della potenza stessa. III errore . - Da questa seconda confusione dell' organo col principio senziente, associata coll' altra confusione dell' ordine della sensitività coll' ordine dell' intelligenza, scaturì il falso concetto che si fecero alcuni frenologi dell' intendimento umano. Essi pretesero che come il cervello è un aggregato di organi, così l' intendimento umano fosse il complesso di una moltitudine di atti differentissimi. Se avessero attentamente considerato che colui che intende, benchè faccia molti e vari atti, è sempre il medesimo soggetto, essi avrebbero riconosciuto l' unità e la semplicità dell' intelligenza, come facoltà d' un soggetto unico e semplicissimo. L' intendimento fa bensì molti atti e grandemente diversi fra loro, ma egli non è l' aggregato dei propri atti; ne è l' autore, la causa, il principio unico, ai quali logicamente e, rispetto ai più, anche cronologicamente è anteriore. IV errore . - Quindi può conoscersi quanto sia insulso il vanto che cotesti fisiologi si danno, di avere notomizzata l' intelligenza, parendo loro che col portare il coltello sulla massa encefalica, l' abbiano proprio inserito nell' intelligenza stessa! E` poi chiaro che tali fisiologi, i quali confondono le cose più disparate, non possono essere atti a formare una retta classificazione delle facoltà dello spirito umano. Onde quando Spurzheim, per esempio, divide le facoltà dell' anima e dello spirito in affettive ed intellettive , egli non s' accorge che vi sono delle facoltà affettive, che sono intellettive; perocchè il soggetto intelligente ha degli affetti, che gli vengono dall' intelligenza. Quando poi, dopo aver diviso le facoltà affettive in inclinazioni ed in sentimenti , riduce le inclinazioni al numero preciso di nove, che, con vocaboli da fare spiritare i cani, chiama l' abitavità , l' affezionività , la combattività , la distruttività , la construttività , la mangiatività , e la secretività , e vuol dire l' inclinazione ad abitare, ad affezionarsi, a combattere, a distruggere, a costruire, a cibare, a segregare umori; egli dimentica tutte le inclinazioni intellettive e morali. Di più, egli non annovera le inclinazioni primitive dell' anima, ma solamente alcuni effetti , che vengono prodotti nell' animale dal concorso di molte inclinazioni e facoltà primitive. A ragion d' esempio, l' inclinazione ad avere un' abitazione e a fabbricarsela non è una facoltà primitiva, ma è il risultato di vari bisogni che sente l' animale, ai quali si muove istintivamente a soddisfare; e così può dirsi di ognuna di quelle inclinazioni. Venendo ai sentimenti dell' anima, Spurzheim pretende che sieno dodici in punto, quattro dei quali comuni all' uomo e alle bestie, e sono quelli dell' amor proprio , dell' approvazione , della circospezione e della benevolenza . Ma egli non s' avvede che in questi quattro sentimenti ha luogo l' intelligenza, e però al solo uomo convengono; laddove nelle bestie vi sono bensì delle affezioni corrispondenti, che simulano questi affetti, ma sono veramente tutt' altro. Ora appartiene pure alla sagacità del filosofo rilevarne la profonda ed essenziale distinzione, senza lasciarsi così grossamente illudere dall' apparente somiglianza fenomenale. Gli otto sentimenti propri dell' uomo, secondo il medesimo autore, sono quelli della venerazione , della speranza , della soprannaturalità , della giustizia; dai quali egli fa derivare le nozioni religiose e morali della perseveranza , dell' arguzia , ossia del motteggio, dell' idealità e dell' imitazione. Ma oltrechè questi sentimenti non sono gli unici, anch' essi sono tutt' altro che sentimenti primitivi; sono per lo più risultanti dall' uso di più facoltà primitive, loro produzioni ed effetti. Così l' uomo arguto e motteggiatore non trae il suo spirito arguto che da un certo temperamento e da una certa mistura di varie facoltà. S' aggiunga che qualcuno di essi, come l' imitazione , è un istinto manifestamente comune agli animali bruti, e più che in ogni altro essere manifesta la sua forza nelle scimmie (1). La stessa imperfezione si scorge nella classificazione delle facoltà intellettive, che lo Spurzheim divide in tre ordini: 1 le funzioni dei sensi esterni; 2 le facoltà percettive; 3 le facoltà riflessive . Ora le prime non appartengono all' intelligenza, ma alla sensitività corporea, che è tutt' altro. Egli divide le facoltà percettive in due gruppi, nel primo dei quali colloca quelle che riguardano la percezione degli individui , nel secondo quelle che riguardano la percezione delle relazioni degli oggetti e loro fenomeni. Mette dunque nel primo gruppo le facoltà dell' individualità , della configurazione , dell' estensione , del peso e del colorito . Ma queste cose, separate le une dalle altre appartengono all' astrazione e non alla percezione, la quale si riferisce sempre all' oggetto fornito di tutte le sue proprietà percettibili, secondo la natura delle diverse percezioni. Nel secondo gruppo egli colloca le facoltà del luogo , del numero , dell' ordine , dei fenomeni , del tempo , della melodia e del linguaggio artificiale; le quali, lungi dall' appartenere alla mera percezione, sono anch' esse altrettante funzioni dell' astrazione e del ragionamento, effetti di più facoltà primitive e secondarie, che operano e cospirano insieme a produrli. A ragion d' esempio, la facoltà del linguaggio, lungi dall' essere una facoltà primitiva, è un effetto oltremodo complesso di quasi tutte le facoltà umane, sieno quelle dei sensi esterni o quelle dell' istinto animale, sieno quelle del giudizio, del raziocinio, ecc.. Il terzo ordine delle facoltà intellettive, che è quello della riflessione, viene diviso da Spurzheim nelle sole facoltà del paragone e della causalità . Ogni filosofo, che abbia un po' meditato sullo spirito umano, può conoscere agevolmente l' insufficienza d' una tale classificazione. Oltre a ciò non esiste una facoltà primitiva della causalità, ma solo una legge ontologica, a cui ubbidisce l' intelletto, che cerca la causa di ogni contingente. Conviene adunque conchiudere: Che il cervello è un aggregato di vari organi, ma insieme armonicamente connessi in un solo continuo. Che ciascuno di essi ha delle funzioni speciali, ma solo nell' ordine della sensitività. Che nell' uomo alle diverse funzioni della sensitività corporea e al loro diverso sviluppo risponde un diverso sviluppo d' intelligenza, la quale riceve dalla sensitività la materia di sue operazioni; ma che nulla di ciò avviene nelle bestie, alle quali non è data intelligenza alcuna, ma una sensitività che simula coi suoi effetti istintivi l' intelligenza. Che le diverse funzioni della sensitività corporea, che rispondono ai diversi organi del cervello, sono funzioni primitive ed immediate, quali sono quelle del vedere, dell' udire, dell' assaporare, ecc.; alle quali succedono corrispondenti facoltà attive, come, a ragion d' esempio, alla funzione dell' udito la facoltà dei suoni vocali (non quella del linguaggio, che appartiene all' intelligenza). L' enumerazione accurata di queste funzioni primitive e immediate della sensitività corporea in relazione cogli organi del cervello, è appunto ciò che rimane a fare al frenologo. Questo lavoro è appena abbozzato; pochissime sono le proposizioni provate fino ad ora coll' osservazione, e, per indicarne una che pare ridotta a grande probabilità, citerò quella di Gall che « il cervelletto sia l' organo dell' amore fisico ». L' amore fisico infatti è una funzione primitiva della sensitività corporea. Non basta; quando si dice che un organo presiede a una funzione o a un ramo della sensitività, conviene guardarsi dal credere che egli solo basti a produrre le sensioni corrispondenti; anzi se si separa dagli altri organi, non si ha più l' effetto. Conviene adunque che il frenologo stabilisca oltracciò, moltiplicando le osservazioni e i più sagaci esperimenti, la connessione necessaria che ciascun organo ha cogli altri acciocchè possa produrre l' effetto; e più generalmente conviene che stabilisca non tanto quale sia l' organo di una data funzione della sensitività, quanto « quale sia l' apparato di organi, che è ordinato a produrla ». Di più, dopo avere dimostrato quale è l' organo speciale delle funzioni, quale l' apparato di organi che concorre a produrre effettivamente l' effetto, conviene che ricerchi finalmente: « quale sia la connessione di ogni apparato con tutto il sistema nervoso e con tutta intera la fabbrica dell' animale ». Ecco davvero un gran campo coltivato bensì dai moderni fisiologi, donde si potranno tuttavia cogliere ancora nuovi ed abbondanti frutti di solide cognizioni. La terza specie di sensitività è l' ideologica. Noi siamo consapevoli d' intuire le idee. Ora non potremmo essere consapevoli di questa nostra intuizione, se non sentissimo che siamo noi gli intuenti. Noi dunque abbiamo il sentimento di noi stessi come intuenti. Sembrerà che questa maniera di sentire si confonda colla sensitività psichica; e si può veramente concepire come un ramo di questa. Perocchè nell' una e nell' altra l' anima sente come principio; ma in quella che abbiamo chiamata psichica, l' anima sente come principio nel termine esteso , nell' ideologica sente nell' idea; giacchè i due termini dell' anima sono l' esteso e l' idea, e il principio sente nel termine. Laonde i termini essendo due, di natura disgiuntissima, il principio medesimo ha un doppio sentimento. Dove è da notarsi che il sentimento che ha l' anima, in quanto termina nell' idea, è un sentimento oggettivato, sicchè l' anima, che pure è soggetto, sente sè stessa oggettivamente, quasi perdendo nella pura intuizione la sua propria individualità. Dove giace il misterioso punto di congiunzione fra l' ordine soggettivo e l' oggettivo, fra il senso e l' intelligenza; di che ci promettiamo di poter parlare più compiutamente nella Teosofia . L' idea stessa non è tuttavia il proprio termine della sensitività ideologica, poichè ella è solo il termine dell' intuizione . La differenza fra il termine proprio del sentimento e dell' intuizione è capitale. Il termine proprio del sentimento deve essere qualche cosa che appartiene al senziente; il termine dell' intuizione è qualche cosa che s' intuisce come un diverso dal senziente, qualche cosa che è puramente in sè. Ora l' anima, che vede l' idea, sente sè stessa nell' essere ideale; e questa è la speciale sensitività ideologica, di cui parliamo. L' anima poi col sentirsi in possesso dell' idea si sente intelligente, nobilitata, e piglia un istinto intellettuale e razionale , che è la parte attiva della sensitività ideologica. Finalmente io chiamo sensitività teorica quella che Iddio produce nell' anima col darlesi a percepire. Iddio non si concede ad altra potenza che a quella dell' intelletto, qualora questa potenza si definisca in generale « la potenza dell' essere ». Questa sola ha una capacità infinita, perchè l' essere è infinito (1). Abbiamo veduto che l' essere è uno, ma in tre forme. Quindi se la potenza dell' intelletto si considera rispetto all' essere, anch' ella è una; ma se la si considera rispetto alle forme, ella pure veste tre forme, apparisce come tre potenze. Sotto la forma ideale, l' essere intuìto è il lume dell' anima, e a questa solamente si riferisce l' intelletto naturale all' uomo, che anche chiamiamo spesso intelletto semplicemente. Sotto la forma reale, l' essere contingente è limitato, non è l' essere ideale infinito realizzato. Ora, separato dall' essere ideale che è il lume, egli si rimane oscuro, non è più oggetto di alcuna potenza intellettiva. Ma unito al lume, unito all' essere ideale, anche l' essere reale si rende conoscibile, e diviene oggetto della potenza speciale della ragione . Ed appunto perchè il contingente reale non è conoscibile per sè stesso, ma ha bisogno che gli sia applicato l' essere ideale da un atto intelligente, perciò l' apprensione dell' essere reale contingente non si attribuisce alla semplice potenza dell' intelletto, ma a quella della ragione. All' incontro, se l' essere ideale infinito si manifesta realizzato, allora l' intelletto apprende lo stesso essere infinito anche come reale, indivisibile per sua natura dall' ideale, e se ne ha la percezione di Dio, che non si può avere per natura, come sognando asseriscono gli antichi e i moderni platonici. Ora questo, considerato rispettivamente alla realità, è un senso intellettuale7soprannaturale. Si dirà: come si possono avverare rispetto a Dio le due condizioni del senso, che l' agente resta mutato e che l' anima pure s' immuti? Rispondo: Iddio non è mutabile, in sè stesso niente egli patisce dall' anima a cui si comunica. Non di meno è da considerarsi che l' anima non comprende totalmente Iddio; perciò altro è Dio in sè stesso, illimitato, incomprensibile, altro è quella misura o grado qualitativo, nel quale la realità di Dio si comunica all' anima. Questo grado qualitativo è determinato dall' anima stessa, che colla sua limitazione lo forma; la limitazione poi viene dalla misura limitata nella quale Iddio si comunica. Onde si può dire che Iddio in quanto è limitatamente percepito dall' anima, in tanto viene limitato dall' anima, che ne è come il recipiente; misura o limite, che non cade punto nello stesso Dio, ma nel rapporto di connessione fra Dio e l' anima, pel quale Iddio si fa oggetto prossimo e immediato della percezione. Quanto poi alla modificazione che riceve l' anima dalla realità di Dio a lei comunicata, ella nasce dall' azione della realità di Dio nell' anima, a cui conseguono altri meravigliosi effetti. Poichè l' oggetto dell' intelletto è naturale scopo all' affetto razionale, che sta in seno alla natura umana, e della volizione primitiva, che tende al bene in universale. Onde conviene che l' affetto e la volontà, trovando un tanto oggetto, si rinforzino, si sublimino, si trasnaturino; e che l' anima riceva una potenza tanto diversa dalle altre, quanto è diverso Iddio dagli altri oggetti, cioè infinitamente. Questo è ciò che i teologi chiamano lume di grazia e di gloria . Poichè, come ogni termine specificatamente diverso suscita una nuova potenza, così è uopo che ne susciti una nuovissima quell' oggetto, che differisce da tutti gli altri non solo di specie, di genere, di categoria, ma addirittura di essere. L' intelletto umano, adunque, colla percezione della divina sostanza mantiene bensì la stessa radice, ma riceve una nuova attività, più diversa da quella che aveva prima, che non sia una potenza qualunque da qualunque altra. E qui non è tanto difficile lo spiegare come l' anima possa ricevere l' azione della divina essenza, quanto come la divina essenza possa agire nell' anima. Ma a noi basterà dire in generale che Iddio agisce nelle creature a quel modo che le creature sono in lui; perocchè è scritto che [...OMISSIS...] . Onde per agire nelle creature egli non ha bisogno di uscire colla sua azione da sè stesso. Perocchè quell' azione, che in Dio è la divina essenza, niente vieta che fuori di Dio rechi un effetto limitato. Conciossiachè le nature contingenti hanno un' esistenza relativa a sè stesse, nè Iddio, creandole od operando in esse, toglie la loro soggettività ed individualità, anzi la forma. Ora quell' atto che non distrugge i soggetti e gli individui, ma che dopo averli creati dà loro ciò che vuole, non ha mestieri d' essere limitato in sè stesso, come è limitato nel suo termine relativo. Ma questo è argomento, che appartiene alla Teologia; e noi avremo occasione di parlarne, a Dio piacendo, nella Teosofia . Ora, dopo aver noi parlato del senso dell' anima come potenza passiva, dovremmo parlare di lui come potenza attiva, cioè dell' istinto; ma ci vien meglio rimettere questa trattazione a quel libro, che espone le leggi che presiedono all' attività dell' anima, per non ripetere più volte le stesse cose. L' intelletto, in generale, è la potenza dell' essere come essere, ossia dell' essenza dell' essere. A nessun intelletto creato è naturale l' apprendere l' essenza dell' essere sotto la forma reale, bensì sotto l' ideale. L' essere nella sua trina forma non è noto naturalmente che a sè stesso. Dell' intelletto umano, in quanto è formato dall' essere ideale, ragiona a sufficienza l' Ideologia . In quanto poi gli è dato l' essere nella sua forma reale, è divenuto potenza soprannaturale, di cui tratta l' Antropologia soprannaturale . Che se si considera che nell' intelletto, a cui l' essere sia comunicato anche sotto la forma reale, deve trovarsi quella perfetta armonia e reciproca convenienza fra l' essere ideale e il reale, che costituisce l' essere morale, avente ragione di compimento, di perfezione, di bene; nasce un terzo rispetto, sotto cui si può considerare l' umano intelletto od ogni altro quale si voglia; la cui trattazione compiuta spetta all' Agatologia . Noi qui toccheremo una questione importante. Abbiamo detto, in qualche luogo, non essere assurdo che si concepisca un soggetto meramente intellettivo, non affettivo o volitivo; il che è vero, se si considera la cosa da parte del soggetto. Si avrà nondimeno una conclusione contraria, se la si riguarda da parte dell' oggetto. Di vero l' essere ha questo di essenziale, di essere bene; perciò egli non può essere conosciuto se non come bene. Il conoscerlo poi come bene importa un affetto o inclinazione a lui. Come dunque l' essere nella sua condizione di lume crea l' intelletto, quasi causa formale dell' anima (o, se meglio si vuole, causa della causa formale, causa dell' illuminazione dell' anima), così lo stesso essere nella sua condizione essenziale di bene crea la volontà primitiva, come causa finale che attua il primo affetto, la prima volizione volta all' essere in universale. E come l' intelletto è la potenza ricettiva, così la volontà è la potenza attiva che gli corrisponde. Ora, posciachè l' intelletto ha per oggetto essenziale l' essere ideale, il quale è in sè stesso immutabile, perciò esso non è suscettivo di alcuno sviluppo; ed ha natura piuttosto di atto immanente che di potenza . Solamente può essere perfezionato, accresciuto, sublimato coll' ordine soprannaturale, a quel modo che dicemmo, svelandosi l' essere essenziale nella sua realità. Vero è che l' essere ideale s' intuisce anche variamente determinato e limitato; e perciò gli Scolastici attribuiscono all' intelletto l' intuizione di queste idee, e così gli danno uno sviluppo. E dove la cosa sia prima chiara, niente vieta che si adoperi la parola intelletto a significare in generale « la potenza di intuire le idee ». Qualora però si consideri che la determinazione e la limitazione dell' essere ideale non si può avere senza la percezione delle realità contingenti e i vestigi di lei che rimangono nell' anima, si vedrà esser più esatto l' attribuire alla ragione anche l' intuizione delle idee determinate, come quella che non è intuizione semplice, ma contiene nel suo seno l' applicazione dell' essere ideale alla realità, opera della ragione. Allo stesso modo si può dire che la volontà primitiva ed universale non ha ragione di potenza, ma di atto immanente, principio e base della potenza; onde meglio che volontà primitiva a noi pare di doverla chiamare volizione primitiva. Per queste ragioni non aggiungiamo qui la tavola sinottica della potenza dell' intelletto. La potenza della ragione risulta nell' anima, principio comune del senso e dell' intelletto, quale conseguenza del sentito e dell' inteso, poichè lo stesso principio comune li unisce nell' unione percettiva , che è quella per la quale esso principio comune apprende il reale nell' ideale come nella sua essenza. Di che si trae che la potenza della ragione piuttosto che soggettiva è il soggetto stesso operante, al quale però l' idea prescrive la legge. Si trae ancora che la ragione, quanto all' ordine logico, è una potenza posteriore alle due potenze del senso e dell' intelletto, da cui risulta; non però quanto all' ordine cronologico, perocchè tosto che è l' uomo, è la ragione; il che si prova così. L' uomo è un soggetto unico composto di anima intellettiva e di corpo animale. Ma l' unione dell' anima intellettiva col corpo animale si fa per via d' una prima ed immanente percezione. Ora la prima e immanente percezione è l' atto primo della ragione, quell' atto pel quale la ragione esiste. Dunque l' esistenza dell' uomo e l' esistenza della ragione sono contemporanee. Che se la ragione è tostochè esiste l' uomo, e se prima che esista l' uomo, non esiste nè il senso corporeo, nè l' intelligenza, dunque queste facoltà primitive non sono nell' uomo anteriori di tempo all' esistenza della ragione, benchè questa risulti da quelle quasi come una conseguenza dai suoi principŒ. Vero è che il senso, o, per dir meglio, l' animale può esistere innanzi all' uomo; ma perciò appunto noi parliamo del senso e dell' intelligenza, in quanto sono propri dell' uomo. Come poi si dia priorità nell' ordine logico, senza che ne consegua necessariamente priorità di tempo, merita d' essere considerato dal filosofo. Ne abbiamo più esempi: per addurne uno dei più degni d' attenzione, accenneremo quello del sillogismo, dove l' unione dei due primi termini, ossia la conseguenza, non è posteriore ad essi di tempo nell' umana mente, benchè risulti da essi. Infatti, finchè la mente non vide il rapporto dei due termini, non c' è ancora sillogismo, nè il primo termine si può chiamar primo, nè il secondo secondo, nè c' è maggiore o minore; e tostochè ella vide la conseguenza, trovò altresì incontanente che una nozione è primo termine e un' altra è secondo; e così trovò la maggiore e la minore. Lo stesso accade, se vogliamo discendere a un caso particolare, nella percezione dei corpi, la quale, benchè paia fatta per un cotal ragionamento, pure è del tutto immediata (1), perchè ella stessa forma il suo oggetto (2). Dal qual vero importante, che « in un medesimo ente vi sono elementi che tengono fra loro una relazione di priorità e di posteriorità, e non tuttavia alcuna priorità e posteriorità di tempo », nasce un bellissimo principio ontologico, cioè che « nel seno dell' ente vi è un' azione continua, immanente »; col quale principio si riforma e corregge il concetto volgare dell' ente; poichè l' uomo, pigliandone sempre l' esempio dalla materia, suol concepire l' ente come cosa immobile e morta, non sapendo egli immaginarsi altra azione che quella del movimento locale e dell' atto transeunte. Ora qui non trattasi di azione che passa e che si fa per parti, benchè una parte sia passata e l' altra debba avvenire; ma v' è nel seno all' ente un' azione che si fa tutta continuamente, per la quale si mette in essere lo stesso ente e lo si fa permanere; onde, se non fosse fatta tutta, l' ente non sarebbe, e se non fosse continua, non permarrebbe, e tuttavia ella ha in sè un suo proprio ordine, analogo a quello della successione delle cose nel tempo, alla quale si potrebbe applicare cogli Scolastici l' appellazione di evo . Dal qual fatto deve prendersi anche la spiegazione della memoria, che suppone che ciò che è successivo in sè stesso diventi contemporaneo, rimanendo presente tutta la successione, nella quale stava il tempo. E la memoria è facoltà della ragione, perchè non potrebbe esistere senza che qualche sentimento non segnasse nell' essere ideale le entità particolari successive. Ma sulla memoria dovremo tornare in appresso, quando parleremo dell' unità dell' uomo, e del modo onde da quella unità escono le sue attività molteplici. Il fine adunque, a cui è ordinata la potenza della ragione, si è quello di mettere l' essere intelligente in comunicazione colla realità delle cose. Infatti l' uomo, in quanto è intelligente, per natura sua non comunica che coll' idealità, che costituisce il lume dell' intelligenza. La realità poi o è infinita e necessaria, o è finita e contingente. Nella pura idealità non si trova nè la realità infinita, nè la realità finita; perciò l' intelligente, che intuisce l' idealità pura, non comunica per sua natura con niuna realità. La realità dunque deve essere data all' intelligenza umana, perchè non è a questa essenziale. Ma come le può esser data? La realità infinita, Iddio, non le può venire che da una graziosa comunicazione di Dio stesso; e se le vien data, ella è intelligibile per sè stessa, giacchè è la stessa essenza dell' essere ideale7reale. Dunque ella non ha bisogno d' altra potenza per essere intesa che del solo intelletto, che intuisce l' idealità; solamente che questo viene perfezionato e sublimato, reso percettore dell' assoluta realità. La realità finita e contingente non è intelligibile per sè stessa, perchè è priva dell' essenza dell' essere. Affinchè adunque la realità finita si comunichi all' intelligenza, conviene che l' intelligenza stessa la renda intelligibile. Ora con questa operazione, che fa l' intelligenza, si costituisce una potenza nuova diversa dall' intelletto, la quale si chiama ragione . Di vero, altro è intuire ciò che è intelligibile, e altro rendere intelligibile ciò che intelligibile non è. Queste sono due maniere di atti specificamente diversi, di cui sono specificamente diversi gli oggetti formali. Ora le potenze si distinguono secondo la distinzione degli atti e dei termini formali. Dunque la ragione è potenza diversa dall' intelletto. Come poi la realità contingente, che non è l' essenza dell' essere, possa rendersi intelligibile, noi l' abbiamo svolto altrove. Ma ricapitolando diremo: Che la prima condizione a rendere intelligibile la realità contingente si è che questa sia accessibile all' essere intellettivo. La seconda, che l' essere intellettivo aggiunga alla realità l' idealità, cioè l' essenza, di queste due cose costituendo un ente, oggetto dell' intendimento. Ma quando e come può accadere che la realità contingente diventi accessibile all' ente intellettivo? - La realità accessibile all' ente intellettivo è la realità dell' ente stesso intellettivo, poichè questo è un reale. Che poi la realità dell' ente intellettivo debba riuscire accessibile a sè stesso è manifesto, poichè non è lungi da lui, ma è lui stesso. E questa realità non è morta, ma viva, perchè è sentimento. Onde il dire che un ente intuisce l' essere ideale viene quanto a dire che un sentimento è congiunto all' essere ideale. Il sentimento, dunque, e l' essere ideale sono congiunti per natura, e costituiscono un unico intelligente. Ma l' essere ideale è l' intelligibilità stessa di tutte le cose. Dunque il sentimento è reso intelligibile per l' intima unione che ha coll' intelligibilità, fondata in natura; unione tale che di lui e della sua intelligibilità risulta un solo ente, il quale dicesi intellettivo. E qui si debbono fare diverse considerazioni. Primieramente io diceva che la realità dell' essere intellettivo è un sentimento. Non si creda che da ciò nasca che l' essere intellettivo non possa percepire altro che la realità propria. Poichè, quantunque sia vero che « la percezione intellettiva non si estende fuori del sentimento proprio », tuttavia è evidente che deve abbracciare anche tutte le modificazioni di questo sentimento; e di più non è a dimenticarsi quell' osservazione ontologica, da noi fatta di frequente, che l' azione di un ente si manifesta in un altro ente, senza confondersi coll' azione dell' ente in cui si manifesta; onde avviene la distinzione dei due concetti di attività e di passività. Se dunque accade che nel nostro sentimento proprio si manifesti l' azione di un altro ente, forza è che noi percepiamo anche questo altro ente percependone l' azione, appunto per la ragione che percepiamo il nostro proprio sentimento e quanto accade in esso. Nè osta il dire che il percepire l' azione d' un ente non è il percepire l' ente, attesa la legge immutabile della percezione che « non si percepiscono le azioni degli enti, senza concepire gli enti a cui appartengono ». Che anzi, propriamente parlando, « altro mai non si concepisce ed intende che l' ente e ciò che nell' ente accade », poichè il solo ente è oggetto dell' intelligenza. Ed è perciò appunto che le realità contingenti non sono intelligibili per sè stesse, perchè non sono enti, ma sono azioni di un altro ente o, se si vuol meglio, termini delle sue azioni; di maniera che lo stesso sentimento nostro sostanziale non è ente per sè, ma è propriamente il termine dell' azione di un ente che ci rimane nascosto. Onde anche per intendere questo nostro sentimento, come pure tutte le realità contingenti che cadono in esso, noi dobbiamo supplirvi l' ente con un atto della nostra intelligenza, ed è così che noi le completiamo e le rendiamo intelligibili. Similmente le azioni che fanno in noi gli enti diversi da noi, noi le intendiamo coll' aggiungervi l' ente, cioè unendole ad un ente di cui sono azioni. In secondo luogo si scorge dallo stesso principio, onde nasca l' autorità, che ha presso ogni uomo la deposizione della propria coscienza . Questa non è, a dir vero, la prima percezione intellettiva del proprio sentimento, ma è la riflessione su questa e sulle altre percezioni. Ora, se colla prima e naturale percezione l' uomo conosce la propria animalità, colla percezione della percezione, ossia colla percezione del percipiente che è la prima riflessione, l' uomo rende intelligibile e percepisce sè stesso come intelligente, fino a formarsi l' io nel modo che abbiamo descritto. Ma se la prima percezione non fosse naturale, e in essa non si fondassero le altre percezioni, che l' uomo acquista successivamente di sè modificato, le deposizioni della coscienza non avrebbero quell' autorità che hanno in tutti gli uomini; i quali sono persuasi che esse sieno infallibili ed evidenti. E tale persuasione nasce, perchè la prima congiunzione del sentimento e dell' idea è un fatto della natura stessa; nel qual fatto l' uomo percepisce abitualmente il proprio sentimento; e la percezione non dubita mai di sè stessa, anzi la persuasione ne è il suo naturale finimento: tale è il testimonio della coscienza, che è sempre una percezione della percezione. In terzo luogo possiamo qui chiarire facilmente come nasca, e di che natura sia la riflessione . Questa nasce evidentemente dall' attività del soggetto razionale . Ora noi abbiamo veduto come il soggetto razionale sia posto in essere. Egli è posto in essere colla percezione intellettiva fondamentale , per la quale l' ente intelligente è individualmente unito al sentimento animale, nella quale unione l' uomo è costituito. Senza di ciò il soggetto, ossia principio razionale, non esisterebbe. Ma posto che egli esiste, ha un' attività sua propria, indipendente, in quanto al modo, dal termine; giacchè, come abbiamo veduto, l' attività di ogni principio esiste bensì pel termine, ma opera alla sua maniera, la qual maniera noi dobbiamo dedurre dall' osservazione. Ora l' attività del principio razionale si può chiamare generalmente attenzione , benchè questa parola non si usi con tanta generalità di significato, adoperandosi solitamente ad esprimere « l' attività intellettiva libera o di elezione, di cui si suol avere coscienza, che si applica e si concentra in un oggetto determinato ». Ma considerando noi che la virtù intellettiva, che si applica liberamente ad un oggetto scelto, non differisce da quella che si applica istintivamente a quell' oggetto, che dapprima si presenta allo spirito, noi crediamo che convenga pigliare il vocabolo attenzione intellettiva a significare in generale « la virtù dello spirito, che si applica anche senza una speciale concentrazione, anche istintivamente, ad un oggetto qualsiasi ». Così presa, diviene un primo atto di attenzione anche l' intuizione dell' essere; un atto di attenzione si acchiude anche nella percezione. Ma dopo di ciò l' attenzione seguita a dirigersi e concentrarsi con varie leggi, ora secondo l' istinto guidato dai bisogni, ora per elezione spontanea, ora anche per elezione libera fra oggetti che sono presenti allo spirito. E questa è la propria virtù del principio di poter concentrarsi sopra più oggetti, o sopra uno o una sola parte di esso, ritraendosi alquanto dagli altri o anche interamente. Si ritenga qui, adunque, che questa è legge propria dell' attività del principio o soggetto razionale di concentrarsi in un oggetto, o parte di oggetto qualsiasi, fra quelli che stanno presenti allo spirito. Come dunque accade che lo spirito possa riflettere sulle sue proprie operazioni? Stabilito che tutte le operazioni passive od attive dello spirito sono sentimento, e che ogni sentimento dell' uomo è oggetto d' una percezione naturale, si manifesta incontanente come nasca la riflessione. Poichè questa non è, come abbiamo detto, che una percezione delle percezioni e degli atti precedenti; percezioni ed atti che sono sentimento, e però capaci d' essere percepiti. Che se rimane così spiegato come l' uomo possa riflettere sugli atti del proprio spirito, ancor più facilmente si spiega com' egli possa riflettere sugli oggetti di questi atti; giacchè tali oggetti sono uniti alle percezioni e ne costituiscono il termine, di cui gli atti sono i principŒ. E` dunque percettibile il termine, come il principio degli atti intellettivi, i quali non sono senza quei due estremi; e per la forza di concentrazione lo spirito può applicare la sua attenzione agli uni o agli altri, ai principŒ o ai termini esclusivamente (1). In quarto luogo è spiegato altresì come il principio razionale possa operare sulla realità e sulla stessa materia. Poichè noi abbiamo veduto che il principio razionale è un reale egli stesso, cioè un principio di sentimento, il quale rende intelligibile sè stesso, attesa la naturale unione che egli ha coll' essere ideale, che è l' intelligibilità di tutte le cose; e percependo sè stesso, percepisce altri reali, che in esso suscitano degli effetti. Ora l' essere reale, ossia il sentimento sostanziale, ha un principio attivo, col quale può modificare sè stesso e reagire altresì su ciò che in lui agisce. Che se questo essere reale percepisce e quindi conosce sè stesso e i suoi diversi stati, per questa condizione di sè egli impara altresì a conoscere come debba muovere e adoperare la sua propria attività, per venire a capo di modificare sè stesso e le altre cose seco annesse. Se dunque il principio razionale sa come debba operare, e in pari tempo è egli stesso la virtù operativa, chiaro è che il medesimo principio razionale sarà attivo a sua volontà su di sè stesso e sui reali, che si continuano a lui, in virtù dell' azione che essi esercitano in lui, ed egli in essi. Fin qui noi abbiamo parlato dell' origine e della natura della percezione e della riflessione , che sono le due facoltà della ragione. Gioverà che aggiungiamo una breve analisi dell' una e dell' altra. La percezione ha tre gradi, che noi chiameremo apprensione, affermazione e persuasione . Nell' apprensione (intellettiva) della realità si contengono virtualmente l' affermazione e la persuasione; e a questo primo grado si ferma la percezione fondamentale della nostra animalità. Infatti l' uomo nei primi istanti di sua esistenza non afferma espressamente la propria animalità, ma molto tempo dopo, quando incomincia a far uso di un qualche linguaggio; e così si concilia colla dottrina della percezione fondamentale l' altra opinione per noi espressa, che l' uomo percepisca prima le cose esterne, e molto dopo, sè stesso colle cose sue. Noi dicevamo questo, riferendo il nostro pensiero all' affermazione espressa , che è il secondo grado della percezione, quello che la compie e trae dietro sè la persuasione distinta . Dobbiamo anche dire che la sola affermazione forma il nerbo della mente, il quale però nell' apprensione si trova in un cotal modo implicito e virtuale. La persuasione poi, anzichè un atto, è un abito dello spirito, ed è distinta ed attuale quando è prodotta dall' affermazione; allora ella è l' affermazione stessa, che abitualmente rimane nello spirito. Alla percezione tien dietro la facoltà dell' universalizzazione , ossia delle idee specifiche7piene , intorno alla quale ragionammo abbastanza nel « Nuovo Saggio (1) ». Venendo ora alla riflessione, noi abbiamo già posto il principio dell' analisi che si deve fare di essa. Il qual principio si è che lo spirito razionale ha virtù di dirigere la sua attenzione su gli oggetti percepiti, di restringerla a pochi e di estenderla a molti, o a tutti, o ad una parte di essi anche realmente non divisibile, e di concentrarla in un solo punto, per così dire, accrescendone l' intensione. Prima però di venire all' analisi è da rammentare che la riflessione, essendo sempre percezione di percezione, ha per sua legge di raffrontare l' oggetto, su cui riflette, coll' essere universale (2), ond' ella cava i principŒ trascendenti. Dal che avviene che la facoltà della riflessione non operi già per modo di semplice riflessione. In questo caso ella non aumenterebbe gli oggetti del conoscere; altro non farebbe che rivederli, riguardarli di nuovo. Ora il semplice riguardarli di nuovo non è ciò che si chiama filosoficamente riflettere; non è altro che un attuare nuovamente l' attenzione, dopo che questa rimise dall' atto suo e divenne abituale. Questo atto nuovo dell' attenzione, se si tratta di cose abitualmente conosciute, non è dunque la riflessione , ma la reminiscenza . Se poi si ripete la stessa percezione esterna avuta altre volte, neppur questa è riflessione, ma solo ripetizione della percezione. La riflessione si deve dunque distinguere accuratamente dalla memoria , che è il deposito delle cognizioni abituali, dalla reminiscenza , che è l' attuale avvertenza di quelle, e dalla percezione ripetuta . E la distinzione principale sta in questo, che nè la memoria, nè la reminiscenza, nè la percezione ripetuta aumenta il sapere dell' uomo; laddove la riflessione sì. E lo aumenta, perchè, come dicevamo, la riflessione nel percepire la percezione la rapporta sempre e confronta all' essere ideale, e ne discopre le relazioni, che si cangiano in altrettanti principŒ. Di qui nasce che la riflessione si debba dividere in parziale e totale . Chiamo parziale quella riflessione, che tende a discoprire i rapporti che dividono od uniscono gli oggetti, sui quali ella cade, senza però ch' ella tenda ad avere per risultamento del suo operare i rapporti degli oggetti collo stesso essere universale ed essenziale. Chiamo totale quella riflessione, che discopre e pronuncia i rapporti dei suoi oggetti coll' essere universale ed essenziale. La riflessione ricorre sempre all' essere universale, essenziale, ideale, senza di che non potrebbe scoprire niuna cosa nuova; ma talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che hanno fra di loro, e si dice parziale; talora raffronta i suoi oggetti coll' essere per trovare i rapporti che questi hanno coll' essere stesso, e si dice totale . La ragione di queste denominazioni non si trae dal diverso mezzo di conoscere, poichè la riflessione usa sempre dello stesso mezzo, che è l' essere ideale; ma si trae dal diverso risultato che se ne ha; il quale è parziale, se si ferma ai rapporti degli oggetti parziali fra loro, ed è totale, se finisce collo stabilire i rapporti che ha l' essere stesso, l' essere universale, cogli oggetti, benchè parziali. I rapporti dell' essere universale sono sempre universali, e però abbracciano in qualche modo tutto lo scibile; all' incontro i rapporti degli oggetti parziali fra loro sono parziali, e non costituiscono che una parte dello scibile. Dalla natura della riflessione parziale si traggono i diversi ordini della riflessione, cioè si trae la ragione che spiega perchè, dopo aver io riflettuto sulla percezione, posso riflettere sulla mia riflessione, facendo un secondo atto di riflessione, e con una terza riflessione posso ripiegarmi sulla seconda, e con una quarta sulla terza, e così via, ricavando sempre qualche cognizione nuova, ogniqualvolta mi elevo ad un ordine maggiore di riflessione. Ora, che la possibilità di questi diversi ordini di riflessione proceda dall' essere parziale la riflessione, si vede da questo, che se io colla prima riflessione esaurissi lo scibile, non potrei più conoscere nulla di nuovo colla seconda e colle susseguenti, e dovrei limitarmi a ripetere l' atto della prima. E quanto importantissima cosa sia lo studio di questi diversi ordini di riflessioni, solo può intenderla colui, il quale abbia saputo scorgere che indi si trae il principio supremo del metodo (1); il principio altresì che deve reggere una storia filosofica delle scienze, il principio d' una storia dell' umanità, ed infinite altre conseguenze di sommo momento nel governo morale e politico degli uomini. Ma in quella riflessione, che abbiamo detta totale , cessano gli ordini molteplici, poichè, giunta alle somme e più complesse verità, quella via resta chiusa a nuovi discoprimenti. Così se io sono pervenuto a intuire colla mente qualche supremo principio, posso bensì riflettendo trovarne le applicazioni, il che è un ricadere alla riflessione parziale, ma non posso sollevarmi più su colla riflessione totale, alla quale non rimane che di replicare l' atto, onde contempla quel principio già rinvenuto; quindi la contemplazione . Ma qualunque sia l' ordine della riflessione, i modi coi quali ella opera, riescono i medesimi. E posciachè ella si volge a trovare i rapporti , e questi ora sono tali che dividono fra di loro le cose, quali sono le differenze, le opposizioni, ecc.; ora sono tali, che le uniscono e legano insieme, quali sono le eguaglianze, le similitudini, le correlazioni, le analogie, ecc.; perciò i due modi, nei quali opera la riflessione parziale, sono primieramente l' analisi e la sintesi . L' analisi divide, e la sintesi unisce; ma qui si tratta sempre di oggetti conosciuti. La riflessione parziale talora non solo trova il rapporto fra gli oggetti conosciuti, ma nello stesso tempo produce ella stessa colla sua attività uno dei termini del rapporto. E questo ella suol farlo sempre coll' uso e coll' applicazione dell' idea dell' essere, ma in due modi diversi, o deducendolo o fingendolo; ai quali due modi noi diamo il titolo di fede razionale e di creazione razionale . Onde analisi, sintesi, fede e creazione razionale sono i quattro modi nei quali opera la riflessione; di ciascuno dei quali faremo qualche cenno. L' analisi, che spezza e divide gli oggetti conosciuti, è materiale o formale . Si dice analisi materiale quella, per la quale le parti dell' oggetto diviso riescono tutte della medesima natura e condizione logica, pigliandosi la similitudine dalla divisione, di cui è suscettibile la materia, che si suppone uniforme, le cui parti perciò non differiscono di natura, ma solo di grandezza; tale è l' analisi chimica, la divisione numerica, ecc.. Si dice all' opposto analisi formale quella, in cui le parti che si hanno coll' oggetto dalla mente diviso, variano di natura, come se si dividesse un genere in molte specie, dove il genere ha una natura logica diversa da quella della specie, e ciascuna specie ha diversa natura dalle altre. Di che si vede che la facoltà di astrarre appartiene all' analisi formale. La sintesi riceve una classificazione consimile, poichè può essere anch' essa materiale o formale , secondochè si uniscono parti della stessa natura, come accade nella somma o moltiplicazione numerica, o in un tutto formato per giusta posizione; ovvero si uniscono parti di diversa natura, come accade nel giudizio, in cui la mente unisce il predicato col soggetto. Il subbietto dunque dell' analisi e della sintesi materiale è la quantità; il subbietto dell' analisi e della sintesi formale è la qualità, la modalità, o la relazione. Ma rispetto alla sintesi formale, la cui forma generale è il giudizio , è da riflettersi che si modifica non poco, aumentandosi gli ordini della riflessione. Poichè, se dopo aver io fatto diversi giudizi con una sintesi appartenente al primo ordine di riflessione, io m' innalzo ad un' altra sintesi appartenente ad un ordine superiore di riflessione, trovando il nesso dei due giudizi fra loro, mi vien data tosto la forma del sillogismo; nella qual forma apparisce come la riflessione sia produttiva di nuova cognizione, giacchè i giudizi che unisco sono due, e il sillogismo, che me ne risulta, ne ha tre; il che è quanto dire che colla riflessione io ho guadagnato un giudizio di più, che è la conclusione del sillogismo stesso. E` manifesto che se io m' innalzo ancora ad altri ordini di riflessione sintesizzando, posso confrontare i sillogismi stessi coi giudizi, e i sillogismi fra loro, e cavarne altre conclusioni; il che mi produce il ragionamento . Ma qui non si deve tralasciare una osservazione, ed è che in ogni analisi interviene sempre qualche specie di sintesi; perocchè per trovare le differenze e le opposizioni, mediante le quali separiamo una cosa dall' altra, dobbiamo prima di tutto confrontare e paragonare le cose, che poscia distinguiamo e separiamo; e il confronto è una specie di sintesi, un primo grado di sintesi. Quindi è che la distinzione dell' analisi dalla sintesi ha luogo piuttosto nel risultato della riflessione che non nella stessa operazione del riflettere , la cui forma propria è sempre sintetica. E questa è la ragione, per la quale noi abbiamo collocato il giudizio e il raziocinio nella classe delle sintesi anzichè delle analisi, quantunque il risultato non sempre sintesizzi, ma riesca talora analitico. Infatti, quando i giudizi sono negativi, o quando è negativa la conclusione del sillogismo, il risultato suol essere analitico e dividente; ma la forma è sempre sintetica. Il che apparirà vie più chiaro a coloro, i quali sanno che la mente umana concepisce ciò che è negativo sotto una forma positiva, il nulla come un qualche cosa, e che la negazione è un' affermazione in quanto alla forma. Onde il predicato negativo fa sintesi col soggetto, quando si vuole separare e distinguere; la qual legge del pensiero condusse gli algebristi a sommare tanto le quantità positive, quanto le negative, con una stessa operazione, che chiamarono appunto somma , equivalente a unione o sintesi. Ma passiamo a quelle operazioni della riflessione, nelle quali questa facoltà discopre o finge uno dei due termini della sua analisi o della sua sintesi; le quali operazioni abbiamo detto essere due, la fede razionale e la creazione razionale . Allorquando la mente umana riflette sopra un oggetto percepito, raffrontandolo all' essenza dell' essere, e, mediante questo raffronto, trova che l' esistenza sua è condizionata ad un altro ente, che ella non ha mai percepito, di maniera che ripugna all' essenza dell' essere che l' oggetto percepito esista solo, mentre pure esiste; allora nasce in lei la fede razionale, che è quanto dire « la persuasione ragionevole che esista quell' altro termine, benchè non l' abbia mai percepito, nè conosca punto nè poco il suo modo di essere ». Questa è quella funzione, che abbiamo chiamata integrazione . A ragion d' esempio, Leibnizio, raffrontando gli esseri reali creati coll' essenza dell' essere, trova che nell' ordine dell' essere stesso giace la legge di continuità . Di poi vede nelle cose naturali, conosciute al suo tempo, mancante un anello della catena. Egli crede all' esistenza di questo anello ancora incognito, e così predice la scoperta dei zoofiti , che ebbe luogo posteriormente. Pur ora Le7Verrier scoperse in modo simile, quasi direi a priori, l' esistenza del suo pianeta, che vide, come acconciamente disse Arago, non nella lente del suo telescopio, ma sulla punta della sua penna. Dal confronto degli enti reali coll' essenza dell' essere erano già conosciuti i due principŒ di causa e di analogia . Questi produssero quella scoperta. Le7Verrier ragionò seco stesso che alcune irregolarità nel movimento dei pianeti conosciuti dovevano avere una causa, pel principio di causa. Notò che altre irregolarità e perturbazioni venivano spiegate per la mutua attrazione di tali astri. Conchiuse che le irregolarità, che rimanevano senza causa, dovevano per analogia essere prodotte dall' attrazione d' un pianeta incognito. Applicò il calcolo a trovarne la posizione, e il calcolo gliela diede. Il pianeta fu scoperto nel luogo indicato. Un ragionamento pari conduce dall' essere contingente al necessario, che non si percepisce. L' essere contingente ripugna che esista solo, senza l' essere necessario; il che è quanto un fare questo sillogismo: « Il contingente esiste, ossia è un ente. Ma l' ente non è mai solamente contingente. Dunque, perchè il contingente sia ente com' è, è uopo che esista il necessario ». Così tutto il genere umano ascende per una spontanea integrazione a credere con ragione l' esistenza dell' Ente supremo. Anche la fede positiva alle cose divine si riduce alla fede razionale, quando si supponga prima la fede razionale dell' esistenza di Dio. Poichè così si ragiona: « Se quest' uomo non fosse inviato da Dio ad annunziare la verità, egli non opererebbe tali cose, che suppongono l' intervento di Dio. Ma quest' uomo prodigioso esiste, ed annunzia queste cose divine. Dunque queste cose divine sono vere, perchè la loro verità è condizione necessaria all' esistenza e alla predicazione di quest' uomo ». In altre parole: « La verità delle cose divine, che quest' uomo annunzia, è la ragione necessaria a spiegare come e perchè quest' uomo faccia quelle opere che fa ». Le cose che quest' uomo annunzia nessuno le ha vedute; ma si debbono credere per la detta forma di raziocinio, che chiamiamo integrazione , vale a dire perchè ciò che si percepisce non potrebbe essere, se non fosse altresì ciò che quest' uomo annunzia e che non si percepisce. Con un argomento della stessa natura il cieco crede all' esistenza dei colori. Questi colori che io non percepisco, egli dice, esistono, perchè vi è uno degno di fede, che io percepisco. Se i colori non esistessero, non potrebbe esistere quest' uomo degno di fede. Ma quest' uomo degno di fede esiste; dunque anche i colori esistono. Dai quali esempi si scorge: Che l' argomento dell' integrazione è fondato nell' ordine intrinseco e necessario dell' essere , che si suole esprimere in forme di principŒ ontologici; il quale ordine nella contemplazione naturale dell' essere si rinviene, e per esso s' intende che una data parte dell' essere, che si percepisce, non sarebbe come è, se non ve ne fosse un' altra, che non si percepisce. Che la fede razionale, di cui parliamo, riguarda le entità che noi non abbiamo mai percepite, ossia che non ci furono mai comunicate nella loro realizzazione, e di cui perciò non conosciamo positivamente la natura, la quale solo per via di percezione o di similitudine coi percepiti a noi si fa nota (1). Che dunque s' avrà a dire della fede , che noi prestiamo ad un uomo, il quale ci attesta l' esistenza d' una cosa, di cui abbiamo altre volte percepita l' essenza realizzata? Appartiene una tale credenza alla fede razionale ? Per esempio, se noi prestiamo fede ai viaggiatori, che ci dicono avere scoperto nell' interno dell' Africa un nuovo fiume, è questa l' operazione che noi chiamiamo fede razionale ? Conviene, a farvi risposta, osservare che le conoscenze umane si partono in due grandi classi: quella delle essenze delle cose e quella delle sussistenze , che sono il realizzamento delle essenze. Ora, quando viaggiatori degni di fede ci dicono avere scoperto quel nuovo fiume, rispetto all' essenza del fiume nulla di nuovo ci attestano; perchè noi sapevamo già che cosa è un fiume, avendone tanti percepiti coi sensi nostri. In quanto all' essenza dunque essi non sono testimoni , ma semplici monitori o eccitatori della nostra attenzione, che tosto pensa a un fiume, cioè all' essenza d' una cosa a noi nota. Quanto poi alla sussistenza di quel fiume nell' interno dell' Africa, essi sono veri testimoni, e noi prestiamo loro una fede razionale . Ma in questa fede razionale, che riguarda la sussistenza e non l' essenza delle cose narrate, non interviene integrazione; perchè l' operazione dell' integrare è volta a contemplare l' essenza dell' essere , senza riguardo alla sussistenza. Gli esempi addotti delle scoperte di Leibnizio e di Le7Verrier riguardano la sussistenza; ma il modo di ragionare è il medesimo, e per dichiarare questo modo furono addotti. L' integrazione adunque è una specie della fede razionale; ma questa abbraccia altre specie ancora. Dalla fede razionale si diparte la creazione razionale . Come la fede dal condizionato percepito argomenta alla condizione, così la creazione assume o finge qualche cosa, di cui ha percepita altre volte l' essenza, ma di cui non crede veramente alla sussistenza. La quale assunzione o finzione si fa dall' attività dell' umana intelligenza per cagioni diverse, non sempre razionali. Quindi ella riceve tre forme, divenendo ora facoltà delle ipotesi , ora facoltà delle personificazioni , ora facoltà dell' errore . L' ipotesi, se è ben fatta, ha del razionale e si avvicina molto all' integrazione, ma se ne distingue per queste differenze: Nell' integrazione si trova un termine, la cui essenza non fu da noi percepita; laddove ciò che si assume per ipotesi è sempre cosa, la cui essenza fu percepita. Nell' integrazione l' argomento induce necessità, laddove nell' ipotesi esso è congetturale. Nell' integrazione il termine non percepito è unico ed esclude tutti gli altri, laddove nell' ipotesi il termine, che si assume per spiegare i fatti, non esclude gli altri, giacchè i fatti, che si prendono a spiegare, possono di solito essere spiegati con più ipotesi. La personificazione non è razionale; ha un' origine istintiva, e l' uomo se ne serve quasi di simbolo per eccitare in sè stesso il sentimento, anzichè per accrescere il proprio sapere. La facoltà dell' errore , finalmente, è un' affermazione arbitraria che nega la verità, e però non è punto razionale, anzi ha una relazione di contrarietà alla ragione. E` manifesto che l' attività dell' anima nella creazione razionale appartiene a quella soprabbondanza di attività, che spiega il principio (il soggetto, l' anima), quando egli è posto in essere dal termine, e che non viene precisamente dal termine stesso. Ci rimane a parlare della riflessione totale , che è quella, come vedemmo, che cerca i rapporti dell' essere universale, e non si ferma a quelli degli enti particolari. Ora la riflessione totale abbraccia un gruppo di quattro facoltà, che noi denomineremo: 1 facoltà dei principŒ , 2 facoltà degli archetipi , 3 facoltà del metodo , 4 facoltà della cognizione assoluta o trascendentale . I principŒ presi in senso assoluto, come noi li prendiamo, sono proposizioni che hanno un valore universale, e non hanno altre ragioni superiori a sè stesse; quindi essi sono la stessa idea dell' essere considerata nella sua applicazione al ragionamento, dove ella spiega la sua maggiore potenza (1). Come l' essere illustra la mente, così anche dirige l' attività umana; quindi presiede non meno alla ragione teorica che alla ragione pratica , e all' una e all' altra somministra i principŒ direttivi. Se l' essere non fosse essenzialmente ordinato e quasi organato, egli non potrebbe produrre in sè i principŒ dell' umano ragionamento, i quali tutti esprimono il suo ordine. Perocchè, se ben si considera l' officio che prestano i principii alla mente, si scorge che « ogni principio altro non fa che mostrare alla mente come l' ente debba essere, acciocchè sia ente »; per esempio, il principio di cognizione dice: « Il pensiero non è, se non ha per oggetto l' ente »; il che viene a dire che l' entità, che si chiama pensiero, non sarebbe un' entità o semplicemente non sarebbe, se non avesse l' ente per oggetto. Descrive dunque come deve essere l' entità pensiero , ossia descrive l' ordine di questa entità. Il principio di sostanza dice: « Non è l' accidente senza la sostanza ». Descrive adunque il modo o l' ordine dell' entità accidente, acciocchè egli sia entità. Il principio di causa dice: « Ogni avvenimento deve avere una causa ». Descrive dunque come possa essere un avvenimento, ossia quale debba essere l' ordine necessario dell' entità significata colla parola avvenimento. E così si può procedere trascorrendo gli altri principii; ciascuno esprime come debba essere l' ente, acciocchè sia; e questo è un esprimere il suo ordine intrinseco e necessario. L' ordine suppone sempre una moltiplicità unificata; quindi si può considerare l' unità nella moltiplicità, come pure la moltiplicità nell' unità. Da questi due aspetti si deducono due serie di principŒ della ragione teoretica, i primi dei quali indicano come l' unità si possa moltiplicare, i secondi come la moltiplicità si possa unificare. Ai primi, oltre i tre enumerati di cognizione, di sostanza e di causa, si riducono i principii d' individuo sostanziale , di soggetto , di persona , di assoluto , i quali dicono: « l' ente non sarebbe, se non vi fossero individui sostanziali; l' ente non sarebbe, se non vi fossero soggetti; l' ente non sarebbe, se non vi fossero persone; l' ente non sarebbe, se non vi fosse l' assoluto ». I quali principii si possono anche tradurre in queste altre formule: « Se vi è moltiplicità di enti, dunque vi debbono essere individui sostanziali »; questo è quello che chiamo principio di individui sostanziali . « Se vi sono individui sostanziali, dunque si sono individui soggetti (senzienti) »; questo è quello che chiamo principio di soggetto . « Se vi sono soggetti, dunque vi sono persone »; questo è quello che chiamo principio di persona . « Se vi è un ente, dunque vi è l' ente assoluto »; questo è quello che chiamo principio dell' assoluto , dal quale si trae la cognizione trascendentale ed assoluta. Dal considerarsi poi i rapporti della moltiplicità coll' unità nascono altri principii della ragione teoretica, come sarebbe: « Il tutto è maggiore della sua parte »; « Due cose eguali ad una terza sono eguali tra di loro », ecc.. E per toccare anche di quei principii, che presiedono e dirigono la ragione pratica, diremo che questa ha i due atti della contemplazione e dell' azione . Alla contemplazione presiede il principio della bellezza; all' azione poi quello della legge morale. La facoltà degli archetipi è quella che spinge col pensiero qualunque essenza conosciuta all' ultima sua perfezione possibile, determinando come ella deve essere, acciocchè sia perfettissima; questo è il fonte delle scienze deontologiche (1). E` questa un' opera nobilissima della riflessione, che, paragonando le specie imperfette delle cose, date all' uomo dalla percezione, coll' essere, trova quanto le loro essenze possono ricevere in sè dell' ordine dell' essere stesso. Questa facoltà rende sublimi gl' ingegni, fu meravigliosa in Platone, e gli procacciò il titolo di divino. Niuno può essere uomo grande che non la possegga in alto grado, perocchè le magnanime azioni dei grandi si realizzano sempre, copiando l' eccelso ideale, che nella mente loro vivo contemplano. La facoltà del metodo nasce dalla riflessione, allorquando ella si eleva su tutti gli ordini speciali di riflessione per ordinarli convenientemente fra loro; e però è una cotal riflessione universale, che abbraccia con uno sguardo tutte le possibili riflessioni, cioè un numero di riflessioni indefinito. Finalmente la facoltà della cognizione assoluta o trascendentale è pur ella frutto della riflessione totale, quando, prendendo quante cognizioni ella vuole e raffrontandole all' essenza dell' essere, distingue ciò che vi è in esse di soggettivo e di fenomenale da ciò che è la cosa conosciuta in sè stessa, senza quel che riceve dall' atto del nostro conoscere; e prova che nel fare quest' atto di separazione niente vi si intramette più di relativo al soggetto, come si può vedere dal dialogo intitolato il Moschini . Dopo aver noi considerata l' anima rispetto a ciò che patisce e che riceve, e indi dedotte quelle potenze che chiamammo passive e ricettive, dobbiamo considerarla rispetto a ciò che ella agisce, e indi dedurre le sue potenze attive. Conviene non dimenticare giammai ciò che abbiamo detto dell' interna costituzione dell' anima. L' anima, noi dicemmo, ha natura di principio; ma questo principio non è concepibile se non a condizione che abbia i suoi termini, chè principii e termini sono correlativi e sintesizzanti. Ora, in quanto il principio è affetto dal suo termine, è ricevente o passivo . Ma questa ricettività e passività involge un grado d' attività propria dello stesso principio; e così l' attività nei soggetti creati viene in parte dalla ricettività e passività, e in parte è anch' essa condizione di questa. Dato dunque che una volta sia posto in essere il principio (l' essere del quale sta, come dicevamo, nell' unione col suo termine), l' attività del principio non si limita a ricevere ed a patire, ma è tale che opera sul suo termine stesso, se pure il termine è atto a ricevere la sua azione ed a restarne immutato. Perocchè, se la natura del termine fosse di essere puro atto, ogni passività o ricettività sarebbe esclusa per la sua essenza; il che s' avvera di Dio e delle cose divine. Allora l' attività del soggetto si spiega nel soggetto stesso, allontanandosi o avvicinandosi al termine, modificando la propria unione con esso. Ora, posciachè i termini primitivi dell' anima umana sono due, il sentito e l' inteso, verso all' uno dei quali ella è passiva, verso all' altro ricettiva; due sono pure le sue attività di assai diversa natura: l' una si chiama istinto , ed è quella che nasce dalla sensitività, l' altra chiamasi volontà , ed è quella che nasce dall' intelligenza. Il termine dell' istinto è mutabile, e però l' attività istintiva, operando su di lui, lo immuta; ma il termine della volontà, in quanto è lo stesso di quello della pura intelligenza, è immutabile, perchè è cosa divina (le idee); e però l' attività, che nasce da questa, limitasi ad essere più o meno ricettiva, ovvero ripiegasi sull' anima stessa, mutando questa anzichè il termine oggetto dell' intelligenza. L' istinto adunque è il movimento della sensitività. E poichè la sensitività accompagna tutte le potenze e le operazioni anche razionali dell' anima, perciò l' istinto si stende amplissimamente, accompagnandosi a tutte le parti dell' uomo. Onde colui che volesse compiutamente descriverne la diramazione, dovrebbe derivare le speciali attività di questa potenza, classificando e diramando tutte le altre, e dimostrando che ciascuna ha il suo proprio e speciale istinto. L' istinto di sua natura è potenza cieca. Ma poichè anche le potenze razionali e morali hanno i loro istinti, perciò conviene distinguere quell' istinto, che è cieco interamente nel suo moto e nel suo termine, da quello che è cieco solamente nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, ovvero che è cieco solamente nel suo moto, ma non nel conato e nel suo termine. Infatti, se si considera il moto istintivo della volontà, vedesi che parte da un lume e termina in un oggetto conosciuto. Ma in quanto il moto della volontà si fa per inclinazione naturale e spontanea, senza deliberazione o decreto, come talora avviene, in tanto quel moto è cieco, e solo per questo dicesi che quel movimento è istintivo. E per dare un esempio anche di quell' istinto, che è cieco nel suo conato e nel suo moto, ma non nel suo termine, indicheremo gli atti onde acquistiamo le prime nostre cognizioni, i quali tendono ad acquistare quel lume di cognizione, che dapprima non hanno. Poichè quando si muove il soggetto all' acquisto delle sue prime cognizioni, egli non le ha ancora, e però non può muoversi ad esse se non ciecamente, trattovi dal sentimento e dall' attività sua nativa, onde il principio di tal moto è cieco, benchè il termine sia la cognizione dove è luce. E` dunque mestieri distinguere primieramente queste due branche: l' istinto interamente cieco, che non si associa ad alcuna cognizione, nè nel suo principio, nè nel suo termine, e questo è l' istinto animale (che anche nell' uomo si ha, perchè anche l' uomo è animale); e l' istinto cieco bensì nel suo moto, ma tale che si associa a qualche cognizione, onde prende le mosse, o dove finisce, e questo è l' istinto umano . Se noi poniamo mente alle varie operazioni dell' istinto animale, potremo forse ridurle acconciamente a sei classi. Lasciando quel primo atto, col quale l' anima unendosi al suo termine pone sè stessa, in cui risiede virtualmente tutta l' attività istintiva, il principio dell' istinto , e non enumerando se non le conseguenti sue operazioni: L' istinto concorre alla produzione dei sentimenti animali accidentali. L' istinto ha virtù di riprodurre i sentimenti, quando questi hanno perduta la loro attualità e lasciate nello spirito solo le vestigie, le inclinazioni abituali; la quale operazione non si suol fare se non coll' aiuto delle facoltà istintive seguenti. L' istinto ha virtù di associare i sentimenti e unificarli a cagione dell' unità dell' anima; e questa è quella che chiamammo forza sintetica dell' animale, cagione di tante meraviglie, simulatrice della ragione, di che abbiamo lungamente parlato nell' Antropologia (1). Dall' associazione di più sentimenti nell' unità dell' anima ridondano in questa certe modificazioni generali, che chiamiamo affezioni , le quali sono quasi sentimenti di mezzo fra i sentimenti singolari e le passioni . Sono dunque queste affezioni i principŒ generatori delle passioni, poichè quando quelle si completano e lasciano nell' anima un' abituale inclinazione a riprodursi , allora ricevono questo nome di passioni. E le passioni sono la quinta manifestazione della potenza istintiva. Finalmente, la sesta manifestazione della potenza istintiva animale si è l' attività, con cui quella potenza modifica il sensifero, producendo in esso dei movimenti corrispondenti all' atteggiarsi attivamente di esso istinto. Accenniamo qualche cosa di queste due ultime manifestazioni, le passioni e gli atteggiamenti spontanei che prende l' istinto. Le passioni non sono meramente animali. Anzi nell' uomo si debbono diligentemente separare le animali dalle razionali. E le une e le altre ricevono acconciamente quella divisione, che troviamo in Platone, di passioni cioè proprie del concupiscibile , e di passioni proprie dell' irascibile . Intendesi per concupiscibile l' inclinazione, che trae verso il bene, e che ritrae dal male. Per irascibile poi quella subita vigoria, che si condensa e quasi s' aggruppa nell' anima, quando questa trova un esterno impedimento alla sua tendenza (1), colla quale pugna ed urta per rimuoverlo e vincerlo, e sfogare la sua tendenza concupiscibile. Ma restringendoci ora alle passioni animali, quelle del concupiscibile tendono ad avere il gradevole ed evitare il disgradevole, chè nè altro bene ha l' animale, nè altro male; e quelle dell' irascibile sono ordinate a sforzare e superare la difficoltà, che incontrano le tendenze del concupiscibile a spiegarsi compiutamente. Onde propriamente l' irascibile non è che una attività dello stesso concupiscibile , il quale s' adonta e s' arma contro gli impedimenti stranieri, che non lo distruggono o snervano, ma solo si oppongono per arrestarlo. Non conviene adunque accomunare cogli animali l' amore , che è passione razionale e nobile, in luogo di cui è nei bruti l' affezione unitiva , che si suddivide nella tendenza generativa , e in quel gruppo di passioni che si raccolgono nella tendenza all' aggregazione , la quale abbraccia l' istinto, che fa stare e andare insieme i bruti della stessa specie, che pone fra le specie diverse simpatie o antipatie, che aggiunge i nati alla madre, che produce l' affezione che lega all' uomo alcuni bruti, la domesticità, ecc.. Il simile è a dirsi dell' odio , che esprime propriamente una passione razionale, a cui risponde nell' animalità l' avversione , l' antipatia , ecc.. Anche il desiderio e l' abborrimento non sono passioni animali, ma razionali; nell' animalità in quella vece si manifestano varie tendenze specificate da vari loro termini, come la voracità , la fame , ecc.. Il gaudio pure è proprio dell' intelligenza, a cui risponde nell' animalità qualche sentimento, che non ha nome proprio e ben definito; perocchè non tutte le passioni animali trovano nel linguaggio una propria espressione. Di che avviene che lo stesso vocabolo si usi sovente in diverso significato, ora a indicare una passione meramente animale, ed ora a indicare la passione corrispondente, che si manifesta nell' essere razionale, come è delle due parole tristezza ed allegrezza , ecc.. E questa scarsezza e povertà di linguaggio è anch' essa cagione, che inclina la mente poco vigile a confondere l' ordine sensitivo coll' ordine razionale. Fra le passioni animali si può annoverare altresì la proprietà , che è quella che affeziona l' animale a certe cose inanimate; ed apparisce identica nell' uomo, se non che l' uomo gode anche della cognizione della sua proprietà, e questo godimento aggiunge un elemento razionale al sentimento della proprietà. Di più, l' uomo, attesa la sua facoltà morale, innalza il sentimento della proprietà all' ordine del diritto, del quale il sentimento di proprietà non è altro che la materia (1). Benchè le parole ira, ferocia, paura, aspettazione , ecc., si applichino sovente tanto ai bruti quanto all' uomo, tuttavia sembrano più proprie dei primi che del secondo; all' incontro le parole sdegno, timore, audacia, speranza, disperazione esprimono manifestamente affetti e passioni razionali; e se si trovano applicate ai bruti dagli scrittori, si fa per un cotal traslato e per quella inclinazione, che gli uomini hanno, di accomunare la vita intellettiva e la ragione, che possiedono essi, a tutti gli enti che percepiscono, massime se questi appalesano di quei fenomeni che si producono anche dall' intelligenza, benchè possano essere prodotti da altra cagione. Nell' uomo adunque vi sono le passioni animali, perchè anch' egli è animale; ma queste nell' uomo ricevono dalla razionalità un carattere proprio, che le nobilita e le specifica. Di più le passioni animali, che nelle bestie non sono mosse che dagli stimoli e dalle leggi del senso corporeo, nell' uomo sono suscitate talora dalla razionalità stessa, per l' influenza che l' anima razionale esercita nell' animalità. Così se noi consideriamo la tristezza come passione animale, si potrà definire « quel sentimento disgradevole che prova l' animale, rallentandosi il corso del sangue in alcuni visceri, e indebolendosi l' attività del sistema nervoso ». Ma questo sentimento, che nell' animale non può prodursi che da una causa fisica o sensuale, la quale rallenti la circolazione e tolga il suo vigore all' organismo nervoso, nell' uomo sarà prodotto ora da questa causa medesima, ora da una notizia che funesta lo spirito; il che è quanto dire dalla potenza razionale. Le passioni animali adunque nell' uomo differiscono da quello che sono nei bruti per due cagioni: Perchè, supposto che abbiano la stessa cagione producente che hanno nei bruti, vi si associa l' intelligenza a modificarle. Così la tristezza che arreca una malattia ad una bestia, è diversa da quella che arreca ad un uomo, il quale conosce la sua infermità; e questa cognizione gli accresce afflizione. E al contrario, con dei motivi somministratigli dalla ragione egli può allenire e alleggerire anche fisicamente quella tristezza. Perchè le passioni stesse animali possono nell' uomo essere mosse da una cagione razionale, come già dicevamo. Ma nell' uomo, oltracciò, si spiegano delle passioni nuove, delle quali non v' è traccia nei bruti; perocchè i movimenti della potenza razionale producono effetti nuovi, sentimenti che non possono in alcun modo essere suscitati dal mero istinto animale. I quali sentimenti propri dell' uomo sembrano talora che sieno puramente razionali, ossia che dimorino entro la sfera dell' intelligenza; talora poi sembra che ne partecipi anche l' animalità. In questo caso l' animalità riceve un' affezione, che nel bruto non può manifestarsi, perchè vi manca la causa producente, la quale non è altro che l' intelligenza. Io non voglio già decidere con ciò la questione: « Se nell' uomo vi siano affezioni così pure che non prenda parte ad esse in alcun modo l' animalità, o se vi sia sempre del misto »; questa questione sottile sarà sciolta da altri. A me basta di stabilire che nell' uomo si manifestano alcune passioni interamente nuove, che non possono essere prodotte dall' istinto animale, e che hanno per unica causa l' intelligenza: passioni intellettive rispetto alla loro causa, benchè forse non sieno mai puramente intellettive per sè stesse. Nel numero di queste non intendo assolutamente collocare le passioni simpatiche , come la compassione, ecc.; dico solo che se nei bruti si manifesta qualche cosa che rassomiglia ad esse, questa cosa si può sempre ridurre a passioni e sentimenti individuali; perchè il bruto non si muove, finalmente, se non in virtù delle sue proprie sensioni, l' opposto dell' uomo, che partecipa delle passioni altrui col solo conoscerle, poichè, conosciute, egli può rappresentarle a sè stesso nell' immaginazione, e così entrarne a parte; onde la compassione è certamente passione razionale nella sua causa ed anche in sè stessa. Che se si ravvisa qualche cosa somigliante nei bruti, ciò può ridursi all' affezione unitiva , a quella che riguarda l' aggregazione , ecc.. I fonti delle passioni comuni ai bruti sono l' aggradevole ed il difficile; nell' uomo a cagione della razionalità si trovano due altri fonti, e sono il rapido moto dell' animo e il grande ; poichè l' animo, che passa rapidamente da uno stato intellettivo ad un altro opposto, non solo accresce la vivezza dell' atto sensitivo colla rapidità, il che accade anche nel senso animale, ma produce nuovi ed improvvisi sentimenti, quali sono il riso , la sorpresa , ecc.. Ancora, solo l' uomo colla sua ragione rendesi suscettibile del sentimento del grande, il quale produce vari effetti, come la meraviglia , lo stupore , l' estasi , ecc.; passioni tutte umane, di cui le bestie interamente son prive. Veniamo ora a ragionare brevemente della sesta manifestazione dell' istinto animale, che fu da noi collocata nella virtù che ha il sentimento di atteggiare sè stesso , modificando il sensifero. Per intendere che cosa noi vogliamo dire con questa virtù del sentimento, conviene richiamarsi alla mente che noi conosciamo il sentimento in due modi, mediante il sentimento stesso immediatamente, di cui siamo consapevoli (soggettivamente), e mediante fenomeni da lui prodotti e da noi sentiti, ma che non sono lui stesso (extra7soggettivamente). Così altro è il sentimento del dolore, altro sono i movimenti che il dolore cagiona nel corpo, i quali possono essere da noi veduti senza sentire il dolore. Il dolore è il sentimento soggettivo, i movimenti sono i fenomeni extra7soggettivi da lui prodotti. Questi indicano quello, ma hanno natura totalmente diversa; e se i fenomeni extra7soggettivi si conoscono per via d' altri sentimenti, questi sentimenti non hanno a far niente con quello di cui si parla; e, come sentimenti, hanno anch' essi la loro parte soggettiva e l' extra7soggettiva. Ciò tutto fu dichiarato nell' Antropologia , a cui deve ricorrere il lettore, che ama di seguire i nostri ragionamenti. Supposto dunque che sia stata ben distinta la parte soggettiva del sentimento dall' extra7soggettiva, tosto sarà inteso come il sentimento soggettivo sia cosa immune affatto dallo spazio e però semplicissima, giacchè nel concetto del piacere, del dolore e di ogni altro sentimento puramente soggettivo, niuno può trovare il concetto di alcuna estensione, la quale non è che il termine di alcuni sentimenti, non il sentimento stesso. Ciò non di meno i fenomeni extra7soggettivi hanno una simultaneità e una correlazione coi soggettivi. Noi abbiamo detto che fra gli uni e gli altri non passa la relazione di causa immediata e di effetto immediato, perchè sono al tutto dissimili. Tuttavia al cangiarsi del fenomeno soggettivo cangiansi i fenomeni extra7soggettivi; il che fa credere che il cangiarsi del fenomeno soggettivo, se non è causa immediata, possa almeno essere causa mediata di tali cangiamenti. E considerata la cosa solamente rispetto alla dissimilitudine delle due serie di fenomeni, rimane tuttavia incerto; diviene certo, allorchè si considera che il sentimento soggettivo termina nell' esteso, come abbiamo detto, e che l' esteso è già egli stesso, in un senso, extra7soggettivo, benchè individualmente unito al soggetto, ed appartiene anche al fenomeno extra7soggettivo del sensifero, con esso identico di sostanza. Laonde, quantunque il sentimento (soggettivo) non sia causa immediata e prossima dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero, tuttavia egli è causa della mutazione del proprio termine immediato (l' esteso), il quale termine è poi anche subbietto dei fenomeni extra7soggettivi del sensifero. Rimane adunque che il sentimento (il soggettivo) sia causa rimota e mediata della modificazione dei fenomeni extra7soggettivi, ossia causa della causa di questa modificazione. Ben fermato tutto ciò, dico che « il soggetto, che è il principio del sentimento, ha per sua propria legge di adoperare ed atteggiare il sentimento in modo da trovarsi il meglio possibile, e quindi anche il meno male possibile ». Ora questa virtù e attività del principio senziente, che atteggia e modifica il sentimento, è cagione che succedano delle modificazioni nei fenomeni extra7soggettivi. Le facoltà, che si riferiscono a queste modificazioni, sono quattro principali: La facoltà locomotrice . Per questa l' animale cammina e fa vario uso di tutti i suoi organi. La facoltà formatrice o plastica. Per questa l' animale si natura, si nutrisce, ecc.. Noi dichiareremo meglio come ciò avvenga e secondo quali leggi nel quinto libro. La facoltà delle abitudini sensitive . Questa facoltà è la stessa virtù di atteggiarsi piuttosto in un modo che in un altro, la quale esercitandosi si sviluppa, si modifica, riceve nuove disposizioni, nuove condizioni del suo operare, e quindi nuove spontaneità. La facoltà che ha l' istinto animale di alterarsi e guastarsi . Questa facoltà, a cui appartengono i fenomeni morbosi, è sempre, come le altre tre precedenti, la stessa facoltà o virtù generale che ha il sentimento di atteggiarsi variamente, secondo le varie condizioni che gli sono poste dagli stimoli che agiscono su di lui, dalle abitudini, ecc.. Onde, qualora questi stimoli lo pongono in certe condizioni, egli è necessitato, sempre dalla medesima legge della sua spontaneità, a produrre i mentovati fenomeni morbosi, di cui parleremo in appresso. Continuiamo ora a parlare dell' istinto umano, il quale, sebbene sia cieco come istinto, tuttavia si associa a qualche cognizione, onde procede od in cui finisce. L' istinto umano si manifesta anch' egli con affezioni razionali, le quali producono una condizione passiva dello spirito, che si chiama passione razionale , e una condizione attiva , che costituisce gli abiti . Delle passioni razionali basta il poco che ne abbiamo detto. Quanto agli abiti , essendo l' abito « una disposizione della potenza ad agire in un dato modo », essi si dividono, primieramente, come si dividono le potenze o facoltà che modificano ed attuano. Le potenze e facoltà umane e intellettive, se si vogliono classificare dai loro effetti, si possono ridurre a due gruppi: il gruppo di quelle che producono effetti entro il soggetto, migliorandolo o deteriorandolo, e il gruppo di quelle che producono effetti fuori del soggetto (extra7soggettivi), quali sono quelle che cagionano i movimenti dei corpi. Quindi due gruppi di abiti: gli abiti che aderiscono a quelle facoltà che producono i loro effetti entro il soggetto, e gli abiti di quelle facoltà che producono i loro effetti fuori del soggetto. Le facoltà, che producono i loro effetti entro il soggetto, si riducono alla potenza morale , e qui si hanno gli abiti morali , che sono le virtù ed i vizi; e alla potenza razionale in quanto opera nel soggetto, e quindi gli abiti razionali della memoria , delle scienze , della prudenza , ecc.. Ma in quanto la potenza razionale muove i corpi, e quindi produce effetti extra7soggettivi, ella dà luogo al secondo gruppo di facoltà, onde nascono gli abiti delle arti meccaniche e liberali , quelli dei movimenti viziosi del proprio corpo , ecc.. Fin qui noi abbiamo toccate le principali diramazioni dell' istinto razionale, classificandole secondo i modi del suo operare . Un' altra classificazione ce ne riesce, qualora noi cerchiamo i suoi molteplici rami, pigliando a considerare i diversi oggetti , a cui l' istinto si riferisce. Ora, per intendere la natura di ogni istinto conviene investigare quale sia il suo principio, quale il principio comune di tutte le tante sue diramazioni. Se l' istinto non avesse un principio unico, il quale, restando sempre il medesimo, prendesse diverse forme di operare, non si potrebbero significare coll' epiteto generico d' istintive le funzioni animali e razionali, da noi enumerate e classificate. Quale è adunque il principio dell' istinto? quale l' intima e immutabile sua natura? L' istinto indica un modo di operare del soggetto, ossia una legge, secondo la quale egli opera. Cercare questa legge è cercare il principio e la natura dell' istinto. Questa legge, secondo la quale operando un soggetto, dicesi che opera istintivamente, noi l' abbiamo accennata parlando dell' istinto animale, e attribuendogli « la virtù di atteggiarsi nel modo più aggradevole ». Basta dunque che noi rendiamo più generale quella nostra osservazione, che non la limitiamo ai soggetti animali, ma la estendiamo a tutti i soggetti anche intellettivi e razionali, ed avremo trovato l' unico principio dell' istinto. Infatti noi abbiamo già stabilito che un soggetto qualsiasi è un sentimento sostanziale. Di più, abbiamo stabilito che ogni sentimento ha un' attività sua propria. In terzo luogo, abbiamo pure dimostrato che questa attività pone continuamente il sentimento, di cui ella è principio, nello stato più aggradevole che le sia possibile, e ciò perchè l' atto, che atteggia così il sentimento, è naturale e proprio di quella attività, giacchè ogni attività non sarebbe attività, se non avesse il suo atto naturale, col quale ella si pone ed è quello che è. Ma l' attività di un sentimento può talora essere dipendente e passiva da qualche cosa di straniero a lei; il che avviene in tutte le attività finite. Queste attività, questi principŒ senzienti sono dipendenti dalla natura del loro termine, il quale si muta per qualche cagione o forza straniera. Ora la qualità e quantità di questo termine straniero al principio senziente e le sue mutazioni sono talvolta favorevoli all' attualità del principio, e talvolta sfavorevoli. Sono favorevoli, quando aiutano il principio senziente a spiegare un' attività maggiore; sfavorevoli, quando comprimono la naturale sua attività, e la impediscono dallo spiegare tutto l' atto suo naturale. L' attività del principio allora lotta coll' impedimento; e qui si vede quale sia la nozione generalissima, che noi ci dobbiamo fare dello stato aggradevole o disgradevole di un sentimento. Un sentimento disgradevole, molesto, doloroso è quello in cui il principio senziente è impedito dalla condizione del suo termine a spiegare tutto quanto l' atto suo naturale. Un sentimento aggradevole è allora che il suo principio a suo agio spiega tutta quella attività che gli è possibile secondo la condizione del suo termine, senza che niente lo contrarii o impedisca. L' attività dunque del principio senziente, posta in atto, è essenzialmente piacere; quanto questa attività si fa più attuale, si spiega di più, tanto il piacere è maggiore; l' essenza dunque del sentimento è il piacere, e il dolore non è che ciò che diminuisce con forza e violenza il sentimento, lo comprime, lo limita. Se dunque il principio senziente ha per suo proprio atto naturale di spiegare il sentimento maggiore possibile, data la condizione del termine, egli lo deve fare spontaneamente; e ciò equivale a dire che lo fa con quell' atto stesso pel quale egli esiste, pel quale egli è principio senziente. Questo è il principio di ogni istinto. Esso si trova nella natura di ogni sentimento sostanziale, di ogni soggetto, è l' attività propria del soggetto. Perchè, a ragion d' esempio, si manifesta nell' animale l' istinto del cibo? perchè questo istinto lo muove a fare tutti i movimenti che egli fa per procacciarselo? La ragione si è che questi movimenti sono altrettanti sforzi del principio senziente per istar meglio, per avere uno stato di sentimento più compiuto, più aggradevole. Non conviene coll' immaginazione fermarsi a ciò che apparisce all' esterno, quando il lupo, poniamo, mangia la pecora. I movimenti del lupo, che appariscono ai nostri occhi extra7soggettivamente, non sono che conseguenze dell' operazione interna e soggettiva, che avviene nel lupo. Conviene che il nostro pensiero entri a considerare i sentimenti animali, che il lupo prova successivamente in questa sua impresa; questi interni sentimenti del lupo sono le cause dei suoi movimenti esteriori; tutto ciò che fa il lupo, lo fa nel suo interno, nel suo sentimento; quando dico lupo che fa qualche cosa, altro non dico che principio senziente operante, atteggiante il suo sentimento nel modo più aggradevole. Se appariscono, in conseguenza di quell' interno lavoro, dei movimenti all' esterno, essi non sono che conseguenze relative alla nostra facoltà visiva, e in generale alla nostra sensitività speciale. Noi parliamo di questi esterni fenomeni della sensitività nostra speciale, quasi che il lupo li producesse direttamente e immediatamente. Tutt' altro: l' azione del lupo comincia, prosegue e finisce nel suo sentimento; quell' azione del lupo muta il termine del proprio sentimento (corpo soggettivo); tale mutazione dà alla nostra vista i movimenti del corpo del lupo (fenomeni extra7soggettivi). Col mutare che fa il lupo i termini del proprio sentimento, e mediante questi termini mutati, agisce anche sui corpi esteriori (sulla pecora); e ciò che accade nei corpi esteriori, ha nuove relazioni colla nostra sensitività visiva o tattile, di modo che noi abbiamo nuovi fenomeni, i movimenti e mutazioni che accadono nel corpo della pecora a noi sensibile. Ma per dirlo di nuovo, la vera forza agente, la causa prima di tutto ciò è il principio senziente del lupo, che atteggia successivamente in varie guise il suo sentimento, fino che arriva a compire l' opera della propria nutrizione. Tale è il lavoro dell' istinto. Se noi consideriamo un atto dell' istinto razionale, troveremo che si fa secondo la stessa legge. Perchè sentiamo naturale diletto a considerare la verità? Perchè il nostro principio razionale7senziente ha per suo atto naturale e dilettevole l' apprensione e contemplazione del vero; e però noi spontaneamente procuriamo di apprenderlo il meglio che noi possiamo, e goderne. E` sempre il soggetto, che atteggia nel modo più piacevole sè stesso, il proprio sentimento soggettivo. Noi collocammo l' istinto nel novero delle facoltà. Ma vogliamo avvertito che egli è piuttosto un modo di operare di diverse facoltà che una facoltà determinata; è una legge, come abbiamo detto, che governa l' attività del soggetto e che lo costituisce. La volontà è la parte attiva del soggetto intelligente, e si può definire « quella virtù, che ha il soggetto, di aderire ad una entità conosciuta ». Questa adesione si fa per via d' interno riconoscimento . Ma dobbiamo dichiarare che cosa intendiamo per questa parola riconoscimento volontario . In senso rigoroso riconoscere suppone il conoscere precedente, e un conoscere che faccia equazione, dirò così, col riconoscere, sicchè l' oggetto della ricognizione rimanga tale quale nella cognizione si trova. Questo accade talvolta, e allora la ricognizione volontaria è vera, giusta, morale, perchè la volontà, riconoscendo l' entità conosciuta, non ne altera il pregio, ma se ne compiace in quella sola misura, che la cognizione diretta le prescrive. All' incontro, avviene altre volte che la volontà, invece di aderire semplicemente all' entità conosciuta, cresce a sè stessa o diminuisce ad arbitrio i gradi dell' essere, che ha quella entità; e però la stima più o meno di quel che vale, la riconosce per quel che non è, non per quello che è; ella suppone che quella entità sia diversa da quello che pur è nella cognizione diretta, e però all' entità, propostale dalla cognizione diretta, un' altra ne sostituisce, fingendola e creandola per l' energia di arbitrio, che ella possiede. Questo non è certamente puro e semplice riconoscere, ma è prima di tutto un contraffare e immaginare ciò che poscia si vuol riconoscere. Il riconoscere adunque, rigorosamente parlando, esprime l' atto della volontà, quando è retto e verace; quando poi è torto e menzognero, allora l' atto della volontà è prima un fingere, e poscia un riconoscere ciò che fu finto. Ma per cagione di brevità talora noi pigliamo la parola riconoscere per indicare la prima attività volontaria, sia ella retta o torta. Riconoscere adunque semplicemente e riconoscere fingendo , sono i due modi nei quali si manifesta l' attività volitiva. Che cosa è dunque questo atto della volontà, che chiamiamo riconoscere, sia egli retto o torto? E` un compiacersi che fa il soggetto intellettivo dell' entità conosciuta. - Onde avviene che il soggetto intelligente si compiaccia dell' entità conosciuta? - Avviene di qui, che l' entità conosciuta, e però ogni entità, è il suo proprio oggetto, quello che gli fa fare l' atto suo proprio. L' atto proprio di un soggetto è quello che lo fa essere ciò che è; ora ogni soggetto ama di essere, che l' atto di essere di un soggetto vivo è piacere, è l' essenza del piacere. Dunque, appunto perchè il soggetto intelligente tende ad essere e pone sè stesso, perchè l' essere è il suo proprio bene, quindi colla stessa energia, con cui il soggetto intelligente è, colla stessa tende ad essere più che possa, ad aumentare la propria esistenza, ad ingrandire e dilatare l' atto della medesima, e quindi a compiacersi degli oggetti di questo atto, coi quali esso si spiega, si accresce e si perfeziona. Dunque ogni entità conosciuta è bene al soggetto conoscente, ed è tanto più bene, quanto quella entità ha più gradi di essere. Ma non essendo l' uomo un soggetto puramente intellettivo, ma dotato ancora di sensitività corporea e razionale, avviene che egli non operi sempre secondo l' inclinazione e la legge dell' intelligenza, ma secondo quella della sensitività animale o razionale. Quando l' inclinazione di questa doppia sensitività prevale all' inclinazione della mera intelligenza, che fa allora l' uomo? Non amando rinunziare all' inclinazione dell' intelligenza, seduce ed inganna sè stesso, e si persuade che il bene, presentatogli dal sentimento animale o razionale, sia maggiore di quello che è, maggiore di quello che la cognizione diretta gli dice; e così finge, contraffà l' oggetto della cognizione diretta, lo distrugge in parte o nasconde a sè stesso, in parte aggiunge coll' immaginazione e crea in esso quel bene che non vi è. Questa è la facoltà che ha l' uomo di mentire e di peccare. Non è già che egli sia costretto o necessitato a far ciò; ma egli può farlo, e però talora lo fa; questo è propriamente l' arbitrio della volontà. Quando adunque la ricognizione è torta e menzognera, allora ella è tale perchè precede a lei un sentimento e un affetto, che torce e seduce la volontà riconoscitrice. Ma se il riconoscere semplicemente, o il riconoscere fingendo, è il primitivo atto della volontà, gli effetti della volontà si fermano e finiscono in esso? No, ma il riconoscimento ha un' efficacia reale, che tira dopo di sè varie sequele nell' uomo. Queste primieramente sono di due maniere, i decreti della volontà e gli affetti (1). Qualora la cosa riconosciuta dalla volontà sia qualche bene che l' uomo ancora non ha, allora seguita un decreto volontario, col quale la volontà si propone di procacciarselo, e quindi di mettere in uso i mezzi necessari per arrivare a tal fine. A ragion d' esempio, un ferito vuole la guarigione; egli prima riconosce la guarigione della sua ferita per una entità buona; quindi decreta di applicare i rimedi, e in conseguenza di questo decreto muove le mani e li applica. Questo movimento esterno delle mani e del suo corpo viene in conseguenza del decreto, il quale ha virtù di muovere la forza animale locomotrice. Ma talora la cosa riconosciuta dalla volontà per un bene già si possiede, e non si tratta che di goderne maggiormente. Allora l' effetto immediato del riconoscimento suol essere l' affezione sensibile , che si muove spontanea, e che non è altro se non aumento e perfezione di quel piacere, che già contiene il riconoscimento del bene posseduto. A questi affetti spontanei tengono dietro dei movimenti corporei che li aiutano, i quali si manifestano extra7soggettivamente agli spettatori; e sono quei gesti esterni e quelle esterne azioni, che naturalmente dimostrano la gioia o il dolore, o gli altri affetti internamente concepiti. Quantunque poi il riconoscimento di un bene conosciuto, più o meno abituale, più o meno attuale, si continui in forma di affetto istintivamente, tuttavia può intervenire anche il decreto, che fa la volontà, di suscitare tali affetti; col quale decreto l' uomo può rendere il riconoscimento attuale, o può dargli maggiore attualità che istintivamente esso non avrebbe. Così i movimenti, che avvengono nel corpo, possono procedere dalla volontà per due vie, per quella del decreto e per quella dell' affetto . Si possono adunque distinguere tre specie di atti della volontà: 1 gli atti istintivi , che sono gli affetti spontanei, compresa in essi la ricognizione spontanea che ne è il principio, e i movimenti conseguenti del corpo; 2 i decreti che determinano l' acquisto di un bene che non si ha, e l' uso dei mezzi per acquistarlo; ovvero determinano gli atti per accrescere il godimento attuale del bene che già si ha, e questi decreti si sogliono chiamare atti eliciti; 3 e finalmente i movimenti delle potenze stabiliti coi decreti, i quali atti si sogliono chiamare atti imperati . Gli atti eliciti e gli atti imperati sono sempre assentiti dalla volontà; ma gli atti istintivi sono assentiti solo allora che la volontà, potendo impedirli, fa il decreto di non impedirli; sicchè l' assenso suppone sempre il decreto. Tuttavia il decreto di non impedire gli atti spontanei può essere prossimo o remoto; è prossimo, se si decreta di non volere impedire quegli atti; è remoto, se si decreta di non volere impedire la causa di quegli atti, riputandosi che chi vuole la causa, voglia l' effetto. Tutti gli atti della volontà si chiamano volizioni. Gli atti istintivi, non mossi da alcun decreto, sono volizioni senza scelta. La scelta cade sempre nell' ordine dei decreti, perocchè quando si pronuncia internamente un decreto, allora si sceglie sempre fra il volere e non volere la cosa. Questa scelta talora è così libera che viene determinata dall' energia stessa della volontà e non dagli oggetti, ed allora v' è quella che si chiama libertà bilaterale , e che è necessaria al merito morale proprio degli uomini viatori. Quali sieno le condizioni della libertà bilaterale nel suo esercizio, fu da noi ragionato nell' Antropologia ed altrove. Ogniqualvolta l' ingegno umano si volge allo studio delle cose naturali, prende piede il metodo analitico; di che la ragione è questa, che la materia si conosce dall' uomo per la sua divisibilità, per le sue parti e loro diversi accozzamenti ed aspetti, ed apparenze sensibili; almeno tale è la cognizione che cercano di essa le naturali scienze, le quali non vanno più in là della percezione , che è tutto il loro fondamento. Il quale esercizio d' analisi giova sommamente ad addestrare l' ingegno, e a renderlo più spedito in opera di scienze. Ma poichè l' uomo è limitato, qualora s' appiglia ad un metodo parziale e se ne invaghisce, dimentica facilmente e non più apprezza gli altri, pur buoni anch' essi e necessari alla perfezione del sapere. Oltre di che, l' uomo propende agli estremi; e però, datosi al ragionare analitico e colti dei bei frutti, tosto immagina e si persuade che quel solo metodo basti a tutto, e che l' analisi sia l' unico fonte di ogni sapienza. E tuttavia questo eccesso di confidenza che gli uomini mettono nell' analisi, in quei secoli nei quali le scienze naturali pigliano il sopravvento, non è senza qualche vantaggio all' educazione dello spirito, che non può mai accingersi felicemente alla sintesi scientifica, se l' analisi prima non sia perfezionata e, se fosse possibile, esaurita. Ora l' analisi non si spingerebbe forse mai tanto innanzi, qualora la mente si applicasse a due lavori ad un tempo, volesse percorrere due vie, e parte ragionare analizzando, parte sintesizzando. Sono già ben due secoli che l' umano ingegno analizza; perchè sono oltre due secoli che le scienze fisiche e materiali acquistarono maggioranza sulle intellettuali e morali. Onde queste provarono i funesti effetti di quel metodo analitico, che, quando prevale a segno da escludere la sintesi, è insufficiente a rinvenire certe verità, e, se vuol fare quel che non può, partorisce errori. E le verità, a cui vien meno l' analisi scompagnata dalla sintesi, sono appunto molte di quelle che hanno per loro oggetto la natura e le leggi degli spiriti, i quali, semplici come sono, non si lasciano dividere in parti materiali. Per fermo, lo studio delle nature spirituali non può procedere innanzi utilmente colla sola analisi, e molto meno con un' analisi materiale. Laonde la prostrazione, in cui dopo la Scolastica caddero le scienze che riguardano gli spiriti, si deve riputare appunto a queste due cause: 1 ad essere state trattate esclusivamente per via d' analisi, dimenticata la sintesi; 2 ad essere state trattate con quella specie d' analisi, la quale ben si conviene alla materia, che è molteplice, ma non allo spirito, che è semplice e uno. Se noi consideriamo la storia della filosofia dello spirito, da Condillac fino a tutta la scuola scozzese, senza voler trovare in questi ultimi filosofi il materialismo, osserveremo che è perduta in essi l' unità dello spirito umano, il quale è divenuto una mera aggregazione di facoltà quasi iuxta positae : si parla di principŒ d' azione, di fatti di prim' ordine; del principio ond' escono le facoltà e in cui rientrano, del principio7sostanza, o non se ne parla, o assai leggermente, quasi fosse un' accessorio, o un non so che di appiccicato, quand' egli, ed egli solo, è pure lo spirito. Se questi filosofi, così procedendo, decapitarono, per così dire, le scienze psicologiche, si fu perchè fecero un uso esclusivo dell' analisi, avendo il loro spirito perduto quasi l' uso della sintesi. Ma i Frenologi, che ad essi successero, produssero dei lavori guasti di gravissimi errori, a cagione che non solo applicarono allo spirito il solo metodo analitico, escluso il sintetico, ma vi applicarono quel metodo analitico materiale, che ai soli corpi conviene, quasi pretendendo che l' aggregazione delle facoltà, di cui i precedenti filosofi avevano fatta constare l' anima, altro non fosse che l' aggregazione degli organi ben distinti, di cui si compone il cervello. Per questo, non senza ragione, un autore recente mise a confronto gli autori della scuola scozzese coi Frenologi, e trovò gli uni e gli altri peccare in questo, d' aver messo in obblìo l' unità del soggetto, squarciatolo in facoltà distinte o in organi, su cui non più la mente esercita la sua analisi, ma il coltello anatomico le sue incisioni (1). Niuno imputerà a noi che siamo avversi all' analisi; noi ripetiamo che non si dà una sintesi veramente scientifica, una sintesi verace, se l' analisi prima non fu in qualche modo esaurita. Che se noi abbiamo cominciato l' opera presente con una ricerca eminentemente sintetica, « quale sia la natura dell' anima », ciò ci fu lecito, dopo avere lungamente analizzato nei lavori precedenti quanto nell' anima si può osservare di atti e di facoltà. E noi abbiamo tutto ciò analizzato con quell' analisi che conviene solo allo spirito, la quale non lo tagliuzza in parti separate, anzi considera le singole parti senza schiantarle dall' unica radice in cui vivono, si muovono e sono, che è la sostanza dell' anima stessa. Ora poi, dopo aver noi meditato su quella prima questione sintetica, « quale sia la natura dell' anima umana », da questo ceppo delle facoltà tutte o delle funzioni movendo, abbiamo distinte ed enumerate queste facoltà e funzioni; il che fu un tornare all' analisi. Ma compiuto anche questo lavoro, derivate le facoltà umane dal loro principio, ci conviene che a quel principio medesimo le riconduciamo, acciocchè vi attingano le leggi del suo e del loro operare. Per questo noi abbiamo apposto l' epiteto di sintetici ai tre libri seguenti, che trattano delle leggi secondo le quali operano le potenze dello spirito umano, perocchè queste leggi derivano dalla natura intima dello spirito, e sono sequele a quell' atto primo e sostanziale, pel quale e nel quale lo spirito è quello che è, o, meglio ancora, a quell' atto che è lo stesso spirito. Oltre di che la dottrina delle leggi, che governano l' attività dello spirito, deve dirsi sintetica anche per questo, che ogni legge che si stabilisca, altro non è finalmente che una grande sintesi, a cui si conducono innumerevoli atti, che si fanno allo stesso modo; il qual modo identico, che essi tengono, è appunto il segno e la sostanza della legge. Come poi nel precedente libro, dove fu nostro intendimento enumerare e descrivere le speciali potenze dell' anima, lo abbiamo fatto incominciando a derivarle e raccoglierle dall' essenza stessa di lei, così ora ci è uopo di additare, prima d' ogni altra cosa, la sorgente unica di tutte le leggi che segue lo spirito e le sue attività, negli atti in cui si svolgono, la quale è pure l' essenza medesima dell' anima; al che poniamo tosto mano. Riprendiamo adunque la natura umana quale l' abbiamo descritta; ricapitoliamo tutti gli elementi che la compongono, e nella natura di questi cerchiamo le leggi che presiedono al suo operare, pel quale ella si svolge e perfeziona. A tale intento prima di tutto consideriamo da capo la definizione dell' uomo. L' uomo è « un soggetto animale, intellettivo e volitivo ». Questa definizione può essere compendiata in quest' altra: « un soggetto razionale ». La prima definizione ha il vantaggio d' indicare le potenze primitive dell' uomo. Infatti l' intelligenza è potenza primitiva , laddove la ragione è potenza risultante , come abbiamo veduto. Per questo noi preferimmo dire che l' uomo è un soggetto intellettivo piuttosto che un soggetto ragionevole. Che se in quella prima definizione avessimo posto ragionevole o razionale in luogo d' intellettivo, non ci era più permesso di far entrare nella definizione l' animalità, come quella che sarebbe stata già compresa nella razionalità; e così non avremmo ottenuto l' intento di dare una definizione, in cui fossero distintamente accennate le potenze primitive. A malgrado di ciò, ritrattando ora la questione, troviamo più perfetta l' altra definizione testè recata: « l' uomo è un soggetto razionale »; perchè, dato che la parola razionale sia precedentemente dichiarata, il che noi facemmo, questa definizione, oltre il pregio della brevità, gode dei vantaggi seguenti: 1 Quantunque l' intelligenza sia potenza primitiva, tuttavia non è quella che costituisce la natura dell' uomo; di maniera che colla sola intelligenza sarebbe posto in essere un soggetto intellettivo, ma non ancora l' uomo; fino a tanto adunque che il nostro pensiero si ferma all' intelligenza, l' uomo è in via di formarsi, ma non è ancora formato; l' attività che pone l' uomo è la ragione. 2 La ragione, essendo quell' attività in cui conviene e si annette l' intelligenza coll' animalità, esprime acconciamente l' unità del soggetto umano e il vincolo primordiale delle sue potenze. Vero è che nella definizione, « l' uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo », la parola soggetto indica sufficientemente l' unità dell' essere umano; ma la definizione, « l' uomo è un soggetto razionale », oltre esprimere l' unità dell' uomo, indica altresì il come questa unità si formi, in virtù cioè della ragione, che congiunge in sè stessa l' intelletto ed il senso (1). Ora, affinchè questo nesso meraviglioso dell' animalità coll' intellettualità riceva quella luce che ci bisogna per dedurne le leggi che segue operando l' umana natura, dobbiamo renderci presente all' attenzione della mente la dottrina ontologica delle relazioni essenziali agli enti, le quali si dicono essenziali perchè entrano a costituirli. E prima non si dimentichi che gli enti, dei quali noi parliamo, sono quelli che cadono nei nostri concepimenti, poichè se non li concepissimo, non ne potremmo pur parlare. Ora questi enti, i quali cadono nel nostro concepire, hanno in sè delle relazioni così essenziali che, senza di esse, non sarebbero quello che sono. Quindi essi cangiano di natura nella nostra mente, secondo che il nostro pensiero li considera con alcune di queste relazioni essenziali ovvero con altre; perocchè se da un ente concepito si toglie una sua relazione essenziale, egli è già per questo solo incontanente un altro ente, e viene espresso con un altro vocabolo; e se una ve ne si aggiunge, egli di nuovo non è più quell' ente, ma un altro; appunto perchè si tratta qui di relazioni essenziali, che fanno parte dell' essenza dell' ente, ossia dell' ente stesso. Questa avvertenza riuscirà chiara a quelli che già conoscono la nostra dottrina del sintesismo dell' essere. Ora dobbiamo applicarla alle diverse entità, che entrano nella costituzione dell' anima umana, la natura delle quali e il loro intimo nesso ci è bisogno conoscere per dedurne le leggi. Se noi consideriamo l' ente dotato di estensione, facilmente ci accorgiamo che il concetto dell' estensione risulta da una relazione essenziale fra le parti, che possiamo assegnare col nostro pensiero in un dato continuo, o fra punti che possiamo in esso a voglia nostra concepire. La relazione essenziale fra le parti, di cui parliamo, consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. La relazione essenziale fra i punti assegnabili consiste in questo, che fra un punto e l' altro sia un dato continuo, maggiore o minore, sicchè i punti non si possano toccar mai. Il concetto dell' ente esteso risulta da queste relazioni; e però l' estensione involge relazione possibile di parte estesa a parte estesa, e di punti a punti, la cui relazione è la distanza. Ma se all' incontro noi consideriamo la relazione del continuo col principio senziente, questa relazione è del tutto diversa; non è relazione di parte a parte o di punto a punto, poichè il principio senziente non è nè una parte estesa, nè un punto matematico. Questa relazione fra l' esteso e il principio senziente fu da noi chiamata relazione di sensilità . E` evidente che questa relazione è inestesa, appunto perchè non è relazione di parte a parte o di punto a punto, la qual sola forma l' estensione. Dunque noi conchiudemmo che il principio senziente apprende l' esteso in un modo inesteso. Quando poi diciamo che il principio senziente apprende l' esteso, noi veniamo a dire che l' esteso è nel principio senziente. Ma l' esteso non è nel principio senziente come una parte è in un' altra parte maggiore; dunque l' esteso non è nel principio senziente con quella relazione che costituisce l' estensione; dunque l' esteso è nel principio senziente in un altro modo, cioè in un modo inesteso. Questo stesso si prova con un altro argomento così. Che cosa vuol dire un ente essere nell' altro in un modo esteso? Vuol dire essere nell' altro secondo la legge dell' estensione. E quale è questa legge? E` che un ente sia in un altro come un' estensione minore è in un' estensione maggiore, come la parte di un corpo è nel tutto. La parte di un corpo è nel tutto in modo che ella è fuori delle altre parti, di maniera che niun corpo, propriamente parlando, è contenuto in un altro corpo, benchè possa essere da un altro corpo circondato, appunto perchè questa è la proprietà dell' estensione, che ogni sua parte sia fuori dell' altra; la quale proprietà, quando si considera nei corpi che godono dell' estensione, chiamasi impenetrabilità . All' incontro, se si considera come l' esteso sensibile sia nella sensazione o nella percezione sensitiva, è chiaro che non vi è nel detto modo, perchè non si trovano due estensioni, l' una delle quali minore compresa nell' altra maggiore, ma tutta intera l' estensione trovasi presente al principio senziente e percipiente, il quale non è già una estensione maggiore che comprenda la minore, ma anzi è cosa diversa dall' estensione, di cui l' estensione è il termine; dunque l' esteso non è nel principio senziente secondo il modo che prescrive la legge dell' estensione, ma vi è in un modo inesteso. Tutto ciò viene dato dalla semplice osservazione; è un fatto innegabile; basta dargli attenzione per riconoscerlo. Se si vuole ancora un' altra prova di questo vero, o un altro indizio a cui riconoscere questo fatto, si mediti ciò che sono per dire. La frase, « un corpo ne contiene un altro, un esteso contiene un altro di lui minore », è impropria e, rigorosamente parlando, falsa, appunto perchè l' estensione e ciò che gode dell' estensione è impenetrabile, come dicemmo; una parte non può essere dentro l' altra senza distruggere la sua propria estensione. Ora, se l' esteso fosse contenuto nel principio senziente come un esteso è nell' altro, conseguirebbe che l' esteso non sarebbe mai contenuto nel principio senziente, ma il principio senziente non farebbe che circondarlo, che stargli a lato. In questo caso il principio senziente non potrebbe mai sentire l' esteso, perchè l' esteso si rimarrebbe sempre fuori di lui, come accade di ogni esteso rispetto ad un altro esteso; e ciò perchè l' esteso non può sentire l' esteso. Ma il principio senziente sente l' esteso, tutto l' esteso; dunque è necessario che l' esteso sia nel principio senziente secondo un' altra relazione, secondo un' altra legge, diversa da quella dell' estensione, il che è quanto dire in un modo inesteso. Di più, se il principio senziente avesse estensione e percepisse gli estesi, ricevendoli nella sua propria estensione, allora o l' estensione del principio senziente sarebbe la medesima di quella degli estesi che egli sente, o sarebbe diversa. Se fosse la medesima, il principio senziente non sentirebbe che sè stesso e niuna nuova sensione a lui s' aggiungerebbe mai; se fosse diversa, aggiungendosi una estensione a quella del principio senziente, la nuova estensione per essere sentita dovrebbe diventare ella stessa principio senziente; altro assurdo manifesto, perchè nella sensione e percezione sensitiva altro è il senziente, altro è il sentito. Finalmente, se il principio senziente fosse esteso, ogni parte della sua estensione non potrebbe sentire che una parte estesa della sua propria dimensione. Ma per quantunque minime fossero le parti che si assegnassero col pensiero, si potrebbero sempre diminuire ancora, e ciò indefinitamente, di maniera che le parti minime non si potrebbero mai rinvenire, perchè nell' esteso non vi sono parti assolutamente minime; onde non si troverebbero mai le parti senzienti, giacchè ogni parte non potrebbe essere sentita tutta intiera dalla sua parte corrispondente, giacchè questa stessa avendo altre parti, ciascuna di esse non sentirebbe tutta la parte intiera, onde sarebbe impossibile determinare una parte che tutta sentisse tutta un' altra parte; mancherebbe adunque il principio senziente atto a sentire tutto un esteso, per piccolo che egli fosse (1). Per la stessa ragione mancherebbe anche l' esteso sentito, perchè non vi sarebbe un senziente capace di sentirlo come esteso. Che se si supponga il principio senziente essere un punto matematico, questo ad ogni modo non potrebbe sentire più che un punto matematico, perchè l' esteso o il punto non ha alcuna esistenza, nè azione fuori di sè stesso, e perciò non sentirebbe l' esteso. Anzi l' esteso stesso non sarebbe al tutto, giacchè fuori del principio senziente ei non può essere. Infatti se nell' esteso ogni parte è fuori dell' altra, ogni parte, e, per dir meglio, ogni minimo esteso esiste fuori dell' altro. Se esiste fuori dell' altro, la sua esistenza e la sua essenza è limitata a sè, e non ha alcuna relazione propria ed essenziale coll' altra. Ma ogni minimo esteso è una unione di estesi ancora più piccoli, e ciò all' indefinito; gli ultimi estesi adunque non sono reperibili, e così l' estensione va a svanire. Se dunque l' estensione suppone parti possibili coesistenti, se suppone continuità, la quale senza alcuna interruzione abbia un' esistenza unica simultanea, conviene che vi sia un principio semplice, che possa abbracciare simultaneamente tutte le parti possibili; sicchè non rimanga già la sola esistenza delle singole parti, ma di esse tutte si formi un' esistenza sola, un ente solo; tale essendo la natura del continuo, che in esso si possano assegnare parti con esistenza individuale ed indipendente, e che tuttavia egli non abbia queste parti, in quanto è continuo. La ragione dunque del continuo, proprietà dell' estensione, non si trova nell' esistenza individuale delle singole parti, ma in un principio semplice loro superiore, che dà loro un' esistenza unica per tutte, e che, abbracciandole tutte, le abolisce, cessando esse d' essere parti di continuo per essere solamente continuo. Ora questo fa il principio senziente, al quale è presente il continuo senza parti, benchè in esso si possano assegnare parti innumerevoli. Per questo noi dicemmo che l' esteso non può esistere che nel semplice (1). Quello che c' importa qui di raccogliere dai sopra esposti ragionamenti si è che della natura dell' estensione e dei corpi si può ragionare in due modi, e quindi anche averne due concetti. Poichè si può considerare la natura dell' estensione dei corpi: Sotto la relazione essenziale all' estensione , la quale consiste in questo, che una parte sia fuori dell' altra. Colla quale considerazione il pensiero non esce dall' estensione o da ciò che è esteso; non fa che considerarla in sè stessa, paragona una sua parte ad un' altra. Sotto la relazione pure essenziale di sensilità . Colla quale considerazione si paragona l' estensione o l' esteso col principio senziente, e la si trova condizionata a lui e in lui inestistente. Il comune degli uomini considerano l' estensione e l' esteso sotto la prima relazione, ed in essa pongono la sua essenza; il filosofo deve considerarla sotto la seconda, ed intendere che anche la seconda entra a costituirne l' essenza, e quindi che l' estensione ha un nesso essenziale col principio senziente, che non è lei. Questi nessi tra due enti, essenziali ad entrambi, sono il fondamento del sintesismo ontologico , e la chiave della filosofia più elevata. Ora si deve osservare che la prima relazione essenziale non è già distrutta dalla seconda, che anzi la seconda suppone la prima. E veramente, qualora l' estensione continua o l' esteso continuo si considera come esistente nel principio senziente, non avviene che si confonda col principio senziente, a cui è anzi opposto siccome suo termine. Questo termine adunque è un ente in sè stesso, costituito di maniera che esso si può concepire non uscendo di lui, non aggiungendovi cosa alcuna; e però è una sostanza, perocchè « sostanza è ciò che ha quanto gli abbisogna d' avere per essere concepito, e che però esiste in sè stesso ». Si noti bene: acciocchè una cosa sia una sostanza non è necessario che ella non abbia una causa, o un principio che la costituisca; ma basta che possa essere concepita da sè; più brevemente, « sostanza è ciò che ha un concetto suo proprio ». Se non che la parola sostanza involge di più una relazione coll' accidente , come accade nella sostanza corporea, che ammette vari accidenti, i quali in essa e per essa esistono, e non hanno un concetto separato ed indipendente, non potendosi concepire esistente un accidente corporeo, se prima non si concepisce un corpo, un esteso, in cui egli sia; al quale si dà appunto perciò la denominazione di sostanza . Si chiama dunque sostanza « un ente (ossia ciò che ha un concetto proprio) considerato in relazione con altre entità, che in lui e per lui esistono »; e questa è la definizione più completa della sostanza. Si dirà che se l' esteso continuo ha per sua relazione essenziale l' esistere nel principio senziente, pare che esso non si possa concepire senza ricorrere al principio senziente in cui esiste, perchè tutto ciò che è essenziale entra nel concetto d' un ente. Ma qui si avverta primieramente che per questo appunto dicemmo che, coll' aggiungere una relazione essenziale o col sottrarla, mutasi l' ente nel nostro concetto, cangiandosi essenzialmente; giacchè abbiamo premesso che gli enti, di cui parliamo, sono quelli che concepiamo; ma la parte essenziale che vi si aggiunge, non muta la prima. Di poi si consideri che il concetto di esteso continuo, quantunque non si consideri in esso il principio senziente, tuttavia presenta in sè ciò che la semplicità di questo principio produce, che è la continuità ; di modo che è ragionando sulla natura di questa continuità che in appresso s' induce la necessità d' un principio senziente. Ma questa induzione, benchè si fondi sul primo concetto dell' esteso, tuttavia appartiene ad un ragionamento posteriore alla concezione di lui; il quale non è necessario alla concezione dell' ente, che col primo concetto , come dicemmo, si pone. Fin qui noi parlammo promiscuamente della estensione e dell' esteso, perchè il nostro ragionamento valeva per l' una e per l' altro. Ora, prima di procedere a parlare dell' unità, che il principio senziente dà al suo termine, giova, per ragione di chiarezza e per rimuovere ogni dubbio dalla mente di chi toglie a ragionare con noi, che distinguiamo l' estensione dall' esteso . Per estensione noi intendiamo il medesimo che spazio considerato indipendentemente dai corpi; e per esteso noi intendiamo il corpo che occupa una parte dello spazio, ossia della estensione. L' estensione, ossia lo spazio pieno o vuoto, occupato o non occupato dai corpi, esiste egualmente, e non è certamente un nulla, come taluno si dà a credere; conciossiacchè il nulla non può essere occupato da una cosa alcuna, nè nel nulla si possono assegnare parti col pensiero, come si può nello spazio. Ora questo spazio è immenso (1), immobile, indivisibile, ossia continuo ed immodificabile; ed è solamente il corpo che è misurabile, mobile, divisibile, modificabile; ma il corpo, sia o non sia in un dato spazio, non modifica punto lo spazio, ossia l' estensione; questa rimane quella che era prima. Noi ammettiamo che lo spazio puro sia un termine della percezione fondamentale dell' anima. Questo spazio primitivo non è una forma nel senso di Kant, quasi una legge dell' operare e una produzione dell' anima stessa, ma è il termine, distinto dall' anima, di una naturale percezione. Questo termine però ha successivamente due stati: il primitivo , privo di qualsivoglia distinzione o relazione quantitativa, o d' altra natura (spazio puro indistinto); e il riflesso , che è lavorato dalla riflessione della mente, che paragona lo spazio primitivo, percepito anche intellettivamente, colle varie dimensioni dei corpi e colle possibilità di tali dimensioni (idea di spazio puro distinto, ossia riportato ai corpi). Questo spazio riflesso, puro, ma distinto, con relazioni quantitative, è di altro genere, è l' idea di spazio interminabile , di cui abbiamo dichiarata l' origine nel Nuovo Saggio (1). Noi ammettiamo che uno dei termini del sentimento fondamentale è un corpo esteso, e però anche un' estensione distinta, limitata quant' è il corpo. Ma avendo l' animale virtù di muoversi, e il muoversi non essendo altro che trasportare il corpo in un' altra parte dello spazio, qualora rimanga un vestigio dello spazio precedentemente occupato, lo spazio distinto rimane ingrandito nel principio senziente in proporzione del movimento e della ritentiva del medesimo. Accadendo poi questo moto nell' uomo, il quale, dotato com' è d' intelligenza, ha il concetto del possibile, l' uomo intende la possibilità di moltiplicarsi e di estendersi lo spazio del suo corpo e di altro corpo all' indefinito mediante il moto, e così si forma il concetto dello spazio riflesso, distinto, puro od immenso (2). Questo concetto adunque manca all' animale che non ha concetti, e nell' uomo è acquisito; quando lo spazio indistinto della percezione sensitiva e razionale è innato. L' istinto poi del moto suppone bensì la percezione fondamentale dello spazio immenso distinto, ma non l' idea dello spazio distinto, perchè quell' istinto non è che il sentimento corporeo avente uno spazio limitato, benchè non ne senta i confini esteriori, e tendente ad atteggiarsi nel modo più agiato e piacevole, senza che l' animale senta, prima di recarvisi, come pieno e distinto, il nuovo spazio in cui colla sua attività si trasporta; ma lo sente distinto, cioè occupato ossia occupabile, solamente allora che vi si è già trasportato, se pure ha modo di conservare in sè i vestigi dello spazio precedente. Lo spazio adunque annesso al proprio corpo è lo spazio distinto perchè occupato, ma non è segnato da confini, che non si possono distinguere, perchè non si sente ancora nulla di corporeo fuori dello spazio sentito che lo limiti; lo spazio adunque del proprio corpo è assolutamente limitato, ma l' animale non ne ha la misura, perchè la misura suppone una relazione con altra quantità estesa, la quale manca ancora prima che esso animale eserciti la sua virtù locomotiva, e ne riceva nuove sensioni. Ora poi, essendo il mero spazio immodificabile ed immobile, egli non ha accidenti; e però, quantunque convenga a lui il nome di ente , perchè il suo concetto, dopo che l' uomo se lo procacciò, è sufficiente a sè stesso e non ha bisogno di corpo, tuttavia a lui non compete il nome di sostanza , perchè il concetto di questa è relativo ad altre entità, che nell' ente e per l' ente esistono, cioè agli accidenti. Dove di nuovo si vede essere una affermazione gratuita quella che « « non si dieno altri enti se non sostanze ed accidenti », » affermazione che appartiene ad una Ontologia materiale e falsa (1). Che poi lo spazio sia un ente e non sia un nulla, si vede da questo stesso che egli è termine, insieme colla forza corporea o senza questa, del sentimento. Ma perchè ciò che si muta è solamente questa forza ed egli si rimane immobile, conviene dire che egli sia un ente, che ha solo l' atto primo con cui è nel principio senziente, e come termine lo informa; ma non ha altra attività, nè atti secondi; perciò appunto non ha accidenti; onde alcuni, che nulla riconoscono se non vedono accidenti ed atti secondi, cadono nell' errore di dichiararlo un nulla. Per altro quando si considera lo spazio puro, l' estensione, come termine immediato dello spirito, egli si considera nell' atto stesso di costituirsi, non avendo altra attività che quella che dimostra come naturale termine del principio senziente; laddove il concetto del corpo (dell' esteso), quale termine del principio senziente, involge di più una passività che ha natura corporea, sì rispetto allo spirito di cui è termine, e sì rispetto ad altre virtù o forze esteriori, che lo muovono e lo modificano indipendentemente dallo spirito nostro. Laonde, se ad acquistare il concetto di spazio distinto, ossia di qualche spazio, basta all' uomo l' astrarre dal corpo, ad acquistare il pieno concetto di corpo è necessaria l' esperienza, che dimostri essere il corpo un ente che agisce nello spirito, su cui lo spirito reagisce modificandolo, e su cui finalmente altre forze e virtù straniere pure agiscono e producono in esso movimenti e modificazioni. Da tutte queste notizie, raccolte dall' esperienza, lo spirito umano conchiude quale forza sia quella che si distende nell' estensione, e che si chiama corpo (1). Noi possiamo ora dalle cose dette avere un corollario importante, cioè che quella unità che si trova nell' estensione e nell' esteso corporeo, viene costituita dalla unità e semplicità del principio senziente, ossia dall' anima. E veramente la sola unità, che si scorge nell' estensione e nell' esteso, consiste nella continuità . Se leviamo la continuità, se colla mente la spezziamo successivamente, lo spazio ed il corpo ci si moltiplica sempre più, e questa moltiplicazione non ha alcun fine, perchè il continuo ci rimane sempre; per questa via dunque della divisione e moltiplicazione all' infinito non si trova mai uno spazio ed un corpo senza continuo, e l' immaginarlo è un assurdo. Se poi noi leviamo il continuo d' un tratto e non successivamente, ogni estensione ed ogni corpo fenomenale è perito (1). Ora noi vedemmo che la continuità dell' esteso non si può concepire se non a condizione di un ente, il quale, identico, sia contemporaneamente in tutte le parti assegnabili del continuo; e questo è ciò che si può affermare dello spirito, quando si considera il continuo come termine indiviso e indivisibile di lui. Se dunque l' unica semplicità del mondo materiale consiste nella continuità, e se questa ha tal concetto, tal natura che fuori del principio senziente non può stare, anzi ripugna il pensarla, dunque la semplicità e l' unità del mondo materiale risulta da questa sua essenziale condizione e relazione, che egli è termine del principio senziente animale, o, che è il medesimo, dell' anima sensitiva. E qui mi affido che coloro, i quali avranno inteso tutto questo ragionamento, non faranno l' obbiezione che « l' essere due corpi contigui o disgiunti è condizione dei corpi stessi e non del sentimento », poichè, dicendo ciò, mostrerebbero di non avere considerato: Che l' estensione immobile è il fondamento del continuo anche nei corpi, i quali non sono che forze diffuse nella estensione, e questa ha la sua sede nel principio senziente. Che la contiguità dei corpi non è nulla rispetto agli stessi corpi singoli, ciascuno dei quali non ha in sè nulla della relazione di vicinanza o contiguità coll' altro; e però questa relazione è estranea al loro concetto, ed altro non è che una relazione, che ciascuno di essi ha col termine del principio senziente, cioè coll' estensione immobile ed immodificabile; e però la loro contiguità è relazione col principio senziente, il quale li sente nello spazio, da cui esso principio, come da termine suo proprio, è informato. Dato un ente, il cui concetto escluda la possibilità d' una successione, quell' ente dicesi eterno. Tali sono le idee (1), tale è l' essere necessario, Iddio. E si noti che a poter dirsi un ente eterno, egli non solo deve escludere di fatto la successione, ma ben anche la possibilità di lei, di maniera che il pensare che in esso sia successione equivale ad un distruggerlo. Così un atomo materiale immobile è privo di successione, ma egli potrebbe averla, perchè si potrebbero pensare in lui delle mutazioni, senza annullarne il concetto; perciò egli non è delle cose eterne. Successione importa mutazione; onde ciò che è eterno è altresì immutabile. Per la stessa ragione ciò che ha cominciato ad essere, oppure solo che si può pensare senza ripugnanza aver egli incominciato, non è eterno. Poichè se una cosa può cominciare, niente vieta che si pensi un' altra cosa, che cominci ad essere prima o dopo di quella, o che ella stessa finisca dopo avere cominciato; è dunque tosto possibile il pensare che quella cosa sia il termine di una serie successiva, ammetta successione; il che si deve dire anche dello spazio, il cui concetto ammette benissimo il cominciamento, senza che con questa concezione lo si annulli. Si consideri adunque attentamente il concetto della successione , giacchè esso è necessario a quello del tempo. La successione suppone una serie di più avvenimenti. Ora ciascuno di questi avvenimenti non forma la successione od il tempo, ma tutti insieme contribuiscono a formarla. Che se in ciascun avvenimento non consiste il tempo, dunque il tempo è fuori degli avvenimenti, perchè ogni avvenimento è essenzialmente singolare, e nella sua singolarità è compito, di modo che il concetto di lui non domanda e non ha alcuna relazione essenziale con un altro avvenimento. All' incontro il tempo consiste essenzialmente nella relazione di più avvenimenti fra loro. Ora, se questa relazione, che costituisce il tempo, non si trova negli avvenimenti, dove si troverà? Noi rispondiamo che questa relazione realizzata si trova prima nel principio senziente , il quale apprende più avvenimenti, e questi disposti in ordine successivo. E` questo un fatto che non si può rilevare che coll' osservazione interiore; ma possiamo poi analizzarlo e, meditando la sua natura, cercare le condizioni, alle quali il principio senziente può apprendere più avvenimenti successivi, per esempio, più modificazioni sue proprie. Acciocchè il principio senziente apprenda come suo termine più avvenimenti successivi, appare necessario che essi, rimanendo in qualche modo in lui, si rendano contemporanei; perocchè se dopo averne appreso uno, questo passasse del tutto e ne venisse un altro, nel principio senziente comparirebbero gli avvenimenti singolari come sono in sè stessi; ma la relazione di successione fra loro non sarebbe appresa, ella non esisterebbe in lui più che negli avvenimenti, e sopravvenendo il pensiero, questo non troverebbe alcuna successione. E` ben da osservarsi che il pensiero piglia le cose come sono, come gli vengono date dal sentimento, e non le cangia (1); dunque è uopo che la successione esista avanti il pensiero, nello stesso sentimento, acciocchè ella possa essere pensata. Ciò che fa il pensiero si è di concepire quella successione come possibile , e, come tale, rendere indefinita quella successione finita che gli presenta il sentimento; il che egli fa coll' idea di possibilità, come abbiamo altrove dichiarato; (2) ma rimane sempre che il sentimento gli debba aver prima presentata nella propria realità una successione finita. Il che s' intenderà meglio, ove si consideri che neppure la memoria sarebbe, senza l' aiuto di sentimenti, i quali notassero le cose nell' idea dell' essere. Perocchè è certo che, se cessasse ogni sentimento all' anima intellettiva, in lei cesserebbe ogni memoria di avvenimenti o di cose reali, non restandole presente altro che l' essere ideale senza determinazione o disuguaglianza di sorte, perchè nulla sarebbe che disegnasse in quello le cose speciali e reali. Tutto ciò che potrebbe restare sarebbero certe attitudini, potenzialità, abiti dell' anima, impotenti di passare all' atto. Ma perchè si vegga più chiaro quale parte abbia nella costituzione del tempo il pensiero, e quale il sentimento, conviene investigare più addentro il fatto della memoria, facoltà che appartiene all' ordine dell' intelligenza, e propriamente alla potenza della ragione. Parleremo adunque qui della memoria; la quale ha due funzioni principali, l' una chiamata ritentiva , che ha per ufficio di conservare le notizie, l' altra chiamata reminiscenza , che ha per ufficio di rivocarle all' attenzione riflessiva della mente, qualora l' uomo ne abbisogni. Non indugiamo su questa seconda, ma ci conviene trattenerci sulla prima, la quale è o inconsapevole o consapevole. La ritentiva inconsapevole è quella che gli antichi chiamavano l' abito della memoria, pel quale le notizie rimangono in noi, senza che noi vi diamo attenzione riflessa. La ritentiva consapevole è quella attività, per la quale abbiamo presente alla riflessione ed alla coscienza la notizia, sia per avercela richiamata coll' atto della reminiscenza, sia perchè ci abbiamo continuamente riflesso. Diciamo, adunque, che un evento passato acciocchè sia presente alla nostra coscienza: Ha bisogno d' un vestigio restato nell' immaginazione, o comecchessia nel sentimento dell' evento. Ora quel vestigio non è l' evento a cui noi pensiamo, e che è già passato, ma è un cotal segno di lui. Conviene dunque che oltracciò s' aggiunga una propria virtù del pensiero, colla quale la mente nostra possa andare dal segno alla cosa segnata, possa, aiutandosi col vestigio rimasto, trasportarsi all' evento che già non è più, e così finire l' atto del pensiero nel passato, come in suo termine. Ora questo non è così agevole a spiegare. Noi l' abbiamo fatto altrove; qui in aiuto dei lettori ci riassumeremo. Primieramente si abbia presente che la mera concezione dell' evento non è nè passata, nè futura; è presente nell' idea. Questa concezione adunque non dà cognizione dell' evento che nella sua natura e nella sua possibilità; qui non entra ancora il tempo, il quale è una relazione propria degli enti reali, e non delle pure idee. Ma per questo appunto che la concezione, la possibilità dell' evento è cosa immune dal tempo, perciò ella può applicarsi ad ogni tempo; io posso pensare l' evento tanto possibile ad essere avvenuto, quanto ad avvenire. Conviene dunque investigare come dalla cognizione dell' evento possibile l' uomo passi alla cognizione dell' evento reale, il quale è sito in un dato punto del tempo. Ora l' ente reale non si conosce se non per via di sentimento; quindi di nuovo è evidente la necessità del sentimento, acciocchè si possa pensare il tempo dell' evento. Ma il sentimento della percezione, colla quale noi fummo presenti all' evento, va a cessare. Vero; pure conviene osservare che la percezione si compie mediante un giudizio, ed anzi essendo accompagnata da riflessioni, come accade nell' uomo adulto, ella è accompagnata da più giudizi. Questi giudizi danno allo spirito delle notizie dell' evento; vediamo quali sieno tali giudizi e tali notizie. Il giudizio proprio della percezione è che l' evento, il fatto, l' ente di cui si tratta, sussista. Lo spirito così acquista la notizia della sussistenza di quella entità, parola che abbraccia ogni ente, ogni evento, fatto od azione. A questo giudizio se ne accompagnano molti altri, che determinano l' entità colle relazioni di contemporaneità, che egli ha con altri. Perocchè quell' entità non si percepisce sola, ma con essa se ne percepiscono molte che la circondano, coesistenti ad essa. Il che apporta allo spirito altre notizie, cioè altrettante quanti sono i giudizi, coi quali si affermò che quella entità coesiste con qualche altra. Non basta; fra le entità, che coesistono con quella di cui si tratta, alcune incominciano dopo che ella è già incominciata, ovvero erano incominciate prima, e mentre esse duravano, ella incominciò. Altre entità finirono prima di essa, ovvero continuarono a durare dopo che essa cessò. Nell' atto adunque della percezione, o per dir meglio delle molte percezioni contemporanee e dei giudizi riflessi che le accompagnano, lo spirito acquista la notizia dell' ordine cronologico, in cui cominciarono le entità contemporanee. Ora, poichè tutta la vita è una serie continua di percezioni e di riflessioni, di giudizi e di notizie cronologiche, perciò consegue che queste notizie rimanendo nello spirito, questo venga a conoscere l' ordine cronologico delle entità, ossia degli eventi percepiti. Tutto adunque si riduce a spiegare come queste notizie si conservino nello spirito, perocchè, dato che esse si conservino, lo spirito già sa quale evento è preceduto, e quale è susseguito, e se un dato evento ne ebbe pochi o molti davanti a lui; il che è quanto dire conosce la successione ed il tempo; e poco alla volta s' incammina a misurarlo più o meno accuratamente colla periodicità. Vediamo adunque come si conservano le notizie cronologiche degli eventi, che acquistiamo in occasione delle percezioni contemporanee. Dico delle percezioni contemporanee, perocchè è sempre un evento contemporaneo quello che segna il cominciare ed il finire di un altro; il quale pure segna il cominciare ed il finire degli eventi contemporanei a sè, e così successivamente. Che cosa sono adunque queste notizie cronologiche? Sono altrettante affermazioni, giudizi, persuasioni. Ora che è un' affermazione? Un atto del principio razionale. Se questo atto non cessasse mai, conseguentemente la notizia che produce allo spirito non cesserebbe del pari, ma sarebbe sempre presente allo spirito; per esempio, la notizia che prima che il sole cadesse, giunse a noi un amico lontano, rimanendo sempre attuata l' affermazione pronunciata da noi al venire dell' amico, rimarrebbe pur ella sempre presente al nostro spirito. Si consideri che in questa supposizione della presenza immobile di tale notizia davanti al nostro spirito, l' oggetto della notizia non varierebbe mai per volger di tempo, sarebbe sempre quello; noi sapremmo sempre egualmente ciò che sapevamo al primo pronunciare di quel giudizio, cioè che « quell' amico giunse a noi innanzi sera »; questi due avvenimenti della venuta dell' amico e del cadere del sole, nella detta notizia sarebbero sempre collocati l' uno prima e l' altro dopo. Questo è adunque un fatto importantissimo da tenersi ben fermo, che l' oggetto di una notizia, durante la notizia, non si muta col volger del tempo, ma rimane identico; trattasi sempre di amico e di sera, quantunque passino anche dei secoli. Ora questa identità dell' oggetto di una notizia si conserva non solo nell' ipotesi che quella notizia duri in essere innanzi allo spirito, ma ben anche se, dopo essere cessata, noi possiamo richiamarla al pensiero. Perocchè, quantunque sia vero che il nostro spirito, volgendo di nuovo il pensiero a quella notizia, farebbe un atto nuovo diverso dal primo, tuttavia l' oggetto di quell' atto nuovo sarebbe identico coll' oggetto dell' atto antico e cessato, e l' identità dell' oggetto è ciò che costituisce l' identità della notizia; questo non si avvera solo rispetto alle notizie cronologiche, ma rispetto a tutte le notizie di qualsiasi maniera. Se io penso mille volte a questa verità, che « due e due fanno quattro », io fo mille atti diversi, ma l' oggetto di tutti questi atti è il medesimo sempre, e però è identica la notizia. Se io penso mille volte che « fu al mondo Alessandro, figliolo di Filippo », di nuovo fo mille atti, ma l' oggetto è sempre uno; con ciascuno di quegli atti penso sempre il medesimo Alessandro, il medesimo Filippo, e penso questo padre e quello figliolo; la molteplicità dei miei atti non moltiplica i miei oggetti. Ciò vale adunque tanto se l' oggetto della notizia è necessario, come la verità geometrica « due e due fanno quattro », quanto se l' oggetto è contingente, come la verità dell' esistenza di Alessandro, figliolo di Filippo. Il che vuol dire che l' oggetto della notizia è immune dal tempo, perocchè il tempo che trascorre e gli eventi che si succedono, non lo cangiano; ma si noti, è immune dal tempo come oggetto di notizia, ma non è immune dal tempo in sè stesso; perchè il contingente soggiace al tempo, ed infatti tra Filippo ed Alessandro vi fu successione, e quindi tempo. Deve dunque conchiudersi che il pensiero apprende il tempo, ma non temporalmente; apprende ciò che è temporaneo, ma fuori del tempo; simigliantemente appunto a ciò che abbiamo detto dell' esteso, che è appreso dallo spirito in un modo inesteso. Se dunque l' oggetto della notizia è temporaneo, e pure, in quanto è divenuto oggetto di una notizia dello spirito, non soggiace più al tempo, e quindi lo spirito l' apprende fuori del tempo, dove l' apprenderà egli? E` forza concludere che il pensiero apprende il tempo e il temporaneo nell' eterno; perocchè esclusa la possibilità del tempo, come abbiamo detto, rimane l' eternità. Il che come sia si spiega, qualora si rifletta che nell' essere ideale , che è necessario ed eterno, si vede, presupposto il sentimento, anche il contingente ed il successivo, e la realità stessa come possibile a sussistere (idea della realità); ed è poi l' affermazione, che, congiungendo questa realità coll' essenza della cosa, pronuncia la sussistenza; onde quantunque volte la pronuncia, pronuncia sempre la realità della stessa essenza, e quindi sempre la stessa cosa identica. Di che si fa chiaro che il pensiero, il giudizio, l' affermazione, col ripetersi, non mutano il loro oggetto, ma lo colgono e pongono innanzi alla mente in un modo eterno e immutabile. Ora poi, qui noi abbiamo introdotto due ipotesi, l' una che il giudizio, che produce innanzi allo spirito la notizia cronologica degli enti in occasione delle percezioni, lasci questa notizia durare nello spirito quasi in deposito; l' altra che la riproduca, dopo essere ella svanita; e nell' una e nell' altra egualmente conchiudemmo che la successione di più enti, conosciuta una volta, si può conoscere egualmente anche molte, senza che a ciò faccia ostacolo il trascorrere del tempo. Ma per non lasciare indietro nulla, che turbar possa la mente di quelli che ci accompagnano in queste ricerche, domanderemo « quale delle due ipotesi sia conforme al fatto ». La seconda è preferita comunemente, perchè l' esperienza dimostra che molte notizie si dimenticano e poi si richiamano colla reminiscenza, onde non pare che di continuo si conservino nello spirito. Eppure ella soggiace a non leggiere difficoltà; primieramente se esse non si conservassero, almeno languidamente, non si potrebbe spiegare il loro richiamo; perocchè dove e come lo spirito le rinverrebbe perdute? Non può dirsi per associazione di esse con altre notizie presenti, giacchè se sono affatto perdute, l' associazione non può esistere; non per gioco d' istinto, giacchè l' istinto suppone il senso di cui esso non è che il movimento, e però suppone ancora le notizie conservate in qualche modo nel sentimento; e poi molte volte si richiamano non istintivamente, ma per decreto di volontà, tostochè piaccia. D' altra parte è indubitato che noi perdiamo la coscienza di quelle notizie, e poi di nuovo la riprendiamo. Tutte queste difficoltà svaniscono per colui che conosce la teoria della coscienza; questi intenderà facilmente come le notizie acquistate possano rimanere nello spirito nostro presenti, attuali, vive, e tuttavia spoglie al tutto di coscienza. Fu già da noi dimostrato che « niun atto dello spirito è conosciuto a sè stesso », a cagione che l' atto è sempre diretto a conoscere il proprio oggetto, e non sè stesso. Fa dunque bisogno un altro atto riflesso sul primo, pel quale l' atto primo divenga oggetto, acciocchè si conosca, acciocchè si sappia di conoscere. Conviene dunque appigliarsi alla prima ipotesi; conviene dire che non basta avere una notizia, ma di più conviene averla sempre in noi conservata, perchè ce ne rendiamo consapevoli. Non è dunque assurdo il dire che le notizie, una volta ricevute nello spirito, vi rimangano, e che quello che cessa sia l' atto dell' attenzione (1) che lo spirito pone in esse, e della riflessione , senza i quali atti non è coscienza di cosa alcuna che sia nello spirito. Riprendiamo ora il corso del nostro ragionamento. Il pensiero conosce la successione in un modo nel quale non entra successione alcuna, a condizione però che la successione una volta gli sia offerta nella percezione e nei giudizi riflessi, che si fanno in sua compagnia. Ora noi abbiamo detto che la percezione e i giudizi concomitanti offrono la successione al pensiero, perchè durante la percezione d' una entità se ne percepiscono altre, che incominciano o che finiscono; e queste percezioni si succedono, lasciando di mano in mano nello spirito le notizie cronologiche degli eventi. Ma questo suppone la durata della percezione. Infatti non si potrebbe concepire successione di avvenimenti, se fra l' uno e l' altro non fosse una durata. Ora il durare suppone ciò che dura, per esempio, la percezione stessa; la durata è propria di ciò che esiste, e niente all' incontro può esistere in un istante, il quale non ha durata alcuna; l' istante non è che il principio e il termine della durazione. Dunque la successione di eventi, cioè del loro cominciare e del loro finire, suppone la durata d' un ente, nella quale durata, quasi sopra termometro, sieno segnati tutti gli istanti in cui cominciano o terminano gli avvenimenti, che in quella si mutano e si succedono. Il tempo dunque si può definire in sè stesso: « la relazione fra la durata e la successione ». Ma i concetti della durata e della successione sono correlativi, per modo che l' una non si conosce, nè può esistere senza l' altra. Poichè come non si dà successione senza che fra l' uno e l' altro avvenimento, che è sempre un cominciare ed un finire, passi qualche durata, così la durata non s' intende se non mediante la possibilità che vi sia una certa successione di avvenimenti, a cui si riferisca (1). Conviene dunque occuparsi a meditare che cosa sia la durata , e prima di tutto quella del pensiero, poi quella della percezione intellettiva, in appresso quella del sentimento, e finalmente quella dell' ente materiale; e quando il nostro intendimento, meditando, sarà soddisfatto, allora sarà per noi spiegata sufficientemente la natura del tempo. Ora la durata del pensiero consiste nell' identità dell' oggetto. Noi abbiamo veduto che ogni oggetto della notizia intellettiva, come tale, è immutabile; sicchè ove il pensiero si volga ad un altro oggetto, egli è incontanente un altro pensiero, non più quel di prima. Ma finchè lo spirito non si volge ad un altro oggetto, questo essendo immutabile, rimane pure immutabile il pensiero. Non mancando dunque mai l' oggetto che determina un dato pensiero ad essere quello che è, perchè l' oggetto di una notizia è eterno, ed essendo possibile il pensiero tutte le volte che vi sia l' oggetto; ne consegue che la durata del pensiero sia una partecipazione dell' eternità del suo oggetto. Se non che, per la limitazione del soggetto pensante, il pensiero cessa e finisce, benchè rimanga l' ente che era suo oggetto; e questo cessare è appunto l' istante, che termina la sua durata. Ora poi la notizia che un evento precedette un altro è ricevuta dallo spirito mediante la percezione. Come adunque si spiega la durata della percezione? - La percezione non può durare, se non dura il sentimento a cui si riferisce (2); nè il sentimento può durare, se non dura l' ente senziente e l' ente sentito. Conviene dunque spiegare la durata dell' ente sentito, oggetto della percezione. Come si spiega la durata degli enti? La sussistenza d' un ente contingente altro non è che la realizzazione della sua idea. Questa realizzazione è fatta dalla prima causa delle cose, è la creazione. Ora la causa suprema è necessaria ed eterna, e l' idea è pure necessaria ed eterna. La maniera con la quale la causa suprema crea, ossia realizza gli enti contingenti, è per via d' intendimento, è un atto della ragione pratica di Dio, del suo pensiero operante. Iddio fa sussistere le cose con un atto analogo a quello, col quale l' uomo le pensa sussistenti. Il pensiero dell' uomo, come abbiamo veduto, da parte dell' oggetto cognito (benchè contingente) ossia della notizia , è immutabile ed eterno; ma cessa per deficienza del soggetto pensante. All' incontro, l' oggetto immediato del pensiero di Dio è pure eterno, ma è egualmente eterno ed indeficiente il soggetto pensante, cioè Dio. Quindi le cose create possono durare a volontà di Dio; e questa volontà infatti è senza pentimento; onde gli enti, una volta creati, non cessano più in eterno, perchè sono l' opera di Dio. All' incontro le loro azioni e passioni, avendo per oggetto e causa prossima gli enti stessi contingenti e deficienti, vengono a cessare, incominciano, terminano, ricominciano con una incessante vicenda e successione. Conviene dunque dire che la durata è una partecipazione dell' eternità di Dio, e la successione è l' effetto della limitazione e deficienza delle creature. Ora il tempo è appunto questa successione riportata, e quasi segnata graduatamente su quella durata. Così è chiaro come le entità durino e si succedano , e come la loro durata si misuri col numero, ossia colle serie delle successive azioni degli enti (1). Dichiarata così la natura del tempo, riprendiamo la nostra questione, la quale si era se il tempo è nelle cose materiali, se è nel sentimento, e finalmente se è il solo pensiero che lo forma. Da ciò che fu detto chiaramente si deduce che il tempo non può essere nelle cose materiali, perocchè la loro unità, e però la loro durata, è dovuta al principio senziente in cui sono, e non la hanno in proprio; onde il rapporto fra la successione e la durata non è cosa che possa esistere in alcuna parte assegnabile della materia, come materia, perchè non si dà parte senza estensione continua, e questa non è propria della materia come materia. Oltracciò, mettendo da parte quelle mutazioni fenomenali, che appariscono nella materia a cagione della sua relazione col principio senziente, e pigliando la materia nel suo puro concetto, niuna mutazione si concepisce in lei possibile se non quella del moto, il quale è una relazione con lo spazio. Ma lo spazio, il continuo, non appartiene alla pura materia; dunque in essa, puramente in essa, è impossibile concepire mutazione, e però nemmeno successione. Di più la materia non ha moltiplicità, perocchè ciascuna porzione della materia è una e rimane una, finendo in sè stessa senza potersi sommare con un' altra porzione, dalla quale ha esistenza intieramente separata, nè v' è realità comune fra esse. Certo, se nell' ente materiale vi fosse un principio semplice, questo potrebbe portare nel suo seno una cotal successione di svolgimenti, la quale avrebbe un nesso fisico col principio immutabile e durevole dell' ente, ed in tal caso il tempo vi sarebbe quasi realizzato; ma rimosso dalla materia corporea il sentimento, che non appartiene al suo concetto, ella non ha più, per dirlo di nuovo, nè semplicità, nè unità alcuna. Che se si ammette un principio corporeo , questo non può essere corpo, nè materia, di cui anzi è il principio; e però, supponendo che avesse in sè il tempo, non l' avrebbe però ancora l' ente meramente materiale. Ritorniamo adunque all' ente sensitivo, dove trovasi appunto un principio semplice, fonte di diverse sensioni e modificazioni, attività e passività. In questo si concepisce una durata appartenente ad esso principio, che rimane identico; si concepisce del pari una successione nelle sue sensioni particolari; si concepisce finalmente un nesso fisico tra la durata del principio e la successione delle sue passioni ed azioni, perchè queste sono contenute virtualmente in quello; da quello, poste certe condizioni, scaturiscono; e a quello, come a soggetto, appartengono. Ora questi tre elementi, durata, successione, nesso fra loro, compiscono il concetto del tempo. Il tempo dunque esiste nella natura del sentimento. Ma qualora si prenda a dar ragione di tutto ciò, la mente incontra dei nodi difficili, ed è meraviglia se ella non vacilla e tentenna. Giova che qui noi tocchiamo queste difficoltà, oltrepassando le quali, il ragionamento nostro non potrebbe indurre piena persuasione di verità. Gli atti transeunti e successivi d' un principio senziente, quando cessano, o lasciano nel principio stesso vestigio di sè o non ne lasciano. Se non lasciano vestigio alcuno, non può rimanere nel principio successione di atti in un modo contemporaneo, com' è pur necessario, acciocchè si abbia il tempo. Perocchè, come vedemmo, questo importa successione; e successione non v' è, se ella non può esistere tutta insieme, però contemporaneamente, se non v' è ciò che unisce i suoi anelli. Se poi gli atti successivi passando lasciano vestigi di sè nel principio senziente, questi vestigi non sono gli atti stessi; onde non sarebbe più la successione degli atti che il principio senziente mantiene in sè, ma la successione dei loro vestigi; e il tempo dovrebbe crearsi mediante questi. Ma che cos' è la successione dei vestigi? La successione dei vestigi non è già la loro durata, perocchè nella semplice durata non v' è successione. La successione dei vestigi non è che il loro cominciare l' uno prima dell' altro, come pure il loro finire, se finissero; ma noi supponemmo che rimangano permanenti. Ora, il cominciare di ogni vestigio passa in un istante e non lascia nulla di sè; rimane il vestigio che dura, ma non l' istante del suo cominciare. Se dunque il cominciare prima e poi dei vestigi, che forma la successione, altro non è che una serie d' istanti, il precedente dei quali non è più quando viene il susseguente, convien dire che la successione non rimanga, non sia raccolta da un ente che l' abbia presente; perocchè il principio senziente non ritiene i diversi cominciari dei suoi vestigi, i quali cominciari trapassano per la loro natura essenzialmente istantanea. Dunque si trova la stessa difficoltà ad intendere come il principio senziente possa raccogliere in sè tutta la successione dei vestigi, che lasciano gli atti suoi, e come possa raccogliere e ritenere in sè quella dei suoi atti passeggeri. E` dunque uopo cercare un' altra via a superare questa difficoltà. Noi la troveremo meditando la natura della durata . Il concetto, che noi ne abbiamo dato, si fu che « ella è una partecipazione dell' eternità ». Come l' ente ideale è immune affatto da tempo, così la sua realizzazione partecipa di questa immunità, benchè in modo limitato perchè di più non può; e questa è la durata. La durata dunque suppone identità . Come l' essenza d' un ente è identica in qualunque istante la si considera, così l' ente reale e semplice è del pari identico in qualunque istante egli opera e patisce. Ciò posto, se n' ha per conseguenza che quell' identico principio senziente che fa un atto, è quegli pure che fa tutti gli altri successivi. Essendo egli identico, è dunque presente a tutti gli atti che fa; è dunque presente a tutta la successione, senza che egli stesso soggiaccia a successione, oppure sia un anello di lei. Considerando in questo modo il principio senziente, s' intende assai chiaro come egli raccolga in sè la successione dei suoi atti egualmente che quella dei vestigi che lasciano in lui; benchè i termini della successione degli atti e dei vestigi trascorrano in modo che l' uno non è presente all' altro, come è necessario acciocchè formino successione. Conviene dunque ammettere che il principio sia fuori del tempo, acciocchè possa accogliere in sè la successione, e così mettere in essere il tempo; onde di nuovo dobbiamo dire che « il tempo non può esistere se non in ciò che non ha tempo, come suo termine ». Tutta la difficoltà, dunque, anche qui si riduce a pervenire colla mente a persuadersi che il principio senziente (come ogni altro ente semplice) non soggiace al tempo, ma propriamente è nell' eternità, o, come sogliamo anche dire, appartiene al mondo metafisico. Tutto questo ragionamento, a nostro vedere, è inattaccabile, a meno che non si voglia impugnare la durata del principio senziente, cioè la sua identità rispetto a tutti i suoi atti successivi. Supponiamo dunque che s' impugni; noi dovremo sostenerla, e quando l' avremo provata con invitti argomenti, allora sarà assicurata la nostra conclusione; qui conviene puntare il ragionamento. La prima prova, che noi daremo della durata identica del principio senziente, sarà quella che dimostra in generale la necessità della durata degli enti. Infatti, supponiamo che un ente non avesse alcuna durata; è chiaro che non esisterebbe più, perchè l' esistenza istantanea è assurda in sè stessa, nulla essendo l' istante se non il principio od il fine di una durata. Ma se un ente dura, per poco che duri, egli deve essere identico finchè dura, altrimenti non sarebbe durata la sua, ma successione di enti eguali, ciascuno dei quali fosse per un istante. Il che, per replicarlo, è manifestamente cosa assurda a pensarsi, sì perchè niuno di quegli enti sarebbe, giacchè nell' istante stesso in cui fu, nell' istante medesimo cessò, non fu; ora fu e non fu è contraddizione. Di più quegli enti non potrebbero formare successione, perchè fra l' uno e l' altro non vi sarebbe durata alcuna, la quale non può essere, come dicevamo, senza la possibilità almeno d' un ente durante. Una seconda prova, speciale alla durata del principio senziente, si trae da questo fatto, che gli atti successivi d' un animale sono ben sovente ordinati; il che dimostra che vi è una identità nella causa che li produsse, l' istinto animale. Che se non vi fosse una causa unica di tutti, ma ciascun atto avesse una causa diversa, un principio senziente diverso che li producesse, non vi sarebbe più una ragione dell' ordine che hanno fra loro, e dell' unicità dello scopo a cui tendono ben sovente; perocchè ogni principio non potrebbe operare che un atto solo, senza alcun legame cogli altri. Converrebbe adunque ricorrere o ad un' armonia prestabilita, o all' azione immediata di Dio medesimo, per spiegare le azioni e le passioni dell' animale; il che non può ammettersi per innumerevoli assurdi che escono da tali sistemi. Terza prova: tolta la durata degli enti identici, non sarebbe possibile neppure che esistessero nuove azioni di enti, perchè l' azione è un atto secondo, che suppone il primo dell' esistenza, e quindi almeno due istanti con intervallo di qualche durata, perocchè altrimenti non sarebbero due. Quarta prova finalmente: nell' uomo la coscienza depone l' identità del principio senziente rispetto ai suoi atti. Ora la riflessione del pensiero, non alterando punto le cose dall' esser loro, come già dimostrammo, ma solo facendole conoscere quali sono, è testimonio fededegno che il principio senziente dura numericamente il medesimo. Dunque non è assurdo che il principio senziente abbia una durata , il che è quanto dire si conservi identico rispetto a tutti i suoi atti successivi; ed anzi ciò si deve al tutto ammettere; ora in lui si genera quella relazione che poi tempo si chiama. Conchiudesi che l' unità della successione degli atti, modificazioni, passioni, cominciamenti e terminazioni, è dovuta ad un principio semplice che ha durata, cioè che è identicamente presente a tutti i termini della successione; senza di che vi sarebbero i singolari anelli, non mai la successione, e però neppure il tempo; nè i detti anelli avrebbero ragione di anelli. Per la ragione medesima che il principio razionale è un ente semplice, il quale fa più atti successivi, di cui è causa e soggetto durevole identicamente il medesimo, anche nel principio razionale vi sono tutte le condizioni richieste all' esistenza del tempo. Convien dunque conchiudere: Che se lo spazio e l' esteso ricevono la loro unità dal principio senziente animale , la successione all' incontro, il tempo ed il temporaneo ricevono la loro unità da un principio senziente di qualunque maniera egli sia, o animale o razionale . Che lo spazio è un concetto conseguente a quello dell' ente animale ; ma il tempo è conseguente all' ente reale senza più, tostochè esso divenga soggetto di mutazioni, perchè all' ente appartiene l' identità , ossia la durata , in mezzo alle permutazioni a cui si stende. Che il concetto di tempo non si riscontra in quello di spazio puro o di materia, dove può pensarsi la durata, ma non la successione, e però neppure il rapporto fra durata e successione. Quindi si deve distinguere: Il tempo reale , cioè il tempo in quanto esiste realmente nel nesso, che vi è tra un principio identico e la successione delle sue modificazioni. Il tempo reale7conosciuto , che è il tempo presente al pensiero che lo apprende. Il tempo ideale , che è il concetto, ossia la mera possibilità di un nesso fra la durata e la successione. Noi dobbiamo ora dimostrare come il principio razionale congiunga e unifichi l' idea ed il sentimento. Ma poichè il sentimento è di tre specie, animale, intellettivo e razionale , così di ciascuno di essi dovremo, a parte, dimostrare come possa coll' idea congiungersi. Di più, nel sentimento vi sono due elementi, il senziente e il sentito, ciascuno dei quali può nell' idea conoscersi. Divideremo adunque le questioni così: Come il sentito esteso e la successione degli eventi si percepiscano dal principio intellettivo, che così prende il nome di razionale. Come si percepisca intellettivamente il principio senziente animale. Come si percepiscano il principio intellettuale, a cui è termine l' idea stessa, ed il principio razionale. Come si percepiscano le diverse affezioni del principio razionale. Noi abbiamo veduto che l' estensione e l' esteso non comunica col principio senziente per via d' estensione, a quella guisa cioè che un esteso potrebbe essere in qualche modo contenuto in un altro esteso; che anzi, se l' estensione e l' esteso non avesse che questa proprietà dell' estensione, non potrebbe avere nessun nesso col principio senziente, il quale è inesteso. Ma l' estensione e l' esteso è anche sensibile, e però, mediante la relazione di sensilità , egli è ricevuto e contenuto nel principio senziente. La qual relazione però è prodotta dalla stessa natura ed attività del principio senziente, di cui tale è la natura che egli si congiunge alle cose a lui appropriate per via di sentimento; onde quel che è esteso egli lo rende sentito . Questa relazione di sensilità è più elevata della relazione di estensione; e come l' entità più elevata, avente più gradi di essere, abbraccia l' entità meno elevata avente meno gradi di essere, e abbracciandola la nobilita comunicandole del proprio, così il concetto di esteso è abbracciato e contenuto nel concetto di sentito , e non viceversa; e l' esteso stesso divenendo sentito, ossia considerato come tale, si eleva nella scala dell' essere un gradino più su. Ora, più elevato di ogni entità è lo stesso essere , il quale è l' oggetto dell' intendimento; e quindi il concetto di essere abbraccia tutte le entità inferiori, qualunque sieno i gradi d' essere di cui quelle godano. Quindi le cose tutte si mettono in congiunzione coll' intendimento per una relazione essenziale di entità . Ma le cose non possono essere percepite dall' intendimento, se prima non hanno la condizione e relazione di sentito (1), perocchè l' uomo non percepisce intellettivamente se non ciò che cade nel suo sentimento (2). Dunque l' esteso è nel sentito, e il sentito è nell' ente intuìto dall' intendimento. Conviene riflettere che l' essere ideale comprende la realità possibile , il che è quanto dire l' essenza delle cose reali; quindi, allorquando al principio, che vede l' ente, è contrapposto un sentito7esteso, forza è che lo veda nell' ente come partecipe dell' essere, e così lo percepisca, come abbiamo spiegato innanzi più estesamente. Ora, quando il principio che vede l' ente, vede anche l' entità partecipata dal sentito, allora quel principio, che prima chiamavasi semplicemente intellettivo, incomincia a chiamarsi razionale. Il principio razionale , adunque, percepisce il sentito nella sua qualità di ente, il che è quanto dire congiunge in uno ciò che vede nell' idea (essere) e ciò che sente; e così il sentito diviene un ente all' intelligenza, un suo oggetto. Che se niuna intelligenza percepisse il sentito, questo non avrebbe il concetto di ente, ma solo di sentito, perchè il concetto di ente lo riceve dalla sua relazione coll' essenza dell' ente, la quale essenza dimora nella mente suprema e in tutte le menti inferiori, a cui quella prima la comunica, così creandole. Chiamo poi questa relazione essenziale , appunto perchè ella entra a costituire il sentito7esteso come ente; il che è un dargli un grado maggiore di entità, anzi è un dargli quell' ultimo atto, nel quale è quello che è. L' ente sentito, adunque, esiste come ente nella mente; ma l' uomo, che ne parla, attribuisce giustamente la condizione di ente a lui stesso; perchè l' uomo non parla delle cose se non in quella guisa che sono nella sua mente; e la cosa stessa, che è nella mente, è ente, ed è ente diverso sostanzialmente dalla mente, che, ponendolo, lo percepisce. Per la stessa semplicità dell' idea e della notizia, per la quale ella è immune dallo spazio e dal tempo, si spiega come la mente possa concepire gli eventi successivi, passati e futuri, come vedemmo (1). Era necessario indicare qui la questione, perchè nostro intendimento si è dimostrare come il principio razionale è il principio che dà unità a tutte le operazioni umane. Ma la questione fu già da noi risoluta, e, ricapitolando, qui ci basterà dire che è la riflessione quella che, ripiegandosi sul sentito7ente, trova che a lui deve inesistere un principio senziente per la ragione detta, che il solo sentito esteso non avrebbe quella unità che egli ha, qualora non vi fosse alcun principio senziente. Ma non siamo noi ancora principŒ senzienti? non ce lo dice la coscienza? Sì, la coscienza ci dice indubitatamente che in noi è un principio senziente, un principio intellettivo e un principio razionale, in cui si unisce quello a questo. Ora la coscienza stessa è una riflessione sul sentimento nostro proprio. Ma si conosce il sentimento nostro proprio immediatamente per via di percezione, senza bisogno di riflessione. Sì, ma altra cosa è percepire il sentimento proprio, altro è distinguere in esso il principio , distinguerlo dico, accuratamente dal termine . Noi percepiamo questo principio entro il sentimento; ma per averne un concetto separato e distinto dobbiamo ricorrere alla riflessione. Ora la riflessione lo trova, considerando appunto la natura del sentimento. Tutto adunque si riduce a dichiarare la natura della riflessione e in che modo ella proceda. La riflessione si definisce « « la facoltà di applicare l' idea dell' essere alle nostre cognizioni e loro oggetti »(1) ». Ora, per ispiegare questa operazione dello spirito, conviene attentamente considerare la natura dell' idea dell' essere, che è il mezzo sì della percezione e sì della riflessione . La difficoltà, che si presenta, è questa: « Se nel percepire un ente io ho adoperata l' idea dell' essere legandola col sentito, come posso io più, dopo di ciò, applicare la stessa idea dell' essere alla percezione e al suo oggetto, e cavarne da questa nuova applicazione (che è appunto la riflessione) altre notizie? ». La risposta si deve desumere dall' osservazione accurata del fatto. Questo fatto osservato attentamente ci dimostra che la cosa avviene appunto così; dunque dobbiamo concludere, senza replica, che ella così può avvenire. L' idea dell' essere può sempre venire dalla mente applicata a sè stessa, ovvero a qualsivoglia cognizione, in cui ella è già contenuta. Questo fatto ammirabile non si può negare o impugnare; ma si può analizzare e cavarne conseguenze utili a farci meglio conoscere l' indole dell' idea medesima. Ecco quali sono: Se l' idea dell' essere quantunque la leghiamo nella percezione, tuttavia ci rimane nello stesso tempo libera a poterla usare nuovamente, applicarla di nuovo alla percezione che la contiene, conviene dire che ella è affatto immune da ogni passività , e che il vedere in lei qualche cosa non la lega propriamente, non la coarta a quella cosa, sì che ella non ci sia pronta come prima ai nostri bisogni, ai nostri usi. Il poter noi adoperare sempre l' idea dell' essere come fosse sciolta, e come fosse la prima volta che noi l' adoperiamo, dimostra che ella identicamente la stessa è sempre presente a tutti gli atti del nostro spirito, agli atti di percezione, di riflessione, ecc.; e l' esser presente nella sua identità a molti atti prova ch' ella è semplice , e come semplice sta incontro al molteplice e in sè l' accoglie; e l' esser presente a molti atti successivi dello spirito dimostra che ella non soggiace al tempo, ch' ella è eterna , come dicevamo di sopra. Infatti, questa è la proprietà di ciò che è eterno, che « esso, identico, sia presente a molte entità successive ». Ora quando io intuisco l' essere, egli è presente allo spirito intuente; quand' io rifletto sopra l' essere da me intuìto, allora l' essere stesso è presente all' atto della mia riflessione; lo stesso essere identico è dunque presente quale oggetto al primo atto dello spirito e al secondo, all' intuizione ed alla riflessione; è unico l' essere, ma ha relazione a due atti; in quanto ha relazione all' atto intuitivo, si mostra allo spirito senza distinzione; in quanto ha relazione all' atto riflesso, si mostra allo spirito con quelle distinzioni e condizioni, che l' analisi e la sintesi (due modi di operare della riflessione) vi ritrova. Il mostrarsi nel secondo modo non toglie l' essersi mostrato nel primo. E` dunque la semplicità e la eternità dell' ente che spiega la riflessione; senza quelle due doti questa sarebbe impossibile. Ciò che si conosce per via di riflessione è diverso da ciò che si conosce per via di intuizione o di percezione; cioè si conosce in diverso modo, con diversi gradi, ecc.. Dunque nella riflessione l' ente non fa che comunicare allo spirito una maggiore notizia di sè stesso, ovvero una notizia di diverso modo. La notizia dello spirito si deve dunque distinguere dall' idea dell' ente in sè stessa considerata, che la produce; quella ha qualche cosa di limitato e di soggettivo, questo è illimitato e tutto oggettivo, o per dir meglio, oggetto. Questo oggetto è sempre in tutte le notizie , sia che le abbiamo per via d' intuizione, o di percezione, o di ragionamento, cioè di riflessione; ma è in quelle varie notizie in diverse guise (1). Dallo stesso fatto si deduce e conferma la verità che l' essere viene dato, per così dire, a prestito alle cose finite, per la necessità che abbiamo di conoscerle, e l' impossibilità di conoscerle se non sono prima divenute enti, cioè se non sono copulate dalla mente coll' ente. L' essenza dunque dell' ente non si confonde, non s' immedesima colle realità sensibili, ma soltanto si congiunge con esse e così le rende intelligibili. Il qual vero distrugge il panteismo dalla radice, perchè dimostra che l' essenza, che si vede nell' idea, rimane sempre inconfusibile colla realità, finchè si tratta di cose finite; il quale è un corollario importantissimo. Niuna meraviglia adunque, se noi, dopo aver percepito intellettivamente il sentito7animale, possiamo applicargli l' idea dell' essere, e così colla riflessione cavarne il concetto del principio senziente. Noi possiamo sciogliere questa operazione nel ragionamento seguente: il sentito è un esteso7continuo; ma questa entità non potrebbe essere, se non avesse un principio semplice in cui fosse. Io rilevo questo vero raffrontando il sentito esteso all' essere , che gli attribuisco; perocchè, sapendo per natura che cosa è essere, io so che non può mai contrariare a sè stesso, cioè l' essere non può essere non essere pel principio di cognizione . Ma il sentito esteso non sarebbe sentito esteso, se non avesse un principio semplice; dunque, ecc.. Niuna meraviglia ancora se, dopo aver intuìta l' idea, noi possiamo cavare il concetto del principio intuente, applicando l' essere all' intuizione in un modo somigliante. Perocchè possiam dire: l' idea intuìta ha questa entità di essere idea intuìta; ma ella non avrebbe questa entità se non ci fosse un principio intuente; dunque, non potendo questa entità essere e non essere, debbo ammettere un principio intuente. Finalmente niuna meraviglia se, riflettendo sul sentito7esteso percepito intellettualmente, troviamo la necessità dell' esistenza del principio razionale; perchè, non ammettendo questo principio, non sarebbe vero che avessimo percepito intellettivamente il sentito7esteso. Ma non può ad un tempo esser vero che l' abbiamo e non l' abbiamo percepito, per la natura dell' essere (noto per natura), che esclude la contraddizione; dunque il principio razionale esiste. Che se si vuole che io giunga ad affermare il principio senziente, l' intellettuale ed il razionale, anche per via di semplice astrazione o di analisi, queste stesse operazioni si fanno, come ho dimostrato altrove, per una applicazione segreta e sfuggevole dell' idea dell' essere (1). Dalle cose fin qui ragionate si raccoglie: Che il principio senziente7animale non si riferisce che all' esteso. Che il principio intellettivo non si riferisce che all' idea. Che il principio razionale si riferisce egualmente all' esteso7sentito, colla percezione, e colla riflessione all' idea e al principio senziente ed intellettivo, e finalmente a sè stesso; onde è quello che tutto lega ed abbraccia quanto cade nell' uomo, e a tutto si estende. Che dunque l' unità dell' uomo è nel principio razionale. Finalmente che l' uomo, non essendo uomo se non perchè è un essere unico, egli è tale pel principio razionale; nel quale perciò, come in propria sede, si compie e pienamente si natura l' umanità. Riassunta così la dottrina dell' umana natura, e veduto com' ella si compia nel principio razionale, dove giace l' unità dell' uomo, noi dobbiamo volgere il pensiero all' attività, che dal principio umano deriva, affine d' investigarne e meditarne le leggi. Ma prima è necessario che noi sceveriamo quelle attività che si mescolano coll' attività umana, e che non sono lei; perocchè il confonderle intralcierebbe i nostri ragionamenti, e la confusione dei concetti ci menerebbe necessariamente all' errore. Da ciò che noi abbiamo detto risulta che cinque attività si fanno nell' uomo manifeste, delle quali una sola è propria dell' uomo. Poichè: Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza dell' estensione, termine del principio senziente7animale, che in questo principio giace quasi in sua sede, ma che non è questo principio. Tale attività nulladimeno è immanente e non produce atti secondi, onde non ha ragione di sostanza, ma solo di entità. Non ne abbiamo investigato la causa, ma ci siamo contentati d' osservare che essa ha una relazione essenziale con un principio senziente, sicchè il pensarla fuori di esso è assurdo. Noi abbiamo riconosciuta l' esistenza di un' attività corporea che si manifesta nell' estensione, e in questa diviene termine del principio senziente7animale. In quanto è estesa, ella ha pure una relazione essenziale col principio senziente, cioè non può che avere la sua sede in esso, e ripugna il pensarla fuori di esso. Ma questa attività, che si manifesta nell' estensione, non è l' estensione, e non è neppure il principio senziente. Questa attività corporea non ha solo l' atto primo col quale esiste, ma ha ancora degli atti secondi, non presentandosi già al principio senziente come un termine immobile ed immutabile, ma con movimento e variate apparenze. La causa prossima di lei, straniera al principio senziente, fu da noi detta principio corporeo , il quale, quando fa sentire la sua azione nell' anima, prende nome di virtù sensifera; ma noi non siamo entrati ad investigare la natura di quel principio, secondo ciò che può essere o non essere in sè stesso. Rispetto poi alla causa onde i corpi si muovono secondo la legge dell' attrazione, e, quali termini del nostro principio senziente, cangiano di posizione e di aspetto, fu collocata, almeno con argomenti di grande probabilità, nell' animazione degli elementi. Quindi: 1) Talora l' attività stessa del principio senziente immuta e muove il suo termine. 2) Talora il termine corporeo d' un principio senziente viene immutato da un principio ch' egli non percepisce, e che probabilmente è un altro principio senziente. Lasciamo le leggi del movimento meccanico, che altronde deriva. Noi abbiamo riconosciuta in terzo luogo l' attività del principio senziente7animale. Questa attività è quella che costituisce l' animale. Risulta, da quanto abbiamo detto, che ella ha virtù d' immutare il sentito7esteso. Risulta ancora che il principio razionale percepisce il sentimento come entità, e quindi può agire in esso, ma questo non distrugge l' attività del principio senziente; onde, benchè nel sentimento possa agire l' attività del principio razionale e secondo certe leggi possa immutarlo, tuttavia rimane l' attività del principio senziente, che è elemento essenziale al sentimento. E che niente si muti nel sentimento colla semplice percezione, noi l' abbiamo veduto dove dimostrammo che la percezione non altera o contraffà gli oggetti percepiti. Ma il principio razionale non può agire immediatamente sul sentito, benchè lo percepisca, perchè lo percepisce essenzialmente nel principio senziente, e perciò come costituito da questo. Il principio razionale adunque deve immutare e muovere il principio senziente, acciocchè questo immuti ciò che egli costituisce, che è l' esteso sentito. Quindi si trovano due attività, che operano nello stesso sentito: l' una (il principio senziente) in un modo immediato, l' altra (il principio razionale) in un modo mediato, cioè movendo il principio senziente; le quali talora pugnano insieme, e così sorge la lotta della concupiscenza. Oltracciò, come l' attività del principio senziente è limitata e non è la sola che entri a costituire e a muovere l' esteso sentito, concorrendo anche altre attività, come la forza sensifera ed altri principŒ senzienti; così il principio senziente talora è concorde, talora discorde colle attività straniere, che hanno virtù di costituire o d' immutare i corpi; e quando è discorde, talora prevale, talora è vinto, secondo il grado di forza che spiegano i principŒ opposti, e così sorge la lotta delle malattie. Medesimamente avviene che il principio razionale può essere in discordia colle dette attività, e confederato al principio senziente lottante, od anche coll' attività dei principŒ stranieri, quando questi leghino e spossessino il principio senziente, impedendolo di piegarsi all' attività del principio razionale, e a questa servire. Ma se l' opposizione al principio razionale non nasce dall' agente straniero, ma dallo stesso principio senziente, in tal caso vi è difetto nella percezione primitiva, che è il vincolo dell' anima razionale col corpo animale; ed è perciò che il principio razionale non ha le piene e naturali sue forze, non può farsi ubbidire dal suo inferiore (1). Noi abbiamo riconosciuta in quarto luogo l' attività intellettiva, che consiste nell' intuizione dell' essere, la quale non ha e non può avere verso l' essere alcuna reazione. Finalmente abbiamo riconosciuta e lungamente descritta l' attività del principio razionale. Ora le prime tre attività non sono propriamente attività dell' uomo, e la prova ne è che talora si oppongono all' uomo. Se fossero attività dell' uomo, non potrebbero giammai opporsi all' attività razionale, che è l' umana. Tuttavia esse aiutano alla costituzione dell' uomo: la prima, quella dell' estensione, come condizione alla quale egli può percepire i corpi; la seconda e la terza, cioè la virtù sensifera ed il principio senziente, come strumenti del principio razionale: quella cioè come strumento mediato, questo come strumento immediato (1). Che se non sempre il principio razionale può far uso di questi suoi strumenti, reggendone e dominandone la potenza, ne vedemmo pur ora il perchè, che a queste due ragioni riducesi: I - La debolezza e imperfezione del principio razionale, che non può dominare la forza del principio senziente7animale, attesa l' imperfezione della percezione fondamentale. II - La debolezza del principio senziente, a cui non è ben congiunto e armonizzato il principio sensifero, da cui dipende. Se le tre prime attività non sono proprie dell' uomo, saranno esse proprie dell' uomo le altre due? Sì, quando si considerino nel loro nesso, pel quale esse non ne compongono che una sola, la razionale. Infatti l' attività intellettiva, la semplice intuizione dell' essere, è quell' atto primo che costituisce un principio intellettivo, ma non è ancora principio completo degli atti secondi , nei quali l' attività dell' anima si manifesta. E parlando noi dell' attività dell' anima affine di esporre le leggi del suo operare, cerchiamo la causa degli atti secondi e non ci fermiamo all' atto primo, che finisce tutto in sè stesso. Se dunque si considera il principio razionale, si vede che in esso vi è sempre l' atto del principio intellettivo, poichè egli non potrebbe percepire un ente reale, se non intuisse prima l' essere ideale. Quel soggetto adunque, che intuisce l' essere ideale e che, in quanto a ciò, si chiama principio intellettivo, è quello stesso che percepisce l' ente reale, e, in quanto a ciò, si chiama razionale. L' intuizione dell' essere ideale non esaurisce l' attività del soggetto; dunque l' intuizione dell' ideale è un atto del soggetto, ma non è tutto il soggetto stesso, tutto l' uomo. Perocchè un soggetto è posto da quell' atto primo, che abbraccia in sè potenzialmente tutti gli atti secondi. L' intuizione poi dell' essere ideale si può anche considerare come condizione necessaria agli atti del principio razionale. E qui si scorge un' ammirabile analogia fra l' ordine animale e l' ordine intellettuale. Nell' ordine animale vi è l' apprensione dello spazio, quale condizione all' apprensione del corpo. Nell' ordine intellettuale vi è l' intuizione dell' essere ideale, quale condizione preliminare alla percezione dell' essere reale. Quindi lo spazio puro è un bel simbolo dell' essere ideale indeterminato: in quello si percepiscono sensitivamente i corpi, in questo si percepiscono intellettivamente gli enti reali. Appartiene all' Ontologia la questione: « Se tali simboli, sparsi nella natura sensibile, di ciò che accade nella natura intelligente, siano conseguenze necessarie all' ordine intrinseco dell' essere, o un effetto dell' arbitrio sapientissimo del Creatore ». Ma torniamo a noi. Come dovremo dunque definire il principio razionale, acciocchè nella definizione si comprenda pienamente l' atto primo del soggetto umano colle sue forme diverse? - Noi lo definiremo: « Il principio razionale è la virtù di apprendere l' essere come essere, sotto le sue tre forme; la quale virtù è tutta in atto rispetto alla forma ideale; parte in atto e parte in potenza rispetto alla forma reale (essendo ella in atto rispetto al sentimento animale fondamentale, di cui vi è la percezione, e in potenza rispetto ai diversi termini di esso, che successivamente si mutano), ed è in potenza rispetto all' essere morale ». Quindi nel principio razionale , che è reso unico dall' unità dell' essere, si comprende il principio intellettivo come la prima forma del suo atto; e si contengono in radice i tre ordini supremi delle umane potenze e facoltà, cioè l' ordine delle potenze e facoltà che si riferiscono all' idea, l' ordine di quelle che si riferiscono alle cose (reali), e l' ordine di quelle che si riferiscono al bene morale7eudemonologico. Il principio razionale adunque ha un solo ed unico oggetto, l' essere; ma come l' essere è in tre forme, così l' atto primo del principio razionale è pure in tre forme rispettive, salvo che riguardo alla terza egli è da principio in potenza e non in atto; il che è possibile a concepire, poichè avendo l' atto delle due prime forme, dal rapporto di quelle esce poi necessariamente la terza (1). Dalle quali cose tutte si raccoglie che, come le potenze dello spirito si diversificano secondo le relazioni che ha il principio razionale con altre attività ed entità inferiori, così pure le leggi , che quelle varie potenze osservano operando, si debbono rinvenire nella natura di tali relazioni. Ora, posciachè legge della natura si chiama quel modo costante che dimostrano le operazioni degli enti, a preparare la via all' esposizione di quelle leggi non basta che abbiamo trovato nel principio razionale il fonte di tutte le operazioni umane e di tutte le leggi, ma è uopo altresì che premettiamo la teoria delle operazioni degli enti in generale; è uopo che presentiamo un concetto accurato dell' operare . Perocchè allora la mente, arricchita di questo accurato e bene analizzato concetto, potrà intendere la necessità di quei modi costanti che nelle operazioni si scorgono, ai quali si dà appunto il nome di leggi . Il quale argomento appartiene veramente all' Ontologia ed alla Cosmologia; ma mancandoci tuttavia sufficienti trattati di queste scienze, a cui ricorrere, noi dobbiamo, siccome abbiamo fatto altre volte, trascorrere in esse, pigliandoci dalle dottrine a loro spettanti quanto ce ne abbisogna. Incominciamo dunque dallo svolgere il concetto di operazione, dimostrandone quella possibilità che è ammessa dal senso comune senza alcuna difficoltà nè meraviglia, ma pure si fece sempre un grande inciampo alla filosofia. Allora quando noi concepiamo un ente determinato, concepiamo ad un tempo un atto , cioè l' atto del suo esistere. Questo atto è semplice, e dura quanto l' ente; perciò è uno degli atti che si dicono immanenti. Concepire un ente e concepire l' atto del suo esistere è egli il medesimo? L' atto dell' esistere dell' ente non differisce dall' ente, se non per certe relazioni che vi aggiunge la mente nostra. Quando diciamo atto , noi vi aggiungiamo una relazione colla potenza, a cui il concetto dell' atto è correlativo per opposizione. Quando diciamo ente , concepiamo l' atto compito ed ultimato, laddove quando diciamo atto di essere , noi concepiamo, ovvero immaginiamo di concepire tutta la via per la quale l' ente fu naturato; e nell' atto stesso distinguiamo un cotal principio (atto iniziale), un mezzo e un fine, in cui si riposa compiuto e assoluto. Quindi certe sentenze dei filosofi, come quella: in actu actus nondum est actus , e simili. Di più l' atto stesso dell' essere noi lo concepiamo preceduto o susseguito necessariamente da certi altri atti immanenti, come diremo in appresso. Quando poi l' ente è costituito con tutti i suoi atti immanenti a lui necessari, allora noi pensiamo, traendo il pensiero dall' esperienza, che l' ente, che ha già l' atto compito di esistere, passi ad altri atti, che si dicono anche sue azioni ed operazioni. Ora l' atto dell' esistere ed anche gli atti immanenti che lo accompagnano, si sogliono chiamare atti primi , e i susseguenti si sogliono chiamare atti secondi transeunti . La natura dell' atto transeunte consiste nel passaggio che fa l' ente da uno stato all' altro, sia che avvenga in un solo istante, sia che duri alquanto in un continuo moto. Il carattere adunque dell' atto transeunte è il passaggio , è il moto senza quiete. L' atto immanente è quello che dura coll' ente finchè non sopravviene sostanziale mutazione; e fra gli atti immanenti il primo è certamente quello che abbiamo indicato, l' atto dell' esistere. Tuttavia, oltre l' atto pel quale un dato ente esiste, noi troviamo degli altri atti immanenti, i quali si possono dividere in due classi. I - Gli atti immanenti che precedono (non già nell' ordine cronologico, ma nell' ordine intrinseco della naturazione) all' atto dell' essere. Così, a ragion d' esempio, noi vedemmo che l' atto dell' essere della natura umana, che è quello del principio razionale, risulta da due atti precedenti (quasi come da sua forma e da sua materia): cioè dall' atto intellettivo e dall' atto del sentimento animale fondamentale, i quali pure sono immanenti. II - Gli atti immanenti che susseguono all' atto dell' essere, ma che sono a lui indivisibilmente congiunti, come gli accidenti stabili di una sostanza, poniamo gli abiti. Sono adunque di tre classi gli atti immanenti: 1 quelli che precedono nell' ente all' atto dell' essere; 2 l' atto dell' essere; 3 quelli che susseguono all' atto dell' essere con istabile durata. Oltre di ciò l' analisi e l' astrazione scompongono talora un atto in più per diverse relazioni con cui lo considerano; e quindi gli atti immanenti si moltiplicano nel linguaggio e nella concezione umana. Fu in Italia che cominciarono a levarsi gli ingegni alle più difficili questioni, fu in questa terra, patria della dialettica. Quivi s' intese da prima che ciò che tutto il mondo ammetteva, cioè le operazioni degli enti, come atti transeunti, non era così facile a spiegarsi, come ad ammettersi; non era facile a conciliarsi con altre verità somministrate dal pensiero umano, quando pure la verità non può avere scissura in sè medesima, nè contraddizione. La difficoltà, che corse agli occhi dei più antichi filosofi italici, attaccava il concetto volgare degli atti transeunti, secondo il quale « l' atto transeunte dura qualche tempo in mutazione continua ». Veramente questo concetto di mutazione continua involgeva insuperabili difficoltà, le quali, svolte dall' illustre scuola italiana di Elea con polso di sottilissima dialettica, sollevarono a tumulto tutto intero il campo della filosofia; nè la lotta, riaccesa più volte, cessò mai per decisiva vittoria, ma sempre per isfinitezza dei combattenti. A me pare che quegli argomenti abbiano qualche cosa di solido. Io ne trarrò profitto, adducendone cinque contro la continuità dell' atto. Se un ente durante il suo atto transeunte si cangia continuamente, niuno dei suoi stati, che prende successivamente cangiandosi, ha durata di sorte alcuna. Ma ciò che non dura non è. Dunque nessuno dei suoi stati successivi è. Dunque il concetto di mutazione continua è assurdo. Se tutto insieme preso l' atto transeunte ha una qualche durata, nella quale l' ente muta di stato continuamente, il numero di questi stati successivi, che egli prende, non esiste, perchè non esiste un numero di istanti, si prenda qualsiasi numero, che insieme presi formino una durata (1). Se non esiste il numero degli stati che deve percorrere, è assurdo il pensare che li possa percorrere; perocchè se percorre degli stati diversi, questi debbono avere un numero determinato, giacchè non si dà in natura che ciò che è determinato. Dunque la mutazione continua involge assurdo. Dunque ella è impossibile. Che se taluno dicesse che una durata è divisibile attualmente all' infinito, sicchè possa esservi un numero infinito (cosa certamente assurda, e tuttavia affermata da uomini grandi quanto era un Leibnizio!), in tal caso noi domanderemo se ciascuna parte di questo numero infinito di parti, in cui si pretende potere sciogliersi la durata, dura qualche poco o non dura punto; perocchè fra questi due partiti non vi è nulla di mezzo. Ora se ciascuna parte dura, in tal caso a percorrere un infinito numero di durate, per minime che sieno, si esige un tempo infinito, e però l' atto transeunte non si compirebbe giammai; il quale è uno degli argomenti di Zenone contro il moto continuo (2). Se poi ciascuna parte della durata non dura punto, ma è un istante, in tal caso l' atto transeunte non potrebbe avere durata alcuna contro l' ipotesi, perocchè infiniti istanti, ciascuno dei quali ha una durata eguale a zero, sommati insieme, non danno che una durata pure eguale a zero. Se i corpi si movessero di moto continuo, non si potrebbero muovere giammai con diverse celerità. Perocchè supponendo che un corpo non si fermi in nessun luogo, egli deve passare da un luogo all' altro colla celerità massima; giacchè non si può concepire una celerità maggiore di quella che, senza posa alcuna, passa di luogo a luogo, non perdendo nel suo passaggio neppure un tempo minimo. Io trarrò questo argomento dal tempo, che impiega il moto a comunicarsi a tutte le parti d' un corpo. Che ad avvenire questa comunicazione si esiga tempo e non si faccia in istante, è indubitato presso tutti i fisici. Questa è la ragione, poniamo, perchè la palla vibrata da uno schioppo fora un' asse. Essendo assai grande la celerità della palla, ella rompe la coesione delle parti del legno, nelle quali batte, in un tempo più breve di quello che si esige acciocchè il moto si comunichi a tutto l' asse, il quale perciò resta al suo posto. Stabilito questo fatto indubitato, se ne trae due argomenti, che provano egualmente che il moto non è continuo. Il primo di questi argomenti si è che, se il moto si comunicasse senza fare nessuna posata in nessuno dei luoghi pei quali trascorre, il tempo totale che v' impiegherebbe dovrebbe essere nullo, perchè la somma di tanti zeri non produce che zero. Infatti l' istante non dura, e però ha una durata .uguale . 0. Questo argomento somiglia al precedente; e però mi contento di considerarlo come una conferma di quello. Ma il secondo è argomento nuovo, ed è questo. Un corpo che suppongo perfettamente duro, ricevendo da un altro corpo in moto, pure perfettamente duro, l' impulso al moto, non si muove fino a tanto che questo impulso non si sia comunicato successivamente a tutte le sue parti; e perchè questa comunicazione sia fatta, si esige, come abbiamo veduto, un certo tempo maggiore o minore, secondo la grandezza dei due corpi e la celerità del corpo impellente. Durante questo tempo il corpo duro, che riceve l' impulso, fa ostacolo al corpo in moto che lo dà. Dunque egli lo arresta durante quel breve tempo; trascorso il qual tempo, tutti e due i corpi, l' urtante e l' urtato, si mettono in viaggio secondo le leggi del moto. Dunque qui abbiamo un caso, in cui avviene indubitatamente che fra mezzo al moto del primo corpo, che sembra continuo, vi è una posata; vi è dunque moto, poi quiete durevole qualche tempo, poi di nuovo moto. Ma secondo la legge dell' inerzia quando una volta un corpo è in quiete, rimane in quiete, se non sopravviene una nuova causa di moto. Il fatto da noi indicato si oppone a questa legge; dunque è da dirsi che vi è una specie di posata e di quiete, la quale si compone benissimo con quel moto che si stima continuo, e a cui si applica la legge dell' inerzia (1). Di più, se il corpo urtato non può muoversi se non dopo che l' impulso si è propagato a tutte le sue parti, e se la propagazione dell' impulso non si ferma in nessun punto, come si suppone da quelli che credono il moto dover essere continuo, il moto sarebbe impossibile. Perocchè l' impulso, che si comunicasse ad un punto in un istante, o produrrebbe subito il movimento, o il moto, trovando un ostacolo a spiegarsi, rimarrebbe eliso e spento. All' incontro è necessario che nelle singole parti e punti del corpo l' impulso si conservi vivo, per tutto quel tempo che si richiede acciocchè tutte le parti acquistino lo stesso impulso, e così possano muoversi di conserva. Dunque ciascuna parte del corpo che riceve la spinta, prima di cominciare effettivamente a muoversi, aspetta un certo tempo, finito il quale, il moto incomincia. Dunque la comunicazione del moto stesso e non dell' impulso (2) si fa a ciascuna parte del corpo spinto in un dato tempo, e non in un istante. Ma tutti i corpi, per minimi che sieno, hanno dell' esteso continuo; dunque in tutti deve succedere lo stesso fatto, che il moto non si comunica a nessun corpo in un istante, ma con un intervallo di quiete. Come si risponde a questi argomenti? - Essi, secondo il veder nostro, sono insolubili e contengono altrettante dimostrazioni che l' atto transeunte non si fa per mutazione continua, ma per istanti, fra l' uno e l' altro dei quali vi è qualche durata. Noi abbiamo già dimostrato altrove la stessa cosa, quando negammo che il movimento reale sia continuo (1), benchè sia continuo fenomenalmente. La difficoltà a concepire come il movimento del reale, ossia la mutazione dell' atto transeunte, non sia continua, è immensa per le menti non esercitate alle speculazioni filosofiche, perocchè gli uomini sono propensi a credere al fenomeno dei loro sensi così fattamente, che non sanno pensare possibile se non ciò che loro apparisce sensibilmente. Quindi non sarà punto strano, nè inaspettato per noi che escano molti a così parlarci: « L' osservazione ci dimostra che il movimento è continuo, e contro l' osservazione del fatto non si può andare, come voi stesso di continuo predicate ». Ai quali è difficilissimo fare intendere come l' osservazione non possa decidere la presente questione, che tratta di cosa posta al di là di ogni osservazione sensibile, non provando questa più dell' apparente; ed è pur manifesto che al senso nostro sfugge ogni grandezza minore di una certa data misura. E quando anche si persuadesse loro che l' osservazione nulla può dire di quelle grandezze di spazio, di tempo o di moto, la cui piccolezza è tanta, come pure deve essere nel caso nostro, che niuna sensitività umana è valevole a percepirla (2), o certo niuna avvertenza della mente è sufficiente a considerarla nel senso, quando questo ce la desse; ancora sarebbero presti a domandarci: « Ma come si può concepire un' atto transeunte o un movimento reale, che si fa ad intervalli? ». La quale domanda già non è più tolta dall' osservazione, ma dal ragionamento, che considera la possibilità degli insensibili. A cui basterebbe rispondere che niente dimostra l' impossibilità di ciò, quand' anche non si sappia spiegare il modo come la cosa avvenga; ed essendovi due sentenze opposte, dell' una delle quali l' assurdità si dimostra, dell' altra non si dimostra, conviene attenersi alla seconda rifiutando la prima. Basterebbe, dico; e tuttavia non persuaderebbe molti, che hanno poca forza di fede a ciò che la ragione dimostra. A soccorso di questa cotal debolezza d' animo nel dare l' assenso semplice e fermo alle dimostrazioni speculative, a cui le apparenze sensibili fanno contrasto, noi dimostreremo prima direttamente che il senso della vista, a cui principalmente si crede, quando dà, o sembra, testimonianza della continuità del moto d' un corpo (e si può agli altri sensi applicare un ragionamento simile), non attesta propriamente, e non può attestare la continuità del moto. E veramente è un fatto riconosciuto da tutti i fisici e dato dall' esperienza, che la sensazione visiva ha una durata nel sensorio ottico, e non passa in un istante. Se questo non fosse un vero d' indubitabile esperienza, si potrebbe dimostrare la necessità che così fosse, considerando che una sensazione, che non avesse durata alcuna, non sarebbe. Ma non abbiamo bisogno d' una tal prova di ragione. Tuttavia, quantunque ogni sensazione ottica duri qualche tempo, essendone assai piccola la durata, il comune degli uomini la crede istantanea. Posto dunque questo vero, che ogni sensazione ottica ha una piccola durata, ne viene per indeclinabile conseguenza che l' occhio non può testimoniare punto nè poco il movimento continuo, perchè non può testimoniare ciò che non vede. E di vero, il movimento continuo è un continuo cangiamento di luoghi, in ciascuno dei quali il corpo non fa fermata alcuna. Per essere adunque veduto il movimento continuo, l' occhio dovrebbe avere una successione di sensazioni diverse, ciascuna delle quali non avesse durata alcuna. Ma il fatto non va così; che anzi l' occhio altro non prova, quando l' uomo crede di vedere un corpo che si muove continuamente, se non una serie di sensazioni l' una continua all' altra (o con intervallo insensibile), ciascuna delle quali dura qualche poco di tempo. Dunque anche il moto fenomenale, cioè sensibile agli occhi, si riduce in una serie di stati del mobile, ciascuno dei quali dura alquanto. Quella dunque che sbaglia è l' avvertenza della mente, quando, trascurando di osservare quelle minime durate, suppone che l' una segua all' altra senza alcuna interruzione (1). Da questi principŒ muovendo, gli studiosi della natura giunsero ad inventare delle ingegnose macchinette, colle quali fecero apparire all' occhio che un corpo si muova, unicamente col rappresentare successivamente alla vista un certo numero di corpi, ciascuno dei quali apparisca di egual forma in luogo così vicino all' altro che paia l' altro, passato innanzi di una menoma distanza. L' uomo, al vedere tutti questi corpi uguali successivamente presentarsi all' occhio in luoghi vicinissimi, li prende per un corpo solo, che si muova con continuo moto. E con questo artificio si compose qualsiasi moto apparente lineare, circolare, ecc., quando pure il corpo, che apparentemente si muove, non è un corpo identico, ma un complesso di più corpi eguali che si vedono in luoghi diversi, rappresentanti quel moto appunto che si crede continuo. Ora questo esperimento solo è sufficiente a rispondere anche alla domanda, benchè indiscreta: « Come sia possibile che un corpo passi da un luogo all' altro, senza che si muova continuamente passando per tutti gli spazi di mezzo ». Poichè è soddisfatto a tale istanza, quando si dimostra la possibilità che il moto sembri continuo a chi lo vede, senza essere tale; e la possibilità è dimostrata, se si prova avvenire così di fatto in un solo caso. Tuttavia io ne recherò un altro dei molti, che mi somministrerebbe la fisica e principalmente l' astronomia; ed ecco qual' è. Quando la persona passa davanti ad uno specchio, il moto dell' immagine risponde al moto della persona, e l' uno e l' altro pare continuo. Ora come si fa il moto apparente dell' immagine? Forse col passare qualche cosa da un luogo all' altro? Niente di ciò; quell' apparenza si produce per via di raggi sempre nuovi di luce, che dipingono sullo specchio immagini sempre nuove, ossia fisicamente diverse, svanite le precedenti; eppure pare sempre che l' identica immagine sia quella che cammini e passi. Dunque il fenomeno della continuità del moto si può spiegare, senza che sia assolutamente necessario che tutti i punti di un dato corpo che si muove, tocchino tutti i punti intermedi dello spazio, per cui passa o sembra passare. Forse un tempo si potrà invocare a favore di questa dottrina l' intermittenza della luce sospettata da alcuni fisici, se non ancora dimostrata a pieno; intanto mi proporrò un' ultima obbiezione. Gli esempi, che avete addotti, dimostrano benissimo che può nascere il fenomeno del moto continuo senza che in verità sia tale, per via di sostituzione successiva di più corpi eguali, o di più operazioni eguali. Ora, vorreste voi che i corpi che si muovono, non conservino la loro identità, come appunto diceva Leibnizio, il quale supponeva che il pieno e il vacuo dello spazio si facesse da una materia immobile, costituente l' infinito spazio, la quale quasi direi s' indurava successivamente, e così dava mostra che fosse un corpo identico che si muovesse? Rispondo che per quanto aliena paia una tale supposizione dal comune pensare, perchè il comune pensare si ferma al fenomeno e non entra a cercarne le ragioni e le cause, ella non fu mai nè dimostrata assurda, nè tampoco falsa nel fatto. E` questione metafisica, che, qualunque soluzione le si dia, lascia le cose fisiche quali sono; e però difficilmente potrà dimostrarsi o falsa o vera con fisici argomenti. Ma senza esaminare la supposizione leibniziana, io domando se è ben definito in che consista l' identità di un corpo. Ella è questione più ardua a sciogliersi che non paia. Io qui la tratterò brevemente, ma in maniera sufficiente all' intento. Nel corpo si distinguono due cose, l' estensione e la forza. Ora quando un corpo si muove, è certo che l' estensione è mutata, perchè cangia di luogo, ed un luogo non è mai identico ad un altro, essendo un luogo fuori dell' altro. Ciò che impedirà intendere questo vero, sarà il pregiudizio che il corpo abbia un' estensione sua propria, che egli porti seco, quasi che l' estensione si possa portare da un luogo all' altro, o l' estensione del corpo e quella del luogo che occupa sieno due estensioni, e non un' unica e semplicissima estensione. In questo credere fa gabbo al pensiero la misura o quantità dell' estensione, che è sempre conservata identica dal corpo; mentre muta l' estensione stessa, prendendone egli sempre un' altra, benchè di eguale misura di quella che aveva prima. Ora, essendo le diverse estensioni, in cui il corpo successivamente si espande, in tutto eguali di grandezza e di qualità uniforme, sorge assai facilmente l' illusione che sia una estensione stessa aderente al corpo, che venga dal corpo seco portata. L' identità dunque del corpo non può consistere che nell' altro elemento, nella forza corporea. Ora questa non è altro che il termine di un atto di quell' occulto agente, che abbiamo chiamato principio corporeo , il quale non può essere che semplice. In che consiste l' identità del termine di un atto? In questo, che egli sia eguale in tutto; è una identità specifica quella che in esso si cerca in relazione all' atto, perchè il termine è costituito da questa relazione essenziale. Così se io fiuto cento volte l' odore di rosa, benchè gli atti sieno numericamente diversi, essi hanno però un termine specificamente identico, perchè è sempre la stessa sensazione dell' odore di rosa in cui terminano, supponendo questa sensazione invariabile; io non ho in tutti questi atti altra sensazione che quella dell' odore di rosa, che si riferisce a più atti. Ora, se il principio corporeo attuasse il corpo con intermittenza, egli che essendo semplice può abbracciare ad un tempo tutto lo spazio, come abbiamo veduto avvenire del principio senziente, lo potrebbe far comparire successivamente in luoghi vicinissimi, a tale che paressero continui e non interrotti, e così il corpo parrebbe muoversi con movimento continuo, benchè non sarebbe. E tuttavia egli sarebbe lo stesso corpo, perchè termine eguale in tutto degli atti intermittenti di esso principio corporeo semplice; onde la diversità individuale che esservi potesse, sarebbe affatto indiscernibile. Che se non ci bastasse il mantenere ciascun corpo tanta identità specifica, e si volesse una identità numerica, non ce ne mancherebbe la via. Perocchè potrebbe considerarsi la forza sensifera come una virtù identica del principio corporeo, la quale operasse con intermittenza non osservabile ai sensi. Concludiamo: gli atti transeunti si formano in un istante, o sono un composto di atti minori, che si formano in altrettanti istanti vicinissimi, tra i quali passa una minima durata non osservabile all' uomo in modo alcuno. A spiegare il concetto dell' atto transeunte, anzi pure a formarcelo accurato, altre difficoltà non poche si rappresentano alla mente dello speculatore. Ma queste ci verranno innanzi tra via, ed allora ci studieremo di vincerle, giacchè il trarle fuori ad una ad una lenterebbe il corso del nostro ragionare, ansioso di pervenire là dove tende. Qui dunque è uopo che consideriamo il nesso dell' atto transeunte, secondo il concetto poco fa stabilito, coll' atto immanente. Noi abbiamo posto questo concetto in un passaggio , ossia in una mutazione, che si fa in un istante. Tenuto questo concetto e la dottrina dell' istante e della durata , si ha una definizione dell' atto transeunte, che dimostra ottimamente la sua relazione essenziale coll' atto immanente; perocchè la definizione dell' atto transeunte riesce a questa: « L' atto transeunte è sempre il cominciamento o il fine di un atto immanente »; ossia « l' atto transeunte non è che il cominciare o il finire dell' atto che dura ». Dalla quale definizione si trae un corollario importantissimo, che qui noi non vogliamo lasciare inosservato, come quello di cui abbisogniamo in progresso, a procedere con piena chiarezza e distinzione di pensieri. Il corollario si è quello dell' esistenza di Dio, dimostrata dalla sola esistenza di atti transeunti. La dimostrazione, che a noi sembra invitta, si può condurre così: Se si danno atti transeunti, si danno altresì atti immanenti, perchè quelli non sono che il principio o il termine di questi. Ma nessun atto immanente può essere causa del proprio termine, perchè nessun atto può essere causa del proprio non atto, ossia della cessazione di sè stesso. Neppure l' atto immanente può essere causa del proprio cominciamento, perchè nessun atto può dare a sè stesso l' esistenza, che sarebbe un operare prima che fosse. Ora l' atto transeunte ha pure bisogno di avere una causa, perchè esso è mutazione, è passaggio; e ciò pel principio di causa (1); nè questa causa può essere egli stesso, per la ragione addotta che ciò che non è non può dare a sè l' esistenza. Se dunque l' atto transeunte non è cagionato dall' atto immanente di cui è cominciamento o fine, converrà che vi sia un' altro atto immanente che lo cagioni. Ma questo atto immanente, che cagiona l' atto transeunte, o avrà cominciamento egli stesso, nel qual caso sarebbe cagionato da un atto transeunte, o non avrà principio di sorte alcuna, è però neppur fine. Se esso è cagionato da un atto transeunte, converrà ascendere ad un altro atto immanente, e per non andare al progresso di cause all' infinito (nel qual caso nessun atto sarebbe prodotto, perchè ci vorrebbe un tempo infinito a produrlo, e un tempo infinito non è mai trascorso) converrà fermarsi ad un atto immanente, che non abbia nè principio, nè fine. Se poi esso non è cagionato da un atto transeunte, già nuovamente abbiamo un atto immanente senza principio e senza fine. Esiste dunque un atto immanente senza principio e senza fine; e questi è Dio. Dunque se esistono degli atti transeunti, esiste necessariamente Iddio (2). Questa dimostrazione dell' esistenza di Dio ha il vantaggio che conduce a dimostrare direttamente che Dio è un atto immanente , ed un atto purissimo. Ora tale verità è fecondissima, e principio onde scaturisce tutta la dottrina intorno alla divina natura, come deve mostrare la Teologia Naturale. Ella fra le altre verità di cui va gravida, contiene una dimostrazione, che non so se fino ad ora sia stata trovata. Per accennarla brevemente si può condurre per via delle seguenti proposizioni. Tutti gli atti immanenti, che hanno cominciamento e fine, sono mescolati e connessi con atti transeunti, che sono appunto il loro cominciamento e il loro fine. Tali atti immanenti, che hanno cominciamento da un atto transeunte, non possono essere cagione di questo atto transeunte. Questo atto transeunte adunque, che dà cominciamento ad un atto immanente, deve essere cagionato da un atto immanente, il quale non abbia cominciamento nè fine, nè sia mescolato con niun atto transeunte. Dunque questo atto immanente, che, come vedemmo, dicesi Dio, producendo quell' atto transeunte, che dà principio ad un atto immanente, deve operare in modo che produca quell' atto transeunte fuori di sè, senza che in sè nasca perciò alcun passaggio, alcuna mutazione, ossia alcun atto transeunte. Ma questa maniera di operare dicesi creazione , rispetto all' atto transeunte prodotto, quale principio di atto immanente. Dunque si dà necessariamente la creazione, ossia la creazione è necessaria a spiegare l' esistenza del mondo, che è un complesso di atti immanenti e transeunti legati insieme. Il sagace lettore intenderà, io non dubito, che questa dimostrazione equivale a qualsivoglia delle dimostrazioni di Euclide (1). Passiamo ora ad un' altra difficoltà, che si presenta nel concetto dell' atto transeunte. Gli atti transeunti non possono essere che atti venienti da atti immanenti; perocchè ciò che è, è immanente, avendo noi veduto che un ente senza alcuna durata è un assurdo, giacchè l' istante è il limite della durata, e perciò suppone la durata, nè sta da sè, come il punto matematico è il limite della linea, che non istà da sè. Ora un atto immanente, che produce un atto transeunte, o lo produce con un atto eterno, immanente anch' esso, ed allora egli non è il soggetto dell' atto transeunte prodotto, il che si avvera solo nella creazione, come vedemmo; ovvero produce un atto transeunte, di cui egli è il soggetto, di modo che l' atto transeunte è un atto suo proprio; per esempio, l' atto con cui il principio senziente acquista una nuova sensazione, o l' atto con cui il principio razionale fa un pensiero, sono atti transeunti, il cui soggetto è il principio senziente o il principio razionale. Questi atti transeunti modificano il soggetto che li fa, producono in esso qualche cosa di nuovo; e nella loro spiegazione si presenta appunto la difficoltà accennata, la quale è questa. Se un ente, atto immanente, diviene soggetto di atti transeunti, il che è quanto dire modifica sè stesso, conviene assegnare una ragione sufficiente, una causa di questa modificazione, pel principio di causa. L' ente stesso, cioè lo stesso atto immanente, non contiene la ragione sufficiente, ossia la causa piena di questa novità; perchè se la contenesse, l' atto prodotto sarebbe immanente e non transeunte, cioè sarebbe sempre stato nell' atto immanente. Infatti posta la causa piena , l' effetto esiste. Ma l' atto immanente era prima che l' atto transeunte comparisse; dunque l' atto immanente non è causa piena degli atti transeunti, che in lui, come altrettanti suoi accidenti, si manifestano. Questa è una nuova prova che l' atto immanente, soggetto dell' atto transeunte, non può esserne la piena causa, che si deve aggiungere a quella che abbiamo data prima. La conseguenza di ciò si è che niun ente è veramente e rigorosamente semovente; ma deve concorrere al suo movimento, cioè alla sua immutazione, qualche agente straniero. Per evitare questa conseguenza, che pareva loro una difficoltà, molti antichi filosofi posero l' essenza dell' anima nel movimento (1); ma oltre non essere il movimento sostanza e aver bisogno d' una sostanza che ne sia il soggetto, e d' una causa, se nel movimento consistesse l' essenza dell' anima, questo movimento dovrebbe essere sempre uguale; perocchè se variasse, già si dovrebbe ricorrere all' intervento di un' altra causa per spiegare tale variazione. Onde Aristotele conchiude che all' anima spetta piuttosto la quiete che il moto (1). Egli osserva che tali filosofi vennero a questa sentenza, perchè non sapevano concepire come ciò che muove possa non essere in moto egli stesso (2); e contro di essi, dopo aver provato che l' anima non si muove per sè (3), conchiude: [...OMISSIS...] (4). Ma questa sentenza incontra non poche difficoltà, perocchè, o la parola movimento s' intende in senso proprio, cioè per movimento locale proprio dei corpi, e in tal caso è facile provare che l' anima ne va immune perchè semplice e spirituale, e che quindi può muovere i corpi senza che ella si muova, giacchè ella è principio, ed i corpi sono il suo termine, e in questo termine è lo spazio, il luogo ed il moto. Ovvero si dà alla parola movimento una più estesa significazione, quella dell' atto transeunte, della mutazione, dell' accadere qualche cosa di nuovo; il che pure fa Aristotele sovente. Onde non potendo negarsi che le potenze dell' anima escano in atti transeunti, nota Aristotele che Democrito, che dava all' anima il moto, confondeva la potenza dell' anima, a cui il moto conviene, coll' anima (1) a cui non conviene. Ma se le potenze altro non sono che attività dell' anima, giacenti nella sua stessa essenza, forz' è ben dire che l' anima stessa rimanga modificata dagli atti di sue potenze, non solo quando queste sono in atto, ma anche dopo il loro atto, restando in essa l' abito come quasi un rimasuglio dell' atto. Poichè, quantunque l' anima abbia natura di principio , tuttavia questo principio riceve o perde di sua attività; e così nasce in lui qualche mutazione, e in questa in senso metaforico qualche moto, chè alla fine, di tutti gli atti delle potenze l' anima è il soggetto, e il soggetto si modifica pei suoi atti transeunti. E` vero che Aristotele dice che l' anima è atto (l' atto del corpo vivo), ma non può negare che questo atto primo è potenza ad altri atti transeunti, e però non è atto puro ed immutabile, ma passa dalla potenza all' atto (2). Se dunque la parola movimento si piglia per ogni passaggio dalla potenza all' atto, nel quale passaggio sta appunto la natura dell' atto transeunte, conviene dire che fra la sentenza di quei filosofi, che ponevano l' essenza dell' anima nel moto, e la sentenza di Aristotele che nega all' anima ogni moto, giaccia la sentenza media e vera; cioè che « l' anima, come ogni altro ente che non sia il primo, è un atto immanente, soggetto di atti transeunti, ma non causa piena di questi »(1); perchè se ella fosse causa piena, gli atti non potrebbero cessar mai, durante la causa, e così sarebbero immanenti; come accade in Dio dell' atto creatore, che è atto eterno, che non ha e non pone in Dio mutazione o passaggio di sorte. Altrimenti l' anima sarebbe un semovente , il concetto del quale ripugna, come abbiamo detto. Se dunque niun ente può essere un vero semovente, cioè una causa piena dei propri atti transeunti, rimane a cercare ancora come questi nascano, quale sia la loro causa completa. A tal fine dobbiamo richiamare quello che abbiamo detto, che l' anima ha natura di principio, e il concetto di principio involge quello di atto. Ma il principio non esiste senza il suo termine, ed è dal suo termine che riceve la sua attualità ed attività. L' anima sensitiva ha per suo termine lo spazio ed il corpo. L' anima razionale ha per suo termine l' ente. Ora se si muta il termine, si muta conseguentemente l' attualità e l' attività del principio. Conviene adunque cercare la cagione degli atti transeunti, che accadono nell' anima nella mutazione dei suoi termini, come noi abbiamo già fatto prima. Perocchè il principio è essenzialmente atto, e però è indifferente ai suoi termini, nè gli vien meno l' attività giammai, per qualsivoglia termine gli sia dato; che, anzi, secondo il termine, più o meno attivato. Questa dottrina, che viene somministrata dall' osservazione interna, spiega in che modo nell' anima vi possa essere della potenza, quantunque ella sia essenzialmente atto, perchè è principio; il che parrebbe contraddizione. Ma se si pone che l' atto stesso riceve più o meno entità, secondo la natura dei termini che gli sono dati, da una parte si scorge che ella rimane sempre puro atto, benchè maggiore o minore, nè mai, propriamente parlando, ha unito seco un quid della sua essenza che sia potenza; dall' altra, essendo capace d' incremento e di diminuzione, dicesi che ella è in potenza a questo incremento di sè o a questa diminuzione. E così rimane spiegato il vero concetto della potenza , come una negazione di atto , e non come un che positivo, che costituisca una parte sostanziale dell' ente principio. Vero è che fra l' essere dato un termine ad un principio e l' essergli al tutto negato, vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso, ed il combattimento fra lui e il suo termine; ma di questo parleremo altrove. Ora, dunque, noi possiamo conchiudere che la ragione degli atti transeunti non si deve mai cercare negli enti principio, ma negli enti termine. Conviene adunque esaminare con somma diligenza quali sieno le forze, o virtù, o cause che mutano gli enti termine, e come queste operino; ed in tal caso solamente sarà spiegato come gli atti transeunti siano possibili, appunto perchè sarà dichiarato il modo come si formano. Ma perchè questo modo non è unico nei diversi enti, così noi dobbiamo discendere alle singole maniere di enti e di loro atti transeunti, come faremo nel seguente capitolo. Le quali cose tutte noi abbiamo creduto dover premettere a spiegare il movimento del principio razionale. Perocchè la condizione di questo movimento non riesce ben chiara nel concetto della mente: 1 se non si conosce la natura del movimento in genere di tutti gli enti, e specialmente di quelli che sono soggetti di atti transeunti; 2 se non si confronta il movimento del principio razionale a quello, secondo cui si muovono gli altri agenti della natura. Delle quali due cose la prima fu fatta nel capitolo precedente, la seconda noi togliamo a fare ora. All' uomo non è dato per natura altro spazio pieno, ossia distinto mediante il corpo che vi si espande, che quello del sentimento fondamentale. I confini di questo spazio a principio non si sentono, ma si trovano mediante le sensazioni superficiali. Nè questi confini si potrebbero percepire, senza che si sentisse qualche spazio di là da questi confini medesimi (1). Qui dobbiamo fermarci, perchè questo ha già bisogno di spiegazione all' intento nostro presente: Come si può sentire qualche cosa al di là del corpo nostro? Noi abbiamo, è vero, la percezione dello spazio illimitato, ma questo spazio è indistinto, cioè non ha ancora alcuna relazione coi corpi, che lo empiscono o lo possono empire; non basta dunque a spiegare come noi acquistiamo la cognizione dello spazio distinto, che eccede i confini del nostro corpo, cioè la relazione fra il nostro corpo e lo spazio immenso. La soluzione della difficoltà si deve ritrarre dalla distinzione delle due maniere di sentire, la soggettiva e l' extrasoggettiva . Il soggetto si spande nel sentimento fondamentale corporeo come padrone, come in cosa propria, a sè unita quasi una parte, una continuazione di sè stesso; egli agisce in esso, e ne ha bisogno come d' una condizione essenziale di sè stesso. Qui non compariscono confini lineari o superficiali, è un sentimento solido, fuori del quale nulla si sente di corporeo, nulla si può sentire; perciò non ha relazioni sensibili con niun corpo straniero. Ma la sensazione extrasoggettiva è di tutt' altra natura; ella accusa una forza straniera a quella del sentito; la quale forza produce una violenza (benchè talora piacevole) al sentimento fondamentale. La forza straniera agisce nell' estensione stessa del sentimento, nel sentito fondamentale, ed allora questa estensione si disegna e figura. Ora conviene bene intendere la natura di questi confini superficiali, che acquista così il nostro sentito fondamentale. Prima di tutto, allorquando il nostro tatto è affetto da un corpo straniero, si distingue che quel corpo è straniero, perchè si sente che l' azione di lui non è quella del principio senziente, anzi questo è in essa; si sente che l' agente straniero non è sentito in sè stesso, ma solamente ne è sentito l' effetto e il termine della sua azione, perchè il sentimento che se ne ha non è quello d' un solido, ma d' una superficie; si sente dunque il termine della sua azione, ma non lui stesso, a differenza di quanto accade nel sentito fondamentale, il quale non è un termine superficiale di azione che si senta, ma lo stesso agente in tutto lo spazio solido, in cui si espande come agente. Ma poichè il termine dell' azione straniera è nel nostro sentito fondamentale, che ne riceve l' azione, perciò la stessa superficie sensibile, che è il termine dell' azione straniera, si percepisce come confine del sentimento fondamentale, distinguendosi in questo quella superficie da tutto il rimanente del sentimento fondamentale, e diventando così quella superficie termine a due agenti, allo straniero e al proprio, che è il sentito fondamentale (in quanto è sensifero). Questo accade per via del tatto (prescindendo noi ora dalla vista e dagli altri sensi), il quale è la propria misura dei corpi (1). Quindi se il corpo nostro fosse immobile, noi col tatto non potremmo conoscere simultaneamente la superficie di un corpo straniero maggiore di quella del nostro, che la commisura. Per ispiegare, adunque, come noi possiamo percepire un corpo maggiore del nostro, si deve fare intervenire il movimento, sia nei corpi esteriori, sia nel nostro proprio. Quanto ai corpi esteriori, se diversi corpi agiscono successivamente sulla stessa parte del corpo nostro, in tal caso quei corpi o sono perfettamente eguali di estensione, di forma ecc., o hanno qualche varietà fra loro. Se sono perfettamente eguali, e si applicano successivamente alla stessa parte del corpo nostro, noi senza l' aiuto di altri sensi, col solo tatto non potremmo distinguere se l' agente è un solo e medesimo corpo, una stessa virtù che opera con replicati atti, ovvero se più. Ma qualora i corpi variassero di estensione e di figura, noi li prenderemmo per corpi diversi; e ciò non in virtù del solo principio senziente e della ritentiva propria di lui (di che ora prescindo, non bisognandomi di entrare in questione così sottile), ma per la ritentiva razionale. Perocchè, paragonando l' una superficie sensibile e sensifera all' altra, le troveremmo diverse, e così ci rimarrebbe nell' animo la notizia di più superfici, poniamo che fossero dieci e di un palmo quadrato di estensione, ma di varia figura ciascuna. Con questo solo noi comincieremmo a concepire una estensione maggiore della corrispondente nel corpo nostro; perocchè la superficie, in quanto appartiene al nostro sentimento fondamentale, non la possiamo moltiplicare giammai, sentendo noi che è sempre quella stessa. Un solo palmo, adunque, di estensione superficiale del corpo nostro è il campo, per così dire, dove possiamo sentire un palmo di estensione della forza esteriore, moltiplicato quanto si voglia, secondo il numero delle sensazioni di figura diversa, che si ripetono e moltiplicano successivamente. Veniamo al movimento del corpo nostro. E` certo che movendosi il nostro corpo, e ricevendo sempre nuove diverse sensazioni dei corpi circostanti, diversi di figura e d' attività, possiamo colla ritentiva razionale acquistare la notizia di uno spazio esteso più e più, senza limite assegnabile. Ma il difficile è qui lo spiegare il movimento del corpo nostro. Non abbiamo noi detto che il principio senziente ed il principio razionale sono immobili quanto a moto locale? Come adunque possiamo poi muovere il corpo nostro soggettivo? che cosa è questo movimento? Conviene riflettere che il nostro corpo noi lo percepiamo in due modi: nel modo extrasoggettivo , come ogni altro corpo, in quanto ha anch' egli la virtù sensifera, onde è visibile, tattile, ecc., e nel modo soggettivo , nel quale secondo modo è il sentito del sentimento fondamentale. Ora il corpo nostro extrasoggettivo non entra nel sentimento fondamentale, anzi non è che la virtù sensifera a lui straniera ed opposta. Supponiamo adunque di non averlo percepito extrasoggettivamente, ma solo soggettivamente; in tal caso egli non ha più moto. Infatti noi abbiamo già dimostrato nell' Ideologia che il moto nostro non è sensibile (1); ma se il nostro sentimento fondamentale non sente alcun moto, dunque il moto non cade in lui, essendo egli essenzialmente sentimento, e non cadendo nel sentimento ciò che non è sensibile. Si dirà che quando noi stessi moviamo il corpo nostro, per esempio camminando e saltando, allora noi sentiamo lo sforzo che facciamo per muoverci. Verissimo; ma lo sforzo, che noi facciamo per muoverci, non è già il moto, ma la causa del moto. Nel sentimento fondamentale adunque non cade moto di traslazione da luogo a luogo, benchè vi si trovi la forza e la causa del moto. Quindi il moto di traslazione non è che un cangiamento che si fa extra il soggetto, è un cangiamento nel corpo extra7soggettivo, una mutazione nella forza sensifera; ma non punto nel sentimento fondamentale, che si rimane immobile. Ma pure quando il corpo extrasoggettivo si trasporta per guisa che mediante l' esperienza extrasoggettiva si vede il nostro aver mutato di luogo, di che ci accorgiamo per la diversa relazione che prende coi corpi circostanti, allora il sentimento nostro fondamentale, e quindi il corpo soggettivo, è ancora presente agli stessi fenomeni extrasoggettivi, che dà il corpo nostro trasportato, sicchè il corpo nostro soggettivo non ha cangiato di relazione col corpo nostro extrasoggettivo. Se dunque il corpo nostro extrasoggettivo occupa un altro spazio, si suol dire che quest' altro spazio lo occupi anche il corpo soggettivo, e così sia stato trasportato anch' esso, si sia mosso. Questa osservazione è appunto quella che indusse Aristotele a dare all' anima quella specie di moto, ch' egli chiama per accidente , e che paragona al moto del colore, che non si muove come colore, ma come aderente ad un corpo che si muove. Ma questo, come abbiamo detto, è un errore, perchè, ritornando noi al sentito fondamentale, è evidente che il moto o dovrebbe essere sentito, e però cadere in esso sentimento, o non essere moto del sentimento; perocchè il sentimento è racchiuso in sè stesso per la sua propria essenza, e il mutarsi delle cose fuori di lui non è un muoversi che faccia egli stesso. Onde convien dire che il movimento locale è un fenomeno al tutto extrasoggettivo, cioè tale che si rivela colla sola esperienza extrasoggettiva, e non un fenomeno soggettivo, che si sperimenti come accidente del soggetto stesso o del suo sentito fondamentale. Ora i fenomeni extrasoggettivi sono prodotti dalla forza sensifera; onde si può ben dire bensì che col movimento del nostro proprio corpo si cangi il rapporto fra il nostro sentimento fondamentale e la forza sensifera sparsa nella natura, per esempio, nei corpi esterni, ma non che si cangi o muova lo stesso sentimento. Ma nel sentimento fondamentale si sentono, per l' azione del sensifero, le superfici di esso sentimento fondamentale, e queste pure si muovono. - A questa obbiezione rispondo: 1 che le superfici si sentono quando la forza sensifera attualmente è applicata al nostro corpo, e durante quest' azione non vi è movimento locale delle superfici; 2 quando poi la forza sensifera non agisce più sul nostro tatto, e il corpo nostro si trasporta da un luogo all' altro, allora la mutazione non istà in altro se non nell' essersi mutato il rapporto fra la forza sensifera e il sentimento fondamentale, come dicevamo. Ma lo stesso corpo nostro si vede quando viene trasportato. - Rispondo che l' esperienza della vista è del tutto extrasoggettiva. Ciò che si vede si è il corpo nostro in quanto cade sotto l' esperienza extrasoggettiva, e nel corpo extrasoggettivamente considerato accordammo già che si dà il moto; ma un tal corpo non è il sentito fondamentale, bensì cosa tutta diversa da esso. Ma nella superficie stessa del corpo nostro si sente il moto, qualora una sensazione particolare trascorra da un punto all' altro di essa superficie. - Rispondo che questa sensazione trascorrente è prodotta dalla virtù sensifera, e però appartiene al corpo percepito come un extrasoggettivo; e in quest' ordine di percezioni si dà il moto. Ma nel sentimento fondamentale7animale voi avete distinto un principio senziente semplice ed un termine esteso. Di più, nel termine esteso voi avete riconosciuto la condizione di sentito e ben anche quella di sensifero . Dunque sia pure accordato che al principio senziente, come ad un semplice ed incorporeo, non competa il moto, ma al termine esteso deve convenire il moto per due ragioni: 1 perchè è esteso, ed un esteso può essere trasportato da un luogo all' altro; 2 perchè in quello stesso esteso vi è il sensifero, al quale voi pure accordate il moto. Rispondo che in quanto il termine del sentimento fondamentale ha seco la virtù sensifera, in tanto egli non è termine del sentimento fondamentale, ma è quella virtù che può immutarne il termine, ossia costituirlo in altro modo da quello che è. Mi spiego. Il sentito fondamentale, come meramente sentito, è nel principio senziente allo stesso modo con cui abbiamo veduto che in lui è l' esteso, come contenuto nel contenente, e fra il principio senziente e l' esteso vi è una perfetta unione, di modo che formano un unico sentimento. All' incontro, la forza sensifera non è in questo modo nel principio senziente, ma ella non fa che operare nell' esteso, termine del sentimento e immutarlo. Onde il principio senziente non è unito stabilmente colla forza sensifera, nè da lei riceve direttamente l' azione, ma la riceve indirettamente, perchè gli si cangia il sentito da una forza diversa dalla propria. Di più, quando la forza sensifera agisce attualmente nell' esteso, termine del sentimento, allora ella non presenta in sè movimento di luogo a luogo, ma solo azione nello stesso sentito, termine del senziente. Quanto poi alla seconda obbiezione che, essendo il sentito nel sentimento fondamentale esteso, è atto a muoversi, rispondo che non ogni esteso è atto al moto. Così lo spazio stesso infinito non è atto al moto, come vedemmo, anzi è essenzialmente immobile. Acciocchè vi sia possibilità di movimento è necessario che, oltre lo spazio occupato dall' esteso, vi sia un altro spazio in cui egli si possa trasportare. Ma noi abbiamo veduto che l' esteso proprio del sentito fondamentale è un esteso in cui non cadono confini, e che solamente quando si percepiscono i confini superficiali, per poterli percepire è necessario percepire un altro spazio di là da essi. All' incontro il sentito fondamentale è di tal natura che di là da esso, cioè dal suo sentito, non si percepisce alcun' altra estensione, finisce tutta l' estensione in sè; perciò non è possibile che egli sia soggetto ad un movimento suo proprio, perchè non ha altro spazio ove recarsi che quello che egli occupa. Acciocchè dunque si concepisca una mutazione di luogo, conviene uscire da lui ed entrare nel mondo extrasoggettivo. Conosciuti da noi i fenomeni di questo mondo extrasoggettivo, allora ci sembra che il sentito fondamentale si muova; ma questo moto non consiste in altro, come dicevamo, se non nella mutazione del rapporto fra l' esteso sentito del sentimento fondamentale e il mondo extra7soggettivo. Il rapporto poi fra l' esteso fondamentale e il mondo extrasoggettivo non è rapporto di luogo a luogo, di esteso ad esteso, ma di esteso a sentimento; è dunque una relazione inestesa di sensilità che viene cangiata, e propriamente una relazione fra la causa, l' agente nel sentimento (il sensifero), ed il sentimento. All' incontro il movimento è il cangiamento del rapporto fra esteso ed esteso. Ma se tutto intero il sentito fondamentale non ha moto di traslazione, non si trasporta di luogo a luogo, almeno non si potrà negare che l' esteso del sentimento fondamentale potrà essere accresciuto e diminuito; il che importa una specie di moto per estensione o per restringimento. Rispondo che il sentito fondamentale può essere accresciuto e diminuito; ma questo non si fa per via di moto, ma per via di naturazione; il sentito comincia ad essere in un' estensione maggiore, o cessa di essere in una parte di essa. Questo non è moto locale, ma una specie di creazione o cessazione di una nuova parte estesa7sentita. Ma il sentimento fondamentale non è uniforme. Se una parte dunque di esso si sente più di un' altra o in modo diverso, ella potrà muoversi di luogo entro l' esteso sentito7fondamentale. Rispondo che se questo si vuole chiamare movimento, egli è il solo movimento che si può ammettere nel sentimento fondamentale. Ma conviene spiegarlo, e spiegandolo ben si comprenderà che vero movimento non è, quando si prescinda da ogni azione del sensifero, che vi si possa mescolare. Infatti, noi abbiamo posto che se le particelle corporee, a cui termina il sentimento fondamentale, si muovono senza perdere la loro continuità, il sentimento acquista un eccitamento, cioè una vivezza maggiore e varia. Ora dicendo movimento delle particelle corporee, si dice primieramente un fenomeno extra7soggettivo. Il fenomeno soggettivo corrispondente ad esso è la detta maggior vivezza e varietà nel sentimento. La questione adunque sta in sapere se questa mutazione nel fenomeno soggettivo si possa chiamare moto. Ma: 1 il movimento di ciascuna particella sentita non è sensibile, come abbiamo veduto, perchè il movimento del sentito non cade nel sentito, e però è del tutto extra7soggettivo; 2 il movimento di due o più particelle, che si muovono senza perdere la continuità, altra mutazione, quanto all' estensione, non produce nel sentito, se non che questo si aumenta da una parte e si diminuisce dall' altra; il che non è movimento, come abbiamo pure veduto; 3 finalmente se le particelle costituiscono un organo, e i movimenti intestini delle particelle si succedono in modo che prima si muovano quelle della prima fila, poi quelle della seconda, e così di seguito, in tal caso essendovi una successione di moti, deve esservi una successione di eccitamenti distribuiti nelle varie parti dell' organo. Allora il movimento eccitato produce il fenomeno del movimento interno, perchè pare che la stessa sensazione corra da un estremo all' altro dell' organo, che è tutto sentito pel sentimento di continuità. E questo è appunto il movimento unico che si può concepire nel sentito fondamentale, il quale è movimento soggettivo, attesa la ritentiva animale, che conserva il vestigio della sensazione precedente, e ancor più attesa la ritentiva razionale, che conserva la memoria delle sensazioni avute e le confronta. Ma si consideri non di meno che la sensazione non è numericamente la stessa, perchè cessando l' una viene l' altra, onde pare piuttosto una serie di sensazioni che rappresentano il movimento, a quella maniera appunto come l' immagine dello specchio si muove, benchè niun corpo identico si trasferisca da un luogo all' altro sullo specchio (1). E poichè qui si tratta di movimento fenomenale, cioè giacente nel sentimento, nulla ripugna che esso abbia una specie di continuità, in quanto il sentito è continuo, e la nuova sensazione può cominciare dove finisce la prima, o mescolare i loro estremi. Laonde rispetto al principio senziente, ossia all' anima sensitiva, rimane provato che ella è immune da qualsivoglia movimento. Quando poi noi al sentito fondamentale nel modo detto e al principio senziente neghiamo il moto locale , non si creda per questo che noi gli accordiamo la quiete . No, non si può assegnare la quiete a ciò in cui non può cadere il moto, perchè quella è relativa a questo; ma piuttosto è vero il dire che non v' è nè moto, nè quiete, come là dove non vi è estensione, neppure può esservi il punto, che è il termine della estensione. Dalle quali cose tutte possiamo raccogliere: Che lo spazio, non avendo atti secondi e transeunti, non richiede di spiegare il modo del suo operare. Che il corpo presenta due attività, il sentito e il sensifero . Che il sentito non ha propriamente moto locale, e che la sua azione dipende dall' essere dato al senziente e quasi posto in lui; e questa specie di azione non può venire, originalmente, se non dal Creatore autore del sentimento, onde, come già dicemmo altrove, l' animato non si forma, ma è dato in natura (1). Che non rimane più a spiegarsi se non l' azione del sensifero, causa di movimento. Ora questa, dipendendo come da causa dal principio corporeo, e il principio corporeo non cadendo sotto la nostra percezione, è impossibile a noi l' indicare come egli operi con atti secondi, sieno immanenti o sieno transeunti. Ma il solo sapere che il movimento, e quindi il conato al movimento (2), ossia la forza corporea, dipende dal principio sensitivo e da un agente sconosciuto, basta per conchiudere che il corpo non passa ai suoi atti transeunti da sè solo; che anzi egli riceve il moto e la forza dal principio sensitivo , come riceve l' esistenza dal principio corporeo , che può anch' egli esser principio di moto, qualunque poi sia la maniera occulta nella quale lo produca. Ora, poichè la forza si considera nei corpi come atto immanente e il moto come atto transeunte, gioverà che indichiamo il rapporto di questa forza corporea col moto. Abbiamo detto che nel sentito7esteso non è la cagione del movimento extra7soggettivo; o se c' era, in quanto è divenuta sentito7esteso, ella ha perduto la sua natura di forza, dominata dal principio senziente; conviene dunque considerare la forza come distinta dal sentito, determinandola dai suoi effetti. Questi effetti sono: Comunicazione del moto . - Nella percussione di un corpo nell' altro il corpo percosso e libero si muove nella direzione del primo. Questo effetto si riduce all' impenetrabilità e all' inerzia . Non potendo un corpo penetrar l' altro, ed il moto dovendosi conservare per l' inerzia, l' uno cede il posto all' altro con una velocità che sta in proporzione diretta della quantità di moto del corpo urtante, e indiretta della massa del corpo urtato. Ma questo fatto non riguarda l' incominciamento del moto, ma la comunicazione del moto che già esiste. Conservazione del moto . - Per l' inerzia un corpo in moto continua a muoversi nella stessa direzione. Questo effetto suppone che la causa del moto perseveri; ma questa causa non può essere il corpo stesso, perchè egli è indifferente alla quiete e al moto; deve essere adunque una forza incorporea diversa dal corpo che opera nel corpo. Attrazione . - Questa non è altro che un conato di muoversi d' un corpo verso l' altro, un conato permanente. La permanenza di questo conato indica una causa di moto diversa nell' operare dalla causa della conservazione del moto. Perocchè il fatto della causa che conserva il moto, è questo: due corpi di eguale massa, mossi con eguale celerità l' uno incontro all' altro nella stessa linea, quando giungono a percuotersi, si fermano distruggendosi i moti, sicchè resta la stessa quantità di moto nella stessa direzione. Questi due corpi, ridotti così alla quiete, si stanno al contatto, senza che rimanga in essi neppure il conato di muoversi nelle direzioni che precedentemente avevano, sicchè non gravitano l' uno incontro l' altro. All' incontro la causa dell' attrazione produce in essi una pressione dell' uno nell' altro tendente a penetrarsi. L' esperienza dunque dimostra che nella natura del moto concorrono tre cause di moto: Una causa che produce semplicemente il moto , cioè che fa passare il corpo dalla quiete al moto e viceversa. Una causa che presiede alla conservazione e alla comunicazione del moto da un corpo all' altro. Una causa che produce il conato costante di muoversi di un corpo verso l' altro, fenomeni dell' attrazione. La prima e la terza causa trovano, secondo noi, una spiegazione sufficiente nell' attività motrice del principio senziente annesso agli elementi della materia, e nelle leggi secondo le quali opera quell' attività. La seconda suppone un altro principio straniero ai corpi, quel principio stesso che li costituisce e, costituendoli, impone loro le leggi dell' inerzia. Secondo queste leggi il moto in una direzione rimane annullato da altrettanto moto in direzione opposta. Il conato, che hanno i corpi a penetrarsi, in tal caso cessa col cessare del movimento, perchè nasce da questo e non dalla forza causa di lui, la quale è cessata. Tutte le leggi della conservazione e della comunicazione del moto sono conseguenti a questa prima. La forza producente il moto non rimane estinta anche dopo averlo prodotto; e se questa causa è annessa ai corpi, come nell' attrazione, il conato, che per essa hanno i corpi a penetrarsi, non cessa col cessare del movimento, perchè non è prodotto da questo, ma questo stesso è un effetto di quella forza che non muta la sua natura di forza. Nella conservazione del moto semplice ad ogni tempuscolo si rinnova il moto; ma non s' aggiunge alcun nuovo conato a quello che nasce dal moto stesso. Onde il moto riesce uniforme . Nell' effetto dell' attrazione ad ogni tempuscolo si rinnova il conato al moto, che produce nuovo moto, ed il corpo già si muove per la conservazione del moto precedente, onde se ne ha un moto accelerato, come il quadrato dei tempuscoli . A produrre adunque il moto accelerato concorrono due principŒ: 1 il principio della produzione del moto; 2 il principio della sua conservazione. Ma poichè l' impenetrabilità distrugge il moto e il conato veniente dal moto, ma non il conato costante che precede il moto, ed è causa della sua produzione; quindi se due corpi eguali si muovono in direzione opposta con eguale moto, senza attrazione, venuti al contatto, cessa ogni loro moto e ogni conato che potesse venire dal moto, che è sempre un conato istantaneo, durante cioè quel solo tempuscolo che è necessario ad estinguersi il moto. Quando all' incontro due corpi si avvicinano per via di attrazione, allora al loro contatto cessa bensì tutto il loro moto (posto che sieno eguali di massa), quantunque cresciuto per via secondo il quadrato dei tempuscoli; ma non cessa il conato costante , col quale tendono di penetrarsi o almeno (il che mi pare detto con più verità) di toccarsi in tutti i loro punti, di accentrarsi. E` dunque evidente che vi sono due virtù che operano nei corpi: 1 una causa costante di moto già prodotto; 2 una causa costante di conato al moto da prodursi. Noi dicemmo che la causa del moto è certamente distinta dal corpo, perchè dall' essenza del corpo rimane escluso il moto. Ma della causa del conato al moto si potrà dire il medesimo? E` da confessarsi che la causa di questo conato, che si chiama anche attrazione o forza viva , deve operare incessantemente nei corpi, perchè tutti i corpi si attraggono (lasciando da parte i così detti imponderabili, pei quali la questione è ancora indecisa). Ma che non entri un tal conato a formare l' essenza dei corpi è facile a dimostrarsi, quando si considera che ciascun corpo ha tutta la propria essenza in sè stesso, è finito in sè stesso, niente di ciò che è fuori di lui gli appartiene. Ma l' attrazione è diretta dalla relazione di un corpo coll' altro. E` dunque necessario che la causa dell' attrazione non sia un corpo, ma un agente capace di abbracciare la relazione di più corpi fra loro. Questo sembra una nuova conferma dell' opinione che tal virtù possa essere un principio senziente, unito a tutti gli atomi corporei; perocchè questa opinione toglierebbe affatto la difficoltà. Ed essendo provato dall' esperienza che il principio senziente può essere causa di moto, l' ipotesi, se ella è tale, ha le due condizioni volute da Newton, che ella sia cosa esistente in natura, ed abbia la virtù sufficiente da produrre l' effetto. Ad ogni modo rimane dimostrato che la materia per sè stessa è inerte, ed ha bisogno di ricevere il moto senza tenere in sè facoltà di produrlo. All' incontro il principio senziente ha un' attività propria ed è causa dei suoi atti. Ma poichè niuna causa degli atti transeunti è causa piena, chè se fosse piena, ella produrrebbe atti immanenti quanto lei stessa, perciò è da cercare come possa il principio senziente porre gli atti suoi transeunti. Noi abbiamo detto che l' attività del principio senziente si suscita dai suoi termini, ma che, suscitata che sia, ella è propria di lui, diretta nel suo operare da sue proprie leggi. L' attività dunque del principio senziente ha due parti, e però da due cagioni possono sorgere in esso degli atti transeunti: Dalla mutazione del suo termine, il quale è il sentito corporeo; mutazione che non viene da lui, ma da cagioni straniere. Dove è da rammentarsi dell' opinione su accennata, che ogni particella di materia abbia seco congiunto un sentimento; il che agevola ad intendere come il termine d' un principio senziente si possa ingrandire coll' unirsi sentimento a sentimento, posta la legge che dove il sentito è continuo, il senziente è unico, a quella guisa come due punti matematici, che convengono, formano un punto solo, nè più, nè meno. E per lo stesso modo spiegasi il diminuirsi del termine sentito, collo staccarsi fra di loro gli estesi e perdere la loro continuità. Onde qui s' intende come il principio senziente sembra uscire ad un nuovo atto transeunte, quando propriamente egli rimane il medesimo, ma solamente il suo termine si amplia o si impicciolisce. E poichè nell' aggiungersi di un sentito esteso ad un altro noi non possiamo osservare che due mutazioni: 1 la mutazione soggettiva, quando i due sentiti si sono già uniti per apposizione, la quale è spiegata per ciò che è detto; 2 la mutazione extrasoggettiva del movimento dei due estesi, che erano discosti o si avvicinarono fino ad opporsi, della causa del qual movimento ragionammo innanzi; - perciò ogni mutazione, che nel detto fatto è riconoscibile, non può esigere da noi altra spiegazione. Dalla mutazione, che produce nel proprio termine l' attività stessa del principio senziente. A spiegare questa conviene considerare che il principio senziente, posto in essere, ha un atto determinato dalla sua natura; ma talora quest' atto gli è in parte impedito da cause straniere; onde quando sono tolte via queste cause impedienti, egli spiega interamente il suo atto. Questa esplicazione del suo atto naturale è ciò che si prende per un suo atto transeunte, e si stima una mutazione in lui avvenuta; ma, propriamente parlando, è lo stesso atto primo, la stessa sua natura, che prima stavasi a disagio perchè legata da agenti avversi, e che poscia si pone nell' atteggiamento suo proprio, conveniente, naturale. Così tutto l' atto transeunte nel principio senziente non si riduce propriamente ad una attività nuova, ma alla primitiva, ed il nuovo sta negli agenti impedienti rimossi da lui, che così resta quello che è, quello che deve essere per sua natura. Dichiariamo meglio questo concetto dell' atto transeunte del principio senziente. In prima abbiamo supposto che il principio senziente sia posto nell' atto suo primo ed immanente, che lo costituisce quell' ente che è. Come ciò avvenga noi l' abbiamo spiegato; dipende dal suo termine e dalle condizioni di questo; gli atti secondi e transeunti non entrano in questo per nulla, essi vengono in appresso, perchè sono atti del principio già naturato. Ma esso principio è posto in essere diversamente: 1 secondo l' estensione maggiore o minore del suo termine sentito; 2 secondo i movimenti intestini ed eccitatori del sentimento. Se è posto in essere solamente per via di un' estensione continua, senza che in essa siano movimenti eccitatori, in tal caso la sua attività si restringe a sentire l' esteso, che gli è dato per termine. Ma se è posto in essere anche per via di movimenti eccitatori, in tal caso egli ha un altro atto. Perocchè il sentimento eccitato è un atto, il quale, come ogni atto, ha durevolezza, cioè forza di conservarsi ed altresì di spiegarsi, secondo la sua propria natura, pel principio posto che « ogni attività, ogni atto primo ha uno stato naturale; ed è quello in cui esso è nel più perfetto modo e più pienamente che possa essere ». Ora il sentimento eccitato può essere contrariato alla sua piena e perfetta naturazione ed esplicazione; ed è questo che abbiamo detto innanzi, che « fra l' esser dato un termine ad un principio e l' essergli negato vi è uno stato di mezzo, il quale consiste nell' essergli dato imperfettamente, onde il principio non può attuarsi pienamente; nel qual caso si manifesta il malo stato del principio stesso ed il combattimento ». Quando dunque un movimento intestino ed eccitatore incomincia nel termine del sentimento, se quel movimento è consentaneo alla perfetta eccitazione, il principio senziente ha l' attività di conservarlo e di continuarlo (1); ma questa attività, che perpetua (quando non si trovino ostacoli) il movimento, non è cosa nuova, ma la stessa attività che era prima del sentimento eccitato, che ha virtù di conservarsi e durare qual è. Ma non ogni movimento intestino nell' esteso sentito è opportuno all' esplicazione dell' atto naturale del principio senziente eccitato. Perchè quest' atto: 1) Esige un movimento armonico ed uno. 2) Esige un movimento che rientri in sè a guisa di circolo, altrimenti non potrebbe perpetuarsi. 3) Esige un movimento il più frequente possibile, salve le due prime condizioni. 4) Esige che si conservi il contatto ed altresì la gravitazione dell' una verso l' altra delle molecole, ma in un determinato modo, sicchè non impedisca le tre sopra esposte condizioni. Ora l' atto primo del sentimento eccitato è una virtù, la cui energia, benchè limitata, dovendosi collocare nel suo atteggiamento più piacevole, più perfetto, più naturale, influisce a far sì che il movimento eccitatore del sentito abbia le quattro condizioni accennate. Ma a questo intento non può talora riuscire per un contrasto di forze e virtù avversarie. A ragione d' esempio: Se si accostasse al contatto dell' esteso sentito un altro esteso assai piccolo, e perciò atto a porsi sufficientemente al contatto del primo per formare una continuazione; ma tuttavia questo altro esteso che s' accosta, avendo un' organizzazione sua propria ed essendo dominato da un altro principio senziente eccitato, si agitasse per moti intestini consentanei all' azione del suo proprio senziente, ma disarmonici coi movimenti intestini dell' esteso sentito a cui si congiunge; dovrebbe di necessità nascere una guerra a morte fra i due principŒ senzienti, che cercano rapire nel proprio turbine gli atomi corporei scambievoli; e così forse accade nel fatto dei veleni e delle scomposizioni e ricomposizioni chimiche, che essi producono nel corpo vivente. Se ad un sentito, nel cui seno si perpetuano i movimenti eccitatori propri del suo principio senziente, si accosta un esteso piccolo quanto deve essere, ma dove non vi sono movimenti, o movimenti vincibili; il principio senziente eccitato deve, per assimilarlo al proprio sentito, cagionare anche in esso i movimenti eccitatori opportuni, rapendolo nel proprio vortice, dividendolo quindi nelle sue minime parti, e compartendolo come esige l' organizzazione propria del suo sentito, nella quale nascono i movimenti, e che si forma coi movimenti medesimi. In tutto ciò il principio senziente non fa dunque che spiegare il suo primo atto, atteggiarlo come deve essere per natura, e lo fa con un atto immanente e continuo, che è quello che lo costituisce in essere, dapprima impedito e raggruppato unicamente perchè gli manca occasione di stendersi, o ne ha impedimento dalla condizione del termine, a cui è legato e condizionato. La quale teoria spiega tutti i movimenti dell' istinto, che altro non sono infine che movimenti del sentimento fondamentale per costituirsi nella sua composizione ed atteggiamento più comodo e piacevole, cioè più naturale (1). Venendo ora alla spiegazione degli atti transeunti del principio razionale, questo ha più attività, come vedemmo; cioè: Ha l' attività intellettiva, la quale ha per suo atto primo immanente l' intuizione dell' essere, il cui termine è l' essere ideale. Ha l' attività percettiva, la quale sta in percepire l' ente reale. - Questa attività ha per suo atto immanente la percezione del proprio sentimento fondamentale, ed ha poi molti atti transeunti, i quali sono spiegati anch' essi col solo sapere che nascono in occasione che viene modificato il sentito fondamentale, il quale essendo naturalmente percepito, conviene di necessità che sieno percepite anche le sue modificazioni. Ha l' attività della riflessione. - La spiegazione degli atti transeunti della riflessione fu da noi data, almeno in parte. Ella muove dallo stesso principio, che « l' atto transeunte è l' attività stessa dell' atto primo, a cui viene data occasione di spiegarsi e atteggiarsi nel modo suo più naturale ». Perocchè la riflessione è mossa ai suoi atti transeunti: a ) Dall' istinto animale, gli atti del quale sono atti transeunti del sentimento fondamentale7animale, il quale essendo percepito per natura dall' uomo, sono percepiti del pari tutti i movimenti istintivi. Quando dunque l' animalità dell' uomo si agita e muove per soddisfare qualche suo bisogno, la percezione razionale accompagna tutti questi movimenti e queste azioni. Allora l' uomo, essendo un principio unico, il principio razionale, messo a parte dei bisogni della sua animalità, si sforza con tutte le forze che ha, anche colle forze razionali, di conseguire la soddisfazione desiderata (1). Ora questo lo obbliga a fissare la sua attenzione ai mezzi ed ai fini; il che è un riflettere sulle proprie percezioni. Tutta quest' opera dell' intendimento è sempre mossa dal principio accennato, che « il sentimento soggettivo si atteggia nel modo più comodo e più piacevole ». La riflessione è l' attenzione, il cui atto ferisce tutti i termini a lei proporzionati; ma l' inquietudine, il bisogno, ecc., sono termini nuovi a lei dati; ella trova così quasi nuove porte onde uscire, a quella guisa che l' acqua contenuta in un recipiente, tostochè si apre un foro, spiccia da quello non per alcuna virtù, ma per la stessa gravitazione e pressione che esercitava nel recipiente, compressa e ritenuta prima dalle pareti continue del recipiente medesimo. b ) Dall' istinto razionale in un modo simile. Piglisi l' esempio della curiosità. All' aspetto di un avvenimento insolito si susciterà spontaneamente il desiderio di conoscere perchè quella causa, che prima produceva un effetto, ora ne produce un altro, ingannando l' aspettazione. La riflessione vi si porta sopra, e non è quieta se non trova la soluzione del nodo, e ciò perchè « quando alla mente si affaccia un' apparente contraddizione, allora il suo atto razionale non è compito e quieto se non l' ha tolta via, perchè l' essere è il termine del pensiero, e l' essere è privo di contraddizione; onde il pensiero non è quieto se non toglie via la contraddizione, e così restituisce il suo termine ». Lo stesso si dica di una questione, di un nodo scientifico qualsiasi. Il presentarsi questo nuovo oggetto all' intelligenza è aprire un varco all' atto della riflessione, che lo vuole compiutamente afferrare. c ) Da un decreto della volontà, che, propostosi un fine, muove di necessità la riflessione a cercarne i mezzi, perchè altrimenti l' atto della volontà rimarrebbe rannicchiato e mozzo contro il bisogno della sua attività primitiva. L' attività volontaria e pratica si può spiegare anche in altri modi. - Ma il principio razionale passa sempre a questa specie di atti transeunti, che diconsi volontari, per gli oggetti nuovi che gli sono dati dalle altre potenze, i quali oggetti nuovi, essendo termini nuovi, chiamano e provocano l' evoluzione di attività nuove, sempre per lo stesso principio, che « l' atto primo e immanente dell' anima, qualora riceve nuovi termini, non ha più uno stato soddisfacente, ma naturalmente spiega la sua attività, prima rattenuta e solo in conato per l' ostacolo ossia la mancanza di ragione a dispiegarsi ». Finalmente vi è la libertà bilaterale, e gli atti transeunti di questa sono, come vedemmo, i più difficili a spiegarsi. - Perocchè nasce questa difficoltà: se l' atto primo e immanente dell' anima si spiega naturalmente quando riceve nuovi termini, e l' esplicazione dell' attività primitiva è questa stessa attività, che per legge di natura si ammoda allo stato suo più comodo e più conveniente; dunque gli atti transeunti sono necessari, sono determinati dalla natura dell' atto primo e immanente, e dalla qualità dei termini che loro sono applicati. Ma in tal caso non c' è più libertà bilaterale o d' indifferenza. - Quando si considera questa potenza della libertà bilaterale, pare doversi dire che ella si muova dal soggetto stesso, indipendentemente affatto dai termini che gli sono dati; e in tal caso si ricade in quella difficoltà che cerchiamo di rimuovere con sì lunghi discorsi, senza rimuovere la quale rimane inesplicato l' atto transeunte, il quale o ha la causa piena nel suo soggetto (atto immanente), ed allora deve coesistere col soggetto e non essere più atto transeunte, ma immanente anch' esso; o non ha la causa piena nel suo soggetto, ed allora dipende dai termini del soggetto stesso (perocchè ogni eccitamento dato al soggetto da un agente straniero è un termine anch' esso) e porta necessità; ovvero nasce dal soggetto senza che si possa trovare la causa piena, ed allora si urta contro il principio di causa. Questa difficoltà in apparenza gravissima è quella appunto, se ben si considera, che condusse tanti filosofi, anche fra i più perspicaci, a negare la libertà. Ma a torto; essi non investigarono abbastanza la natura di questa potenza; e quanti avranno ben meditato come noi l' abbiamo descritta nell' « Antropologia (1) », troveranno la via aperta per dileguare ogni ombra di sì terribile difficoltà; ecco in qual modo. Conviene determinare prima di tutto con precisione quale sia il termine ossia l' oggetto proprio della libertà. Questo termine noi abbiamo trovato essere « la scelta fra due volizioni contrarie »(2). Ora l' essenza della libertà non consiste nello scegliere ovvero non scegliere; ma consiste nel modo di scegliere, cioè scegliendo, nello scegliere piuttosto l' una che l' altra delle due volizioni. Quando dunque si presentano all' animo due volizioni da scegliere, se non si fa l' atto della scelta, non vi è l' atto della volontà; e se si fa, vi è quest' atto. Anche posto, dunque, che l' uomo sia determinato a fare la scelta, o sia determinato a non farla, posto anche che a fare questo atto sia mosso da una spontanea necessità; questa necessità, che lo muove a fare l' atto della scelta, non lo spoglia della sua libertà, purchè facendo questo atto, egli rimanga libero a scegliere piuttosto una volizione che l' altra. Quando adunque sono all' animo dell' uomo presenti le due volilizioni fra cui deve scegliere, sia pure che egli si muova a questo atto transeunte dal nuovo termine, che è dato alla sua attività immanente, il quale termine sono le due volizioni contrarie eleggibili e il bisogno di eleggere, e che egli si muova necessariamente a fare quest' atto (3); non si muove per questo necessariamente a farlo piuttosto in un modo che nell' altro, cioè a scegliere piuttosto l' una che l' altra delle volizioni eleggibili; egli può scegliere quella che vuole delle due, e però è libero, perfettamente libero. Questa libertà non appartiene adunque a quella parte di attività, che viene dal termine, ma a quella parte di attività, che appartiene al principio già costituito e attuato. Si dirà: qual' è la ragione sufficiente, che spiega come venga scelta l' una volizione piuttosto che l' altra? La domanda mostrerebbe non aversi ancora ben inteso la forza della definizione da noi data della libertà bilaterale. Poichè se « la libertà è la facoltà di scegliere fra due volizioni », l' atto di questa facoltà è la scelta; è appunto la facoltà di determinarsi piuttosto all' una che all' altra delle due volizioni; non è già la facoltà delle volizioni stesse, ma di eleggerne una fra loro. La ragione dunque della scelta è la stessa facoltà, la stessa attività del principio eleggente, la quale, quando viene mossa dalla presenza del suo termine, esce all' atto suo, cioè sceglie fra esse. Ella viene tratta all' atto suo necessariamente come le altre potenze, completandosi la causa mediante il nuovo termine, che le si aggiunge, che sono le due volizioni; ma è tratta necessariamente all' atto libero, che è l' atto suo proprio, e quell' atto suo proprio è appunto la detta elezione. Ridotte all' unità tutte le potenze dell' anima, cioè all' essenza dell' anima stessa, e vinte le difficoltà ontologiche, che impedivano la spiegazione dei suoi atti transeunti ossia delle sue operazioni, indagata nello stesso tempo la natura di questi atti, la loro ragione, il modo nel quale appariscono e scompariscono; lice ora a noi di entrare sicuri nell' argomento che ci siamo proposti, cioè nell' esposizione delle leggi, che tengono le diverse operazioni dell' anima. E posciachè l' anima è unica e semplice, riducendosi finalmente tutte le sue azioni al principio razionale , nel quale propriamente consiste l' essenza ultimata ed intera dell' anima stessa; perciò quando ci riuscisse di esporre convenevolmente le leggi, secondo le quali opera e patisce il principio razionale , noi avremmo sciolta la nostra promessa, ottenuto il nostro intento. Ma nell' uomo, tuttavia, cadono due principŒ di azione, l' uno dei quali è l' uomo, l' altro è nell' uomo. Quello è il principio razionale, questo il principio animale. Quando si dice l' uomo essere composto di corpo e di anima, si deve intendere di un corpo animato , e di un' anima razionale , non facendo la divisione dell' uomo col mettere la materia bruta da una parte, e l' anima sensitiva e razionale dall' altra. L' anima intellettiva è la forma di un corpo sensitivo, non d' una materia nuda (1). Il che non distrugge l' unità dell' anima, anzi la conferma, perocchè questa è anche principio supremo del sentimento, in quanto lo percepisce come entità. Il che nello stesso tempo spiega, come abbiamo già detto, perchè talora si manifesti nell' uomo un' attività sensitiva ribelle al principio razionale ed umano, giacchè la percezione fondamentale non distrugge l' attività sensitiva, benchè sia nata a dominarla. Altrimenti non potrebbe esservi contraddizione e lotta fra l' animalità e la ragione, senza che fossero due anime. Dedicheremo adunque il seguente quarto libro all' esposizione delle leggi secondo cui opera l' uomo, cioè il principio, razionale , che ha in sè anche il sentimento sotto la relazione essenziale di entità; ed il quinto libro, che viene appresso, all' esposizione delle leggi secondo le quali opera il principio animale per sè considerato, cioè sotto la relazione essenziale di sensilità; il quale non è l' uomo, ma è nell' uomo. Trattando poi del principio sensitivo, parleremo insieme, per quanto è necessario, anche dell' attività da lui diversa, che in lui si manifesta ed a lui talora contrasta, cioè della virtù sensifera. Dirittura logica e sentimento cristiano sono i due caratteri del popolo d' Italia. Laonde ogniqualvolta gli scrittori furono logici e religiosi, piacquero alla nazione; quelli che si dipartirono dal retto ragionare e dalla fede, anche se perspicacissimi d' ingegno e ricchissimi di erudizione, furono ripresi o dimentichi dalla pubblica opinione. E qui sta la vera ragione perchè l' Italia fiorisse nelle scienze naturali alla scuola dell' immortale Galileo, e paresse vecchia, oziosa e lenta all' invito di quegli efficacissimi ingegni del secolo XVI, che professarono la filosofia. Non poteva mancare la logica alle scienze matematiche, e la voce del grande Fiorentino non la lasciava più venir meno alle fisiche. Nè lo studio della natura, affidato al rigoroso raziocinio, poteva collidersi colla religione. Sciaguratamente le metafisiche investigazioni non sono di tal natura che, come le matematiche fanno, obblighino gli ingegni o a tenere la via del legittimo raziocinio, o ad essere subitamente convinti di errore. Nè il cielo donò un Galilei alla filosofia; nè le dottrine di questa sono indifferenti alle passioni ed ai vizi degli uomini; nè quelli che presero a far da filosofi nel secolo di Leone, ne andarono sufficientemente liberi, nè cansarono tampoco la maligna influenza dell' eresia settentrionale. Quindi il genio dell' Italia ripudiò i sofisti, talora trasmodando arse gli empi. Così questa terra si rimase deserta di filosofia, senza la quale non potè essere nazione. Perocchè se le altre genti d' altro sangue, d' altro ingegno, educate a più anguste tradizioni e a men sublimi sventure, poterono unirsi e conseguire spiriti nazionali quasi per un istinto, senza avanzata coltura di scienza; l' italica gente non potè, non potrà venire a tanto che colla guida d' una verace filosofia. Chè l' italica stirpe deve primieramente venire collegata da principŒ intellettuali, che, logici essendo, sono religiosi altresì; ed è vana speranza il presumere che senza questo primo, altri vincoli possano rendere unanimi i popoli della nostra penisola. Imperocchè se religione e logica sono forse i soli sentimenti rimasti comuni alla italica famiglia, è palese quanto sicura efficacia il fiorire della filosofia debba dimostrare in Italia a collegare gli Italiani condiscepoli nella scuola della verità, e a svolgere dai visceri della nazione quei due potentissimi germi di buoni ordini civili, a renderci altresì tutti consci che le menti nostre convengono nella medesima rettitudine, i nostri animi nella stessa credenza, la comune nostra ambizione nel fastigio del cristiano pontificato. Così ne uscirà la concordia degli Italiani dall' intima loro indole e natura, lo stesso vero, lo stesso Iddio intervenendo a mediatori; e quella sarà concordia di tempra saldissima e perenne, atta a progredire, a compirsi da sè medesima in ogni altra civile bisogna, incominciando questa santissima concordia colà stesso dove risiede l' uomo, dove l' uomo è signore, nella ragione, dove solo egli è nobilmente servo, nel culto del Creatore. La geometria e la fisica, coltivate dagli Italiani, di tanto amore non sono state più che un felicissimo tirocinio. E parmi che l' altissima Provvidenza tenesse così lunga pezza gli Italiani occupati esclusivamente nelle scienze matematiche e nelle fisiche, quasi in utilissimo tirocinio alle più elevate ed importanti, che sono le filosofiche e le civili, a cui pure mirabilmente apparecchiano gli ingegni quelle lettere ed arti belle, che invano c' invidiano le altre nazioni. Onde saviamente Platone ricusava le sue divine lezioni a quelli che nella geometria non gli venissero già ammaestrati; ed opportuno ornamento della filosofica scuola, corteggio della stessa filosofia, sono le grazie decenti di Socrate; le quali allora appaiono aggraziatissime e decentissime quando imparano a filosofare. Niuno dica che la logica delle scienze naturali sia una cotal arte loro propria, diversa da quella che addomandano le metafisiche, perocchè non vi è che una logica, una sola arte del pensiero, come una sola è la verità. Pel quale errore, appresso alcuni nostri valentissimi coltivatori delle scienze che chiamano rigorose, venne in dispregio la metafisica, quasi questa rifiutasse quell' esattissimo ragionare, che dalle scienze delle nude quantità non può quasi mai scompagnarsi. E non a torto la spregerebbero, se avessero ragione quei malavveduti, i quali, presumendo conoscere tutte le cose per via d' un cotale loro quasi divino afflato, mi diedero biasimo e mala voce dell' avere io desiderato che finalmente anche la filosofia italiana ubbidisse fedele nel suo procedere alle comuni leggi dell' umano pensiero, incominciando dalle osservazioni e dalla verificazione dei fatti, e di questi tessendo esattissimi raziocinŒ. Ma non posso io ricredermi perciò del metodo, direi quasi sperimentale, che io mi studiai raccomandare ai nostri, che a voler esser filosofi già incominciano, e che nelle filosofiche investigazioni, per quanto ho saputo, mantenni; nè io ne conosco un altro che metodo si possa appellare, poichè quel divino intuito dove ogni cosa, sì creata come increata, pare ad alcuni contemplare e immediatamente dalla voce stessa del nume raccogliere, io lo lascio assai volentieri ai sacerdoti degli antichi oracoli o agli ubbriachi dell' acqua di Aganippe, continuando a bramare che loro sia vietato severamente l' ingresso nel tempio della filosofia. Senza la qual legge gli Italiani non diventeranno mai filosofi, contenti di essere piuttosto naturalmente poeti. E però intitolai questo libro: « Leggi secondo le quali opera il principio razionale », pigliando anche qui ad imitare gli studiosi della natura, i quali, raccogliendo i fatti simili, notano accuratamente e sagacemente ciò che vi è d' identico in essi, e così discoprono i modi costanti dell' operare della causa spesso occulta, e li appellano leggi . Imperocchè quelle che essi chiamano leggi di natura non sono che identità e costanza di effetti, che appariscono nella reciproca azione e passione delle sostanze corporee componenti il mondo. I quali studiosi da ciò che negli effetti scorgono sempre eguali, ragionevolmente inducono il modo dell' operare; e quindi argomentando che la causa sia così formata, o naturata, o disposta, che ella non possa altramente che in quella guisa adoperare. La quale necessità di fare mai sempre allo stesso modo giustamente appellano legge, perchè « legge indica necessità determinante l' operazione », benchè quella necessità, a cui si dà tal nome, ora sia fisica ed ora morale. E prima s' impose quella parola alla necessità morale, di poi si trasportò alla fisica. Così noi dobbiamo fare nello studio delle operazioni e degli effetti dipendenti dalle cause invisibili e spirituali. La via dialettica del pensiero vuole essere la medesima: in prima diligentissimamente osservare e raccogliere le operazioni del principio razionale, di poi notarvi colla maggiore diligenza ciò che in esse apparisce identico; in appresso indurre la costante maniera dell' operare dalla causa; finalmente conchiudere che a questa immutabile costanza e uniformità di operazione deve rispondere una necessità, che obblighi la causa a conformare sempre in quella guisa le sue operazioni, la quale necessità, che legge si chiama, non può avere altrove radice che nella natura stessa della sostanza o causa operante; conciossiacchè la natura e la sostanza sono gli atti immutabili e immanenti rispetto alle azioni ed agli effetti loro passeggeri. Ma ora, posciachè le leggi che noi dobbiamo raccogliere saranno molte, affine di dare ordine al nostro lavoro ci converrà in prima considerarne i fonti principali, i principali elementi onde risultano le operazioni del principio razionale, sui quali cader deve la nostra osservazione; e questi elementi così accuratamente distinti già ci porgeranno una prima classificazione generale delle leggi, che ci proponiamo di ricercare. [...OMISSIS...] (1). Ora nella scuola jonia questo fu un gran passo, l' avere trovato Anassagora, ovvero Ermotimo, l' uno e l' altro di Clazomene, che l' intelletto doveva essere semplicissimo; ma, come osserva Aristotele, rimaneva ancora a discoprire in che modo l' intelletto conosca, rimaneva a trovare il mezzo del conoscere ed a spiegare, oltracciò, da quali cagioni l' intelletto al tutto semplice potesse essere mosso a conoscere specialmente il corporeo. Questi erano i quesiti di suprema importanza, e neppure Aristotele, nè alcuno antico potè rispondervi adeguatamente. Poichè, restringendoci al quesito che riguarda il mezzo di conoscere, Aristotele applicò allo spirito principŒ ontologici troppo angusti, non cavati dagli enti tutti, ma esclusivamente dall' ente materiale. Ora, come egli vide che nella natura materiale vi è una materia ed una forma, quella passiva e questa attiva, quella che diventa tutto, cioè tutti gli speciali enti corporei, questa che fa tutto, cioè che configurando la materia mette in essere quegli enti; credette che lo stesso dovesse valere altresì per ispiegare la costituzione dell' intelletto. [...OMISSIS...] . Così Aristotele accorda ad Anassagora che vi sia un intelletto non misto e immateriale; ma questo - dice - è la scienza stessa in atto , anteriormente al quale vi è nell' anima una cotal materia di tutte le cognizioni. E in tal guisa egli credeva aver superata la difficoltà mossa alla dottrina di Anassagora, che ammettendo un intelletto solo immateriale, non si potesse più spiegare come questo conoscesse, e onde fosse mosso a conoscere le cose materiali. Ma più osservazioni si hanno a fare sul ragionamento aristotelico: Primieramente quel ragionamento pecca contro le regole del buon metodo. Perocchè da principio suppone che nell' universa natura tutto sia composto di forma e di materia, senza dimostrare una proposizione così universale, ricorrendo all' esperienza e all' esperienza delle sole cose materiali. Di poi conchiude che così deve essere anche nell' anima, mentre avrebbe dovuto contentarsi di osservare se così è di fatto, senza imporre canoni preliminari alla natura dell' anima e leggi a priori, sempre arbitrarie e fallaci. Di poi dicendo che l' intelletto possibile diviene tutte le cose, cioè tutte le cognizioni, rende soggettive le cognizioni; le quali tutte non sarebbero più altro che l' anima stessa variamente modificata, e però sarebbero contingenti, ecc. come l' anima, meri sentimenti dell' anima, senza virtù di attestare un oggetto distinto dall' anima. Qualora poi le ultime parole si debbano tradurre con Michele Soffiano ed altri interpreti: « Idem autem est scientia, quae actu est, quod res ipsa », ne verrebbe che come tutte le notizie sono l' anima modificata e attuata, così tutte le cose sarebbero l' anima, che è il panpsichismo di molti filosofi tedeschi. Se l' intelletto agente è causa, efficienza, principio operante come opera l' arte o l' abito, in tal caso non è interamente in atto. Il nostro filosofo veniva bensì ad assegnare col suo intelletto possibile la causa materiale delle cognizioni, di cui Anassagora non aveva parlato, ma la causa efficiente7piena di esse, nè la causa istrumentale non la spiega a sufficienza col suo intelletto agente. L' abito ha bisogno di un eccitamento per uscire all' atto, specialmente se deve essere determinato a produrre dalla materia piuttosto una cosa che un' altra, per esempio, dalla pietra piuttosto la statua di Apollo che quella di Ercole. Così pure l' arte ha bisogno di strumenti per produrre la statua. Aristotele incontra sulla via la bella similitudine del lume, che avrebbe potuto raddrizzare i suoi pensieri, ma egli ne usa troppo male. Poichè i colori in potenza, che egli introduce, non sono colori, ed i colori in atto sono il lume stesso modificato e spezzato. Oltracciò, altro è l' occhio che vede, altro il lume che fa vedere; all' incontro l' intelletto, che è l' occhio, in Aristotele è confuso col lume che fa vedere, l' oggetto col soggetto . Questa grande distinzione, adunque, dell' oggetto e del soggetto è quella che mancò alla filosofia aristotelica, e quella sola che poteva compire ciò che aveva lasciato Anassagora da ricercarsi agli avvenire. Noi abbiamo dimostrato quale sia il lume della mente; abbiamo detto che questo lume è l' idea dell' essere , e questo il mezzo del conoscere . L' intelletto umano adunque, sebbene sia immisto, come lo voleva Anassagora, tuttavia ha una dualità, e così è tolta la difficoltà che Aristotele muoveva all' illustre filosofo di Clazomene, perchè gli è dato un mezzo di conoscere. Nello stesso tempo è dimostrata erronea la maniera con cui Aristotele credeva poterla vincere. E perchè si vedano le differenze fra la via da noi tenuta a superare quella difficoltà e l' aristotelica, si consideri: Che Aristotele, componendo l' anima intellettiva di una materia e di una forma a similitudine della natura materiale, la faceva risultare da due elementi, ciascuno dei quali era parte sostanziale dell' anima intellettiva, e più sostanziale ancora la forma che la materia; laddove noi non facciamo l' essere ideale parte sostanziale dell' anima, ma solamente oggetto che le si dà a vedere, e così la pone in atto ed in essere, senza confondere sè stesso con quella, lasciando solamente in quella la cognizione; onde l' anima intellettiva si rimane per noi del tutto immista, quantunque sia congiunta con altra cosa da sè diversa, che la illumina. Che Aristotele fa che l' anima risulti da una forma simile a quelle dell' essere reale, che è una realità anch' essa, è l' atto della realità; laddove noi diciamo che l' essere ideale informa bensì l' anima, ma in tutt' altro modo, conservando il suo proprio essere al tutto diverso da quello dell' anima, e solo dandosi all' anima a conoscere (1) e le forme o cause informanti di questo genere le chiamiamo oggettive ; colla loro presenza nello spirito, essendo essenzialmente lume, esse gli danno quell' atto d' intuizione che si potrebbe anche chiamare in qualche modo una forma soggettiva , nel quale aspetto le forme oggettive sono cause delle forme soggettive . Che Aristotele dà all' anima intellettiva qualche cosa, che risponde alla materia dei corpi, onde dice che diviene tutte le cose. Noi, nulla di ciò. L' anima rimane sempre principio semplicissimo. Ed ella non si compone propriamente di forma e di materia, ma di atto e di potenza; perocchè ella è atto prima di essere potenza; ed è potenza non per sè, ma pel cangiamento dei termini suoi, come abbiamo spiegato. Gli Aristotelici possono replicare: « Come in tal caso fate voi nascere le cognizioni speciali? ». Rispondiamo: l' anima razionale è quella che apprende l' ente; l' ente poi è ideale e reale . E` dato all' anima l' ente ideale per natura, e questa forma dell' ente è essenzialmente illimitata. Le è dato pure per natura un ente reale , limitato nel sentimento fondamentale animale , il quale è percepito da lei razionalmente, perchè compreso già al suo modo nell' ente ideale , che tutto comprende. Il rapporto fra l' ente reale7limitato e l' ente ideale7illimitato costituisce i concetti , ossia le idee speciali e le generiche. Ma nè l' ente ideale, nè l' ente reale dall' anima percepito per natura, è l' anima stessa; ma è cosa a lei congiunta per quella relazione sua propria, che chiamammo, per distinguerla da ogni altra, di razionalità . In tal modo le difficoltà aristoteliche affatto svaniscono, senza rompere perciò agli scogli, a cui ruppe il filosofo di Stagira. Costituita l' anima e dichiarata la possibilità del suo operare e del suo svilupparsi, abbiamo aperta la via a classificare acconciamente le leggi, che ella tiene nel suo operare. Poichè da due fonti sgorgano e quasi zampillano le attività di lei, come di ogni altro ente finito, cioè dal suo termine e dal principio; il termine poi è doppio, l' Ente ed il Mondo (il reale finito). Quindi tre radici delle leggi: l' Ente, il Mondo e l' attività propria del principio razionale. Le leggi adunque dell' operare del principio razionale rimangono da sè stesse classificate in tre nobilissimi generi, i quali sono quelli delle Leggi Ontologiche , delle Leggi Cosmologiche , e delle Leggi Psicologiche . Noi incominceremo dal ragionare delle leggi, che la natura dell' oggetto impone al principio razionale nel suo operare, cioè dalle Ontologiche, le quali non possono mancare giammai, qualunque sia l' ente intorno a cui versi come ad oggetto l' operare dell' anima. Ora poi, operando il principio razionale in due maniere, l' una speculativa che non produce effetto fuori della mente, l' altra pratica che produce effetto fuori della mente; si vogliono da noi considerare tanto le leggi ontologiche, che l' oggetto impone alla ragione speculativa, quanto quelle che egli impone alla ragione pratica. E prima è da considerare la suprema e generalissima, la quale è il principio di cognizione . Di vero tutte le altre leggi sono contenute e riassunte nel principio di cognizione, il quale si formula così: « « Il termine del pensiero è l' ente »(1) ». Il che viene a dire: « il pensiero è così fatto che ha per legge primitiva di sua natura di avere a termine l' ente, di modo che o ha l' ente a suo termine, ovvero non è ». L' ente, considerato sotto questo aspetto, è dunque la condizione a cui è legata l' esistenza del pensiero, che è l' operazione speculativa della ragione. Quindi procede che le qualità e le doti essenziali all' ente sono altrettante condizioni del pensare, e però altrettante leggi del pensiero; il che è quanto dire che ogni pensiero per esistere deve avere un termine, dotato di tutte quelle qualità e doti che ha l' ente. Ma qui si avverta che quando noi parliamo in generale di leggi del pensiero, non intendiamo che tali leggi debbano essere osservate da ogni atto speciale del pensiero, diviso da tutti gli altri suoi atti per opera di astrazione; ma consideriamo il pensiero complesso e totale, risultante dalla somma degli atti singoli e parziali, che in ciascun tempo agita l' uomo nella sua mente. A ragion d' esempio, l' uomo pensa una linea reale: questo è un atto particolare. Ma egli non può pensare una linea reale senza pensare una superficie, di cui ella sia termine. Se io dunque dicessi che è legge del pensiero, applicato all' estensione corporea, il dover pensare superfici o solidi, non mi si potrebbe opporre che egli pensa anche linee e punti, trovandoli per astrazione nelle superfici e nei solidi che percepisce; perchè l' atto speciale, col quale pensa il punto astratto o la linea astratta, non è un atto che stia da sè solo, ma è simultaneo e condizionato al pensiero della superficie o del solido, nel quale l' uomo vede la linea ed il punto; onde si avvera che nel complessivo pensiero dell' estensione corporea non manca la superficie od il solido, il che adempie la legge del pensiero. Laonde, quando noi diciamo esser legge del pensiero il cogliere l' ente colle qualità che lo costituiscono ente, non intendiamo che per astrazione non si possa pensare qualche qualità dell' ente divisa dall' altra, benchè da sè non possa stare; ma intendiamo che questo astratto non può essere pensato se non pensiamo prima l' ente, sapendo che egli appartiene all' ente ed è nell' ente; e però nel pensiero complessivo della mente umana si avvera che « l' ente è pensato colle essenziali sue condizioni », a segno tale che se all' uomo fosse dato dal senso un accidente dell' ente, per esempio, il colore e non più, l' anima per pensarlo vi deve ad ogni modo aggiungere la sostanza che non gli è data, appunto perchè l' accidente non sarebbe ente senza la detta sostanza, come abbiamo mostrato altrove (1). Questo vale a dileguare l' obbiezione contro il principio di cognizione, che potrebbe muoversi dal vedere che il pensiero astratto si ferma in accidenti, che, presi da sè soli, non hanno la proprietà dell' ente; il pensiero astratto è una parte del pensiero, non il pensiero intero; quello non istà mai solo nella mente, senza che questo in qualche modo vi sia pure. Ma noi dobbiamo ora aggiungere un' altra osservazione importantissima. Perocchè, avendo il pensiero molte specie di atti, non tutte apprendono l' ente allo stesso modo e colla stessa pienezza. A tal fine noi dobbiamo esporre più divisatamente l' efficacia del principio di cognizione nel dar forma alle umane intellezioni. Questa efficacia si può dunque risolvere nelle due seguenti proposizioni: « L' intendimento umano non può pensare cosa alcuna, che abbia proprietà contrarie a quelle che sono essenziali all' ente ». In virtù di questa legge lo spirito umano non può pensare che una cosa sia e non sia allo stesso tempo, perchè l' ente non ha in sè contraddizione. Il principio di contraddizione dunque, espresso dai greci così: [...OMISSIS...] , trae di qui l' origine. Taluno dirà: si pensa il nulla, si pensa la negazione. Ora il nulla è opposto all' ente, che dice qualche cosa; dunque non è necessario che l' ente sia sempre l' oggetto del pensiero. - Rispondo vero essere che il nulla è contrario all' ente; ma, se ben si considera, il nulla come nulla non si pensa, nè si può pensare. Quando dunque l' uomo pensa il nulla, egli veramente pensa una relazione dell' ente contingente, una relazione che l' ente ha col pensiero e con sè stesso, per la qual relazione si considera che l' ente o è, nel qual caso è pensabile, o non è, nel qual caso non è pensabile. Ora il non è altro non significa se non due atti combinati nel pensiero stesso, coll' uno dei quali si pensa l' ente, coll' altro si toglie via l' ente, e col torlo via si abolisce l' oggetto del pensiero. Ora poi che il nulla pensato non sia propriamente il nulla, ma una relazione dell' ente, ciascuno si potrà persuadere considerando i tanti ragionamenti che fanno i matematici intorno al nulla, e le diverse specie di nulla che essi stabiliscono, come dichiarò assai sottilmente Giuseppe Torelli nel suo bel libro De nihilo geometrico . Lo stesso si può rilevare dalle maniere di parlare degli ascetici, le quali sono tutt' altro che false, quando dicono, a ragion d' esempio, che l' uomo è un nulla, che tutto è nulla fuor di Dio. Una persona spirituale soleva fare questa orazione: « Mio Dio, io sono un nulla peccatore, deh fate che io diventi un nulla innocente! ». Io trovo di mirabile verità ed esattezza questa orazione, nella quale ben si vede che il nulla, di cui in essa si parla, non è il puro nulla, il quale non è capace di colpa o di innocenza, ma bensì una relazione dell' uomo, che è nulla da sè stesso senza il Creatore, perchè senza il Creatore egli cessa di essere. « L' intendimento umano benchè abbia sempre per oggetto l' ente, tuttavia non è necessitato a pensare in egual modo tutte le proprietà dell' ente, ma alcune è obbligato a pensarle attualmente, altre poi virtualmente. Queste egli è obbligato a non negarle, lasciando a sè stesso aperta la via di farne ricerca. Ciò che deve pensare attualmente è l' essenza ideale ; le proprietà poi e le relazioni, che appartengono all' ente come reale, e che sono virtualmente comprese nell' ideale, benchè necessarie alla costituzione dell' ente stesso pensato, l' intendimento umano non è obbligato per legge del suo pensiero a considerarle attualmente, ma solo a non negarle, rimanendogli esse materia a successiva investigazione ». La qual legge importantissima rende possibili le diverse maniere di intellezione proprie dell' uomo, e a ciascuna di esse assegna sue leggi speciali. Vediamo a quali leggi ontologiche ciascuna maniera d' intellezione ubbidisca. Le maniere principali delle intellezioni umane sono: 1 l' intuizione; 2 la percezione; 3 la riflessione, la quale si esercita per via di astrazione e per via d' integrazione, onde ella si divide in: a ) riflessione astraente, b ) riflessione integrante. L' intuizione avendo per oggetto l' ente ideale, vedesi che questo atto del pensiero si stende all' ente, in quanto è nella sua forma ideale, prescindendo al tutto dalle altre due forme, la realità e la moralità. Ora qui si deve considerare un principio ontologico di non lieve momento, ed è che « quantunque l' ente sia in tre modi, tuttavia in ciascuno di essi è compiuto, perchè ciascuno abbraccia tutto l' ente alla sua guisa ». Onde l' intuizione abbraccia tutto l' ente, e non può dirsi che ad un atto, che si riferisce a tutto l' ente, manchi nulla di ciò che esige il pensiero, conciossiacchè il pensiero non esige altro se non di avere per suo oggetto l' ente. Di più essendo l' ente sotto la forma ideale semplice ed impartibile, sotto questa forma egli non può essere dato all' intendimento che tutto o niente . All' incontro l' ente sotto la forma reale, essendo partibile e moltiplicabile, può essergli dato parzialmente, nel qual caso non può essere pensato solo, perchè mancante di una sua parte, non ente compiuto (1). Ma posto che l' intendimento umano abbia già tutto l' ente nella forma ideale, a lui non manca più l' oggetto compiuto ed intero, che gli è necessario, posto il quale, possono essere pensate anche le parti del reale; poichè queste non tolgono l' ente ideale, ma solo aggiungono qualche altro termine al pensiero. Il pensiero adunque è possibile tosto che è a lui dato tutto l' ente sotto la forma ideale, e perciò noi dicemmo che l' essere ideale è quello che forma il pensiero, e costituisce la potenza di pensare. A spiegare dunque la percezione , che è quell' operazione del principio razionale che apprende l' ente reale , uopo è che preceda l' intuizione dell' essere ideale, lume e mezzo di conoscere ogni reale. Questo vero non è veduto che da quelli che meditano profondamente la natura della percezione. Molti si persuadono che quando l' uomo percepisce un reale, per esempio un corpo, l' oggetto del suo percepire sia un particolare e non più; non arrivano mai a sciogliere l' oggetto percepito nei suoi elementi della possibilità e della realità , della idea , in cui si vede l' essenza conoscibile del corpo, e dell' apprensione contemporanea, colla quale se ne afferma la realità. Chi vuol vedere quanto sia vero che la mente nostra non percepisce un corpo senza recarsi col suo atto in entrambi quegli elementi, domandi a sè stesso: so io quello che ho percepito? Risponderà: io lo so; fu un corpo rotondo, di grandezza pari a una melagrana, giallo, lucido, duro, una palla d' avorio. Tale è il concetto del corpo che ho percepito. - Ma in questo concetto, badi egli bene, si acclude la sussistenza del corpo? - No, perchè fino a tanto che io penso unicamente questo concetto del corpo, quale viene espresso nella definizione che ne ho data, io non so ancora per questo solo che egli sussista - Dunque, io conchiudo, il sapere che quel corpo sussiste realmente è cosa diversa dall' averne il concetto. Ma colla percezione si acquistano entrambe queste due cognizioni, quella del concetto e quella della sussistenza reale del corpo. Dunque ogni percezione è duplice, risultante da due atti dello spirito, i quali si fanno ad un tempo, e sono l' intuizione del concetto e la persuasione della sussistenza; nè si può andare persuasi che una cosa esiste se non se ne ha il concetto, di maniera che nell' ordine logico il concetto precede alla persuasione che sussista ciò che nel concetto e pel concetto si conosce. Un' altra maniera di convincersi della stessa verità si è il considerare che di ogni cosa contingente che io percepisca, ne conosco subito la possibilità; di maniera che interrogato: « la tal cosa è ella possibile? » io tosto rispondo: « e come no? ella esiste, dunque è possibile ». Ora come so io che ciò che esiste è possibile? dove tolgo io il concetto della possibilità? Non lo derivo certo da altro che dal concetto che ho della cosa; perocchè il concetto mi dà notizia dell' essenza conoscibile della cosa, ma non mi dice che ella sussista; dunque, io concludo, la cosa contemplata nel suo concetto potrebbe tanto sussistere, quanto non sussistere; dunque per sapere se ella sussiste, mi bisogna qualche altro indizio, e nella percezione questo indizio è il senso di essa. La possibilità s' acchiude nel concetto puro della cosa, in quanto che quel concetto non la dimostra necessariamente sussistente. Ora questo concetto è l' essere ideale della cosa. Se nella percezione adunque io non pensassi l' essere ideale della cosa, non ne conoscerei la possibilità. L' origine dunque del pensiero della possibilità suppone che in ogni percezione oltre la realità della cosa percepita, io ne intuisca il concetto ideale (1). Ma che è il concetto ideale di un ente? Non altro che il concetto universale dell' essere, limitato e determinato dall' azione della cosa in noi, cioè dal sentimento che la cosa in noi produce. Perocchè, quando io dico: « il concetto di una palla d' avorio », dico nè più nè meno: « il concetto di un essere determinato dalle qualità sensibili di quella palla ». Ogni percezione adunque di un ente racchiude l' intuizione dell' essere ideale di lui, ed ogni essere ideale suppone l' intuizione dell' essere ideale indeterminato ed universale . Dunque la percezione non può spiegarsi, se non si suppone che l' anima intuisca prima di tutto l' essere ideale per sè stesso. Di che ancora si scorge come l' oggetto della percezione, benchè sia un reale limitato, tuttavia è ancora l' ente, senza che niente gli manchi di quanto gli è essenziale, come vuole il principio di cognizione. Se il reale limitato si separasse dall' ideale, egli non avrebbe più tutte le condizioni e qualità di ente, perchè da sè solo non può esistere, non ha in sè la ragione della propria esistenza, anzi dividendolo dall' ideale, lo si divide dalla propria essenza. Ma quando il reale è unito all' ideale, allora egli ha ricevuto la sua essenza ed è ente completo; perciò può essere percepito. Rimane tuttavia a chiarire come la percezione sia così limitata. Perchè non si percepisce addirittura tutta la realità? qual' è la ragione, per la quale l' intendimento nella percezione apprende questa parte della realità dell' ente, ed esclude ogni altra? - Rispondo che la porzione del reale che si percepisce, non è presa ad arbitrio dall' intendimento, ma gli è somministrata dal sentimento. I sentimenti individuali sono divisi per modo che ciò che è nell' uno, non è nell' altro, e sono fra di loro incomunicabili. Il principio razionale rimane dunque nella percezione limitato dal sentimento; il che lo diamo come un fatto innegabile, spettando alla Teosofia investigarne la ragione. Ma se anche l' ente reale per sè stesso è illimitato, percependolo limitato, mancherà sempre qualche qualità essenziale o necessaria all' ente reale; e se l' ente reale limitato non ha con sè la ragione per cui sussiste, si potrà egli concepire sussistente? - Tutto ciò che gli manca è già supposto ed ammesso virtualmente e indistintamente nell' essere ideale, che con esso lui si congiunge, e in questo trova la sua essenza; ciò che gli manca di realità per essere completo nel pensiero che si fa di lui, non viene escluso, ma lasciato indietro, quasi direi, come fanno i matematici nello scrivere una serie indefinita, che, dopo scritti alcuni termini, pongono un eccetera, col quale non esprimono ciò che manca, ma lo indicano e lo suppongono. Così nella percezione dell' ente reale limitato non sono negate, ma lasciate in cifra quelle condizioni che sono indispensabili alla sua sussistenza, quelle relazioni o essenziali o almeno necessarie, che egli ha con altri enti limitati o coll' illimitato; il che diviene poscia materia, come dicemmo, della riflessione ontologica e teosofica. Quindi si confuta l' errore di quei filosofi panideisti , i quali pretendono che l' uomo nella sua prima intellezione debba percepire tutto ciò che poscia trova colla riflessione; essi non distinguono acconciamente fra l' essere ideale e l' essere reale, li confondono insieme, e pretendono che anche Tutto il Reale cada nella prima naturale intellezione, e quindi in ogni percezione, quando il vero si è che non ci cade se non Tutto l' Ideale , al quale confrontandosi poi il reale limitato e parziale, la riflessione trova ciò che gli manca (1). Esponiamo ora dunque la legge della riflessione. La riflessione è quella facoltà che ritorna sulla percezione o sul suo oggetto, ed astrae od integra. In quanto alla riflessione astraente conviene distinguere tre accidenti: 1) Vi è un' astrazione simulata, che non è propriamente altro che percezione imperfetta, e trova il suo fondamento nell' imperfezione del senso; questo accidente ha ingannato gli Aristotelici condotti ad attribuire al senso l' universale, quasi un suo accidente. 2) Vi è un' astrazione che altro non fa se non dividere la parte ideale dalla parte reale dell' oggetto della percezione, la quale chiamasi universalizzazione , e si fa talora naturalmente senz' atto positivo, cessando l' atto dell' affermazione, e perdendosene la memoria (1). 3) Vi è finalmente un' astrazione che si esercita sull' idea della cosa, e solo di conseguente sul reale in quanto corrisponde all' idea (forma realizzata). Con essa si limita l' attenzione ad una parte dell' ente concepito e percepito, senza però abolire nella mente le altre parti, a cui soltanto non si dà attenzione. Parliamo del primo accidente. - Gli Aristotelici avevano osservato che le nozioni dei bambini e dei rozzi sono assai generali. Osservarono pure che un oggetto, presentato in distanza all' organo sensorio, occulta alcune sue differenze; per esempio, un uomo fermo in lontananza non si distingue da una colonna, non apprendendo il senso le parti minori, che differenziano l' uomo. Quindi conchiusero che il senso presentava prima le qualità più comuni e poi le proprie; e che l' intelletto seguace al senso, prima concepiva l' universale e poscia il particolare. Questa era un' illusione sensistica; ma era almeno un' illusione sottile ben più di tante altre che presero i moderni, un' illusione che caratterizza l' indole dell' ingegno aristotelico. Parmi prezzo dell' opera che io qui la esponga colle parole di un italiano filosofo, professore dell' Università Padovana nel cinquecento, il Zimara. Agitando la questione « qual sia il primo cognito », egli dice così: [...OMISSIS...] L' illusione sensistica, che qui si contiene, nasce da questo, che i sensisti tutti parlano sempre delle cose sentite7cognite e non delle meramente sentite; onde in ciò che cade sotto il senso trovano il comune ed il proprio, e non esitano a dire che gli enti sensibili hanno degli accidenti universali e comuni, più e meno. All' incontro, dove non si voglia ingannarsi, conviene prendere il sentito e spogliarlo di tutto ciò che gli ebbe aggiunto l' atto di conoscere e di percepire; ed allora non ci resta più niente di universale e di comune, parole che esprimono unicamente la relazione che ha il sentito colle idee; non ci resta più che il particolare. Onde nel senso è tanto particolare il tutto, quanto la parte, tanto l' animale, quanto l' uomo. E sia che l' occhio veda l' oggetto lontano e confuso, in cui non distingua parti, sia che lo veda vicino con distinzione di parti, altro egli non ha mai che una sensazione particolare, nel primo caso una sensazione diversa che nel secondo, ma sempre una sensazione. E` la ragione quella che confronta i due sentiti, quando li ha già appresi, quando sono divenuti cogniti, contenuti e misurati nell' idea; e in questi sentiti7cogniti si può certamente trovare la parte comune e la parte propria, e vedere che alla prima sensazione risponde il comune ed alla seconda anche il proprio. Ora che la cosa proceda così si può provare con più argomenti, oltre al principale dell' osservare e contemplare la cosa in sè stessa. Eccone alcuni in aggiunta a quelli che abbiamo dati altrove (2). Il senso in un oggetto vicino non percepisce prima il tutto e poscia le parti, ma il tutto colle sue parti ad un tempo; perocchè nella visione e nell' immagine di un uomo sono tutte le parti dell' uomo. E pure il principio razionale pone attenzione prima al tutto che alle parti, ed ha bisogno di speciale attenzione a ben percepire le parti di cui il tutto risulta. Dunque è proprietà dell' attenzione razionale di abbracciare prima il tutto, e poscia le parti. Così i bambini, che danno a tutti gli uomini il nome di padre, e a tutte le femmine quello di madre, percepiscono benissimo col senso le immagini distinte degli uomini, che loro si danno a vedere, e meglio anche degli adulti per la finezza dei loro sensi; ma tuttavia la loro attenzione razionale da prima si appiglia a ciò che hanno di comune gli uomini, trascurando il resto che pure hanno percepito col senso egualmente; onde pare che non l' abbiano sentito, quando è solo che colla mente non lo considerano. Il bambino fissa la sua attenzione alle qualità sensibili più comuni, benchè senta anche le altre, coll' aiuto dei vocaboli, che sono lo strumento della ragione e non del senso. Che se egli non acquistasse cotesto istrumento del pensiero, pel quale egli può fissare l' elemento comune trascurando il resto, non arriverebbe mai ad eseguire tale astrazione. Il che è così vero che gli stessi Aristotelici ebbero sottilmente osservato che se vi sono nei sensibili delle note comuni ed universali, che non sieno segnate con un vocabolo, il bambino non vi si ferma, e tali universali innominati non sono già per lui più noti o noti prima dei particolari. Dalla quale bella osservazione, tutta all' uopo nostro, quei filosofi non cavarono il lume che avrebbero potuto. [...OMISSIS...] ; il che si attribuisce dagli Aristotelici al fare tali generi meno impressione nel senso, ma questo non lo provano, e spesso non è; quando è d' altra parte manifesto che non furono quei generi nominati, perchè meno necessari alla vita umana, e però non essendo contrassegnati di vocabolo, difficilmente si prendono coll' intelletto. E` falso che nel bambino vi sia quell' astrazione che gli Aristotelici e i sensisti tutti suppongono; l' astrazione succede alle prime operazioni del bambino, quando prende a riflettere. L' astrarre è un dividere il comune, che si chiama astratto , dal proprio. Lungi che il bambino colla sua prima operazione divida e astragga, anzi unisce e sintetizza, cioè unisce l' universalissimo, l' idea dell' essere, al concreto che cade sotto i suoi sensi. Infatti le parole paternità, maternità, umanità, che esprimono astratti, sono inintelligibili per molto tempo al bambino. Nè le parole padre e madre significano per lui il comune, l' astratto, ma primieramente gli individui reali da lui percepiti, che udì connotare di tali nomi; ed è un errore il credere che queste parole significhino al bambino quello che a noi. Ora, a percepire tali individui egli dovette unirvi l' universale che ha in sè; onde l' oggetto significato da tali parole, benchè particolare, è associato all' universale, nel quale è veduto dalla mente. Quando poi ai sensi del bambino appariscono altri uomini, egli non si ferma colla sua mente a notare le differenze che pure esistono nella sensazione, ma o li prende per quelli stessi di prima, e perciò dà loro gli stessi nomi, i più facili a scorrergli sulle labbra; ovvero dà loro gli stessi nomi, perchè a quei nomi ha legato il pensiero di certe qualità più apparenti, che hanno fermata la sua attenzione nei primi uomini e nelle prime donne da lui conosciute; onde poniamo, per modo d' esempio, che nei primi uomini la sua attenzione abbia fissata la barba, e nelle prime donne la cuffia; quando egli vede un uomo lo chiama padre per voler dire « quell' ente che ha la barba »; e quando vede una donna, la chiama madre, per voler dire « quella donna che ha la cuffia »; e lo stesso vale, se si prende a scopo fisso dell' attenzione bimbesca, in luogo di un segno così speciale, la conformazione generale e totale del corpo dell' uomo e della donna. Egli, in questo supposto, dice padre « quell' ente che ha quella configurazione totale maschile, trascurate le minute differenze »; e dice madre « quell' ente che ha quella configurazione totale femminile, trascurate le minute differenze »; nè conosce ancora il vero significato di padre o di madre. Qui non vi è astrazione se non apparente, ma vi è sintesi, perchè: 1 vi è l' unione dell' ente ideale con quella configurazione sensibile, o con quella marca sensibile più appariscente; 2 vi è la determinazione di un individuo, di un ente mediante quella configurazione o quella marca, che serve di segno a distinguerlo dagli altri. - Ma, si dice, questa configurazione o marca sensibile è comune. - No, si risponde, a principio pel bambino non è comune, è un sentito particolare, che prende a segno e connotato dell' ente, e che perciò restringe all' attenzione e determina l' universale, non lo forma. Ora colla stessa marca si contrassegnano più individui successivamente con atti particolari dello spirito; solamente in appresso, mediante la riflessione, quando la mente indotta dal bisogno che ne ha, osserva anche le differenze più speciali, allora discopre che quella marca , che da principio le servì di mezzo a restringere e particolarizzare l' universale, e a nominare gli individui, è ella stessa comune ed universale, considerata in relazione con quelle differenze, delle quali, dopo averle percepite, si serve a restringere e particolarizzare di nuovo quegli enti che hanno tutti quella marca , venendo così cotal marca ravvisata per comune a molti individui. Onde è falsa, è apparente l' astrazione primitiva, che i sensisti attribuiscono al senso, quasi che questo percepisca il comune, e la ragione si pigli tosto bell' e fatto il comune dal senso. Veniamo al secondo accidente dell' astrazione, che è l' universalizzazione. Quella maniera di astrazione, che propriamente ha il nome di universalizzazione , non fa che scomporre la percezione intellettiva, ponendo da una parte l' essere ideale , dall' altra il sentito, ossia il reale . Dove nasce questa difficoltà: « Il reale se si considera nella sua pienezza, reale infinito, è al tutto indivisibile rispetto a sè dall' ideale, perchè l' uno e l' altro non sono che un solo essere; se poi si parla del reale finito e contingente, il reale diviso dall' ideale non è ente compiuto, e quindi è inescogitabile. Come dunque l' astrazione può dividerli? ». Si risponde che il reale infinito, non essendo dato all' uomo, quando l' uomo astrae l' ideale e lo separa dal reale infinito per via d' un giudizio, crede di fare quello che non fa, crede di dividere quello che non divide, giacchè in tal caso l' oggetto della sua riflessione astraente non è il vero reale infinito, ma è un concetto negativo ed analogico, che nella mente umana tien luogo del reale infinito. All' incontro un comprensore celeste che apprende il reale infinito, non si proverebbe giammai a separare con un giudizio astrattivo l' ideale dal reale, come un uomo non tenterebbe mai colla sua mente di fare un assurdo, se lo conoscesse per assurdo. Con che rimane confutata la dottrina dei pseudomistici, i quali pretendono che l' oggetto dell' intuito naturale dell' uomo sia Dio stesso, che contiene la realità infinita, ma poscia per via di astrazione da quel reale infinito l' uomo tragga l' essere ideale; sistema che, oltre a contraddire al senso comune, involge molti altri assurdi e conseguenze sovvertitrici del Cristianesimo. Tuttavia per non uscire qui dalla confutazione diretta, che accennavamo della predetta setta dei pseudomistici, è da considerare primieramente il fatto che l' uomo, sia per via d' astrazione, sia in altro modo, intuisce effettivamente l' ideale senza il reale (fatto neppur negato dagli avversari). Ora se l' uomo vedesse per natura il reale assoluto ed infinito, cioè Iddio, dovrebbe vedere insieme due cose: 1 che l' ideale è nel seno del reale; 2 che il considerarlo per via di un giudizio come separato dal reale è assurdo. Ma è manifesto che l' uomo, com' è al presente, non vede quest' assurdo, e però pensa all' ideale senza pensare al reale, senza trovare in ciò alcuno inconveniente; il che dimostra che egli non apprende per natura il reale assoluto, come vogliono quei pseudomistici. Vero è che l' ideale è per sè concepibile, perchè racchiude tutto l' essere, benchè sotto una sola forma; ma altra è la ragione per la quale s' intuisce l' ideale, altra è la ragione per la quale lo si pensa e giudica solo e staccato dal reale, senza trovarci assurdo; la ragione perchè si concepisce l' ideale è che esso ha tutto ciò che si esige per essere concepibile; la ragione perchè si può pensare e giudicare solo, senza accorgersi dell' assurdo che vi è nell' ammetterlo così solitario, si è che non si apprende il reale infinito, e quindi neppure il nesso necessario e d' identità che ha coll' ideale, e però l' assurdo rimane celato. Quanto poi al reale finito, all' universalizzazione che si esercita sull' oggetto finito della percezione, è da avvertirsi che, dividendosi quest' oggetto nei suoi due elementi: 1 l' ideale, 2 il reale finito; solo il primo di esso rimane concepibile perchè ente, ma il secondo rimane inconcepito, rimane un mero sentito; con tale divisione è disfatto l' oggetto reale, non rimane più che il reale senza la condizione di oggetto; ed è un' illusione il credere che il reale si concepisca a parte, perocchè se ci sforziamo di concepirlo a parte, pure col concepirlo l' abbiamo mescolato e legato coll' idea, che lo completa come ente; e quindi è falso che lo concepiamo a parte. Ma come ne parliamo adunque? come parliamo di lui unito e separato? - Noi parliamo di lui unito all' idea e lo vediamo altresì separabile, cioè annullantesi quale oggetto di cognizione, perchè intendiamo che egli non è l' idea; e questa cognizione negativa basta a poterne parlare, senza che ci sia necessario perciò di concepirlo come un oggetto della conoscenza attualmente separato. Possiamo anche intendere che separato egli non è ente compiuto, e questa è ancora una cognizione negativa, che non ha bisogno per aversi di percezione o di concezione positiva. Le quali cognizioni negative noi le prendiamo contemplando il reale nell' idea e all' idea paragonandolo, perocchè la separabilità di ciò che pensiamo unito è pensabile, come è pensabile l' annullamento di un oggetto pensato. Terzo accidente dell' astrazione - Astrazione propriamente detta. Finalmente il terzo accidente della riflessione astraente, che merita il proprio nome di astrazione, è quando noi, riflettendo sopra qualche concetto, separiamo in esso più elementi o relazioni; per esempio, quando noi dal concetto di un ente finito astraiamo la sostanza dall' accidente, o l' accidente dalla sostanza, ecc.. I prodotti di questa astrazione, l' accidente, poniamo, o la sostanza, presi in separato l' uno dall' altro, non sono enti, e però non possono essere oggetti del pensiero, ma parti di enti, ossia enti imperfetti (entità). Come dunque si pensano? Non col pensiero complesso, ma col pensiero parziale, con quella maniera di astrazione che si esercita sull' idea, tali parti od elementi non si dividono intieramente dal concetto, ma nel concetto stesso si contemplano, restringendo a ciascuno di essi una speciale attenzione dello spirito. Ma nello spirito il concetto intero, su cui si riflette, rimane; e la sua unità e semplicità è quella che rende possibile il considerare ciascuna parte; di maniera che se allo spirito fosse tolto il concetto intero, le sue parti pure sarebbero tolte, e lo spirito non potrebbe più affissare nell' una o nell' altra di esse la sua attenzione, perchè non sarebbero. L' atto dunque di questa maniera di astrazione non può trovarsi solo nello spirito; egli non è un pensiero intero e compiuto, per dirlo di nuovo, ma è parte di un pensiero, che conviene ravvisarsi nel suo tutto; l' ente è l' oggetto del pensiero complessivo, non d' una parte del pensiero o d' un atto speciale che si aggiunge necessariamente ad un altro, perchè questo atto speciale, non stando da sè, non è da sè solo pensiero. Vero è che l' uomo, quando ha posto attenzione a qualche parte elementare dell' ente, che vede nell' idea, e la ha contrassegnata con un vocabolo, allora se la cangia spesso in un vero ente; ma questo è ancora una sua illusione, un errore che egli prende, perchè ad un elemento, che non è ente, egli aggiunge arbitrariamente col suo pensiero ciò che gli manca senza pure accorgersene, come faceva, a ragion d' esempio, Hume, quando pretendeva che l' universo potesse essere composto d' accidenti; nel che era necessitato a tramutare gli accidenti in sostanze, senza volerlo nè saperlo (1). La quale illusione accade spessissimo, onde gli uomini cangiano in enti le astrazioni, le personificano, ecc.. E quindi un' altra classe di errori, quando, applicando tali astratti agli enti reali, immaginano che anche in questi enti sia diviso e separato quello che è diviso nell' astrazione. Abbiamo poi dimostrato che questa maniera di astrazione ha le sue proprie leggi venienti dall' idea dell' essere, ond' è che questa idea necessariamente precede tutte le astrazioni, perchè le dirige (2); e però ella non può essere formata coll' astrazione. E` un nuovo argomento che distrugge l' errore dei sensisti , come pure quello dei pseudomistici loro confratelli; i primi dei quali si danno a credere che l' idea dell' essere si possa cavare per astrazione dai sentiti reali; i secondi poi, con maggiore assurdo, pretendono che si cavi dall' essere reale assoluto, intuìto per natura dallo spirito umano. I quali ultimi non considerano che l' astrazione, di cui parliamo, non si esercita che sull' idea sola, e però l' idea deve aversi prima nell' ordine logico; nè considerano che l' idea dell' essere è quella che dirige l' astrazione nelle sue operazioni, senza la qual direzione ella s' andrebbe a caso contro il fatto. Che se ricorressero alla seconda maniera di astrarre, noi l' abbiamo esclusa di sopra. Ritengasi adunque: Che l' intendimento percepisce le realità finite, che non sono enti per sè sole compiuti, nell' essere ideale che dà loro il compimento. Che egli non apprende tuttavia attualmente le loro relazioni essenziali o necessarie coll' essere reale compiuto; ma senza negarle le lascia da parte come un' appendice da svolgersi poscia. E questo svolgimento è appunto l' opera, che fa la riflessione sopravveniente. Ella ritorna sul reale percepito e lo raffronta coll' essere ideale, che è il tipo di ogni realità; quindi discopre ciò che manca al reale conosciuto per via di percezione; per esempio, ella rileva che è contingente e che ha una relazione col necessario, trova che è limitato e che non potrebbe essere se non vi fosse un illimitato, ecc., e così via dicendo (1). Come dunque la riflessione astraente confronta le idee degli enti fra loro per fissare il più comune, applicando i risultati di questo confronto agli enti stessi, così la riflessione integrante confronta le idee degli enti coll' idea dell' essere in universale, e trova le relazioni ontologiche, cioè le relazioni che gli enti finiti tengono colla essenza dell' essere stesso. Nel sistema dei pseudomistici questa operazione integrante della riflessione è abolita; perocchè essi pretendono che la riflessione non iscopra mai niente di nuovo, essendo data all' uomo la pienezza dell' essere reale nel suo naturale intuito, onde per essi non può restare altra riflessione che l' astraente. Ma questo si oppone al senso comune ed alla coscienza di ciascheduno, perocchè ciascuno ben sa che colla riflessione si discoprono nuove verità, e così crescono le scienze; al che fare non è uopo, come quei filosofi falsamente pretendono, che quelle verità siano già nell' oggetto dell' intuito, ma basta che l' oggetto dell' intuito sia l' essere ideale, il quale, contenendo tutto l' essere a suo modo, è regola universale a giudicare del reale, conoscerne l' ordine e le relazioni, e trovare ciò che gli manca al compimento; perocchè da questi giudizi intorno al reale nascono le cognizioni acquisite e le scienze tutte. Questo arbitrario e stravagante sistema, che dal buon senno degli Italiani sarà, io credo, sempre ripulso, muove da due supposizioni false egualmente: 1 l' una che non possa essere oggetto della mente l' ente sotto la sola sua forma ideale; il che si oppone evidentemente al fatto, giacchè la mente che pensa ad un ente possibile , non ha una necessità al mondo di pensare insieme alla sua realità; 2 l' altra che senza che la mente apprendesse il reale assoluto, la riflessione non potrebbe trovare le verità scientifiche intorno agli esseri determinati e reali; il che pure è falso, perchè, come provammo, nell' essere ideale ella ha già la regola suprema per tutti i giudizi circa i reali sentiti, essendo anche i reali virtualmente (e però nel modo ideale) compresi nell' ideale. Ignorano altresì costoro che il reale è nel sentimento, e l' uomo non lo percepisce se non riportandolo all' idea; ed aggiungono a loro pro certi ragionamenti teologici, che ben dimostrano in teologia non veder essi più addentro che in filosofia (1). Esposta così la legge universale e suprema dell' umano pensiero, la quale dice: « l' ente è il termine essenziale del pensiero », ed applicata alle diverse maniere d' intellezioni, è uopo che ne deriviamo le leggi speciali. Il che facilmente ci verrà fatto considerando quali siano le speciali doti dell' ente, ciascuna delle quali imprime un carattere proprio alla cognizione umana per forma, che contribuisce non poco a farcene intendere l' intima natura, per quanto al bisogno nostro è richiesto. Ora le precipue qualità dell' ente (e ad esse noi ci restringiamo) sono che: 1 è oggetto, 2 è possibile; 3 è atto primo; 4 è uno; 5 è durevole; 6 è finito o infinito. Da ciascuna di queste qualità procede una legge speciale, che determina la natura dell' atto cogitativo. Cominciamo dal considerare la prima, che si enuncia così: « il termine del pensiero è l' oggetto ». Si crede comunemente che tutte le potenze abbiano un oggetto; il vero però si è che tutte hanno un termine , e il solo intendimento ha un oggetto. Ma l' uomo intende tutto e non parla se non di quello che intende; quindi egli cangia i termini delle potenze in altrettanti oggetti, pur solo col pensarli, col percepirli; i termini adunque delle potenze non intellettive si chiamano oggetti posteriormente, in quanto sono in relazione col pensiero. Vediamo che voglia dire essere oggetto . Il termine d' una potenza è oggetto, quando esso è così in sè stesso che non riceve nessuna modificazione, nè passiva nè attiva, dalla potenza a cui è termine; e l' atto della potenza lo contiene, e per questo solo ella se ne arricchisce e ne cava suo pro, senza punto, come si diceva, modificarlo (1). Di più, la potenza per avere un oggetto deve essere tale che ella possegga quel suo termine per ciò che è in sè stesso, e non per ciò che opera in lei. Sono adunque tre le condizioni dell' oggetto: 1 è immodificabile e tuttavia unito in un modo suo proprio alla potenza; 2 si unisce e comunica in modo che l' effetto di questa unione e comunicazione non è che la potenza apprenda l' azione di lui, ma apprenda lui stesso e se ne giovi; 3 la potenza che lo apprende, non apprende con lui sè stessa, ma lui solo; onde egli resta sempre separato dalla potenza in virtù dell' atto stesso dell' unione e dell' apprensione, il quale atto lo oppone anzi alla potenza, di che gli viene il nome di obiectum . Queste tre condizioni sublimissime non si riscontrano in nessuno dei termini delle altre potenze, ma solo in quello dell' intendimento, che è l' ente. Poichè i termini di tutte le altre potenze: 1 sono passivi da esse e ricevono modificazioni; 2 sono anche attivi e producono modificazioni nella potenza; onde ciò che riceve la potenza non è che l' azione di un ente, non l' ente stesso; 3 talora sono le modificazioni di essa potenza; per esempio, le sensazioni, termini del sentire, non sono altro che le modificazioni del sentimento fondamentale; 4 si uniscono colla potenza in modo da confondersi con essa, di cui diventano o una cotal continuazione, o un' attualità, ecc.; e però non rimangono separati da essa nell' atto dell' unione, nè ad essa contrapposti, ma la potenza, apprendendo il suo termine, apprende in pari tempo sè stessa modificata, e quindi non lascia sè stessa per applicarsi tutta a cosa diversa da sè. Ora se ben si considera, si vedrà che l' oggettività è condizione così essenziale dell' ente che, in quanto non è oggetto, non è ente, tutt' al più sarà un rudimento dell' ente concepito per astrazione, non possibile ad esistere tutto solo. E veramente si attenda bene che cosa contenga il concetto di ente . Il concetto di ente non contiene alcuna relazione di un ente con un altro, anzi la esclude come un soprappiù; dice la cosa in sè , non la cosa agente in un' altra . Ma la cosa è in sè , solo a condizione che sia in una mente; perocchè se si parla di corpo non concepito da alcuna mente, quel corpo non ha questa condizione di essere in sè qualche cosa, perchè non ha alcuna suità. Lo stesso è a dirsi di un essere meramente sensitivo, a cui manca il sè . L' essere dunque in sè non è altro che l' essere concepito assolutamente e senza relazione ad altro da un intelletto. E quando a noi pare che le cose abbiano questa assoluta esistenza, benchè non sieno da noi concepite, cadiamo in una cotale illusione trascendentale. Noi supponiamo che non sieno concepite nell' atto stesso che le concepiamo e ne ragioniamo; onde parliamo senz' accorgerci di cose concepite in sè, le quali certamente esistono in sè, senza bisogno di altri atti avvertiti da parte nostra per concepirle, perchè basta che si presentino al nostro pensiero per avere adempita la condizione dell' essere in una mente. Ma non diremo mai che enti, che noi realmente non concepiamo, nè immaginiamo che alcun' altra mente li concepisca, enti insomma affatto sconosciuti da ogni mente siano enti compiuti, siano qualche cosa in sè stessi. L' oggettività dunque è una proprietà o relazione essenziale dell' ente. Di che nasce la conseguenza che il dire che l' oggettività è una relazione essenziale dell' ente riesce al medesimo che il dire che l' ente è per sua essenza conoscibile, ossia che anche l' intelligibilità è proprietà necessaria dell' ente; di maniera che quegli enti, che non si conoscono per sè stessi ed hanno bisogno per essere conosciuti di un mezzo di conoscere, neppure sono pienamente enti; ma hanno bisogno per essere tali di venire completati e ultimati dall' unione dell' ente per essenza, dell' ente per sè intelligibile, unione che, quasi in talamo, si fa nella mente. Infatti l' oggettività non si trova che negli enti, in quanto sono presenti alla mente; dunque l' oggettività e l' intelligibilità riescono ad un medesimo concetto, dicono lo stesso sotto due rispetti; sicchè quando si dice oggetto, dicesi ente in sè stesso inteso; quando si dice intelligibilità dicesi la proprietà che ha l' ente di essere inteso, divisa per astrazione. Aristotele in più luoghi viene a dire che l' ente per sè considerato è la prima cosa intesa, senza la quale non può intendersi le altre; dei quali luoghi noi accenneremo solo il quarto libro dei Metafisici. Qui egli insegna che [...OMISSIS...] . Di qui un sottile dissidio fra gli Aristotelici, i quali, convenendo tutti che l' ente era il primo intelligibile, attaccarono poi gran briga per sapere se questa intelligibilità convenisse all' ente come ente, ovvero all' ente in quanto è in atto, che a loro pareva un genere speciale di ente. Il nobile filosofo italiano che abbiamo più sopra citato, Marco Antonio Zimara (nome oscuro per un' antica vergogna e calamità dell' italica terra) così dichiara questa sentenza: [...OMISSIS...] . Un errore sta in queste ultime parole che la materia considerata in sè e solitariamente sia ente. Nè Aristotele, nè alcuno ch' io sappia degli antichi, conobbe la dottrina degli enti imperfetti (.), che sta in gran parte nella legge ontologica del sintesismo , per la quale gli enti finiti si appoggiano l' uno all' altro e si sorreggono, cosicchè divisi e separati coll' astrazione si annullano, non sono più enti propriamente parlando; e quel resto di ente, che diviene oggetto dell' astrazione, si può chiamare tutt' al più ente imperfetto , il quale è come in via ad essere ente, completandosi e rendendosi possibile realmente, quando gli si aggiunge l' altro ente a cui si appoggia. Così la materia è ente, considerata come termine del principio senziente; separata da questo, è un rudimento di ente, il quale nella realità è nulla, perchè impossibile ad esistere così; e nella mente pure è ente imperfetto , attesochè, sebbene la mente le dia un compimento senza il quale non potrebbe essere pensata, sopravviene l' astrazione che le spoglia quella veste non sua per considerare la materia nuda, senza però che resti nuda anche nel pensiero complesso. Onde quando si dice ente , si dice già atto , e non si dà ente che sia mera potenza; la quale, come abbiamo veduto innanzi, è piuttosto un che negativo, e perciò un non ente anzichè un ente. Quindi dalla legge dell' oggettività emana la legge del sintesismo; perocchè se l' oggetto si unisce al soggetto in modo che, lungi dal confondersi con esso lui, per l' atto stesso dell' unirsi a lui si divide e si pone per quello che è in sè, suscitando nel soggetto medesimo un atto, che non determina nel soggetto, ma nell' oggetto, procede quindi che il soggetto e l' oggetto sieno uniti in modo così correlativo che la loro unione riesca essenziale ad entrambi (1), li costituisca entrambi, e tuttavia in modo così distinto che l' uno è non solo separato dall' altro, ma all' altro opposto. Ignorata questa legge dagli antichi (2), essi rovinarono in speculazioni inestricabili ed in gravissimi errori. Dall' ignorazione di essa ricevette rincalzo l' «hen to on kai pan» di Parmenide, come si deduce da un luogo del dialogo, che Platone intitolò del nome di quel grandissimo italiano. Perocchè in esso s' introduce Socrate, che muove obbiezioni al sistema di Parmenide, « « tutte le cose essere un solo ente ». » Avendo dunque Socrate conceduto che la specie è una per molti individui, sosteneva tuttavia che queste specie fossero distinte dagli individui e fra loro, e però fossero enti per sè. Parmenide toglie a mostrargli gli assurdi che verrebbero da questa supposizione, «ean tis hos eide onta kath' heauta diorizetai», e dice che il massimo degli inconvenienti sarebbe che in tal caso riuscirebbe difficilissimo il provare che le specie si possano conoscere, e per esse si possano far conoscere gli individui, «all' apithanos an eie ho agnosta auta anankazon einai». A provar questo Parmenide si fa concedere da Socrate che ogni essenza che esiste per sé , «kath' hauten usian», non può essere in noi, «en hemin». Ottenuta questa concessione, egli conchiude che esse specie ci sono ignote, perocchè noi non ne siamo partecipi: «uk ara hupo ghe hemon ghignosketai ton eidon uden epeide autes epistemes u metechomen». Ora se Socrate avesse conosciuta la legge del sintesismo, non avrebbe mai accordato a Parmenide che le specie per essere qualche cosa in sè, non potevano essere in noi. Anzi avrebbe dovuto stabilire che la specie intellettiva, da non confondersi coll' immagine, è l' essere stesso sotto la forma ideale, il quale è così in sè che non può non essere in sè, nè da noi riceve nulla; e tuttavia può essere da noi intuìto appunto in sè, come è e non altrimenti, e però noi ne siamo partecipi, e in questo senso è in noi. L' argomento prova che la specie deve essere a noi unita, se dobbiamo intuirla e di essa far uso a conoscere altre cose; ma non prova l' impossibilità che sia da noi intuita, rimanendo un essere di altra natura e condizione della nostra. Il che certo ne verrebbe, qualora fosse provato che ciò che è in noi debba essere una parte o modificazione di noi stessi; ma questo è anzi gratuito e falso. Vedesi dunque che l' errore di Parmenide venne da quello stesso principio arbitrario, onde i moderni cavano il loro soggettivismo; ma il grande pensatore di Elea andava colla sua logica mente assai più in là, traendo per conseguenza che tutte le cose dovevano essere un solo ente. E che questa argomentazione, che Platone mette in bocca di Parmenide, sia veramente di questo nostro pensatore, scorgesi dai versi che di lui si sono conservati, nei quali appunto, per dare una spiegazione acconcia della cognizione, dice che il conoscere e l' essere sono la medesima cosa: [...OMISSIS...] , e ancora, secondo la traduzione del Karsten: [...OMISSIS...] i quali luoghi possono non leggermente illustrare il brano da noi toccato del Parmenide di Platone. Oltre di ciò Parmenide vuol provare a Socrate che colle specie, se loro si dà un' esistenza in sè e si distinguono fra loro, non si possono conoscere le cose anche per un altro argomento. Egli si fa accordare che ciò che esiste in sè non può essere rappresentativo delle cose, perchè l' esistere in sè non è relativo ad altro, ma è un' esistenza chiusa in sè stessa. Onde ricava che neppure Dio conoscerebbe le cose umane, nè avrebbe virtù di governarle, e l' arte stessa del disputare si annienterebbe, se si dovessero conoscere le cose con tali specie, ciascuna delle quali avesse un' essenza propria e distinta dalla cosa. I quali conseguenti vedendo, alcuni - continua Parmenide - vacillano e dubitano che le idee non sieno, perchè inetti a spiegare con esse la cognizione il che appunto è quello che avvenne modernamente alla scuola Scozzese, che negò le idee; e noi abbiamo esposto, forse anche con più efficacia, l' inutilità delle idee, qualora si pretenda che esse non facciano altro ufficio che di esseri rappresentativi, e le cose tutte si conoscano per via di rappresentazione (2). Ma perciò appunto questo è falso, perchè nell' idea non si vede già l' essenza dell' idea, ma quella dell' ente; e l' ente è identico sotto la forma ideale e sotto la forma reale. Onde l' idea altro non è per noi se non l' essere intuìto dalla mente (3) nella sua propria essenza, la quale è eterna; ma questa essenza ora comprende la realizzazione dell' essere, e allora è l' essere infinito, Iddio che non si vede; ora poi non comprende la sua realizzazione, e allora è l' essere ideale , al quale si rapporta la realizzazione che col sentimento apprendiamo. Onde la cosa reale conosciuta altro non è che l' essere ideale realizzato, sicchè l' oggetto del conoscere in tal caso risulta dai due elementi sopra descritti: 1 l' ideale, 2 il reale; questo compimento di quello. L' ideale adunque è rappresentativo non già come una cosa reale, per esempio, come la figura di una statua rappresenta un' altra figura, il personaggio di cui è la statua; ma come l' essenza di una cosa rappresenta la cosa realizzata; la qual cosa realizzata non si disgiunge dalla sua essenza, nel qual caso non sarebbe un ente compiuto. L' essenza dunque è l' atto pel quale l' ente è nel mondo ideale; la realizzazione è un altro atto dello stesso ente pel quale egli è nel sentimento, cioè sente o fa sentire, che gli si aggiunge nello spirito percipiente come suo finimento; dove si consideri sempre che l' esistenza nello spirito non toglie l' esistenza in sè, anzi la costituisce. Possibile in senso logico significa privo di contraddizione. Ora l' ente non ammette contraddizione alcuna. Da questa proprietà dell' ente di essere essenzialmente concorde e consentaneo seco stesso, procede il principio di contraddizione che « l' essere e il non essere insieme non è essere ». Ora se « l' essere e il non essere insieme non è essere », dunque non si può pensare, perchè l' oggetto del pensiero è l' essere. In questo senso la possibilità logica costituisce la pensabilità delle cose. Ma volendo conoscere se un ente, o reale o ideale, può avere contraddizione nel suo seno, dove riguardiamo noi? Nella sua essenza. Ora l' essenza dell' ente si vede nell' idea. Se dunque la possibilità dell' ente è ciò che lo rende pensabile, e se la possibilità, ossia immunità da contraddizione, trovasi nell' idea, viene confermato quel vero, che abbiamo di sopra stabilito, con un nuovo ed invitto argomento, cioè che niente si pensa senza l' idea; il che non vuol dire che ogni pensiero umano si faccia colla sola idea, come alcuni disattenti ci hanno attribuito. Nella percezione razionale adunque, nella quale pensiamo un reale, non è la sola realità che forma l' oggetto del nostro pensiero, ma l' idealità altresì; dunque ogni percezione ha un elemento ideale ed uno reale. Il sensismo adunque che si ferma al reale, nè altro riconosce che questo per oggetto del pensiero, è un sistema erroneo, mancante di filosofica perspicacia, tale che rende impossibile il pensiero, lo esclude pur col volerlo stabilire. Di più, se la possibilità è la pensabilità, e la pensabilità sta nell' idea, dunque se i reali si dividono dall' idea, non sono più pensabili; nè l' idea può venire da essi, appunto perchè essi non sono nell' intendimento, se non in virtù della stessa idea. Ancora, se il reale non riceve la pensabilità se non dall' idea alla quale nello spirito umano è unito, dunque il reale per sè solo, diviso dall' idea, non è oggetto della mente. Mostrano adunque di essere assai poco innanzi nelle filosofiche investigazioni coloro che, riputando l' ideale per un nulla, pretendono che la mente umana non avrebbe un vero oggetto, se non avesse per suo termine un reale! Anzi è appunto vero il contrario; la sola essenza dell' ente, che è l' essere ideale, è oggetto; non vi è oggetto fuori di essa o senza di essa; il reale deve essere oggettivato , cioè completato nell' idea, nell' essenza, acciocchè si possa pensare. Essere oggetto, essere pensabile, essere intelligibile per sè stesso, sono pressochè sinonimi; dunque l' intelligibile per sè stesso è il solo essere ideale , e l' essere reale è intelligibile per partecipazione . A questo principio vi è una sola eccezione, benchè neppure essa sia propriamente eccezione; Iddio anche nella sua realità è intelligibile per sè stesso. Ora questo accade, perchè nella sua stessa essenza ideale si comprende la sussistenza; onde non si può avverare il caso che la sussistenza, ossia realità, sia scompagnata in Dio dall' idealità. E` dunque un gravissimo e perniciosissimo errore il dire che Dio è un' idea, o anche che è l' idea , vocabolo che nella lingua degli uomini non significa realità, quando Iddio è anzi Realissimo . E perchè gli uomini usano così la parola idea? perchè inventarono questa parola ideale in opposizione di reale? Perchè non avendo essi per natura la visione dell' essere realissimo, non hanno esperienza alcuna del nesso necessario fra l' essere ideale e l' essere reale compiuto; e però non possono che argomentare un tal nesso per via di raziocinio. L' invenzione adunque della parola idea, e il suo uso costante, abbatte l' errore di quelli che accordano all' uomo l' intùito di Dio stesso nella presente vita. Ma onde poi la parola possibile? Abbiamo detto che in senso logico equivale a ciò che non involge contraddizione. Ma neppure Iddio involge contraddizione. Si dirà dunque che Iddio è possibile? L' esservi una cotal ripugnanza a dire che Iddio è possibile dimostra che nella parola possibile, oltre l' assenza della contraddizione, si associa un altro concetto. Tanto Iddio, quanto la creatura, non involge contraddizione; ma l' essenza divina è tale che, oltre non involgere contraddizione, ne è anche necessaria la realità. Nell' essenza all' incontro della creatura manca la necessità della sussistenza, onde si può concepire senza bisogno che nel concetto si racchiuda la realità. Quindi rispetto alla realità dell' essere contingente si dice che è possibile, cioè che « può essere realizzato, perchè la sua essenza non involge contraddizione ». Con questa aggiunta si compie il concetto del possibile; la possibilità logica è dunque la ragione della possibilità metafisica . Quindi avviene ancora che tutto si possa oggettivare, ossia idealizzare; perchè tutto ciò che non è necessario e che non involge contraddizione si concepisce come possibile. Non vi è dunque cosa che in questo senso non abbia un' idea a sè opposta. L' individuo si può considerare come possibile; la sussistenza del pari; questo è quanto dire considerarla in rapporto colla sua idea, coll' essenza di cui è una realizzazione. Considerare come possibile è universalizzare. Non si universalizzano però le cose tutte allo stesso modo. Perocchè, come abbiamo veduto che la parola possibile si prende in due significati, nel significato meramente logico , l' essenza di una cosa che non involge contraddizione, e nel significato metafisico , la suscettività che ha quell' essenza ad essere realizzata; così è da dirsi dell' universalizzare. Nella semplice essenza talora non vi è universalità, come accade in quelle cose che per loro essenza sono uniche: l' essenza dell' individuo, dell' uno, dell' io, del sussistente, ecc., racchiude la particolarità e l' unicità; e però l' individuo, l' uno, l' io, il sussistente non possono essere che unici. Ma se si considera la possibilità che sussistano molti io, molti uni, molti individui, molti sussistenti, ecc., tutte queste cose vengono universalizzate per via della possibilità , ma non della possibilità logica, sì della possibilità metafisica. Si opporrà: « Non corrispondono tutte queste cose moltiplicate ad una sola essenza, all' essenza dell' io, dell' individuo, ecc.? E se corrispondono ad una sola essenza, non è per l' essenza che vengono universalizzate? ». Noi neghiamo che ciascuna di queste cose rispondano ad una sola essenza. Di fatti l' essenza d' un io, d' un individuo, ecc., non è l' essenza d' un altro io, d' un altro individuo, ecc.; ma l' essenza d' un io non ha nulla che appartenga all' essenza d' un altro io, consistendo appunto in questo l' indole del sussistente di non aver nulla di comune con un altro sussistente. Ciò che fa parere il contrario si è che si confonde la natura , di cui il sussistente partecipa, collo stesso sussistente . La natura è comune , ma la stessa sussistenza è singolare . Ora si replica: se molti io convengono nell' essere io, nell' avere la suità , dunque hanno qualche cosa di comune. - E bene, replichiamo anche noi, che la suità è un' essenza comune, ma non è l' essenza di nessun io, ecc.. - In tal caso l' io non ha essenza. - Appunto l' io come io non ha essenza ideale, perchè egli è un reale, un sussistente. Quindi l' universalizzazione, che interviene quando si concepiscono molti io, dipende dall' astrazione, che costituisce un' essenza generica , mancando la specifica . Quando adunque si ha una universalizzazione fondata nella possibilità metafisica , la quale dipende dall' esistenza di una volontà, causa efficiente, e non da un' idea, causa esemplare; allora l' universalizzazione si riferisce ad un' essenza generica , che non rappresenta compiutamente l' ente di cui si tratta, ma solo una parte di lui, venendo l' altra parte prodotta immediatamente dall' efficacia della volontà. Così l' idea generica dell' io è l' idea della natura umana, in quanto la causa efficiente può farla sussistere in più individui, senza che rappresenti l' individuo stesso, che ella fa realmente sussistere. E qui nasce la questione: « Come si possa conoscere se una data essenza possa essere realizzata in più individui, ovvero in uno solo ». A cui si risponde che questo quesito non si può risolvere, se non considerando l' essenza stessa di cui si tratta. Perocchè è l' essenza della cosa quella che o esclude, o ammette la molteplicità maggiore o minore degli individui. Così l' essenza di Dio, come pure l' essenza della materia, esclude la molteplicità degli individui: l' essenza di Dio, perchè è l' essere stesso, e l' essere è uno e semplicissimo; l' essenza della materia, perchè essendo il termine esteso del sentimento, ella non ha altra essenza ideale che generica, che la esprime tutta e non in parte; onde rimane escluso da essa l' individuo. Così quando si dice acqua , si esprime tutta la natura dell' acqua; la qual natura perciò è semplice, come la stessa essenza reale, alla quale il suo concetto viene ristretto. Allo stesso modo vi potrebbero essere delle essenze che determinassero un certo numero d' individui; benchè tutti gli enti a noi conosciuti per essenza specifica non ammettano limiti nel numero metafisicamente possibile dei loro individui, non si può tuttavia dimostrare assurdo che qualche essenza a noi sconosciuta ne ammettesse, come ne ammette l' essenza di un ordine qualsiasi risultante da più cose finite. Noi parliamo sempre del pensiero umano, intero, complesso. Quindi la indicata legge viene a dire che « il pensiero non può avere a suo termine solamente atti secondi, senza che questi sieno accompagnati dal pensiero degli atti primi onde provengono ». Coll' astrazione si possono pensare gli atti secondi separandoli dai primi; ma l' astrazione non è il pensiero complesso, anzi non è possibile l' astrazione, se prima non è nella mente ciò su cui l' astrazione si esercita, nè l' astrazione caccia via il pensiero onde nacque; se io dunque divido coll' astrazione gli atti secondi dagli atti primi, anche gli atti primi rimangono tuttavia nella mente, entrano nel complesso del pensiero anche se ad essi io non ponga quella viva attenzione che dò all' astratto; è l' attenzione che si restringe a una parte del pensiero, non è il pensiero stesso che cessi. La ragione per la quale non si può pensare nulla se prima non si pensa un atto primo, si è perchè il termine del pensiero è l' ente, e l' ente è costituito sempre da un atto primo. Se si osserva e si guarda direttamente negli enti per vedere come essi sono internamenti costituiti, si trova che certi enti hanno l' essenza anteriore e distinta dalla loro sussistenza, certi hanno la sussistenza per atto primo ed originale; e come quelli sono molti e contingenti, così di questi non ve ne è che uno e necessario. Ma dove la sussistenza medesima è l' atto primo, è chiaro che quell' ente non si può concepire se non si percepisce la sussistenza, nè pensare senza di questa. Indi è che Iddio non si può pensare solo idealmente e come possibile, come si possono pensare le cose contingenti; ma o egli si pensa sussistente, o non è Dio quel che si pensa. Laonde chi dicesse l' essere ideale , che informa la ragione nostra, essere Dio, cadrebbe in gravissimo errore, conducente al razionalismo, al pseudomisticismo e a molte altre assurdità mostruose. Quanto agli enti contingenti, avendo essi la loro essenza separata, che nell' idea si manifesta, e non potendosi pensare cosa alcuna scompagnata dalla sua essenza; quindi una nuova dimostrazione della verità spesso da noi annunciata e ancora sì poco intesa, che l' ente reale contingente non si può percepire dall' intendimento se non mediante l' idea e nell' idea; la quale idea non può essere data dalla sensazione, perchè la sensazione è appunto quella entità reale che si tratta di percepire e di conoscere. Dopo di ciò, colla sola idea non si percepisce il reale, perchè l' idea contenendo la pura essenza dell' ente, e questa rimanendo così separata dalla realità o sussistenza, nulla è ancora inteso di questa finchè altro non s' intuisce che l' essenza nell' idea. Ora la sussistenza si apprende, nel modo detto, col sentimento, l' apprensione razionale e l' affermazione. Ma come anche qui ha luogo il principio che nulla si può conoscere, se non si conosce l' atto primo della cosa conosciuta? Nella realità propriamente non è l' atto primo , perchè, come vedemmo, questo atto appartiene all' essenza. Quindi accade che lo spirito nella percezione e nell' universalizzazione assuma come atto primo quello che contrassegna con un vocabolo, e a cui si ferma l' attenzione; e consideri come atti secondi quelli che accadono alla cosa contrassegnata col vocabolo e presa come subbietto della definizione e scopo dell' attenzione, e che sono fuori degli elementi raccolti nel vocabolo, o nella definizione, o nell' oggetto dell' attenzione astraente. E così lo spirito si forma la cognizione delle cose reali e delle loro essenze conoscibili, determinandole e limitandole, come dicevo, da ciò che prima percepisce col sentimento (1). Ma oltre di ciò nel sentimento stesso lo spirito intelligente trova un ordine, giacchè: 1 egli non può percepire certe qualità sensibili senza altre; per esempio, non può percepire il colore o la forma senza l' estensione; 2 alcune di queste sono precedenti, e come condizioni rimanendo immutate, ed altre condizionate mutandosi; per esempio, l' estensione è precedente, e il colore che può mutarsi, rimanendo quella immutata, susseguente. Allorquando le cose si vedono così connesse e dipendenti, si prende la prima condizione o qualità, quella che è logicamente anteriore alle altre, e lei si considera come atto primo, e in relazione colle altre, già unita all' essenza, si chiama sostanza. Nei corpi la forza sensibile o sensifera è questo atto primo, senza il quale le altre qualità corporee non si possono sentire. Onde anche nella sfera della realità vi è il suo atto primo; ma questo è un atto ipotetico, perchè relativo alla sensitività stessa, come abbiamo già detto parlando della percezione. Ora quando l' intendimento concepisce l' essenza d' un ente atto ad essere percepito, cioè che ha tutte le condizioni per essere termine della percezione di cui abbiamo parlato, allora coll' astrazione questo ente si spezza e si trova l' atto primo che si chiama sostanza, senza il quale non si può percepire il resto. Ma questo stesso ordine che è nella realità, si riflette nell' essenza ideale, che da questa relazione col reale si attua agli occhi dello spirito nostro e determina; ed è in questa che si conosce. A percepire adunque un reale contingente è necessario: Che non manchi l' essenza, la quale s' intuisce nell' idea, perchè l' essenza è atto primo rispetto alla realizzazione. Che non manchi l' atto primo della realità stessa, perchè senza questo atto la realità non può cadere nel sentimento e acquistare un nome; avvertendosi però che l' atto primo della realità, a cui è condizionato il sentimento, è ipotetico, cioè viene considerato da noi come tale; ed è anche tale, ma solo in relazione al sentito, non in relazione a tutto l' essere. Un' altra proprietà dell' ente è di essere uno. Se non fosse uno, non sarebbe ente; quindi l' uno è necessario che sia sempre nell' oggetto del pensiero, poichè altrimenti non vi sarebbe l' ente; quindi l' ente è sempre un individuo, e non si può pensare l' ente col pensare intero e complesso senza attribuirgli una individualità. Infatti onde l' idea di uno o di unità? Ella è data coll' idea di ente, e dall' ente si cava per via di astrazione (1); senza l' ente niuna idea possibile, coll' ente l' idea di uno è tosto nella mente. Quindi gli Scolastici dissero che l' uno e l' ente si convertono (1); e gli antichi filosofi, massime i Pitagorici, presero l' uno a significare l' ente in astratto, senza determinare in esso altra cosa; e peccarono in questo, che dissero molte cose dell' astratto, che è ente incompleto, le quali non si potevano dire che dell' ente completo. Questo è il vero fonte degli errori del pitagorismo. Gli Scolastici dissero ancora: [...OMISSIS...] . Proposero inoltre la questione: « se la mente poteva intendere più cose insieme », e risposero di sì, ma a condizione che essa le pensi per modum unius , riconoscendo la necessità che l' uno entri sempre nell' oggetto del pensiero. Gli antichissimi filosofi poi, onde trasse Platone, non sapendo trovare nel corpo unità, perchè questa unità la volevano cercare nella materia, cioè nel corpo disunito dal principio senziente, e quindi divisibile all' infinito, senza poter mai venire ad un primo esteso, che avesse l' unità e non la potesse più perdere per ulteriore divisione, negarono al corpo l' essere un ente e il poter essere oggetto di scienza; lo cangiarono così in un fenomeno, che il volgo prende per un ente, ma che la filosofia prende per una larva; insomma caddero nell' idealismo, o per dir meglio posero quei principŒ ontologici, onde poi venne l' idealismo platonico. Ma noi abbiamo trovata l' unità del corpo nella relazione essenziale , che esso ha col principio senziente; e convenendo anche noi che, diviso da questo principio, il sentito ed il sensifero più non si concepisce, dicemmo però che questa necessità che ha di essere in relazione col principio senziente non toglie punto la sua realità; ma dimostra solamente che per sua natura esso deve essere unito al detto principio senziente, del quale riceve la perfetta continuità, e quindi l' unità che gli bisogna per essere ente (1). Dall' essere uno l' ente ne viene: Che egli sia intra sè armonico e consentaneo, escludendo ogni contraddizione o pugna; il che lo rende possibile logicamente, come dicevamo, onde altro non esprime il principio di contraddizione che l' unità e la consentaneità dell' ente seco medesimo. La quale immunità da ogni contraddizione e pugna intrinseca nell' ente fu contemplata dagli antichi, e Parmenide l' espresse in quel verso conservatoci da Clemente Alessandrino: [...OMISSIS...] . Che l' ente sia semplice per modo tale che se gli manca qualche cosa di ciò che lo costituisce ente, egli già per questo solo non è più. Il che pure vide Parmenide, ed è espresso in quel verso riportato da Teodoreto [...OMISSIS...] . Ed è per questo appunto che noi traendo fuori le principali proprietà dell' ente, ne induciamo altrettante condizioni e leggi del pensiero. Ma ciò che non vide il nostro antenato Parmenide si fu che vi è qualche cosa che può dirsi ente in via , quando si stacca dalle sue relazioni essenziali , come abbiamo detto, della materia, ecc.. Che essendo l' ente semplice, egli è immune dallo spazio e dal tempo, e costituisce quello che io chiamo il mondo metafisico ; il che pure vide Parmenide, e l' accennò in quel verso che si trova negli Stromi di Clemente, e che dice: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già veduto che l' istante altro non è che il principio od il termine di ciò che dura (sia poi un ente o atto di un ente). Dunque l' istante non si dà, se non si dà la durata; l' istante non si concepisce se non come il limite di questa, e però in questa; a quella guisa che il punto matematico è il termine di una linea, e però si concepisce solo nella linea e per la linea. Il credere che possa darsi un ente che esista per un solo istante, è un' illusione volgare di quelli che non si sono formati il giusto concetto dell' istante. L' istante non avendo alcuna durata affatto, l' ente supposto sarebbe un ente che nulla affatto durerebbe; e ciò che nulla affatto dura, non è ente. Questa è una rilevantissima verità, osservata dalle scuole italiane della Magna Grecia e dedotta dal principio di cognizione. Vediamo come e a quai litigi essa abbia dato cagione. Parmenide espresse distintamente « il principio di cognizione »in questo verso, conservatoci da Simplicio e da Proclo: [...OMISSIS...] e in quell' altro frammento, conservatoci pure da Simplicio: [...OMISSIS...] Il quale è un principio così evidente, così patentemente consentito dal senso comune che non si poteva impugnare se non da una scolastica corrottissima. Adunque i primi e più celebri nostri filosofi nazionali posero a salda base della loro filosofia il principio di cognizione . Ma quando vennero all' applicazione, scontrarono dei nodi difficilissimi. Intesero che se l' ente è la sola cosa pensabile, conveniva investigare la qualità e le condizioni dell' ente per sapere se una cosa espressa in una proposizione era pensabile o no; il che è quanto dire se ella era o non era, se la proposizione diceva qualche cosa ovvero nulla, se fosse un' apparenza ciò che si credeva di pensare o una verità. Ora, fra le prime proprietà dell' ente ben videro che vi erano queste due, l' unità e la durata; onde conchiusero che ciò che non è uno e che non dura , era nulla, nè poteva essere oggetto del pensiero. Ma restringendoci ora alla durata , avendo dell' uno brevemente parlato più sopra, si trovavano tosto uscire ad una conseguenza ripugnante al senso comune. Perocchè non era ancora stabilito il concetto filosofico del moto, quale noi l' abbiamo dato, e però veniva ammesso, e dal volgo passava senza esame nelle scuole, il concetto volgare di esso, che suppone il moto farsi senza interruzione e per continua mutazione, a cagione che le interruzioni brevissime, che lo rendono intermittente, sfuggono, almeno fino ad ora, ad ogni osservazione sensibile, e però non potevano venire neppure in sospetto al volgo, che si attiene all' apparenza dei sensi, nè tampoco cadeva in sospetto ai filosofi, che non avevano ancora per virtù di riflessione trovato cagione di sospettarne. Solamente più tardi si negò il moto per l' imbarazzo che arrecava ai sistemi filosofici; il che era già qualche cosa, ma non soddisfacente al bisogno, perocchè non bastava a spiegare l' apparenza del moto continuo, che era pure innegabile; onde parve una stravaganza ingegnosa anzichè una verità consentanea alla natura; e Aristotele tolse a confutare gli argomenti dell' acuto Zenone invece d' intendere che essi abbattevano solo la continuità del moto, e ciò indubitabilmente, non il moto stesso secondo il suo vero concetto. Ora questa terribile difficoltà, che « se qualche cosa cangiava continuamente stato, niuno dei suoi stati avendo durata di sorte alcuna, non poteva essere concepita, nè essere ente », fu quella che mise quel perpetuo tumulto fra i pensatori, che scompigliò tutto il campo della filosofia, e non ritornò la pace se non colla morte della filosofia stessa, quando per la barbarie dei tempi le scuole filosofiche ammutolirono. Gli Ionici antichi, limitati allo studio della natura, non levatisi ancora alle regioni metafisiche, ignoravano cotanta difficoltà, onde in luogo di trovar difficile la concezione del moto continuo, anzi supposero che nel moto continuo dovesse consistere la vita e l' intelligenza. Aristotele attribuisce questa rozza sentenza a Talete, e dopo di lui a Diogene, ad Eraclito e ad Alcmeone in questo passo: [...OMISSIS...] . Ma dai primi Ionici ai loro seguaci è da fare gran divario; perocchè i seguenti, per esempio Eraclito, compatriotta di Talete, aveva già udita l' opposizione che al moto continuo facevano i metafisici italiani; onde vedendo da una parte la difficoltà di ammettere che ciò che si muove sia un ente, e non sapendo rinunziare all' opinione ionia che tutto si muova, divenne oscurissimo nei suoi parlari a segno di venire soprannominato «skoteinos». Egli ammise, adunque, che tutte le cose erano nel confine dell' ente e del non ente, si facevano e si disfacevano continuamente, come apparisce da queste due sentenze di lui, conservateci nel libro Delle allegorie d' Omero di Eraclide Pontico; l' una: [...OMISSIS...] : il che sembra voler dire che gli uomini, sciogliendosi nei loro principŒ, si convertono in Dei e così fanno la vita degli Dei, che sono i principŒ, e divenendo uomini, acquistando la vita umana, fanno la morte degli Dei, perchè cessano di essere principŒ. L' altra: [...OMISSIS...] ; il che allude al trascorrimento perpetuo delle cose supposto da questo filosofo ( «rhoe»). Dove si vede manifestamente che il sistema di Hegel, che pone per principio il divenire, fu derivato apertamente dal siamo e non siamo del tenebroso Eraclito. E poichè il siamo e non siamo è una contraddizione, il che ripugna all' ente, riesce necessariamente alla distruzione dell' ente, facendo il nulla origine dell' ente; al quale pazzo ed assurdo sistema, se sistema si vuol nominare, nei tempi nostri non disacconciamente fu posto nome di Nullismo (1). Ora a tutti questi assurdi, che distruggono col pensiero l' universo, come pervenne la mente dei filosofanti? - Partendo da due concetti volgari, da due pregiudizi indegni della filosofia, cioè 1 dall' opinione della continuità del moto; 2 dal sensismo. Infatti è facile vedere ciò che l' esperienza attesta, che tutti i corpi si muovono. Se dunque: 1 tutti i corpi si muovono e niente sta fermo; 2 se questo moto è continuo; 3 se niente si conosce se non pel senso, e quindi non altri enti cadono sotto la nostra percezione e cognizione se non i corpi pel principio del sensismo; dunque tutti gli enti a noi noti sono in continua mutazione, e niuno dei loro stati ha durata alcuna. Dunque non sono , ma continuamente diventano . Ma ciò che diventa , ancora non è; dunque non sono enti nell' universo . Ecco il nullismo hegeliano, che ha il pregio d' una buona logica nel dedurre le conseguenze, e il difetto di una volgarità plebea nel ricevere senza esame i falsi principŒ su cui si appoggia. Ora, che tutto il mondo corporeo sia in movimento è ammesso dai moderni fisici, e a persuadersene non è necessario per avventura di leggere il libro di Boyle contro il riposo assoluto. Ma quello che a me sembra strano si è che quel grande ingegno e infaticabile di Leibnizio abbia potuto ammettere la continuità del moto, senza punto nè poco adombrarsi delle difficoltà invincibili che ella involge, nè pur travedere le pessime conseguenze che ella adduce; il che credo io avvenutogli per quella viva fantasia che gli somministrava sì pronte ipotesi, per vaghezza delle quali e per la foga con cui le abbracciava, trasaltava sovente qualche anello nella serie dei suoi ragionamenti (2). Ma per tornare alle disputazioni degli antichi filosofi, essi navigavano fra due scogli. Il dire che le cose fossero in mutazione continua era sentenza che, sospinta dalla logica invincibile di Parmenide quasi da vento impetuoso, rompevasi allo scoglio di un manifestissimo assurdo, qual era quello che niente esistesse di tutto ciò che così si muoveva, perchè incalzava quel grande dialettico l' avversario con quel principio che ciò che nulla dura non è. All' opposto, il negare il moto, del quale altra idea non si aveva che quella che involgeva l' idea di continuità, e quindi il negare la continua generazione e distruzione degli esseri che cadevano sotto i sensi, era lo stesso che un rompere contro ad un altro scoglio, quello di rinunziare al senso comune, giudice autorevolissimo, se pure non si scambia in quello che non è senso comune, divenendo allora giudice piuttosto crudele che severo, che punisce i suoi refrattari con derisione, infamia implacabile e sovente calunniosa persecuzione, senza forma di legale processo. I primi filosofi di Mileto, adunque, ammisero la mutazione continua, seguitando senza alcun sospetto l' apparenza dei sensi, siccome il volgo. Venne Parmenide, e stabilendo il principio somministratogli dall' idea dell' ente, che « « ciò che non ha alcuna durata non ha esistenza » », sgridò quelli che pigliavano i fenomeni sensibili per altrettante verità, affermando che la ragione sola era quella che conveniva seguire, «krinai de logo», essendo essa la potenza che ha per oggetto il vero: [...OMISSIS...] . Ma per quanto fosse insolubile l' argomento di Parmenide, tuttavia parte perchè egli ne cavava delle strane conseguenze, parte perchè ripugnante ai sensi ed all' opinione della moltitudine, non fu guari seguìto, e si tolse piuttosto a negare ogni vero e a cadere nello scettiscismo e nel nullismo, venendo così la filosofia in mano ai sofisti i più sguaiati, dei quali celeberrimo fu Protagora. Poichè dopo Parmenide, da chi intendeva era impossibile ammettere che ciò che muta sempre, fosse ente; onde non vedendosi coi sensi che cose soggette a continua mutazione, si scelse piuttosto di negare l' esistenza di tutte le cose che di ammettere che il senso s' ingannava, deponendo egli il continuo loro rimutare. Così Socrate presso Platone espone il sistema di Protagora e di molti altri: [...OMISSIS...] (1), [...OMISSIS...] . Il qual luogo di Platone è notabile, perchè da esso si può rilevare: Che Parmenide, stabilita la sentenza che a ciò che esiste spetta l' immobilità e la durata come proprietà essenziali dell' ente, negò la generazione ed il movimento (4). Che egli rimase solo in questa sentenza, eccettuati i pochi suoi primi discepoli (1). Che i seguenti filosofi, non potendo da una parte negare che la durata sia proprietà essenziale dell' ente, e dall' altra non volendo negare la mutazione continua, cioè la generazione e il movimento, perchè non ebbero vigore da elevarsi sopra i sensi e di opporsi al senso comune che l' ammetteva; furono costretti a negare l' ente, cioè a negare che qualche cosa veramente esistesse, e così caddero nel nullismo. Che il negare che qualche cosa esistesse era un urtare contro a quello stesso senso comune, per attenersi al quale credevano alla mutazione continua. Quindi, allorchè Protagora ed i sofisti suoi pari dedussero le estreme conseguenze del loro sistema, furono costretti a celarsi al comune degli uomini. Onde narra Platone, nello stesso Teeteto poche linee innanzi, che Protagora teneva due parlari, e che mentre coi suoi stretti discepoli si dichiarava alla scoperta per scettico e nullista, agli altri dava parole ambigue che nascondessero un assurdo così ributtante (1). Finalmente si raccoglie ancora che Platone fu il primo a tentare espressamente come si poteva ritenere la dottrina di Parmenide circa la necessità della durata perchè qualche cosa sia, senza rinnegare il senso comune circa il movimento continuo, ammettendo delle cose che sono (le idee), ed altre cose che diventano (le cose fluenti, che hanno in sè una continua mutazione). Ma veramente neppure Platone giunse a sciogliere il nodo di questo curiosissimo mistero che alcune cose diventino e non sieno; perchè non giunse a vedere che la continuità della mutazione , che tanto impacciava, era un falso supposto, non essendo ella data per nessuno argomento di ragione, ma ammessa gratuitamente per illusione fenomenale (2). Se poi abbia veduto che il fatto del continuo venga dalla semplicità ed unità del principio senziente, ciò non mi consta. Per altro che Parmenide, nei frammenti che di lui ci rimasero, nulla dica della dottrina delle idee , e che questa perciò sia dovuta a Platone, è facile assicurarsene leggendoli. Di che mi sembra poter anche trarsi non improbabile congettura dal dialogo che Platone inscrisse del nome di quel filosofo, dove è Socrate quegli che per primo introduce l' argomento delle specie od idee, ragionando con Zenone discepolo di Parmenide (1); e quegli ed il maestro suo, al ragionare stringente del giovanetto Socrate, sembrano dimostrar qualche sdegno. I frammenti del poema di Parmenide indicano senza dubbio tre sistemi: 1 il primo di quelli che non ammettono se non l' ente, ed è il sistema eleatico; 2 il secondo di quelli che non ammettono se non il non7ente, cioè le cose sensibili soggiacenti a continua mutazione; e di questa opinione fu gravida la filosofia ionica, e divenne in fine il sistema di Protagora e dei sofisti; 3 il terzo di quelli che ammettono ad un tempo l' ente e il non7ente, e a questa classe appartennero poi Platone, Aristotele e i loro seguaci, che tentarono di conciliare in qualche modo l' eterno ed il generabile. Dei due primi di questi sistemi, come dei principali e più recisi, e soli al suo tempo ben disegnati, parla Parmenide in principio del suo poema: [...OMISSIS...] . Ma egli divide in appresso questa seconda via, il cui carattere è di ammettere il non7ente, nelle due: di quelli cioè che ammettono il solo non7ente negando l' ente, e di quelli che pretendono poter ammettere il non7ente insieme coll' ente; onde dice: [...OMISSIS...] ; così descrivendo il senso comune e volgare, che, ammettendo a un tempo ciò che dura e ciò che non dura, crede ai sensi, e non fa distinzione fra ciò che veramente è, e ciò che essendo di continuo fluente, pare solamente che sia. Ma la dottrina eleatica non viene da un principio solo, ma da due, i quali sono: 1 ciò che continuamente si muta e non dura, non è ente, 2 dal niente non può uscire l' ente. Noi abbiamo parlato fin qui di tutta quella dottrina che il filosofo di Elea dedusse dal primo di questi principŒ, la quale dimostra che il mondo sensibile, perchè continuamente mutabile , come da tutti egualmente si supponeva, era apparenza, non7ente. Dall' altro principio Parmenide dedusse altre proprietà dell' ente, cioè l' esser egli eterno, necessario, il tutto (giacchè fuori di lui non poteva essere cosa alcuna), l' universo , [...OMISSIS...] e insomma tutto il panteismo di Senofane. Dove si vede che cosa Parmenide abbia tolto dal suo maestro, e che aggiunto del suo. La dottrina dedotta dal principio, a nihilo nihil fit , gli venne dirittamente da Senofane. La dottrina della necessaria durata dell' ente pare che fosse sua propria, per quanto ne lice congetturare dai frammenti che ci rimangono di quei due filosofi, e specialmente dal libro di Senofane, Zenone e Gorgia di Aristotele. E invero dal solo principio che l' ente debba durare , cioè non essere in mutazione continua, non si può trarre la conseguenza che vi sia un ente solo , e questo eterno, il tutto, ecc. . Se non che a dimostrare che di fatto esistono più enti, è uopo provare che le cose sensibili abbiano durata; conviene dunque abbattere il pregiudizio sì inveterato della continuità del moto, o in generale della continua mutazione; il che noi abbiamo procurato di fare (1). Finito è ciò di cui si può pensare cosa maggiore. Infinito , assolutamente parlando, è ciò di cui non si può pensare cosa maggiore. Non si deve confondere l' infinito coll' indefinito (2). L' indefinito è ciò che, potendo ricevere aumento successivo sempre maggiore, non ha determinata misura, ma si considera semplicemente come suscettivo di una serie continua di aumenti. Quindi l' indefinito non esprime un ente, ma un' idea astratta; per esempio l' idea generica del numero , che risponde a tutti i numeri, i quali sono sempre aumentabili d' una unità, per quantunque grandi si pensino. Quindi è manifesto che l' ente non può mai essere indefinito , perchè l' astratto (di astrazione propriamente detta) non è un ente, come vedemmo; è una veduta dello spirito, un oggetto della riflessione astraente, che limita l' attenzione ad una qualità dell' ente, e che suppone sempre innanzi di sè nella mente la notizia dell' ente, da cui si astrae e in cui l' astratto si vede. Mi fu opposto che io ammetto per oggetto primo dell' intuizione un essere universale, indeterminato, astratto, l' essere ideale. Mi sono spiegato su di ciò in molti luoghi, e in uno fra gli altri ho detto nel Nuovo Saggio circa l' universalità e l' indeterminazione: « « Non è che vi sia cosa che possa essere universale in sè stessa; ogni cosa in quanto è, è particolare, voglio dire determinata. Un universale adunque non significa se non tale cosa, colla quale sola se ne conoscono molte, anzi un numero indefinitamente grande. L' universalità adunque non è che un rapporto; nè può cadere propriamente in altro che nelle idee, perocchè le idee sono cose, siccome abbiamo veduto, con ciascuna delle quali noi conosciamo un numero indefinito di cose, il qual numero si chiama specie »(1) ». Quanto poi all' astrazione che si vuole da me attribuita all' idea dell' essere, mi sono dichiarato pure nel Nuovo Saggio in questo modo: « « Quando io nel corso di quest' opera chiamo l' idea dell' essere in universale astrattissima , non intendo che sia dalla operazione dell' astrarre prodotta, ma solo che ella sia per sua natura astratta e divisa da tutti gli esseri sussistenti »(2) ». E parendomi un perditempo il recar qui ciò che è già stampato, invocherò piuttosto in generale l' attenzione di quelli che mi onorano di loro censure sopra molti altri luoghi, dove dichiaro i miei pensieri, persuaso siccome sono che utilissimi a me ed al pubblico dovranno tornare i loro giudizi anche severi, se si renderanno più attenti. Invece adunque di addurre altri passi delle opere precedenti, aggiungerò qualche nuova considerazione, o in nuovo modo esposta. Potrebbe mai alcuna mente pensare l' idea astratta del colore, senza conoscere nè aver mai conosciuto alcun colore particolare? Potrebbe pensare il suono in astratto, senza aver mai conosciuto alcuno dei particolari suoni, e così delle altre cose sensibili? Non credo. E ciò, si noti bene, non lo induco solamente dall' esperienza, ma dall' intima natura dell' idea astratta di colore, di suono, di sapore, ecc.. Perocchè, che significa l' astratto colore, l' astratto suono, l' astratto sapore? Non altro che ciò che hanno di comune le sensazioni particolari colorate, sonore, sapide, ecc.. Ora ciò che è comune, semplicemente comune a più cose e non proprio di ciascuna, non si può pensare, se non si riferisce in qualche modo ai particolari in cui si riscontra. Ora avviene forse il medesimo dell' essere in universale? - A primo aspetto pare, perchè è comunissimo a tutti i particolari e i reali; ma se più addentro si considera, la cosa non va così; perchè non è semplicemente comune sicchè escluda il proprio , anzi egli abbraccia, in un modo comune, anche il proprio. Perocchè l' essere ideale è ciò che si realizza non solo nella sostanza delle cose, ma ben anche negli accidenti, non solo in ciò che hanno di generico e di specifico7astratto, ma ben anche in ciò che hanno di specifico7pieno, ossia di proprio; sicchè l' essere ideale abbraccia tutto l' ente e tutto ciò che è nell' ente (benchè non in egual modo), e però non è solamente un elemento comune dell' ente con esclusione del proprio. Dunque l' essere ideale ha natura interamente diversa dagli astratti, che esprimono solo ciò che l' ente ha di generico o di specifico7astratto, ed escludono le differenze. Dunque gli astratti non possono esistere tutti soli dinanzi al pensiero, senza cercare qualche appoggio nelle percezioni o nelle specie piene, che le percezioni lasciano dopo di sè nello spirito, perchè da sè soli non sono idee di enti; all' incontro l' idea dell' ente ha eminentemente e per essenza questo carattere di manifestare l' ente con tutto ciò che egli deve avere in sè per essere tale, benchè parte di questo tutto che deve aver l' ente sia in essa solo virtualmente contenuto. Da questa prima differenza ne viene una seconda, che mostra la somma diversità che passa fra gli astratti propriamente detti e l' essere ideale universale . Gli astratti esprimono tal cosa dell' ente che non ha, nè può avere un atto proprio di esistere; infatti nessun astratto da sè solo preso potrebbe somministrare ad un artista il modello di una statua o il tipo di una dipintura. L' atto dell' essere è fuori dell' astratto, o certo è reso dall' astratto impossibile. Niuno concepirà mai alcun atto proprio di essere nel colore astratto o nel suono astratto, o anche nella sostanza astratta (in esclusione all' accidente); ma all' opposto l' idea dell' essere è appunto quella che manifesta ogni atto di essere, e però al suo oggetto nulla manca per essere dal pensiero intuìto; benchè, come abbiamo osservato, il pensiero non determini nulla dentro a quell' idea di speciale, ma non l' esclude, anzi lo suppone, lo richiede, aspettando di trovarlo quando che sia. Dunque i caratteri dell' essere ideale e i caratteri degli astratti non sono i medesimi, sono anzi del tutto opposti. Quello ha tutto ciò che costituisce l' ente, perchè è appunto l' idea dell' ente, e però può essere concepito da sè solo; a questi mancano più cose necessarie all' ente a cui si riferiscono, cose che escludono; quindi non possono essere da sè soli oggetto del pensiero complesso, ma solo del parziale, della riflessione astraente. E qui si vede quale parte di vero e quale di falso contenga quella dottrina di Stewart e di altri nominali, i quali sostengono che gli astratti non sieno che vocaboli , di cui si serve la mente per andare, a suo piacimento, dall' una all' altra idea particolare; al che spiegare adducono l' uso che fanno gli algebristi delle lettere dell' alfabeto per condurre i loro calcoli. Questi filosofi errano: In non conoscere che l' idea è per essenza universale , benchè manifesti l' ente con tutte affatto le sue condizioni e qualità anche accidentali, e che particolare non si può denominare, se non in quanto si considera nella percezione legata con essa; il che è condizione estrinseca all' idea e relativa allo spirito che così la lega. Benchè però l' idea sia di natura sua universale , ella non è di natura sua astratta , perchè può manifestare ogni cosa possibile a cadere in un ente; quindi l' essere ideale, o un essere ideale non astratto, è pensabile senza bisogno di pensare alcun essere sussistente . A pensare un essere ideale non astratto, un' idea piena , non vi è bisogno di segni, ma è necessario o che sia data allo spirito per natura, o che lo spirito la cavi dalla percezione; al che i vocaboli non sono punto necessari (1). Le idee astratte non si possono pensare dalla mente, se nella mente stessa mancano del tutto le idee7piene , a cui quelle si riferiscono; ma è però sufficiente che queste idee7piene sieno nella mente senza attenzione da parte dello spirito; che anzi l' astrarre non è altro, come vedemmo, se non un concentrare e limitare l' attenzione della mente a qualche qualità che si trova nelle idee7piene, rivocando l' attenzione da tutto il resto che nell' idea piena si contiene. Perocchè l' esistenza delle idee o di parte di esse nella mente, senza che questa dia loro attenzione, è un fatto psicologico indubitabile e di somma importanza. Sono cotali idee di continuo intuìte, ma senza avvertenza, o senza avvertenza diretta più ad una che all' altra; e però l' uomo può passare quando vuole dall' idea astratta ad avvertire le idee piene a cui si riferisce, con più o meno di facilità (2). Ora questa è la parte di vero veduto o traveduto dai nominali, di cui parliamo; da questo fatto però, che l' astratto non si può pensare nella mente senza l' idea7piena (confusa da essi coll' idea particolare), indussero falsamente che dunque l' astratto fosse nulla nella mente, e solo un segno fuori della mente. Al che li condusse anche questo: Altra è la questione « che cosa si richieda acciocchè un' idea si possa pensare , sia pensabile », e altra la questione « che cosa si chieda acciocchè l' uomo se la possa formare , venga al fatto di formarsela, di pensarla ». Acciocchè l' astratto sia pensabile, basta che nella mente ci sieno le idee7piene, a cui egli si riferisce e onde lo si toglie. Ma acciocchè lo spirito muova a questo suo atto, si richiede un oggetto, un termine o un motivo che lo spinga a ciò, perchè l' attività dello spirito è sempre suscitata dal termine. E poichè l' astratto come astratto non esiste, quindi non può tirare lo spirito a sè. Ma se è legato ad un segno sensibile, può stimolare e attirare a sè l' attenzione della mente. E quindi fu da noi provata l' utilità del linguaggio, o per dir meglio, di segni per la formazione degli astratti; utilità che in altro non consiste se non nell' offerire dinanzi allo spirito uno stimolo e termine che lo muova a concentrare e fissare l' attenzione, nel modo che abbiamo più estesamente esposto nel Nuovo Saggio , e che più innanzi di nuovo sottoporremo ad esame (1). Ora anche questo fatto, non bene osservato dai nominali, li trasviò; perocchè dall' utilità del linguaggio alla formazione degli astratti, conchiusero che essi erano nulla in sè stessi, e però nè possibili a formarsi, nè pensabili senza i segni del linguaggio. Finalmente l' esempio che adducono a conferma di loro dottrina, cioè l' uso che l' algebrista fa delle lettere dell' alfabeto, lungi dal provare per loro, prova il contrario di quello che vogliono. E di vero, altro è ciò che le lettere dell' alfabeto segnano per l' algebrista, altro quel vero che egli vuol ritrovare col loro uso. I segni algebrici segnano delle quantità astratte, egli è vero (e la quantità discreta, fosse anche determinata, è sempre un astratto); ma l' algebrista non li adopera già al fine di segnare semplicemente tali quantità, ma a discoprirne le loro relazioni. Infatti quando scrive a .più . b e d .meno . c , che cosa intende egli di fare? Egli vuole esprimere nel primo caso la relazione di addizione che corre fra due quantità qualunque (astratte e indeterminate), segnate dalle due lettere a e b , e nel secondo caso la relazione di sottrazione che corre fra due quantità qualunque, segnate dalle due lettere d e c . Ora quando egli, facendo un' equazione fra quelle due funzioni, discopre che a .uguale . d .meno . c .meno . b , cioè che il valore a è uguale al valore d meno la somma di c e di b , facendo, dico, questa operazione, la sua mente pose attenzione alla relazione di eguaglianza fra quelle due funzioni, e in conseguenza di questa attenzione le unì col segno di eguaglianza; poi pose attenzione alla conseguenza che ne nasceva, e questa conseguenza fu la scoperta del valore di a rispetto alle altre tre lettere. Se dunque l' algebrista condusse il suo calcolo ponendo attenzione a quella relazione, e, avvertita questa relazione, unì quelle lettere con vari segni, è evidente che la mente pensò alla detta relazione e ai conseguenti prima di averne posti i segni in carta, e pose questi segni esprimenti le dette relazioni dopo averle pensate. Dunque pensò queste relazioni senza i loro segni, ed i segni vennero dopo in conseguenza delle relazioni già pensate dalla mente. Ma le relazioni sono esse stesse astrazioni, sono astrazioni via più elevate di quelle semplici quantità fra cui le relazioni corrono. Dunque l' uso dei segni algebrici dimostra manifestamente che gli astratti sono pensabili per sè stessi senza bisogno dei segni, e che quell' uso sarebbe impossibile, se la mente non pensasse gli astratti effettivamente senza di essi. L' uso adunque dei segni algebrici suppone che la mente sia già venuta in possesso degli astratti, e di astratti molto elevati, e non ispiega punto come ella se li abbia formati; molto meno scioglie la questione « che cosa si ricerchi affinchè sieno pensabili ». Essi solamente aiutano la mente a tener presente all' attenzione la serie delle relazioni, che facilmente svanirebbe per la sua lunghezza e molteplicità. Non può dunque l' ente essere indefinito, e però l' indefinito, non avendo tutto ciò che si richiede ad esser ente, non può da sè solo essere oggetto al pensiero. Ma sebbene l' ente non possa essere mai indefinito (1), tuttavia egli può essere finito o infinito. Ora, ciò che vogliamo con questa legge attentamente osservato si è che la finitezza o l' infinitezza è qualità ontologica, cioè così propria dell' ente che non si può da esso distaccare senza che se ne perda l' identità. Quindi se un ente è finito, per quantunque si accresca o moltiplichi, non cangerà mai la sua natura, rimarrà sempre finito. Viceversa, se un ente è infinito, non si potrà dividere in modo da rendersi giammai finito. E se nell' infinito si potrà colla mente distinguere più cose, converrà che ognuna di esse rimanga infinita e comprenda, con avvertenza o senza, virtualmente o in atto, tutte le altre, altrimenti non si pensa più quell' ente. Quindi un' altra conseguenza: se si pensa l' infinito, conviene pensarlo tutto o niente. E tuttavia si potrà pensare in un modo limitato , ma la limitazione deve rimanere nel modo con cui si pensa, non nell' oggetto del pensiero; e la limitazione consiste solamente nel modo del pensiero, quando il soggetto, che pensa un ente infinito, sa di non pensarlo totalmente, cioè sa che oltre quello che egli ne abbraccia, la natura di lui si estende via oltre senza confine alcuno nè misura, sa che ciò che pensa contiene tutto, benchè non apparisca al veggente che implicitamente, virtualmente; il che appartiene al modo del suo conoscere. Così chi ha poca vista, non vedrà un uomo così perfettamente come lo vede chi l' ha eccellente, e nondimeno entrambi vedranno tutto l' uomo. A chiarir meglio la cosa si consideri che il pensiero ha per oggetto: 1 l' ente ideale, e questo, come vedemmo, non ammette misura; 2 l' ente reale, il quale ammette misura. Due questioni adunque: Come si può pensare l' ente ideale infinito? - Risposta: a quel modo che il fatto dimostra che lo si pensa. Il raziocinio poi di colui che osserva l' essere ideale, tosto s' accorge esser egli così semplice nella sua infinità che non ammette in sè stesso alcuna divisione o separazione, e quindi la questione che si propone neppure è possibile; e piuttosto dovrebbe farsi quest' altra: « Come è che non si può pensare l' ente ideale se non a condizione di pensarlo infinito? ». A cui si risponderebbe come sopra: perchè è semplicissimo ed uno. Come si può pensare l' ente reale infinito? - Risposta: il reale infinito è lo stesso ente, che si vede nell' idea sotto la forma di realità. Ora per la stessa ragione che si vede l' ideale, benchè infinito, per quella stessa non è assurdo che si possa vedere il reale infinito, perchè è quell' uno semplicissimo che nell' ideale s' intuisce. Ma quantunque tali risposte sieno sufficienti a chi ne intende il fondo, tuttavia non crediamo inutile dar loro una più ampia esposizione. Perocchè le percezioni che più chiamano a sè l' attenzione sono quelle dei corpi e delle altre cose contingenti; ond' è che l' uomo suol ragionare della percezione del reale sull' esempio di quelle, quasi non vi potesse essere altra maniera di percepire; e pur coll' esempio di esse non si spiegherà mai la percezione dell' infinito, che appartiene ad un ordine soprannaturale; questo è ciò che rende difficile intendere la possibilità della percezione di un tal essere. I corpi si percepiscono per una vera azione che esercitano in noi; indi ciò che pensiamo nel concetto dei corpi si è un misto di soggettivo e di extra7soggettivo . Questo ente corporeo, che si compone parte del nostro stesso sentimento e parte di un agente in esso, non è oggetto del pensiero per sè, ma è pensato nell' oggetto; l' oggetto dunque è straniero, ma la mente lo unisce qual mezzo necessario al conoscimento. Se consideriamo la percezione di noi stessi in quanto siamo sentimento sostanziale, di nuovo ciò che pensiamo in tale percezione è il mero soggetto , il quale viene da noi oggettivato per la necessità del percepirlo. Quindi essendo il soggetto finito, tutto ciò che si conosce, conoscendo lui, o conoscendo le sue modificazioni, o conoscendo l' agente che lo modifica, non può essere che finito; perchè il finito non può sentire in sè che un' azione modificatrice finita, come finita deve essere la modificazione prodotta. Di più, essendo il soggetto percipiente, cioè noi stessi, molteplice, tutto ciò che si percepisce come passione o modificazione di ciò che è molteplice, e come agente immediato o causa immediata di tale modificazione, non può percepirsi come del tutto uno e semplice, ma con qualche moltiplicità; giacchè dove vi è confine, già per questo solo vi è moltiplicità. L' infinito adunque, a cui spetta la somma unità e semplicità, non si può percepire a questo modo, cioè come una modificazione di noi stessi o come la forza che immediatamente la produce (1). Se vi fosse dunque soltanto questa maniera di percezione, la percezione dell' infinito sarebbe inesplicabile; ma ve ne è bene un' altra. L' infinito ente è essenzialmente oggetto; dunque nella percezione dell' infinito niente può cadere di soggettivo. Ora l' essere oggetto vuol dire che egli si conosce distinguendolo e separandolo da noi, e contrapponendolo a noi. Non trattasi qui di passione , che l' infinito produca sull' oggetto, non trattasi di percepirlo come agente; trattasi di percepirlo semplicemente come ente; se egli è causa di atti transeunti, questi non si possono confondere con lui, sono fuori di lui, non ne costituiscono punto il concetto. L' oggetto dunque non si confonde col soggetto, ma s' intuisce e percepisce in sè stesso, e però egli dal soggetto non può ricevere alcun confine, nè alcuna moltiplicità in sè stesso (1). Se dunque il soggetto nel percepire l' oggetto non lo riceve in sè stesso come un agente, ma solo lo vede da sè distinto, egli non ha bisogno per percepirlo di dargli la propria misura, come accadrebbe, poniamo, nel contatto che la parte toccante è commisurata dalla parte toccata, nè di attribuirgli nulla della propria limitazione; e così è tolta via la difficoltà, è tolta la ripugnanza che un ente finito ne percepisca uno infinito (già s' intende nell' ordine soprannaturale), cadendo affatto il principio di Protagora che « « l' uomo sia la misura di tutte le cose » » (2). Si dirà che questa maniera di percepire oggettivamente è misteriosa. - Sì certo, ed all' uomo appare misteriosa, perchè non ne ha esempio in tutte le percezioni delle cose finite, onde l' uomo toglie arbitrariamente la legge della percezione. Ma non è per questo meno un fatto innegabile, un fatto di cui abbiamo esempio in natura nell' intuizione dell' essere ideale; e il fatto si deve ammettere, anche allorquando appare misterioso all' abitudine nostra di ragionare diversamente; perocchè finalmente niente vi è in esso di ripugnante alla mente, ma solo di contrario, come dicevo, all' abitudine ragionatrice; anzi, la mente contemplativa, che si solleva sopra tali abitudini, le quali limitano la sfera del ragionamento, viene ad intendere che quel fatto è evidente, e così necessario che senza di esso nessuna affatto delle operazioni della mente potrebbe ricevere spiegazione; ogni pensiero di qualsiasi classe rimarrebbe impossibile. Vero è che dalla percezione dell' infinito il soggetto deriva poscia in sè stesso un sentimento di giubilo e di felicità, che è così proprio che non si può confondere con altri sentimenti; e fa intendere la sua fonte infinita. Ma questo sentimento è un effetto della percezione oggettiva; benchè strettamente unito con lei, non è lei, e con lei non si può mai confondere. Il qual sentimento è finito; ma posciachè è indivisibile dalla percezione oggettiva, perciò pare che sia infinito anch' esso, in quanto che nell' unità dell' uomo la percezione oggettiva è così congiunta con esso che ne forma, siccome a dire, il compimento e la sommità. Onde presa la percezione oggettiva in unione col sentimento, che nel soggetto ella produce, presa tutta assieme questa comunicazione dell' infinito al finito, se ne ha che la cognizione dell' infinito riesce da una parte infinita, dall' altra finita. Ella è infinita quanto all' oggetto intuìto e percepito, ed è finita quanto al sentimento di lei prodotto nel soggetto. Ed anche per questa ragione si può dire assai giustamente che dai celesti comprensori Iddio si percepisce tutto e non totalmente; in quanto che l' oggetto è tutto Iddio, ma il sentimento, prodotto da quell' oggetto nei comprensori, non è tutta l' azione che Iddio potrebbe far sentire. Si percepisce adunque Iddio tutto come ente , non si percepisce totalmente come agente . Ma noi dobbiamo dichiarare come Iddio possa essere agente in quelle creature intelligenti, che lo percepiscono. Il concetto di Dio, come agente nei soggetti che lo percepiscono, si può falsare in due modi: l' uno, facendo che Iddio non agisca nulla e agisca il soggetto solamente, derivando dall' oggetto infinito della propria percezione il sentimento gaudioso che lo felicita; l' altro, facendo che Iddio agisca nel soggetto in un modo soggettivo, al modo come gli enti finiti fanno nell' uomo, semplicemente modificandolo. Fra questi due partiti erronei ve ne è uno di mezzo, che è il vero. Stabilito adunque che Iddio percepito sommamente agisce in chi lo percepisce, e che Iddio non agisce modificando immediatamente il soggetto, quale è questo modo di agire nel soggetto finito proprio di Dio solo, che non istà nel produrre una semplice modificazione o passione? Si noti che, quando diciamo modificazione o passione semplice , noi veniamo a dire che la sostanza del soggetto non viene cangiata, nè aumentata, e molto meno prodotta; ella è quella di prima, nella stessa quantità; solo che è in un modo nuovo; ovvero (e questo esprime ancor meglio il concetto che vogliamo) l' agente, che lo modifica semplicemente, non la produce, ma la suppone prodotta e capace di ricevere in sè la sua azione. All' incontro, l' operare divino si fa sempre per via di una cotale creazione (1), con un atto cioè che pone l' ente col suo quale e quanto, e non suppone già l' agente sussistente in cui operi. La ragione di ciò si è che Iddio è causa di tutto l' ente, e facendo Iddio ogni cosa con un atto solo e semplicissimo, forza è che con quell' atto stesso con cui pone la sostanza, ponga anche gli accidenti di lei, qualunque durata essi abbiano, e non produca gli accidenti con un atto diverso. Ciò ripugnerebbe non solo all' unicità e semplicità dell' atto col quale Iddio fa tutto quello che fa, ma ripugnerebbe ancora alla somma semplicità della sua sostanza (1); perocché la sostanza di Dio e la sua azione sono il medesimo, laddove nelle creature altro è la sostanza, altro gli atti della sostanza. Infatti noi vedemmo che nelle sostanze create possono cadere atti transeunti, laddove Iddio può essere causa di atti transeunti, ma questi non possono mai cadere in lui, sì bene da lui debbono restare distinti. Essendo adunque nelle creature create distinte le attività dalla sostanza , accade che l' una agendo nell' altra, entri nell' altra solamente coll' attività sua, ma non colla sostanza; e che l' attività di una non possa modificare che la sola attività dell' altra, e non mai produrre la stessa sostanza. Se dunque Iddio fosse agente immediato nelle sostanze, e così modificasse le loro attività senza creare le sostanze stesse, ma presupponendole esistenti; in tal caso l' attività di Dio entrerebbe nelle sostanze contingenti, e non la sostanza divina, poichè ciò che è passivo e modificato non riceve mai la sostanza, ma l' attività sola di ciò che è attivo e modificante; e così vi sarebbe in Dio una divisione reale fra il suo operare ed il suo essere, il che è assurdo. Dunque Iddio non può agire che per via di creazione, cioè creando il tutto dell' ente contingente in ogni momento, creando l' ente con tutte le sue modificazioni, perocchè sarebbe assurdo egualmente il dire che Iddio entrasse colla sua sostanza in un ente che non è ancora. Dunque la sostanza stessa non può essere mai ricevuta in un ente come paziente. Le quali cose tutte premesse, non sarà più difficile intendere come Iddio percepito possa agire, e agire sommamente in chi lo percepisce. Perocchè in questo fatto avvengono due cose: Il soggetto intelligente, a cui è data la percezione di Dio, e quindi possiede Iddio come oggetto del suo intelletto, può colla propria attività stringersi a lui, e goderlo con quanto ha di forza per via di amorosa contemplazione. Nello stesso tempo queste forze, colle quali egli fruisce di Dio, gli sono date a misura da Dio stesso come suo Creatore, cioè come quella causa che lo produce totalmente con tutti quegli atti ch' egli fa di fruizione. Quindi il godimento è limitato, perchè è un atto del soggetto (il quale atto però è creato da Dio col soggetto), ma l' oggetto del godimento è infinito. In questo senso è che Iddio si percepisce tutto , e non può percepirsi altrimenti che tutto, perchè indivisibile; e nondimeno non può percepirsi totalmente rispetto al bene che se ne deriva dal soggetto, perchè la natura del soggetto, e le forze di questa natura, e gli atti di queste forze sono limitati. Ma di qui medesimamente avviene che ciò che si gode di Dio, è sempre Dio, perchè si gode tutto Dio. Per la limitazione adunque dell' atto, con cui un soggetto intelligente aderisce a Dio, accade che sembra che si divida Iddio; giacchè diversi oggetti, dotati di diversa misura di forze, ne godono diversamente. E tuttavia tutti godono dell' infinito; ed è in questo senso che dicevamo che « l' essere infinito o finito appartiene all' ente, all' oggetto del pensiero »e non si può mai cangiare l' uno nell' altro; quantunque, godendosi l' infinito più o meno, sembra dividersi, impicciolirsi o ingrandirsi nel nostro concepimento, quando questo piglia a misura la relazione dell' ente infinito colla sua fruizione. Ma questa cotal maniera d' impicciolimento relativo non toglie mai da lui l' infinità; la quale se cessasse, incontanente l' ente oggetto della mente sarebbe un altro. Con questo si spiega ancora come Iddio si può concepire, sempre in un modo negativo o virtuale, sotto vari concetti della sapienza sussistente, della bontà e santità sussistente, ecc., perchè in ciascuno di essi vi è egualmente l' infinito. La moltiplicità dei concetti (toltine quelli delle persone) nasce tutta dal soggetto, e dalla diversa e molteplice esperienza che egli ne prende, perchè egli stesso è limitato e molteplice. Ma poichè la percezione di Dio appartiene all' ordine soprannaturale, qui si presenta la questione se questa moltiplicità di concetti, sotto i quali l' uomo può pensare lo stesso Dio, debba al tutto cessare nella beata visione. Alla quale questione, non poco difficile, ci sembra di potere rispondere quanto segue. In prima si ritenga che se colla mente si divide dall' oggetto del pensiero qualche cosa che è a Dio essenziale, quell' oggetto non è più Dio. Ora a Dio è essenziale che la sussistenza e l' essenza sieno la medesima cosa, il medesimo essere semplicissimo. L' essenza dunque dell' essere, separata dalla sussistenza , non è Dio. Il perchè, non intuendo l' uomo per natura che l' essenza dell' essere, l' essere ideale e non la sua reale sussistenza, quell' essenza non si può dire l' essenza di Dio; e però l' uomo per natura non intuisce Iddio; il qual vero egualmente è provato dall' esperienza, dalla ragione e dalla fede cristiana. E di vero per accertarsi che non vi sia per natura nell' intelletto umano la divina sussistenza, che vi sia una pura idea dell' essere, basta che l' uomo rifletta sopra sè stesso. Una gran parte degli uomini non solo non troveranno di avere per oggetto naturale del loro intendimento la sussistenza stessa dell' essere, ma non sapranno neppure osservarne in sè stessi l' essenza . Se avessero la sussistenza divina per oggetto del loro pensiero, ella è tal cosa e sì preziosa che niuno l' ignorerebbe. D' altra parte la ragione prova che il supporre ciò non è necessario a spiegare nessuna delle operazioni dello spirito umano; di più, che intuendo Iddio ognuno potrebbe esser beato a sua voglia, avendo con ciò in sua mano il fonte della beatitudine; ciò che non s' avvera. Finalmente il dire che l' uomo vede Dio per natura è un errore manifesto contro la fede cristiana , che riserba la visione di Dio ai celesti. Se dunque all' uomo quaggiù non è dato di vedere l' identità fra l' essenza e la sussistenza dell' essere, e perciò non gli è dato di vedere Iddio, forza è ch' egli acquisti la cognizione dell' Essere supremo per via di ragionamento e non d' immediata intuizione. Ora il ragionamento lo conduce a conoscere che Iddio è, ma non il modo come egli è, che nella sua sussistenza si nasconde (1). Nella visione beatifica all' incontro, percependosi la sussistenza dell' essere, si vedrà il nesso d' identità fra questa sussistenza e l' essenza dell' essere stesso, il qual nesso rivela Iddio; e però lo si vedrà sicuti est , cessando l' imperfezione del ragionamento, et scientia destruetur . Ma qualora poi si voglia indagare per via di ragionamento « se questa sussistenza divina ci apparirà scevra da tutte le relazioni colle creature », è da dirsi anzi, pare a noi, che si vedrà nella relazione creatrice che ella ha colle creature e non altrimenti; e in questa relazione si contempleranno le infinite sue perfezioni, come abbiamo altrove dichiarato (2). Ora, poichè la relazione di Dio colle creature è molteplice, non da parte di Dio, ma delle creature che sono pur molte, perciò appariranno molteplici le perfezioni divine, ma in modo diverso da quello che ci appariscono ora quaggiù. Perocchè noi ora non sappiamo raggiungere le perfezioni divine al loro semplicissimo fonte, in cui l' una coll' altra e tutte coll' essere stesso s' identificano; ed allora sapremo. Vedremo adunque che quelle perfezioni divine, che nelle creature appaiono ed appariranno anche allora moltiplicate, altro in Dio non saranno che il suo essere stesso semplicissimo; il che ora vediamo dover essere, ma il come ci è un mistero, perchè nessuno esempio di ciò troviamo nella natura. Sicchè con diversi concetti potremo anche allora esprimere a noi stessi l' essere divino; ma in ciascuno di essi vedremo lo stesso essere, e però quella molteplicità non ci porrà impedimento di sorte a vedere Iddio siccome egli è, perchè ad un tempo vedremo e come in molte relazioni la perfezione divina si espanda, e come in tutte sia una sola ed identica, primordiale ed essenziale perfezione. Di più, noi al presente quando pensiamo ad una perfezione, per esempio alla sapienza, la vediamo limitata, e solo ragionando per quella via che i teologi dicono di eminenza, intendiamo che in Dio ella deve essere illimitata; onde dicevamo che, quando pensiamo Iddio come la sapienza sussistente, ecc., quel nostro concetto che ci formiamo di Dio, è virtuale e non attuale. Allora non indurremo questa necessità per ragionamento, ma vedremo immediatamente che la cosa è così, la vedremo come un fatto, perchè vedremo la sapienza stessa infinita e necessariamente infinita; e però molto più intenderemo immediatamente come ella possa essere tale. Se dunque la perfezione divina ci apparirà allora così una come è il punto centrale di un circolo, identico in sè, e pure principio e termine di tutti i raggi; è chiaro che ognuna delle perfezioni divine basterà allora a farci conoscere tutto Iddio, come quel termine o principio di uno solo dei raggi basta farci conoscere il centro del circolo; e però in ognuna di esse vedremo sempre lo stesso infinito. Così l' ente infinito, benchè sembri dividersi pei suoi vari rispetti sotto cui si considera, non cessa mai di essere ente infinito; così l' infinità è condizione appartenente all' ente stesso infinito, come la finitezza all' ente finito. E però vale la legge del pensiero da noi proposta. Tali sono le principali leggi ontologiche, che segue il principio razionale nelle sue operazioni. Ora dobbiamo passare a quelle che presiedono all' operare della ragione pratica. La ragione, che noi chiamiamo pratica, non è già la ragione in quanto determina ciò che s' abbia a fare o sia conveniente; questa è ancora speculativa. La ragione pratica è il principio razionale7operante (1); ora a questo principio razionale operante sono imposte le leggi ontologiche, di cui parliamo. Quali sono queste leggi? Esse debbono essere necessariamente quelle stesse della ragione teoretica, perchè questa è la ragione nei primi suoi atti, di cui gli atti susseguenti appartengono alla ragione pratica; onde tali leggi non possono mancar mai senza mancar la ragione. Essendo dunque la ragione pratica anch' essa ragione , non essendovi che uno stesso principio razionale che, in quanto conosce dicesi teoretico, in quanto opera dicesi pratico (2), è evidente che le stesse leggi, che hanno vigore nella speculazione, debbono aver vigore nell' operazione, giacchè quelle leggi nascono dalla natura del principio comune. La ragione teoretica è ella stessa che diventa pratica, quando opera; ella opera come ragione, cioè come conoscitrice; perciò le leggi del suo conoscere debbono essere le leggi del suo operare. Queste leggi sono dunque naturali alla ragione, come le leggi della comunicazione del moto sono naturali ai corpi. Ma qui insorge una difficoltà. La natura sensitiva ed anche la natura meramente sensibile ubbidiscono sempre alle loro leggi; perchè la ragione le infrange? E di vero la ragione le infrange, sia quando cade nell' errore , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è teoretica, sia quando cade nel peccato , col quale rimangono violate le leggi della ragione in quanto è pratica. Il rispondere semplicemente che ella è libera e perciò può infrangerle, non soddisfa alla difficoltà, perchè non fa che annunziare il fatto che sembra contraddire al concetto della legge; e la difficoltà proposta appunto richiede che si tolga via questa contraddizione, richiede che si dimostri che esistono leggi veramente naturali, le quali possano rimanere tuttavia violate, laddove la condizione di legge naturale sembra esigere che non possa esser violata giammai. La soluzione della difficoltà si trova, quando si osserva che nelle operazioni del principio razionale intervengono agenti stranieri, soggetti ad altre leggi diverse da quelle della ragione; onde la violazione delle leggi di questa accade per collidersi di varie leggi di diversa indole; il che anche è ciò che spiega il mirabile fatto della libertà umana. Noi ne abbiamo parlato (3); ritorniamoci sopra dopo avere annunciata la legge suprema della ragione pratica. Dobbiamo dimostrare che il principio di cognizione, che costituisce la legge suprema secondo cui opera la ragione teoretica, presta pure alla ragione pratica la legge suprema secondo cui deve operare; di maniera che, se la ragione teoretica ha questa legge: « l' ente è l' oggetto del conoscere », la ragione pratica ha quest' altra: « l' ente deve essere l' oggetto del conoscere pratico ». Si dice che la ragione teoretica opera secondo il principio di cognizione, perchè ella o non opera al tutto, o è necessitata, se opera, a seguitarlo, giacchè gli errori stessi, come vedemmo, si debbono attribuire alla ragione pratica. Si dice all' incontro che la ragione pratica deve operare secondo lo stesso principio, perchè l' operazione di questa può essere in due modi, o conforme alla sua legge o difforme; se è conforme, ella è retta; se difforme, torta. Questo è appunto quello che dicevamo aver bisogno di chiarimento; ci si conceda di premettere alcune nozioni. L' ente insensitivo non è soggetto di male o di bene. Egli opera secondo le necessarie sue leggi, e però è sempre ordinato; solo l' uomo, che esige da lui altro da quel che fa, gli appone per una cotale illusione arcana il male ed il bene. Il che avviene perchè l' uomo lo lega alle sue idee, a cui pure non è legato. « Questo - dice - deve essere una pera; ed ecco ella è rosa dai vermini; dunque è mala ». Sì, se fosse vero che dovesse essere una pera perfetta ed avere ciò che si contiene nell' idea di pera; ma questo debito non c' è nella pera; misuratela coll' idea specifica piena , e la troverete quale deve essere; il misurarla coll' idea astratta è considerare una relazione di quell' oggetto, che non entra a costituire l' ordine intrinseco di lui, ma l' ordine ipotetico ed estrinseco con una idea che gli si impone (1). La materia insomma, qualunque figura s' abbia, non è soggetto , perchè il soggetto è sempre un ente principio , e il concetto di materia è quello unicamente di ente termine . L' ente sensitivo e il razionale, all' incontro, è soggetto di male e di bene. Il bene dell' uno e dell' altro consiste in un' attività, a cui si riduce anche il loro male; perchè ciascuno può avere un' attività conforme alla sua essenza o difforme da essa; nel primo caso trovasi in buono, nel secondo in malo stato. L' essenza del principio senziente vuole che l' attività sua si possa spiegare senza trovare ostacoli da parte del suo termine; se trova ostacoli, nasce il dolore, che è il suo male. Il simile accade nel principio razionale; egli ha un' attività che, secondo l' intento e il conato della sua essenza, vuole spiegarsi in un dato modo; se per qualsivoglia cagione quell' attività non si spiega così, ma in un modo diverso, vi è il disordine; il principio razionale soffre, perchè non può non sentire il proprio disordine, essendo tutto sentimento. Ma se fin qui lo stato buono o tristo del principio sensitivo e del razionale si può raccogliere sotto una stessa formula, ben presto si manifesta l' infinita differenza che passa fra il bene ed il male del principio sensitivo e del razionale. Questo è ciò che dobbiamo dichiarare. La differenza fra il bene ed il male dell' uno dei due principŒ, e il bene ed il male dell' altro, nasce dalla differenza che hanno i loro termini; perocchè sono i termini che suscitano le attività e ne determinano la natura; il bene ed il male d' un ente, suscettivo di bene e di male, giace, come dicevamo, nel diverso modo secondo cui è disposta l' attività sua propria. Ora il termine dell' attività sensitiva è l' esteso materiale e le passioni di esso; il termine poi del principio razionale è l' ente . Quindi l' attività sensitiva è la sede del bene dell' ente sensitivo, che vi è quando può estendere nell' esteso le sue passioni a misura del proprio istinto; l' attività razionale poi è sede del bene del principio razionale, quando aderisce, senza contrasto e lotta, all' ente termine suo. Di qui la prima legge della ragione: « aderisci all' ente ». Infatti il principio razionale non può cessar mai di essere razionale, e però non può cessare di avere per suo termine l' ente. Dunque se il principio razionale ha un' attività propria, anche questa deve avere per termine l' ente. Ma il principio razionale ha veramente una sua propria attività, e non è meramente ricettivo. Dunque la legge di quest' attività gli deve venire dall' ente, secondo il principio che ogni soggetto suscettivo di bene e di male ha il bene, quando aderisce perfettamente al suo termine, ed ha il male, quando non aderisce al suo termine in quel modo che la sua essenza esige. Il principio razionale adunque, tanto allorchè è meramente ricettivo e prende il nome di ragione teoretica , quanto allorchè è attivo e prende il nome di ragione pratica , essendo lo stesso principio, non può avere che lo stesso termine onde deve ricevere le leggi dell' operare. Ma in quanto è ricettivo, il principio razionale non facendo che ricevere al modo suo proprio, quale è quello dell' intuizione, non dipende da sè l' unione col termine, appunto perchè riceve e non fa; ma dipende dal termine stesso, dall' ente che gli è dato ad intuire. Onde la sua costituzione è fissata e determinata da una necessità a lui straniera; da quella necessità che lo costituisce quello che è. All' incontro, in quanto è attivo, il principio razionale pone da sè il suo atto; se lo fa, è egli che lo fa; se non lo fa, è egli che non lo fa; egli stesso ne è la causa. La necessità dunque di questo atto non può mai essere tale, quale è la necessità della ricettività dell' ente; perocchè quand' anche l' attività del principio razionale non si spiegasse alla sua propria e retta azione, tuttavia il principio razionale sarebbe; all' incontro questo principio non sarebbe, se egli non ricevesse l' ente. Vi è dunque questa prima differenza fra il principio razionale in quanto è teoretico e in quanto è pratico, che l' atto primo teoretico è necessario alla costituzione di esso, e niun atto pratico è necessario alla sua costituzione . Vero è che questo solo fatto basterebbe, come accennavamo di sopra, a dare piena ragione del perchè un principio possa deviare dalla sua propria legge naturale . Ma la compiuta spiegazione si trova esaminando che sia la libertà morale, come questa potenza si costituisca, come risulti dal contrasto di agenti categoricamente opposti che si collidono; cose tutte da noi già svolte, e che dobbiamo credere note al lettore. Rimane dunque a vedere che cosa sia quell' attività del principio razionale, rimane a trovarne la propria natura, perocchè la parola attività è comune a tutti gli enti. Si deve dunque in prima differenziare l' attività del principio razionale da tutte le altre attività, e poi distinguerla dall' attività ricettiva e primordiale della ragione teoretica. Trattandosi di un principio razionale, ella non può essere che attività razionale; deve dunque essere una maniera di conoscere. Ma il primo conoscere è quello della ragione teoretica. L' attività dunque della ragione pratica conviene che sia un altro conoscere, un conoscere con compiacenza nell' oggetto conosciuto, un appropriarselo, e trovare in esso il proprio bene. Quindi l' ente rispetto alla ragione pratica riceve il concetto di bene . Per caratterizzare poi con una parola questo conoscere attivo e vivace, fornito di compiacenza, noi lo chiamiamo riconoscere pratico . E questo atto della ragione pratica è il primo atto della volontà . La legge suprema adunque della ragione teoretica è la legge suprema altresì della ragione pratica. La differenza non istà che nella diversa relazione che l' una e l' altra ragione tiene collo stesso termine: la ragione teoretica ha coll' ente la relazione da noi dichiarata di ricettività , e la ragione pratica tiene collo stesso ente la relazione da noi dichiarata di adesione . Quello dunque che abbiamo detto della legge suprema della ragione teoretica, applichiamolo alla ragione pratica. E prima abbiamo distinto il pensare intero dal pensare astratto , e osservato che questo può bensì tirare a sè la nostra attenzione e divenire il termine esclusivo di essa; ma tuttavia non può stare da sè solo nella mente umana, nella quale forza è che vi si trovi sempre il pensare intero , sebbene vi stia negletto ed inosservato; e ciò perchè, essendo « l' ente l' oggetto del conoscere », non si può dare alcun conoscere, se non vi sia nella mente tutto ciò che è essenziale all' ente, benchè parte di ciò possa essere nella mente in un modo, per esempio accompagnato da attenzione, parte in un altro modo, non accompagnato da alcuna attuale attenzione. Ora questa dottrina è importantissima per la pratica; la ragione pratica ha in essa una legge nobilissima, e propriamente « la suprema regola della prudenza ». Perocchè l' attenzione è una forza che già appartiene alla ragione pratica, ma è un' attività che influisce sulla ragione teoretica, e ne avvigorisce gli atti; perocchè la ragione pratica, come vedremo anche meglio in appresso, ha un' azione che si ripiega in vari modi sulla stessa ragione teoretica. Nell' attenzione, adunque, la ragione pratica già comincia ad operare, e le cognizioni, a cui lo spirito dà attenzione, riescono più facilmente ed efficacemente norme e principŒ dell' umano operare. Indi può accadere che l' uomo diriga le sue operazioni in due modi, o secondo ciò che conosce col pensare intero e complessivo , o esclusivamente secondo ciò che conosce col pensare astratto e parziale . Se le operazioni umane corrispondono al pensare intero e complessivo, esse pure sono intere e complessive; se si limitano ad avere per norma il pensare astratto, esse sono manchevoli ed imperfette. In questo appunto stà la suprema regola della prudenza, che si può formulare così: « Opera a tenore del pensare intero »; o con espressione negativa: « Guardati dall' operare dietro un pensare astratto e parziale ». Solamente qui è da por mente che l' operare secondo la norma del pensare intero e complessivo può essere di due maniere, più o meno perfetto. Se il pensare è intero, ma non analizzato, privo delle astrazioni, l' operare sarà sostanzialmente prudente; ma gli mancherà qualche cosa di accessorio, e però riuscirà imperfetto negli accidenti. Laonde vi sono due gradi di prudenza; l' uno è di quelli che operano secondo il pensare intero e complessivo, ma senza analisi ed astrazioni, l' altro il più perfetto, di quelli che operano secondo il pensare intero e nello stesso tempo secondo il pensare astratto, non pigliando questo da sè, ma unito col primo, cioè considerando le astrazioni siccome congiunte cogli oggetti su cui vennero formate. Benchè questa dottrina sia importantissima, io mi astengo dall' aggiungerle qui un maggiore sviluppo, potendo il lettore trovare un luminosissimo esempio della sua efficacia nell' applicazione, che ne abbiamo fatto, alla prudenza politica nell' opera intitolata La società ed il suo fine (1), dove abbiamo chiamato semplicemente facoltà di pensare quella del pensare intero e complessivo, e facoltà di astrarre l' altra. Dalla qual regola generale procede quella più speciale, che si enuncia così: « « Nell' operare attienti alla sostanza, e non sacrificare essa giammai agli accidenti », svolta da noi in un' apposita operetta (2) ». E nell' oggetto del pensare intero deve necessariamente entrare la sostanza, che è il primo atto di ogni ente reale; la sostanza non può mancare che nell' oggetto del pensare astratto (3). Dopo di ciò, come la ragione teoretica ha diversi atti, che noi riducemmo a tre, d' intuizione , di percezione e di riflessione , così le leggi proprie, a cui questi diversi atti soggiaciono, debbono riprodursi, ossia avere le loro corrispettive, nella ragione pratica ; il che ora dobbiamo noi svolgere. L' intuizione ha per oggetto l' ente, tutto l' ente, ma sotto la forma ideale. Ora, posciachè l' ente ideale non si può godere in altro modo, nè unirsi a lui che per via di contemplazione, perciò la ragione pratica ha per legge sua propria l' inclinazione alla contemplazione dell' idea , che diviene poi secondo diversi rispetti verità, tipo, bellezza, ecc.. Ogni inclinazione propria di un ente è legge del suo operare; perocchè il suo operare, e in generale la sua attività, è in buono stato, quando è conforme all' essenziale e naturale sua inclinazione. Acciocchè poi l' inclinazione alla contemplazione delle idee riesca all' atto, debbono avverarsi certe condizioni. Altrimenti la naturale intuizione rimane senza sforzo di attività, e però teoretica, non pratica. L' una e la principale di queste condizioni si è « il confronto dell' ente reale coll' ideale », perocchè l' ente reale è propriamente il termine dell' attività razionale; ma poichè ogni essere reale è dato al principio razionale per mezzo dell' idea e nell' idea, quindi avviene che quell' attività, che viene mossa dal termine reale, ricada anche in sull' idea, ed in questa, mossa che sia una volta, possa affissarsi. Così si sviluppa la contemplazione attiva , che anche si può dire semplicemente la contemplazione in opposizione alla semplice intuizione . Come poi in ogni atto del principio razionale vi è una compiacenza, così vi è pure l' amore, il quale, definito in modo generale, è « la fruizione dell' oggetto ». In secondo luogo l' intuizione produce altresì nel principio razionale l' inclinazione o predisposizione verso ogni ente reale, perocchè l' essenza di ogni ente reale è già compresa nell' ideale, benchè virtualmente, cioè così che non vi si vede il modo dell' ente fino che non è percepito. E questo è ciò che insegnano comunemente i filosofi, quando dicono che: [...OMISSIS...] . L' essere ideale adunque, oggetto dell' intuizione, produce nell' uomo per sè stesso solo inclinazioni e propensioni, e non atti, che vengono poi in appresso, ricevutine gli stimoli opportuni; le quali inclinazioni si possono ridurre a due: 1 inclinazione alla contemplazione; 2 inclinazione ad ogni bene reale conoscibile (2). Veniamo alla percezione, e vediamo che cosa dalle leggi, a cui soggiace la percezione, provenga nella ragione pratica. La legge della percezione è questa, che « l' ente limitato, percepito nel sentimento, si riporti all' essere ideale e in esso si vegga », di modo che nella percezione vi è: 1 il sentimento o realità; 2 l' ente ideale; 3 il rapporto d' identità (imperfetto) fra quello e questo. L' ente ideale è infinito e per sè completo. Dunque se l' ente reale si percepisce razionalmente riferendolo a lui, si percepisce insieme con esso la sua misura; perchè riportandolo al totale dell' essere, si vede fra gli enti reali qual più e qual meno prenda dell' essere, lo realizzi in sè stesso. Ora essendo il termine della ragione pratica l' ente quale è dato dalla ragione teoretica e da tutte le sue funzioni, è termine altresì di quella l' ente percepito. E perchè l' atto della ragione pratica consiste nell' aderire al suo termine, perciò ella deve aderire all' ente percepito in quella guisa che è percepito. Ma è percepito misurato dall' essere ideale, sicchè l' un ente percepito è percepito come maggior ente, e l' altro come minor ente. Dunque è legge della ragione pratica che ella aderisca agli enti secondo la loro misura. Ed anche quando il soggetto non percepisce che un solo ente reale, egli pur vede al confronto dell' ideale se sia limitato o illimitato; e deve aderirvi tale quale egli è, cioè con affezione misurata ad esso e proporzionata. Ora questo è il principio morale, « la legge dell' ordine morale », che prescrive che il riconoscimento affettivo sia compartito agli enti reali conosciuti, proporzionalmente alla loro misura, considerata sì rispetto all' ente completo ideale, e sì comparati fra loro, se sono più (1). Di qui un' altra nobilissima conseguenza, che il bene morale è di natura infinita, in quanto ha sempre per oggetto l' ente infinito. Perocchè l' ente limitato non è mai presentato dalla percezione solo e rispetto a sè, ma sempre unito all' ideale, che è completo ed infinito; e da questo misurato. Onde l' oggetto della ragione pratica non si ferma mai all' ente reale7finito, ma lo congiunge coll' ideale infinito e con questo insieme lo costituisce suo bene, aderendo a lui solo in quel tanto che l' essere ideale7universale gli prescrive. Onde l' atto dell' adesione ubbidisce a questo essere ideale7universale come sua suprema norma e regola; e lo tiene per conseguenza in maggior riverenza di ogni reale finito. E in questo sta appunto il carattere essenziale di ciò che è morale, di abbracciare sempre il tutto dell' essere , e finire in questo tutto, e secondo questo tutto regolarsi; e però esso è un bene di natura infinita , non comparabile a nessun altro bene finito, quale è il bene eudemonologico scompagnato dal morale, che termina nel finito. L' uomo adunque per la bontà morale è ordinato rispetto a tutto l' essere, all' essere infinito; e però quest' ordine, anche secondo il costante e uniforme giudizio degli uomini, ha un infinito prezzo. Nè vale il dire che l' ente reale, a cui si aderisce, è finito, perchè non si aderisce a lui se non aderendo prima all' ideale infinito, che misura e determina la quantità di adesione a quello dovuta. Vero è che se l' ente reale fosse egli stesso infinito, il bene morale sarebbe infinito da due parti, rispetto alla dignità infinita della norma che si venera su tutte le cose finite, e rispetto all' oggetto reale. Ma benchè in questo caso la moralità sia infinitamente maggiore che nel primo, perchè ella acquista un prezzo infinitamente infinito, tuttavia anche nel primo caso vi è una infinità di prezzo; chè, come abbiamo veduto, l' infinito è una proprietà ontologica, che non si può perdere in parte, ma o si perde tutta ovvero rimane tutta, cioè rimane l' infinità, tale essendo per natura e non per addizione o secondo la quantità. Riconoscere praticamente ciò che prima si conosceva teoreticamente è l' atto proprio della ragione pratica, in cui consiste la moralità. Il primo atto dunque della moralità si fa per via di riflessione. Ma la riflessione è doppia, astraente e integrante; a cui si può qui aggiungere una terza funzione, quella di semplicemente riconoscere ciò che si conosce, senza esercitarvi sopra nè l' astrazione, nè la riflessione. Quindi anche la ragione pratica deve avere tre funzioni: 1 il riconoscere volontariamente quello che si conosce; 2 il riconoscerlo con astrazione, con divisione e separazione; ossia riconoscere una parte solamente di ciò che si conosce; 3 il riconoscerlo con integrazione. Se la ragione pratica riconosce l' ente conosciuto semplicemente per quello che è nella cognizione teoretica, ella fa l' atto suo naturale, si unisce al termine determinatole dalla sua propria essenza, dall' essenziale sua inclinazione; il suo atto è buono. Ma se ella, invece di riconoscere semplicemente tutto il suo termine, vuole astrarre da qualche parte di esso e vuole aderire solo ad un' altra parte, ella non consegue la totalità del suo termine, e quindi è viziosa, il suo atto è malvagio. Di maniera che in ogni atto immorale vi è sempre un' astrazione arbitraria e contro natura. Da che poi l' uomo possa essere sedotto ad operare in opposizione all' essenza del suo principio razionale, che è egli stesso, fu da noi altrove chiarito (1). Di più, il restringere che fa la ragione pratica, e chiudere la propria attenzione e attività in una parte dell' oggetto conosciuto, è privarsi di una parte di lume, un accecarsi. In ogni vizio adunque e in ogni atto vizioso vi è qualche ignoranza e qualche cecità, la quale produce anche le coscienze erronee, di cui riesce poi cotanto difficile all' uomo interamente spogliarsi e pur solo avvertirle (1). Quanto poi alla riflessione integrante come funzione della ragione pratica, ella presta un nobilissimo ufficio alla perfezione dell' uomo, perocchè lo innalza a Dio, e con ciò l' ordine morale riceve l' ultima sua perfezione, e la ragione pratica è giunta all' ultimo divino suo termine, che quale principio e fine delle cose, e quale essere essenziale compie l' ordine dell' ente conosciuto. Poichè allora la ragione pratica ha già per suo termine non solo tutto l' essere sotto la forma ideale, ma ben anche sotto la forma reale, benchè con una cognizione negativa. Così la religione è il fastigio della morale; e come la morale nemica alla religione non è morale, anzi somma empietà, così la morale senza religione è una casa fabbricata senza tetto, il quale rimase solo disegnato in sulla carta dall' architetto. Veniamo ora alle leggi ontologiche speciali della ragione pratica: la prima è quella dell' oggettività. Noi abbiamo veduto che per la legge dell' oggettività la ragione: 1 non modifica il suo termine; 2 non apprende la sua azione, ma lui stesso; 3 e l' apprende senza apprendere insieme sè stessa, anzi finendo col suo atto fuori di sè, in lui. Queste tre qualità dell' operare razionale debbono riscontrarsi sì nella ragione teoretica che nella pratica; perocchè l' una e l' altra è ragione. Ma come tali leggi sono necessarie alla ragione teoretica, la quale da esse viene costituita quello che è, e però sono leggi essenziali, così rispetto alla ragione pratica, che soggiace ad agenti stranieri al suo oggetto, non ne costituiscono l' essenza, ma la perfezione, il bene proprio, e però non sono necessarie in questo senso, ma convenienti; non hanno necessità fisica , ma morale . Essendo dunque legge morale alla ragione pratica quello stesso che è legge essenziale alla teoretica, ne procede che: Come è legge essenziale alla ragione teoretica il non modificare il suo termine, così la pratica deve astenersi dal pur tentare di modificarlo, di alterarlo, di farlo diverso da quello che è, perchè ciò sarebbe un deviare dalla legge del principio razionale, un non operare più razionalmente. Ora per questo appunto noi ponemmo una facoltà dell' errore e del vizio diversa dalla facoltà di conoscere; perchè l' attività della ragione pratica, viziosamente alterando la misura e la stima degli enti, si oppone al conoscere anzichè produrre un conoscere. Come è legge essenziale della ragione l' apprendere l' ente e non ricevere l' azione dell' ente che, entrando nel soggetto, lo modifichi, quindi è che il principio razionale pratico deve, come sua legge, considerare il valore dell' ente in sè stesso, indipendentemente dall' accidentale e reale azione che egli esercita in lui, dovendosi misurare coll' essere ideale, e non coi soggettivi vantaggi e danni; e secondo la misura, che dal confronto coll' essere ideale riceve, conviene apprezzarlo. La reale azione adunque, che l' ente esercita in noi, non deve muovere la nostra ragione pratica a stimarlo diversamente da quello che, considerato rispetto all' ente ideale e nell' ente ideale, vale per sè. Perocchè altro è l' operare nostro in conseguenza dell' azione reale che esercita un ente o piuttosto un agente in noi, altro è operare in conseguenza della misura verace dell' ente (nel quale certo si comprende anche la sua attività e attitudine ad operare in noi ed in altri), rilevata per via di confronto coll' essenza dell' ente, che nell' essere ideale7universale la mente intuisce. L' operare secondo questa misura è operare razionalmente , e quindi moralmente; l' operare per impulso dell' azione reale in noi è abbandonare la legge della ragione, per seguitare quella dell' essere reale, o cieco o meramente sensibile (1). La ragione pratica adunque deve dirigersi secondo l' oggetto , e non secondo il soggetto . Come è legge essenziale della ragione apprendere l' ente con esclusione di sè stessa, in quanto è apprendente, quindi la ragione pratica, per operare razionalmente, deve seguitare l' ente suo termine in modo da dimenticare affatto sè stessa (soggetto), a meno che ella non fosse nell' ente, nell' oggetto compresa (oggettivata). Il che ritorna alla legge precedente di operare secondo l' oggetto , ma di più dimostra il perchè l' uomo virtuoso dimentichi sè stesso, e quale sia l' origine della bella semplicità del giusto, consistendo questa preclarissima dote in operare il bene senza pur volgere l' occhio agli stimoli soggettivi, come pure s' appalesa qui l' origine della generosità , della magnanimità , del sacrificio . Veniamo alla legge del sintesismo della ragione. Quale è la conseguenza, che questa legge adduce nella ragione pratica? La conseguenza si è che come il principio razionale ha una dualità, perchè esce di sè e si affissa e quasi dimora in cosa diversa ed opposta a sè soggetto, cioè nell' oggetto, così, qualora la ragione pratica opera consentaneamente alla propria legge della ragione, non solo ella è ordinata e soddisfatta in sè stessa (bene morale7psicologico), ma ella diede altresì all' ente suo oggetto ciò che a lui si aspetta, l' esigenza dell' ente fu pure soddisfatta (bene morale7ontologico). Viceversa, se la ragione pratica devia dalla legge propria della ragione, ella produce due mali: 1 disordina sè stessa, non unendosi e spiegandosi verso al suo termine, come esige la sua natura (male morale7psicologico); 2 ma ben anche pone un disordine fra lei e l' ente, non essendo osservata la relazione naturale fra i due termini (male morale7ontologico). Quindi è che il male morale non può essere riparato pienamente col solo emendare il disordine rimasto nell' attività pratica, il che non è che un restituire l' ordine psicologico , ma conviene di più che all' ente, di cui non si rispettò l' esigenza , si dia una soddisfazione, e così si restituisca l' ordine ontologico; il che spiega l' origine della giustizia punitrice e vendicatrice, e della soddisfazione penale. Se dunque vi è chi abbraccia tutto l' ordine ontologico in sè stesso, e presiede perciò alla conservazione di lui (e questi è Dio), è manifestamente uopo che la giustizia di lui esiga soddisfazione penale del male morale a favore dell' ente che fu oltraggiato. Egualmente da dirsi del bene operare. Oltre il buono effetto psicologico, che nasce dal bene morale nell' ordine interiore del soggetto che lo produce, deve conseguirne un premio ontologico. Ma questo è vario secondo l' ente particolare , di cui fu rispettata l' esigenza. Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda sè stesso (oggettivamente considerandosi), egli ne avrà di bene ontologico l' amore e la stima accresciuta di sè medesimo (testimonianza della coscienza, che è cosa diversa dal sentimento dell' armonia psicologico7morale). Se l' uomo retto operò quel bene che riguarda i suoi simili, il premio ontologico, a cui ha diritto, è nell' amore e gratitudine dei suoi simili; e l' Ente supremo che presiede all' ordine ontologico lo deve compensare, se gli vien negato; come pure deve punire questa ingiusta negazione nei suoi simili, che glielo ricusano. Se finalmente l' uomo retto operò quel bene che riguarda Iddio, questi gli riserva premi degni di lui e della virtù morale verso di lui esercitata. Il quale discorso vale egualmente rispetto al male. Ma giova che noi vediamo più distintamente come il bene ed il male morale sia sempre duplice, psicologico ed ontologico ad un tempo, confrontando questo bene, proprio dell' attività del principio razionale, col bene proprio dell' attività del principio sensitivo. Il termine del principio sensitivo è da lui indiviso, ha con lui un' unione od una relazione di attività reciproca; il termine del principio razionale è essenzialmente a questo contrapposto, e non vi è fra essi congiunzione di reciproca attività, non essendo uniti che per una relazione intuitiva. Quindi tutto il male del principio sensitivo si riduce in quello che produce a sè stesso, e non è male suo quel che produce in altrui, sì perchè l' esteso materiale suo termine non è suscettivo, come dicevamo, di male e di bene, sì perchè ciò che è da lui disgiunto non è suo termine. Quindi se un cane morde un uomo, non si dice che egli stesso il cane da questa azione ritragga alcun male; e se lo si dice cattivo, l' appellazione si riferisce unicamente al male da lui prodotto, ed è piuttosto un traslato che un parlare proprio. All' incontro il principio razionale, avendo per termine un oggetto da sè distinto, ogni qualvolta ha fatto male altrui, per esempio al suo simile, egli ha operato contro alla legge che gl' imponeva il termine della sua attività, l' ente; e ciò per le dette leggi di oggettività e di sintesismo, per le quali questo termine è a lui presente. Dunque il principio sensitivo è soggetto al male per una sola ragione, perchè la sua attività può trovarsi sconcertata nel naturale suo istinto; all' incontro il principio razionale è cagione del male a due titoli: 1 a cagione dello sconcerto che egli produce nell' ordine ontologico, alterando la relazione naturale fra gli enti, e così tentando da parte sua di distruggere l' ente in universale, che ha questo ordine intrinseco; il che a lui viene imputato come a cagione; 2 per lo sconcerto che indi nasce in sè stesso, che non aderisce al suo termine naturale secondo la legge della sua propria costituzione. Ond' è che la necessità morale è oggettiva e soggettiva ad un tempo (1). Applichiamo ora la seconda legge della ragione, che dice: « il termine del pensiero è il possibile », alla ragione pratica. Tosto ne avremo due nobilissime conseguenze. La prima si è che la ragione pratica ha per suo termine l' essenza degli enti in relazione al realizzamento di lei. Abbiamo veduto, parlando della legge della percezione, che la ragione pratica deve aderire all' ente reale secondo la misura di lui, e che la misura di lui è determinata dall' essere ideale7universale. Questa misura è l' idea specifica dell' ente di cui si tratta; e questa idea specifica è sempre l' essere ideale considerato come manifestativo di quell' ente reale. Vi è dunque: 1 l' essere ideale universale, misura prima, assoluta, misura di tutte le misure degli enti reali; 2 vi è l' idea specifica, misura prossima dell' ente reale; 3 vi è l' ente reale misurato. La legge prima sta nella prima misura misuratrice delle altre; il che è quanto dire che la ragione pratica deve operare secondo la sentenza di questo misuratore, deve abbracciare la misura che egli assegna. La legge seconda sta nella misura prossima; il che è quanto dire che la ragione pratica, avuta questa misura dal misuratore, deve tenerla per norma della sua stima e della sua adesione all' ente reale. Sopra l' ente reale adunque vi sono queste norme della ragione pratica; onde l' ordine morale viene alla ragione pratica da quelle leggi che le prescrivono il contegno, che ella deve tenere verso a ciascun ente reale. La ragione ultima adunque del rispetto morale è l' idea, e l' ente non è apprezzato se non in quanto lo prescrive l' idea . Ora l' idea contiene l' essenza dell' ente. Dunque il rispetto della ragione pratica termina nell' essenza dell' ente; e l' ente reale è apprezzato non in sè stesso e per sè stesso, ma nella sua essenza e per la sua essenza. Ma l' essenza dell' ente, trattandosi di enti contingenti, è ideale, e prende il nome di possibile , quando si considera rispetto alla sua realizzazione. Dunque il termine ultimo conveniente alla ragione pratica è l' essenza possibile della cosa in relazione col suo realizzamento. Di qui si scorge perchè è atto morale non solo il rispettare un ente reale secondo la misura della sua essenza ideale, ma anche il tendere a realizzarne l' essenza. Poichè se la ragione pratica ha per oggetto il realizzamento dell' essenza, ne viene che se questo realizzamento ancora non è fatto o è imperfettamente, ella tenderà a produrlo, e a produrlo nel modo più compiuto e perfetto; se poi è già prodotto, ella tenderà ad aderire all' ente reale perfettamente realizzato. Quindi i due atti morali: 1 di aderire all' ente reale (giustizia speciale); 2 di realizzare l' ente ideale (beneficenza, carità); e questo secondo si parte in due, l' atto di produrre e l' atto di perfezionare (1). Da questa stessa dottrina procede la legge del realizzamento completo delle specie o dell' esclusa eguaglianza , che segue il Creatore nella formazione e nel governo del mondo (2). Noi di sopra parlavamo degli enti contingenti. Ma si può applicare un simile ragionamento all' Ente supremo, necessario ed assoluto. Perocchè, quantunque l' Ente supremo abbia la sussistenza e realità nella sua essenza, tuttavia la sua essenza non è meno manifestativa della sussistenza e realità sua; o per dir meglio la sussistenza dell' essere supremo in quanto si fa conoscere col proprio lume, in tanto è legge imposta alla ragione pratica, e in quanto vive compiuta in sè, in tanto è oggetto reale della stessa ragione pratica. La seconda conseguenza, che noi deduciamo dal sapere che il possibile è il termine della ragione, si è che la ragione pratica ha per legge sua propria l' armonia nell' oggetto. L' essenza, che non abbia in sè la sussistenza dell' ente, si dice possibile, considerata in relazione al suo realizzamento. Possibile logicamente è tutto ciò che non involge contraddizione; onde dicemmo che l' oggetto della ragione, l' ente, è immune da ogni contraddizione, consentaneo seco stesso, pienamente armonico. Dunque la ragione pratica, essendo anch' essa ragione, forza è che per operare secondo la sua natura abbia un termine armonico, immune da contraddizione. All' incontro l' uomo vizioso, se ben si considera, ha sempre per termine del suo operare una contraddizione; egli si sforza di fare l' impossibile. Infatti è impossibile distruggere l' ordine intrinseco dell' essere universale, fare che l' ente considerato secondo la sua essenza sia diverso da quello che è, perchè le essenze sono immutabili. Ora quando un uomo, invece di riconoscere, secondo la sua misura, l' ente concepito, vuole riconoscerlo secondo un' altra misura arbitraria, egli rappresenta a sè stesso l' essenza dell' ente mutata quanto alla sua misura, e quindi di maggiore o minore prezzo del vero. Egli si rappresenta dunque il falso per oggetto di sua attività; ma egli non lo si presenta già come falso, ma come vero. Perocchè niuno può pienamente e assolutamente volere ingannarsi, e ogni vizioso tende necessariamente a persuadere a sè stesso che il bene da lui voluto è vero bene; e se si potesse a pieno convincere che neppure hic et nunc è vero bene, non lo seguirebbe giammai, cioè non abbandonerebbe il vero bene per ciò che già conoscerebbe non essere bene. Certo che egli può colla ragione speculativa conoscere che s' inganna; ma non lo riconosce colla ragione pratica. Egli dirà a sè stesso che il bene che lo seduce non è bene in generale, e che arreca dopo di sè maggior male; ma egli vuole in pari tempo che gli sia bene per il presente, astraendo dal futuro, astraendo dalle conseguenze o da mille altre considerazioni; perocchè, come dicevamo, è per astrazione che la ragione pratica devia dalla strada, che le prescrivono le naturali sue leggi. Se dunque vuole praticamente e nell' atto di operare che sia bene quello che è male, egli tenta con questa sua attività di snaturare e distruggere la verità, di fare che quello che è in un modo sia a lui in un altro, tenta di mutare l' ordine dell' ente. Ora l' ente in tal caso entrerebbe in contraddizione seco medesimo. Perocchè alla ragione teoretica sarebbe una cosa, avrebbe una misura; alla ragione pratica sarebbe un' altra cosa, avrebbe un' altra misura. Quindi la ragione pratica, tendendo con un vizioso operare di mettere l' ente in contraddizione seco stesso, tende di fare l' impossibile. Dove si appalesa l' origine della lotta incessante e della implacabile battaglia, che ogni vizioso agita nel proprio seno, e della pace e concordia seco stesso dell' uomo giusto (1). Le quattro leggi seguenti della ragione non fanno che definire ciò che non può costituire il suo termine; e rispetto alla ragione pratica hanno la stessa efficacia negativa. Per essa appare che non vi può essere il termine proprio della ragione pratica, qualora il termine che ella prende di mira manchi o dell' atto primo, o dell' unità, o della durevolezza, o della determinazione. Tutto ciò viene a dire che il termine della ragione pratica deve essere qualche sostanza. Quindi ciò che è accidente non può costituire un termine proprio alla ragione pratica, la quale deve riferire ciò che è accidentale a ciò che è sostanziale. Noi l' abbiamo veduto parlando della legge della prudenza. Di più, ciò che è corporeo, non avendo unità propria, ma mutuandola dal principio senziente (nel quale solo ha la continuità), non può essere vero termine alla ragione pratica. Neppure il principio meramente senziente7animale costituisce il termine finale della ragione pratica, come quello che non è ente completo, ma solo un cotal rudimento di ente; è in via ad essere ente. Oltre di che, dovendo questa sempre spingersi all' infinito, il che la rende morale, e il principio animale niente avendo in sè dell' infinito, egli non può essere in alcun modo ultimo termine alla ragione pratica. L' essere intelligente all' incontro, essendo quello che ha sua sede nell' infinito, nell' essere ideale, nell' essenza dell' ente in universale, in quanto che in questa si affissa e riposa; partecipa della dignità di questo, perchè è a questo ordinato, e quindi ha ragione di fine e di termine della ragione pratica. Ma posciachè anche fra gli esseri reali7intelligenti vi è un ordine, e il reale finito non è che una produzione dell' Infinito che lo crea, così è necessario alla ragione pratica di aderire all' ente intelligente finito in modo da riferirlo al suo principio, a Dio creatore; nel quale solo s' acquieta interamente come in suo termine ultimo, completo, assoluto. E questo basti delle leggi ontologiche, a cui ubbidisce il principio razionale; passiamo ora al secondo genere, cioè alle leggi psicologiche. Quantunque il termine sia quello che suscita l' attività del principio a cui è congiunto, tuttavia dopo di ciò il principio ha pur egli un' attività sua propria. Il termine del principio razionale nella vita naturale è duplice, cioè l' ente ideale e il reale finito (il mondo). Questo doppio termine deve suscitare nel principio razionale una doppia attività. E poichè questa doppia attività deve ricevere in non piccola parte il suo modo di operare dalla natura del principio stesso, ossia dell' anima, quindi le leggi psicologiche debbonsi dividere in due classi; e sono quelle che rispondono alle leggi ontologiche, e quelle che rispondono alle leggi cosmologiche. Ma delle leggi cosmologiche noi non abbiamo ancora parlato, ma solo delle ontologiche. Gioverà dunque che qui noi ci limitiamo ad esporre le sole leggi psicologiche che alle ontologiche rispondono, rimettendo a parlare dell' altra classe più innanzi. Tuttavia noi non potremo farlo, prescindendo al tutto dalle leggi cosmologiche; ma ciò che ci verrà detto intorno a queste, sarà un acconto di quanto dovremo dire di poi, quando tratteremo exprofesso di esse. La legge ontologica generale, che riassume tutte le altre, si è: « il termine del principio razionale è l' ente »; e però se manca qualche condizione essenziale dell' ente, non c' è più il termine del principio razionale; all' incontro, se non manca niuna condizione, quel principio, avendo il suo termine, esercita in esso la sua attività. Per applicare debitamente questa legge all' uomo ci convenne osservare quali sieno le condizioni essenziali dell' ente. E primieramente osservammo: Che l' ente ha tre forme, e che sotto ciascuna è compiuto; quindi che può essere dato ad un soggetto l' ente sotto la forma ideale, senza che gli sia dato sotto le altre due forme. Che non potrebbe tuttavia essere dato l' ente sotto la forma reale e morale senza la forma ideale, perchè l' ente ideale è quello che manifesta l' essenza dell' ente , e l' ente non può essere oggetto del pensiero sotto nessuna forma, quando gli manchi la sua propria essenza (1). Che l' ente sotto la forma ideale essendo per sè oggetto, il principio razionale che ne è informato, non può avere altro termine che sotto la forma di oggetto. Da queste verità si raccoglie: Che il principio razionale, in quanto è per natura intellettivo, non ha che quella attività che gli può essere data dall' ente ideale. Che il detto principio, quando si dividesse affatto dal sentimento fondamentale7animale, s' acquieterebbe nell' ente ideale, suo naturale termine. Che non è suscettivo di alcuna mozione a qualche altro atto, se non è tirato a ciò da un nuovo oggetto. In queste proposizioni si contengono già i semi delle leggi psicologiche, che ci proponiamo di esporre; cominciamo dal considerare l' ultima. L' ultima delle tre proposizioni enunciate viene a dire che, se si suppone che il principio razionale non sia mosso ad operare da alcun altro oggetto che dall' ideale, egli si rimane in perpetua quiete, nulla opera al di là dello stesso atto intuitivo pel quale è unito al suo termine. Infatti chi ricerca le leggi soggettive secondo le quali opera il principio razionale, può intendere di fare due cose, cioè può intendere di risolvere due questioni. Questione prima : secondo quali leggi si muova ai suoi atti secondi. Questione seconda : secondo quali leggi, posto che sia già mosso, egli eseguisca il suo movimento. In quanto alla prima questione, è da rispondere che il principio razionale non si muove a nessun atto secondo, se non gli è dato un nuovo oggetto oltre l' ente ideale, se non gli è dato qualche cosa di reale. Ma posciachè l' ente reale, termine del pensiero, può essere finito o infinito, incompleto o completo, e quando è infinito e completo, la stessa essenza si vede nell' ideale realizzata, e però egli stesso è per sè oggetto; quindi l' attività, che verrebbe suscitata dall' ente reale infinito nel principio razionale se gli si comunicasse, sarebbe veramente ontologica; e in questo caso si può ricercare quali sarebbero le leggi soggettive7ontologiche del principio razionale. Ora è evidente che l' attività suscitata nel principio razionale in tal caso sarebbe massima, e tuttavia semplicissima, cioè tutta si ridurrebbe a un atto, che riposerebbe e si acquieterebbe nel suo termine senza più; e però, compiuto quest' atto, non si darebbe altro movimento se non quello che vi potesse essere dal passaggio fra l' ideale e il reale; atto di compiacenza in vedere che quel reale compie tutto l' ideale, e che l' ideale esprime e, per così dire, illumina tutto quel reale. Al quale passaggio incessante di attenzione e di contemplazione ella potrebbe essere mossa da ciò che nel reale stesso ritroverebbe di identico e di distinto dall' ideale (1). Ma lasciando la comunicazione dell' ente reale infinito, ogni comunicazione del reale finito non può suscitare che una attività cosmologica, e quindi esser fonte di sole leggi cosmologiche, non ontologiche. Suscitata poi questa attività, è certo che il modo dell' operare del principio razionale trae dall' ente ideale, e perciò è ontologico, e vi possono essere leggi ontologiche7soggettive, benchè col solo ente ideale o infinito7reale non vi possa essere che quell' atto semplice, che termina in esso ed ivi si quieta. Questo bisogno dunque, che ha il principio razionale di nuovi oggetti per fare nuovi atti, è quello che chiamiamo legge psicologica d' inerzia , che fa sì che quel principio non possa muoversi dalla quiete ad alcun atto per sè stesso, se non quando l' oggetto stesso a sè lo tira e il muoversi gli concede; benchè già in moto, egli possa diverse cose operare secondo l' altra legge della spontaneità (1). Se dunque l' anima umana, ossia il principio razionale, non si muove che quando gli è dato il termine, come spiega egli tanta attività in sì varie operazioni, che lo conducono ad un immenso sviluppo? Non parrebbe per avventura che non vi fosse nulla di mezzo fra l' essergli dato l' oggetto e il non essergli dato, delle quali due supposizioni nella seconda non potrebbe avere operazione, nella prima avrebbe l' operazione semplicissima dell' unirsi all' oggetto e in lui riposare? Rispondo che così appunto dovrebbe avvenire, se l' anima non avesse un' attività propria di lei come principio; la quale attività non sarebbe, è vero, se non vi fosse l' oggetto, ma, posto l' oggetto, ella è, ed ha sue proprie leggi, che sono appunto le leggi psicologiche che noi andiamo investigando. E primieramente l' unirsi all' oggetto si fa in due modi, come già indicammo, l' uno speculativo , l' altro pratico . Ora l' unione meramente speculativa è l' atto primo di unione, e questo è determinato dalla presenza dell' oggetto, ed è però unione ontologica; ma l' unione pratica si fa per l' attività propria del soggetto, e quindi ella è unione psicologica (1). Di che noi vedemmo che le leggi ontologiche della ragione speculativa sono fisicamente necessarie, come venienti dall' oggetto e dalla virtù creatrice che pone l' anima intuente l' oggetto, e però non traggono dall' attività razionale dell' anima, ma questa anzi per esse si crea. All' incontro, quando cercammo se la ragione pratica avesse leggi ontologiche e quali fossero, noi non trovammo leggi ontologiche della ragione pratica, che fossero fisicamente necessarie (2), ma solo leggi necessarie moralmente. Che vuol dire leggi ontologiche moralmente necessarie? Vuol dire tali che non determinano l' operare fisico di lei, ma il morale; non determinano ciò che ella veramente fa, ma ciò che che deve fare per essere perfetta. La ragione pratica adunque ha due specie di leggi: quelle secondo le quali la sua propria natura la fa operare, e queste sono psicologiche; e quelle secondo le quali deve operare per essere perfetta, e queste sono ontologiche e morali . Queste ultime le abbiamo già esposte, quelle prime prendiamo ora ad esporle. Ma posciachè la ragione pratica non è che una cotal continuazione della ragione teoretica, come gli atti secondi sono una cotal continuazione dell' atto primo, perciò la ragione pratica non opera mai sola, ma colla stessa ragione teoretica, onde muove come da sua origine; di che avviene che nell' operazione della ragione pratica si vedono già adempiute le leggi della teoretica; dal che però non deriva che le une sieno le altre, conviene anzi guardarsi dal confondere insieme tali due maniere di legge distintissime. L' attività e spontaneità psicologica , adunque, si compone ottimamente coll' inerzia psicologica , poichè questa consiste nel non poter l' anima operare senza oggetto; e quella nell' unirsi più e meno, e in diversi modi all' oggetto, quando questo le sia già dato. Affine però di avere più chiara nella mente questa conciliazione, gioverà qui riassumere in breve tutto lo sviluppo psicologico , raccogliendo dai vari luoghi dove ne parlammo. Esso procede coi seguenti passi e modi di operare dello spirito, ai quali tutti soggiungemmo la loro ragione sufficiente. Il principio razionale non si muove, se non gli è dato l' oggetto a cui si possa unire. Se questo oggetto è il solo ente ideale, infinito, egli s' acqueta in lui, e l' azione in tal caso è semplicissima (intuizione), come semplicissimo è l' oggetto; nè gli rimane ad andare più in là col suo movimento, il quale è giunto al suo compiuto termine. Se l' oggetto è un reale dato nel sentimento, questo promuove la percezione, la quale ha del molteplice, racchiudendo tutti insieme: a ) l' ideale infinito; b ) l' ideale in quanto mostra l' essenza del reale, concetto del reale, misura del reale; c ) l' affermazione del reale, cioè della realizzazione del concetto. Ma tutto ciò quasi direbbesi organicamente unito. Se l' affermazione del reale o la sua memoria cessa per qualunque ragione, rimane nella mente il concetto della cosa, sorretto da qualche vestigio reale di sentimento, che ne fa le veci. Ma un reale, percepito dalla nostra ragione teoretica , può divenire oggetto alla nostra volontà (attività psicologica) non solo in quanto è concepito , ma in quanto è reale . Questi sono due modi diversi di unione dell' anima coll' oggetto. Infatti la volontà talora si diletta semplicemente di conoscere attualmente una cosa (diletto di contemplazione), ed allora le basta di avere l' oggetto presente nella concezione della ragione teoretica, soddisfacendosi in contemplarlo, che è atto di ragione pratica (1). Ma talora non basta alla volontà di contemplare l' oggetto conosciuto; ella appetisce la sua fruizione sentimentale, l' appetisce come reale, come termine del sentimento, non come termine semplicemente della cognizione. E rispetto a questa unione reale possono aver luogo due specie di volizioni: le affettive e le appreziative (1). Nelle volizioni meramente affettive il principio razionale non fa che secondare l' istinto, e quindi si contiene negativamente rispetto al termine dell' istinto, concependolo bensì nell' ente, ma non apprezzandolo distintamente come bene. Nelle volizioni appreziative interviene e precede l' atto di appreziazione. Ora la volizione appreziativa (perocchè restringeremo ora a questa il discorso), che appetisce il reale come termine del sentimento, è varia secondo che vari sono i sensorii e i modi coi quali i sensorii si uniscono al loro termine. Quindi: Se si tratta del sensorio della vista, basterà, perchè abbia luogo la volizione appreziativa, che il reale sia presente agli occhi; la percezione visiva del reale sarà l' oggetto dell' appetito; basterà il contemplare una bella frutta che penzola rosseggiante da un albero per appetirla. Se si tratta del tatto, non le basterà che il reale sia ad una certa distanza dove possa esser veduto, ma lo vorrà vicino, sotto le sue mani; per esempio, il bambino vorrà che gli si spicchi e che gli si dia in mano, per contrattarla, quella bella frutta che vede rosseggiare sull' albero. Se si tratta del gusto o del senso alimentare, si vorrà poter mangiare lo stesso oggetto; il bambino vorrà poter mettere alla bocca e mangiare quella frutta. E così si dica di ogni altro sentimento. In generale adunque si brama che il termine appetito venga unito al senso a cui appartiene, in quel vario modo che la natura del sensorio esige. Quindi è che il reale concepito dalla ragione teoretica, qualora dalla volontà sia appetito come reale termine dei sentimenti, riceve la natura di fine rispetto alla volontà, la cui attività tosto si muove a cercare i mezzi per conseguire quel fine. I quali mezzi possono essere trovati per un gioco di volizioni meramente affettive , ovvero può muoversi la ragione pratica a trovarli con volizioni appreziative e calcolatrici. In questo ultimo caso la ragione pratica già muove la ragione teoretica a trovare i detti mezzi . E tuttavia non è qui da conchiudere che con ciò si formino i concetti astratti di fine e di mezzo; niente vi è ancora di veramente astratto nella ragione teoretica, ma ella opera dietro le relazioni degli enti, senza astrarre da essi queste relazioni, che vede negli enti e non in separato da essi, benchè con atti che hanno già un termine complesso e molteplice; le cui parti però sono come organi di un solo tutto, inteso nel tutto e pel tutto. Questa maniera di operare per fine e mezzi, senza conoscersi ancora astrattamente il fine ed il mezzo, non appartiene al pensare astratto , ma al pensare molteplice; perocchè nell' oggetto del pensiero vi può essere molteplicità senza astrazione. Così abbiamo veduto che nell' oggetto della percezione si distinguono tre elementi; eppure ella è una sola operazione, e l' oggetto è uno, benchè organato. Ma questa relazione di mezzo e di fine è già un legame fra le idee e le percezioni. Altri legami poscia si manifestano, che le associano in mille forme, e di molte fanno un solo pensiero. E l' istrumento che dà nuova attività al pensiero è l' associazione e la spontaneità dei fantasmi; poichè noi abbiamo veduto essere legge del principio razionale che ad ogni sentimento egli unisca l' idea. Quindi i fantasmi eccitano il pensiero. Ora è proprio della fantasia l' avere un cotal moto spontaneo per sì fatta guisa che al suscitarsi di un solo fantasma se ne suscitino altri (1). Di conseguente anche i pensieri vengono da tale stimolo tratti a succedersi. La fantasia ha oltracciò la legge dell' abitudine, e questa le viene imposta anche in parte dai pensieri; poichè come i fantasmi muovono i pensieri corrispondenti, così i pensieri muovono i fantasmi. Ora i pensieri sono legati dai loro nessi logici, e però anche i fantasmi corrispondenti si abituano a rappresentarsi in una serie, quasi direbbesi, ragionata. Poichè quella serie di ragionamenti, che la mente una volta ha percorso, già lega e produce la serie corrispondente di fantasmi. Quindi poi quelle serie ragionate di fantasmi, legate a tenore dei diversi ragionamenti, vengono a suscitarsi in noi abitualmente, tostochè se ne sia dato l' impulso al nostro sensorio interno, e dietro ad esse tornano i congrui ragionamenti. Così l' abitudine, a cui soggiace la fantasia, passa alla facoltà di pensare con quella abbinata; ed è questo che noi chiamiamo fantasia ragionante , ovvero abitudine ragionante , della quale ci gioviamo a spiegare i fenomeni dei sogni, delle distrazioni, ecc.. E qui si rifletta che questa abitudine ragionante , che incomincia già a questo grado dello sviluppo intellettivo, molto più si accresce ed amplifica cogli altri gradi dello svolgimento del pensiero che siamo per descrivere. L' associazione delle percezioni e delle idee fa sì che un reale diviene segno di un altro, e la percezione di un' altra percezione. Così comincia a formarsi naturalmente una lingua. Di più la natura, l' istinto, insegna all' uomo ad adoperare cogli altri questa associazione delle percezioni, perchè l' uomo che vuole tendere ad un fine, ha bisogno talora di fare che i suoi simili lo sappiano, essendo questa cognizione data ai suoi simili un mezzo col quale ottiene il fine desiderato. La sapienza poi del Creatore ha fornito l' uomo, fra gli altri modi di comunicare altrui i suoi bisogni e le sue volontà, di uno strumento acconcissimo a ciò, qual' è la facoltà dei suoni articolati; e gli ha dato l' istinto di produrli anche come semplice conseguenza fisica dei suoi sentimenti e pensieri. Perocchè l' uomo, quando sia animato da qualche sentimento più o meno grande, manda per istinto suoni dalla sua bocca, anche se egli è solo; giacchè il guizzo della sua lingua, e il cacciamento dell' aria dal petto, e l' acconcio incanalamento della gola, è un effetto del suo interno sentire, anche indipendentemente dall' attitudine che tali suoni hanno a significare; la quale attitudine si scopre ben tosto dopo. Questo è già un passo grande al suo sviluppo intellettivo, ma l' astrazione propriamente detta non c' entra ancora. Ora questi suoni od altri segni, che l' uomo adopera a manifestare i propri bisogni, e sentimenti, e volizioni ai suoi simili, sono essi nomi propri o comuni? La natura loro è quella di nomi comuni, perchè esprimenti il concetto (altrimenti sarebbero suoni istintivi, non segni imposti); ma l' uso che se ne fa al cominciamento è quello dei nomi propri, perchè esprimono il concetto legato ancora al sentimento, la percezione (1). Incominciano dall' essere nomi propri nell' atto che s' impongono all' oggetto della percezione, la quale è di natura sua singolare; ma ben presto sono usati come comuni, avendo la percezione il comune in sè stessa, cioè il concetto che è essenzialmente comune, tostochè l' idea legata all' oggetto della percezione e così particolarizzata, si scioglie da quel legame estrinseco. E per vedere con qual progresso e fin dove l' uomo, o piuttosto gli uomini conviventi insieme, possano andare nella formazione del linguaggio, è uopo considerare bene la natura della percezione, prima generatrice dei nomi. I suoi tre elementi sono: 1 l' idea (l' essere ideale illimitato); 2 il concetto (essere ideale limitato dal rapporto che la percezione sensitiva ha con esso); 3 l' atto dello spirito affermante la sussistenza, ossia la realizzazione del concetto. Dapprima dunque il nome imposto segna questo triplice oggetto della percezione. Tosto appresso lo spirito abbandona la sussistenza , perchè non ne ha bisogno, e gli resta il concetto intuìto nell' idea. Il nome perciò non muta, ma egli è già usato da quest' ora come comune. Ma qual' è la natura del concetto , che si acquista nella percezione? Primieramente la percezione intellettiva si fa in occasione delle sensazioni e percezioni sensitive. Ora i diversi sensorii, che percepiscono lo stesso reale, spezzano già naturalmente quel reale in più; perocchè rappresentano all' uomo con percezioni separate le diverse sue qualità sensibili. Di che l' uomo può connettere un suono diverso a indicare l' oggetto colorato, e lo stesso oggetto gustoso al palato, ecc. (1). E questa non è ancora tuttavia astrazione pura; perocchè ognuno di quei suoni indica una sostanza reale, quale è data dal relativo sensorio, è un nome sostantivo qualificato . Quando poi l' uomo s' accorge della medesimezza dell' individuo, ancora non astrae, anzi sintesizza. Questo nondimeno è un passo importante che fa lo spirito umano. Ma accade che due o più reali diversi, e diversamente percepiti, arrechino all' uomo un piacere simile, ovvero un simile dolore. Nel primo caso egli esprimerà la sua gioia con movimenti somiglianti il suo piacere, e nel secondo con movimenti somiglianti il suo dolore. I suoi simili leggeranno adunque nel suo volto e nei suoi gesti il piacere ovvero il dolore che prova. Egli potrà esprimere ancora tali sentimenti con dei suoni spontanei ed istintivi. Cotesti gesti e cotesti suoni esprimono propriamente un reale, cioè il suo sentimento piacevole o doloroso; ma ben presto si potranno associare agli oggetti reali che ne sono la causa e la forma, secondo il detto delle scuole che sensibile in actu est sensus in actu . Poniamo una madre, che voglia allontanare un bambino da diversi oggetti nocevoli. Ella per fargli intendere che quegli oggetti sono nocevoli, farà di quei gesti e manderà di quei suoni, che esprimono dolore, paura, ed altri simili effetti. E questi segni li adopererà tanto per far intendere al bambino che deve allontanarsi dal fuoco, quanto da un rasoio, o da uno stagno d' acqua, o da un precipizio, ecc., perchè essendo simile il sentimento che tali oggetti producono, è consentaneo che ella adoperi sempre i medesimi segni, tanto più che vi è la legge che « l' animale e l' uomo prende sempre la via più facile a far ciò che fa », ed è più facile ripetere lo stesso segno che trovarne di nuovi. Così un po' alla volta verrà a stabilirsi un suono, che sarà il nome comune di tutti gli oggetti nocevoli. Voglia all' incontro la madre stessa invitare il suo bambino a godere degli oggetti piacevoli, a mangiare frutta o dolci, a trastullarsi, ecc., ella userà quei segni che esprimono gioia, e ripetendo gli stessi segni in un gran numero di circostanze diverse e per diversissimi oggetti reali, finirà collo stabilire un nome comune a tutti gli oggetti dilettevoli od utili (1). I nomi imposti da questa madre significherebbero adunque « ciò che dà dolore, tristezza », e « ciò che dà piacere, letizia ». Esprimerebbero dunque enti, ma caratterizzati e distinti dall' effetto che producono nel sentimento; sarebbero dunque nomi comuni estesissimi, perchè abbraccerebbero innumerevoli classi di effetti. Essendovi questa facoltà nell' uomo, niente vieta che secondo il bisogno del sentimento si inventassero nomi comuni più ristretti, determinati non dal piacere o dal dolore in genere, ma da un genere o da una specie di piaceri, di dolori, di sentimenti soddisfacenti o molesti. Così buono e cattivo, utile e disutile, sano e malsano , ecc., sarebbero di tali nomi comuni detti dai grammatici aggettivi sostantivati , ma malamente, perchè nel progresso della lingua umana l' uomo li deve trovare prima degli aggettivi, onde il loro nome filosofico sarebbe sostantivi qualificati , perocchè esprimono il concetto di una sostanza determinata da una o più specie dei suoi accidenti. Secondo la stessa legge apparisce che il nome comune, significante a principio la specie piena, deve essere trasferito a significare non solo i generi molto estesi, ma anche i meno estesi e fino i generi infimi. Diamo un esempio. Al vedere il verde tappeto, di cui è coperta una parte della terra, si muoverà l' uomo a denominare prato quella superficie verde, il suolo coperto d' erba, nominando così con nome proprio l' oggetto della sua percezione. In appresso ogni simile tratto di terra verdeggiante lo chiamerà pure prato , e questo sarà già un uso di quel nome in quanto è comune, perchè, abbandonando il pensiero della sussistenza del primo prato reale, s' accomuna concetto e nome ad ogni suolo erboso, onde colla parola prato denomina già l' oggetto del suo concetto . E` vero che nella prima percezione del prato egli percepì altre qualità oltre il color verde, cioè la grandezza, la forma, la gradazione del colore, ecc.. Ma queste qualità non colpirono il riguardante così vivamente siccome il color verde , e perciò, trascurate le altre qualità senza imporvi denominazione alcuna, si contentò di nominare l' oggetto veduto dalla qualità più viva « un ente verde ». Quindi se agli sguardi di quest' uomo, che non ha ancora altri vocaboli, si presenterà una tappezzeria verde e vorrà nominarla, egli non cercherà un vocabolo nuovo, che gli costerebbe maggior fatica e sarebbe inutile al suo bisogno, ma la chiamerà incontanente collo stesso nome di « prato », ampliandone il significato e pigliandolo a significare in generale « ciò che è verde ». Di qui si trae che il pensare generi e specie, e il produrre nomi comuni è naturale all' uomo, talmente che tutti i primi nomi sostantivi dovevano essere non mai sostantivi, ma sostantivi qualificati , e le lingue antichissime ne hanno le traccie manifeste. Leibnizio l' aveva osservato, e non sarà inutile l' aggiungere qui agli esempi da me recati (1) quelli che adduce questo sommo filosofo, che fiorì in Germania quando non era ancora entrato in quella nazione lo spirito caustico di sofisma introdottovi da Kant, figliuolo del tempo suo e corrompitore del vero modo di filosofare. Ecco adunque ciò che scrive quel grande uomo: [...OMISSIS...] Leibnizio tuttavia non tocca in questo passo la cagione per la quale l' uomo sia inclinato a formare nomi comuni , e ne abbia tanta facilità che lo fa senza fatica, e tanto più facilmente, quanto è più tenero. Questa cagione si è sempre: La natura della percezione , che apprende le cose nell' azione loro speciale sui particolari sensorii, e qui le apprende non in tutto il loro essere e in tutta la loro attività, ma parzialmente, in attività unilaterali, onde percepisce l' ente determinato da tali qualità sensibili. La natura dei sentimenti , producendo disparati oggetti dei sentimenti simili od eguali; onde a questi sentimenti, come a reali, si attaccano le loro varie cagioni, e queste ricevono un nome comune , più comune ancora di quello che esprime l' attitudine a produrre speciali percezioni, perchè significa più reali disparati per l' attitudine che tutti hanno a cagionare quei medesimi sentimenti. Finalmente la natura dell' appetizione , che è anch' essa un reale, a cui si congiungono nella mente gli oggetti suoi lontani ed anche quelli che hanno attitudine di mezzi a conseguirli; onde altri nomi più comuni ancora, cioè tutti quelli che segnano molti reali per l' attitudine comune, più o meno mediata, a fare che l' appetizione ottenga l' oggetto a cui tende come a suo fine; onde si dirà, poniamo, vehiculum tutte le cose atte a condurre, instrumentum tutte le cose che aiutano di mezzo a fare checchessia, ecc.. E qui giova che diciamo pur qualche cosa di quella potenza che Aristotele chiamò senso comune, ammessa poi universalmente dalle scuole. Secondo questo filosofo il senso comune è una potenza interna, che riceve le sensazioni dei cinque sensi esterni, ed ha un proprio organo nel cervello. Quanto ad avere un proprio organo nel cervello, questa è proposizione gratuita, e il ragionamento prova anzi il contrario; perocchè ad ogni sentimento corporeo deve rispondere un movimento speciale. Onde se contemporaneamente si avessero sensazioni di vari sensi, e queste fossero tutte ricevute dal medesimo organo destinato al senso comune, in tal caso il medesimo organo dovrebbe avere nello stesso tempo movimenti diversi: cosa manifestamente assurda. E se nello stesso organo si distinguessero più parti, l' una delle quali ricevesse un movimento e l' altra un altro, già non sarebbe più un organo solo e comune, ma più organi e più sensi, onde con ciò non si spiegherebbe come un solo organo sensorio presiedesse a tutte le diverse sensazioni. Di più, se oltre i sensorii speciali vi fosse un sensorio comune, il quale risiedesse in un organo diverso da quelli, tutte le sensazioni speciali dovrebbero essere doppie, manifestandosi prima separate nei sensorii speciali e poscia unite nel sensorio comune; il che va contro il fatto. A cui si aggiunga quanto fu ragionato nel Rinnovamento contro l' unificazione delle sensazioni in un comune sensorio, ed apparirà manifesto che il senso comune di Aristotele e degli Scolastici non si può ammettere da una buona filosofia (1). Quindi cade altresì la facoltà, che Aristotele concedeva al senso comune, di discernere e giudicare della differenza fra le sensazioni dei vari sensorii speciali. Collo stesso ragionamento viene tolta ancora la facoltà, che quel filosofo ed i suoi seguaci diedero ai sensi speciali, di discernere o giudicare fra le varie sensazioni loro proprie (2). Viene anche emendata la definizione della fantasia, che per essi era quella facoltà che conservava le specie tanto dei sensorii speciali, quanto del senso comune (3). Esclusi questi errori, rimane tuttavia pur certo che a ciò che gli Aristotelici chiamarono senso comune , deve rispondere qualche cosa di vero; perocchè altrimenti l' animale non potrebbe governarsi dietro le sue varie sensazioni e sentimenti. Sì, ma questo non può essere un nuovo senso. Che sarà dunque? Noi abbiamo veduto che il sentimento animale ha un termine esteso ed un principio semplice . Ora al termine esteso appartiene la moltiplicità e varietà delle sensazioni e dei sentimenti; ed al principio semplice appartiene il governo che ha l' animale delle sue proprie sensazioni, dei propri sentimenti, dei propri sensorii. Quel principio identico, semplice, immateriale è quello dove tutte le sensazioni ed i sentimenti esistono; e però l' animale non solo sente ciascuno, ma è mosso da tutti insieme, e secondo il suo totale sentire fa le sue operazioni, a quel modo che abbiamo più lungamente dichiarato nel libro secondo dell' Antropologia . E veramente l' animale ha un sentimento unico, fondamentale, che viene variamente modificato; e queste modificazioni sono poi le sensazioni speciali (4), le quali non esistono divise da tutto il resto del sentimento, ma sono parti più vivaci di esso e varietà che accadono nel suo termine esteso. Onde l' animale opera sempre in conseguenza dello stato di questo sentimento unico e non d' una mera sensazione (benchè paia altrimenti per la vivezza speciale di essa); e quindi il sentimento totale è un reale, a cui come oggetto della percezione intellettiva può essere posto un nome; e le sensazioni sono lati diversi, per così dire, e atteggiamenti di questo sentimento, a cui del pari può essere posto un nome. E poichè il termine si distingue dal principio, e il termine si confonde collo stimolo, quando lo stimolo è applicato al sensorio, perciò anche l' oggetto stimolante riceve il nome, in quanto è stimolante; e questo è il nome comune di tutti quegli oggetti che sono atti a stimolare in un dato modo, od anche di tutti affatto, se nella percezione intellettiva l' attenzione non si limita a ciò che vi è di più vivo del sentimento, ma abbraccia tutto il sentimento. Nel qual caso il nome comune inventato sarà il sensibile . Ma poichè l' attenzione, come dicevamo, suol fermarsi a ciò che più la colpisce, od a ciò di cui l' uomo ha bisogno, perciò difficilmente e tardi l' uomo della natura giungerebbe ad inventare un nome, che rispetto alle cose sentite fosse così comune come sarebbe il sensibile; ma per le cose che cadono sotto i suoi sensi inventa a principio nomi comuni più ristretti, e poi secondo il bisogno li adopera, senza pur accorgersi, in un più ampio significato. Così da principio, venendo attivata la sua attenzione più che da ogni altra sensazione dalla vivezza e comodità delle sensazioni della vista, inventerà un nome, che equivarrà a quello che in italiano si direbbe il visibile ; ma poscia ne estenderà il significato a tutto ciò che cade sotto i sensi. Il che avvenne di fatto, come l' osservazione delle lingue, specialmente antiche, dimostra; perocchè in tutte le lingue si adoperarono i vocaboli imposti alle sensazioni visive per significare non solo gli oggetti o termini di queste sensazioni, ma ogni cosa che cada sotto i sensi. Onde ancora si dice comunemente le cose visibili per dire tutte le cose che cadono sotto i sensi. Ed è degnissima di considerarsi questa storia dei vocaboli, di cui nei popoli e nelle lingue più antiche si conservano traccie evidentissime. A ragion d' esempio, non dipartendoci dall' uso delle parole applicate da prima alla vista, ecco come esse si estendono all' udito. Nell' Esodo Mosè dice: [...OMISSIS...] . Nel Deuteronomio: [...OMISSIS...] ; ed appresso: [...OMISSIS...] . Onde il Calmet giustamente osserva che: [...OMISSIS...] . E questo fecero pure i Greci, massime gli antichi come Eschilo, che adopera le frasi di « « vedere i rumori »(5). » « « vedere le voci di un uomo »(6) » e gli esempi sono innumerabili, dei quali molti sono anche nella lingua latina e nelle moderne altresì; ma più che si discende ai tempi moderni, il significato delle parole si allontana dalla percezione e si accosta più e più al concetto comune. Il nome imposto alla percezione, quindi trasferito a significare la specie piena, che si può definire anche la percezione del fantasma , è l' origine di tutto il parlare traslato, figurato, metaforico, allegorico, ecc.. Infatti nelle lingue antichissime invece di usare il verbo vivere , che rappresenta tutto il sentimento fondamentale, si adoperano quelle funzioni della vita che, attraendo più l' attenzione, caratterizzano la percezione. Nella Genesi, XVI, 13, secondo il testo ebraico si dice: « « Ancora io vedo , dopo il vedente me? » », dove l' io vedo è posto invece di: io vivo . Altrove « « mangiare e bere » » significa vivere, come nell' Esodo, in cui si legge che gli Ebrei, dopo veduto il Signore, « « ancor mangiarono e bevvero » ». Volevasi esprimere una vita tranquilla e prospera? Dicevasi: « « sedere sotto la sua vite e sotto il suo fico » » (3), la quale espressione non significava per sè tutto ciò che vi è nel concetto di vita felice, ma si trasferiva a significarla, bastando nominare ciò che nella vita teneva più l' attenzione, e il resto sottintendevasi. Volevasi dire: « rendilo schiavo »? Dicevasi: « « incurva il suo dorso » » (4), perchè questa era quella parte del concetto che, più rimanendo scolpita nella fantasia, traeva seco il rimanente del concetto senza esprimerlo in parole. Volevasi dire: « la città s' empierà di mestizia e di solitudine »? Dicevasi: « « Non s' udirà più voce di sposo e voce di sposa » » (5). Quindi ai primi uomini era inefficace l' imporre precetti generali; si dovevano dare precetti particolari, che fossero quasi altrettanti esempi e rappresentazioni del generale. Il decalogo è tutto composto di precetti particolari. Vi si dice: « « non commetterai adulterio » », per fare intendere che non si deve peccare di lussuria; vi si dice: « « non ucciderai » », per fare intendere che non si deve far male al prossimo, e così dicasi pure degli altri. Volevasi predicare l' umanità? Il dirlo così in generale poco valeva. Si davano dunque precetti particolari simili a questi: [...OMISSIS...] La frase: « capere vel occidere matrem cum filiis », vale nella Scrittura a significare una immane crudeltà. E di somiglianti frasi la Scrittura è pienissima, ma più l' Antico Testamento del Nuovo; e i libri più antichi non hanno quasi altro linguaggio. Dopo la Scrittura, Omero ne abbonda. E se non si trovano egualmente frequenti cotali maniere nei libri sacri Indiani e Cinesi, è questa una nuova prova per me che non debbono essere così antichi come si vuole, o che furono alterati e tradotti; benchè abbia potuto contribuire a quel loro stile meno figurato la celerità, con cui progredì in antico presso quei popoli lo sviluppo del pensiero, che poi s' arrestò. Il carattere adunque dei vocaboli e delle maniere di dire antiche, di cui parliamo, si è questo, che esse « esprimono il concetto quale è dato dalla percezione »; e che poi l' espressione, rimanendo così speciale, viene trasferita tuttavia a significare un concetto, o una sentenza più e più comune e generale. Di qui, come dicevo, tutto il parlare figurato, di qui tutte le figure grammaticali. Per questo lo stile degli antichi è più poetico di quel dei moderni; perchè egli dipinge le cose ai sensi. Il naturale sviluppo del pensiero e dell' imposizione dei vocaboli ai pensieri spiega questo fatto senza bisogno d' altro; essendo gli antichi costretti a formarsi quella lingua che ancora non avevano, essi dovevano nominare i concetti legati alle percezioni, poi i concetti stessi divisi dalle percezioni. Ma nelle percezioni non nominavano tutto, ma ciò che più colpiva e attirava l' attenzione; questo elemento si prendeva ad indizio e segno di tutta intera la percezione; e il nome esprimeva la percezione, riferendosi a quell' indizio o segno naturale; e il vocabolo significava sempre: « ciò che produce quel sentimento »; per esempio « il bello »: ciò che produce il sentimento della bellezza; il sano: « ciò che produce la sanità », ecc.. Ma quell' indizio trovavasi poi in altri oggetti, e quindi la parola era atta a significarli anch' essi. Trovavasi, dico, in altri oggetti anche disparati, per la medesimezza del sentimento da loro prodotto; perchè è il sentimento, per dirlo ancora, a cui si riferiva la significazione del vocabolo. Onde « l' unità del sentimento è l' istrumento primitivo della formazione dei generi e delle specie significate dai vocaboli », perocchè esso è un effetto prodotto egualmente da più cause, e però un segno naturale comune ad esse. Di più, l' unità del sentimento è anche la ragione dell' associazione dei sentimenti parziali; e questa, come dicemmo, è il fonte delle figure, e specialmente della metonimia, giacchè la cosa che si nomina in relazione al sentimento percepito è l' elemento che più attira l' attenzione, secondo il senso più vivo o secondo il bisogno nostro, che sono le due guide di essa attenzione. Ora nel sentimento stesso talvolta cade la causa e l' effetto, il contenente e il contenuto, il segno e la cosa significata, ecc.; perciò il vocabolo, che esprime uno di questi elementi, si trasporta a significarli tutti, ovvero a significare un altro di essi, appunto perchè egli è atto a risvegliare gli altri sentimenti per via di associazione. « Io non ho veduto la sua faccia »per dire: « non ho veduto quell' uomo »; la parte che più tira l' attenzione è la faccia, e però il vocabolo è atto a risvegliare il pensiero del tutto. « Impugnò il ferro »per dire: « impugnò la spada »; la materia per tutto l' istrumento, materia e forma. « Tutta la terra esultò »per dire: « gli abitatori della terra »; il il contenente pel contenuto. E così di tutte le altre metonimie. E` anche da osservarsi che questo passaggio di significato non ha mai fine, onde una ragione del rimutare delle lingue, appunto perchè l' associazione dei pensieri e dei sentimenti non ha mai fine, nè mai ristà, ma si spiega in una serie continua, che talora si aggruppa e variamente ravvolge; e questo è il progresso continuo, che fa la mente umana e con essa l' uso dei segni, che da nomi comuni talora diventano individuali, e da individuali ritornano comuni e comunissimi, da traslati diventano propri, e da propri di nuovo traslati; per esempio, la parola Adam dovette prima di tutto, secondo l' ordine logico, significare una certa terra rossa percepita, e però essere imposta a quell' oggetto individuale della percezione; poi « ogni terra rossa », l' idea specifica compresa nella percezione. Così divenne nome comune. Poi espresse il primo uomo creato, perchè formato di terra rossa. Così quel nome comune ritornò individuale. Poi fu accomunato alla donna e ad ogni altro uomo, ricevendo questo significato generale: « ciò che è formato di terra rossa », e restando tuttavia legato nell' uso (1) con un genere più ristretto, cioè con quello degli uomini. Fin qui si vede come gli uomini in società potevano pensare il comune, e inventare i vocaboli che lo contrassegnassero. Ma il comune non è ancora l' astratto puro; questo viene dopo, ed è assai più difficile intendere il modo come esso si poteva originare. Noi abbiamo altrove espressa l' opinione che gli uomini non potessero venire a pensare e a denominare le pure astrazioni, per non avere in natura alcuno stimolo che a ciò li muova; di che deducevamo la divina origine di questa parte della lingua (2). Di poi abbiamo fatto più maturi riflessi, ed ora non ci sembra quella dimostrazione irrepugnabile. Distinguiamo adunque la questione del fatto da quella della semplice possibilità . E` indubitato, quanto al fatto, che il primo uomo ricevette l' avviamento a parlare da Dio stesso, il quale, parlandogli il primo, gli comunicò una porzione della lingua; e gli argomenti che lo provano verremo altrove esponendo. Ma trattandosi d' una semplice possibilità metafisica, se l' umana famiglia (non l' uomo isolato) potesse col tempo giungere a pensare almeno alcuni astratti, contrassegnandoli nello stesso tempo e con una stessa operazione complessa, colla voce o con altra maniera di segni, ci pare oggimai di poter rispondere affermativamente di aver trovato quello stimolo che indarno avevamo prima cercato, dal quale fosse mosso l' umano intendimento. Questa operazione doveva certamente aver luogo dopo le altre accennate di sopra; e però i nomi astratti dovevano rinvenirsi dopo i nomi comuni . Il che è quello appunto che dimostrano chiaramente le lingue antiche, le quali hanno pochissimi astratti (forse di divina origine), e in loro luogo fanno uso frequentissimo di nomi comuni , cioè di sostantivi qualificati; la quale indole rimane ancora nella stessa lingua di Platone, che recò pure l' astrazione sì alto; onde invece di intitolare i suoi dialoghi della giustizia , della bellezza , della santità , della bontà , ecc., egli li inscrisse: « di ciò che è giusto, «peri dikain»; di ciò che è bello, «peri kalu»; di ciò che è santo, «peri osiu»; di ciò che è buono, «peri hedones, peri agathu», ecc.. » Come crediamo noi dunque che l' umana famiglia potesse giungere da sè stessa agli astratti puri, almeno ad alcuni di essi? Conviene indubitatamente poter trovare qualche cosa nella natura reale, che leghi a sè l' astratto, servendogli di natural segno; solo a questa condizione l' attenzione dell' umana mente può fermarsi in essi e coglierli. Ora questa cosa non manca veramente, ed ecco quale ella si è, e come venga data all' uomo. Lo scopo pel quale s' inventa un nome, è quello di risvegliare nell' altrui mente il concetto della cosa significata. Quindi si adopera la parte pel tutto, il contenente pel contenuto, ecc., ogni qualvolta il nome dato alla parte e al contenente basta per isvegliare nella mente il concetto del tutto o del contenuto, senza bisogno d' inventare un altro nome. Il che riesce ottimamente, attesa la naturale associazione dei sentimenti. Ora, se noi osserviamo che gli enti corporei hanno più parti, e che ciascuna può essere percepita da sè, è chiaro che può essere senza difficoltà altresì nominata da sè. Quindi rispetto alla persona umana, oltre il nome di uomo, s' inventarono facilmente il nome di capo, faccia, braccio, mano, ecc.. Ma ognuna di queste parti ha poi sue speciali doti e proprietà, le quali si percepiscono insieme con quella parte a cui appartengono. A ragion d' esempio, una di queste proprietà sia la fortezza. Questa potrà denominarsi in due modi, o mediante un nome comune neutro, che venga a significare « ciò che è forte »; ovvero col nome della parte, nella quale si ravvisa più frequentemente e in modo interessante, per esempio nella mano, o nel braccio, o nel corno, ecc.. In qual maniera si nominerà ella? Nella maniera più facile. Ora è più facile adoperare la parola mano, braccio, corno, ecc. per indicare la potenza, ovvero inventare per essa un nome nuovo, un nome comune neutro? Posciachè i nomi di quelle parti robuste del corpo sono già inventati, è manifestamente più facile adoperare quei nomi che già si hanno, dando loro un significato metonimico. Perocchè è regola generale che « l' estendere o il trasferire il significato di un vocabolo, che già si ha, è più agevole che ritrovarne un altro del tutto nuovo ». Ora i nomi delle dette parti, significando oggetti di percezioni, sono dei primi che s' inventano. Dunque la mano, o il braccio, o il corno si prenderanno a significare la potenza, e questo è quello appunto che noi vediamo nelle lingue antiche « manus Domini (1) » o « brachium Domini (2) » si usa continuamente nella Scrittura per indicare la potenza di Dio, « cornu David » per indicare la potenza di Davide (3). Ed ecco già trovato il segno, a cui la mente può legare veramente un concetto astratto; e via più apparisce che quel nome già significa un astratto, quando quel nome vada perdendo, come talora avviene, il suo primitivo significato, e rimanga unicamente significativo dell' astratto. Così la faccia od il volto , dove si conoscono gli affetti della persona, applicati a Dio si prendono per la sua benevolenza o anche per l' ira sua (4); la strada per la sua provvidenza, ecc.; e in tal modo si può, a dir vero, andare molto innanzi nella formazione degli astratti puri; si può giungere ad un' astrazione grandissima. Rechiamo ancora un esempio delle astrazioni maggiori. Primieramente per metonimia si prende il segno per la cosa segnata. Questo è comunissimo e naturalissimo. Poniamo che si domandi: che cosa è questo? E che si risponda: « è corpo, è luce, è un elefante, ecc. ». In questa risposta si prende il segno per la cosa segnata, poichè invece di dire con lungo ambito: è quell' ente che viene significato dal vocabolo corpo, o dal vocabolo luce, o dal vocabolo elefante, ecc., si dice brevemente che è il vocabolo stesso. Ebbene quale meraviglia ora che la voce parola, verbum, «logos», sia usata nelle Scritture, e nei greci e nei latini scrittori, per significare qualunque fatto, avvenimento, e fin anche pel generalissimo cosa , come si può vedere nei lessicografi? [...OMISSIS...] ; e questo parlare è frequentissimo nei libri santi. Così la voce parola o verbo , venne a prendersi pel maggior astratto col quale si possa concepire l' ente reale ed efficiente ; e quella voce stessa fu applicata a significare altresì la seconda delle Persone divine. Anche l' essere ideale potè essere significato come rappresentativo del reale, trasportando ad esso la parola immagine o cosa veduta , come fecero le lingue antiche. Ora, pervenuta la mente a fissare alcuni astratti coll' aiuto di tali segni sensibili somministrati dalla natura, e quindi denominati, applicando ad essi il nome imposto da principio a cotali segni, già il cammino della mente non trova più impedimenti insuperabili, e però tutto il suo svolgimento rimane naturalmente spiegato. Dati dunque coll' anima i termini e gli stimoli necessari per uscire ai suoi atti, ella tiene in questi un modo suo proprio. E questo si è che ella, avendo un' attività limitata, quando vuole unirsi più al suo termine, allora concentra quell' attività in una sola parte di esso, e così la sottrae alle altre parti; di che nasce l' analisi materiale o formale, secondo che l' oggetto su cui si esercita ha estensione o no. L' analisi formale è l' astrazione propriamente detta, che in un oggetto ideale o spirituale considera un elemento, lasciando il resto; e questa è quella legge psicologica, che risponde alle leggi ontologiche sopra descritte. Qui nasce una difficoltà, che domanda scioglimento. Come un oggetto ideale ovvero spirituale, che è semplicissimo, si può analizzare e quasi dividere in parti dall' uso dell' attenzione umana? E queste parti sono esse vere, oppure sono apparenti e ingannevoli? Per rispondere è necessario prima di tutto osservare: Che una cosa semplice molte volte si moltiplica dallo spirito, che la considera in relazione con molte; per esempio quando si dice: « l' essere ideale è la possibilità delle cose », non si fa che considerare questo essere in relazione colla sua realizzazione, senza che si predichi perciò la possibilità dello stesso essere ideale. Così tutte quelle che noi abbiamo chiamate idee elementari dell' essere ideale (1), si riducono ad altrettante relazioni di esso. Ora le molte relazioni di un essere semplice non tolgono a lui la sua semplicità, come al centro del circolo non è tolta la semplicità, quantunque si riguardi in relazione con tutti i punti assegnabili nella circonferenza, che non hanno numero. Le dette relazioni altro non dimostrano se non che quell' ente semplice non è solo, ma vi sono altri enti, i quali a lui si possono riferire e paragonare col pensiero, e lui ad essi. E per vero, se vi fosse il solo essere ideale e niun ente reale (il che è impossibile), in tal caso niente si potrebbe distinguere in quello, che si rimarrebbe interiormente uniforme. E però qualora Parmenide, ammettendo un solo ente, avesse inteso l' ente ideale, l' idea dell' ente, in tal caso solo riuscirebbero efficaci le obbiezioni che gli fecero Platone (2) ed Aristotele (3), i quali pretendono trovarlo in contraddizione, perchè a quell' ente attribuisce l' immortalità, l' immobilità, l' uniformità, l' integrità, la perfezione, ecc., poichè dicono che se l' ente è semplicemente uno, non gli si può aggiungere altro. Ma a quel tempo non si era ancora conosciuto che l' ente è sotto più forme, e però senza avvedersi si ragionava dell' ente ora sotto una forma, ora sotto l' altra; il che perdeva quei grandi ingegni in inestricabili labirinti. Ma per lo più, quando il ragionamento s' innalzava, finiva nell' idea dell' ente , e le proprietà di questa idea si attribuivano all' ente stesso. Onde come quell' idea non ha interna varietà, se non è in presenza del reale, si negava che anche l' ente avesse interna varietà ed ordine. Indi quelle obbiezioni, che paiono così difficili a risolvere. Che un ente può essere semplice, e tuttavia avere varietà nel suo seno. La ragione, che fa supporre il contrario, si è il non avere altro concetto della semplicità fuori di quello che si trae dal punto matematico; concetto negativo, che non dice se non l' ultima negazione dell' estensione. Ma gli enti semplici non consistono in una sola negazione, anzi sono positivi, più positivi ancora degli enti estesi. E` semplice adunque ciò da cui non si può levare cosa alcuna senza distruggerlo. Secondo questa definizione non è già contrario alla semplicità che un ente molte e varie cose in sè contenga; ma è uopo che tutte le cose che contiene sieno così unificate che il rimuoverne solo una basti a distruggere l' ente. Quindi varie classi di enti semplici. Il punto matematico non è un ente , come dicevamo, ma una negazione , non è un oggetto del nostro spirito, ma un atto che fa il nostro spirito sopra un oggetto (l' estensione). L' ente ideale è tutto uniforme, nè dentro ad esso, finchè resta solo, si può discernere cosa alcuna distinta; ma per distinguere alcuna cosa deve confrontarsi coll' ente reale. L' ente spirituale è semplice, e non uniforme nel suo interno, anzi quasi organato, sì fattamente però che niun suo organo, niun suo essenziale elemento si può divellere da lui senza distruggerlo. Il che non di meno vuole intendersi in più modi. Poichè: Se si parla della realità dell' ente spirituale, le sue parti accidentali possono mutarsi in altre , ma non dividersi per ciò; può anche moltiplicarsi , se si moltiplica il suo termine, come accade del principio animale; ma neppure questo è dividersi in più. Se si tratta dell' idea dell' ente spirituale, in questa si può colla mente: 1 concepire le mutazioni degli accidenti dell' ente e la sua moltiplicazione; 2 di più, dividerne altresì gli elementi col pensiero astratto, ma non col pensiero complesso, il quale rimane sempre nella mente; nè che il pensiero astratto e parziale trovi tali distinzioni si oppone colla semplicità dell' ente; nè ella è cosa contraria alla verità, perocchè quegli elementi sono nell' ente distinti veramente, benchè non separati. Ora il pensiero astratto ed analitico non li separa già, ma solo li distingue, e nello stesso tempo che questo atto del pensiero li distingue, il pensiero intero e complesso li tiene individualmente uniti. Che se talora l' uomo crede di separarli con ciò, egli s' inganna; quella sua credenza non gli nasce dal pensiero, ma dall' arbitrio, fonte degli errori. Niente si conosce se non l' oggetto del pensiero (idea), o ciò che dice lo spirito intorno all' oggetto del pensiero (verbo). Quando l' oggetto del pensiero siamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi, allora conosciamo noi stessi, o ciò che è o che accade in noi. Una tale cognizione dicesi coscienza . La coscienza è diversa dal sentimento , perchè quella è cognizione ed ha la dualità propria della cognizione (il conoscente ed il cognito come enti separabili); questo è semplice, ha solo quella dualità propria sua, per la quale si distinguono due termini così correlativi che l' uno non si può pensare come ente, se si separa dall' altro. Ora, fino a tanto che lo spirito umano ha per suo oggetto il solo essere ideale7infinito, egli non ha coscienza, perchè sè stesso e tutto ciò che passa in lui non è ancora divenuto oggetto di sua attenzione (1). L' attenzione , adunque, posta a sè stesso, è ciò che produce la coscienza. Conviene adunque che il principio umano (che più tardi si denomina Io) attiri la propria attenzione a sè. Ma il principio umano non è mosso ad attendere se non pel bisogno; e qual' è la definizione di questo bisogno? « Il bisogno è l' istinto di compiere un' azione incominciata, ossia è l' istinto di completare un' attività che ha cominciato a muoversi ». Ma tutta l' attività umana incomincia a muoversi mediante il suo termine reale, come abbiamo detto. Quindi solamente aggiungendosi al principio intellettivo un termine reale, è possibile che venga il caso pel quale egli sia mosso ad attendere a sè, e così formarsi la coscienza. Date poi le condizioni, alle quali l' uomo si forma la coscienza, egli può anche separare sè stesso positivamente dall' oggetto ideale, e conoscersi come soggetto contrapposto ad esso. Vi è dunque questa differenza fra il primitivo stato dell' uomo anteriore ad ogni suo sviluppo e lo stato in cui ha coscienza di sè; vi è questa differenza, dico, circa il distinguere l' essere ideale da sè, che: Nel primitivo stato egli conosce il solo essere ideale e non sè stesso; perciò non confonde l' essere ideale con sè, perchè il sè non lo conosce, non è ancora formato, ma neppure lo distingue, perocchè non si può distinguere una cosa da un' altra senza conoscerle entrambe. Nello stato di coscienza può conoscere l' essere ideale e conoscere sè come soggetto opposto a questo oggetto, e così distinguersi con un atto positivo. Si può adunque stabilire che lo spirito ha per legge psicologica di conoscere senza coscienza, e che la coscienza gli nasce solo in conseguenza degli stimoli reali, che lo traggono ad operare. Ma quello che lo spirito aggiunge del suo è il verbo , cioè quella parola interiore colla quale afferma o nega. Con questo atto lo spirito acquista una nuova cognizione, ma, si noti bene, non già un nuovo oggetto , perchè ciò che lo spirito pronuncia suppone l' oggetto a lui dato per intuizione, percezione, ragionamento, chè anzi il pronunciato dello spirito si fa intorno all' oggetto dato, quasi a sua materia. Ora questo verbo, giudizio, affermazione, o come si voglia in altro modo chiamare, è mosso dalla ragione pratica influente sulla teoretica, e però appartiene più alla ragione pratica, come a sua causa, che non alla teoretica; benchè talora l' atto dell' affermare segua immediatamente, e per un cotale psicologico istinto, alla teoretica visione. Affinchè questo atto della parola interiore sia fatto dallo spirito, conviene che lo spirito nell' oggetto possa trovare una dualità, che poi diviene predicato e soggetto. E posciachè l' ente ideale infinito , diviso da ogni reale, è così uniforme che non ammette moltiplicità nel suo seno, perciò nella semplice intuizione di lui non è possibile alcun pronunciato, alcun giudizio (1). Quindi, acciocchè lo spirito affermi o neghi, egli ha bisogno di essere posto in comunicazione con qualche essere reale, fonte della pluralità. Ma qual' è la natura della cognizione, che acquista lo spirito per via del suo verbo, se questo non gli aggiunge niun oggetto nuovo? La cognizione prodotta dal verbo della mente è interamente diversa da quella prodotta dall' idea (dall' ente); ella è soggettiva , laddove la cognizione dell' idea è essenzialmente oggettiva , come abbiamo veduto. Quando diciamo cognizione soggettiva non intendiamo cognizione falsa, tutt' altro; intendiamo dire che essa ha in sè la sua verità, come la cognizione che viene dall' idea, ma deve riceverla dall' idea, dall' oggetto, a questo accordandosi ed adattandosi. Quindi l' oggetto, l' ente, l' idea, essendo la verità stessa, è superiore al vero ed al falso, e non riceve queste predicazioni, ricevendo solo la denominazione di verità, quasi un sinonimo di lei stessa (2). Il vero dunque ed il falso appartengono ai pronunciati dello spirito e non all' oggetto. Di qui si scioglie quel celeberrimo sofisma degli antichi, che argomentavano: [...OMISSIS...] (3). A cui rispondiamo negando la maggiore, presa nella sua totalità; ovvero, distinguendo le parti di essa, diciamo così: « Non si pensa che l' ente »; distinguo: se per le parole « non si pensa »s' intende esprimersi un pensare oggettivo, concedo; se s' intende esprimere ogni modo di pensare anche soggettivo, che è il pronunciare qualche cosa intorno all' ente, nego; « e quindi non si può pronunciare che l' ente », nego, perchè il pronunciare, essendo affermare o negare qualche cosa, non ha per oggetto l' ente, ma il nesso, cioè la predicazione stessa. Ora intorno all' ente si può pronunciare il falso e il vero; nel qual caso non è che l' ente diventi falso, ma il falso giace nel pronunciato, che è operazione soggettiva dello spirito. Di questa importantissima distinzione, per quanto io so, i filosofi non hanno ben sentita la forza, nè abbastanza conosciuta e descritta la natura della cognizione soggettiva, per via di pronunciamento, giudizio, o verbo dello spirito. In che consiste adunque la natura di questa maniera di conoscere? Non consiste nell' acquisto che lo spirito faccia per essa d' un oggetto nuovo, come abbiamo detto di sopra, ma consiste « in potere lo spirito disporre sè stesso in un certo modo, relativamente all' oggetto che ha dinanzi ». Se lo spirito afferma, dispone sè stesso in un certo modo relativamente all' oggetto; se lo spirito nega, dispone sè stesso in un altro modo. L' oggetto resta il medesimo; perocchè che cosa è l' oggetto? per dirlo ancora « è l' essenza della cosa veduta nell' idea ». Dunque nell' oggetto non è affermazione, nè negazione; questa è tutta opera dello spirito; l' essenza rimane la stessa dinanzi alla mente, tanto se si afferma qualche cosa di quella essenza, quanto se si nega. Nego che in questo giardino sia un pero o un fico: l' essenza del pero o del fico, che è l' oggetto della mente, è quella di prima; solamente lo spirito dichiara a sè stesso che quella essenza non è realizzata in quel giardino. Se avesse affermato, l' essenza non avrebbe egualmente sofferta modificazione di sorte. Qual' è l' effetto che produce questo atto nello spirito? Come si può denominare questo effetto, questa disposizione che lo spirito dà a sè stesso col suo atto? Noi l' abbiamo denominata persuasione , onde questa specie di scienza si può chiamare anche scienza di persuasione ovvero scienza di predicazione . Gli antichi confusero talora la persuasione coll' opinione; differisce grandemente, potendo questa essere congiunta con una ferma persuasione, o con una persuasione debole e vacillante. Procuriamo di dissipare dall' animo le difficoltà che vi potessero insorgere. Altro è l' oggetto intuìto ed appreso direttamente dallo spirito, altro è ciò che susseguentemente lo spirito predica di lui. Nell' intuizione e nell' apprensione diretta dello spirito non può cadere errore (1). Nell' atto del predicamento che fa lo spirito può cadere errore, perchè può essere fatto in modo conforme all' oggetto e in modo da lui difforme. Qui facilmente sorge difficoltà nelle menti, che potrebbero ragionare così: « Se io predico qualche cosa dell' oggetto, questo qualche cosa predicabile non è anch' egli un oggetto? Se sì, dunque anche la scienza di predicazione ha per suo termine l' oggetto, un oggetto nuovo ». Alla quale difficoltà si risponde che il termine della scienza di predicazione non è alcun oggetto, cioè non è nè il soggetto, nè il predicabile, ma è la loro congiunzione; io conosco per la predicazione, che fa il mio spirito, la loro congiunzione in un medesimo oggetto. Replicasi che, dunque, la congiunzione del soggetto col predicato è l' oggetto della scienza di predicazione; e però questa scienza ha un oggetto suo proprio, per essa dunque è dato un oggetto nuovo allo spirito. Chi così ragiona prende una di quelle illusioni comuni, difficilissime ad evitarsi, che noi continuamente cerchiamo di manifestare, perchè impediscono alla mente il filosofare rettamente. L' illusione è questa. La relazione fra il predicato ed il soggetto si può considerare unicamente come possibile (intuibile), e così considerata ella è un oggetto; ma allora ella non è già ciò che si conosce per via di predicazione , ma la si conosce per via d' intuizione. Diamo un esempio; dicendo io: « questo corpo è freddo », io predico il freddo di questo corpo, e mi persuado che questo corpo sia freddo. Ma prima di affermare che quel corpo è freddo, io posso concepire la relazione fra il freddo e quel corpo senza affermarla; allora io la intuisco semplicemente come possibile, e insieme con essa posso anche intuire la relazione fra quel corpo e il caldo; non affermo ancora nè l' una nè l' altra. Intuendo così tali relazioni possibili, il mio spirito ha già l' oggetto, che egli può affermare o negare. Quando dunque afferma o nega, l' oggetto egli lo ha già, e non è lo scopo dell' affermazione o della negazione; l' una e l' altra delle quali operazioni fa solo questo, di rendere persuaso lo spirito che l' una delle due relazioni, intuìte come possibili, sia; e si rende persuaso, quando pronuncia che quella è. Ma di nuovo: « Che cosa vuol dire questo è , che si pronuncia di una delle relazioni possibili, contradittorie? ». Questo è ha due valori, perchè può significare l' atto dell' essere ideale o l' atto dell' essere reale. Se l' affermazione non esce dalla sfera della possibilità, come accade nelle affermazioni logiche e matematiche, per esempio « la conseguenza è contenuta nel principio », ovvero « la somma dei tre angoli del triangolo è uguale a due retti »; quell' è copulativo non significa che l' essere ideale. Se l' affermazione discende alla sfera della realità, come accade nelle affermazioni fisiche, per esempio « questo metallo è oro », ovvero « il sole è un corpo »; quell' è copulativo significa una realità appartenente ad un subbietto reale. Può anche il subbietto essere l' ente astratto dalle sue forme, e il predicato essere la forma reale, per esempio « questo ente sussiste », dove la sussistenza , ossia realità, si piglia come predicato dell' essenza dell' ente. Ora se l' è copulativo, che è ciò che sempre si pronuncia nel predicamento, significa essere ideale, in tal caso ecco la cosa come accade. L' ente ideale è l' oggetto, il quale se non fosse dinanzi alla mente, nulla lo spirito potrebbe predicare di lui. Ora tale oggetto è dinanzi alla mente, che lo intuisce tutto intero, secondo quelle leggi ontologiche che abbiamo esposte. Ma nello spirito, oltre esservi la facoltà dell' intuizione, vi è quella dell' astrazione , la quale si fa per limitazione e concentramento di attenzione. Questa astrazione non distrugge l' oggetto, ma lo spezza, distinguendo in esso i suoi elementi. Questa operazione è soggettiva , l' oggetto non ne soffre, e rimane intatto sì in sè come dinanzi alla mente; solo che la mente, oltre avere l' oggetto intero dinanzi per intuizione, ha altresì l' oggetto diviso nei suoi elementi per astrazione. Questa astrazione , che è una specie di analisi o scomposizione, dà luogo alla predicazione , che è una specie di sintesi, per la quale si ricongiungono quegli elementi scomposti. Quando dico analisi e sintesi , parlo della forma che prende l' operazione dello spirito, e non propriamente del loro risultato. Infatti si può fare una divisione in forma di sintesi, quando accade che invece di affermare si neghi un predicato di un soggetto. Ma posciachè parliamo di operazioni soggettive, conviene che badiamo alla loro forma e non al loro risultato. Ora se la predicazione è falsa, congiungendo un elemento dell' oggetto ad un altro elemento che non gli appartiene, lo spirito in tal caso pronuncia un assurdo (trattandosi del mondo ideale, nel quale ora siamo); e un assurdo non è un oggetto se non putativo. Dico che pronuncia un assurdo, perchè quando afferma un predicato ideale d' un soggetto ideale, come è il caso nostro, allora l' affermazione riguarda la possibilità; e se pronuncia possibile ciò che non è possibile, altro non pronuncia che un assurdo. Predicare adunque la possibilità non è altro che riconoscere ciò che si conosce , affermare d' intuire ciò che s' intuisce. Ma se non si tratta che di riconoscere, cioè conoscere in altro modo ciò che già si conosce, dunque non si produce con ciò un oggetto nuovo dinanzi allo spirito; cangia solamente il modo col quale lo spirito toglie a conoscere lo stesso oggetto; e questo modo diverso, che non può appartenere all' oggetto, appartiene al soggetto; è dunque una mera disposizione nuova, che prende lo spirito rispettivamente al suo oggetto; la quale disposizione dicesi cognizione soggettiva o persuasione , dove si dà il vero ed il falso, secondochè ella si conforma all' oggetto o da esso discorda. Che se l' è copulativo significa essere reale, come negli esempi addotti, accade il medesimo. Solamente che gli elementi del giudizio o predicamento non sono dati dall' astrazione, e quindi se il giudizio è falso, non è necessariamente assurdo; per esempio, quando dico: « questo metallo è oro », laddove egli è ottone, io dico il falso, ma non l' assurdo, perchè non è impossibile a concepirsi che fosse oro; e quando dico: « la fenice sussiste », dico del pari cosa falsa, non impossibile. Qui dunque gli elementi del giudizio sono dati in parte dal sentimento, almeno dalla parte del predicato , il quale è un reale; nè reale vuol dir altro che cosa cadente nel sentimento. Il sentimento poi è soggettivo e al tutto fuori dell' oggetto della mente; ma lo spirito, che è il soggetto, fa un atto pel quale congiunge in una il predicato7sentimento (reale) col subbietto del discorso, che può essere anch' esso reale, ovvero può essere l' essere essenziale, astrazione fatta dalle sue forme. Ora questa congiunzione d' identità non produce novità alcuna nell' oggetto, ma è una congiunzione che avviene tutta nel soggetto che la fa, ed è la disposizione nuova di questo, di cui parlavamo, la quale costituisce la cognizione soggettiva . Infatti noi abbiamo già distinta l' unione fondamentale del soggetto coll' oggetto, ed è quella che accade per via d' intuizione, dall' unione più intima che il soggetto stesso fa col suo oggetto. Questa seconda unione, che dicemmo appartenere alla ragione pratica od operativa, non produce un oggetto nuovo, ma un nuovo grado e modo di unione, e però una nuova cognizione relativa al medesimo oggetto, nella quale cade il vero ed il falso. Ma la realità non si aggiunge? e non è ella un oggetto nuovo? La realità si aggiunge, ma non è un oggetto nuovo, bensì un predicato, un' apparenza dell' oggetto precedente. Poichè se l' oggetto precedente era l' essenza del pane intuìta nell' idea del pane, quando dico « il pane sussiste », altro non fo che aggiungere all' oggetto che conosceva prima (il pane ideale) la realità, la quale non è oggetto, ma è sentimento soggettivo; e però il subbietto di quella proposizione è veramente oggetto, ma il predicato non è oggetto, anzi è piuttosto termine dell' affermazione, termine soggettivo, perchè giacente nel sentimento del pane; sicchè quella proposizione equivale a quest' altra: « il pane, oggetto della mia mente, ha un modo di essere fuori della mia mente, e questo modo di essere è a me sensibile così e così ». Si noti bene che se l' essere sensibile io lo prendo come oggetto della mente e non come sentimento, in tal caso egli è un possibile, e non c' è ancora l' affermazione; non è quello di cui parliamo. Se dunque i due termini della proposizione: 1 il pane, 2 la sussistenza, io li considero come possibili, essi sono oggetti, e in tal caso la sussistenza non è più sussistenza, ma idea di sussistenza; siamo tornati all' ordine ideale. Allora di questi oggetti non ho già io pronunciato la connessione; ma quando la pronuncio, non aggiungo altro oggetto; la stessa fin tanto che io la intuisco come possibile, non la pronuncio, non l' affermo; e quando l' affermo, diviene persuasione, cognizione soggettiva. Nell' essenza ideale adunque di un ente si contiene già la realità come ideale; ma questa non è propriamente per lo spirito umano realità se non allora che egli l' afferma. Lo spirito afferma dunque l' oggetto che già intuiva; e l' afferma perchè lo sente; e l' affermarlo non è altro che un nuovo modo di unire a lui sè stesso. E qui crediamo di non dover tralasciare un corollario importante, che procede dall' esposta dottrina. L' umana cognizione è di due maniere, oggettiva e soggettiva , perchè due sono le attività del principio razionale, l' una suscitata unicamente dall' oggetto e l' altra propria del soggetto. All' attività prima del principio razionale, suscitata dall' oggetto, risponde la cognizione oggettiva, regolata tutta dalle leggi ontologiche che abbiamo esposte. All' attività seconda, propria del soggetto, corrisponde la cognizione soggettiva per via di predicazione, regolata dalle leggi psicologiche. La prima di queste due maniere di cognizione ha per suo termine l' oggetto intuìto (il possibile), e rispetto ad essa si avvera la proposizione che scientia est de necessariis (1). La seconda ha per suo termine la persuasione , ossia un certo stato dell' animo relativo all' oggetto, pel quale l' animo, il soggetto, si unisce all' oggetto in un altro modo, e così accresce la sua cognizione; e rispetto ad essa non ha luogo la proposizione che scientia est de necessariis , potendo essere dei contingenti, perchè il reale può essere contingente, anzi ogni contingente è reale, benchè non ogni reale sia contingente. La quale distinzione basta a distruggere il panteismo idealistico, che dal falso principio che « ogni sapere sia oggettivo » induce che, dunque, ogni sapere è delle cose necessarie, le quali si riducono in Dio. Quindi pone che Iddio sia l' oggetto universale e immediato del sapere. E posciachè ogni entità è oggetto di sapere, tosto raccoglie che ogni entità è Dio. Del quale ragionamento l' errore consiste nel principio; essendo falso, come dicevamo, che ogni sapere sia oggettivo, come pure che ogni sapere sia de necessariis , essendovi un modo di sapere che riguarda i contingenti, un sapere soggettivo che si fa per via di predicazione. La quale distinzione medesima fra il sapere per intuizione e il sapere per affermazione, dà una solida base al metodo filosofico , escludendo l' errore di quelli che dicono che tutto il sapere dell' uomo si riduce ai fatti , e che l' uomo non conosce le ragioni delle cose; che perciò le scienze speculative non hanno alcun vero valore, ma solo le positive, ecc.. Ora la parola fatti si può prendere in più significati; nel senso più ovvio i fatti sono il termine di quella cognizione che si acquista per affermazione . La quale non è la sola scienza dell' uomo, anzi, prima che per affermazione egli conosce per via d' intuizione, per via di oggetto ideale. Quindi egli può anche riportare le cognizioni acquistate colle sue affermazioni (i fatti conosciuti) alle cognizioni sue per via di intuizione , e trovarne i rapporti; nei quali rapporti stanno le ragioni dei fatti , che diventano un terzo genere di cognizioni. Di questo errore non va immune neppure la filosofia scozzese (2). Che se alla parola fatto si dà un senso estesissimo, benchè improprio, in tal caso conviene distinguere: 1 i fatti reali; 2 i fatti ideali; 3 i rapporti di questi con quelli, ossia le ragioni che spiegano i fatti reali. E solo in questo senso improprio si può dire che tutte le cognizioni umane si riducono ad avere per loro materia dei fatti. Noi non abbiamo potuto esporre le leggi psicologiche del principio razionale se non mescolandole a ciò che somministra allo spirito il mondo, perchè il movimento degli atti secondi non è dato allo spirito se non dall' azione del mondo. Quindi sono da distinguersi le leggi, che presiedono a produrre il movimento del principio razionale già costituito, che chiameremo leggi della mozione , dalle leggi che determinano il modo che tiene il movimento, le quali noi possiamo chiamare leggi della qualità del moto . Le leggi della mozione sono cosmologiche, cioè imposte allo spirito dalle entità contingenti, che sopra di lui agiscono. Le leggi della qualità del moto sono in parte cosmologiche e in parte psicologiche. Di che noi ridurremo tutte le leggi cosmologiche a due supreme, l' una delle quali chiameremo legge della mozione, perchè esprime la dipendenza degli atti dello spirito dall' azione stimolante del mondo; l' altra chiameremo legge dell' armonia estetica , perchè esprime la qualità e il modo del movimento dello spirito e degli atti secondi, determinato dall' armonia del mondo prestabilita dal Creatore, acciocchè una pari armonia si trasporti nello spirito che svolge la sua attività. Nel sensismo di Fichte (l' idealismo di questo filosofo è puramente sensismo) lo spirito pone sè stesso con quell' atto con cui pone il mondo. Egli afferma ad un tempo l' io e il non io come contrapposti correlativi, l' uno dei quali limitando distingue l' altro. Secondo noi lo spirito non si costituisce in questo modo, ma egli procede per via degli atti seguenti: Intuisce l' oggetto, l' essere in universale, senza affermarlo, senza affermare sè stesso, senza avere alcuna coscienza nè di sè, nè del suo atto; egli vive ed è nell' essere. Contemporaneamente percepisce un sentimento fondamentale, e perciò ha una percezione fondamentale , la quale è apprensione senza espressa affermazione . Ma con ciò non percepisce sè stesso come percipiente , nè ha coscienza di sè, benchè abbia cognizione del proprio sentimento, del termine del sentimento e del principio del sentimento, senza che questo sia diviso con un alcun atto dello spirito dal termine in cui si giace. La coscienza, poi, e l' io viene molto tempo appresso nella maniera da noi spiegata. Dunque il termine del sentimento fondamentale non si percepisce pronunciando un non7io , che è la relazione coll' io , la negazione di questo; ma si percepisce semplicemente come esteso senza confronto alcuno coll' io; chè l' io non è per anco rivelato. Perocchè l' io non è il principio senziente, ma è il principio razionale percipiente il sentimento, che acquistò colla riflessione7coscienza, ossia che si è percepito. Tuttavia nel sentimento vi è la dualità male espressa da Fichte colle parole di io e non7io ; la quale si doveva esprimere colle parole significanti i concetti correlativi di principio e di termine. Ora la mutazione, che nasce nel sentimento, è la condizione della mozione che riceve il principio razionale ai suoi atti secondi; e perchè quella mutazione accade naturalmente per l' azione degli agenti, che compongono il mondo, perciò lo spirito si dice soggetto a questa legge di dipendenza nel suo sviluppo dal mondo, legge cosmologica. Questa legge adunque si riduce a quello che abbiamo già indicato, cioè che il reale è il termine suscitatore dell' attenzione , che è la forza radicale del conoscere soggettivo , e la attua e concentra (1). Onde venendo tolto il reale all' anima, niun atto conoscitivo può a lei restare eccetto l' atto primo d' intuizione, senza attenzione soggettiva, senza concentrazione alcuna di questa. Di che può dirsi in un senso che il soggetto, come soggetto, non abbia in tale stato alcuna cognizione attuale sua propria. Ma in questa legge sono da considerarsi due cose: La ragione perchè il principio razionale passi ai suoi atti secondi, uscendo dalla sua inerzia; il che si può esprimere così: « Il reale, quale termine del principio razionale, è ciò che suscita l' attenzione di lui e lo conduce agli atti di conoscere soggettivo ». La ragione perchè questi atti secondi del principio razionale sono vivaci, durevoli e soddisfacenti; il che si può esprimere così: « Se gli atti secondi del principio razionale trovano un termine reale, in tal caso sono stabili e vivaci; altrimenti sono languidi, faticosi, e cessano prestamente ». Consideriamo l' una e l' altra parte di questa legge. Questa legge è patente dall' esperienza. Su di essa giova fare le seguenti osservazioni: Non ogni reale eccita il principio razionale ad un medesimo grado di attenzione e pone in lui un' eguale quantità di azione; ma alcuni reali attirano a sè unicamente l' attenzione che nella percezione s' acqueta, altri all' incontro muovono il ragionamento . I reali, che muovono il ragionamento e non la sola percezione, sono i bisogni; onde il principio razionale ricorre istintivamente a tutte le vie per soddisfarli, e però anche al ragionamento; il bisogno poi non è un sentimento semplice, ma è un sentimento che risulta da molti sentimenti semplici, aggruppati con un certo ordine; dove sta propriamente la ragione di quella mozione, che si svolge anch' essa in atti molteplici. I reali eccitano ancora il ragionamento e un' azione che si estende oltre la percezione, quando sono connessi insieme in virtù delle leggi dell' animalità e degli istinti animali; onde accade che, data un' immagine, se ne suscitano altre ed altre; dato un sentimento, a questo altri si accoppiano secondo il tenore di dette leggi. Quando il pensiero è giunto a concepire e proporre un fine alla volontà, allora nasce il decreto libero di pensare ai mezzi, e quindi si estende l' attività; ma questa stessa attività cogitativa ha bisogno di continuamente aiutarsi con nuovi reali, pei quali trascorre il pensiero e l' azione. Non ogni reale, benchè ecciti una percezione vivace, è bastevole a produrre la coscienza , cioè a muovere l' uomo a riflettere su di sè; ma l' uomo è indotto a questo principalmente dal linguaggio sociale e dai suoi bisogni. Infatti, nella società i nomi e i pronomi personali eccitano la riflessione a ripiegarsi sopra la persona; e il bisogno nasce ben presto; come, poniamo, se viene fatto un torto al bambino, egli, pigliando a difendere il proprio diritto e a giudicare fra sè e il compagno offensore, incomincia a riflettere sulla propria persona e sull' altrui. Finalmente i sentimenti, essendo durevoli per qualche tempo, aiutano il pensiero a mantenersi in atto; il che forma la seconda parte della legge che noi esponiamo. Niuno di quelli che sogliono osservare la maniera di operare dell' uomo negherà questo fatto. Ma qui si presenta una curiosa ricerca. Noi abbiamo veduto: 1 che il movimento non è continuo, ma che si fa per mutazioni istantanee di stato a stato, ciascuno dei quali stati dura un tempuscolo; 2 che ai sentimenti eccitati precedono o certo corrispondono dei movimenti extra7soggettivi nella fibra. Ora altro è il sentimento, altro la mutazione di un sentimento ad un altro; questa può farsi in un istante, quello deve avere qualche durata. Il sentimento eccitato adunque è sempre uno stato più o meno durevole. Se dunque il sentimento eccitato è uno stato durevole, e se tuttavia egli viene eccitato in compagnia di mutazioni (movimento di fibre) non durevoli, conviene dire che le mutazioni istantanee, che si hanno nel movimento, nè sono i sentimenti, nè possono essere la causa piena dei medesimi; la pienezza di questa causa deve venire dallo stesso principio senziente che dura. In secondo luogo si conferma che vi è un sentimento non eccitato , il quale ha per suo termine l' esteso, cioè più estesi che si confricano, e non il movimento (1). In terzo luogo si scorge che i movimenti, che nascono nell' esteso, non sono sentiti nelle loro singole mutazioni istantanee, perchè: 1 in tal caso la mutazione essendo istantanea, e il sentimento non durando se non quanto dura il suo termine, egli non durerebbe nulla se avesse per termine le sole dette mutazioni; e però non sarebbe sentimento; 2 se così avvenisse, noi non avremmo mai un sentimento costante, ma dovremmo sentire in ogni sentimento una mutazione incessante, ogni sentimento sarebbe un complesso di molti sentimenti successivi, fra l' uno e l' altro dei quali rimarrebbero degli intervalli senza sentimento; il che è al tutto opposto al fatto dell' esperienza. Nè si può dire che tale moltiplicità e tali intervalli sieno in ogni sentimento senza che noi li avvertiamo, perocchè, qualora la cosa così avvenisse, noi dovremmo assai più facilmente accorgerci degli intervalli di un sentimento all' altro che avrebbero durata, che non sia degli stessi sentimenti che non ne avrebbero alcuna; sicchè tutti quei sentimenti, presi insieme, durerebbero meno di un solo intervallo, come la niuna durata è meno di qualsiasi minima durata. Oltracciò la ragione per la quale non avvertiamo certe cose, che passano in noi, si è perchè noi siamo occupati e distratti da altre più sensibili, che attirano e legano la nostra attenzione razionale. Ora nel detto caso la cessazione del sentimento che durerebbe si dovrebbe poter avvertire, anzi sarebbe più atta a tirare e tenere a sè la nostra attenzione che i sentimenti che nulla durerebbero. Perocchè è da stabilire che « tutto ciò che l' uomo sente e tutti i passaggi di un sentimento ad un altro sono per sè avvertibili », ed è solamente accidentale che non s' avvertano per la ragione detta. Finalmente altro è non avvertire ciò che vi è, altro avvertire ciò che non vi è. Al primo siamo soggetti per distrazione, al secondo no. Laonde rimarrebbe inesplicato come noi avvertiamo la durata dei nostri sentimenti, se questa durata non fosse. Anzi dobbiamo dire: « noi l' avvertiamo, tutti gli uomini l' avvertono, dunque vi è »; se ella non fosse, non la potremmo avvertire. E` dunque da conchiudere con questa bella ed importante proposizione, che dichiara non poco la natura del sentimento animale: « Le sensazioni e gli altri sentimenti eccitati non hanno per loro termine il movimento della fibra, cioè la mutazione di luogo o di stato delle parti che compongono il sentito esteso, ma hanno per termine lo stesso sentito esteso; dal movimento però delle parti dell' esteso, e dalla pressione e confricazione reciproca di esse, consegue che l' esteso sia sentito in altro modo e con maggiore vivacità »(1). Ora poi una cosa prova l' altra: il fatto della durata del sentimento eccitato prova l' impossibilità del moto continuo, come suo termine; il moto continuo non ha alcuno stato o luogo durevole, dunque non può essere termine del sentimento. Laonde è a dire che le mutazioni, che accadono nel moto della fibra, possono essere eccitatrici (a loro modo) del sentimento, non essere da sè sole suo termine; e che il sentimento eccitato dura in istato, quantunque lo stimolo eccitante (la mutazione della fibra) non duri. Se non avesse disposto il Creatore che le sensazioni si prolungassero nella durata, non sarebbero bastate al bisogno, nè sarebbero possibili le osservazioni e le esperienze degli studiosi della natura. Veniamo ora a giovarci della seconda parte della legge della mozione alla spiegazione di alcuni fatti. E` certo che il principio razionale, tratto una volta ai suoi atti secondi, acquista un movimento libero, cioè tale che può dirigersi secondo i fini della volontà; e nondimeno, se il detto movimento razionale (mosso in origine da un termine reale, da un bisogno, ecc.) non trova pure un termine reale a suo scopo, egli non può formare atti lungamente durevoli, facili e vivaci. I fatti, che vengono spiegati mediante questa legge, sono principalmente i seguenti; ella spiega: Perchè senza sensazioni o fantasmi la mente non può pensare soggettivamente (1). Perchè le sostanze incorporee riescano difficili a concepirsi puramente, senza mescolarvi cosa alcuna di corporeo. Di che la ragione è questa: noi non percepiamo nell' ordine della natura altra sostanza incorporea che l' anima nostra, e l' anima nostra noi la percepiamo per via di sentimento, in questo come in suo principio. Ora il sentimento nostro proprio ha per termine l' esteso puro o corporeo. Vero è che il principio intuente è l' atto primo dello stesso sentimento, ma appunto perciò non ha coscienza; è un reale, ma non è un reale7termine , ed è solo il reale7termine che suscita l' attenzione. Ora l' uomo nell' ordine naturale non ha altro reale termine che il corpo, e perciò l' attenzione del principio razionale è attirata dal sentimento corporeo, e solo in appresso per libera riflessione considera il principio intuente; e questo non lo può conoscere con una concezione viva e concentrata, appunto perchè non vi trova alcun reale che gli possa servire di termine eccitatore. Non essendovi dunque in noi percezione di alcuna sostanza incorporea se non della nostra propria, la quale non si rende termine eccitante la nostra attenzione se non in quanto è unita al corpo, indi avviene che siamo inclinati a concepire ed immaginare le altre sostanze di quella natura che è il termine della nostra, cioè di natura corporea. Perchè le astrazioni hanno bisogno di segni, o naturali o artificiali, per pensarsi e per ragionare con esse o sopra di esse. Perchè le sostanze spirituali e gli astratti nelle lingue più antiche sono sempre significati con vocaboli tratti da cose corporee. Così anima, animus, «anemos», spiritus, «pneuma» , sono tutte voci significative del vento o aria corporea, trasportate a significare la sostanza incorporea. Così pure l' astratto del bene morale non ebbe un nome suo proprio, ma fu chiamato ora virtù , che significa forza (1), ora honestas , che significa bellezza, ora mos , che significa consuetudine; la parola obligatio è pure tolta dal legame sensibile e trasportata a significare la forza della legge. E del pari si può dire di ogni sostanza spirituale e di ogni astratto, eccetto il solo verbo essere , che non fu mai espresso per via di metafora; il qual fatto è già solo per sè una manifesta testimonianza del senso comune, che depone a favore del sistema filosofico da noi proposto, dimostrando che l' essere non è a confondersi colle altre astrazioni, siccome quello che è oggetto immediato e sempre presente della mente (2). Perchè le lingue sono strumenti acconci al pensiero, tanto per sintesizzare, quanto per analizzare. Per sintesizzare, si vede nell' imposizione delle parole, allorquando s' impone un nome affine di legarvi un gruppo di idee o di rimembranze. Essendo obbligato il pensiero all' unità per legge ontologica, quando egli deve ritenere più concetti o pensieri, cerca di raggrupparli; ed uno dei modi che adopera è di attaccarli ad una sola parola , la quale, essendo un reale, tiene desta e viva l' attenzione e la memoria, chè altrimenti svanirebbe, se nella pluralità delle cose non vi fosse un vincolo reale , che le congiungesse ed unificasse. Quindi l' istinto di segnare i luoghi, dove è avvenuto qualche avvenimento che preme di mantenere nella memoria, con un vocabolo che lo rammemori; giacchè l' avvenimento e il luogo non hanno connessione naturale ed essenziale, e però si trova un segno unico commemorativo di entrambi. Questo istinto razionale non ha solamente lo scopo di tramandare ai posteri quelle memorie, ma ben anche di renderle presenti a sè stessi; e si scorge più attivo nei primi uomini, il cui linguaggio era ancor povero, onde avevano più bisogno al loro uopo di tali imposizioni di nomi. Così Agar impone il nome di « pozzo del veggente »a quello presso il quale erale apparso l' angelo del Signore (1). Abramo, similmente, al monte del sacrificio impone il nome « il Signore vede »(2); Giacobbe al luogo, dove ebbe la visione della scala, pose il nome di Bethel, ossia « casa di Dio »(3); al luogo di un' altra visione di angeli, dove aveva detto quasi espressione spontanea del suo sentimento (il che mostra l' istinto del pronunciare): « questi sono gli accampamenti di Dio », pose nome Mahanaim , cioè « accampamenti »(4). Così si nominavano i pozzi, che facevano scavare i patriarchi, secondo l' avvenimento che aveva occasionato quell' opera, e il sentimento da cui erano all' istante animati (5); ed è frequentissimo in tutta la Genesi questo fatto dell' imposizione dei nomi ai luoghi dei più insigni eventi. Sospinti gli uomini dallo stesso istinto razionale, agli astri stessi diedero dei nomi, i quali rammemorassero qualche eroe o qualche avvenimento, di cui volevano perrennar la memoria, quando essendo egli passato, aveva cessato di essere, ossia di operare come reale; conseguendo il loro intento col legarlo appunto a due reali, l' uno dei quali feriva sempre vivamente gli occhi col suo sublime aspetto, nè poteva guastarsi dal tempo siccome si guastano i monumenti terreni; l' altro feriva l' orecchio, ed era il nome consegnato alla società delle succedenti generazioni. Onde Giuseppe Bianchini con sapienza scrisse: [...OMISSIS...] Noi possiamo dire che ogni parola è una sintesi, giacchè assai di rado una parola significa un concetto solo, come scorgesi dei sinonimi, i quali, convenendo in un concetto principale, ne risvegliano tanti altri, che difficilmente si osservano se non dai più sagaci osservatori, qual' è un Tommaseo, e pure si sentono dal comune degli uomini, i quali si accorgono unanimi se nell' uso delle parole pur manchi qualche cosa alla proprietà del parlare; nè però sanno dire con distinzione che cosa manchi, e se vogliono dirlo, talora sbagliano, e se vogliono scrivere, mancano alla proprietà essi medesimi. I vocaboli adunque prestano fra gli altri quest' ufficio al pensiero, di dare unità a certe pluralità di concetti, la quale pluralità , non essendo un reale, ha bisogno di un segno reale per essere ritenuta e marcata. Laonde tutto ciò che non è un reale operante sull' uomo: a ) le sostanze incorporee, b ) gli astratti, c ) i molteplici, d ) i reali passati, come i fatti storici che non sono più operanti sull' uomo, e ) i reali assenti, e però del pari non operanti, e così via, esigono dei segni reali acciocchè l' uomo possa mantenere e concentrare in essi la sua attenzione. Quanto ai reali assenti, la prova di ciò che diciamo è nel desiderio che ha l' uomo di avere ritratti e memorie , che gli facciano sovvenire vivacemente le persone o le cose amate, le quali egli non può avere di continuo presenti. E le sostanze incorporee si possono considerare come assenti, in quanto che non operano come reali immediatamente sopra di noi; quindi la propensione e il bisogno delle immagini e dei simboli che le rappresentano alla nostra venerazione, e la ragione di tutto il culto esterno. Onde gli Iconoclasti, abusando di vane sottigliezze, oppugnavano le leggi della natura. Come poi ogni parola è una sintesi , così ogni proposizione e ogni discorso è un' analisi . E che il pensiero per analizzare, e specialmente astrarre, abbia uopo giovarsi dei segni e massimamente dei vocaboli che sono i più acconci e naturali, si vede da quello stesso che dicevamo, cioè che la pluralità non è un reale; ora l' analisi non fa altro che scomporre l' uno in più. Riconducendo dunque alla pluralità , già per questo solo abbisogna dei segni a cui legare l' attenzione, acciocchè questa possa concentrarsi nelle singole parti, e nello stesso tempo abbracciarle in modo da non dimenticare che sono parti di un tutto solo. Al che mirabilmente giova la lingua, strumento sintetico ad un tempo ed analitico. Coll' invenzione adunque della lingua l' uomo: 1) - Soddisfa ad un bisogno proprio del suo pensiero; e perciò la lingua non s' inventa solamente per comunicare altrui i propri pensieri, ma per fissare il pensiero proprio, dirigere, fermare e concentrare la propria attenzione. 2) - Soddisfa altresì al bisogno di comunicare i propri pensieri ai suoi simili, fornendo loro quello stesso facile mezzo di pensare, cioè di dirigere e concentrare la propria attenzione, che adopera per aiutare a ciò sè stesso. Nel che è da ammirare la sapienza del Creatore, il quale non ha abbandonato questa invenzione della lingua al solo operare libero e calcolato del pensiero umano; ma ne ha messo nell' uomo l' istinto, come diremo parlando di quella specie di leggi psicologiche del pensiero, che rispondono alle cosmologiche; e di più gliene ha egli stesso comunicati positivamente i primi elementi. Si spiegano per questa via anche le leggi della memoria, nella quale si rinvengono alcuni fatti di non facile spiegazione: La prima cosa, che riesce difficile a spiegare, si è come le cognizioni si conservino in noi, senza che noi ci pensiamo. - Nasce ciò solamente perchè non vi rivolgiamo più l' attenzione, come accade che un quadro, benchè ci sia continuamente presente, non lo vediamo se non volgiamo a lui gli occhi? Questo non basta a spiegare il fatto pienamente; perocchè se il giacere in noi le cognizioni, senza che noi ci pensiamo, dipendesse solo da non darvi avvertenza, in tal caso ogni qual volta vorremmo, potremmo risovvenirci di checchessia, come possiamo ogni momento riguardare il quadro, che ci sta dinnanzi a nostra libera voglia. All' incontro, molte cose dimenticate noi non possiamo più richiamarcele, o ce le richiamiamo a fatica. Conviene dire che in tal caso l' attenzione non è attivata e tenuta da alcun reale, cioè da alcuna immagine o altro sentimento; e però ella non sa dove volgersi e dove affissarsi per trovare la notizia o la cognizione che cerca nell' anima. Quando dunque cessano le immagini e i sentimenti, ai quali è legata la notizia o cognizione desiderata, allora ella s' immerge nell' essere universale uniforme, dove si sta nascosta, che è quello che gli antichi dicevano conoscere potenzialmente o virtualmente. Ma ivi non è tuttavia smarrita per sempre; ella ne emerge ogniqualvolta alla forza dell' attenzione riesce di afferrare un' immagine o un sentimento reale, a cui quella notizia è congiunta nell' istinto dell' attenzione medesima; del quale reale ella quasi si veste, o a parlar propriamente, è segnata. Onde le cognizioni, che si smarriscono affatto e di cui non vi è reminiscenza, si possono dire cognizioni non segnate , e quindi non distinte nell' essere ideale. La seconda cosa a spiegare circa i fatti della memoria si è perchè alcune cognizioni o notizie ci riappariscano da sè stesse al pensiero, senza ed anche contro nostra volontà, e così talora diano luogo a quelle che diciamo poi distrazioni, tentazioni, ecc.. La ragione ne è la medesima: posto il principio che le notizie e cognizioni che in noi stanno, richiamano e tengono la nostra attenzione ogniqualvolta sono segnate, ossia legate a qualche reale, siccome immagini, sentimenti, corpi esterni, ecc., e posto d' altra parte che i reali, a cui sono legate, si presentano a noi senza ed anche contro volontà nostra, come quelli che dipendono dal gioco dell' animalità e delle animali potenze; è manifesto che molte notizie obliterate ci devono da sè ritornare al pensiero, e attirare a sè l' attenzione nostra cogitativa secondo le leggi dell' istinto e delle abitudini, e talora anche farci violenza, quand' elle sieno più forti a trarre e tenere l' attenzione che non sia la volontà nostra a ritrarnela. E quale sia la forza e l' indipendenza delle immaginazioni e dei sentimenti animali, ogni giorno si prova per esperienza; il che è una grande umiliazione dell' uomo, che risiede nel principio razionale, perocchè questo principio, che è l' uomo, vedesi così sgagliardito che, dovendo egli per ogni buona ragione precedere e imperare, in quella vece segue siccome schiavo incatenato ed ubbidisce, renitente indarno e contendente. La terza cosa a domandare si è perchè alcune notizie si richiamano con facilità al pensiero, ed altre difficilmente. - Veduto che la presenza dei sentimenti reali , onde si segnano le notizie, non dipende interamente da noi, resta facile intendersi anche questo fatto. Poichè i movimenti e sentimenti animali nè sono intieramente sommessi nè interamente sottratti al potere del principio razionale; ma questo può molto in essi, non però tutto quello che vuole. Onde talora gli riesce facile il muovere quei sentimenti in sè stesso, talora difficile, talora poi del tutto impossibile. Se poi si chieda secondo quale legge si digradi questa facilità o difficoltà, restringendoci a quello che riguarda solo la reminiscenza, noi diciamo: 1 che l' uomo che pensa ha sempre dei reali presenti (pei quali reali s' intende immagini e sentimenti); 2 che i reali presenti sono più o meno legati coi reali non presenti; 3 che questo legame è un legame di segno , o anche un legame organico , onde un movimento sensibile è continuazione od effetto immediato di altri, o un legame consensuale per istinto ed abitudine , ecc.. Acciocchè dunque il principio razionale possa suscitare e ridurre in atto i sentimenti che egli cerca: 1 questi debbono avere connessione con quelli che gli stanno attualmente presenti in atto; 2 debbono poi altresì avere una connessione più o meno felice e di spontaneo passaggio, secondo la qual condizione il principio razionale più o meno facilmente riesce a ridurre in pristino i movimenti animali e i sentimenti annessi che cerca, siccome segni delle notizie che gli bisogna rammemorare. Per legge cosmologica dell' operare del principio razionale intendemmo quella che gli viene imposta dall' azione delle cose create, dal mondo o, come direbbe Fichte, dal non7io . Nel quale concetto del mondo il principio stesso razionale viene escluso ed al mondo contrapposto, benchè questo stesso principio, questo io , formi pure anch' esso parte del mondo; altro errore del fichtiano sistema (1). Tuttavia, poichè l' anima intellettiva ha nell' idea lo specchio del mondo reale ed anche di sè stessa, non è al tutto assurdo pigliarla in due aspetti, come cognita e come conoscente, come parte del mondo e come opposta al mondo. Così la natura del mondo, compresa l' anima termine del conoscere, è il fonte delle leggi cosmologiche, secondo le quali opera il principio razionale (l' anima); e la natura dell' anima, principio razionale, è il fonte delle leggi psicologiche corrispondenti. Ma qui ci si domanda se l' animalità appartenga all' anima conoscente, a cui somministra l' immediata materia. La quale questione deve sciogliersi prima di entrare a parlare della legge dell' armonia, acciocchè si sappia se questa legge, in quanto è cosmica, debbasi derivare non solo dall' ordine delle cose esteriori, ma ancora dall' ordine intrinseco all' animalità, come formante parte di quel mondo che si considera contrapposto al principio razionale. Rispondiamo che l' animalità, come tale, non appartiene all' anima conoscente, la quale significa principio, quando quella non è rispettivamente che termine, in quanto cade nella percezione fondamentale. Laonde l' armonia, che il principio razionale trova nel suo termine e ond' egli stesso partecipa, gli viene non solo dall' armonia che vi è nelle cose esterne diverse dai sentimenti animali, ma dall' armonia che sta nella stessa animalità. Gli antichi pensatori della scuola italica avevano conosciuto l' esistenza della legge dell' armonia nelle operazioni del principio razionale, ma l' avevano creduta piuttosto una legge unicamente psicologica che una legge in parte almeno cosmologica . Di che la ragione si fu che essi non sapevano concepire l' anima puramente intellettiva, neppure intendevano la natura dell' anima razionale, ma movendo il pensiero filosofico da ciò che è più ovvio agli uomini, la materia ed il senso, fissavano lo sguardo della loro mente nell' anima sensitiva, ed a questa come a principio riducevano ogni operazione anche intellettuale. Nell' anima sensitiva poi non erano ancora pervenuti a distinguere il principio , al quale solo spetta il nome di anima, dal termine , che è l' esteso ed il materiale. Onde attribuivano all' anima in proprio anche ciò che le veniva dal suo termine. E poichè dove più sensibilmente e vivamente si sente l' ordine sono i suoni bene accordati, perciò ad ogni ordine e armonia diedero il nome di musica , generalizzando il significato di quella parola che da prima era imposta al diletto, che prendeva l' orecchio dai suoni convenienti (1), secondo le leggi dell' invenzione delle parole da noi esposte. Quindi la musica, collocata primieramente nell' anima del mondo, poscia nelle altre anime, che, di quella prendendo, si costituivano e individuavano, come si vede in questo luogo di Macrobio, che riassume le antiche dottrine. Non deve far meraviglia, dice, che la musica abbia cotanta potenza sugli uomini non meno che sulle bestie (ecco come si aveva l' occhio all' anima sensitiva); [...OMISSIS...] . Ora poi, dall' essere conosciuto che l' armonia, che dirige segretamente il principio razionale come pure il principio senziente, viene a questo dal termine e non l' ha in sè, rimane abbattuto questo errore degli antichi, i quali attribuivano unicamente all' anima, che è il principio, l' origine dell' armonia; il quale errore sospinsero così innanzi che molti pronunciarono nell' armonia stessa consistere la natura dell' anima (2). L' animalità, adunque, non è il principio razionale, rispetto al quale ha ragione di termine, e però appartiene al mondo in contrapposto dell' anima razionale; l' anima razionale poi partecipa dell' armonia, che nell' animalità si contiene. Ma se si parla dell' anima sensitiva, che è il principio immediato del sentimento, si può domandare se l' armonia, che nell' animalità si trova, proceda dall' anima, cioè dal principio sensitivo , o dall' esteso, che ne è il termine . E qualora gli antichi avessero così posta la questione, il loro errore di attribuire all' anima sola l' origine dell' armonia sarebbe stato minore, perchè veramente, almeno in parte, l' armonia viene dalla natura dell' anima sensitiva. Ma essi confusero l' anima sensitiva colla razionale, e parlarono di quella come se fosse questa. Ora il nostro intento si è di spiegare l' origine della legge dell' armonia rispetto all' anima razionale, e di mostrare come, rispetto a questa, quella legge sia cosmologica, appunto perchè la stessa anima sensitiva, che è il principio rispetto all' esteso, termine suo proprio, è termine rispetto al principio razionale, che percepisce il senziente nel sentito; e però appartiene anch' essa al mondo contrapposto al principio razionale. Vediamo dunque come l' anima sensitiva sia in parte fonte dell' armonia che trovasi nell' animalità, benchè di questo stesso argomento dovremo parlare più a lungo in appresso. In primo luogo l' esteso continuo acquista l' unità, e insieme coll' unità la natura di continuo, dalla semplicità del principio sensitivo (1). In secondo luogo vedemmo come nella semplicità del principio sensitivo giaccia l' unità del tempo. Ora nell' estensione sentita e nel tempo si manifesta l' armonia dell' animalità, perocchè nell' estensione sentita nasce la moltiplicità necessaria all' armonia, nel tempo il numero . E veramente la moltiplicità e il numero non sarebbero, se non ci fosse un ente semplice, al quale e nel quale più unità fossero presenti; giacchè ogni unità, come tale, se è presente a sè stessa, non può essere alle altre; chè ogni unità, come tale, è finita in sè e non può varcare i confini dell' essere suo. All' incontro lo stesso principio sensitivo è suscettivo di più sentimenti, e contemporanei e successivi, onde in lui solo (e più eminentemente e in altro modo nel principio razionale) la moltiplicità, il numero e la successione di più cose ritrovasi. Risultando dunque l' armonia dall' unità e dalla pluralità , l' unità è posta dall' anima, e però è elemento psicologico , e la pluralità è data all' anima sensitiva dal termine, e però è elemento cosmologico; quindi si può dire che l' armonia nella sfera del sentimento animale sia una cotale unione di natura, e quasi un abbracciamento genetliaco dell' anima col mondo. Ora l' unità è propriamente la forma del bello, come osserva S. Agostino (2). Di che si raccoglie che la parte formale dell' armonia sensibile è di natura psicologica, la parte materiale di natura cosmologica. Ma come accade che nel sentito sia la pluralità ridotta ad unità? ond' ella viene? qual parte tiene in formarla il principio, quale il termine? Il termine del sentimento corporeo è un solo esteso continuo, e non più; poichè se l' esteso corporeo si dividesse in più continui, già si moltiplicherebbero i principŒ senzienti. Qui abbiamo intanto una unità di continuo. Ma posciachè il continuo ha dei limiti che costituiscono una specie di pluralità, indi la domanda: onde i limiti (1) che determinano la grandezza e la forma di questo unico continuo? - E la risposta si è che questi limiti non vengono dal principio senziente, indifferente per sè ad ogni estensione e figura di sentito; dunque essi vengono dalla virtù esteriore cosmica. Noi abbiamo già detto che vi è un' estensione (di cui sono condizioni o limiti la grandezza e la forma), come pure una virtù sensifera extra7soggettiva (2), il cui principio deve certamente essere inesteso (principio corporeo). Oltre la moltiplicità della grandezza , della forma , dei limiti , che si rivelano in appresso colle sensazioni acquisite, si dimostra nell' animalità il molteplice delle sensazioni. Quindi un' altra questione: come nell' unico esteso continuo cada varietà di sensazione. E dicemmo da questo, che lo stesso sentimento fondamentale esteso non è al tutto uniforme nella qualità, ma variato e per così dire screziato; il che si può congetturare dover essere (benchè non credo che l' avvertenza dell' animo possa discernerlo, a cagione dell' indole del sentimento fondamentale, poco e quasi nulla atto a tirare e tenere la nostra attenzione intellettiva) (1) dal diverso grado di sensitività eccitata, di cui sono fornite le diverse membra del corpo e i diversi organi sensorii. Perocchè, essendo una parte più sensitiva o diversamente sensitiva all' eccitamento, pare che vi debba essere un primitivo sentimento diverso, nel quale ogni parte si senta in vario grado e in diverso modo. A ragion d' esempio, io credo che il nervo ottico abbia un sentimento fondamentale diverso, voglio dire di tutt' altro tocco delle altre parti sensibili del corpo, il quale sia appunto il sentimento del nero ; perocchè definire il nero nulla più che la mancanza dei colori è un confondere la causa delle sensazioni visive colle stesse sensazioni. Certo è verissimo che, tolti via tutti gli stimoli esterni dalla retina, rimane il nero; il nero si ha, quando manca intieramente la luce. Ma il corpo stimolante, che si dice luce, non è la sensazione che esso produce. Le sensazioni poi dei colori, prodotte dallo stimolo della luce, sono sensazioni parziali, ossia modificazioni speciali di un sentimento precedente fondamentale, onde questo non può essere che il sentimento del nero. Per convincersene si entri in luogo perfettamente oscuro, si ponga attenzione a ciò che si prova di sentimento nei propri occhi, e si confronti con ciò che si esperimenta in un' altra parte del corpo, per esempio nella nuca, e stando bene attenti ciascuno si convincerà che negli occhi vi è il sentimento del nero, sentirà come tappezzati gli occhi suoi d' un panno nero, il quale sentimento non l' avrà nella nuca. Nè ciò si può attribuire alla reminiscenza delle sensazioni colorate avute innanzi, le quali ora mancano; perocchè, qualora si faccia grande attenzione, s' intenderà che si tratta propriamente di un cotal sentimento che sta negli occhi, anche prescindendo da ogni rimembranza e riflessione della mente. Io credo che rispetto al nervo acustico si possa dire qualche cosa di simile, e che ci sia il sentimento del silenzio (sentimento fondamentale proprio di quel nervo), sicchè il silenzio (prescindendo dalla sua occasione esterna, che è certamente negativa, e considerato come sentimento) non sia cosa al tutto negativa, anzi abbia un che di positivo fondamento a tutte le sensazioni acustiche. All' accennata domanda, adunque, rispondo che la varietà che cade nel sentimento esteso, deve nascere dalla diversa tessitura del continuo sentito, il quale può avere maggiori o minori intervalli, risultare da molecole di diversa forma, una molecola attenersi e premere sull' altra con forza maggiore, le molecole specifiche essere più o meno involute, e da altre sì fatte condizioni dei tessuti, onde anche risultano i vari organi. La moltiplicità, che si scorge nel sentimento di eccitazione, ci porge una terza domanda, cioè: Onde nasce la varietà delle diverse parti del sentimento eccitato, la quale varietà è evidente, costituendo essa anche la varietà delle sensazioni figurate, diverse d' indole e d' intensità? nasce dall' anima o dal mondo? - Fu veduto che tali varietà eccitate nel sentito rispondono al movimento delle molecole componenti il sentito; il qual movimento parte viene determinato da stimoli esterni, parte dall' attività del principio stesso sensitivo; onde la causa di questo vario movimento deve appellarsi parte cosmologica , parte psicologica; cosmologica, in quanto vince l' inerzia dello spirito, psicologica, in quanto ubbidisce alla legge di spontaneità , di cui lo spirito stesso è fornito (1). Ma questo movimento non è la sensazione stessa; parliamo dunque di questa. Si deve distinguere: 1 il modo della sensazione, che è l' estensione, e le condizioni proprie dell' esteso, che sono i limiti, ossia la grandezza e la forma ; 2 la causa eccitatrice extra7soggettiva, ossia cosmologica, della sensazione, che è la virtù sensifera , e i movimenti intestini nell' esteso sentito; e finalmente 3 la sensazione pura, che è o sedata e primitiva, o eccitata. A costituire il modo esteso della sensazione e dei sentimenti contribuisce indubitatamente l' azione cosmologica, di cui quel modo è termine , essendo egli termine ad un tempo anche dell' anima. La causa extra7soggettiva, cioè il principio corporeo, la virtù sensifera, è ancora azione cosmologica. Ma la sensazione pura è così propria del principio senziente che ella è l' atto proprio di questo, e però appartiene intieramente all' essenziale virtù di questo principio; è quindi del tutto soggettiva, del tutto psicologica (2). L' azione cosmologica, adunque, è causa che contribuisce a porre in essere quell' atto, e con esso lo stesso principio senziente, l' anima, e a determinare quell' atto in quanto al suo modo dell' estensione; ma finalmente l' atto del sentire, è atto del principio senziente, il quale è il soggetto unico di tutte le sensazioni. La sensazione pura, adunque, dipende dal mondo esterno come da suo termine, ma non è atto del mondo esterno, sì dell' anima. Ora la sensazione pura, che chiamerò il tocco della sensazione per darle una denominazione apposita che la astragga dall' estensione, cangia, restando la stessa grandezza e forma di esteso, come si vede nelle sensazioni dei vari organi sensorii ed anche di uno stesso organo; giacchè non solo l' odore è di un tocco al tutto diverso dal colore, ma nel colore e nell' odore stesso varia il tocco di qualità e di grado. Ora, quantunque il tocco della sensazione riesca variato di specie e di grado, per cagione del diverso termine esteso e dei diversi movimenti intestini mossi entro al medesimo, tuttavia ognuno può intendere che il detto tocco, qualità positiva della sensazione, non è l' estensione, nè il movimento, ed è anzi sempre l' atto variato del solo principio sensitivo. Il che, quanto all' estensione, si vede da questo, che una sensazione può variare di tocco e non di estensione. Così una stessa estensione può essere quella in cui termina la sensazione dell' occhio, e in cui termina la sensazione del tatto; e tuttavia le sensazioni riescono diversissime, sono di un diversissimo tocco. Quanto poi al movimento, abbiamo già dimostrato innanzi che il tocco della sensazione, eccitato dai movimenti dell' organo sensorio, non ha similitudine alcuna con questi movimenti, i quali sono molti, e il tocco della sensazione eccitata è uno; i movimenti sono istantanei (essendo ogni mutazione istantanea), e il tocco della sensazione ha durata, chè altrimenti niente si sentirebbe. Dunque il tocco della sensazione è tutto dovuto all' anima sensitiva, come l' atto è dovuto al soggetto, e conseguentemente è di natura intieramente psicologica . Ma rimane sempre a vedere come il tocco possa variare col variare degli organi e dei loro movimenti, e col numero di questi. Il che riesce più malagevole a rilevare e descrivere, per l' immischiarsi fra i sentimenti che fa l' attenzione e l' operazione razionale, le quali dividono a loro modo anche ciò che nel sentimento va unito. Tuttavia non lascieremo intentata alcuna difficoltà. Il principio razionale converte in ente il sensifero e lo stacca dal senso; senza l' opera di tal principio, il sensifero sarebbe un mero agente dimorante nel senziente, l' azione di un ente, non un ente. Ma poichè il principio razionale cangia in enti i termini sensiferi delle percezioni sensitive, perciò accade che ogni organo sensorio spazii in un mondo suo proprio. Ciascuno di questi mondi è affatto diviso, prescindendo dall' estensione, e neppure simile in quanto al tocco specifico del sentimento, da ciascun altro mondo proprio di un altro sensorio. Che se il principio razionale confronta questi diversi mondi e se ne fabbrica uno di tutti, ciò egli fa per via di analogia e non per vera similitudine che sia fra loro; non lo fa perchè abbiano somiglianza nella qualità del tocco sensibile, ma perchè convengono nel numero, nello spazio, ecc., in cose cioè che non spettano alla sensazione pura. Nell' identità di queste condizioni, che non costituiscono la sensazione, il principio sensitivo per la sua semplicità le congiunge ed armonizza. Così quando l' occhio dirige la mano a toccare un oggetto, la sensazione visiva (esteso sentito dall' occhio) è intieramente diversa dall' esteso, in quanto è toccato dalla mano; ma la sensazione visiva presta il medesimo servigio alla mano che presta una carta geografica accuratissima al viaggiatore, coll' aiuto della quale egli dirige i suoi passi. Del che non è facile accorgersi; perocchè vi è questa differenza notabilissima fra la carta geografica e la sensazione visiva: che si percepisce la carta geografica come uno spazio piccolissimo in paragone dello spazio da percorrersi dal viaggiatore, laddove la sensazione visiva presenta l' oggetto d' una dimensione che pare eguale a quella che sente la mano toccando, benchè ciò non sia; giacchè la sensazione dell' universo ottico non è più estesa veramente di quel che sia estesa la retina che lo contiene (percepita questa retina col tatto). Ma la differenza sta in questo: che quando io vedo la carta geografica, vedo contemporaneamente tutto ciò che sta di là da essa, tutto lo spazio che eccede i suoi confini, l' immenso spazio, per esempio, delle pianure e delle montagne e del cielo; e al di là di quel che vedo immagino altro spazio, al paragone dei quali spazi la carta geografica mi riesce al tutto piccolissima, e in questa piccolissima carta io trovo segnati e distinti quei piani e quei monti, quei mari e quei cieli, che vedo coll' occhio; e coll' occhio che m' accompagna viaggiando, vedo due volte le cose stesse, vedo segnato in piccolo sulla carta quello stesso che vedo in grande nella natura, e questo piccolo rappresentante e questo grande rappresentato è veduto dallo stesso organo, cioè dall' occhio, sicchè coll' aiuto dello stesso sensorio io confronto diverse parti della sua sensazione. All' incontro accade tutt' altro, quando lo spirito non confronta la grandezza delle varie parti d' una sensazione dello stesso sensorio, ma confronta la sensazione di un sensorio, per esempio dell' occhio, colla sensazione di un altro sensorio, per esempio del tatto. Allora si paragonano due universi, non le parti dello stesso universo; si paragona l' universo veduto coll' universo toccato, poichè nella sensazione totale dell' occhio, che noi chiamiamo specchio visivo, vi è tutto l' universo ottico, cioè tutto ciò che può vedere l' occhio con uno sguardo, e la ritentiva e l' immaginazione con più sguardi. In questo universo ottico vi è la mano che tocca e l' oggetto toccato; e l' una e l' altro colle loro proporzioni, sicchè se l' oggetto toccato è più piccolo della mano, anche nello specchio visivo compare più piccolo, e se è più grande, compare più grande. Di più, la mano e l' esteso toccato tengono la proporzione debita a tutti gli altri oggetti circostanti, che nello specchio visivo si trovano; e però l' occhio fa discernere al principio razionale tutte queste proporzioni, e il principio razionale sa conseguentemente dire a sè stesso quanto è più grande quella colonna, cui la mano tocca, della mano stessa, e quanto il tempio della colonna, e quanto il monte, che gli sta accanto, del tempio, ecc.. Il perchè, se la mano è toccata tutta da un corpo, il principio razionale, guidato dall' occhio, sa dire che « quel corpo è così esteso come è estesa la sensazione di tutta la mano »; poichè tutte queste proporzioni sono segnate nei colori sentiti nella retina come sopra carta geografica. Ma al di là di tutto questo, al di là dello specchio visivo, di questa carta geografica, l' occhio non vede altro; vede dunque la sola carta geografica, questa è il suo universo, e però egli non può paragonare questa carta geografica con altra cosa maggiore di lei, nè trovar cosa che sia maggiore di lei, perchè altra non ne vede. Quanto è dunque grande lo specchio visivo? Altrettanto quanto è grande l' universo, cioè l' universo visivo, perchè parlando del detto specchio non vi sono altri universi. Quando dunque l' anima dirige la mano ed il piede colla scorta dell' occhio, allora la mano e l' esteso che vuol prendere, e il piede e la via che vuol percorrere, e gli spazi circostanti sono tutti disegnati nell' universo visivo, nello specchio ottico; e questi disegni sono il principio dei movimenti regolati, che fa la mano od il piede ad impero dell' anima. Quei segni adunque, che occupano una parte piccolissima della retina e che rispondono distintissimamente alle proporzioni della mano, del piede, ecc., contengono sì fattamente il principio dei movimenti della mano e del piede che basta che l' anima voglia, ella con solo quei segni accosta realmente la mano all' oggetto che vuol prendere, e rivolge i passi per la direzione che brama. Si consideri bene che nè la strada, nè l' oggetto, nè la mano, nè il piede è nell' occhio; ma che la mano ed il piede, che si deve muovere, comunica per via dei nervi sensorii o motori col cervello; e che nel cervello termina pure il sensorio ottico, che rappresenta la mano ed il piede; si consideri che il principio animale unifica in sè la mano ed il piede veduto col sensorio ottico, sentimento passivo, ed il sentimento attivo dei nervi motori; si consideri che i movimenti della mano e del piede incominciano da movimenti piccolissimi del cervello per imperio dell' anima, i quali minimi movimenti si propagano, per la legge di spontaneità, ai nervi ed ai muscoli. Se dunque vogliamo dire che la sensazione visiva occupa un minimo spazio del cervello, potremo dire egualmente che l' anima, diretta o anche eccitata da quella sensazione, basta che ecciti un minimo movimento nel cervello, perchè si muova la mano od il piede, che nel sentimento soggettivo sono intimamente uniti con esso. Ora non è difficile concepire come una sensazione occupante uno spazietto minimo (nel sensorio ottico), quale sentimento passivo, dia principio al suo corrispondente sentimento attivo in un altro spazietto minimo (nelle radici dei nervi motori); nel quale spazietto minimo iniziandosi i movimenti, questi poi, per la legge che « l' animale tende a conservare ed accrescere i moti a lui grati », si vadano aumentando fino a muovere la mano ed il piede nella direzione determinata dalla sensazione visiva. Questo altro non dimostra se non l' ammirabile armonia, che pose il Creatore nella composizione dell' animale. Ma come accade, si dirà, che noi pur ci accorgiamo che l' universo visivo, essendo limitato all' estensione della retina, sia minimo rispetto all' universo reale? - Questo non può accadere mediante il paragone fra le grandezze date dal tatto e quelle date dall' occhio, perchè le grandezze date dal tatto vanno sempre d' accordo con quelle date dall' occhio, e quelle date dall' occhio vanno in perfetto accordo con quelle date dal tatto, sicchè le une commisurano le altre. In questo confronto si può bensì rilevare a che misura data dal tatto corrisponda la misura data dall' occhio, o a che misura data dall' occhio corrisponda la misura data dal tatto; ma non si arriverebbe mai a conoscere se una sensazione fosse più estesa assolutamente dell' altra. Per esempio, l' occhio mi dimostra una statuetta nel tempo che la mano la tasta. L' uomo dalla contemporaneità di queste due sensazioni altro non può indurne se non che l' oggetto, veduto dall' occhio, è così grande che produce tale ampiezza di sensazione nella mano; o viceversa l' esteso, tastato dalla mano, è così grande che adduce tale ampiezza di estensione visiva. Le sensazioni dunque dell' occhio e della mano, divenendo misura l' una dell' altra, non possono mai dare misure discordi, ma debbono dare misure scambievolmente commisurate, che sono misure di proporzione, non misure assolute. Come è dunque, per ripetere la domanda, che noi pure ci accorgiamo che la sensazione visiva di un esteso occupa meno spazio della sensazione tattile del medesimo esteso? Qui si tratta di trovare la ragione fra lo spazio, che occupa la sensazione di un sensorio, e lo spazio, che occupa la sensazione corrispondente di un altro sensorio. Ora questa proporzione non esiste fra i due sensorii, perchè nè l' uno nè l' altro somministra una misura comune , la quale potesse andar bene a misurare quelle due sensioni specificamente diverse; giacchè il sensorio ottico niente abbraccia del sensorio tattile, e il sensorio tattile niente abbraccia del sensorio ottico; ogni sensorio è limitato al proprio mondo; e quando il principio animale o razionale li paragona, altro non trova che eguaglianza; perchè il paragone è unicamente fatto per analogia, sicchè non paragona ampiezza ad ampiezza, ma proporzione a proporzione. Conviene dunque dire che la misura dell' estensione della grandezza della sensazione ottica sia la stessa sensazione; e la misura della grandezza della sensazione tattile sia la sensazione tattile; ed ecco in che modo. La retina ha due relazioni con noi: la relazione di sensorio e la relazione di termine esterno sentito. La retina nell' atto che fa da sensorio è lo stesso specchio visivo, è l' universo visivo; fuori di questo universo visivo, che è quanto dire fuori della retina, non vi è alcuno sentimento visivo. L' anima dunque, veggente per quest' organo, non può paragonare lo specchio somministrato da quest' organo ad altra cosa, perchè non vede alcun' altra cosa fuori di lui; e benchè non senta che l' organo, tuttavia neppure si dice che vegga l' organo; perchè la parola vedere si riferisce ai termini staccati e distinti dall' organo, portandosi l' attenzione ad essi e non fermandosi all' immediato sentito, cioè alla retina che li segna e rappresenta. In questa maniera la retina si sente soggettivamente; al che non si ferma l' attenzione, la quale anzi procede ai diversi colori di cui la retina è variegata, che prende (in virtù del principio razionale) per altrettanti oggetti esterni, ossia enti. Fino a tanto dunque che l' anima sente la retina così soggettivamente, qual sensorio in atto, ella non può paragonare lo spazio della retina ad altro spazio, perchè tutto lo spazio possibile dato all' anima da contemplare, tutto lo spazio dell' universo visivo è la retina stessa, non esiste che essa per l' anima; non esiste la testa del riguardante dove è l' occhio e la retina, non esiste il corpo del medesimo dove è la testa, ecc., perchè se esistono tutte queste cose, esistono nella retina e non fuori di lei. Ma consideriamo la retina nell' altra sua relazione con noi, cioè non più come sensorio, ma come termine esterno sentito. L' opposizione di queste due relazioni, che ha la retina con noi, si scorge ponendoci a riguardare coll' occhio nostro la retina dell' occhio altrui. In tale posizione l' occhio nostro fa a noi l' uffizio di sensorio; l' anima nostra sente internamente, soggettivamente, la retina di lui, quando la retina dell' occhio altrui, rispetto a noi che lo rimiriamo, non fa già l' ufficio di sensorio, ma di termine esterno da noi sentito, veduto. La retina dell' occhio altrui in questa relazione con noi non è rappresentante, ma rappresentata; è rappresentata nella retina nostra, ella occupa nella retina nostra uno spazietto piccolissimo e diventa una minima parte del nostro specchio visivo, del nostro visivo universo, diventa un' estensione assai più piccola dell' occhio altrui che io considero, più piccola ancora del capo o del corpo altrui, e via più piccola dell' interno universo visivo, che io sento nella mia retina. La mia retina, adunque, sentita soggettivamente è ampia come lo spazio dell' universo, e la retina altrui, da me sentita extra7soggettivamente, non è più ampia che una piccolissima particella dell' universo. Ma accade il somigliante rispetto a colui, la cui retina io miravo; la retina di lui, come sensorio in atto, è lo spazio universo, e la retina mia è una minima particella di questo spazio. Ciascuno può anche guardare la retina sua propria in uno specchio, e in tal caso la stessa retina acquista verso del riguardante le due relazioni: come sentita soggettivamente è l' universo visivo, come veduta, ossia sentita extra7soggettivamente, è un minimo spazietto dell' universo medesimo. Io conosco poi che la retina sentita soggettivamente come sensorio in atto, e la retina veduta, cioè sentita extra7soggettivamente come termine esterno, è identica, osservando che, coprendo quella retina che vedo come oggetto esterno, cessa la visione, cioè cessa la retina di essere sensorio in atto. Che se io voglio misurare la grandezza degli oggetti col tatto, fra questi oggetti trovo ancora la retina; ed allora il paragone delle sensazioni del tatto stesso mi dice che la retina occupa un piccolissimo spazietto nell' universo tattile. Provo poi che la retina toccata è quella stessa che fa l' ufficio di sensorio, accorgendomi che al sovrapporle la mano ella cessa di vedere. Ora questi fatti confermano quanto abbiamo detto più sopra, cioè che lo spazio continuo è nel principio senziente; e l' uomo non misura la grandezza degli oggetti esteriori se non applicando loro lo spazio che ha in sè, cioè lo spazio in cui termina il proprio sentimento; onde dai diversi modi, nei quali quei corpi si commisurano allo spazio soggettivo e fondamentale, ricevono diverse misure. Ma poichè i corpi veduti non toccano propriamente l' occhio, ma sono disegnati in esso dalla luce che vibrano, quindi la percezione degli occhi è percezione di segni corrispondenti ai corpi e non dei corpi stessi. Ma la grandezza di questi segni, benchè sì piccoli, sembra eguale alla grandezza dei corpi percepiti col tatto, perchè queste due maniere di sentire, come dicevamo, non hanno una misura comune alle loro grandezze rispettive, ma ciò che hanno di comune è la proporzione delle parti eguale in entrambe, la quale proporzione soltanto il principio razionale paragona. Rimane tuttavia a cercare come lo spazio occupato dalle sensazioni ottiche appaia così separato dallo spazio totale del sentimento fondamentale. Chè se non apparisse separato, già vi sarebbe la misura comune, nè lo spazietto della retina, dove sta il sentito, darebbe un mondo a parte, ma altro non sarebbe che una particella dello spazio totale del sentimento fondamentale. Ora questo avviene per più cagioni: Lo spazio, termine del sentimento fondamentale, non è misurato nel sentimento stesso, ma solo viene misurato poscia dalle sensazioni esterne, figurative e superficiali, appartenenti ad organi speciali; i confini non formano parte del sentimento fondamentale, e la sua continuità non ha traccia di linee o figure di sorte. Ma quei confini sono le stesse sensazioni superficiali, che appartengono al sentimento eccitato in organi speciali. Quindi accade che se vi è una sensazione superficiale, che stabilisca un confine limitato al sentimento superficiale, l' estensione di questa sensazione è unicamente quella che si sente; ella non si può paragonare coll' estensione totale del sentimento fondamentale, perchè questa estensione totale non si sente a quel modo, non esiste per noi facienti uso di quegli organi, che soli dànno i confini e però le misure determinate. Così quando l' uomo sente il piccolo spazio della retina dove la luce ha eccitato il sentimento, quel piccolo spazio è sentito del tutto isolato dal rimanente spazio superficiale del corpo umano, perchè in quel solo spazietto è l' eccitamento e non nel resto. Di più, quand' anche avvenisse che nello stesso tempo che la retina è eccitata dai colori, le parti circostanti fossero eccitate da stimoli loro propri, sicchè dessero anch' esse una sensazione superficiale; non avverrebbe ancora tuttavia che l' uomo sentisse quelle sensazioni disposte in una sola superficie continua, perchè vi è intervallo e separazione fra il nervo ottico e i nervi circostanti, che, venendo eccitati, ci fanno sentire; onde la sensazione superficiale riterrebbe delle lacune, che la separerebbero in più sensazioni, ognuna delle quali misurerebbe sè stessa, ma non l' altra, perchè niuna di esse sarebbe parte di una sensazione superficiale maggiore, la quale è condizione per essere misurata, giacchè nel caso nostro le parti non si misurano altrimenti che mediante il loro rapporto col tutto. Ancora, il tocco della sensazione riuscendo diversissimo, e al sommo vivo e distinto quello della luce, la retina richiamerebbe tuttavia a sè l' attenzione, e darebbe una superficie diversa da quella che le sarebbe contigua. Finalmente, e questo nasce principalmente dall' ingerenza del principio razionale, l' attenzione dell' uomo non si ferma alla sensazione soggettiva della retina, e neppure alla sensazione extrasoggettiva, ma va direttamente agli oggetti esterni rappresentati nello specchio visivo, e crede di percepirli immediatamente. Onde cessa la possibilità di paragonare la sensazione superficiale della retina colla superficie totale del corpo umano, perchè a quella non si attende, ma si attende agli oggetti, di cui ella presenta i segni, che ne formano la espressione. La seconda e la terza delle ragioni da noi date meritano qualche maggior considerazione. E` da riflettersi che la diversa organizzazione delle parti sensitive del corpo umano fa sì che una di esse sia suscettiva di un eccitamento, e un' altra di un altro diversissimo, onde se ne hanno sensazioni di un tocco così diverso come è quello proprio di ciascuna specie delle sensazioni dei cinque organi, le quali, rispetto al tocco, in nulla si assomigliano, giacchè niuno potrebbe trovare similitudine fra il colore, l' odore, il sapore, ecc.. Di che tali organi si chiamano altrettanti sensorii differenti. Ma la natura volle di più separarli in modo che le sensazioni degli uni non si continuassero alle sensazioni degli altri, le sensazioni dell' uno di essi occupassero uno spazietto discontinuo alle sensazioni di un altro; ed essendo discontinuo, non vi è uno spazio unico in cui cadano le dette sensazioni, mediante il quale si possa vedere quale parte di spazio occupa ciascuna di esse. Quindi la estremità del nervo acustico, che riceve l' impressione dell' aria vibrata, è in un luogo tutto differente da quello occupato dall' estremità del nervo ottico, che riceve l' impressione della luce; e così si dica degli altri sensorii speciali. Neppure si può dire che tali nervi o sensorii si continuino con parti che appartengono al senso del tatto, perocchè ciascuno è protetto e vestito di parti insensate; e quand' anche fossero sensate, elle o non sarebbero eccitate tutte contemporaneamente, o l' eccitamento darebbe una sensazione così debole che non si osserverebbe all' atto della sensazione vivacissima del sensorio con cui confina; onde ancora lo spazio occupato dalla sensazione di questo sensorio sarebbe isolato e non appartenente, come parte, a tutto lo spazio superficiale del corpo umano. Senonchè vi è discontinuità anche negli spazietti eccitati in uno stesso sensorio. Quando io considero come l' orecchio senta distintamente diversi suoni venienti da diversi punti, per esempio i suoni dei vari strumenti di un' orchestra, allora debbo credere che i raggi sonori vadano a colpire ed eccitare diverse parti del nervo acustico. E converrebbe forse studiare i diversi ingegni di cui si compone l' orecchio, di cui l' uso appieno non si conosce sotto questo aspetto, cercando se uno dei loro fini sia quello di tenere separati i suoni, facendo che i raggi sonori eccitino il nervo in parti diverse (1). I fisici spiegano benissimo come le onde sonore non si confondano fra loro pel principio da loro detto della « sovrapposizione dei piccoli movimenti »; ma questa non basta a spiegare il fenomeno delle sensazioni distinte, che non avviene nelle onde aeree, ma nel sensorio. Supposto poi che le onde sonifere, restringendosi ed appuntandosi, quasi come fa la luce col rifrangersi o riflettersi nelle lenti, vadano ad eccitare punti diversi della membrana acustica, è chiaro che non tutta la detta membrana è eccitata, ma solo quei punti di essa che vengono percossi; e ciò perchè l' onda non parte da ogni punto del corpo sonoro, ma il corpo sonoro che vibra produce un' onda sola, di cui approdano all' orecchio alcuni raggi, che finiscono in un solo punto, a differenza di ciò che fa la luce, la quale è mandata da ogni punto del corpo luminoso come da centro diverso. Onde la retina è tutta eccitata, e il suo eccitamento è vario come sono vari i punti dei corpi, che le riflettono la luce; il che fa la sensazione visiva, attissima a rappresentare in sè i corpi disegnati con proporzioni, o piane o prospettiche, accuratissime; laddove tutt' altro avviene nell' orecchio, che riceve suoni isolati, perchè non tutta la membrana acustica è colta, ma solo quei punti dove urta il raggio sonifero, rimanendo nella stessa membrana diversi spazietti non eccitati, e però privi della sensazione sonora (2). La spiegazione della diversità del tocco delle sensazioni eccitate non sarebbe perfetta, se non aggiungessimo qualche cosa intorno alla relazione che passa fra quel tocco e i movimenti extra7soggettivi e vibratorii delle molecole, di cui constano le fibre nervose. In primo luogo si ricordi che la causa efficiente delle sensazioni non sono i movimenti delle molecole della fibra, ma l' attività del principio sensitivo; i movimenti non sono più che la causa eccitatrice; quindi gli stessi movimenti, che sono accompagnati da sensazione in un corpo animato, rimangono privi di sensazione in un corpo non animato, perchè vi sarebbe l' eccitante, ma la causa che viene eccitata ed attuata non c' è. In secondo luogo il sentimento eccitato ha sempre per suo termine un esteso , altrettanto quanto il sentimento sedato , nè coi movimenti che si eccitano nel termine esteso sentito si rompe e discontinua l' estensione, ma si tratta unicamente d' uno spostamento di molecole, che, senza cessare di essere continue fra loro, si muovono quasi strofinandosi con più o meno di pressione alle loro superficie. Ciò posto, è chiaro: Che il movimento eccitatore non deve avere per effetto la mutazione dell' esteso continuo, il quale non si muta (se non forse nei suoi limiti che sono insensibili), ma deve cangiare il modo del sentire, deve rendere più vivo e diverso il modo, onde l' esteso continuo si sente dall' anima; il quale modo diverso e più vivo fa che la sensazione sia di un altro tocco. Perocchè il sentimento non ha per termine immediato il moto, come dicevamo, ma l' esteso intestinamente mosso. Quindi il movimento delle molecole non si può sentire in ciascuna sensazione speciale, ma si deve sentire lo stesso esteso, non entrando il movimento eccitatore nel principio senziente, il quale anzi è costantemente causa dell' unità del sentito, cioè della sua continuità. Per dirlo in altro modo, tale è la legge dell' attività sensitiva (animale) che ella produce un sentimento continuo . Ora nel continuo non vi è movimento sensibile, perocchè per sentire il movimento converrebbe dividere il continuo, cioè converrebbe conoscere i confini delle parti che si muovono, e così distinguere queste parti, laddove nel continuo è abolita la distinzione delle parti ed i loro confini. Quindi è che più movimenti vicini di tempo nello stesso organo sensorio non producono più sensazioni, ma una sensazione sola; ossia altro non possono fare se non che il tocco della sensazione si cangi, secondo il numero delle vibrazioni comunicate all' organo sensorio nel tempuscolo in cui si forma la sensazione, come si vede nei toni musicali, che sono altrettante sensazioni di tocco specificamente diverse, e diversificano secondo il numero delle vibrazioni del corpo sonoro (1); al qual numero di vibrazioni deve rispondere un pari numero di scosse, ossia di vibrazioni nelle molecole elastiche dell' organo sensorio, che da esse è urtato. Ma la ragione perchè supponendo che 24 vibrazioni di un corpo sonoro producano il tono do , ce ne vogliano 27 a produrre il re , non può cercarsi che nell' indole speciale della costituzione del sensorio acustico, e più ancora nella natura del principio sensitivo, che è il produttore di quella sensazione; onde questa ragione deve indubitatamente essere psicologica in parte, ed in parte cosmologica. Lo stesso è da dirsi della ragione perchè fra i primi tre toni (supponendo sempre il do prodotto da 24 vibrazioni) vi sia una differenza di tre vibrazioni; laddove dal mi al fa non vi sia che la differenza di due vibrazioni, e in questo caso l' orecchio stesso discerne fra questi due toni correre un intervallo minore che fra gli altri; come pure è da dirsi lo stesso della ragione perchè fra gli ultimi tre toni vi sia una differenza di quattro vibrazioni, e l' orecchio non discerna tuttavia fra il sol, la, si che un intervallo tonico pari a quello che discerne fra il do, re, mi (1). Riassumendo adunque ciò che vi è di natura psicologica nei sentimenti animali, ossia riassumendo gli elementi che l' anima somministra colla propria attività all' armonia che trovasi nel sentimento, diciamo che questi elementi psicologici sono: 1 L' unità dello spazio; 2 l' unità della successione; 3 l' unità della moltiplicità, e quindi la forma dell' armonia che si trova nell' animalità; 4 il tocco del sentimento. Ma noi dobbiamo investigare più addentro come sorga l' armonia nell' animalità; perocchè, quantunque fin qui ne abbiamo indicati gli elementi, e l' origine o psicologica o cosmologica di ciascheduno, tuttavia non abbiamo ancora esposto il modo come ella sorge ed è formata. Il tempo e lo spazio è quasi la sede della moltiplicità, che è nel senso animale; a questa l' anima dà unità. Ma non ci sarebbe armonia, se non ci fosse diletto, e questo senso dilettevole è da cercarsi nel tocco del sentimento. Ciò non basta ancora a compire il concetto dell' armonia sensibile, perocchè ogni sentimento singolare ha il suo tocco proprio, ma l' armonia non può risultare che da più sentimenti. Dall' anima viene anche l' unità dilettevole di questi vari sentimenti. Acciocchè dunque vi sia armonia non basta che l' anima dia la sua unità allo spazio che è la continuità, non basta che la dia al tempo che è la durata; ma deve di più dare unità alla moltiplicità dei sentimenti; l' anima gliela dà, sieno essi di vario o del medesimo tocco (1), i quali sorgono nel seno del sentimento sedato fondamentale. Nè qui è ancor tutto; l' anima a fare che insorga l' armonia, deve dare a più sentimenti non una unità qualsiasi (perocchè ella dà sempre e necessariamente qualche unità ai sentimenti dei quali ella è l' identico soggetto), ma una unità dilettevole ; ed è questa che si tratta di spiegare da noi, distinguendola da quella unità che non manca mai per l' identità del soggetto senziente. Ora per dichiarare quale sia e onde risulti questa unità piacevole, noi dobbiamo ascendere a quelle leggi universali (ontologiche o cosmologiche), secondo le quali agisce e patisce convenevolmente ogni sostanza; le quali leggi si possono egualmente applicare al principio sensitivo ed al razionale. Esse sono le seguenti. La prima si annunzia così: « L' ente ama quell' atto, a cui egli è avviato, e riceve molestia, se incontra qualche impedimento che glielo mozzi per via; trova all' opposto diletto, se può spiegare tutto il suo atto fino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe ». Diciamo « l' ente ama quell' atto a cui egli è avviato », perocchè se non avesse preso già l' avviamento ad un atto, egli non riceverebbe molestia dall' andarne privo; solo gli mancherebbe il diletto, che ogni atto d' un ente sensitivo racchiude per propria essenza. Diciamo « sino all' ultimo finimento, a cui il libero suo movimento giungerebbe », perchè quando un ente è in via ad un atto, il suo moto è limitato di specie e di grado dalla propria virtualità, e quindi ha un fine naturale dove il moto si quieta. Applicando questa legge al principio sensitivo, cade sotto di essa la spiegazione che noi davamo del dolore; il principio animale volto all' atto di porre il sentimento fondamentale nel modo più pieno che gli sia possibile (istinto vitale), sta male se di ciò far pienamente gli è conteso, e questo suo star male è il dolore. La seconda legge riceve questa espressione: « L' atto, a cui un ente è avviato, talora è molteplice per successione, cioè risulta da una serie di anelli, i quali si possono considerare come un atto solo per l' unità dell' ente, che spiega la sua attività in più potenze comunicanti. In tal caso l' ente tende a percorrere tutta la serie di quegli anelli fino all' ultimo, e il venire arrestato per via gli è molesto ». Diamo un esempio di questa legge, togliendolo dall' operare del principio razionale, a cui è connesso e subordinato il principio sensitivo. Il principio razionale ha un atto composto di tre anelli: 1 giudizio, 2 affetti, 3 movimenti esterni; e talora di quattro: 1 giudizio, 2 affetti, 3 decreti, 4 atti esterni. L' attività di quel principio non suole dunque fermarsi al semplice giudizio, ma a tenore del giudizio (primo anello) produce gli affetti (secondo anello) verso la cosa giudicata buona o mala, ecc.; nè si ferma qui; ma o interpone decreti ed operazioni esterne conseguenti, o gli affetti producono istintivamente i movimenti nel corpo corrispondenti (terzo anello). Fra i movimenti corporei vi sono quelli dei suoni vocali; ed è perciò che l' uomo è inclinato a far seguire a un vivo sentire l' emissione della voce, naturale finimento della sua attività sensitiva tratta in movimento. Questi suoni poi, legati intimamente come ultimi effetti col pensiero e coll' affetto, diventano segni naturali esterni, dai quali si può dagli altri uomini, che esperimentano lo stesso, conoscere ciò che l' uomo pensa e sente dentro di sè. Ma prima che passino a servire a questo ufficio, essi sono lo spontaneo e naturale finimento dell' atto sensitivo e razionale dell' uomo, il quale vuole completarsi, vuole andare fin dove egli può. Il che si vede manifesto principalmente quando l' uomo, mosso dentro da un grande sentimento, manda fuori qualche grande suono od anche qualche grande espressione, che non ha propriamente legame col suo pensiero o col suo sentimento, se non perchè quello sfogo è l' ultimo termine dello stesso; per esempio, nella collera uscirà in una bestemmia, in una imprecazione a tutt' altro che a ciò con cui si adira, o pronuncierà una parola sconcia o sonante anche priva di significato, come «babai», papae, capperi , ma più comunemente pronuncierà il nome di Dio, per isfogarsi dicendo la cosa più grande che egli sappia trovare. Così nella lingua ebraica la parola Dio si aggiungeva come superlativo a tutti i vocaboli, dicendosi « monte di Dio », « principe di Dio », ecc. per significare monte altissimo, gran principe, ecc. (1). Lo stesso usano di fare gli Arabi (2) e tutti gli Orientali, e in Euripide s' incontra la stessa maniera (3). Quindi anche l' origine del giuramento e delle esclamazioni, che si mandano fuori quasi istintivamente senza considerazione, come facevano i Latini colle parole Pol, Edepol, Jupiter , ecc.; onde fu bisogno una legge positiva, colla quale si vietasse agli uomini di nominare invano un nome sì augusto, affine di raffrenare l' umano istinto, che non poteva quasi a meno di pronunciarlo. E così si fa servire allo stesso sfogo il pronunciare di una cosa grande qualsiasi, come in italiano diciamo « Poffare il cielo, poffare il mondo! potenza in terra! » ecc.. Ed il giurare pel capo di alcuno o per altra creatura è come un divinizzarla, onde anche per questo fu vietato. I quali sfoghi, che terminano in una voce, conviene osservare che appartengono al principio razionale, a cui il sensitivo si continua; ed è perciò che, qualunque sia la voce o l' espressione che si pronuncia, intende sempre chi la emette di dire qualche cosa, non semplicemente di fare uno scoppio sonoro, intende di dire e segnare una cosa grande oltremodo, anche ove per sè la voce nulla significasse; nel qual caso è voce nuova, inventata a bella posta per ultimare l' atto di quel pensiero, il quale non può stare chiuso, ma vuol rendersi sensibile, legarsi ad un reale, che lo renda più vivo e più consistente a lui stesso che l' ha; ufficio che, come abbiamo veduto, sogliono prestare i reali immaginari o in generale sensibili, rendendosi compimento (segni) degli interni pensieri. Ed è tanto grande questo bisogno che ha l' uomo di ultimare così in un segno reale esterno l' atto cominciato nel suo pensiero che, dopo vietato dalla divina legge l' interporre invano il nome della divinità, pur i migliori uomini ne sentono il bisogno, e quasi per ingannare sè stessi sostituiscono vocaboli simili, siccome fanno i fiorentini, che invece di « Poffare Iddio » sogliono dire « Poffare il zio », ed i Cappuccini, che hanno inventata la esclamazione « Pojane! »quale innocente intercalare di meraviglia. L' istinto che ha l' uomo di completare l' atto suo, che incomincia nel pensiero, si continua all' affetto, muove talora la volontà a fare i decreti, e si consuma nell' azione esterna, in cui l' uomo stesso che la fa, ne scorge l' espressione che glielo rende più vivo, è istinto potentissimo, e se ne ha grave molestia se viene contraddetto e rimane storpiato dall' ultimazione dell' atto suo. Onde questo istinto vale a dar buona ragione di molti altri fatti dell' umano operare. E perchè mai se non per questa cagione appunto l' uomo, a cui soppravvenga sciagura grandissima, manda grida e lamenti, e di più fa onta e danno a sè stesso, e si sciupa le vesti, e si lorda di cenere e di fango, e si batte la fronte e si strappa il crine, e siede e ravvoltolasi per terra, e si morde e si dilacera, e perfino si uccide? Per quella legge che dicevamo; ed una delle origini del suicidio è pur questo istinto, e il bruciarsi sul rogo del marito delle vedove indiane, non tutte finte, ne è una prova evidente (1). Cerca forse l' uomo sollievo e diminuzione ai suoi mali col farne degli altri a sè stesso, coll' aggiungersene di nuovi? Non è questa la causa del suo incrudelire seco medesimo; ma si è quell' atto interno di dolore veementissimo, che non può tenersi e fermarsi al primo passo, ma vuole trascorrere la sua via e spiegarsi in tutta la naturale sua protensione; vuole ingrandirsi, ed ultimarsi, e segnarsi, e quasi lasciare di fuori nella straziata persona di sè un monumento; onde i mali, che fa l' uomo in tale condizione a sè stesso, gli sono più agevoli a tollerare che agevole non gli sia il rattenere quell' istinto, lasciando dimezzato l' atto del suo dolore cominciante nel pensiero e finiente nel corpo, per l' unità del soggetto intellettivo7animale, per quel nesso dinamico che lega insieme le varie potenze, e il moto dell' una fa trascorrere e continuarsi nell' altra. Laonde, anche quando l' animo esultante di gioia induce l' uomo a gongolare e trionfare nei suoi gesti esteriori, e lisciarsi, e azzimarsi, e coronarsi di rose, e banchettare, e inebbriarsi, e magnificamente e copiosamente parlare, non è a credere che egli faccia tutto ciò unicamente per trovare in cotali cose maggiore diletto; ma vi tiene gran parte l' istinto di far sì che l' atto della sua gioia interna percorra e rivolga, a così dire, tutta la naturale sua orbita, e se ne sfoghi ed esaurisca l' attività. Vero è che, come dice Seneca, parvae et lenes curae loquuntur, ingentes stupent ; ma questo stupore si spiega colla stessa legge, considerando parte che la veemenza della passione animale offende gli organi, a cui è tolta ogni virtù di continuare il movimento dell' animo, parte che la intensità dell' atto interiore compensa la sua estensione, sicchè l' istinto si nutre, per così dire, e si soddisfa nel desiderio e nello sforzo di perfezionare l' atto del dolore interno coll' accrescerne il grado, e tuttavia non ne viene a capo, sicchè non trovando forze di svolgere l' atto e comunicarlo alle potenze esterne, l' addolorato dentro impetra. La solitudine adunque sì amata e ricercata dall' uomo profondamente afflitto, e il non poter mai togliere il pensiero dalla causa del suo dolore, nè parlare d' altro che della sua sciagura, e il voler anatomizzarla e considerarla in tutte le più minute circostanze, e riuscirgli intollerabile chi gliela pretende diminuire; nasce dalla legge stessa, dallo stesso istinto, che tende a far sì che l' atto stesso del dolore, già avviato, si compia e si perfezioni con quanta attività egli s' abbia maggiore; sicchè non rimangasi rannicchiato in germe, anzi ciò che è nel seme acquisti suo corpo e cresca adulto quanto mai egli può. Ed alla stessa legge deve riputarsi la causa perchè le lagrime sollevano l' infelice, a cui non è forse cosa più cara del pianto. E` l' ultimo sfogo dell' atto, senza il quale l' atto, non consumato ancora, rimane pieno di virtù e in conato di germinare. L' origine dei sacrifizi alla divinità e specialmente dei sacrifizi umani (ai quali furono surrogati quelli in cui s' immolavano a Dio le cose più care dell' uomo invece dell' uomo) deve pure a questa legge riferirsi. Il sentimento della somma umiliazione, di un Signore supremo di tutte le cose, e specialmente del riconoscersi rei di peccato in faccia a quel potentissimo, a quel Sovrano infinito, addimanda più che un atto sterile e freddo di solo pensiero; vuole spiegarsi in un atto realissimo, che, trascorrendo tutto l' uomo, lo penetri e domini; il quale atto di natura infinito, perchè rispondente al concetto di un ente infinito, l' uomo non trova come completarlo se non colla distruzione di sè, e più imperfettamente colla distruzione delle cose sue. Perocchè l' essenza del sacrificio, sia esso olocausto, o sia per il peccato, esige propriamente che l' uomo stesso ne sia vittima; gli altri sacrifizi non sono più che un surrogato a quello perfetto. Infatti nell' olocausto l' atto del sentimento muove da questo pensiero: « in paragone del Creatore la creatura è nulla, il Creatore solo è ente ». Il sentimento del nulla non si esprime sensibilmente e, per così dire, monumentalmente se non colla distruzione. Nel sacrificio per il peccato l' atto del sentimento muove da quest' altro pensiero: « la creatura, che ha offeso il Creatore, non deve esistere ». Il pensiero dell' indebita esistenza non riceve l' ultima sua attuazione se non realizzando la non esistenza, e così ancora colla distruzione. Finalmente, anche espressione di un sommo amore è il sacrifizio, perchè non essendovi atto in cui l' amore sia più intenso ed operativo che nel soffrire per la persona amata, l' amatore grande cerca questo atto come l' ultimo sforzo amoroso che di far gli sia dato; a cui massimamente è invitato, quando disperato dolore dell' amata persona perduta lo determina e già lo avvia agli atti crudeli. Quindi alla morte di Patroclo i soldati di Achille si rasero i capelli e ne copersero il cadavere; quindi le crudeltà in uso presso tutti i popoli antichi nei funerali o nelle feste pei trapassati (1). La terza legge dell' armonia, ossia della conveniente azione degli enti, si formula: « L' atto semplice o molteplice, continuato pel nesso di più potenze che lo si comunicano, dopo compiuto, non cessa sempre d' un tratto, ma rimettendo con una certa legge, per la quale quell' atto passa a stati diversi ordinati in serie successive; il qual passaggio graduato fino alla totale estinzione dell' atto, è grato al soggetto che lo fa, perchè a lui naturale, e se gli è impedito, ne riceve molestia ». A provar questa legge nell' « Antropologia » abbiamo recato l' esempio dei colori immaginari e dei suoni (1); diciamone ancora qualche cosa. Ciò che Fresnel e Arago hanno detto del sistema delle ondulazioni per ispiegare i fenomeni della luce fu riputato assai probabile. Ma essi limitarono i loro studi alle leggi secondo le quali procedono le onde luminose del fluido, che suppongono diffuso in tutta la natura; il che non basta a spiegare la visione. Questa nasce nel sensorio visivo e non nell' etere, che non può far altro officio che di eccitatore. Lo psicologo, adunque, deve giovarsi delle loro fatiche per riuscire a conoscere o congetturare in qual maniera il detto sensorio operi, quando insorgono nell' anima le sensazioni luminose. Io credo che riceverebbe non piccolo vantaggio questa difficile questione, se si trasportasse nel sensorio stesso quanto quei due perspicaci fisici trovarono o congetturarono dover avvenire al di fuori di esso nel detto fluido. Secondo questo concetto il nervo ottico sarebbe un fascicolo di filamenti nervosi, pieno di una sostanza sommamente elastica (e forse fluida), le molecole della quale riceverebbero l' impressione delle ondulazioni eteree, e vibrerebbero longitudinalmente; queste vibrazioni riuscirebbero simili alle vibrazioni longitudinali di una corda di violino. L' ampiezza di queste onde, la loro celerità, il loro numero, i loro incontri diversi spiegherebbero i fenomeni della visione. Primieramente i diversi colori risulterebbero dal diverso numero di vibrazioni, che opererebbero le molecole nel filamento nervoso; il qual numero sarebbe corrispondente al numero delle vibrazioni eteree. Si può avere per dimostrato che il numero delle vibrazioni eteree varia secondo i vari colori; per esempio, le vibrazioni della luce gialla sono in maggior numero delle vibrazioni di quella che eccita il colore rosso. Quanto le onde sono in maggior numero, tanto elle sono più veloci e meno ampie. Simili vibrazioni, con questa diversa velocità, ampiezza e numero, debbono sorgere nelle molecole della sostanza nervosa, e così produrre eccitamenti diversi, e così dare colori diversi; il che spiega come ciascun filamento nervoso possa esser atto a dare la sensazione di tutti i colori, pel diverso eccitamento che riceve dai diversi raggi luminosi (1). Di più, le vibrazioni poi propagate lungo il filamento nervoso dovrebbero, giunte all' estremo, riflettersi e tornare indietro secondo certa legge; e questo ritorno delle vibrazioni spiegherebbe i colori immaginari e complementari, di cui si ha l' immagine (2), al venir meno di una sensazione esterna. Infatti la vibrazione che s' infrange, urtando in un ostacolo prima di esser compiuta, ne produce una riflessa, la cui velocità deve variare dalla prima secondo una legge complementaria. Quindi ancora s' intenderebbe perchè i colori accidentali complementari sieno opposti e si annullino, cioè producano del nero invece che del bianco. Se nel filamento nervoso ritorna una vibrazione riflessa complementaria, e contemporaneamente l' occhio sia impressionato dallo stesso colore, si deve produrre una vibrazione in senso opposto, che rimetta in quiete la pupilla. Rammentiamo un esperimento noto ai fisici. Sieno collocati sopra un fondo nero due piccoli quadrati, colorati l' uno in violetto e l' altro in aranciato, i cui centri sieno punti neri. Fissati alternativamente di secondo in secondo questi due punti, e poi chiusi gli occhi, sembrerà di vedere tre quadrati, l' uno dei quali di color giallo, che è complementario del violetto, l' altro bleu, che è complementario dell' aranciato, il terzo in mezzo di colore verde, che è il colore risultante dalla composizione del giallo e del bleu. All' incontro, se i due quadrati sono colorati essi stessi di colori complementari fra loro, per esempio di violetto e di giallo ovvero di aranciato e di bleu, il quadrato di mezzo non si vede più, cioè si fa nero. Questi fenomeni sembrano potersi spiegare così: Gli assi ottici non hanno la stessa direzione quando guardano successivamente i due quadrati colorati; indi avviene che i due quadrati colorati colpiscono la retina in ispazietti diversi, sicchè ciascun occhio ha l' impressione di due quadrati, quattro impressioni. Ma due di queste impressioni battono nello stesso spazietto delle due retine, e l' una di queste due impressioni è d' un quadrato, l' altra dell' altro, perchè l' asse ottico di un occhio è diretto ad un colore nella stessa direzione nella quale l' asse ottico dell' altro occhio è diretto all' altro colore; sicchè le impressioni dei due colori vengono a battere nello stesso spazietto della retina di entrambi gli occhi. Tuttavia i due occhi, finchè fissano i quadrati, non ne veggono che due, sia perchè le impressioni non hanno tempo di comporsi, sia perchè la spontaneità dell' anima non concorre allora a produrre immagini fantastiche, sia perchè l' attenzione non è volta che a vedere i due quadrati ed ad altro non bada. Ma non così accade dei colori immaginari, che succedono appresso. Essendo impressionati tre spazietti diversi nelle due retine, questi debbono dare tre serie di vibrazioni longitudinali nei filamenti nervosi. I due spazietti impressionati di un colore solo debbono dare ciascuno per colore immaginario o riflesso il colore complementario, perchè la vibrazione riflessa deve essere complementaria di quella che s' infranse. Lo spazietto di mezzo, impressionato dai due colori contemporaneamente, deve dare due vibrazioni riflesse complementarie dei singoli colori, le quali, essendo di ampiezza e celerità diversa, ritornano senza confondersi; e perchè un filamento nervoso non può che dare una sensazione sola alla volta, proporzionata al numero delle vibrazioni delle sue molecole, perciò ne viene un colore composto dai due complementari. Ma se i due colori dei quadrati sono complementari essi stessi, allora, mentre è in corso la vibrazione suscitata da uno di essi per recarsi dal di fuori al di dentro, è chiaro che gli deve venire incontro dal di dentro all' infuori la vibrazione riflessa dell' altro colore eguale perfettamente ad essa, ma in senso contrario; e così le due serie di vibrazioni si elidono reciprocamente, e quelle che vanno distruggono alternativamente le altre due serie che ritornano riflesse. Colla stessa ipotesi sarebbe spiegato altresì perchè un colore, prima di morire nell' occhio, lasci dopo di sè altri colori; per esempio, il bianco si converta in giallo e poi in rosso, e poi in indaco, e poi in azzurro e finalmente in verde, col quale svanisce. Quando si considera che la vibrazione molecolare, che ritorna indietro dall' estremità interna del filamento nervoso, è complementaria del colore di cui la retina fu impressionata, si può concepire che di nuovo quella vibrazione riflessa complementaria s' infranga, venuta che sia all' estremità esterna del filamento nervoso; nel qual caso deve ritornare di nuovo dal di fuori al di dentro con una celerità differenziata. E questo andare e venire di onde sempre diverse deve dare i diversi colori immaginari, fino a che l' eccitamento si acqueta del tutto, o diviene la vibrazione sì piccola che non è sufficiente a produrre un colore distinto (1). Dei ragionamenti simili a questi si potrebbero fare a spiegare le leggi del meccanismo, con cui il nervo acustico ammette l' eccitamento che dà il suono. Ed io penso dover essere assai probabile che le sensazioni di tutti gli altri sensorii nascano per somiglianti vibrazioni, ed ubbidiscano a leggi analoghe. Ora, se ad ogni soggetto è dilettevole l' atto suo, e conseguentemente gli è molesto l' impedimento che ritrova per via al suo atto, o il turbamento che s' ingerisce in esso, sforzandolo ad interrompere un atto a mezzo per farne un altro, ne avverrà che all' anima sensitiva dovranno essere grate quelle vibrazioni delle molecole sensorie, che producono in essa un maggior sentimento; e però quelle vibrazioni, che procedono accordate fra loro in modo che non s' impediscano l' una coll' altra, nè si turbino o confondano fra loro, ma sì anzi quelle che vanno tutte insieme ad accrescere il maggiore eccitamento possibile. Ora questo spiega perchè alcuni colori ed alcuni toni sono armonici e grati a vedersi o ad udirsi insieme, ed altri più o meno ingrati. Deve dirsi, come abbiamo già toccato nell' Antropologia , che i colori e toni grati sieno quelli le cui vibrazioni sono naturali e spontanee, il che accade altresì dei colori e suoni complementari ed immaginari; quelli a cui lo stesso meccanismo del sistema nervoso è già da sè spontaneamente determinato, sicchè l' esterna impressione non fa che associarsi alla spontaneità sensitiva, ed aiutarla e secondarla, alleggiando così anche la fatica a quel che vi pone del suo l' attività del principio senziente. All' incontro, quando il principio senziente riceve eccitamenti contrari o tali che si turbano fra loro e s' impediscono, sicchè egli non sia lasciato continuare e finire gli atti sensitivi da lui cominciati, costretto dai nuovi eccitamenti a farne altri diversi lasciando i primi; allora ne ha molestia, è un disaccordo, una disarmonia che l' affligge. Applichiamo questa teoria a spiegare le consonanze e gli accordi dei suoni. Primieramente se più suoni partissero dallo stesso luogo e nello stesso tempo, essi non produrrebbero che una sensazione sola, corrispondente alle vibrazioni di quel filamento nervoso che ecciterebbero. Questo si può provare coll' esperienza di Savart, che fece girare una ruota dentata in modo che i suoi denti percotessero contro una carta ferma. Se la ruota gira lentamente, si distinguono i colpi che dànno i denti della ruota nella carta, perchè quei colpi sono dati con notevole intervallo di tempo fra loro. Ma se si accelera assai il movimento della ruota, non si ode più che un suono solo continuo, la cui acutezza si aumenta colla velocità della rotazione, producendo così vibrazioni più frequenti; e ciò perchè i diversi colpi si succedono con un intervallo di tempo minimo, cioè minore di quello che è necessario a formarsi la sensazione. Acciocchè dunque vi siano più sensazioni acustiche e però vi sia accordo, è necessario che le vibrazioni aeree non approdino all' orecchio nello stesso tempo, ovvero partano da un diverso luogo; nel qual caso operano sopra un diverso filamento nervoso. Vi può essere accordo tanto fra i suoni successivi, purchè distanti di assai breve intervallo, quanto fra i suoni contemporanei venienti da diversi luoghi, per esempio dai diversi strumenti di un' orchestra. L' accordo dei suoni successivi, come sono quelli che ci vengono da un solo cantore o da un solo strumento, dovendo eccitare la sensazione negli stessi filamenti nervosi, non ci potrebbe dilettare, se l' anima, che raccoglie quei diversi suoni, non li rendesse contemporanei mediante la sua natura immune dal tempo. E` dunque l' anima quella che sente un sentimento solo risultante da più suoni successivi, il qual sentimento è quello della melodia; il che prova di nuovo la semplicità e identità in tempi diversi del principio sensitivo. Infatti l' atto del sentimento fondamentale ha una durata costante, e i suoni successivi sono modificazioni di quel sentimento identico; in questo sentimento adunque che rimane essi trovano il loro confronto, e lasciano il dilettevole armonico, che si chiama melodia. Qui di nuovo si vede come l' unità dell' armonia è di origine al tutto psicologica. Ma, secondo la legge da noi posta, questo diletto nasce all' anima essenzialmente sensitiva per la ragione che i due o più suoni successivi le sono naturali e spontanei, cioè sono tali che in essi ella spiega la sua attività facilmente, e produce atti sensitivi senza essere storpiata, impedita, costretta a mutarli prima di averli perfezionati. Perocchè: 1 vi è un diletto che viene all' anima da ciascuno dei suoi atti, essendole il sentire sempre dilettevole; e questo non è armonia, ma semplice diletto, che viene offeso quando i singoli atti le si storpiano a mezzo; 2 vi è un diletto che viene all' anima da più atti, quando l' uno di essi non disturba l' altro, anzi l' aiuta; e questo è il diletto dell' accordo, ossia dell' armonia. Infatti l' anima trova diletto, allorquando ella fa il suo atto colla maggiore facilità possibile e colla minore fatica possibile; e questo le accade quando non è costretta a mutarlo. Ond' è che la regolarità dei suoi atti le sia piacevole, perchè non le impone il bisogno di mutare stampo alla sua operazione, ma conserva quel metro o quella forma di operare, senza novità e cangiamenti. Quindi anche si trova che i suoni armonici, che fanno accordo fra loro, sono quelli che vengono prodotti da tali numeri di vibrazioni, il rapporto dei quali sia quello dei numeri naturali 1, 2, 3, ecc., senza frazioni; di che avviene che l' ampiezza delle vibrazioni sia pure come quei numeri, sicchè due o tre o quattro, ecc. vibrazioni di un suono siano eguali appunto ad una vibrazione d' un altro suono. Così la velocità delle vibrazioni d' un suono riesce appunto doppia, o tripla, o quadrupla, ecc. dell' altro suono, senza che avanzi nulla. In questo modo distribuite le vibrazioni: 1 non si confondono mai, nè impediscono; 2 hanno rapporti facilmente percettibili; 3 questi rapporti sono sempre gli stessi, sicchè l' eccitamento ha un metro costante. Quindi l' anima, dovendo concorrere colla sua attività alla produzione di tali sensazioni, trova subito la legge secondo cui produrle, cioè la sua azione è regolare; e questo stampo regolare è ciò che produce l' abitudine, l' operare secondo la quale le è spontaneo e facilissimo. Basterà dunque osservare quali suoni si producono con vibrazioni eteree, che abbiano i rapporti dei numeri naturali, per conoscere quali sieno i suoni che meglio s' accordino insieme. Si trova corrispondere a questa condizione l' accordo di ottava, le cui vibrazioni sono come 1 a 2; l' accordo di quinta, le cui vibrazioni sono come 2 a 3; l' accordo di quarta, le cui vibrazioni sono come 3 a 4 (1), l' accordo di terza, le cui vibrazioni sono come 4 a 5; gli accordi che si dicono perfetti: fa, la, do; do, mi, sol; sol, si, re ; i cui numeri delle vibrazioni sono sempre come 4, 5, 6. Ora poi la sapienza divina ordinò le cose esterne corporee per modo che aiutassero l' anima ai suoi atti colle loro proprie leggi. Quindi è noto che una corda vibrante, oltre la vibrazione di tutta la corda, vibra altresì colla sua metà, colla sua quarta parte, ecc., in modo che unitamente al suono dell' intera corda fa sentire altri suoni, e quelli appunto che formano fra loro armonia (2). Venendo agli accordi, che nascono dai suoni contemporanei che ci vengono da luoghi diversi, la ragione di essi è la medesima. Perocchè, quantunque noi supponiamo che le sensazioni discordi sieno ricevute da filamenti nervosi diversi, onde non si possono confondere fra loro, tuttavia la spontaneità dell' anima vi concorre a produrle; e però ella è sempre obbligata ad operare irregolarmente, ed a variar metro nel suo operare, se i numeri delle vibrazioni non hanno un giusto e netto rapporto fra loro. E questo suggella e conferma ciò che dicevamo, cioè che l' unità dell' armonia è di origine psicologica, benchè la spontaneità dell' anima venga eccitata, o con regolarità o senza, dagli stimoli esteriori che mutano il suo termine. Finalmente la ragione, per cui piace il tempo a battute regolari, trovasi nella stessa legge che presiede all' operare dell' anima. Dalle quali cose possiamo conchiudere: Che il mondo corporeo ricevette dalla sapienza creatrice un ordine ammirabile, acciocchè egli somministri ordine e armonia al sentimento e al principio razionale. Che quest' ordine non giace solamente nelle cose esterne all' uomo, ma altresì nella sua organizzazione (su di che torneremo ancora), nella fabbrica squisita dei suoi sensorii, i quali sono architettati e condotti con tale arte e maestria di proporzioni che mirabilmente rispondono e s' accordano alle proporzioni del mondo esterno e materiale. Che lo stesso principio sensitivo raccoglie il mirabile ordine del mondo esterno e del suo proprio termine (i sensorii), ed è quello che colla sua attività vi pone la forma , e fa sì che il mondo esterno, che non avrebbe per sè natura di ordine, di proporzione, di armonia, ma solo di entità ed azioni separate e disgiunte, riceva tutto ciò da lui stesso, per l' unità che il medesimo principio senziente crea in quella acconcia molteplicità. Ora quest' ultima parte formale dell' armonia, benchè non sia di origine razionale , è nondimeno di origine psicologica , perchè viene dall' anima in quanto è sensitiva.

Teosofia Vol.II

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Quest' uso d' adoperare la parola essenza per indicare l' ente sussistente è comune alla filosofia di Platone, e a quella d' Aristotele; e questi lo derivò dalla scola del suo maestro, ma nel suo sistema divenne un imperdonabile abuso, qual non era nel sistema di Platone. Platone s' accorse che le essenze sono immutabili ed estramondiali. Le ridusse, è vero, tutte nell' essenza per sé , che è semplicemente essenza, e non essenza di questo o di quello. Venuto al concetto di questa prima essenza, non potea non accorgersi che la prima essenza s' identifica col suo subietto. Dico, se n' accorse nell' ordine logico, nel quale, se si prende per subietto l' essere , questo si fa identico alla sua essenza [...OMISSIS...] . Ma in quest' ordine logico, quando si prende l' essere come subietto, non si ha per questo un subietto reale, ma un subietto dialettico. Onde le due forme di essere e di essenza si possono permutare a piacere dalla nostra mente. Ma questo non avviene in pari modo dell' essere sussistente, il quale è effettivamente subietto , e però non gli conviene esattamente la parola essenza . Per questo è tollerabile il dire, come Platone, che Dio è l' essenza stessa, invece di dire che l' Essere è Subietto. Ma Aristotele, invece di ridurre le essenze in Dio, le fece rientrare nel mondo, e allora fu altro il linguaggio platonico. Ritenendo egli incautamente l' uso che avea fatto della parola essenza il suo Maestro, pel quale l' essenza era Dio subietto sussistente, estese quella parola a significare tutti i subietti sussistenti nella natura; e cosí depravò e confuse il linguaggio, facendo che una parola la quale non poteva, in qualche modo, convenire se non a Dio solo, a cui l' avea riservata Platone, fosse applicata agli enti finiti, il cui subietto è assolutamente distinto dall' essenza. Conosciuto dunque qual sia l' astratto totale , che è l' ente astratto (lasciando da parte l' individuo vago , che è forma d' astrazione imperfetta la quale si può subordinare allo stesso ente astratto), e conosciuti i tre sommi generi d' astratti parziali, subietto, atto, qualità o essenza terminativa, prima d' investigare le classi minori nelle quali ciascuno di loro si distingue, dobbiamo considerare non già solo ciò che essi ritengono dall' ente, obietto, su cui l' astrazione si esercita, ma ancora ciò che pone in essi la mente coll' atto dell' astrazione; di che ci verrà conosciuta la loro assoluta estensione. Si consideri dunque, che il primo genere è somministrato alla potenza astrattiva dall' ente intero, e gli altri tre dalla costituzione dell' ente, altro il pensiero non mettendovi del suo, fuorché la separazione . Si rammenti dopo ciò, che l' oggetto, come conosciuto, è in balía della facoltà astrattiva. Se non fosse cosí, l' astrazione sarebbe inesplicabile. Se dunque la facoltà astraente divide l' oggetto che nella sua esistenza propria è unito, consegue che ella possa unire altresí le parti divise a quel modo che piú le aggrada. Da questo procede, che i quattro astratti da noi accennati, come sommamente generici, sieno in mano alla mente quali forme mobili applicabili da lei, ad arbitrio, a tutto ciò che cade nel pensiero, e quindi che sieno predicabili universalissimi. Ella dunque può anche dare la forma dell' uno all' altro, e con questa applicazione o congiunzione della forma trasformarli. E in quanto all' ente astratto , non solo può rivestire di questa forma gli altri tre astratti, ma è obbligata a farlo, se vuol concepirli separatamente, poiché nulla può concepire senza che ciò ch' ella concepisce sia concepito come ente, altro non essendo il concepire e l' intendere, che l' apprendere l' ente «( Ideol. , 559, 560) ». Può del pari applicare la forma di atto al subietto. In tal caso il subietto stesso entrerà nel genere degli atti. Può applicare la stessa forma di atto alla qualità od essenza, e anche questa in tal modo entrerà nel genere degli atti. Viceversa, la forma di subietto può essere applicata agli altri due astratti, cioè all' atto, e alla qualità o natura. E questa è l' origine de' subietti dialettici «( Logic. , 419 7 424) ». Finalmente, anche la forma di qualità o essenza si può dalla mente applicare agli altri due generi di astratti. Cosí, se si applica al subietto, questo prende la forma di subiettività , che esprime l' essenza o qualità di subietto; e si applica all' atto, questo prende la forma di attualità , che esprime l' essenza o qualità di atto. Gli astratti primitivi dunque, che servono di tipo agli altri, sono pochi; e supremi sono quelli che hanno l' origine nell' ente stesso in sé, e nella sua costituzione. Ma essendo la mente dotata della facoltà di rivestire gli uni della forma degli altri, da questi diversi rivestimenti i pochi astratti primitivi si moltiplicano, e danno nuove forme di astratti non piú semplici, ma composti. Si domanderà: qual differenza passa tra i quattro astratti massimi, e i predicati, e i predicabili? I predicabili non sono che predicati di predicati «( Logic. , 414 7 416) ». Sono predicati riflessi, che caratterizzano i predicati diretti secondo la loro estensione e la loro comprensione. I predicabili sono dunque predicati astratti da' predicati (1). Ma l' astrazione fatta sui predicati non è un' astrazione fatta sull' ente completo, bensí sopra un solo elemento dell' ente medesimo. In fatti il predicato non esprime che l' essenza terminativa o certamente ciò ch' esso esprime, qualunque cosa sia, lo esprime sotto la forma d' essenza terminativa . Dunque tutti i predicati, e cosí parimente i predicabili, che riducono quelli a sette classi, non sono che una sottodivisione del quarto genere d' astratti, a cui abbiamo imposta la denominazione di qualità, ossia di essenza terminativa. Onde volendosi vedere qual luogo tengano nella tavola degli astratti i predicabili, converrebbe innestarli in essa nel modo seguente: 1) Ente astratto, 2) Subietto, 3) Atto, 4) Essenza Terminativa, la quale, se si divide secondo l' estensione e la comprensione delle idee, ci dà i sette Predicabili: Essenze universalissime, essenza generica, essenza specifica, essenza differenziale, essenza integrale (2), essenza accidentale, essenza reale. Dalle cose dette si raccoglie ancora, che i quattro astratti sono contenenti massimi nell' ordine degli astratti. E veramente, potendo ciascuno di essi venir dalla mente rivestito della forma dell' altro, in virtú di questo travestimento accade, che ciascuno non contiene solamente i generi e le specie d' astratti inferiori a sé, ma contiene anche gli astratti degli altri tre generi con tutte le loro classi inferiori. I quattro sommi generi d' astratti dunque sono contenenti massimi nell' ordine delle astrazioni. Contenenti massimi assolutamente sono le tre forme primitive dell' Essere. Qual' è la relazione tra queste due maniere di contenenti massimi? Primieramente, l' Essere nelle sue tre forme è l' identico ente; e in ciascuna sua forma è contenente massimo assolutamente, per modo che abbraccia ogni entità, e anche reciprocamente se stesso nell' altre due forme. I tre sommi astratti, subietto, atto, ed essenza terminativa sono contenenti massimi delle sole entità astratte, e ciascuno anche degli altri due generi reciprocamente. L' altro sommo astratto, cioè l' ente , non è se non la congiunzione del subietto, dell' atto, e della essenza terminativa nel suo stato d' astrazione, e però è anch' egli contenente massimo delle entità astratte, e de' tre primi astratti, in quanto che la mente può rivestire ogni entità della forma dell' ente. Ma l' ente astratto non contiene anche l' ente sussistente ? Si può dire che lo contenga, secondo il pensare imperfetto della mente umana. Ma è piú vero il contrario: cioè che nell' Ente sussistente è contenuto virtualmente l' ente astratto, e non viceversa. Ma la ragione che fa parere all' uomo il contrario si è questa: che l' ente astratto è concepito dalla mente come oggetto, e l' Ente sussistente soltanto come subietto: ora nella forma oggettiva si contiene veramente la soggettiva. Veniamo ai tre astratti parziali. Nell' Essere sussistente colle tre forme la mente umana concepisce un subietto , un atto , e un' essenza terminativa . La separazione di queste tre cose non c' è nell' essere assoluto, ma la mente ve la pone colla sua facoltà astraente. Ora, con questa separazione la mente ha fatto perdere l' identità al suo oggetto. Egli è chiaro, che la semplice distinzione che la mente fa nell' Essere assoluto dei tre elementi non è quella che ci dia il subietto, l' atto e la forma terminativa d' astrazione massima: ci dà solo il primo subietto, il primo atto, la prima forma terminativa. Non sono dunque le tre forme d' astratti, di cui parlavamo, pure da ogni altra determinazione; ma queste forme si possono cavare con un' altra astrazione, cioè separando nel primo subietto la forma di subietto, da ciò che lo fa il primo tra i subietti; nel primo atto la forma di atto, da ciò che lo fa primo tra gli atti; nella prima forma terminativa la forma d' essenza terminativa, da ciò che la fa la prima tra tali forme. La forma di subietto è la possibilità di un subietto qualunque sussistente; la forma di atto è la possibilità di un atto qualunque sussistente; la forma d' essenza terminativa è la possibilità d' un' essenza terminativa sussistente. Essendo quelle tre forme di astratti tre possibilità, la mente con esse non conosce né un subietto, né un atto, né un' essenza terminativa sussistente. Ma intende, che di tali cose ce ne debbono però essere, perché il possibile non può stare senza il sussistente. Nel concetto dunque di possibilità si racchiude virtualmente il sussistente: in quella si vede la necessità di questo, ancorché questo non si veda attualmente. Questa è una nuova forma della dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori. Abbiamo detto che, se la mente umana distingue semplicemente nell' Ente assoluto i tre elementi subietto, atto ed essenza terminativa , questi non sono ancora le tre forme pure degli astratti. Ma è necessario che aggiungiamo una dichiarazione. Cosí avviene come abbiamo detto, quando, tenendo presente l' oggetto, non facciamo che una distinzione in esso, e però intendiamo che si tratta del subietto dell' Essere assoluto, dell' atto dell' Essere assoluto, della essenza terminativa dell' Essere assoluto. Ma se separiamo intieramente il subietto dall' essenza terminativa, noi non sappiamo piú di che sia subietto. Del pari l' atto, separato da questa si rimane pura forma di atto, e noi non possiamo piú sapere qual sia. Ma avviene egli lo stesso dell' essenza terminativa? Questa, che è appunto quella che determina il subietto e l' atto, dev' essere ella stessa determinata, deve dunque ritenere il carattere dell' ente da cui s' estrae. Supposto dunque che l' astrazione di separazione mentale, e non di semplice distinzione, sia esercitata sull' Essere assoluto, l' essenza terminativa del medesimo che ci rimarrà in mano, dovrà essere cosa divina , ed essendo separata dall' atto e dal subietto, ci rimarrà un concetto virtuale di Dio, quasi un Dio in potenza. Esaminiamo dunque, qual sia quest' essenza terminativa nell' Essere assoluto. Noi troviamo ch' essa non è una sola, ma che ci sono tre essenze terminative, cioè tre termini dell' unico subietto e dell' unico atto divino. E queste sono appunto quelle che, non astratte, si chiamano forme primitive dell' Essere, e si trovano poi (unite coll' identico essere) esser tre persone; e che, astratte, costituiscono le tre categorie, cioè la subiettività, l' oggettività, la moralità. Laonde, coll' astrazione teosofica, la mente trova le due prime forme universalissime degli astratti parziali; la terza forma poi, non la trova unica, ma triplice. E per ridurla a una, è necessario aggiungere un altro atto d' astrazione su queste tre, che non è piú astrazione teosofica, ma astrazione comune di quella specie che possiamo chiamare elementare, che è astrazione d' astrazione. Ora, qual cosa le tre categorie hanno di comune, che da esse si possa astrarre? Nulla, fuori del loro inizio, che è l' essere , il quale contiene virtualmente le tre forme. Questa qualità comune dunque delle tre forme, di esser essere, dicesi essenza, che rispetto ad esse è iniziale, ma rispetto al subietto, o all' atto, è terminativa. Possiamo ora delineare la seguente tavola, che rappresenta l' ordine de' primi astratti. TAVOLA DE' PRIMI ASTRATTI Forma dell' astratto totale, Ente. Prima forma degli astratti parziali, subietto puro. Seconda forma degli astratti parziali, atto puro. Terza forma degli astratti parziali, qualità o essenza terminativa: (Essere, nel senso d' essenza); A. Categoria della subiettività; B. Categoria dell' obbiettività; C. Categoria della moralità. Ma qui si affaccia una difficoltà necessaria a discutersi per istabilire chiaramente qual relazione passi tra gli astratti massimi, e le categorie che sono pure contenenti massimi. Le categorie non contengono tutto? Come dunque si fanno esse una parte in questa classificazione, e come rimane fuori di esse il subietto e l' atto, ed esse vengono dopo questi? Rispondiamo che come nell' Essere assoluto si distingue per astrazione l' essere dalle sue forme , cosí in qualunque oggetto della mente si dee distinguere l' entità pensata, che corrisponde al principium quod degli Scolastici, dalla forma nella quale si pensa, che corrisponde al principium quo de' medesimi. Ora la classificazione degli astratti è la classificazione dell' entità pensata, e se in essa s' annoverano anche le forme categoriche, è perché anch' esse si considerano come entità pensate . Che se poi si vuol considerare la forma con cui tutte quelle entità si pensano, ella è sempre la medesima, cioè l' oggettiva che costituisce la seconda categoria. La categoria quindi dell' oggettività, presa come forma con cui si pensa , e non come entità pensata , contiene tutta quella classificazione, e contiene anche se stessa come entità pensata. Laonde, se il pensiero astratto si dovesse rappresentare con una figura, nella quale si vedesse espresso tanto la forma categorica del pensiero quanto le entità astratte in essa contenute, si dovrebbe disegnare la forma categorica dell' oggettività, che contiene in ispecie le entità astratte, colla figura d' un circolo, dentro al quale si trovassero gli astratti distribuiti organicamente come noi abbiamo fatto. Primieramente, il lume della ragione non è un astratto fatto dall' uomo «( Psicol. , 1321) ». In secondo luogo, esso è un contenente massimo, altramente non potrebbe essere un lume atto a far conoscere tutte le cose «( Psicol. , 1376) ». In terzo luogo, è un atto primo «( Psicol. , 1350 7 1356) »; e quest' atto primo è puro atto , senza principio e senza fine, cioè senza subietto e senza essenza terminativa «( Logic. , 354) ». Esso è veduto dall' anima in un modo oggettivo, e per esprimere questo modo con cui è veduto, gli si dà l' appellazione d' essere ideale . Essendo dunque privo di subietto e d' essenza terminativa, ha natura d' astratto, ma non d' astratto che sia fatto dall' uomo, bensí d' astratto che, bell' e formato, è dato all' uomo da Dio. Ora, gli astratti sono le forme intellegibili in balía della mente che può applicarli a tutto ciò che vuole. La sintesi, ossia l' unione del subietto, dell' atto e dell' essenza terminativa, ricostruisce l' ente disciolto coll' astrazione. L' essenza terminativa è quella che determina la natura dell' ente. Se l' essenza terminativa è la subiettività, s' avrà un ente subiettivo; se l' essenza terminativa è l' obiettività, s' avrà un ente oggettivo, quali sono le idee. Se poi l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività e l' oggettività, s' avrà un ente subiettivo intelligente; se l' essenza terminativa sarà ad un tempo la subiettività, l' oggettività e la moralità, s' avrà un ente subiettivo intelligente e morale. La mente dunque, possedendo solo quest' astratto, ha in esso il mezzo formale da conoscere tutti gli astratti e tutti gli enti sussistenti, appunto perché ha un contenente massimo. Avendo poi veduto che le somme relazioni nascono dall' essere nelle sue tre forme, le quali prese astrattamente sono le categorie, e che queste, non altrimenti che l' essere e l' ente considerato come essenza terminativa, appartengono alla terza forma d' astratti, ne consegue, che anche le tre somme relazioni appartengono alla terza forma o genere supremo d' astratti parziali, cioè alla essenza terminativa. E in fatti le tre relazioni supreme abbiamo detto essere l' essenza, la verità, la bontà. Ora l' essenza è il quarto genere sommo degli astratti. La verità è una relazione dell' obiettività col subietto intelligente, astrazione fatta da questo subietto, e però a questa appartiene. La bontà è la moralità, astrazione fatta, di nuovo, dal subietto. Il subietto reale è un subietto che esiste in sé, a cui perciò compete la sussistenza; il subietto astratto e il subietto dialettico non esistono che in relazione alla mente, contenuti nel puro oggetto della mente stessa. Perciò il subietto reale non può essere conosciuto come un puro obietto della mente; acciocché il subietto intelligente lo conosca, non basta che riguardi nell' oggetto, ma oltrecciò dee fare un atto d' affermazione, che abbia per termine l' atto con cui il subietto esiste in sé. Il subietto astratto puro differisce poi dal subietto dialettico in questo, che nel subietto astratto puro si contiene virtualmente tutto ciò che può appartenere non solo al subietto dialettico, ma anco al subietto reale. Il subietto astratto puro è dunque un subietto perfetto, ma virtuale. Il subietto dialettico all' incontro non racchiude già, né pure virtualmente, tutte le condizioni d' un subietto perfetto e reale, ma ne esclude alcune. Il subietto dialettico si forma dalla mente, quando questa applica la forma astratta della subiettività a qualche cosa che non è subietto in sé (1). Dalle cose dette risulta, che i sommi generi dei subietti dialettici non possono essere che sei. Poiché questi non sono altro, se non gli astratti che non sieno già da sé subietti, rivestiti dalla mente della forma di subietto. Ora gli astratti massimi, escluso il subietto puro, sono sei, come abbiamo veduto, cioè l' ente, l' atto, l' essenza e le tre categorie. Sei sono di conseguente anche i sommi generi de' subietti dialettici, che servono a tipi di tutti i subietti dialettici. Che se poi si considera, che le tre categorie non differiscono quanto alla forma dialettica da quella dell' essenza terminativa, i sommi generi dei subietti dialettici si devono ridurre a tre, ente, atto ed essenza terminativa presi nel discorso come subietto delle proposizioni. L' ente astratto, come abbiamo detto, può considerarsi come ente per essenza , cioè tale che racchiude tutta la ragione di ente, benché implicitamente; e questo non può esserci dato che dall' astrazione teosofica . E può considerarsi come ente comunissimo che si predica ugualmente d' ogni ente, anche di quelli che non hanno la ragione perfetta di enti; e questo è dato dall' astrazione comune , che in relazione alla prima può dirsi astrazione d' astrazione. Preso l' ente astratto in questo secondo modo, egli non solo s' applica dalla mente a quelli enti che non hanno la piena ragione di enti, come sono tutti i finiti sussistenti, ma ancora a quelli che non sono enti per niun modo, mancando loro ogni ragione di ente, come agli elementi astratti degli enti stessi: e allora questi si dicono enti dialettici. Tutti tre gli elementi dell' ente sono necessari all' ente. Quando dunque l' ente si divide nei tre elementi, questi, cosí separati, non si possono concepire se non supponendoli enti, poiché nulla è concepibile che non sia ente, o non sia rivestito dalla forma dell' ente. Quanti perciò sono gli elementi dell' ente, potendosi tutti rivestire della forma astratta dell' ente, altrettanti sono gli enti dialettici. Come enti dunque, e però come oggetti , appariscono alla mente che li considera a parte, il subietto, l' atto e l' essenza terminativa; e poiché l' essenza terminativa di prima astrazione e d' astrazione teosofica è triplice, cosí anche le tre categorie si concepiscono dalla mente come enti dialettici, ed oggetti. Ora, l' ente puramente dialettico si può anche dire non ente, perché effettivamente egli non è ente, ma sí un elemento dell' ente, a cui la mente ebbe imposta la veste astratta dell' ente. La forma poi dell' ente può essere predicata anche dei negativi, di cui parleremo poscia. Si domanderà perché abbiamo distinti tre soli generi di subietti dialettici (dei positivi), e abbiamo invece distinti sei generi di enti dialettici. La ragione è la seguente. Riguardo ai subietti i generi sono costituiti dalla forma astratta di subietto; onde i generi di tali subietti si devono prendere dal genere di astratti a cui s' applica la forma di subietti, e poiché le tre categorie hanno la stessa forma astratta d' essenza terminativa, perciò esse non costituiscono subietti dialettici separati. Riguardo all' ente all' opposto, esso trova in tutti i sei astratti un elemento identico con se stesso, ma questo varia in tutti i sei astratti, e anche nelle forme categoriche; onde questa differenza, che si replica sei volte, deve costituire sei generi d' enti dialettici. L' atto che possiede la piena ragione di atto è l' atto primo, perché l' atto secondo non è pienamente atto, ma è atto solamente in virtú del primo, onde la natura di atto non l' ha per sé, ma dipendentemente da altro. L' atto che possiede questa piena ragione è quello dell' essere, che è primo. Qualunque cosa dunque si concepisca, si dee concepire come atto di essere, altramente non si concepirebbe, perché il secondo non si può concepire senza il primo. Concependosi dunque sette astratti, cioè l' ente, il subietto, l' atto, l' essenza terminativa e le tre categorie, sette generi d' atti si devono concepire, cioè l' atto puro e l' atto in sei modi parzialmente determinato. Questi sono virtualmente compresi in quello. Ora, essi non sono già semplicemente qualche cosa diversa dall' atto, la quale si rivesta della forma dell' atto, come straniera ad essa, nel qual caso si dovrebbero chiamare atti dialettici; ma sono atti propriamente essi stessi, e però non si debbono dire atti dialettici, bensí atti veri. Ma questi veri atti differiscono dall' atto puro, perché, oltre al concetto di atto, hanno in sé qualche altro concetto che riferito a quello di atto, gli aggiunge qualche determinazione, sebbene, trattandosi di astratti che si prendono singolarmente, niuno lo determini a pieno. Per intendere meglio come la cosa sia, si consideri di novo, che l' atto puro , quale sommo astratto, si può prendere in due modi: 1) o come atto primo che ha la piena ragione di atto; 2) o come atto comune , predicato d' ogni atto anche imperfetto. Se i sei atti si paragonano all' atto primo (essere iniziale), essi non sono che una continuazione del medesimo, e cosí non sono atti, ma sí determinazioni astratte dell' atto primo. Se poi si considerano in relazione all' atto comune , questo si predica ugualmente di tutti, e però si considerano come altrettanti generi d' atti, la cui differenza consiste nell' essere la continuazione dell' atto primo giusta diversi elementi dell' ente. Altro è il concetto della mente, quando questa considera l' atto primo in se stesso, il qual concetto altro non è che l' essere iniziale; ed altro è il concetto, quando ella considera l' atto primo nell' ente . L' atto primo nell' ente è il subietto stesso, è « ciò che nell' ente si ravvisa di primo, contenente, e causa d' unità ». Essendo diversi gli enti, l' atto primo proprio di ciascun ente è diverso, come sono diversi i subietti de' diversi enti. Ora, in tutti gli enti finiti, l' atto primo loro proprio non è l' atto primo astratto: perché questo è l' essere iniziale , e l' essere iniziale è atto primo universale e antecede all' atto primo proprio, che è il subietto ed appartiene alla categoria della subiettività e non è l' essere, ma il reale. Laonde, non solo l' atto come astratto comune , ma anche l' atto primo astratto è universale, e non proprio di alcun ente finito. Ma quest' atto primo astratto è forse proprio dell' ente infinito? Né pure: poiché come atto primo dell' ente infinito non si può considerare se non il subietto infinito . Se però in questo subietto infinito si separa coll' astrazione teosofica il concetto di atto primo dal concetto di subietto , si ha cosí formato l' atto primo astratto , che, come dicevamo, è l' essere iniziale , il quale è un atto subiettivo che si vede però dalla mente nell' oggetto, come l' entità nell' idea. Dopo aver noi parlato dell' ente astratto, del subietto astratto e dell' atto astratto, dobbiamo parlare dell' essenza terminativa. Ora, questa è positiva e negativa. Ma l' essenza negativa non appartiene al genere sommo, come quella che si forma dalla mente posteriormente: tuttavolta allo stesso genere si riduce. Infatti il negativo si riduce al genere del positivo, perché, altro non aggiungendosi che la negazione, conserva il concetto fondamentale del genere. Il negativo non aggiunge altro, fuorché la negazione che fa la mente, e non pone una differenza nel genere. E questo spiega la parola filosofica di riduzione . Quando pertanto un genere conserva il concetto da cui esso è formato, e la mente v' aggiunge qualunque operazione che non restringe punto il genere stesso, allora l' oggetto che risulta da una tale operazione non è un genere novo, ma si riduce nello stesso genere. Parliamo dunque prima delle essenze negative, e poi delle positive, e de' generi subordinati. L' astratto positivo può essere oggetto della semplice facoltà d' intuire, purché l' astratto sia dato alla mente bell' e formato; e quest' è quello che avviene coll' essere puro. Ma qualora l' uomo stesso debba produrre a sé gli astratti, allora non gli basta l' intuire, ma egli deve prodursi l' oggetto, e però l' operazione dell' astrazione o deve essere preceduta dall' affermazione, o deve intervenire questa facoltà dell' affermare nella stessa operazione colla quale si produce l' astratto. L' astratto si riveste sempre della forma dell' ente, e ogni rivestimento di forme astratte implica una specie d' affermazione e di predicazione. Questa è dunque necessaria nella formazione di tutti gli astratti negativi, sí perché nascono dal paragone e dalla sottrazione «( Logic. , 656 7 672) », e sí perché cosa sottratta equivale a dire cosa negata, e sí finalmente perché questa cosa sottratta o negata si dee rivestire della forma dell' ente, acciocché diventi un oggetto della mente. Negare poi ed affermare appartengono alla stessa facoltà, e si raccolgono entrambi nel significato del verbo predicare . L' oggetto negativo dunque si può definire, in quant' è negativo: « una entità che non è », e in quant' è oggetto della cognizione: « un' entità negata ». Ora, « un' entità che non è », non è un' entità, ma nulla. Ma poiché in questa definizione, « un' entità che non è », la parola entità rimane indefinita, ed essa significa qualche cosa dell' ente, perciò può avvenire che « il non essere una data entità »non tolga che fuori di essa entità negata ci sia qualche cosa, a cui quell' entità apparterrebbe se ci fosse. Infatti ci hanno entità appartenenti ad un subietto, il quale rimane ancorché le dette entità non ci sieno, come accade dell' entità accidentali. In tal caso « l' entità che non è »non si può considerare dalla mente in separato dal subietto ma sí in relazione col medesimo, ossia ha la natura di predicato che si nega d' un subietto. Ma poiché le quattro forme astratte sono in balía della mente, che può rivestire di esse tutto ciò che in qualunque modo concepisce, perciò anche il negativo può comparire rivestito di ciascuna di quelle quattro forme, cioè può pensarsi come ente, come subietto, come atto e come essenza terminativa, e può anche essere rivestito della forma affermativa , del quale rivestimento fa grand' uso l' Algebra. Pure abbiamo veduto altra cosa essere che un' entità possa esser rivestita d' una di quelle quattro forme astratte, altra cosa, che ella stessa la abbia in proprio per sua natura. Rimane dunque a cercare quali siano le forme o la forma propria del negativo astratto. Importando ogni negativo conosciuto dalla mente una negazione, cioè essendo « una entità negata », questa non può essere, che un predicabile. Tale è dunque la sua forma propria: « non un predicabile già predicato, che è posteriore, ma un predicabile nel suo senso proprio di esser atto a predicarsi, il che è appunto l' essenza terminativa ». La forma propria dunque de' negativi astratti non è che una, ed è la quarta; onde i negativi non danno una forma astratta di piú, ma sono un genere d' astratti subordinato al quarto dei generi sommi. L' astratto negativo da sé considerato è nulla: rispetto poi alla mente è un negato, cioè il prodotto della negazione. Ma il prodotto della negazione ha sempre la forma d' essenza terminativa che suppone avanti di sé il subietto di cui ella si può negare, e l' atto di questo subietto: non ritiene dunque, che l' ultima parte dell' ente, l' essenza terminativa. Se ora noi vogliamo investigare i generi piú estesi delle essenze negative, converrà che prendiamo la tavola delle essenze positive, e che le applichiamo la negazione. Questa ci dà cinque generi sommi, due appartenenti all' essere, che sono l' entità e l' attualità , e tre appartenenti alle forme dell' essere, che sono la subiettività , l' obiettività e la moralità . Cinque sono dunque del pari i sommi generi delle essenze negative: l' entità negata, l' attualità negata, la subiettività negata, l' obiettività negata, la moralità negata. Ora, poiché ogni essenza affermata o negata si riferisce ad un subietto, a quella maniera che varia il subietto, varia pure il valore della negazione. Cosí, ogni qual volta il subietto di cui si nega è identico alla cosa negata, si ha il concetto del nulla assoluto; hassi sempre il nulla, se si nega l' entità dell' entità, l' attualità dell' attualità, la subiettività della subiettività, ecc.; di maniera che in cinque modi generici si può formare dalla mente il concetto del nulla assoluto. Conviene dunque osservare la relazione tra la natura del subietto di cui si nega, e la natura dell' essenza negata, poiché questa relazione vien variando, e varia con lei anche il prodotto della cosa negata. 1) Se la relazione tra il subietto e l' essenza di lui negata è tale, che la natura di quello escluda quest' essenza, il prodotto prende la forma di limitazione naturale . La limitazione naturale è ciò che un subietto giusta la sua natura non ammette. Ma non sempre quello che si presenta sotto forma di limitazione naturale è vera limitazione . a ) Se la natura dell' essenza che si nega è assolutamente una perfezione, allora c' è una vera limitazione. b ) Se l' essenza che si nega è una quantità della quale il subietto, di cui vien negata, può partecipare piú o meno, senza che perciò si perfezioni la stessa natura del subietto, la negazione dà ancora una limitazione. c ) Se l' essenza che si nega non è assolutamente una perfezione, ma essendo una perfezione relativa ad un altro subietto, non è una perfezione né un aumento pel subietto del quale si nega, anzi per lui sarebbe un' imperfezione; allora la negazione dà un prodotto che ha forma dialettica di limitazione, ma che non è tale, esprimendo in quella vece la rimozione d' una limitazione, e una perfezione del subietto. Cosí, negandosi di Dio le perfezioni limitate delle creature, Egli veramente non si limita, ma in quella vece si dimostra di natura illimitata. Il negare dunque del subietto ciò che è inferiore alla natura del subietto non è un limitarlo, ma un ingrandirlo; benché la forma dialettica sia quella della negazione e della limitazione. d ) E cosí pure, se l' essenza che si nega d' un subietto è negativa, si ha una negazione di negazione, che equivale ad asserire di lui la stessa essenza presa positivamente. E` dunque una limitazione apparente e puramente dialettica. 2) Qualora la relazione tra il subietto della negazione, e l' essenza che di lui si nega sia tale, che questa non venga esclusa dalla natura del subietto, ma non formi la sua essenza specifica, e formi invece qualche suo compimento che, come tale, è richiesto dalla natura del subietto; allora il prodotto della negazione importa privazione . E questa è di piú maniere, le quali si riducono a questi due sommi generi: 1) Privazione d' un' essenza integrale; 2) Privazione d' un' essenza accidentale. Tanto poi l' essenza integrale , quanto l' accidentale , che si nega, può appartenere alla categoria della realità, o a quella dell' obbiettività, o a quella della moralità. Le essenze terminative dunque sono predicabili nel senso proprio di questa parola: non sono ancora predicate d' alcun subietto. Quando poi sono predicate, cangiano forma, cioè prendono quella d' astratti che abbiamo chiamata il comune . Questa forma è posteriore, e però il predicato, in ordine alla sua formazione, è posteriore al predicabile; il predicabile è separato dal subietto e dall' atto del subietto, il predicato è solo distinto . Diciamo qualche cosa di ciascuno dei cinque sommi generi delle essenze terminative. Entità è il nome del predicabile, ente il nome del predicato corrispondente, che è l' entità predicata. Colla predicazione dunque si dà ad un subietto la forma dialettica di ente. Ma la forma dialettica non è sempre la forma propria del subietto stesso; perciò l' ente in sé considerato si distingue dall' ente dialettico . Considerar l' ente in sé, è considerarlo coll' intelligenza necessaria, la quale non ha in sua balía l' oggetto, appunto perché questo è l' ente tal quale è; rivestir l' ente d' una forma dialettica che non gli è propria, è opera dell' intelligenza libera, alla quale spetta l' ente in quant' è da lei riguardato, ed ella come tale può spezzarlo, e prendere questi spezzati come forme da riporre dove vuole, perché sono sue produzioni e stanno in suo pieno dominio. Ora, degli enti dialettici abbiamo già veduto quali sieno le sei prime e supreme classi, a cui si devono aggiungere tutti i negativi che presi insieme costituiscono una settima classe; parliamo dunque dell' entità applicata a quello che è ente in sé considerato. L' ente in sé considerato ha quattro generi che sono: 1) l' ente astratto; 2) l' ente come subietto; 3) l' ente come obietto; 4) l' ente come santo. L' ente è astratto ogni qual volta gli manchi l' esistenza subiettiva; a cui consegue che manchi sempre l' esistenza morale. Quindi tutte le maniere di enti astratti, hanno questo carattere comune, che è la mancanza dell' esistenza subiettiva, e conseguentemente della morale. Differiscono poi secondo il grado dell' astrazione maggiore o minore. La massima astrazione è quando si pensa l' ente, e però si pensa subietto, atto, ed essenza terminativa che sono i suoi elementi, ma questi tre elementi si lasciano nella massima indeterminazione. La minima astrazione è quando si considera l' ente risultante da quei tre elementi determinati fino alla specie piena e pienissima. Quest' ente astratto di minima astrazione è quello che può essere realizzato, perché non gli manca altro che l' esistenza subiettiva. Mediante questa maniera d' astrazione, che, quando è fatta dall' uomo si chiama piú propriamente universalizzazione «( Ideol. , 490 7 504) », Iddio creò il mondo. L' ente non è una essenza terminativa, perché abbraccia tutti tre gli elementi dell' ente; ma egli si riveste dalla mente della forma di essenza terminativa, e cosí diventa l' entità . L' atto astratto non è né pur esso un' essenza terminativa; ma dalla mente è rivestito di questa forma, e diventa l' attualità . Nemmeno il subietto astratto è di sua natura un' essenza terminativa; ma la mente lo riveste della forma terminativa, ond' esso diventa la subiettività . Rimane, dunque, che abbiamo natura d' essenze terminative le sole due dell' obiettività e della moralità . L' atto dunque ha forma propria, e l' attualità è forma sopravvestita, e però quest' ultima parola esprime un concetto posteriore a quello che viene espresso dalla parola atto . L' atto astratto si concepisce come medio tra il subietto e l' essenza terminativa; ma nella sua esistenza reale l' atto non può stare senza il subietto che lo preceda e senza l' essenza in cui termini. Il subietto n' è anzi il principio, e l' essenza qualitativa, il termine. Quindi è che il subietto e del pari l' essenza terminativa non si può pensare senza l' atto. Se leviamo ogni atto scompare anche il subietto e l' essenza qualitativa. Quindi il concetto astratto di subietto è quello d' un atto iniziale, e il concetto astratto dell' essenza qualitativa è quello d' un atto finale. Questi tre atti astratti costituiscono un atto solo nella realità, e quest' atto solo è l' ente in quant' è uno. Quindi procede che non si danno atti dialettici , fuorché i negativi che si concepiscono vestiti della forma dell' ente , e quindi anche dell' atto . In ciò l' atto astratto differisce dall' ente e dal subietto ; poiché si danno de' subietti e degli enti dialettici laddove non si può pensare cosa alcuna di positivo che non sia vero atto, almeno iniziale o finale. Si devono dunque distinguere gli atti in positivi , e in negativi che sono atti dialettici. Di poi i positivi si possono distinguere ne' tre generi d' atti iniziali , d' atti medŒ e d' atti ultimativi . Gli atti iniziali hanno sempre natura di subietto o vero, o dialettico. Gli atti ultimativi hanno natura d' essenza terminativa . Gli atti medŒ hanno la pura e semplice natura di atto . Ora il subietto , fino a che è astratto e separato colla mente dal suo atto e dall' essenza terminativa, non è un subietto compiuto. Qualora dunque si prende un subietto astratto, e di lui si predicano atti reali ed essenze terminative reali, quel subietto astratto diventa un subietto dialettico, e non è piú un vero subietto. Questo appunto è il caso dell' essere , oggetto dell' intuito. Egli è l' atto iniziale di tutti gli enti. Quando si prende per subietto di tutte le idee, egli è loro subietto in sé, quantunque sempre subietto incompleto, perché astratto. Ma quando si prende per subietto di tutti gli enti sussistenti, egli non è piú che un subietto dialettico. Da questa sua relazione colle cose, abbiamo veduto nascere il sistema dell' identità dialettica . Che cosa dunque fa la mente quand' ella considera l' essere iniziale come subietto universale? Ella ha coll' astrazione diviso il subietto intero, il quale è sussistente, e si è riservata il solo iniziamento del detto subietto, cioè l' atto iniziale, e quest' atto iniziale l' ha considerato quasi fosse egli stesso subietto dell' atto medio e dell' atto ultimativo, da lui divisi. Ora, posciaché l' atto assolutamente iniziale è necessariamente il primo concepibile dalla mente, perciò quell' astratto che ha natura di primo concepibile, ella poté assumerlo come subietto universale di tutte le cose. Ma tutto questo rimane nel mondo dell' astrazione, ossia dell' intelligenza libera. Che se la mente volesse trasportare un tale subietto nell' ordine delle realità dichiarandolo sussistente, contraddirebbe a se stessa, perché dichiarerebbe reale quel subietto ch' ella stessa ha tratto dal reale e reso spoglio d' ogni realità; e frutto di cosí grossolana contraddizione sarebbe il panteismo. La mente dunque, che concepisce l' atto iniziale come subietto, può aggiungergli l' atto e l' essenza terminativa, e cosí integrarlo. Se questa essenza terminativa non fa altro che integrare il subietto astratto, riducendolo a subietto completo, dicesi subiettività . In questo modo la subiettività si considera come una forma dell' essere , uno de' suoi tre termini, termini che nell' Essere assoluto s' immedesimano coll' essere, ma che tuttavia l' intelligenza libera, mediante la sua facoltà astrattiva, può dividere, considerando l' essere a parte come atto iniziale, ossia subietto astratto di quelle tre forme. Che cosa vuol dunque dire « predicarsi l' attualità d' un subietto »? Vuol dire attribuirsi ad un subietto il suo atto medio . Ma poiché il subietto, di cui si predica, può variare senza fine, perciò anche l' atto medio , che si predica di lui, acquista diversi valori. Diversi valori ancora acquista l' attualità predicata, secondo l' essenza terminativa diversa che ne determina la qualità. Onde lo stesso atto medio, e la stessa essenza terminativa può comparir vestita della forma dialettica di subietto, il cui atto medio sarà uno degli altri due elementi vestito d' atto medio. Questo sopravvestimento di forme dialettiche è dunque quello che implica e moltiplica all' infinito il numero delle proposizioni, e può facilmente confondere il raziocinio, e dar luogo alla sofistica. Si può cercare finalmente quale sia il nesso dell' atto medio, considerato in se stesso, col subietto e coll' essenza terminativa. Questo nesso è doppio: 1) d' identità; 2) di diversità. Il nesso d' identità interviene allorché, quantunque nell' ordine dell' astrazione si distingua l' atto medio da' due suoi estremi, tuttavia nell' ordine degli oggetti in sé non havvi nulla che ne possa segnare una distinzione. Il nesso di diversità c' è allorquando nell' oggetto in sé esiste qualche cosa che distingue l' atto medio da' suoi estremi. « Ogni qualvolta ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, non è essenziale al subietto, l' atto medio si distingue, in sé considerato, dal medesimo subietto ». « Ogni qual volta, per lo contrario, ciò che si concepisce come atto medio, e come essenza terminativa che lo determina, è essenziale al subietto, non si distingue se non astrattamente dal subietto ». Da questo si scorge che tre sono i casi nei quali non c' è distinzione tra il subietto e l' atto; e sono i seguenti: 1) L' atto dell' essere iniziale è identico coll' essere iniziale preso come subietto. L' essere iniziale è un subietto astratto, spogliato d' ogni essenza terminativa, lasciatogli solo l' atto primo astratto. La distinzione è puramente mentale. Quest' atto poi, che è l' essere stesso, è essenziale, appunto perché è lui stesso. E cosí vedesi che l' atto adegua tutta l' estensione del subietto. 2) L' Essere assoluto, Dio, non ammette nessuna distinzione in sé di subietto e di atto; perché all' Essere assoluto è essenziale l' atto, e questo tanto esteso quanto lo stesso subietto. Se qui si pensa dunque una distinzione, questa non ha fondamento nell' oggetto in sé, ma è l' opera della mente libera che gli applica le due forme concettuali di subietto e di atto. 3) L' atto come subietto non ammette distinzione in sé dal suo atto, perché è l' atto stesso che ne costituisce l' essenza e la forma terminativa adeguata ed identica. E` dunque la mente libera, che applicando piú forme astratte ad un subietto identico e semplicissimo, può moltiplicarlo rispetto a sé, senza che egli perciò sia molteplice in se stesso; il che si dice « distinzione di puro concetto ». Tutte le proposizioni perfettamente identiche si riducono a questo caso. Abbiamo veduto che col pensiero astratto dell' ente, « si pensa l' ente, ma non si pensa qual subietto abbia quest' ente, qual atto, qual essenza terminativa ». Il subietto dunque che si pensa nell' ente astratto è il subietto astratto, non nel senso che sia il primo subietto, ma nel senso che sia subietto comunissimo . L' atto che si pensa nell' ente astratto non è l' atto assolutamente primo, ma l' atto comunissimo . L' essenza terminativa, è l' essenza comunissima , che è un astratto di seconda astrazione. Quindi avviene, che dell' ente astratto si possono predicare le essenze terminative di prima astrazione , che relativamente all' essenza comunissima hanno natura di determinazione. Le essenze terminative di prima astrazione, sono le tre forme categoriche dell' essere, la prima delle quali è la subiettività . Laonde, quantunque la subiettività considerata nell' ente sussistente non abbia altra forma che quella di subietto, tuttavia considerata in relazione coll' ente astratto preso come subietto, si predica di lui dalla mente come essenza terminativa . Che se, invece, noi consideriamo la relazione che essa ha coll' essere iniziale , noi troviamo che col predicare la subiettività dell' essere iniziale non si predica già una determinazione dell' essenza comunissima , ma si predica di questo una delle tre essenze terminative d' immediata astrazione. Cosí, si congiunge un' essenza terminativa all' essere iniziale, che prima non ne aveva nessuna. Prendendo dunque di novo un subietto astratto qual' è l' essere iniziale, la subiettività in relazione al medesimo tiene veramente la forma d' essenza terminativa. La subiettività quindi ha forma d' essenza terminativa solo in relazione con due subietti astratti e dialettici, cioè coll' ente astratto , e coll' essere iniziale . La subiettività poi si può considerare come essenza terminativa, ossia predicabile, di tali subietti in due maniere: cioè o per via d' un giudizio analitico , o per via d' un giudizio sintetico «( Ideol. , 342) ». Il giudizio analitico non aggiunge nulla al subietto della proposizione, ma solo lo spezza e lo spiega. In questo modo, d' ogni entità si può predicare la subiettività. La percezione all' incontro è un giudizio sintetico, che, come abbiam detto, si può anche chiamare giustamente a priori «( Ideol. , 350 n. ; 356 7 360) ». I giudizŒ sintetici sono di tre generi: 1) le percezioni; 2) quelli con cui si trovano le relazioni tra piú subietti; 3) quelli coi quali la mente riveste d' una forma dialettica un oggetto di cui quella forma non è propria. Il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di primo genere, si toglie dal sentimento reale; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di secondo genere si toglie dall' ordine dell' essere che si manifesta alla mente quando ella confronta piú concetti; il predicato che s' aggiunge nei giudizŒ sintetici di terzo genere, è prodotto dalla intelligenza libera. Di qui avviene, che la subiettività non si può predicare dell' ente e dell' essere con un giudizio sintetico , fuorché per via di percezione. Se non che, la percezione è sempre dei reali. Onde la subiettività che si predica dell' essere iniziale e dell' ente astratto con giudizio sintetico è sempre l' essenza terminativa reale . E` facile argomentare, che la subiettività si può intendere in due significati: 1) in un senso comunissimo , che conviene ad ogni proposizione nella quale si predichi la subiettività di qualunque subietto, e con qualunque giudizio, sia analitico o sia sintetico; 2) in un senso meno comune. Di qui i quattro generi sommi della subiettività: 1) La subiettività indeterminata o comunissima. 2) La subiettività formale che è la pura forma di subiettività. 3) La subiettività reale incompleta . 4) La subiettività reale completa . La subiettività indeterminata è quel concetto di subiettività, che si predica di tutto ciò che la mente concepisce come subietto. La subiettività formale è la pura forma di subiettività. Predicare la pura forma di subietto vuol dire « rivestir della forma di subietto un' entità che non è subietto, né ha questa forma ». Questo rivestimento si fa con un giudizio sintetico , perché si unisce una forma dialettica ad un' entità che non la ha. La subiettività, poi, come pura forma di subietto, si predica anche con giudizio analitico: 1) di se stessa (un giudizio identico); 2) del subietto puro, che è ella stessa quand' è stata già predicata e non è piú nella forma di predicabile; 3) di tutto ciò che è stato prima rivestito della forma di subietto col giudizio sintetico. La subiettività reale incompleta è il sentimento animale privo dell' intelligenza, quando si predica dell' essere iniziale, rivestito questo della forma dialettica di subietto. Questa subiettività incompleta si predica, con giudizio sintetico , dell' essere iniziale , ogni qualvolta si pensa un animale irrazionale come un ente e di lui si ragiona; e ogni qualvolta si parla del sentimento animale, astrazion fatta dall' ente; si predica con giudizio analitico , ogni qualvolta si prende per subietto della proposizione l' animale che già col giudizio sintetico s' è formato subietto. La subiettività reale completa è quella che appartiene al subietto compiuto in sé , che è il principio reale intelligente. Con un giudizio sintetico essa vien predicata dell' essere iniziale: con un giudizio analitico si predica dello stesso subietto completo in sé sussistente. Tutto ciò che si pensa ha necessariamente la forma di oggetto. Ma tutto ciò che in qualunque sia modo è, è pensabile. Dunque l' oggettività è una forma universalissima, contenente tutte le cose che in qualunque sia modo sono. Noi abbiamo anche veduto che non si dà subietto completo se non sia intelligente. Se dunque l' intelligenza non esiste senza oggetto, rimane che non ci possa essere un subietto completo se non ci sia un oggetto. Dato quindi, che esista una mente, con ciò è dato che esista un obietto: e dato che esista una mente necessaria, con ciò è dato che esista un obietto necessario. Noi abbiamo pur detto, che nell' oggetto si pensa sempre un' entità . Se dunque c' è l' oggetto, c' è l' entità pensata, e se l' oggetto è necessario, l' entità pensata in esso dev' essere necessaria. Abbiamo detto inoltre che gli oggetti si possono dividere in due generi: 1) gli oggetti astratti, che sono produzione della libera intelligenza ; 2) e gli oggetti compiuti, che sono oggetti dell' intelligenza necessaria . Conviene dunque dire che ci sieno anche due generi corrispondenti di entità: le entità astratte che si pensano negli oggetti astratti, e gli enti compiuti che si pensano negli oggetti compiuti. Egli è poi chiaro che all' esistenza d' una mente non basta che ci sieno oggetti astratti; perocché: 1) se fossero tutti astratti, essendo produzioni libere della mente, starebbe in balía di questa il produrli o il non produrli: onde s' ella non se li producesse, non ci sarebbe piú alcun oggetto, e però non ci sarebbe né pure la mente; 2) se ci fossero solo oggetti liberamente prodotti dalla mente, questa non potrebbe produrli, perché non esisterebbe prima di averli prodotti; 3) la mente produce liberamente a sé degli oggetti coll' operazione dell' astrarre: ma l' astrazione suppone prima di sé un oggetto su cui questa operazione si esercita. All' esistenza dunque della mente è necessaria condizione l' esistenza d' un oggetto compiuto, che contenga un ente compiuto; e trattandosi d' una mente necessaria, uopo è che il suo oggetto sia primo e necessario, e contenga un ente compiuto necessario. Se dunque esiste una mente necessaria, uopo è che ci sia un ente necessario, il quale sia in pari tempo oggetto, e che non si possa fare in esso alcuna distinzione tra la natura di ente e la natura di oggetto, ma sia un ente per sé oggetto . Che se si suppone che la mente di cui si parla sia infinita, l' ente per sé oggetto, in cui termina necessariamente l' atto dell' intelligenza, dovrà essere pure infinito, e però l' ottimo e il massimo ente. E` dunque necessario che in Dio ci sia un ente infinito per sé oggetto, e che questo sia Dio stesso (non potendoci essere altro infinito), il qual ente oggetto, se si considera come affermato dalla divina mente, chiamasi Verbo divino. Questa dimostrazione razionale dell' esistenza del Verbo divino non fu mai trovata dagli antichi, perché le loro menti non erano aiutate, come le nostre, dalla divina rivelazione. Dell' obietto sussistente non si può predicare l' obiettività, che con un giudizio analitico, e identico. Da questo procede che due concetti si devono distinguere dell' oggetto: il concetto dell' oggetto compiuto e sussistente , e il concetto dell' oggetto astratto , dal quale per via d' astrazione si tolse la sussistenza. L' oggetto compiuto e sussistente , è quell' oggetto primo che costituisce la mente divina. L' oggetto astratto dalla sussistenza è rispetto a Dio un oggetto posteriore, ma rispetto all' uomo e l' oggetto primo , la cui entità è l' essere indeterminato , che informa e costituisce la mente umana. La forma terminativa dell' oggettività è questo secondo oggetto astratto nella sua relazione di predicabile , e non ancora predicato. Ora, la mente umana predica l' oggettività di tutte le entità che cader possono nel suo pensiero, sieno astratte, sieno concrete. Queste entità si riducono a quattro generi: 1) l' essere indeterminato; 2) l' essere assoluto; 3) le entità astratte; 4) il reale finito. Dell' essere indeterminato l' oggettività si predica con un giudizio analitico identico: perché l' essere indeterminato è egli stesso oggetto . Nondimeno, distinguendosi l' entità dall' oggetto (nel quale ella si vede), la mente può intendere in quella prescindendo da questo. Per questa maniera d' intenzione mentale accade, che l' essere indeterminato si possa chiamare cogli Scolastici principium quod , o termine dell' intellezione , e la sua oggettività principium quo, , o mezzo di conoscere, o anche idea. E però, parlando a tutto rigore, il lume innato della mente umana non è l' idea , ma l' essere indeterminato . E solo colla riflessione poi trova il filosofo, che quell' essere è oggetto , ossia idea . Questa pertanto, cioè l' oggettività, si predica dell' essere indeterminato, non come cosa da questo divisa, ma come sua forma. Onde il giudizio che si fa con questa predicazione è analitico , benché s' aggiunga qualche cosa alla pura entità dell' essere indeterminato; perché quest' altra cosa che si aggiunge non si trova fuori di lui, ma egli stesso, ben considerato, si vede essere d' una tal forma essenzialmente rivestito. L' Essere assoluto sussiste nelle tre forme, cioè come Subietto, come Oggetto, e come Santo. Quando si parla dell' Essere assoluto Subietto e dell' Essere assoluto Santo, facendo distinzione dall' Essere assoluto Obietto, allora si prendono per obietti della nostra mente, e con una riflessione si può predicare di essi questa obiettività. Ma l' entità qui interviene come mezzo dell' intendere , e non come termine dell' intellezione . Qui si presenta dunque la distinzione tra due maniere di predicare l' oggettività : 1) si può predicarla d' un subietto intendendo d' affermare ch' ella sia una delle sue proprietà, o uno de' suoi elementi; 2) si può predicarla d' un subietto affine di renderlo pensabile, senza intendere ch' ei l' abbia in se stesso. Nella prima maniera si prende l' oggettività come subietto termine ella stessa dell' intellezione: nella seconda maniera si prende l' oggettività come semplice mezzo di conoscere il subietto termine dell' intellezione. Quando pertanto si considerano l' Essere assoluto Subietto e l' Essere assoluto Santo come oggetti intorno ai quali ragiona la mente, non si compone l' oggettività con essi, ma si riconoscono essi nell' oggettività che li contiene, senza che questa sia termine del pensiero. In altre parole l' oggettività è allora forma del pensiero, e non dell' entità pensata. Quando poi si predica l' oggettività dell' Essere assoluto Oggetto, si riconosce l' oggettività nel subietto, come termine dell' intellezione: gli si restituisce quella forma, che, per una astrazione teosofica, è stata tolta da lui: e questo è un giudizio analitico non identico . Quando si predica l' obiettività dell' Obietto assoluto, s' intende predicarla nel primo modo, e però la subiettività acquista, colla congiunzione ad un tale subietto, un valore che non ha come pura forma, perché viene a dire « quell' oggettività che è nel subietto », e questa è assoluta, infinita, prima, essenziale, e non è piú obiettività, né obietto come predicato, distinguibile dal subietto, ma puro obietto sussistente, non predicabile come tale, e non predicato. In quanto alle entità astratte, dell' oggetto astratto , come pure dell' oggettività stessa, l' oggettività pura forma del subietto si predica con giudizio analitico7identico . Dell' altre entità astratte, si predica con giudizio analitico, ma non identico. La maniera colla quale la mente unisce l' oggettività al reale finito è questa. La mente ha l' oggetto, cioè l' essere indeterminato davanti all' intuito, e ha il sentimento e il sentito, cioè il reale . Se questo non è un subietto, come accade della materia corporea, ella gli dà la forma dialettica subiettiva e cosí completa l' ente subiettivo . Ma ciò ella fa nell' obietto, servendosi di questo come di mezzo di conoscere . Con una riflessione posteriore, ella vede che quel subietto reale è oggetto della sua mente, e allora predica di lui questa obiettività. La predicazione dunque dell' obiettività, come pura forma termine dell' intellezione, non si fa del puro reale , ma del reale pensato dalla mente, e rivestito dell' obiettività come forma, mezzo di conoscere . Che se il reale è subietto completo , la forma della subiettività non si distingue da lui, se non per un giudizio analitico posteriore. Ma quel reale che è subietto incompleto s' intende posteriormente a quello che è subietto completo, e se ne produce il concetto, astraendo dal subietto completo l' intelligenza, lasciandogli il principio sensitivo. La moralità è un' essenza terminativa, che non può convenire se non a quell' ente che sia subietto completo, o intelligente. Ma conviene in modo diverso all' Intelligente infinito, e all' intelligente finito. Solo quell' Ente che è per sé Obietto sussistente può essere essenzialmente Santo. Perché, consistendo la Moralità nel pieno ed assoluto riconoscimento dell' essere, conosciuto nell' oggetto, essa risulta da tre elementi: 1) dal subietto intelligente che riconosce l' essere nell' obietto, 2) dall' essere riconosciuto, 3) e dall' oggetto in cui si riconosce. Se dunque il subietto riconoscente non è ad un tempo l' essere o l' oggetto, e non li ha per sé, consegue ch' egli per se stesso non sia né intelligente, né morale. All' incontro l' Ente infinito è egli stesso l' Essere attualissimo ed assoluto, e però è ad un tempo subietto ed oggetto; onde, senza ch' egli esca dalla sua natura, e senza che questa riceva nulla altronde, si trovano i tre elementi della moralità in essa; ed essendo attualissimo, la ricognizione di se stesso essere nell' obietto è pure in sé attualissima. L' Essere infinito dunque dee essere per la sua stessa essenza Santo. In quanto poi l' Essere riconosciuto e infinitamente amato è amato da se stesso subietto che esiste identico nell' obietto, in tanto si concepisce una processione dell' obietto amato dal subietto amante esistente in sé ed esistente identico nell' obietto, la quale nel linguaggio teologico dicesi processione: e comunicando questa, per la sua perfezione, all' oggetto come amato lo stesso subietto, dicesi questo persona, che chiamasi con nome comune Spirito Santo . Questa dimostrazione razionale dell' esistenza dello Spirito Santo non potea esser raggiunta, se non dalla mente umana aiutata che fosse dalla divina rivelazione. Dio dunque è ad un tempo principio e termine del Santo sussistente, cioè subietto ed essere nell' oggetto, e però è anche Santo sussistente, trattandosi di principio e termine attualissimi. L' uomo non è che subietto, e l' essere nell' oggetto non è lui, ma è un altro, che gli è mostrato; e l' essere gli è mostrato solo inizialmente, e non compiutamente: onde anche il subietto è unito a quest' essere iniziale per un atto iniziale che lo costituisce, e del resto trovasi in potenza tanto a conoscere piú addentro l' essere, quanto a riconoscerlo (potenza razionale e morale). Da quest' analisi pertanto si raccoglie, che nel concetto di moralità si presentano sempre all' uomo, secondo la sua natura, due cose distinte: il subietto riconoscente, e l' essere riconosciuto nell' oggetto, come un altro. In Dio, quest' Essere compiuto riconosciuto ed amato è egli stesso subietto compiuto, cioè persona; ma nell' uomo, trattandosi dell' essere iniziale che per astrazione divina è privo di subietto «( Logic. , 334) », quest' essere obietto è impersonale . Nell' uomo dunque comparisce l' essenza terminativa della moralità divisa in due serie: 1) la prima abbraccia essenze morali impersonali , e tali sono gli oggetti in quanto manifestano un' esigenza morale, una morale amabilità, che formolati prendono il nome di leggi morali , e applicati al subietto. di dovere ; 2) la seconda abbraccia essenze morali personali , e queste sono tutti quegli atti ed abiti , pei quali il subietto uomo si conforma alle leggi, adempisce i suoi doveri: i quali atti od abiti perfezionano moralmente il subietto uomo, che diventa morale per partecipazione, e adesione ad un altro. Quando poi, o per divina rivelazione, o per un raziocinio a cui la rivelazione presta l' ali, si arriva a conoscere che l' essere , il quale all' uomo apparisce come impersonale e puro oggetto d' intuizione, sussiste personalmente, allora vedesi che l' essere non è solamente amabile impersonalmente, ma egli stesso è per sua essenza attuale amore; e però quello che è essenza morale impersonale all' uomo, non è in se stesso, ma è un' astrazione divina di una essenza morale personale . Nel libro precedente noi abbiamo dimostrato come l' essere sia uno ne' suoi termini, sí infiniti, che finiti, ed essendo egli uno, come dia loro l' unità. Cosí siamo riusciti a presentare il sistema dell' unità dialettica , e con esso a soddisfare alla prima irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che vuol ridurre tutti i molti a uno. In questo ultimo libro abbiamo preso a dimostrare per opposto, come i tre termini dell' essere sieno nell' essere identico, e gli diano una certa trinità, e come da questi proceda ogni moltiplicità degli enti finiti. Con ciò noi veniamo a presentare il sistema della moltiplicità reale , il quale è destinato a soddisfare alla seconda irresistibile tendenza dell' intelligenza umana, che non si può fermare nel puro uno. Ma di questo alterno o anche contemporaneo movimento del pensiero la mente umana non trova un medesimo risultato; perché il movimento verso l' uno riesce a un uno dialettico puramente, quando il movimento verso i piú trova una moltitudine reale. Questa ha indubbiamente la sua prima sede e la culla in Dio medesimo, sebbene ente unico, e uno, e semplicissimo. Fu già da noi dimostrato, che non si potrebbe concepire e intendere Iddio con un pensiero filosofico, senza renderlo un ente pieno di assurdi, quando si concepisse talmente un ente uno, che non fosse ad un tempo trino ne' suoi modi, e propriamente nelle persone. Questa trinità di persone altresí appare manifestamente necessaria alla mente speculatrice, per ispiegare com' egli potesse esser la causa del mondo. Ci ha dunque una doppia moltiplicità reale : la prima in Dio, ed è quella che non costituisce pluralità di enti, ma di persone; l' altra, che trae la sua origine dalla prima, cioè dalla trinità divina, è nel mondo, la quale è la pluralità di enti relativi. Noi parleremo della pluralità delle persone divine, cercando in esse l' origine prima di tutte le cause . Di poi ragioneremo delle cause in universale: e finalmente della pluralità degli effetti che producono, ai quali appartengono anche gli enti finiti che compongono l' universo. Noi concepiamo in Dio una doppia moltiplicità: una moltiplicità dialettica , che non è in lui, ma è nei nostri concetti che a lui attribuiamo; e una moltiplicità che è in lui indipendentemente al tutto da' nostri concetti, la qual è la trinità delle persone divine . Di queste due maniere di moltiplicità noi dobbiamo parlare ad un tempo. Poiché ci è impossibile ragionar di Dio senza far uso d' una moltiplicità di concetti e di vocaboli, sebbene l' essenze contenute in questi considerate in Dio, diventano una sola essenza, senza piú ritenere la moltiplicità che avevano quando erano considerate solo nei concetti non ancora attribuiti a Dio. E questo ci convien fare necessariamente anche descrivendo l' ordine delle persone divine, che hanno una moltiplicità non puramente nei nostri concetti, ma veramente in Dio. Cerchiamo dunque di dare una nozione delle persone divine, in quella maniera che è a noi possibile. Iddio, dunque, come risulta dalle cose già dette, è Padre, Figliuolo, e Spirito Santo. Ora, l' unica maniera nella quale noi possiamo formarci il concetto di Dio Padre è quella di concepirlo come un atto infinito d' intelligenza, che essendo primissimo ed assoluto, è in pari tempo subietto . Quest' atto infinito d' intelligenza è l' essere puro . Per intendere poi come intelligenza ed essere applicati a Dio esprimano una sola essenza, conviene aver presente, che l' essere da noi intuíto per natura è virtuale. Se noi dunque distinguiamo il concetto dell' essere da quello dell' intelligenza, è solamente perché il nostro concetto dell' essere è imperfetto. Niente osta pertanto ad intendere, che dove vedessimo l' essere nella sua pienissima attuazione, vedremmo la sua natura essere appunto intelligenza. Se noi dunque diamo a Dio questi due concetti di essere e di atto intellettivo , soltanto dialettica è tale dualità. Concependo cosí Dio Padre, intendiamo ch' egli è atto infinito , purissimo, intellettivo. Tuttavia anche questo concetto d' atto non si deve pensare che sia qualche cosa di diverso o di distinto effettivamente dall' essere o dall' intelligenza. Che se noi distinguiamo questi tre concetti, o queste tre essenze, è di nuovo per una concezione imperfetta che abbiamo degli enti finiti, dov' esse si vedono separate, e donde le caviamo per astrazione. In Dio l' atto è un medesimo coll' essere attualissimo, e coll' intelligenza ultimatissima. Abbiamo dunque in Dio Padre il primo atto , e questo è essenziale essere , ed essenziale intelligenza . Quest' atto assoluto d' intelligenza compitissima, che è in pari tempo subietto, ha per obietto sé medesimo, essere assoluto. Ma l' atto intellettivo non sarebbe assoluto e compiutissimo, se non producesse il suo oggetto. Ora il suo oggetto non può esser altro, che se medesimo, essere e subietto assoluto. Dunque egli proferisce l' essere subietto come obietto : e cosí esiste un' altra persona che dalla prima ripete l' origine, avente la stessa essenza della prima, ma in altro modo, cioè in modo obiettivo per sé manifesto, per sé inteso, avente in sé la vita e la subiettività del primo. Oltracciò, se un intelligente che è l' essere intenda se stesso, egli deve necessariamente generare se stesso, perché l' intendere è atto di essere, e tutto ciò che intende deve essere anche come inteso (1). Quest' è l' atto assolutamente primo, principio e causa di tutti gli atti, ed è quella paternità di cui San Paolo disse: [...OMISSIS...] . Questo primo principio dunque contiene in sé virtualmente tutti i generi di principŒ e di cause; e in quant' esso è primo , da esso si derivano realmente nel modo che si dirà; in quant' è poi totale , si possono tutti da esso astrarre per mezzo dell' astrazione teosofica. Ma questo principio non trattiene e ferma il suo atto nell' oggetto generato come persona. Poiché l' atto intellettivo, essenza dell' essere attuale ed assoluto, è infinito e perfetto: e però è intellettivo pratico, volontario, dilettevole, amoroso. Non produce dunque l' oggetto persona come semplicemente intelligibile, ma lo produce insieme come infinitamente amabile ed amato ed amante. Ora il subietto intelligente che è comunicato all' oggetto inteso, e che, in quant' è dato, è in altro modo, cioè nel modo oggettivo, nei due modi, ama l' essere assoluto comune, che è sommamente amabile, con infinito amore; il quale amore non sarebbe infinito, se non lo fosse lo stesso essere e lo stesso subietto, ma in un terzo modo, che è quello d' essere amato per sé in atto; ed essere amato per sé importa essere insieme atto sussistente amoroso; di che necessariamente una terza persona uguale e coeterna alle due prime che con un solo atto di compiacenza la spirano: perché sono un solo essere subietto in due modi, e questo medesimo essere subietto è cosí in un terzo modo o forma, la qual dicesi morale, o santo. In questa maniera, il principio da cui vengono tutti i principŒ e le cause si riduce a perfetta unità. Poiché quell' atto intellettivo efficiente, che è l' Essere assoluto, Dio, è uno, costituente tre persone, che per altro non si distinguono tra loro, se non per le processioni e per le relazioni: e le processioni sono quell' atto stesso. Perocché quest' atto dell' essenza divina assoluta ha un principio e due termini. Laonde se l' atto si consideri come principio in relazione col primo termine , esso è e dicesi Padre, mentre il primo termine dicesi Figlio; se si consideri il secondo termine in relazione collo stesso atto, in quanto è identico nel Padre e nel Figlio, esso dicesi con nome comune e non proprio, ma appropriato, Spirito Santo. Ma se si consideri lo stesso atto senza tener conto delle relazioni, e però astrattamente, allora dicesi essenza divina, che solo mentalmente dalle persone si distingue. In questo discorso facemmo uso di molti concetti, e principalmente di quelli di essere , di atto , d' intellezione , d' intellezione volitiva, ossia volizione , e di produzione . Noi abbiamo preso tutti questi concetti dall' ente finito, dove sono veramente distinti. Cosí abbiamo cavato dal medesimo, per astrazione, concetti affatto diversi, e però essenze diverse. Ma tutte queste essenze astratte sono prive del loro atto ultimo di realizzazione. Quando il loro atto ultimo di realizzazione si cerca in Dio, allora esse perdono la loro moltiplicità. L' atto ultimo di realizzazione per tutte insieme è identico: per modo che cosí realizzate e terminate diventano una sola essenza reale, che noi non vediamo, ma che pure intendiamo dover essere unica. E inferiamo logicamente, che sopra una tale essenza , dove fosse a noi palese, potremmo esercitare una astrazione la quale ci restituirebbe tutti quei concetti distinti. Onde questi concetti e le essenze che per essi si conoscono, si possono da noi denominare altresí astratti teosofici ; e questa stessa denominazione si può dare giustamente a tutti gli attributi ed altri concetti che a Dio si applicano in questo modo. L' essenza divina dunque (benché a noi cognita solo negativamente) ha ragione di tutto , relativamente a tali concetti, che vengono a ricevere la ragione di parti dialettiche formali della medesima. Ma conviene che noi definiamo la differenza dialettica che tali concetti astratti hanno fra loro. Qual' è la differenza dialettica tra il concetto di essere , e il concetto di atto ? Egli è chiaro che non si può pensare l' essere senza atto né l' atto senza essere . Ma l' atto è piú universale e comune, che non sia l' essere ; onde l' atto si può considerar come un concetto elementare dell' essere «( Ideol. , 55.) ». In fatti noi abbiam veduto che ciò che costituisce l' ente finito è puramente il reale , e che questo reale non è l' essere, benché sia un termine dell' essere, che ha bisogno di questo per esser ente. Ora, sebbene l' ente finito non sia l' essere, tuttavia ha un atto suo proprio, di cui l' essere è bensí condizione, ma non essenza propria. L' atto dunque è un concetto comune tanto all' essere, quanto ai termini finiti dell' essere, che per la presenza dell' essere sono enti. Il concetto dunque dell' atto si può raccogliere in questa definizione: « Atto è tutto ciò che esiste , sia come essere, sia come puro termine dell' essere, in quanto esiste, e in qualunque modo esista ». Questa definizione dell' atto si riferisce, come a concetti piú evidenti, ai concetti di esistenza , di essere e di termini puri , ossia finiti, dell' essere . L' essere e i termini finiti dell' essere che si riducono al sentimento finito considerato in relazione coll' essere, sono i due noti per sé «( Antropol. , 10 7 20) ». L' esistenza è astrazione esercitata su questi due primi noti; ed essa in quanto si considera nell' essere è esistenza propria, in quanto si considera ne' termini finiti è esistenza ricevuta dall' essere. Onde l' atto esprime un concetto comune all' essere che è per sé, e ai termini finiti che sono per l' essere. Ma se noi applichiamo il concetto di atto e quello di esistenza all' essere, le due essenze che ci danno questi due concetti diventano la stessa essenza dell' essere . E per vero, non c' è già nell' essere qualche cosa di distinto che sia essere, e qualche cosa di distinto che sia atto, e qualche altra cosa di distinto che sia esistenza o essenza. Questo esser tre significa che possono essere pensate separatamente, ma non toglie che, quando si considerano essenti in una data entità, non si possano riconoscere per una essenza sola indistinta e semplicissima dalla quale per astrazione si può cavarle e distinguerle tutt' e tre. L' atto dunque si trova tanto nell' essere, quanto negli enti finiti che non sono essere; e da questi, che soli cadono sotto la nostra esperienza, noi prima ce ne formiamo il concetto. Perciò questo concetto dell' atto non è perfetto a principio, e nel pensar comune. Poiché quello che prima considera la mente dell' uomo è l' atto transeunte «( Psicol. , 1203 sgg.) ». Solo mediante una riflessione piú elevata e filosofica, perviene poi l' uomo a distinguere gli atti permanenti dagli atti transeunti . Ma poiché il suo primo concetto di atto è quello di atto transeunte , gli riesce poi assai difficile considerare l' atto permanente spoglio al tutto di quei caratteri che all' atto transeunte appartengono. Da questo accade, che l' atto si concepisca volgarmente come un movimento che occupa qualche tempo a compiersi, o che almeno include qualche successione. Questo carattere di formazione successiva , preso come universale ed essenziale ad ogni atto, fu causa che come ontologici si spacciassero certi principŒ, che non sono punto tali. Uno di questi principŒ è il celeberrimo: in actu actus nondum est actus . Questo principio infatti suppone: 1) Che l' atto possa trovarsi in un istante nel quale si comincia a formare, ma non è tutto fatto ancora. 2) Che l' atto non sia atto se non quando ha terminato il suo conato di essere, la sua azione. L' assioma aristotelico dunque, « in actu actus nondum est actus » non è un principio ontologico che esprima una qualche proprietà comune a tutti gli atti: non vale se non per quegli atti transeunti che hanno una continuità fenomenale, e che in fatto sono una serie d' atti minori. Sostituendo il principio veramente ontologico , noi diremo: « L' atto è, o non è », senz' altro di mezzo. Da questo principio: « L' atto è, o non è », si deducono le seguenti proposizioni che dichiarano la natura dell' atto: 1) Se l' atto è, o non è, dunque o egli è l' essere , o dipende dall' essere. 2) Se l' atto è, deve essere con qualche durata immutato, perché altramente non sarebbe. 3) Se l' atto dura immutato, egli dicesi atto permanente o immanente. 4) L' atto transeunte dunque non può essere che un concetto cavato dall' astrazione. 5) Quindi l' azione, con cui l' atto si forma non contiensi nel concetto di esso come distinta dall' atto stesso; ma l' azione con cui si forma è lo stesso atto. Onde nell' atto dell' essere consiste il suo farsi ; identificandosi anche qui in esso i due concetti astratti dell' essere e del farsi «( Logic. , 322) ». Non si possono dunque pensare gli atti transeunti senza pensare gli atti permanenti , perché quelli altro non sono che i punti in cui questi cominciano e finiscono, separati dalla mente per astrazione e considerati come atti da sé dialetticamente. Ma l' inizio e la cessazione non entrano né pure nel concetto puro di atto, poiché ne sono piuttosto i limiti. Laonde l' essenza dell' atto, non racchiudendo i limiti, presenta la permanenza assoluta e immutabile, e perciò eterna: il che dimostra che l' essenza dell' atto è l' essere , che solo esclude i limiti. Se dunque l' atto riceve anche de' limiti, questi non gli vengono dalla sua essenza, cioè dall' essere, ma dai termini finiti dell' essere; e però tutti gli atti limitati sono atti ricevuti da quei termini che, per sé non essendo essere, né pure sono atti. Che dunque il concetto di atto sia piú esteso di quello di essere, ciò non viene dal puro concetto di atto, ma dalle limitazioni che a lui s' aggiungono. La differenza tra il concetto di essere, e il concetto di atto sta ultimamente in questo, che l' essere non può ricevere limiti, e quando si limita, con questo perde il nome di essere ; laddove il concetto di atto riceve dalla nostra mente dei limiti, né per questo cessiamo di chiamarlo atto. L' atto dunque, quale esiste in sé, è sempre permanente: ma o si considera illimitato, e allora è atto puro; o si considera limitato da' limiti di estensione ideale, o di comprensione reale. Essendo limitati gli atti degli enti finiti, avviene che possano essere molti, e legati insieme intimamente. Il maggior legame è quello per cui un atto contiene, e unizza molti atti; l' atto contenente d' un ente reale finito è il suo primo atto, e si denomina subietto . Il subietto, abbiamo detto, è ciò che v' ha di uno, di primo, di contenente nell' ente. E nell' ente infinito non potendoci essere piú atti, forz' è che quest' atto solo, e perciò stesso primo, sia il medesimo che il subietto . Cosí i concetti di subietto e di atto nell' ente infinito esprimono il medesimo, quantunque considerati in se stessi prendansi come due concetti, perché siamo usati a considerare l' atto negli enti finiti, dove non ogni atto è subietto, ma il subietto è il legame di molti altri atti. La mente pone ancora una differenza tra il concetto di essere , e quello di subietto . Ma anche questa differenza nasce dalla limitazione in cui consideriamo l' essere. La virtualità appunto fa sí, che esso non ci appaia come subietto , se non in un modo dialettico. Infatti la parola subietto appartiene all' ente compiuto, e non all' essere in quant' è inizio dell' ente. Ma la limitazione non è mai la cosa limitata. Se dunque noi prendiamo l' essere , lasciando da parte la sua limitazione virtuale, che non è essere, incontanente avremo l' Essere ente compiuto e terminato: e allora lo pensiamo come vero subietto : e questo subietto è il medesimo che atto puro, cioè senza limitazioni. Anche qui dunque la moltiplicità de' concetti non nasce dalle essenze contenute in essi, ma dalle limitazioni entro le quali noi le pensiamo, limitazioni che sono di due specie: 1) limitazioni di virtualità , per la categoria dell' obietto; 2) e vera limitazione del reale, per la categoria del subietto. Per questo nell' Essere infinito, essere, atto, subietto , sono tutt' uno. Ma i due concetti d' atto e di subietto esprimono essenze limitate tanto di limitazione reale , perché li abbiamo cavati dall' astrazione esercitata sull' ente finito, quanto di limitazione virtuale , perché non dicono atto o subietto determinato. Riguardo alla limitazione reale, noi l' abbiam loro tolta d' attorno, e cosí abbiamo trovato che essere infinito, atto e subietto costituiscono un uno identico, e semplicissimo. Ma resta ancora la limitazione virtuale; e questa rimane ugualmente nel preciso concetto di essere infinito , perché con questo solo concetto, che risulta dai due concetti astratti di essere e di infinitezza, non posso capire di che natura sia l' essere infinito . Io argomento dunque cosí: « se è infinito, dev' essere intelligente ». Dunque avrò tre concetti che esprimono l' identica essenza illimitata: « essere infinito intellettivo, atto infinito intellettivo, subietto infinito intellettivo »; dei quali tre potrò prendere l' uno per l' altro, perché tutti significano la medesima essenza. Ma l' argomento stesso che si fa: « se è infinito, dev' essere intelligente », prova che nel concetto dell' infinità dell' essere, dell' atto e del subietto si contiene virtualmente l' intelligenza. Se dunque a questi tre concetti, che esprimono la stessa essenza infinita, noi leviamo la virtualità, avremo, che l' intelligenza esprime un' essenza identica a quella che viene espressa dalle parole essere infinito, atto e subietto infinito: solo che la esprime spiegatamente, quando questi concetti la esprimono virtualmente. L' intelligenza, poi, appartenendo alla forma reale, riceve i limiti di cui questa è suscettiva; ma questi limiti non sono intelligenza, bensí mancanza d' intelligenza. L' intelligenza pretta dunque è senza limiti reali, come senza limiti sono le essenze prette di essere , di subietto , di atto . Perciò le essenze espresse da queste quattro parole, se si considerano prette e senza limiti, sono l' identica essenza. Tra le limitazioni, che riceve l' atto intellettivo quand' è nei reali finiti, c' è quella che lo distingue in intelletto speculativo e pratico. L' intelletto speculativo non penetra e non si appropria tutto il contenuto del suo obietto, ma si ferma alla forma obiettiva. Perciò questo atto intellettivo non è ultimato; e non può bastare a conoscere enti ultimati e completi, come sono quelli che hanno vita intellettiva e amorosa che nel piacere consiste «( Psicol. , 1104) ». Infatti non si può intendere il sentimento, soprattutto il sentimento intellettivo che è l' amore, se non si sperimenta. E l' amore, essendo sentimento intellettivo non si può esperimentare che con un atto intellettivo amoroso. L' atto intellettivo amoroso dunque è un atto intellettivo completo, che si dice anche pratico e volitivo. Esso è un atto solo, ma produce due effetti: perché fa ad un tempo e conoscere e amare; l' uno dei quali non può essere in modo perfetto senza l' altro. Cognizione perfetta di un ente per sé amante ed amabile non ci può essere senza l' amore di quest' ente: né l' amore perfetto di quest' ente ci può essere senza la perfetta cognizione di lui. Affine dunque di non volgersi in circolo, è uopo concepire l' atto come unico, che, in quanto ha un oggetto, dicesi intellettivo , in quanto colla stessa attività s' unisce al contenuto di quest' oggetto e ha per termine tale unione, dicesi volitivo (1). Se dunque noi concepiamo l' essere infinito come atto intellettivo , e questo completo, troviam necessariamente che quest' atto sia anche volitivo ; di maniera che le due parole intellettivo e volitivo indicano bensí lo stesso identico atto, ma con due rispetti diversi, cioè con rispetto a due termini diversi, l' uno de' quali è l' oggetto , l' altro è l' unione di compiacenza . Se poi si prenda l' atto prescindendo dal doppio rispetto che ha al doppio suo termine, o se nell' espressione s' uniscano questi due rispetti, dicendosi intelligenza pratica o amorosa ; in tal caso si esprime l' identico che s' esprimeva co' vocaboli di essere infinito, o di subietto, o di atto infinito. Da tutto questo si vede, che l' essere è vivente e perciò pieno d' azione. Vedesi ancora, che quest' atto è essenzialmente produttivo , perché esso non istà in sé per modo, che non sia in altro; giacché ha due termini uguali a sé, diversi solo per le relazioni d' origine. Ma egli stesso, in quanto origina questi due termini, è subietto nella forma di puro subietto infinito. Laonde quest' atto può dirsi essenzialmente produzione , da producere o condursi avanti; e in questo senso anche il concetto di produzione s' identifica co' quattro primi, se si considera pretto, cioè spoglio di tutte le limitazioni, sieno virtuali, sieno reali. Infatti la produzione del tutto priva di limiti, non può essere che atto infinito il quale rivolgendosi in se stesso si genera come oggetto perfetto e però sussistente, e si esaurisce in amore perfetto e però sussistente. La varietà dunque de' quattro concetti di essere , di atto , di subietto , d' intelligenza volitiva , e di produzione è fondata non in essi stessi, ossia nelle essenze che essi danno a conoscere, ma nelle limitazioni che loro s' aggiungono, sieno queste virtuali o reali. L' identificazione all' incontro di queste essenze in una sola si ottiene collo sceverare da esse tutte le dette limitazioni, e di conseguenza le relazioni coi finiti, considerandole in sé, prette e pure. Allora l' essenza unica che si conosce in essi è ad un tempo ed allo stesso modo essere, atto, subietto, intelligenza volitiva e produzione. Ciò che il pensiero trova difficile nel concetto di causa si è un' antinomia che presenta alla speculazione dialettica. L' antinomia si può esprimere cosí: « L' ente esiste tutto in se stesso, ed è per essenza uno: dunque anche tutta la sua attività, per la quale esiste, si dee conservare entro lui stesso. Il concetto di causa all' incontro suppone, che l' attività dell' ente si riversi fuori di lui: perché l' effetto che la causa produce è un altro, che non ha unità, né identità colla causa. Vi ha dunque antinomia tra il concetto di ente e il concetto di causa. L' ente dunque non può esser causa di un altro ente. Se l' ente non può esser causa, la causa dunque non esiste, il suo concetto è falso, perché non può esistere in sé il non ente ». Per disciogliere questo argomento, conviene disciogliere l' antinomia e conciliare il concetto di ente con quello di causa. A tal fine conviene analizzare e descrivere i concetti affini, e quelli che si devono assumere nel ragionamento. Esaminiamo prima il concetto d' attività . Il concetto d' attività è diverso dal concetto di atto . Quella parola significa l' astratto di attivo : e attivo è un predicato che suppone un subietto . Ma il subietto è un primo atto: dunque atto significa qualche cosa d' anteriore logicamente a ciò che significa attività . Da questo si vede che l' essenza che ci presenta il concetto dell' attività non si può attribuire a Dio colla stessa esattezza, perché contiene in sé essenzialmente il limite di esser qualche cosa di secondo, e non di primo. Nondimeno si applica a Dio anche quel vocabolo nel parlar comune, ma non senza improprietà. L' attività suppone davanti a sé un subietto, a cui si riferisca. Ora, ci sono dei subietti dialettici e dei subietti reali . Per questa finzione dialettica de' subietti, l' attività s' attribuisce col pensiero anche a un subietto che non è essente in se stesso. Il primo e piú universale subietto dialettico è l' essere interminato preso come essenza. Perciò si predica di questa essenza dell' essere dialetticamente ogni attività. Questo subietto dialettico si può considerare o come subietto dell' attività infinita in Dio, o come subietto dell' attività finita nel mondo. Se si considera come subietto dell' attività finita, si trova una distinzione in sé che passa tra l' essere interminato subietto dialettico, e l' attività che in esso si predica (.). Quando noi dunque distinguiamo anche in Dio l' essere iniziale come atto primo o subietto, e a questo attribuiamo un' attività con cui si spiega e si completa ne' tre termini, il subiettivo, l' obiettivo, e il santo; noi introduciamo una distinzione puramente dialettica, che non ha alcuna verità in Dio medesimo. Di piú, il primo di questi tre termini non è in se stesso, ma è solo termine nel modo dialettico di concepirlo. E` necessario quindi emendar colla riflessione superiore quest' altra inesattezza, e riconoscere, che essendo l' essere iniziale un puro astratto non sussistente in sé, l' unico subietto è l' essere sussistente che produce di sé i due termini personali, l' obiettivo e il santo. Rimossa cosí questa doppia inesattezza del modo dialettico di concepire, ne comparisce una terza. Perché noi ancora attribuiamo l' attività di produrre i due termini all' Essere assoluto subietto sussistente e primo atto. Questa distinzione non havvi punto nel fatto. Poiché tutto ciò che possiamo intendere per attività producente è ciò che costituisce essenzialmente questo atto subietto , né piú, né meno; di modo che questo si deve chiamare non altro che essere, subietto, atto producente sempre ab aeterno compiuto, e non già attività di un subietto , come se l' attività e il subietto fossero due cose. Pure, essendo quest' essere atto producente, atto intellettivo infinito, è uopo che abbia un oggetto: e non può avere altro oggetto che se stesso. L' atto intellettivo dunque, che impropriamente si vorrebbe chiamare attività , è anche oggetto, e come oggetto è termine di se stesso, e, a quel modo che abbiamo detto, un' altra persona, nella quale lo stesso atto vitale, oggetto amabilissimo per sé, continua a produrre il secondo termine che è atto oggetto per sé amato : terza persona; relazioni che si trovano cosí nell' atto unico dell' essenza divina, e che distinguono le persone: onde entro all' unico essere apparisce un' essenziale trinità. Dal che si vede, che le persone divine del Figliuolo e dello Spirito Santo non si devono concepire come effetti ; perché l' effetto ha qualche cosa di essere diverso dall' essere della causa, quando le tre persone hanno tutto l' essere identico numericamente, e il solo modo, in cui tutto l' essere identico è, è diverso: e quell' essere è tutto atto primo identico in modo subiettivo, obiettivo e santo. Non potendosi dunque al Figliuolo e allo Spirito Santo rigorosamente applicare il nome di effetti , per la stessa ragione né pure al Padre si può rigorosamente applicare il nome di causa , come né pure al Figliuolo per riguardo allo Spirito Santo. Come nomineremo questa causa? Diremo forse, che l' essenza divina sia questa causa? Ma l' essenza divina separata dalle persone non esiste, onde non le si può attribuire il predicato di causa. Diremo che sia il Padre? Ma dicendo Padre ho già detto anche Figliolo, ho già posto il suo termine: non esiste il Padre avanti e indipendentemente da questo termine: mi manca dunque il subietto a cui io possa attribuire posteriormente l' appellazione di causa: non si trova dunque in Dio una natura che si possa concepire senza i due detti termini, e che perciò si possa chiamar causa di questi. Indi avvenne, che alla maniera di parlare dei padri greci, che dicevano il Padre causa del Figliuolo (1), i Padri latini sapientemente sostituirono una maniera di dire piú esatta, chiamando il Padre principio , e non causa, della Trinità. San Tommaso trova convenientissima la parola principio . Poiché dice: [...OMISSIS...] . Del rimanente, che la parola principio esprima un concetto di maggior estensione della parola causa , o viceversa questo dipende dall' uso. Se si prende dunque la causa per significare « tutto ciò che dà origine », si potrà dire che ci hanno delle cause che sono principŒ , e delle cause che sono cause in senso stretto. Principio è quella causa che non ha un subietto diverso da sé, ma che, in quant' è causa, è anche subietto. Per modo che esso è causa sussistente , ossia gli è cosí essenziale l' esser causa, che questo stesso lo costituisce ente. Causa in senso stretto , cioè in quanto si distingue da principio, è quella nella quale si concepisce l' ente, o il subietto, anche senza pensare ch' egli dia l' origine ad un' altra entità, e posteriormente gli si attribuisce questa potenza o quest' atto di origine di un' altra entità diversa da lui, necessaria a costituire il concetto di lui. La causa principio dunque è ella stessa subietto ; la causa non principio è qualità d' un subietto che si concepisce precedentemente. Finalmente per non lasciar indietro nessun de' concetti affini, richiamiamo alla mente il concetto di potenza che abbiamo definito: « una causa che rimane il subietto del proprio effetto ». Questo concetto è medio tra il concetto di causa in senso stretto e il concetto di principio in senso stretto. Poiché ha questo di comune colla causa in senso stretto, che il subietto esiste anteriormente all' atto con cui produce. Ma ha poi anche qualche cosa di comune col concetto di principio in senso stretto, ed è, che ciò che produce non istà diviso dal producente, il quale rimane suo subietto. La parola attività poi ugualmente conviene tanto al subietto, che è causa in senso stretto, quanto al subietto che è potenza ; non però al subietto principio , se non in modo improprio e dialettico, appunto perché a questo non conviene in senso stretto né la denominazione di causa, né quella di potenza. Fino a qui non siamo ancora pervenuti ad una soluzione dell' antinomia contenuta nel concetto di causa, ma abbiamo fatto de' passi verso essa. E veramente trovammo, che la natura dell' essere non è natura morta, ma vivente, e che racchiude essenzialmente un' infinita azione interna sussistente ed immutabile; che quest' azione è intellettiva e produttiva; che quest' intelligenza infinita vivente, amativa, di necessità è volitiva, sí che intelletto e volontà costituiscono un atto solo, che ha come due gradi, uno dei quali ha un primo termine, l' altro un secondo. Ora, la natura dell' atto volitivo corrisponde all' oggetto. Ma l' oggetto di una intelligenza infinita è tutto l' essere. Di piú l' atto intellettivo volitivo infinito, che è atto primo e subietto di se stesso, è in potere di se stesso, di maniera che è piú vero il dire: « è, perché vuole », che non sarebbe il dire: « vuole, perché è ». In fatti, nell' ordine ontologico, cioè nell' ordine dell' ente in sé la ragione dell' astratto è nel concreto: e il concetto nostro essere è piú astratto del concetto nostro volizione . Conviene dunque meglio l' asserire che la volizione sia lo stesso essere in Dio, anziché l' asserire che l' essere sia la volizione . Se pertanto la volizione stessa sussistente è l' essere divino, convien vedere come si convenga concepire questa volizione, acciocché sia infinita, e d' ogni parte perfetta. Questa volizione non può avere altro per oggetto voluto, se non se stessa che è l' essere infinito: s' intende, che se non volesse questo, null' altro potrebbe volere, e perciò non sarebbe. L' essere dunque vuole se stesso in se stesso oggetto, e cosí è. Perché l' Essere sia, non è necessario che voglia altro. Ma oltre quest' atto assoluto di volere con cui l' Essere vuole tutto se stesso, egli può volere anche l' essere in un modo finito. Questo si deduce dal concetto d' intelligenza, e dal concetto di volizione. Nel concetto d' intelligenza si contiene la possibilità d' intender l' essere tanto senza limiti, quanto co' limiti: nell' uno e nell' altro modo l' essere è per sé oggetto dell' intelligenza. Il somigliante è da dire del concetto di volizione, estendendosi questo concetto a tutti gli oggetti possibili dell' intelligenza. Ma l' intendere e il volere oggetti limitati non è necessario acciocché l' essere sia: rimane quindi che ci sia un atto intellettivo volitivo, non necessario, ma libero, perché non entra necessariamente nel concetto di quell' atto pel quale Iddio è, che è l' atto con cui afferma e vuole se stesso. Ma l' atto con cui l' essere afferma e vuole se stesso (e cosí è) non sarebbe infinito, se non racchiudesse il potere d' intendere, e di volere l' essere ne' suoi modi finiti. Nell' ordine dunque de' concetti precede il concetto di quell' atto intellettivo e volitivo pel quale l' Essere intende e vuole se stesso e cosí è; e in quell' atto si contiene bensí essenzialmente il potere dell' atto con cui intende e vuole l' essere colle limitazioni, ma non si contiene quest' atto stesso, e però il concetto di esso è posteriore : quello è necessario; questo è libero, perché i modi limitati dell' essere non si contengono attualmente nell' essere totale, ma solo virtualmente. Questa virtualità nasce dal concetto di intelligenza libera la quale, oltre lo sguardo con cui oggettivizza tutto l' essere, può limitare questo suo oggetto (forma oggettiva). La limitazione dunque non cade nell' essere stesso sussistente, ma è una produzione della stessa mente che, padrona del proprio atto, vuole oltre il veder tutto l' essere, veder l' essere entro i limiti che liberamente ella vi pone. Nella virtú dunque e nell' atto con cui l' Essere intende e penetra appieno se stesso, si contiene anche la virtú d' intendere, a suo volere, l' essere dentro a limiti volontari dall' Essere liberamente posti. Ma sia dato, che liberamente l' Essere faccia quest' atto d' intelligenza volitiva, col quale egli limita il proprio oggetto. Che cosa ne conseguirà? L' effetto di quest' atto si è di dare al termine reale finito un' esistenza propria, relativa a se stesso; per modo che, quantunque egli non sia a se stesso l' essere, tuttavia abbia e riceva continuamente dalla presenza d' un altro, cioè dell' essere, l' esistenza a sé relativa. Essendo questo subietto, a cui l' esistenza si riferisce, non essere, egli è un ente diverso da quell' ente che è egli stesso essere. E come questo esiste a se stesso per la coscienza che ha di esser l' essere, e quindi di non poter non essere, e però d' esistere assolutamente; cosí l' ente che è non essere esiste a se stesso (supponendo lui dotato di coscienza, e quindi relativamente a lui esistenti gli altri enti inconsapevoli) per la coscienza di non esser l' essere, e quindi di non esistere assolutamente, ma d' esistere solo relativamente all' essere da cui riceve di continuo l' esistenza. L' antinomia che si presenta nel concetto di causa consisteva nella proprietà dell' ente di esser uno, e quindi nel ripugnare ch' egli diventasse due. Ma nella teoria esposta l' ente non esce di sé, e tuttavia produce un altro ente. Il modo consiste in questo, che la denominazione di ente viene cangiata. Perché l' ente che non esce di sé nel caso nostro è l' ente assoluto, e una vera contraddizione ci sarebbe, quando si pretendesse che l' ente assoluto producesse un altro ente assoluto. Ma non c' è più contraddizione a pensare, che, essendo l' ente per sua essenza azione, questa azione abbia un termine tale, che nell' ente che fa l' azione sia assoluto, come è assoluto l' ente, e sia l' ente stesso, come vedremo, e che a un tempo, potendo questo termine anche considerarsi entro a' suoi limiti ne' quali non è piú l' ente assoluto, chiuso entro questi limiti abbia una esistenza relativa a se stesso. Posto dunque, che quell' intelligenza che per sua essenza è l' essere abbia virtú d' intendere e volere un termine finito, questa finitezza è appunto quella che d' un tale termine fa un ente diverso dall' ente infinito, e (posto che sia anche voluto) un ente che ha un' esistenza propria, perché racchiusa entro que' confini di cui Iddio non può essere il subietto. L' atto dunque che si chiude entro tali confini non può esser l' atto che non ha confini. Vedesi pertanto che la proposta antinomia rimane sciolta mediante la dottrina dell' identità e della diversità da noi data avanti. Questa teoria stabiliva che « ogni qual volta l' essenza di un' entità soffre un cambiamento qualunque, non è piú l' essenza di quella entità, ma un' altra ». Se restringiamo questo principio universale agli enti, abbiamo: « ogni qual volta l' essenza d' un ente soffre cangiamento, non è piú quell' ente, ma un altro ». Applicando questo principio al caso nostro: « L' essenza di Dio è l' essere infinito: se dunque ci è dato qualche cosa di finito, questo, qualunque sia non è piú l' ente di prima, ma un altro ente ». Ma l' intelligenza che pensa l' infinito può limitare l' oggetto del suo pensiero, riguardando l' oggetto finito nell' infinito stesso per mezzo di limiti, che ella stessa v' aggiunge liberamente. Fin qui l' operazione della mente non è uscita di se stessa, ma ha pensato la possibilità di un ente finito diverso da se stessa e dal suo oggetto infinito. Ma questa intelligenza è anche volitiva e operativa. Ella può dunque volere ed operare quest' ente o subietto finito. Ora, se lo vuole, è: perché volere è atto di essere. Fa dunque Iddio creante, che è l' essere, una volizione che è atto di essere, e che ha per termine l' ente finito. Quest' atto di essere, fatto da Dio (nel quale è essenzialmente volizione) è il nesso, la comunicazione, il ponte, il tratto d' unione tra Dio creante e la creatura. L' ente finito allora essendo, è in Dio per l' atto dell' essere che è la volizione divina, e come oggetto della mente divina, e come termine finito di essa volizione che lo vuole nell' infinito oggetto in cui lo vede; ma è anche in se stesso dentro la sua limitazione, e in quanto è tale egli ha l' esistenza relativa per la quale non è l' infinito ente, ma un altro. Noi abbiamo descritto Iddio come un solo e semplice atto, il quale è l' essere senza limiti; e quest' atto abbiamo detto essere intellettivo volitivo avente due gradi o termini. Abbiamo detto, che l' ente finito è parimente termine di quest' atto intellettivo volitivo che nel primo suo termine vede l' ente finito. Questa descrizione presenta l' atto creativo come posteriore e diverso dall' atto della processione delle persone, il che farebbe credere che fosse un altro atto, e quindi che Iddio creatore avesse due atti: il primo della processione e costituzione di sé medesimo, nella sua natura propria, uno e trino; il secondo della creazione. Ma questo ripugna alla perfezione della natura divina, la quale esige che in Dio non ci sia un primo e secondo atto, e che ci sia un atto solo e semplicissimo, il quale, se non bastasse a tutto, non sarebbe sufficiente a se stesso, e quindi non sarebbe perfettissimo e infinito. C' è indubbiamente una priorità logica nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, e una posteriorità logica nel concetto dell' atto per cui Iddio crea. Questa priorità e posteriorità de' due concetti nasce alla mente da questo, che non si può pensare l' atto creativo che fa Iddio, senza pensare che Dio sia; onde nel concetto dell' atto creativo s' acchiude il concetto dell' esistenza, che è quello stesso della processione delle persone. All' incontro, nel concetto dell' atto pel quale Iddio è, non si racchiude quello dell' atto creativo. Ma la priorità logica non è altro che un ordine che hanno tra loro gli oggetti della mente, cosí che l' uno è inchiuso nell' altro, e quello che è inchiuso e contenuto dicesi posteriore a quello che inchiude e contiene. E però il Verbo divino, come oggetto della mente, ha una priorità logica al mondo che in lui è contenuto nel detto modo. Ma la mente può nondimeno pensare con un atto solo molti oggetti che tra loro hanno la detta priorità logica, e però la priorità e posteriorità logica degli oggetti pensati, che pone tra essi un ordine, non trae seco di necessità né una moltiplicità d' atti della mente, né una priorità e posteriorità di questi atti. Cosí accade, che lo stesso atto col quale la Mente volitiva sempiterna dice se stessa e genera il Verbo sia lo stesso identico atto con cui dice il mondo nel suo Verbo, e con cui lo crea; e che, come con questo identico atto ama se stessa nel suo Verbo con che spira l' eterno e infinito Amore, cosí ami coll' atto stesso e voglia il mondo ordinandolo all' amore e alla beatitudine. Un unico atto dunque è quello che termina nel Verbo, e nello Spirito Santo, e nel mondo. Ma poiché i primi due termini sono infiniti e sono lo stesso atto e subietto essente in altro modo, perciò sono Dio e persone divine: il mondo poi, essendo finito, non può essere Dio, né persona divina. Perciò l' atto divino in quanto si considera come produttivo del mondo non può ricevere il concetto di processione personale. Se or si ponga mente, che l' atto divino è identico in tutte e tre le persone, sarà facile conchiudere, che l' atto divino il quale ha per termine il mondo è atto comune a tutte e tre le persone e all' unica essenza che è uguale e identica in esse. Intendesi da tutto questo, come la divina essenza, senza perdere l' unicità dell' atto ch' essa è, acquista il nome di causa in relazione al mondo ch' ella crea. Onde Dio Padre dicesi principio del Figlio, ma non causa del Figlio in senso stretto. All' incontro, Iddio uno e trino dicesi veramente e in senso stretto causa del mondo. Si domanderà dopo di ciò, se il concetto di attività possa essere applicato a Dio, come Causa del mondo, di modo che si possa chiamare attivo il creatore. Rispondiamo che ciò si può fare mediante un' astrazione. Ma questa maniera di concepire è solamente relativa a noi, appunto, perché dipende da una mera astrazione che spezza l' atto divino in due concetti, e stabilisce una priorità e una posteriorità tra essi. Onde la priorità e la posteriorità sta nei rispetti dello stesso atto, e non in atti diversi. Quando dunque, invece di concepire Iddio come un puro atto, si concepisce come un atto subietto a cui s' attribuisce l' attività creante il mondo, allora s' adopera un parlare improprio, ma adattato al nostro modo di concepire per astrazione. Pertanto abbiamo trovato, che c' è un ente primo nel quale l' essere e il fare s' immedesimano, e questi è Dio. Se dunque l' essere e il fare costituiscono due atti diversi, questa divisione reale comparisce soltanto negli enti finiti, a cagione che i due concetti di essere e di fare ricevano limitazioni e non sono conservati nella loro prima purità: essendo la limitazione il principio generale d' ogni divisione di quelle essenze che per sé sono un' essenza sola. Dopo aver noi trovate due moltiplicità reali, cioè la trinità delle persone divine in Dio, e la qualità dell' Ente assoluto, che è Dio, e dell' ente relativo che è il mondo, e aver conciliata questa moltiplicità reale coll' unità dell' Essere; dopo questo, dico, dobbiam procedere a svolgere il resto della moltiplicità reale che ci apparisce. E questa moltiplicità mondiale risulta parte dal Creatore stesso che ha composto il mondo di piú enti e li conserva, parte dal mondo che ha in sé una catena di cause e di effetti. Conviene dunque, che esaminiamo attentamente il mondo stesso prodotto, e che vediamo ciò ch' esso riceve dalla prima causa, e ciò che opera egli medesimo come contenente delle cause che rispetto a quella prima si dicono cause seconde. A fare ciò è necessario che prima distinguiamo nel mondo stesso quelle che sono cause in senso stretto da quelle che sono principŒ. Secondo i significati piú ristretti, principio si dice: « quel primo atto d' un ente o d' una entità, da cui procede tutto ciò che è nell' ente e nella entità »; causa poi si dice: « un ente o una entità da cui procede un altro ente o un' altra entità che non forma parte dell' ente o dell' entità da cui procede ». Ora, egli è manifesto che nel mondo ci sono dei principŒ e delle cause . Che ci siano de' principŒ, noi l' abbiamo dimostrato coll' analisi nella Psicologia, dove abbiamo a lungo parlato degli enti7principio [...OMISSIS...] . Che ci sieno delle cause , lo provano le azioni vicendevoli che esercitano gli uni sugli altri gli enti mondiali, reciprocamente modificandosi. Noi abbracceremo gli uni e le altre sotto la denominazione generica di cause seconde . Noi non possiamo conoscere le cause e la loro concorrenza a produrre l' effetto, se non esplorando ed analizzando l' effetto stesso. Or dall' esame dell' intima costituzione dell' ente finito, noi abbiamo trovato, ch' egli consta di due elementi di diversa natura: cioè 1) dell' essere (iniziale ed obiettivo); 2) del reale finito, termine improprio dell' essere iniziale. La differenza profonda tra questi due elementi si è: che l' essere è antecedente di concetto al reale finito, e non costituisce il subietto dell' ente finito, mentre l' ente finito subietto è solamente il reale finito. Ma l' unione di questi due elementi è cosí intima, che il reale finito ha di continuo l' esistenza dall' unione coll' altro elemento che non è lui, cioè dall' unione coll' essere ; di maniera che, per un sintesismo, senza l' essere egli non è nulla, ma coll' essere egli è qualche cosa diversa dall' essere: diversità che è quella che passa tra l' assolutezza e la relatività. L' essere è sempre in un modo assoluto, ancorché egli si mostri indeterminato, comune, virtuale: il reale finito è in un modo relativo. Ciò che vi ha di assoluto nell' ente finito, cioè l' essere , non può venire che dalla causa prima, da Dio: e poiché l' ente finito ha l' esistenza continuamente dall' essere , perciò egli stesso tutto intero è un effetto della causa prima, cioè di Dio. Ma il reale finito , posto che esista relativamente, ha per questa sua esistenza un atto primo, e in quest' atto primo ha la qualità di causa , e cosí s' hanno le cause seconde . La causa prima dunque è quella che dà l' essere e con esso l' esistenza del reale relativo. Nell' ordine poi dell' esistenza relativa, il reale esistente produce degli effetti, rispetto ai quali è causa seconda (principio, potenza, causa). L' operare dunque della prima causa è sempre per modo di creazione, e il resto fanno le cause seconde nell' ordine dell' esistenza relativa. L' applicazione del qual principio richiede un discorso non breve. Dopo aver noi veduto come la Mente eterna prima causa possa concepire gli enti finiti, il che abbiamo chiamato tipificazione, dobbiamo vedere com' essi vengono all' esistenza propria e relativa per opera della stessa prima causa, il che diciamo creazione, prima trattando della creazione delle persone finite, poi dell' altre cose impersonali che ad esse si riferiscono. Uopo è dunque richiamarsi alla mente quello che abbiamo detto: che Iddio è l' essere e la natura dell' essere è quella di esser mente, e mente attualissima, cioè pura intellezione. Quest' atto intellettivo, che è l' essere, intende se stesso oggetto essenziale, e in se stesso come unico oggetto gli enti finiti, i quali sono enti completi quando abbiano l' essere personale. Quest' atto intellettivo è perfettissimo, e però l' energia sua è pienissima. Da questo avviene che, intendendo se stesso, il se stesso inteso acquisti una sussistenza propria e personale, che dicesi Verbo. Poiché la cosa che l' intellezione divina vuole intendere è se stessa tutta qual è personalmente esistente, è necessario che la cosa intesa come intesa abbia una esistenza personale pari alla stessa essenza intelligente, e cosí ci sieno due persone aventi l' una e l' altra la stessa intellezione. E lo stesso abbiamo già detto della terza persona, che è la stessa essenza che esiste personalmente come essenza amata, per la perfezione dell' atto dell' amore. L' infinita energia di quest' atto intellettivo lo rende perfettamente vero , perché raggiunge il suo oggetto, che è se stesso, cosí pienamente da produrlo come inteso sussistente, siccome pure lo produce come amato sussistente. [...OMISSIS...] . Pertanto egli è uopo dire una cosa somigliante della creazione degli enti finiti. Poiché s' è visto, che propriamente non ci sono molti oggetti distinti nella mente divina, ma un oggetto solo, e che l' atto creativo della mente è quello che, equivalendo a molti atti, vede quell' unico oggetto come rappresentante di tutto ciò che di finito vuol vedervi. Or questa, che i Teologi chiamano scienza di visione o d' approvazione , è quella colla quale conosce l' ente finito sussistente perfettamente, e il conoscerlo cosí è crearlo. Conviene dunque che la persona conosciuta sia in un modo perfettissimo in Dio, se deve conoscerla perfettamente. In noi, che abbiamo una cognizione imperfetta, non avviene cosí; ma dobbiamo conoscere i sussistenti con due atti. A noi è prima d' uopo l' intuizione della specie, ossia la cognizione dell' ente come possibile, il quale non è ancora ente qual richiede di essere per propria natura, perché all' ente, alla persona, è necessario d' essere in se stessa, acciocché sia persona (2). E dobbiamo aggiungere in appresso un atto d' affermazione , che noi facciamo quando n' abbiamo la percezione sensitiva. Ma la percezione sensitiva non essendo che l' azione d' un altro in noi esercitata, cioè un effetto in noi prodotto, un effetto del quale ci serviamo come di segno per conoscere l' esistenza dell' agente causa d' un tale effetto, è manifesto che la sussistenza della persona non ci è nota qual' è in sé immediatamente, ma per un passaggio che la nostra mente fa dal segno e dall' effetto alla cosa segnata ed alla causa. Questa dunque ci rimane incognita in se stessa, che come tale non è in noi, e coll' affermazione che aggiungiamo alla specie noi altro non facciamo che conoscerne l' esistenza. La natura poi, se si tratta d' una persona, l' argomentiamo trasportando nell' ente, di cui abbiamo conosciuta l' esistenza, la forma della persona nostra, di cui solo abbiamo positiva cognizione. E questo è conoscere imperfettamente: poiché non è già che conosciamo immediatamente la realità dell' altra persona, ma solo pensiamo che deva esser simile alla nostra. Non può esser cosí il conoscere perfettissimo di Dio, il quale dee conoscere anche la realità propria di ciascuna persona e di ciascun ente finito. Onde convien dire, che la realità stessa, che è il punto oscuro della cognizione umana, sia perfettamente conosciuta in Dio. Ma in Dio la realità propria de' finiti si dee conoscere con un atto unico, che è intuitivo, imaginativo, e affermativo ad un tempo; e si dee conoscere sussistente (1). Perocché, all' ente finito è essenziale il sussistere in sé: non può esser quindi conosciuto perfettamente, se non è conosciuto in ciò che appunto lo costituisce perfettamente, che è la sussistenza. O converrebbe dunque negare a Dio la cognizione de' finiti, o dargliela solo imperfettamente, o ammettere che la sua cognizione perfetta degli enti finiti è un atto creativo che rende sussistente il suo obietto, di maniera che la sussistenza in sé degli enti finiti consegue alla perfezione della divina intelligenza. Questa dottrina illustra e determina il significato d' alcune espressioni difficili usate da' filosofi e da' teologi. Dicono, che le cose tutte sono in Dio non solo in quanto a quello che hanno di comune, ma anche in quanto a quello in cui si distinguono le une dalle altre, e che è in Dio anche la loro realità (1). Dicono, che le cose finite sono nella scienza di Dio loro causa (2). Dicono, che c' è un doppio essere degli enti finiti, l' essere naturale e l' essere intelligibile ; e che negli agenti della natura preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' esser naturale , in quelli poi che operano per intelletto preesiste la forma della cosa da farsi secondo l' essere intelligibile ; e questo essere intelligibile chiamano similitudine . Volendo noi sottomettere queste diverse espressioni alla critica, e togliendo loro d' attorno quello che possono avere d' equivoco, determinarne il vero significato, primieramente diciamo, che l' essere gli enti finiti in Dio , o nella scienza di Dio , sono espressioni equivalenti, perché in Dio, come dicono, « intelligere est esse (3) ». Se gli enti finiti sono nell' intendere di Dio, ossia in Dio, dunque essi hanno un essere intelligibile , e quest' essere non è diverso da Dio stesso, perché è lo stesso atto divino, che è quanto dire l' essenza divina, poiché in Dio si avvera quello che troppo universalmente fu detto, cioè: che [...OMISSIS...] . Dissi che a questa sentenza si diede troppa estensione, perché s' avvera compiutamente in Dio solo, e negli altri intelletti non s' avvera pienamente. Poiché ciò che v' ha di assolutamente e per sé conoscibile non è che l' essere. Ora, secondo San Tommaso di cui è quella sentenza, l' ente finito non è l' essere, né pure il proprio essere: « nulla forma vel natura creata est suum esse (5) ». Dunque consegue che nessun ente intellettivo che non è l' essere possa intendere cosa alcuna se non uscendo di sé e unendosi all' essere, che è un altro, per la qual congiunzione con un altro egli diviene intelligente. All' incontro Iddio, essendo l' essere stesso, ha l' intelligibile in sé, perché egli stesso è l' essere; e però di lui solo s' avvera pienamente quello che disse Aristotele troppo estesamente, cioè che intelligibile in actu est intellectus in actu . Noi di vero concepiamo l' atto dell' intendere come l' unione dell' intendimento con ciò che s' intende, quasi l' intendere sia l' effetto di questa unione (1). In fatti appresso di noi l' intendimento e l' inteso sono due cose distinte che si considerano anco in separato, e cosí ciascuna di esse in potenza, onde poi rimangono distinte anche quando sieno unite: nella quale unione ciò che sussiste è il solo intelligente in atto come un subietto individualmente unito ad un obietto che non è lui. Ma Iddio è lo stesso intendere attuale (2); è piú che intelligente o che intelligibile: è intelligente in atto ultimato, che noi diciamo per sé inteso . Per questo nell' intendimento della creatura, oltre il subietto intelligente e il reale inteso, c' è di mezzo la specie , che è quella forma obiettiva che attua l' intelligente e che non è l' intelligente, ma è ciò che è per sé intelligibile, cioè l' essere, e però è ciò che il nostro intendimento immediatamente intende (3), e in cui e per cui intende poi i reali con un atto d' altra natura, che è l' affermazione e la predicazione. Iddio invece non ha bisogno d' una specie diversa da sé per intendere, perché è egli stesso intelligibile e inteso per sé, a cagione ch' egli è l' essere stesso: Iddio intende la propria essenza, e con questa, come dicemmo, intende l' altre cose finite. Ma convien che le veda nella propria essenza dove sono virtualmente comprese; se dunque vuol vederle distintamente ed attualmente, il che è in suo potere, conviene che le distingua e attui. Ma posto che le distingua ed attui colla forza del suo atto intellettivo per vederle, esse già esistono in se stesse; il che è quanto dire sono create. Dacché esse non preesistono e però non possono essere conosciute, non possono essere conosciute se non con quest' atto stesso con cui sono create, perché solo create sono distinte dalla divina essenza, e tra loro: e delle cose finite non esistenti non ci può essere in Dio altra conoscenza pratica se non virtuale (1). In Dio dunque non ci sono specie (2), tenendo luogo di specie l' unica essenza divina che è non solo intelligibile, ma il per sé inteso. Pure a Dio si sogliono attribuire idee , intendendo per idea non ciò con cui si conosce, ma la forma separata dalla cosa, la qual forma è ciò che si conosce. San Tommaso infatti cosí definisce le idee: [...OMISSIS...] . Ma, se l' idea è la forma delle altre cose, separata dalle cose esistenti, chi conosce tale forma non conosce ancora le cose nella loro propria sussistenza, ma solo la parte formale delle cose esistenti in sé. Onde le idee, prese in questo senso, non bastano a spiegare la cognizione che Iddio ha delle cose singole esistenti. Né vale il definire l' idea, come fa il Gaetano, « ratio obiectiva rei (4) », perché la ragione obiettiva della cosa non fa ancora conoscere se la cosa sussiste o no. Soggiunge poi San Tommaso, che l' idea serve a due usi, cioè o serve ad esemplare di quella cosa di cui ella è forma, o serve a principio della cognizione della cosa medesima (5). L' idea dunque ella è anche « « principio con cui si conosce » ». Ma il principio con cui si conosce, secondo San Tommaso, è la « specie , » [...OMISSIS...] (6). L' idea dunque è la stessa specie, quando se ne fa uso, come principio della cognizione. Né regge la distinzione che fa il Gaetano tra il principio della cognizione come informante l' intelletto, il che chiama specie , e il principio della cognizione come forma intesa, il che chiama idea (7). Poiché la forma intesa è appunto quella che informa l' intelletto, ed è perciò tanto specie quanto idea . Infatti tale è la natura dell' intelletto, che altra forma non ammette, se non l' obiettiva, benché questa si possa riguardare da noi in due rispetti: come termine interno e forma dell' atto intellettivo, e come principio intellettivo d' un' altra cosa e d' un altro modo di essere. Laonde San Tommaso stesso non si guarda in molti luoghi dall' adoperare specie per idea . E riconosce, che ciò che informa l' intelletto «( principium quo ) » è la prima cosa che l' intelletto intende «( principium quod ) » e che dice « per sé intesa » (1). E` dunque a dire che San Tommaso, quando distingue la specie dall' idea , parla secondo il modo dell' intendere nostro imperfetto: poiché in noi veramente c' è un solo principio con cui intendiamo, e ci sono molte cose intese: essendo il principio con cui intendiamo tutto, l' essere ideale , e le molte cose da noi intese avendo in noi molte forme, si dicono queste idee o specie a cagione che sono distinte in noi per la distinzione reale delle percezioni sensitive, alle quali noi riferiamo l' idea o la specie unica dell' essere; la quale non impropriamente si può dire specie , ove si voglia intendere per questa il principio con cui s' intendono l' altre cose, e idea quando la si considera come l' oggetto per sé inteso. E però quando San Tommaso dice: [...OMISSIS...] , dice certamente una bella verità: ma è da notarsi che sostituisce alle idee le molte cose intese . Ora le molte cose intese da Dio non sono semplicemente molte forme intellettuali, ma sono le cose stesse. Quando dunque il Santo dottore lascia i vocaboli e le forme prestabilite dall' aristotelismo, allor diventa chiaro, e cessa ogni equivoco. Poiché non si limita solamente a dire, che Iddio conosce tutto colla sua essenza come con una specie sola o principium quo , ma dice medesimamente che l' idea in Dio non è altro che la sua stessa essenza come « principium quod ». [...OMISSIS...] (3). Come dunque conosce le molte cose finite ? Risponde San Tommaso: pei diversi rispetti che la sua unica essenza ha alle diverse cose finite. Ma i rispetti diversi tra la essenza divina e le cose finite non ci possono essere, se non ci sono le cose finite che sono un estremo di tale relazione. E le cose finite non ci sono, se Iddio non le produce. Convien dire dunque che è un medesimo atto quello con cui Iddio produce le cose finite e i rispetti di esse alla propria essenza. Non può dunque dividersi in Dio la cognizione attuale e distinta e piena delle cose finite dalla creazione di queste. Onde San Tommaso dice, che il mondo è fatto da Dio per « intellectum agentem (1) ». E da questo viene che i molti rispetti dell' unica essenza divina alle creature, sono essi stessi causati da Dio ab aeterno , secondo che insegna San Tommaso medesimo (2), e costituiscono quella sapienza di cui è scritto: ab initio et ante secula creata sum (2). Le idee dunque sono prodotte ad aeterno ad un tempo colle cose temporanee, e dipendono dalla libera intelligenza divina, come abbiamo già detto (4). Ma questa parola di rispetti produce equivoco, perché riceve un doppio significato. Questi rispetti diversi , come ragioni o idee intese , sono posteriori alla cognizione che ha Dio delle cose distinte, sono rispetti ideali conseguenti e riflessi: non sono dunque necessari acciocché Iddio conosca le molte cose distinte . Come pertanto conosce molte cose distinte? Colle molte idee, dice San Tommaso. Ma come le idee sono molte? Le idee, dice, sono la sua essenza; ma coi diversi rispetti ella acquista la ragione di piú idee, « respectus quibus multiplicantur ideae ». Questi rispetti devono essere anteriori alla cognizione che Dio ha delle cose, perché le costituiscono. Ma anteriormente alle cognizioni che Dio ha delle cose distinte, non ci sono le cose: i rispetti dunque dell' essenza divina, che costituiscono la cognizione delle cose, devono essere quelli stessi con cui le cose vengono all' esistenza. Anteriormente poi all' esistenza delle cose, e della cognizione delle cose, altro non c' è che l' unica essenza intelligibile per sé di Dio, e l' intellezione divina . Nell' essenza divina per sé intelligibile ci sono tutti gli enti finiti, ma solo virtualmente e indistinti. L' atto dell' intellezione divina li rende distinti, e cosí li crea. Resi cosí distinti gli enti e creati, si possono per astrazione cavare i rispetti ideali tra le cose distinte già e create, e la divina essenza. Conviene dunque dire, con piú proprietà, che non c' è niente di ideale in Dio, se non posteriormente o almeno simultaneamente all' intellezione reale, con cui Iddio e distingue ad un tempo e crea le cose finite. Perciò quando si pongono molte idee in Dio, allora si parla al modo umano. Rimosse le idee distinte dalla divina essenza è salva la semplicità perfetta di questa divina essenza (5). Non ci sono dunque, a rigore parlando, piú idee in Dio, prese queste come forme intelligibili delle cose, ossia non ci sono piú oggetti ideali ; anzi non ci sono affatto idee , ma c' è un solo oggetto intelligibile e un solo atto d' intellezione che intende producendo l' inteso; giacché niente può essere pienamente inteso, se l' intelligente coll' atto d' intenderlo non lo produce (1). Ma se dalla divina natura, a parlar con rigore, si devono affatto rimuovere le idee, che a lei s' applicano solo per una maniera di parlare analogico tolto da ciò che accade nella mente umana, che cosa sarà il cognito della mente divina? Sarà lo stesso reale intelligibile , senza nulla di mezzo: ma questo reale non in quanto è puramente in se stesso, che è la sua esistenza relativa, ma in quanto il reale in se stesso esistente è in Dio. Abbiamo distinto il reale che l' uomo conosce, dal reale che conosce Iddio. Fermandoci all' atto della perfetta intellezione, alla illimitazione di questa appartiene, ch' ella non solo intenda l' essere infinito, ma che intenda tutti gli enti finiti in esso compresi per una virtualità d' eminenza . Questo, niuna intelligenza il potrebbe fare in un' idea vota di realità, come nell' idea dell' essere, che è un essere virtuale dove tutto il reale è nascosto, onde da noi si chiama una virtualità di scadenza ; ma ben il può far l' intelligenza quando un oggetto reale a lei sia dato (2). Può dunque l' intelligenza infinita nell' ente finito conoscere e discernere di cognizione tutti gli enti finiti ch' ella voglia, ossia formarsene, come dicevamo, i tipi. Ma dato che Iddio si formi questi tipi attuali, già esistono in se stessi gli enti finiti. Poiché gli enti finiti, e soprattutto gli enti finiti persone, hanno un' esistenza propria e in sé, e senza questa esistenza propria in sé non sono enti finiti. Una qualunque similitudine ideale dell' ente finito non è l' ente finito, e il conoscer quella non è il conoscer questo. Nessuna idea pertanto o similitudine ideale basta a far conoscere l' ente finito nella sua natura compiuta, che importa l' esistenza in sé. Che cosa dunque a ciò si richiede? Si richiede il verbo della mente, come abbiamo dimostrato nell' « Ideologia (531 7 534, 495 n. , .51 n. , 132. n. , 1355). » Ma altro è il verbo della mente umana, altro il Verbo nella mente divina. Il Verbo della mente umana non produce gli enti finiti assolutamente, ma solo li produce relativamente alla mente umana. Anteriormente dunque al verbo della mente umana, gli enti finiti hanno un' esistenza in sé; ma anteriormente al Verbo divino, niun ente finito esiste; perciò col Verbo divino vengono all' esistenza in sé. La stessa mente umana è uno degli enti finiti che esiste in sé, assolutamente parlando; ma col suo verbo, in quanto termina nello stesso soggetto intelligente, esiste relativamente a sé «( Ideol. , 439 7 443; Psicol. , 61 7 .1) »; del pari col suo verbo conosce gli altri enti, in quanto realmente e in sé sussistono: ma come avviene questo verbo? Primieramente è dato all' uomo l' essere ideale. Ma di questo essere non può far uso come di similitudine, finché a lui non sieno dati gli enti finiti. Questi gli sono dati in un sentimento oscuro e inintelligibile, che è quello che costituisce la sua propria natura subiettiva, atto ad essere modificato col ricevere l' azione che gli altri enti finiti esercitano nel medesimo. Dato questo sentimento e le sue modificazioni (né l' uno né le altre essendo essere), nell' idea dell' essere che intuisce egli le apprende, e allora l' essere ideale comincia ad uscire dalla sua virtualità di scadenza. Allora l' uomo pronuncia il proprio sentimento come un ente esistente, e le azioni fatte in quel sentimento come prove di altri enti esistenti che pure pronuncia ed afferma esistenti. Questi pronunciati della propria esistenza e dell' esistenza d' altri enti sono quelli che si dicono verbi della mente: i quali costituiscono la cognizione che ha l' uomo degli enti reali in quanto sono in sé sussistenti (1). Il verbo dunque della mente umana è il sentimento pronunciato come ente in sé , se trattasi del proprio sentimento sostanziale, o è il pronunciamento d' altri enti in sé . Al soggetto umano intelligente, anteriormente ad ogni suo verbo, è dato dunque in separato: 1) l' atto dell' essere senza termine; 2) de' reali finiti. E il verbo umano consiste nel congiungere quello con questi, cioè nel predicare l' atto dell' essere de' reali finiti, e cosí formarli a se stesso e conoscerli come enti in sé essenti perché « l' ente in sé essente è un reale che ha l' atto dell' essere ». Tale non è il Verbo divino. A questo Verbo non precedono come dati né l' essere ideale, né un sentimento reale finito. Convien dunque concepire in altro modo il Verbo divino. Devesi prima concepire la costituzione dell' Essere Dio, e poi la creazione degli enti finiti. Per concepire in qualche modo la costituzione dell' Essere Dio, si dee movere dal concetto dell' Essere per sé inteso. Quest' essere è compiuto e infinito, e però realissimo vivente e sussistente in sé. L' Essere per sé inteso importa un infinito atto d' intelligenza con cui intende pienamente se stesso come vivente e sussistente, atto sempre compiuto ab aeterno . Quest' atto d' intelligenza dunque non può essere che un pronunciato di sé, cioè un Verbo di tale intelligenza. Ma se quest' atto termina in tutto se stesso come sussistente e vivente in sé, è conseguente di logica necessità, che l' inteso sia ad un tempo inteso rispetto al subietto intelligente, e sussistente in sé come inteso . In quanto è puramente inteso, puramente obietto nell' intelligente, è la sapienza essenziale a Dio; ma in quanto sussiste come inteso, è una persona in se stessa, diversa da quella dell' intelligente come intelligente, ed è il Verbo personale di Dio. Cosí Iddio è costituito, lasciando noi di parlare della terza persona. Ma l' intelligente che intende e ha inteso pienamente se stesso, in se stesso inteso ha tutti gli enti finiti in una virtualità d' eminenza, perché ha tutta la realità e la perfezione. Dunque può pronunciare tutti, o quanti vuole, gli enti finiti che sono in lui, e cosí conoscerli perfettamente. Conoscerli perfettamente è conoscerli in tutta la loro natura, parte della quale è la loro reale sussistenza in sé. Se vuole dunque conoscerli pienamente secondo la loro propria natura sussistente in sé, dee pronunciarli e affermarli. Questo pronunciamento li produce come intesi nello stesso intelligente divino rimanendo in esso la cognizione loro come effetto del pronunciamento, ossia ultimazione dell' atto, non diverso dall' atto stesso; ma questi intesi esistono per ciò anche in sé, ché altramente non sarebbero in sé esistenti e sussistenti conosciuti; e quest' è l' atto della creazione per la quale esistono in sé gli enti finiti perché esistono in Dio come perfettamente conosciuti. Ora, questo modo d' esistere in Dio come intesi, come pronunciati in Dio, è quello che San Tommaso chiama l' « essere intelligibile delle creature »; la loro sussistenza poi in se stesse è quello che egli chiama l' essere naturale delle medesime (1). L' atto dunque dell' intellezione divina è sempre il pronunciamento d' un verbo, sia che pronunci se stesso qual è sussistente, sia che pronunci e affermi gli enti finiti in sé contenuti in una virtualità d' eminenza: questo è il solo modo di conoscenza perfetta, e il solo perciò che conviene a Dio. Ma l' atto con cui pronuncia se stesso sussistente, e l' atto con cui pronuncia gli enti finiti, non sono perciò due atti o due verbi; ma è l' unica intellezione divina, è Dio stesso, l' « intelligere subsistens » di San Tommaso (1). Tutto l' ente è pronunciato dal Verbo. - Ma prima di parlare del Verbo in Dio, conviene che consideriamo il Verbo nella mente umana. Il verbo pronuncia sempre la realità subiettiva. Solo è a porre attenzione che la mente umana talora finge che anche ciò che non ha veramente nulla di subiettivo, l' abbia, per bisogno di ragionare e di operare. Conviene dunque distinguere nell' uomo due sorte di verbi: il verbo vero e primo, e il verbo dialettico e posteriore. Lasciando dunque il verbo dialettico, che n' ha solo la veste, consideriamo il verbo vero e primo dell' uomo. Questo c' è, quando l' uomo afferma qualche ente sussistente o reale. Due generi di enti reali egli afferma: gli enti persone , e gli enti impersonali . Il primo degli enti personali che afferma (almeno implicitamente) è se stesso: le altre persone egli afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza, in quanto da se stesso prende la loro specie o idea, con cui ne conosce l' essenza. Afferma poi gli enti impersonali, per l' azione che esercitano in lui: e quelli che non esercitano azione sopra di lui, li afferma, avuta qualche prova della loro sussistenza o realità, immaginandoli e pensandoli sopra una specie cavata dalle azioni di quelli che hanno operato su lui. Il verbo dunque piú perfetto e anteriore della mente è quello con cui l' intelligente afferma se stesso; di poi quello con cui afferma ciò che agisce sul suo sentimento. Ora, quest' attività sperimentata di tali enti non è tutta la natura dell' ente stesso subiettivamente sussistente: rimane quindi, anche pronunciato un tal verbo, intieramente oscura ed ignota la natura del subietto operante, ed è la sua virtú attiva, che tien luogo di subietto. Questi enti si chiamano da noi estra7subiettivi, perché del vero subietto nulla sappiamo, e ne conosciamo solo la virtú di modificar noi. Indi accade che il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza delle cose impersonali non sia una perfetta similitudine di tali cose come sussistenti. La qual mancanza di similitudine però nasce dall' imperfezione dell' idea, che non esprime la loro natura, ma solo l' effetto della loro azione in noi. Lasciamo dunque da parte anche questa sorta di verbo come imperfetto, giacché noi cerchiamo il concetto d' un verbo perfetto. L' anima umana pronuncia certamente il piú perfetto verbo che ella possa pronunciare, quando afferma se stessa: questa affermazione in qualche modo le è anche essenziale, come persona. Ella ha di sé l' idea piú perfetta, perché ella è essenzialmente sentimento «( Psicol. , .1 7 123) »; e perciò, quando pronuncia quel verbo con cui afferma se stessa, pronuncia cosa che conosce, la pronuncia, dico, come sussistente. Ma poiché questo sentimento sostanziale non è l' essere, ma solo ha l' essere, che è il solo intelligibile per sé, perciò ella non è per sé intesa, e, come dice S. Agostino, non è luce a se stessa; ma s' intende e si pronuncia nell' essere, che a lei si appalesa come puro obietto, e però come un altro diverso da sé subietto. Sono dunque due questioni diverse: « se l' anima intellettiva intenda sempre se stessa », e « se ella sia intelligibile e intesa per se stessa ». Lasciando noi la prima da parte, diciamo, che il sentimento sostanziale che costituisce il subietto7anima non è intelligibile né inteso per se stesso, ma per l' essere e nell' essere che è un altro da lei «( Ideol. , 439 7 442; 9.0 7 9.2) ». L' uomo dunque conosce se stesso nell' essere come un principio vivente sensitivo, e come tale si pronuncia. Un principio vivente sensitivo che si conosce e pronuncia è un compiuto subietto. Si conosce dunque come subietto e però come un ente, senza aver bisogno di supplire dialetticamente il subietto, come è necessitato a fare nella percezione intellettiva de' corpi. Ma nello stesso tempo, intende, che questo subietto che si conosce non è intelligibile per se stesso nella sua sussistenza; e però rimane anche in questo verbo qualche cosa d' oscuro. Poiché dunque il principio subietto sensitivo e intellettivo, preso da sé solo, non è intelligibile, né pure questo verbo umano , che è il piú perfetto di quelli che possa pronunciar l' uomo, è similitudine dell' uomo sussistente; e cosí molto meno gli altri verbi, co' quali l' uomo pronunzia l' altre cose, hanno natura di similitudine , ma l' hanno solo di affermazione . E indi è che nell' uomo si distinguono profondamente i due modi di conoscere: per oggetto, idea, o similitudine; e per affermazione, o pronunciato, o verbo. Ciò che si conosce nel primo modo è l' ente come oggetto, ma senza sussistenza propria. Ciò che si conosce nel secondo modo, è la sussistenza in sé: non però la sussistenza in sé come oggetto, ma puramente come sussistenza in sé non oggetto. Né pure dunque questo verbo, che è il piú perfetto e il piú luminoso di tutti quei verbi che può pronunciar l' uomo, raggiunge la perfezione del Verbo divino (1). Infatti la realità e sussistenza divina è intelligibile per se stessa come realità e come sussistenza, perché, essendo infinita, è l' essere stesso. Quindi non si dà in Dio quella distinzione che si trova nell' uomo tra ciò che è conosciuto come oggetto, e ciò che è conosciuto come sussistente in sé subiettivamente; ma il cognito divino è insieme tanto oggetto, quanto sussistente in sé, perché l' oggetto stesso è sussistente. Di qui procede, che l' oggetto divino sia la prima e perfettissima similitudine . Ma la vera e prima similitudine è la cosa in quant' è oggetto d' una mente. Lo stesso essere divino dunque da sé pronunciato è prima e perfettissima similitudine di se stesso. L' intellezione dunque sussistente, che è Dio, termina in se stesso sussistente come in perfettissima similitudine e immagine di se stesso, che è quanto dire come per sé inteso (1). Ma come l' intendere divino ha sempre natura di pronunciato e di verbo, che è il modo d' intendere perfettissimo, consegue che tutti gli oggetti di questo verbo non sono puri oggetti, ma oggetti sussistenti. Se dunque il pronunciamento divino non si porta solo in se stesso senza limitazioni, ma si porta anco negli enti finiti, virtualmente in sé contenuti, anche questi devono necessariamente sussistere. Ma la sussistenza di questi enti, finiti in se stessi, non è la sussistenza di Dio, in sé, il quale è essenzialmente illimitato. Conviene dunque che tali enti sussistano della loro sussistenza propria, e cosí ci abbiamo degli enti con una sussistenza subiettiva in sé diversa dalla sussistenza di Dio medesimo. Avendo una sussistenza in sé diversa dalla sussistenza di Dio, si dicono esistere fuori di Dio, perché sussistere in sé è un sussistere fuori d' ogni altro subietto: non potendosi mai i subietti confondere. Cosí dunque accade la creazione. Dalle cose dette intorno la virtú e l' efficacia dell' atto intellettivo divino procede, che la prima e universal causa non sia altro che un intelletto, e, per dir meglio, lo stesso intendere sussistente che è Dio. La qual dottrina è di San Tommaso, che ne trae un' altra conseguenza bellissima, della necessità, cioè, che tutte le cose abbiano un essere intelligibile nella divina mente. [...OMISSIS...] . Tutto è dunque fatto dall' intelletto divino, che è essenzialmente volitivo, pratico, operativo, ed è una sola intellezione. L' essenza divina intesa è ad un tempo esemplare di tutti gli enti finiti; ma contenendoli ella solo per una virtualità d' eminenza, c' è bisogno dell' intellezione libera che ne faccia la tipificazione e la creazione con un solo atto. Questa tipificazione non pone nessuna distinzione nella essenza divina intesa, ma rimane atto dell' intelligente; e della distinzione sono subietto unicamente gli enti che risultano in sé esistenti per quest' atto. Procedono quindi queste conseguenze: 1) che l' essenza divina, come per sé intesa , contiene tutte le perfezioni delle cose create unite insieme in una virtualità d' eminenza, senza distinzione alcuna; 2) che l' essenza divina, come intelligente , avendo in sé l' essenza divina come per sé intesa, oggetto perfetto che anche sussiste come subietto personale, pensa quest' oggetto limitandolo: e questo pensiero limitante altro non è che atto dell' intelligenza divina, e non propriamente un oggetto novo, ma l' oggetto primo, cioè l' essenza divina perfetta per sé intesa in relazione coll' atto divino limitante; 3) che quest' oggetto limitato dalla intelligenza divina sono gli enti finiti, i quali devono oggimai sussistere in se stessi atteso che, se non sussistessero con sussistenza propria, quest' oggetto limitato non sarebbe perfettamente pensato, mancandogli l' ultimo atto, che è il subiettivo. L' azione dunque limitante dell' intelligenza divina unita all' intelligenza di se stessa, che è un solo atto coll' intellezione divina, è la potenza creatrice. Non è dunque necessario ammettere piú oggetti in Dio per ispiegare la creazione. E l' ammettere piú oggetti fu l' errore de' Platonici nato da questo, che non distinsero accuratamente le idee dal verbo della mente, e fermandosi nella contemplazione delle idee, e vedendole causa della cognizione che noi abbiamo delle cose immutabili ed eterne, conchiusero che ci doveano essere molti principŒ per sé essenti ab aeterno , per la partecipazione de' quali fossero informate le cose. Questo sistema, che non istimiamo esser quello di Platone, ma de' Platonici, pecca da piú lati: 1) suppone la materia eterna, come quella che non può essere data dalle essenze ideali, che non la contengono; 2) suppone che ci sia qualche cosa di assolutamente inintelligibile, perché ogni cognizione ideale lascia la realità come un incognito, e quindi viene a negare una intellezione perfetta, la quale solo è Dio. Questi filosofi si contentavano dunque di sostantificare degli astratti, parendo loro tanto piú perfette le idee, quanto fossero piú astratte; senza avvedersi che se guadagnavano in estensione, perdevano in comprensione. E cosí dovevano dividere l' essenza eterna, perfettissima e sussistente, in piú principŒ. In questa maniera s' intende come si dica con verità, che tutte le cose sono in Dio, senza perciò cadere nel panteismo. Questo sistema nasce da una maniera di pensare materiale, che non raggiunge la verità dell' esposta teoria. In fatti, che tutte le cose sieno in Dio, è sentenza della cristiana tradizione. San Paolo già disse: [...OMISSIS...] Esse sono in Dio in due modi, cioè: 1) Sono nell' essenza divina intesa e sussistente, cioè nel Verbo per una virtualità di eminenza, e però senza distinzione alcuna; e cosí si dice che sono in Dio come in causa esemplare eminente . 2) Sono nell' essenza divina intelligente e sussistente come ultimazione del suo atto semplicissimo, dal quale risulta a se stesse un' esistenza propria, per la quale esistenza propria e relativa si dicono fuori di Dio. E cosí sono in Dio distinte come in causa efficiente eminente . Di che viene che la loro distinzione non sia in Dio, quasi che egli sia il subietto della loro distinzione, ma la distinzione rimane nell' effetto che sono esse stesse, rimanendo una la causa. Poiché questa causa è quella che, distinguendole e limitandole, le crea. Questi due modi, sono indicati in queste parole di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Dove si distingue Iddio che fa, e cosí si considera come causa efficiente del mondo, e il suo Verbo, in cui egli lo fa, e cosí si considera come causa esemplare. L' atto creativo è quindi lo stesso essere, ente perfetto, che è intellezione divina. In quanto adunque l' atto intellettivo è comune alle tre persone, gli enti sono nell' essenza divina, sono la stessa essenza divina attualissima; in quanto l' atto intellettivo è in diverso modo nelle tre persone, gli enti finiti sono pure in diverso modo nelle tre persone, sono esse stesse. Ma essi sono distinti e sussistenti in se stessi, fuori di Dio. Ciò che è in Dio è lo stesso ente finito sussistente come oggetto reale, di cui tutto ciò che è di positivo, è nell' oggetto reale infinito, e ciò che è di negativo, cioè le limitazioni, appartiene, come a causa, all' atto intellettivo infinito; la qual unione individua del positivo e del negativo, dell' atto intellettivo limitante e dell' oggetto reale costituisce l' ente finito nella mente divina e in se stesso. L' ente finito pertanto ha due forme: in quanto è essere oggettivo reale, è in Dio come pienamente cognito; in quanto poi egli è puramente forma reale sussistente in se stesso, è fuori di Dio. Pertanto, ciò che in Dio si concepisce come Esemplare è lo stesso essere oggettivo reale de' sussistenti finiti . Quest' essere è termine dell' atto intellettivo divino. Non è dunque un esemplare come quello dell' artista umano, composto d' idee v“te d' azione, che dirigono bensí la potenza dell' artista, ma non operano esse stesse. L' esemplare divino è lo stesso atto creante, dal quale pende di continuo la sussistenza del Mondo, è questa stessa sussistenza in atto come cognita , e quindi dentro la forma obiettiva. Se l' atto divino non terminasse immediatamente nelle sussistenze create, ma conoscesse queste per via di molte idee mediatrici, non ci sarebbe piú modo di salvare la semplicità divina. Qualora dunque si voglia conservare, parlando di Dio, la parola esemplare , tolta da quello che avviene nell' artefice umano, conviene mutarle il significato; e non c' è altra definizione piú propria che questa data da San Massimo [...OMISSIS...] . In quanto poi alla parola idea , essa si può lasciare senza difficoltà, riservandola, come noi facciamo, a indicare l' oggetto dell' intuizione umana, non reale, ma puro termine dell' umano intelletto. In questo modo ritorniamo a dire: che gli stessi enti creati in sé sussistenti, non in quanto sono sussistenti relativamente a se stessi, ma assolutamente, sono l' immediato termine dell' atto creativo che è intellettivo verbiforme; in quanto termine della detta intellezione, all' intellezione stessa appartengono, come subietti oggetti; in quanto poi sono in se stessi sussistenti, in tanto hanno l' esistenza puramente subiettiva a sé relativa, e però fuori dell' oggetto. I subietti sussistenti dunque esistono in due modi: inchiusi nell' oggetto divino; e rispetto a sé, che è quanto dire fuori di questo oggetto. Come subietti oggetti, si possono dire similitudini perfettissime de' subietti puri. Ora i subietti oggetti non pongono alcuna distinzione in Dio, perché la distinzione è ne' subietti puri; la distinzione è prodotta dall' intellezione divina come da causa limitante e pronunciante, la qual limita e pronuncia i subietti reali in se stessi esistenti, rimanendo unico il pronunciamento, e rimanendo tutta la distinzione nell' effetto. Vedesi che il verbo intellettivo di natura sua è attivo rispetto alla realità pronunciata, e non è come l' idea che fa solamente conoscere i reali contenuti nell' oggetto, e non i reali come subietti sussistenti fuori dell' oggetto, né agisce in essi. Ma acciocché il verbo intellettivo spieghi quest' azione reale, conviene che sia verbo perfetto, qual' è quello che diciamo concreto «symphyes», ossia fatto per concrezione . Perciò noi dicevamo già che, tra tutti i verbi che l' uomo pronuncia, quello con cui pronuncia naturalmente e immediatamente il sentimento proprio, è il solo che abbia somiglianza in qualche modo col divino, benché rimanga ancora lontano dal rappresentarlo perfettamente. La condizione che rende il verbo concreto, e però attivo nel suo termine, si è questa, che « ciò che l' intelletto pronuncia ed afferma sia cosí fattamente congiunto coll' intelletto pronunciante ed affermante ossia emettente il verbo, che formi con esso un medesimo ente ». Questo s' avvera in Dio compiutamente, non solo quando pronuncia se stesso, e cosí genera quello che si dice Verbo divino, ma anche quando pronuncia gli enti finiti e cosí li crea. E ciò, perché, essendo Iddio quell' ente che non è altro che l' essere stesso, e l' essere essendo di natura sua non solo subietto, ma anche obietto, l' obietto pronunciato è sempre essenzialmente se stesso. Onde tutti gli enti finiti pronunciati, in quanto sono pronunciati e però oggetti del pronunciamento, sono lo stesso Dio pronunciante subietto, terminazioni interne del suo atto subiettivo, sono il suo atto terminante. I quali enti, rispetto a sé e, parlando delle persone, rispetto alle loro coscienze, non esistono come oggetti, ma in se stessi come puri subietti, non entrando nella loro coscienza l' obiettività che è il modo che hanno in Dio, la quale obiettività è la terminazione dell' atto sostantivo di Dio stesso. Dimostrato che l' intelletto è di sua natura una causa attiva e veramente efficiente, ritorniamo a dire, che il suo atto, quando termina a molte cose, o a cose aventi una natura diversa dalla sua propria, non partecipa necessariamente della loro moltiplicità, o della loro propria natura. La verità di fatto di questa proposizione si può almeno cominciare a riconoscere, considerando quello che avviene nello stesso intendimento umano. Quando l' uomo pensa un corpo reale, niuno ha mai creduto, eccetto alcuni insensati materialisti, che l' intelletto con ciò divenisse un corpo materiale, d' una data estensione e durezza, o cose simili. Aristotele ricorse alla specie , dicendo che si conosce la pietra per la specie della pietra (1); ma dato che colla specie della pietra si conosca l' essenza conoscibile della pietra, non resta spiegato come se ne conosca la sussistenza , che non è certo data nella sola specie, e a ciò si richiede il verbo, ossia l' affermazione intellettiva. Il qual verbo si riduce nell' uomo ad un semplice atto di assenso, tutto atto subiettivo: è l' atto del subietto che giunge ad un altro reale, e quasi direbbesi, lo tocca senza confondersi con esso. Come accade che avendo per termine della sua azione la pietra stessa, non ne prenda le qualita? Certamente per questo, che egli afferma esistente la natura della pietra nell' oggetto, o essere ideale, in cui la vede, venendogli ivi rappresentata dalla reale sensazione. Questo prova che la pietra, quand' è nell' oggetto, ha un altro modo di essere, diverso da quello che ha in se stessa, e che perciò l' intelletto non ha bisogno di prendere le qualità della pietra sussistente in se stessa, per conoscerla ed affermarla: ma può far tutto questo, senza che egli, o il suo atto perda le qualità sue proprie. Questa natura del verbo è certamente misteriosa, ma è misteriosa solo per l' abitudine che noi abbiamo di volere che tutte le azioni rassomiglino a quelle che noi vediamo esteriormente ne' corpi, e che prendiam per esempio dell' altre tutte, e crediamo di conoscere, quando in verità men dell' altre spirituali da noi sono conosciute. E` dunque da considerarsi la natura del verbo, con cui conosciamo i sussistenti, in se stessa, consultando la nostra consapevolezza, senza volercela spiegare ricorrendo ad esempi stranieri. Diciamo, che il verbo è un atto dello spirito, e però che non può avere altra natura da quella dello spirito, il quale è semplice e uno: deve dunque conservare la sua proprietà di essere spirituale, uno e semplice, qualunque sia la cosa che pronuncia, la quale non può fargli cangiar natura, benché ella sia il termine del suo atto. Questo termine dell' atto del verbo potrà dunque esistere in sé; ma in quanto è preciso termine interno d' un tal atto, è, per cosí dire, l' atto stesso attualissimo, e perciò della stessa natura di quel subietto che pronuncia il verbo. Si consideri che un principio ontologico universale è il seguente: « ogni qualvolta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione o la sua passione è della stessa natura del subietto, perché non è altro che lo stesso subietto paziente od agente ». Il verbo dunque è un atto dell' intelletto e quest' atto, colla sua attualità che lo termina, conserva la natura dell' intelletto che è il principio che lo produce, natura semplice ed una. Pertanto, siccome questo termine, in quanto esiste in se stesso e cosí è un altro, può avere anco diversa natura; cosí questo termine può in se stesso esser moltiplice, senza che questa moltiplicità appartenga al termine, come termine attuale proprio del verbo. Scemerà la meraviglia di questo fatto, quando si considererà non solo in astratto, ma anche nelle sue applicazioni, il principio universale ontologico da noi fermato: « Ogni qual volta un subietto agendo o patendo conservi la sua identità, la sua azione e passione (e non solo quella parte di esse in cui cominciano, ma anche quella parte in cui vanno a terminare) conservano la natura e le proprietà essenziali dello stesso subietto ». Questa legge si può applicare a tutti gli enti7principio, che soli possono esser considerati come subietti reali. Conviene dunque dire necessariamente, che tutto ciò che è esteso o moltiplice in se stesso esiste nel principio senziente e nell' intellettivo in un modo inesteso e uno: sia che, per riguardo al principio intellettivo, questo modo inesteso e uno dicasi specie, nel qual caso non c' è che l' essenza; sia che dicasi verbo, nel qual caso c' è la stessa sussistenza: o sia che dicasi specie7verbo, per l' unificazione di tali due termini interni. E in questo modo si deve intendere e spiegare questa proposizione che pone San Tommaso: [...OMISSIS...] Il principio dunque e causa intellettiva ha questa natura singolare, che col suo atto ella stessa diventa oggetto, e se si suppone che quest' atto sia già ultimato, ella stessa è oggetto. Ma noi che conosciamo il solo nostro principio intellettivo, il quale non è perfetto e perciò molto di esso rimane in potenza, noi distinguiamo l' intelletto come in potenza, dall' intelletto come in atto. Per questa distinzione Aristotele disse, certamente con molta perspicacia, che nell' uomo [...OMISSIS...] . Questo secondo intelletto è quella forma oggettiva del subietto umano, per la quale ha la virtú visiva, o intuitiva: forma che, secondo noi, è lo stesso essere ideale. Ma il primo è quello che diventa tutte le cose quando le intende. Ma Aristotele non s' accorse bastevolmente dell' infinita differenza tra l' intelletto considerato in se stesso, nel suo ideale, nella sua perfezione, e l' intelletto imperfetto, che è piuttosto una partecipazione dell' intelletto, che l' intelletto medesimo (4): o s' egli se ne accorse, non analizzò a sufficienza questa differenza. Se l' avesse fatto, avrebbe veduto che nell' uomo l' intelletto non diventa mai col suo atto l' oggetto inteso, ma solo acquista quella attualità che dicesi cognizione . Or, per far ritorno all' oggetto dell' intendimento umano, esso oggetto è un altro e l' intendimento come un altro lo intuisce. Ma non avviene già che quest' altro sia lo stesso atto intuitivo, nel qual caso sarebbe effetto di quest' atto intuitivo: ma avviene solo che l' intuente riceva in sé l' effetto di tale unione intuitiva, il qual effetto non è l' oggetto, ma la cognizione dell' oggetto come un altro. Quello poi che l' intelletto umano vede e conosce nel suo oggetto, cioè nell' essere, sono primieramente i sentimenti reali. E` dunque da considerarsi, che l' intendimento umano nell' essere intuisce i sentimenti, come determinazioni dello stesso essere ideale. Questa maniera in cui sono davanti alla mente i sentimenti ossia le realità finite, è quella che si dice la loro esistenza assoluta , ossia il mondo metafisico . Il conoscerli in questo modo (che è la prima cognizione, fondamento di tutti gli altri modi di conoscere) è un barlume di quell' esistenza che hanno gli enti finiti in Dio. L' uomo vede dunque gli enti relativi in quanto in se stesso sono relativi, in un modo assoluto. Ma in Dio non sono gli enti relativi in quanto sono relativi, ma sono nel suo atto creativo come nella causa assoluta di essi relativi. Conosce dunque l' uomo l' esistenza relativa in un modo assoluto; quando Iddio conosce l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa in un modo assoluto. Ora, l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa non essendo percepita dall' uomo nella presente vita, accade che la sua cognizione sia manchevole; e ch' egli veda bensí i sentimenti nell' essere, che è il modo assoluto di conoscere, ma non veda la loro esistenza assoluta in Dio, che sola è atta a spiegare come sieno veramente nell' essere. Fino a tanto che l' uomo li intuisce semplicemente nell' essere, non sa ancora se esistano veramente in se stessi, ma solo sa che possono esistere in se stessi. E veduti dall' uomo nell' essere si dicono essenze , ma non sussistenze . Pur quelle essenze sono relative alle sussistenze, perché l' uomo non le vede nell' essere, se non perché le ha sentite sussistenti. Trasportò dunque i suoi sentimenti nell' essere. Ma questi sentimenti reali appartengono al modo d' esistere relativo, quando l' essere stesso appartiene al modo d' esistere assoluto. L' uomo dunque nell' intuizione della specie congiunge insieme il relativo coll' assoluto , e ne fa una sola cosa, cioè una sola specie. Ma il relativo e l' assoluto sono eterogenei; quindi l' impossibilità di vedere la loro congiunzione subiettiva, che è il punto oscuro della cognizione umana. L' uomo dunque non trovando nelle esistenze relative, cioè nei sentimenti, nulla d' intelligibile, che fa? Li veste della forma oggettiva che è assoluta, senza però con questo poterli mutare, e cosí ha delle esistenze relative oggettivate, ossia vestite d' una forma assoluta. Ma poiché esse dentro questa forma non possono portare la loro natura relativa che è la realità sussistente, perciò questa rimane esclusa dalla forma e al di fuori, e non si rimane nella forma assoluta altro che la loro possibilità : onde le vede nella causa in quant' essa è intelligibile, e non nella causa in quanto essa è subietto intelligente e creante. Non essendo conceduto tanto all' umana mente, ella non può vedere nella forma assoluta, cioè nell' essere, altro che i sentimenti come possibili; rimanendo la loro propria esistenza relativa nel senso. Dacché poi questa esistenza relativa e propria non si conosce dall' uomo nell' idea, egli è manifesto che o non la conoscerà punto né poco o dovrà conoscerla con un altro atto, diverso da quello della pura intuizione delle idee. Ma egli è certo che l' uomo conosce in qualche modo anche l' esistenza relativa e propria de' sentimenti, senza di che non ne potrebbe parlare. Con qual atto dunque la conosce? La conosce coll' atto del verbo, che nell' uomo rimane cosí al tutto distinto dall' atto intuitivo dell' idea. Questo verbo umano non è che un assenso, un' affermazione, un' adesione del subietto intelligente, un semplicissimo sí che egli pronuncia, con cui s' acquista la persuasione che ciò che vede assolutamente nell' idea, sussiste in se stesso relativamente «( Lezioni filos. , 33 sgg.) ». Altro è dunque ciò a cui il subietto umano dà l' assenso, altro è l' atto dell' assenso medesimo. Ciò a cui dà il suo assenso coll' affermazione o giudizio, gli è tutto dato antecedentemente nell' idea. L' assenso stesso è puro atto dello spirito che gli dà la persuasione che ciò che vede nell' idea esiste relativamente a se stesso. Questa persuasione è un effetto spirituale che rimane nel subietto intelligente dopo il suo atto d' affermazione. Ma questa modificazione è perfettiva dello stesso subietto intelligente, perché è una nuova attualità subiettiva da lui acquistata, e l' attualità è perfezione. Il verbo umano pertanto è un' attualità e una perfezione dello spirito umano, ma un' attualità che termina in un altro a lui precedente. Di qui potremo ascendere a concepire in qualche modo, che cosa debba essere il Verbo in Dio. Poiché questo Verbo, o pronunciamento di Dio, riterrà le condizioni del verbo, cioè non sarà altro che atto di Dio stesso, e atto sempre compiuto, non atto che si fa e che in parte cessa dopo fatto, come nell' uomo. Di poi, differirà in questo: che quello dell' uomo ha bisogno d' avere anteriormente a sé un oggetto che non è egli stesso, ma un altro: laddove Iddio che pronuncia il Verbo, con questo suo atto terminando nell' essere obiettivo, terminerà in se stesso, nella propria essenza e non in un' altra natura. Pronunciando se stesso totalmente, esiste pronunciato come Verbo divino: pronunciando se stesso parzialmente, fa che esistano gli enti relativi e finiti che non possono esser lui, perché egli è essenzialmente indivisibile e semplice. Il pronunciamento dunque degli enti finiti è in Dio l' esistenza assoluta di questi enti, che non ha nulla della loro imperfezione, e a cui consegue l' esistenza loro relativa in se stessi, come quella che fu pronunciata dall' essere, né può essere pronunciata dall' essere senza che sia prodotta. L' esistenza relativa dunque (gli enti finiti) pronunciata da Dio, in quant' è precisamente pronunciata, ossia, che è lo stesso, in quant' è nel pronunciamento ed è l' attualità di questo pronunciamento si chiama « esistenza assoluta dell' esistenza relativa »ed è ad un tempo similitudine perfetta o esemplare, e causa efficiente degli enti, e non già una pura idea v“ta di realità. Cosí, il termine di questo pronunciamento divino degli enti finiti è logicamente posteriore al pronunciamento di se stesso che è generazione del Verbo, ma questo non importa né una posteriorità cronologica, né una dualità nell' atto divino: perché ab aeterno e con un solo atto Iddio fa l' uno e l' altro, genera e crea. Dico che è logicamente posteriore, perché Iddio deve prima conoscere se stesso che è tutto l' essere, e conosce se stesso pronunciandosi e cosí generando il Verbo. Ma il pronunciato è la persona del Verbo. Avendo dunque Iddio pronunciante in se stesso la cognizione di se stesso pronunciato essere totale, egli pronuncia l' essere parziale limitando l' essere totale, e questa limitazione non passa nel Verbo che non ammette limitazione. Tutta la cognizione poi, sia di se stesso, sia degli enti finiti, in quanto rimane nel pronunciante non è che attualità del Pronunciante stesso, e non è qualche cosa di diverso da lui, come accade nell' uomo che pronuncia le cose in un oggetto, cioè nell' essere, che non è lui stesso, ma un altro. Se dunque quest' attualità in Dio si volesse chiamare specie o specie verbo, conviene dare alla parola specie un tutt' altro significato, perché nell' uomo la specie è cosa diversa dal subietto che l' intuisce e ne pronuncia il contenuto, quando in Dio è il subietto stesso che s' attua o che è attuato. Un' attualità dunque di Dio subietto pronunciante (per sé intelligibile e però obietto) è « l' esistenza assoluta dell' esistenza relativa, ossia degli enti finiti ». E se Iddio non è altro che essere, consegue che anche quest' attualità divina non sia altro che essere; e questo è l' essere iniziale delle creature tutte, le quali non sono il proprio essere, altro non essendo che una forma finita dell' essere, cioè pura realità finita. Pure altro è l' essere delle creature che a noi si manifesta, altro è l' essere assoluto delle creature che è in Dio e che è Dio. L' essere assoluto delle creature non è le creature stesse la cui natura è di essere enti relativi, e non è né pure l' essere che a noi si manifesta nelle creature; ma quest' essere che a noi si manifesta nelle creature, è la loro causa intelligibile, quando l' essere loro assoluto non è solo la loro causa intelligibile, ma la loro causa totale, immediata e assoluta. L' essere delle creature che a noi si manifesta è uno, semplicissimo e comunissimo, da tutte partecipato, ma è da noi conosciuto nella sua sola relazione colle realità create; e però è puramente l' atto comune e unico di tutti gli atti di queste: onde noi lo vediamo separato dal subietto divino di cui in se stesso è attualità. Ora, tostoché quest' attualità divina si separa dal subietto divino, ella rimane un' altra cosa; perché, tostoché si concepisca qualche cosa di separato, è tolta l' identità, secondo la regola da noi data. L' essere dunque delle creature non è Dio, ma si può chiamare divino o appartenenza di Dio, perché è qualche cosa che ci sta presente come un astratto teosofico, effetto della creazione. E` posteriore « all' essere assoluto delle creature quale esiste in Dio »; essendo quest' essere assoluto delle creature in Dio attualità di Dio, laddove l' essere delle creature nelle creature è l' attualità delle creature. Oltre di ciò il verbo che noi pronunciamo quando affermiamo la sussistenza d' un ente creato suppone come logicamente anteriore nella nostra mente la specie, e questa specie è composta: 1) di essere ideale, v“to di ogni realità; 2) e d' una realità pura senz' essere, e perciò non solo relativa, ma anche essente in modo relativo, che può unirsi all' essere ideale e cosí venire oggettivata, ma non immedesimarsi con lui, perché il modo relativo è escluso dal modo assoluto. In Dio all' incontro lo stesso oggetto è attualità del subietto, perché questo e quello è lo stesso essere, e l' oggetto non è già v“to, ma pieno di essere reale, il qual reale, appunto perché è essere, s' immedesima collo stesso essere. Onde non rimane piú distinzione tra l' essere e ciò che si contiene nell' essere, ma tutto è attualità dell' essere sussistente. Il che fa, che il pronunciamento di Dio, sia che generi il Verbo o sia che crei gli enti finiti, non ha punto bisogno di specie distinte dallo stesso verbo, e molto meno di specie nelle quali ci sia la dualità d' un elemento assoluto e d' un altro relativo, ma il pronunciato è puramente un' attualità dello stesso essere intelligibile per se stesso, specie ad un tempo e verbo, oggetto ad un tempo, e pronunciato, specie che è tutta essere reale pronunciato. Questo modo dunque di creare per via di pronunciamento intellettuale esclude ogni moltiplicità in Dio, e altro non ammette che una semplice attualità che appartiene a quell' atto perfettissimo, semplicissimo, ultimatissimo, che è Dio stesso, e che solo si chiama attualità distinta per astrazione che noi ne facciamo. I sistemi erronei ondeggiano tra due sistemi, e a due opposte classi si possono sempre ridurre, come abbiamo veduto nella questione ideologica. Il medesimo si riscontra nell' Ontologia. Alcuni filosofi non si elevano a conoscere la natura e la potestà della mente, nulla trovano in essa di divino. Questi sono i filosofi piccini piccini, i materialisti e i sensisti, che non hanno punto ontologia; ed essi vi rinunziano con grandigia, trattando gli ontologi, da sognatori, se stessi riputando i soli coltivatori del solido sapere: mendica superbia, che dà ancora il tuono a molte società scientifiche d' Europa, nelle quali i pregiudizi materiali si conservano per tradizione, e per un cotal punto d' onore scientifico si custodiscono con gelosia. Altri filosofi videro con istupore che l' intelletto era piú che non si credesse, e potea far le gran cose. Ma essi andarono all' eccesso contrario, poiché all' intelletto umano diedero ciò che non vale che dell' intelletto considerato nel suo assoluto ideale, cioè dell' intelletto divino, niuna cura ponendo a definire que' limiti, ne' quali era racchiuso l' intendimento speciale dell' uomo. Conosciuta che s' abbia cosí la natura della prima ed assoluta Causa, che è quella « d' essere un Intelletto », s' ha in mano un principio fecondissimo di conseguenze, pel quale si possono risolvere le piú difficili questioni dell' Ontologia, e dare anche una dottrina universale intorno la Causa. Conosciuto che la Prima Causa, causa di tutte le cause seconde, è un Intelletto, noi potremo indurre quali sieno le proprietà comuni a tutte le cause. Poiché ogni dottrina che versa intorno gli universali si trova dal pensiero umano per due vie. Prima via. - Il pensiero può formarsi l' idea della cosa, di cui cerca la dottrina, dall' astrazione comune, e avendo quest' idea, può esaminare diligentemente l' essenza che essa contiene e porge ad intuire alla mente, può analizzarla e rinvenire gli elementi di cui si compone, e il vincolo che li unisce, e cosí venirsi formando una dottrina intorno a quella essenza e alle sue proprietà, dottrina che è universale appunto perché ogni essenza contenuta in un' idea è universale. Seconda via. - Il pensiero può ascendere prima di tutto all' Essere assoluto, e conosciuta la natura di questo, nel quale tutte le essenze eminentemente si contengono unite, può considerare come quella essenza, di cui cerca la dottrina, esista in esso, e poi come possa essere partecipata, e cosí indurre, per una astrazione teosofica, le proprietà di tale essenza dalle proprietà ch' essa ha nel primo suo fonte. Tanto la prima, quanto la seconda via conduce il pensiero umano all' acquisto di cognizioni certe. Ciò che rende piú ricco il processo ontologico, quando non si divida dall' ideologico che presuppone, non è solo il trovarsi per esso la soluzione di tutte le difficoltà dalle quali rimangono avvolte le soluzioni ideologiche, ma è sopra tutto un novo elemento che entra nella dottrina. Poiché l' essenza , intorno a cui versa la dottrina che si cerca, non si considera piú solamente isolata, ma nella emanazione dal suo principio. Fino a tanto ch' essa considerasi da sé sola, si ha un' essenza indeterminata; ma considerata nel suo principio, ella si vede determinata, piena di realità, e vivente. Ora alcune di queste proprietà ch' ella ha inesistente nella sua origine, e che le mancano nell' idea astratta, sono di quelle che vengono comunicate quand' essa è partecipata dagli enti relativi; le quali di conseguente possono essere da questi riportate nell' idea, ma tuttavia rimangono inesplicate e come sopraggiunte alla sua essenza astratta. A ragion d' esempio, nell' idea astratta di causa altro non si contiene, se non il concetto d' una entità che ne produce un' altra. Ma per intendere, che un' entità non ne può produrre un' altra se non dove quella sia un ente intellettivo, conviene considerare la causa, non piú astrattamente; ma nella sua reale efficienza, che si riduce alla Causa prima. La prima Causa dunque di tutte le cause è un Intelletto. Ogni entità che è prima nel suo ordine è perfetta ed assoluta, perché quando quella stessa si presenta posteriormente alla mente, altro non significa questa posteriorità se non ch' ella ha ricevuto qualche limitazione: ché se niuna limitazione avesse, sarebbe ancora la prima e perfetta entità. Di qui avviene che, per conoscere l' essenza di quella entità in tutta la sua pienezza, conviene considerarla nel suo primo ed assoluto essere. A conoscere dunque che cosa esiga assolutamente l' essenza della Causa, conviene considerare qual è la Prima Causa, anteriore ad ogni circoscrizione e limitazione: essa è infatti la causa essenziale, ma non astratta e però indeterminata, ma compiuta e sussistente. In questa Causa pertanto troviamo queste tre proprietà: 1) Che essa è un Intelletto, il quale ha virtú di moltiplicare i suoi oggetti. 2) Ch' essa è un Intelletto che è un subietto libero della sua azione. 3) Ch' essa è un Intelletto perfetto che ha virtú, come tale, di dare l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti, altri e diversi da se stesso, cioè di crearli. Tale è la Causa nella sua essenza compiuta e sussistente. Or se da questa prima Causa noi per astrazione teosofica vogliamo derivare l' idea, ossia l' essenza astratta, come procederemo? Abbiamo già dimostrato che il principio dell' incomunicabilità è l' illimitazione . Se noi ci proponiamo davanti alla mente la prima Causa, e, in quant' è oggetto della mente, le togliamo l' illimitazione, ci rimane il concetto della causa limitata , con tutto ciò che dee avere. Essendo dunque la prima ed essenzial Causa un Intelletto, se noi limitiamo quest' intelletto, in quant' è oggetto della nostra mente, ciò che ci rimane è un intelletto limitato. Questa dunque è la vera e compiuta nozione comune di causa, dedotta per astrazione teosofica. Ora, se non si dà alcuna causa che non sia intellettiva, consegue che la causa deva anche essere un subietto liberamente operante. E veramente un intelletto opera in due modi: poiché o fa un' azione con cui pone se stesso nel suo atto naturale, o fa un' azione che ha oggetti diversi da se stesso già posto e costituito nel suo atto naturale. Per riguardo alla prima di queste due azioni egli è propriamente principio subiettivo , e non ha alcuna ragione di causa . Colla seconda azione egli è causa, perché la causa è « quella attualità, nella quale noi concepiamo un subietto appieno costituito nella sua propria natura, prima di pensare ch' egli dia l' esistenza a qualche altra entità, e al quale posteriormente attribuiamo la potenza o l' atto che è origine d' un' altra entità diversa da lui stesso ». Se dunque un subietto intelligente pensa entità diverse da se stesso, pensa cose non necessarie alla sua sussistenza e alla sua natura. Dunque tali entità possono esser pensate, o non pensate, senza che manchi perciò nulla al subietto che le pensa e che esiste prima e indipendentemente da esse. In tal caso il subietto è libero a pensarle, e a non pensarle. Vi ha dunque una specie di libertà, che è essenziale al concetto della causa, e che consiste in questo, che « l' effetto non sia necessario a costituire la causa come subietto nella sua propria natura, ossia che questo subietto non dipenda dal suo effetto »(1). Laonde il Padre dicesi Principio, non dicesi Causa, della Trinità. Ma il concetto dell' atto creativo del mondo è posteriore, e suppone l' Intelletto creante già costituito pienamente nella sua natura; perciò non è obbligato a creare per costituire se stesso nella propria natura, e in questo senso egli crea liberamente, ed ha la ragione di Causa. Che se si considera attentamente la natura di questa libertà dell' atto creativo, si discopre un' altra sua proprietà. Poiché la natura del subietto è costituita prima che il subietto si concepisca come causa. Questo subietto nella sua natura reale altro non ha dunque che la potenza di creare . Acciocché quindi questa potenza di creare esca al suo atto, è necessario che lo stesso subietto intellettivo ecciti, e per cosí dire mova se stesso ad operare, per una ragione morale. La qual ragione è non l' amore che è termine perfettivo della sua natura, pel quale pone se stesso come Amato sussistente, ma l' amore che porta a se stesso come fine dell' ente finito. Egli dunque, che già è come Amato sussistente, vede che può essere amato anche da enti finiti; e per questo fine move se stesso a crearli. Questi dunque non movono il subietto creante a creare, perché ancora non sono: neppur la loro possibilità lo move, perché anch' essa è posteriore all' atto creativo: lo move il conoscere di poter essere amato dagli enti finiti, ma ciò, finché resta una mera possibilità mentale , non ha alcuna forza attiva, ma solo conoscibile «( Antropol. , 606 sgg.) ». Rimane dunque che il solo subietto reale sia quello che mova la propria potenza al suo atto; e questo muoversi da se stesso senza altra causa è un muoversi spontaneo d' una spontaneità libera e primitiva. La quale spontaneità primitiva dee al tutto distinguersi da quelle spontaneità posteriori che hanno avanti a sé de' moventi reali, e che perciò non possono ricevere nello stesso senso le qualità di libere . Vero è, che la potenza di creare il mondo fu tratta al suo atto ab aeterno dal subietto divino, e che però in Dio non ci fu mai né la cognizione del mondo nel grado imperfetto di pura idea o mera possibilità, né la potenza nella condizione di mera potenza senza il suo atto. Ma la cognizione perfetta, cioè la cognizione verbale, non toglie la cognizione di ciò che si conosce nell' idea, sí la perfeziona; e l' atto della potenza non toglie la potenza, sí la perfeziona. Il che fa pure a noi lecito distinguere il concetto che costituisce la possibilità ideale del mondo, dal verbo divino che produce il mondo stesso nella sua propria esistenza, considerando quello contenuto eminentemente in questo. Onde da una parte dicesi Iddio Onnipotente , e dall' altra dicesi atto purissimo e assoluto , non perché queste due cose sieno separate in Dio, ma perché l' onnipotenza è un concetto virtualmente contenuto nell' atto purissimo e assoluto , dal quale noi possiamo coll' astrazione della mente dividerlo (1). Nell' Essere divino in quanto è relativamente alla mente che lo pensa, e puramente come oggetto di questa, si distinguono due entità diverse, l' una delle quali si dice la sua propria natura , l' altra si dice l' operazione creatrice posteriore e conseguente a questa natura. Ma se si pensa l' Essere divino senza questa relazione ai detti concetti della mente, non si trova piú quella dualità che risulta solo dalla relazione dello stesso identico Essere a que' concetti mentali. Niente dunque vieta, che nell' Essere divino in se stesso sussistente sieno un medesimo atto semplicissimo, quella entità che risponde al concetto della natura divina e quell' entità che risponde al concetto dell' operazione creatrice : sono due ne' concetti, due fuse in uno nel sussistente. Se dunque tale è la Prima Causa, se il concetto della causa in universale hassi col ritenere tutto quello che è nella Causa Prima tranne la sua illimitazione, dalle cose dette si deduce, che il concetto di causa in universale si presenta alla mente in due forme, come causa in potenza , e come causa in atto . E unendo questo risultato a quello che abbiamo avuto prima, la nozione di causa esige: 1) che sia intelligenza; 2) che sia volontà libera, e come tale, potenza ; 3) che questa volontà libera abbia un fine ideale , o puro oggetto; il quale appunto perché ideale, non esiste ancora in se stesso, e perciò non ha nessuna forza con cui, agendo realmente sulla volontà, determinarla e muoverla, ma la volontà determina se stessa all' ottenimento di quel fine spontaneamente da essa amato. Ma qui si presenta la questione metafisica della libera volontà. Poiché sembra che la causa, cioè la volontà libera, passi dalla potenza all' atto senza una ragion sufficiente. Infatti, se essa volontà è disposta ugualmente all' uno e all' altro, ad operare e a non operare, come può eleggere uno a preferenza dell' altro? Qual causa le toglie l' equilibrio? Rispondiamo, che la volontà è bensí una potenza, ma quale? è la potenza d' eleggere «( Antropol. , 636 sgg.) ». Se dunque ella fa un atto, con questo elegge. Ma che cosa la move ad eleggere? Ella ha sempre un conato verso l' elezione, poiché ella stessa è un atto d' amore, per la sua stessa essenza. Dunque basta che si presenti il bene perché lo elegga, cioè perché lo preferisca al suo contrario «( Antropol. , 624 sgg.) ». Ma se le si presentano piú beni che cadono in collisione tra loro, ella elegge il maggiore. Che se i detti beni sono tali che non sieno paragonabili, perché la loro differenza non è quantitativa, ma categorica, come sarebbe il bene relativo all' individuo umano che elegge, bene subiettivo, e il bene assoluto in sé considerato, ossia obiettivo, allora conviene pure eleggere, e per eleggere non basta paragonar la quantità de' due beni, ma conviene paragonar le loro forme categoriche che non hanno nulla di comune: onde alla volontà, che non può non eleggere perché è a ciò per natura attuata, non rimane che fare un atto che tutto viene da lei stessa potenza d' eleggere, il quale appartiene a quella libertà che noi chiamiamo bilaterale «( Antropol. , 564 7 566, 606 sgg.) ». Ma questa libertà bilaterale, in quanto entra come elemento del merito, non si trova in Dio, dove il bene subiettivo e l' obiettivo non possono venire in alcuna collisione, perché non si dà altro bene del subietto che il bene obiettivo ed assoluto infinitamente amato. Non passa mai dunque la causa volontaria e libera al suo atto senza una ragione sufficiente , ma questa, è composta di due parti: a ) una parte è l' atto fondamentale della volontà, continuo conato d' eleggere il bene; b ) un' altra parte è il fine ideale , che le mostra il bene non ancora esistente a cui ella può dare esistenza. Mancando la seconda parte, ella si rimane causa in potenza . Ma poiché questa seconda parte senza la prima non potrebbe determinarla, perciò ella è libera determinandosi da se stessa, quasi direbbesi, col proprio peso, e cosí ad un tempo è compiuta la ragione sufficiente della sua determinazione, ed è resa causa7atto . Consideriamo ora la terza proprietà della Prima Causa: che sia un intelletto che abbia virtú, come tale, di dar l' essere subiettivo e relativo a' suoi oggetti ideali (1), cioè di crearli. Questa proprietà è evidentemente incomunicabile agli enti finiti i quali non sono, ma hanno l' essere, appunto perché ella non è una proprietà limitabile. Le due prime proprietà erano pur limitabili, e però comunicabili; perché « è limitabile tutto ciò nel cui concetto non si comprende l' illimitazione », e questa non si comprende né nel concetto d' intelletto, che è la prima proprietà, né nel concetto di libera volontà, che è la seconda proprietà. Ma l' illimitazione si comprende all' opposto nel concetto d' una potenza di dare altrui pensando l' essere; perché questo intelletto che dà altrui l' essere conviene ch' egli stesso sia l' essere; e l' essere di natura sua è illimitato. Nel concetto dunque universale e comune di Causa conviene esprimere l' effetto in una maniera piú comune. Questa nozione piú comune sarà dunque quella di cosa o di entità; e diremo « esser proprietà della Causa in comune, aver la virtú di produrre qualche cosa o qualche entità, idealmente concepita, diversa da se stessa ». Raccogliendo le tre proprietà della Causa, diciamo che nella perfetta nozione di Causa in universale si comprendono queste tre proprietà: 1) Ch' ella sia un subietto intellettivo. 2) Ch' ella operi liberamente. 3) E che ella abbia virtú di produrre qualche entità diversa da se stessa. La prima Causa dunque è l' Essere, e l' Essere è Intelletto in atto, ossia Intellezione perfetta, e l' intellezione perfetta e sussistente importa una Trinità di persone, che rispondono a tre forme dell' Essere, cioè alla forma subiettiva, alla forma obiettiva e alla forma amativa o morale. Ora l' Essere nella sua forma subiettiva ci presenta la Causa efficiente, è un reale subiettivo che produce un reale subiettivo: l' Essere nella sua forma obiettiva ci presenta la Causa esemplare, tipica, ossia ordinante, da cui l' ordine nelle cause mondiali; l' Essere finalmente nella sua forma amativa ci dà la Causa finale. Questi si prendono volgarmente per tre sommi generi delle cause. Veramente sono i tre modi o forme dell' unica Causa. E infatti, riprendendo la definizione: « la Causa è un' entità che ne produce un' altra diversa da sé, di cui essa non è il subietto, ma è tale che si concepisce come un subietto senza che nel concetto di questa s' acchiuda l' entità prodotta », vediamo che un intelletto non può produrre un' entità diversa da sé, se non ha in sé essenzialmente questa legge, ch' egli operi e produca con una sola operazione , ma che questa operazione abbia contemporaneamente tre modi . Quando da noi e da' filosofi che ci precedettero si distinsero le tre cause efficiente, esemplare e finale, altro non s' è fatto che dividere coll' astrazione i modi coevi d' operare dell' unica causa, dando a ciascun di essi il nome di causa in separato dall' altro. In tutto il creato niente si trova, che non mostri d' esigere una causa trina: niente, vogliam dire, si trova che non mostri nella sua causa la necessità e d' una efficienza reale che ne spieghi la reale sussistenza, e d' una sapienza che ne spieghi l' ordine ammirabile, e di un fine che spieghi come tutto sia subordinato al bene delle creature intelligenti. Ma nello stesso tempo apparisce chiaramente, che niuna di queste tre ragioni o cause sarebbe stata sufficiente, ove avesse operato separata l' una dall' altra. Conveniva, quindi, che quelle tre ragioni o cause fossero congiunte insieme in una sola operazione; altramente non sarebbero potute esser causa del Mondo. Il Mondo dunque mostra in se stesso manifestamente i vestigŒ dell' unità e della trinità insieme della Causa che lo produsse. Cosí, per la necessità di spiegare il mondo come un effetto, la mente trova nel mondo i vestigŒ manifesti dell' unità e della trinità di Dio, e ascende a posteriori a concepire una Causa una e trina nel tempo stesso. Da questo pure si dimostra a posteriori , che una causa perfetta non può esistere, se ella stessa non sia tutt' insieme e efficiente, e tipica, e finale, il che è quanto dire subiettiva, obiettiva e amativa o morale. Si può domandare ciò non ostante, se l' astrazione che fa comparire tre cause sia una pura astrazione arbitraria della mente umana, o abbia anche la sua ragione in qualche vera separazione che ci sia tra quelle. Alla quale domanda convien rispondere in questo modo: o le tre cause si cavano per via d' astrazione teosofica, cioè esercitata sul concetto di Dio, o si cavano per via d' astrazione comune. L' astrazione teosofica, s' esercita sopra una tal Causa, nella quale i tre modi d' operare non hanno da essa né divisione né distinzione alcuna; e però le tre cause astratte non sono che pure astrazioni ipotetiche. L' astrazione comune all' incontro esercitata sugli enti del mondo trova gli effetti de' tre modi d' operare della prima Causa uniti bensí, ma distinti di natura, in maniera che il primo passo dell' astrazione conduce ad ammettere tre cause diverse; e solo posteriormente, colla meditazione filosofica sopra di esse, conchiudesi che non sono tre cause, come appariva, ma devono essere tre modi d' operare d' un' unica causa. Se noi consideriamo Iddio nella sua interna costituzione, troviamo che nell' intellezione sussistente, che è la sua natura, si distingue un principio o atto intellettivo, che continuamente si porta in se stesso come obietto sussistente, e amato in modo che come amato è ancora se stesso sussistente. E qui l' atto di quella intellezione è eternamente compiuto, e come in suo fine eternamente riposa. Ma quest' atto è per se stesso ab aeterno . Non si può dunque dire che in sé sia causa né efficiente, né esemplare, né finale, nel senso della definizione data della causa, « un' entità che ne produce un' altra diversa da sé », perché i due termini non sono produzioni diverse dal principio. Acciocché dunque si trovi la ragione di causa in Dio, conviene, come già dicemmo, considerarlo rispettivamente all' ente finito da lui creato. Ma se nella costituzione interna ed attiva di Dio non si trova il concetto di causa, è però da por mente all' azione che di continuo è in Dio, ossia nell' Essere assoluto, azione che è ab aeterno perfetta. Se consideriamo la vigoría di quest' azione, non troviamo misura che le si possa applicare, ed abbiamo il concetto di vigoría assoluta, e però infinita. Dunque concepiremo l' Essere assoluto come assoluta azione, e per la vigoría assoluta che è in essa, la concepiremo, giustamente, come una forza in atto, sempre tesa a costituirsi in ente compiuto . L' ente dunque, di novo diremo, non è cosa inerte, ma è una forza, o energia sempre in atto «( Psicol. , 1015 sgg.) ». Ma poiché noi uomini concepiamo la forza in atto come qualche cosa di mezzo tra il subietto che la possiede, e il termine a cui la forza posta in atto perviene, cosí la forza si concepisce con astrazione e dal subietto principio e dal termine che essa ottiene, perciò la forza dell' esser che emette di sé i suoi termini, co' quali compie se stesso quale ente, vien da noi concepita come una forza che pone e costituisce l' ente. Questa forza noi chiameremo forza entica , in quanto costituisce l' essenza stessa dell' ente: in quanto poi essa è anche atta a produrre altri enti, la chiameremo entifica . E` dunque essenziale all' ente una forza , la quale tende continuamente, come a suo termine: 1) a fare che esista l' ente stesso; 2) a fare che esista compiuto e perfetto; e quindi, 3) resiste continuamente alla distruzione dell' ente, e 4) resiste continuamente al deterioramento dell' ente. Queste quattro tendenze della forza entica si possono considerare come quattro leggi nascenti dalla natura, ossia dal concetto stesso dell' ente; e tali leggi ontologiche sono d' un grande uso nella scienza. Ma cosí il subietto che si concepisce come agente, essendo l' essere iniziale o virtuale altro non è che un subietto dialettico, non sussistente, ma solo essente alla mente. Colla forza entica cosí concepita si spiega dunque la costituzione dell' ente quale sta davanti alla mente nostra, piú che la costituzione dell' ente in se stesso. Per arrivare a questa, è uopo ascendere con il pensiero a quell' ente che è puro ente, cioè senza limitazione, il quale è Dio. Sebbene in questo ente essenziale uno e trino tutto sia connesso e indivisibile, tuttavia l' astrazione concepisce l' eterna azione intima, e, per un' altra astrazione, nell' eterna azione concepisce un' eterna forza o energia, e questa entica , cioè intrinseca ed essenziale all' ente senza limitazioni, semplice e puro. Si conchiude dunque di novo, che l' ente nella sua purità e semplicità essenziale è forza assoluta e azione assoluta; la qual forza e azione intrinseca all' ente, per distinguerla da ogni altra, dicesi da noi entica . Ma poiché i concetti di forza e di azione sono astratti per modo, che non presentano al pensiero né un principio, né un termine, possiamo ancora domandare donde venga quest' azione, e dove tenda. Se non che, già subito si urta nell' imperfezione del concepire, poiché il venire e il tendere somministra alla mente nostra il concetto di successione, di progresso, di movimento, e perciò di qualche cosa d' imperfetto che tenda ad esser perfetto, secondo la sentenza aristotelica, che « il movimento è l' atto dell' imperfetto ». Tutti questi concetti d' imperfezione devono al tutto rimuoversi dal pensier nostro. Ma ciò è difficile, perché si presenta questa antinomia: « Come si può fare un' azione che è già fatta »? Il farsi attualmente , e l' essere fatta pare una contraddizione. Basta, per intendere l' identificazione di questi due concetti, concepire un farsi non già con successione, e a poco a poco, ma un farsi tutt' insieme ad ogni istante assegnabile. Se in ogni istante assegnabile col pensiero si trova l' atto semplicissimo del farsi, senza successione di sorta, è assolutamente necessario, che il pensarsi quell' atto che si fa, sia il medesimo che il pensarsi quell' atto medesimo che è fatto; perché nello stesso istante che si fa è fatto compiutamente. Quelle due qualità, dunque, che troviamo divise nell' atto transeunte, il farsi e l' esser fatto , si trovano unite nell' atto permanente, senza l' imperfezione della successione e della cessazione che è in quello. Rimossa ogni imperfezione da quest' atto immanente, perfettissimo e compiutissimo, che è l' Essere assoluto, noi, per astrazione, possiamo ancora concepire in esso una continua forza vitale agente, di cui possiamo, sempre per astrazione, cercare il principio ed il termine, benché coevi. E in quanto al principio noi dobbiamo concepirlo come attualmente agente , e come quello che ha sempre compiutamente agito . Se lo consideriamo come puramente agente, noi non abbiamo che un inizio astratto dell' azione dell' essere, ma un inizio reale (non piú l' essere ideale e virtuale). Allora il termine di quest' inizio reale che si distende coll' azione è l' ente uno e trino , che pone continuamente sé medesimo. Ma questo inizio reale non è la prima persona della Trinità, ma sí un inizio reale astratto. Che se poi consideriamo di piú, che quell' agente non è solamente agente, ma è tale che ha sempre compiutamente agito, allora troviamo che è un principio sussistente che, avendo sempre raggiunto il primo e il secondo suo termine, è con essi ab aeterno una perfetta persona già costituita, come sono persone già costituite i due suoi termini. E cosí considerato l' Ente assoluto è ancora un' infinita energia, che non solo di continuo pone, ma di continuo ha posto compiutissimamente se stesso per un atto, che sempre facendosi, sempre è fatto, con identità perfetta del farsi e dell' esser fatto. In tre modi dunque si pensa dalla mente umana il principio dell' attività o attualità entica: 1) Come un inizio ideale , l' essere indeterminato, che emette di sé, davanti alla mente nostra, i suoi termini ; e cosí pone se stesso come ente assoluto esistente in sé. 2) Come inizio reale , cioè inizio dell' azione eterna che pone e costituisce l' ente assoluto. 3) Come principio sussistente che ha continuamente posto i suoi termini, e ha posto continuamente l' ente assoluto uno e trino. In questa natura d' intrinseca energia ed azione dell' ente assoluto, per la quale esso è quello che è, si trova l' origine teosofica delle quattro leggi ontologiche, cioè tali che si riscontrano in tutti gli enti, per le quali leggi entra nell' essenza dell' ente il concetto d' una forza che fa esistere l' ente stesso, e tende a farlo esistere nella maggior sua compiutezza possibile, e resiste alla distruzione e al deterioramento del medesimo. Questa forza entica , che costituisce ogni ente anche finito, è di sommo momento nella scienza, perché ella costituisce il principio supremo, che rende ragione di tutte le azioni e movimenti spontanei negli enti, e di quelle leggi, secondo le quali si move ed opera continuamente la vita. Ma come noi di sopra abbiamo distinto il concetto di principio dal concetto di causa , cosí qui dobbiamo distinguere il concetto di termine dal concetto di fine nel senso di causa finale . E veramente un termine della loro azione entica e di quella che da questa consegue, hanno tutti gli enti in qualunque modo concepibili; ma un fine in senso di causa finale , o, come propone di chiamarla Giuseppe De7Maistre, « intenzionale (1) », averlo non possono se non gli intelligenti nel loro operare (2). E gli intelligenti stessi, in quanto si considera in essi solamente la forza e l' azione entica, non si può dire che operino per un fine come causa finale, ma solo che in loro si distingua un termine di quella forza od azione. Infatti, la forza entica si pensa nell' ente già costituito da essa, e non anteriormente a questo, e però non ha natura di causa, come dicevamo, ma solo di principio. Ma ci ha un' essenzial differenza, tra la forza entica dell' ente infinito, e la forza entica degli enti finiti. La forza entica infinita ha trovato sempre il suo termine infinito ab aeterno , senza successione, il quale termine è l' ente infinito con tutta la sua perfezione. La forza entica finita all' incontro opera anch' essa con tutta sé, ma essendo ella finita pone un ente finito ; e alla perfezione di questo ella tende, ma non sempre la raggiunge. Ella ha dunque per lo piú due gradi e generi di limitazione: 1) La limitazione che le fa porre un ente finito; 2) La limitazione che le impedisce di porre, nello stesso tempo che pone l' ente finito , anche la perfezione propria di quest' ente. La forza entica dunque nell' ente finito pone sempre l' ente, ma non sempre la sua perfezione: ben ella tende sempre a questa, e non è mai ch' ella non sia inarcata, per cosí dire, e tesa a produrla: solo le manca il varco, le manca quel termine che non produce ella stessa, ma le è dato, in cui portandosi, ponga e costituisca la perfezione dell' ente. Quindi apparisce, che dalla natura della forza entica si deduce la spiegazione ontologica di quel modo d' operare, che si dice spontaneità , e che è un atto nascente da una forza che per natura sua lo produce, la quale si trova, come in sua prima sede, nella forza entica che è contenuta nel concetto stesso universale dell' ente. La spontaneità dunque è quel modo d' operare che ha una forza che è per se stessa in atto, ma che talora per cagione esterna rimane impedita di spiegarsi. E piú brevemente: « la spontaneità è il modo d' operare del principio dell' ente », ed è l' opposto dell' operare violento , il quale non nasce dal principio dell' ente, ma da un altro ente, onde non è un semplice operare, ma è un patire. La forza entica dunque pone l' ente o producendolo il suo termine, e quindi avendolo in suo pieno dominio, nel qual caso lo pone perfetto come avviene nell' Ente assoluto; o agendo e unendosi col suo termine, nel qual caso il termine le è dato. E nell' uno e nell' altro caso la sua azione è spontanea, e ne preesiste in essa la causa spiegata in atto, o in potenza attiva che dicesi tendenza . In tutte queste operazioni spontanee si trova sempre un principio ed un termine, ma non si trova ancora un fine , cioè una causa finale. Anche l' atto intellettivo, in quant' è un atto della forza entica, cioè in quanto pone e costituisce l' ente intellettivo, ha questo per termine; ma questo non è un fine ch' egli si proponga d' ottenere, non potendo proporsi un fine, perché non è ancora ente intelligente. Conviene quindi che l' ente intelligente sia pienamente costituito dalla forza entica, acciocché, cosí costituito come subietto per sé, possa proporsi un fine delle ulteriori sue operazioni. Il fine, dunque, preso come causa finale, non è mai l' ente stesso intelligente che lo si proponga come tale, cioè non è la costituzione di esso ente, ma è qualche cosa di diverso dalla costituzione di esso ente intelligente che opera per un fine. Due sono gli enti intelligenti già costituiti: l' assoluto, che è Dio, e gli enti relativi, che sono le persone finite. E` dunque da ricercarsi come Iddio possa proporre un fine al suo operare, e come si possano proporre un fine gli enti intelligenti. In quant' è a Dio, risulta ch' egli non può proporsi un fine, se non per riguardo al suo operare esterno, perocché in quanto alla azione interna che lo costituisce, ha termine, ma non causa finale. Nell' opera della creazione si devono distinguere due cose, gli enti finiti creati e l' atto creativo. Egli è evidente che gli enti finiti e relativi non aggiungono a Dio niuna perfezione. Non hanno alcuna ragione necessaria in sé medesimi; né pur quella di fine. Se dopo di ciò si considera l' atto creativo , non si può negare che questo sia una perfezione di Dio, un' attualità di Dio stesso. Ma esso è una perfezione conseguente alla divina natura e alla bontà essenziale di questa natura. Il mondo dunque esiste perché Dio è buono; ché da lui come buono viene l' atto creativo, che noi chiamammo perciò un' attualità in Dio conseguente alla sua naturale bontà. L' atto intellettivo, con cui Iddio pone se stesso oggetto sussistente e amato sussistente, si fa da Dio necessariamente, spontaneamente, immediatamente, come atto della forza entica infinita, e quindi senza bisogno ch' egli assuma perciò alcuna causa finale, cioè ch' egli si proponga un fine (1); ma l' atto intellettivo con cui Iddio pone e crea il mondo si fa da Dio proponendosi un fine, assumendo una causa finale, perché il mondo non è necessario alla natura di lui, e non è alcuna parte di questa. Egli è chiaro da questo che il mondo, in quanto esiste in sé relativamente separato, o, come si suol dire, fuori di Dio, non può esser voluto per se stesso, perché non si può volere se non il bene; e il mondo non ha alcun bene in se stesso che possa esser appetito da Dio. E` dunque necessario che Iddio voglia il mondo non per se stesso, ma per un fine che si propone; ed è qui, che incomincia a comparire la causa finale. Ma se Iddio non vuole il mondo pel mondo, e deve avere un altro fine acciocché lo voglia, e non ci può essere altro fine che sia bene volibile per Iddio, tranne se stesso: dunque Iddio, che non può creare il mondo se non volendolo, e non può volerlo se non per un fine buono, deve necessariamente creare il mondo non per il mondo, ma per se stesso, cioè se stesso ponendo a fine del mondo. Cosí dunque Iddio diventa causa finale delle creature, ma non causa finale a se stesso, che non ha causa di sorta. Pure è buono a se stesso, ed è buono alle creature, perché è il bene per essenza. Laonde, come abbiamo distinto i due concetti di principio e di causa , e gli altri due che ad essi corrispondono, di termine e di fine ; cosí dobbiamo pure distinguere il bene come bene , che è sempre termine della volontà ma non è fine, e il bene come fine . Iddio è bene a se stesso come termine , non come fine ; ma questo termine che è il bene, è bene alle creature come loro fine . Iddio dunque non poteva creare il mondo come fine del suo atto creativo; perché, se il mondo stesso fosse fine di Dio operante, avendo sempre il fine ragione di bene, il mondo sarebbe stato per Dio un bene, e in tal caso Iddio avrebbe avuto per suo bene qualche cosa fuori di sé, e cosí non sarebbe stato piú perfettissimo e sufficiente a se stesso. Se dunque in Dio stesso doveva essere il fine pel quale Iddio creava il mondo, rimane a vedere come ciò potesse essere, e che cosa potesse in Dio aver ragione di fine, rispetto a questa sua operazione creativa. Ora, in quanto il mondo esiste fuori della divina essenza per l' esistenza sua relativa, non può essere nessuna perfezione di Dio, né costituisce parte alcuna della natura divina. Ma noi vedemmo però, che oltre l' esistenza relativa il mondo ha un' esistenza assoluta in Dio stesso, cioè nell' essenza divina. Anzi propriamente il mondo non è la propria essenza , e però la propria essenza non è lui; ma egli altro non è che la realizzazione della propria essenza , la quale appartiene al mondo in Dio; poiché l' essenza del mondo è l' essere limitato dalla mente divina, e il mondo non è il proprio essere. Tutto questo giova non a spiegare il fine che Iddio potesse avere nella creazione del mondo, ma a farne sentire maggiormente la difficoltà di stabilirlo. Poiché se il mondo nella sua esistenza propria relativa non è la propria essenza, il proprio essere il quale è in Dio, pare doversi inferire che non solo il mondo in se stesso esistente, ma né pure il mondo nella sua essenza in Dio, non potesse esser fine di Dio nella creazione, e che Iddio cosí non potesse avere nessuna ragione o cagione finale di creare il mondo. E veramente il mondo in se stesso non ha alcun valore per Iddio operante. Come dunque o perché potrà muoversi a crearlo; a dargli l' essere, quell' essere che è in lui e che è una sua attualità volitiva? Conviene dire, che non avendo il mondo alcun valore in se stesso in modo da poter divenire fine del divino operatore, è necessario che quest' operatore dia al mondo stesso un fine o un termine fuori di esso mondo, dal quale gli venga quel valore che non ha per se stesso in se stesso. Ora, a niun fine o termine che sia fuori del mondo può essere ordinato il mondo, se non a Dio stesso: sí perché fuori dell' universo non c' è altro che Dio, e sí perché Dio solo può avere un prezzo assoluto degno d' essere una causa o ragion finale atta a movere Iddio ad operare. Resta adunque solo a dimostrare, come Iddio possa rendersi fine o termine del mondo: il che dimostrato, s' avrà nel mondo, nobilitato da questo suo fine o termine, un oggetto che potrà acquistare la ragione di fine per Dio stesso (1). Il mondo è un complesso di varŒ enti gli uni concatenati e inservienti agli altri, tra tutti i quali tengono la sommità gli intelligenti. Queste creature poi intelligenti, possono conoscere Iddio, e riconoscerlo per quello che è, colla lode, coll' adorazione, coll' amore, e possono altresí fruirlo. Possono dunque unirsi con Dio, qualora Iddio a sé le unisca; e unite con Dio individualmente, avere Dio stesso in sé. A questa condizione e stato nobilitate, per la partecipazione di Dio, acquistano un cotal valore infinito; onde smettono in qualche modo il difetto che loro viene dalla naturale limitazione. Essendo dunque Iddio per sé comunicabile, può esistere e dimorare nella sua creatura, come fine e termine di questa. Ora amando Iddio se stesso infinitamente per la propria essenza e costituzione, è conseguente che s' ami anche dimorante nella creatura come fine di questa. Cosí Iddio può amare la sua creatura non per se stessa e in se stessa, ma pel fine a cui è ordinata e che ottiene, che è quello di esser deificata, cioè fatta partecipe della stessa divinità. Poiché dunque il mondo è distinto dal suo fine, il quale è un altro, cioè l' infinità di Dio stesso partecipabile dal mondo, perciò esso poté avere una causa finale , e non solo un termine. Da questo si vede che il mondo, preso a sparte dal suo fine, nella sua pura natura ha relativamente alla causa intellettiva, che lo fa esistere, ragione di mezzo . Ma il mondo in verso a se stesso ha ragione di subietto della perfezione finale. Poiché è cosí ordinato al fine, che, raggiuntolo, viene dal fine stesso informato come da una sua perfezione sopraggiunta, e allora, per questa sua forma, partecipa egli stesso il concetto di fine relativamente alla sua causa intellettiva, il che è quanto dire è amato da Dio. Perocché ci hanno due generi di mezzi. Ci hanno de' mezzi che non sono altro che mezzi ordinati a servigio di qualche altro ente da essi diverso; e questi non diventano mai fini , ma tutto il loro valore sta unicamente nella ordinazione a quel fine a loro straniero. Ci hanno de' mezzi, che, essendo tali nella mente di chi li produce, sono ordinati ad un fine che è di natura diversa dalla loro (che se fosse della stessa natura avrebbe ragion di termine e non di fine, come avvien nelle forme naturali subiettive), e che tuttavia costituisce la loro stessa subiettiva perfezione. Tali sono nell' universo le nature intelligenti; e questa è la ragione ontologica di ciò che s' insegna nell' Etica, che le persone hanno condizione di fine , quando le nature prive d' intelligenza altra condizione non hanno che quella di mezzo «( PrincipŒ della scienza morale , C. III, 9; IV, .) ». Di che procede, che una persona priva del suo fine , e divenuta affatto incapace di piú acquistarlo, non ha piú valore, e si trova degradata alla condizione di puro mezzo «( Teod. , 965, 9.2, 9.3) ». La perfezione morale dunque della natura umana è la causa finale della creazione: e questa natura umana, presa da sé, e insieme con essa tutte le nature prive d' intelligenza che compongono il Mondo, sono altrettanti mezzi e condizioni dell' ottenimento di quel fine. In Dio s' unificano i due significati di fine , perché quella causa che deve essere, quella anche necessariamente è causa finale del suo operare, nel modo detto, che riassumeremo cosí. Iddio ama infinitamente se stesso; si ama dunque in tutti i modi in cui può essere: ma può essere da se stesso, e può essere come fine partecipato dalle creature: si ama dunque partecipato dalle creature, ama se stesso nelle creature. Egli dunque crea gli enti finiti perché, potendo essi partecipare di Dio, possono cosí in sé avere oggetto degno del divino amore e della divina eterna azione, il qual oggetto è Dio stesso. Questa è dunque la causa finale per la quale Iddio crea il mondo, e il mondo è condizione e mezzo; quando poi ha ottenuto quel fine come sua forma, diventa egli stesso, per questa forma divina, fine al divino operare. Distinguasi dunque il fine della creazione formalmente considerato , e il fine concreto della medesima. Il fine formale è Dio nella creatura, il fine concreto è la creatura unita in modo da formare uno con Dio. Il fine poi è voluto immediatamente, e pel fine sono voluti i mezzi. Essendo dunque tutte le cose fatte per un fine unico da una prima Causa che è un Intelletto , consegue che tutto sia ordinato, tutto fatto con sapienza: che tutte l' altre cose, le loro quantità, le loro forme e modi, i loro nessi reciproci, i loro atti e movimenti, abbiano la loro ragione, e niente ci sia o avvenga di casuale o d' inutile. Riconosciuta la verità di questo principio, sarà conveniente e possibile che ciascuno, il filosofo principalmente, s' adoperi a conoscere non solo il fine ultimo del mondo, ma ancora i fini subordinati sí de' singoli enti e loro parti, e sí dell' ordine della loro coesistenza. Ma si dirà forse esser questo impossibile, sia perché i detti fini subordinati sono innumerevoli, sia perché le nature dell' universo conoscendosi dall' uomo imperfettamente, non si può ben definire a quali fini immediati o mediati possano essere diretti dalla mente altissima di chi le creò. Rispondiamo che questa obiezione prova solamente che l' uomo non può discoprire tutti e pienamente i finiti immediati e mediati degli enti mondiali, e delle loro leggi e azioni, ma non prova punto che non ne possa rilevare alcuni. Appunto perché tutto ciò che è nel mondo è opera d' un Intelletto perfettissimo, niente c' è od avviene d' inutile e senza ragione finale. Se dunque si domanda quali sono i fini subordinati degli enti mondiali e delle loro parti, si può rispondere: 1) Che ciascuno ha per fine prossimo nell' intenzione divina la propria natural perfezione. 2) Che tutti gli usi a cui servono reciprocamente, cioè tutto ciò che ciascuno colla sua azione contribuisce alla perfezione degli altri, sono altrettanti fini della loro costituzione ed azione. Potendosi dunque da noi conoscere, almeno in parte, quale sia la naturale perfezione di ciascun ente, e molti degli usi a cui servono, ed essendo tanto quella come questi altrettante ragioni finali de' medesimi, molti di questi fini subordinati possiamo conoscere, benché non tutti (1). Ma questa perfezione naturale di ciascun ente, e questi usi di reciproco vantaggio non s' ottengono sempre. Questi dunque sono fini ideali ; ma quando e quanto di fatto s' ottengono, sono fini voluti e reali del divino Intelletto che n' è la causa. Il non realizzarsi di alcuni tra quelli si concepisce come un' eccezione. Il realizzarsi degli altri è ciò che conduce la nostra mente a conoscere i fini ideali . L' eccezione poi conduce la nostra mente a indagare fini ulteriori, perché anche queste eccezioni devono avere il loro fine; e questo non consistendo nel fine prossimo, resta che un fine piú grande, ed un bene o piú universale, o piú magnifico e prezioso in se stesso, stia nell' intenzione e nella volontà del primo Intelletto. Rimane dunque a concludersi, che « il fine ideale di ogni parte del mondo è tutto ciò che ciascuna parte può produrre od ottenere di bene », e che il fine reale e voluto è « tutto ciò che di bene s' ottiene, per mezzo di tutto ciò che esiste e di tutte le operazioni di ciò che esiste », e che la mancanza stessa di ogni bene parziale, è un mezzo ad un fine di bene ulteriore, piú universale, o piú cospicuo, e certamente poi al fine ultimo che non può non ottenersi, per l' onnipotenza della prima Causa. A' fisici materiali, che condannano lo studio delle cause finali, come impossibile, inutile o nocivo all' avanzamento delle scienze fisiche, si risponde «( Logic. , 95. sgg.) »: 1) Non essere impossibile; e l' abbiamo veduto fin ora: quello che può dirsi impossibile è solo il conoscere tutti i fini subordinati : se ne possono conoscere ognor piú e meglio, quanto piú se ne continui lo studio, come in ogni altra materia scientifica. 2) Non essere inutile; e apparisce da questo che non sono le sole cognizioni fisiche che cerchi ed ami l' uomo: lo studio delle cause finali appartiene principalmente ad una scienza libera , come la chiama Aristotele, che s' ama per sé, e non perché serva alle altre, nel che ella è di gran lunga superiore alle fisiche vicende. A cui s' aggiunge, esser falso che lo studio delle cause finali subordinate in nulla possa giovare all' avanzamento della fisica: i sommi fisici, il cui pensiero non si chiuse entro la cerchia della fisica, hanno giudicato il contrario. 3) Non essere nocivo, appunto perché utile. Ogni cosa buona si fa nociva per abuso, o per errore. Due sono gli errori principali ed opposti intorno alle cause finali. L' uno è di quelli che le negano, attribuendo tutto al caso. L' altro è di quelli che, vedendo i vestigŒ d' intelligenza sparsi nell' universo, danno l' intelligenza a quelle cose che non l' hanno, quasi tutte operassero per un fine; di cui un esempio ci presenta la storia della filosofia moderna negli Sthaliani, i quali pretesero che l' animalità operasse con intelligenza «( Psicol. , 391 sgg.) ». Né tampoco favellò con chiarezza Aristotele sopra ciò, quando, confondendo il concetto di termine col concetto di fine , disse che la natura opera per un fine (1), e che la forma è il fine a cui tende. Poiché la forma in quant' è conseguita dagli enti non è altro che il termine reale della loro forza entica; in quanto poi è nella mente che li crea e move, in tanto è fine o causa intenzionale. Ma la forma stessa è parola di piú sensi. Poiché significando essa atto, non solo ciascun ente ha il suo atto costitutivo, ma tutta la serie e l' ordine loro complessivo, e ogni loro gruppo ha un fine nella divina mente, che ottenuto, cioè realizzato in que' gruppi, o complessi, può dirsi forma , o atto. Ma l' ultimo atto o forma eccede la natura, perché consiste nell' unione coll' ente infinito, che è un altro e diverso da ogni forma naturale. La causa dunque è necessariamente ad un tempo efficiente, esemplare, e finale; e se uno solo di questi suoi modi mancasse, non sarebbe causa, ma solo potrebbe essere un elemento astratto della causa. Questi tre modi, sebbene devano coesistere, acciocché ci sia la causa, hanno un ordine tra loro. Ora, l' ordine col quale si costituisce la causa ne' suoi tre modi, se per via d' astrazione analogica si paragoni all' ordine col quale si costituisce l' ente infinito ne' suoi tre modi, si trova che è inverso a quest' ultimo. Poiché nell' ordine dell' essere infinito si concepisce da noi, o certo si nomina, prima il Principio o il Padre, a cui per analogia si riferisce la causa efficiente, e di poi il suo primo termine ossia il Verbo, a cui per analogia si riferisce la causa esemplare, e di poi il secondo termine ossia lo Spirito Santo, a cui per analogia si riferisce la causa finale ossia il fine. Ma l' ordine che si ravvisa nell' interna costituzione della causa è il contrario, concedendosi prima il fine, poi l' esemplare, poi l' efficiente. Il qual ordine però dee meglio considerarsi, per ben intendere come sia. Se un ente intellettivo non avesse un termine datogli precedentemente dalla sua propria natura, sarebbe impossibile ch' egli mai si proponesse un fine. Esaminiamo il fatto nell' uomo. Perché mai l' uomo si propone de' fini nel suo operare? La ragione si è, perché egli ha una naturale tendenza verso il bene in universale. Il bene in universale è il termine naturale dell' umanità, ed anzi d' ogni ente intellettivo. Acciocché dunque esista in atto la causa finale, cioè acciocché un subietto intelligente si possa proporre un fine, dee esserci prima il bene del detto subietto come suo termine posseduto, o almeno la tendenza al bene come suo termine possedibile. Dal termine amativo dunque sorge la causa, cominciando ad essere un fine che si propone il subietto intellettivo. Ma il bene , termine naturale delle nature intellettive, è un relativo, che può essere in modo assoluto ed essere in modo relativo . Il bene che è in modo assoluto è il bene terminativo e perfettivo dell' essere stesso. Il bene che è in modo relativo è ciò che è appetito da un subietto particolare. Il bene che è tale in modo assoluto, si pensa di natura sua assolutamente, ossia obiettivamente, cioè senza riferirlo ad un subietto particolare; ma il bene che è tale in modo relativo, non si può pensare senza riferirlo al subietto particolare che l' appetisce. Nella creatura questi due modi di bene si distinguono, e costituiscono quello che si dice il bene soggettivo , e il bene oggettivo «( PrincipŒ della scienza morale , C. 4) ». Ma nell' Essere infinito non si distinguono, perché egli stesso è l' Essere, e il bene in modo assoluto è la forma ultima e personale che lo perfeziona, ed è egli stesso, ond' egli stesso è bene assolutamente e essenzialmente, bene a tutti i subietti capaci di appetirlo. Ma amare il bene obiettivo è amare ciò che è bene a tutti gli enti che ne sono capaci. Quindi il naturale istinto della bontà divina di comunicarsi. Cosí viene spiegata la possibilità che Iddio si determinasse alla creazione, senza esservi obbligato dalla necessità di costituire se stesso in modo completo, ma posteriormente a quella perfetta costituzione. La causa finale dunque, cioè quel modo di causa che si dice fine, e che altro non è in Dio, se non il proposito di rendere se stesso (bene essenziale e assoluto) fine di enti finiti intelligenti, è la prima attualità che si può pensare in Dio nel processo dell' atto creativo. Propostosi questo fine, l' eterna intelligenza doveva concepire l' ente finito, nel quale un tal fine si realizzasse. E questa seconda operazione è l' eterna tipificazione, ossia la formazione dell' esemplare del Mondo. In questa maniera, alla causa finale nella divina volontà (terza forma personale) s' aggiunge la causa esemplare nella divina mente, ossia nell' assoluto obietto (seconda forma personale). Concepito l' Esemplare di tutto il creato, altro non rimaneva che coll' energia dell' eterna volontà dell' essere produrne la realizzazione; il qual atto energico è quello che si chiama causa efficiente , e sorge nel principio della prima intellezione (prima forma personale dell' essere divino). Il qual processo dell' attuazione in Dio delle tre cause del mondo non ammette successione di tempo, né trinità di atti, poiché tutto si fa con un atto eterno, e solo la mente astraente produce in esso tali distinzioni. Del pari, quest' atto unico appartenendo all' essenza divina, è comune alle tre divine persone, ciascuna delle quali lo ha identico nel suo proprio modo di essere; ma, appunto a cagione di questo altro e altro modo, s' appropria al Padre la causa efficiente, e al Figliuolo l' esemplare, e allo Spirito Santo il fine, come abbiamo altrove spiegato. L' ordine logico dunque dell' atto creativo è inverso a quello che esiste nella costituzione dell' essere divino; di maniera che tutta la catena dell' essere infinito e finito si compone logicamente di questi sei anelli l' uno all' altro attenentisi: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Esemplare; 6) Efficiente. I quali sei anelli d' oro esprimono l' ordine della causa. Ma la catena si continua per altri sei anelli, se noi consideriamo il causato nella sua piena costituzione; sempre però con questa legge, che « ad ogni tre anelli seguono tre altri che procedono con un ordine inverso ». Laonde, se noi vogliamo aver presenti tutti gli anelli di questa catena delle azioni entiche, ecco i dodici anelli ond' ella si compone e continua: 1) Principio; 2) Verbo; 3) Spirito Santo; 4) Causa finale; 5) Causa esemplare; 6) Causa efficiente; 7) Reale finito; .) Forma intelligibile; 9) Appetito finale; 10) Operazione dello Spirito Santo, per la quale s' incarna; 11) il Verbo, che rivela; 12) il Padre. Vedasi in questa Tavola: i tre primi anelli dimostrare l' eterna costituzione dell' Ente infinito; i tre secondi l' eterna costituzione della Causa; gli altri tre la costituzione del Causato, cioè dell' ente finito; i tre ultimi la sublimazione del Causato, o ente finito, nell' Infinito, ossia l' ordine soprannaturale inserto nel creato, con che il creato è compiuto secondo l' eterno prestabilito disegno. Vedesi ancora che ognuna di queste quattro triadi tiene successivamente un ordine inverso a quello della precedente. Questi dodici anelli dunque si attengono e si continuano tra loro, e dimostrano una continuità di vita e di azione in tutto l' essere, in qualunque modo egli sia, nell' università del tutto. Questa dunque è la catena d' oro, che avvolge e stringe il tutto, e che noi chiamiamo catena ontologica; dalla dottrina della quale si vede, come le diversità e le opposizioni stesse, che distinguono le entità e moltiplicano gli enti, non impediscano punto che ci sia in tutto una continuità d' azioni, e quasi un trascorrimento non interrotto dell' essere dal principio alla fine di tutte le cose. Cosí conciliasi la grande antinomia tra l' unità dell' essere, e la moltiplicità de' relativi e degli enti stessi, e si completa quella dottrina che ha solo il suo principio nel sistema dell' unità dialettica. Poiché nella catena ontologica non si vede solo l' unità dialettica, ma una unità d' azione reale altresí. E quest' azione unica non toglie, anzi produce la diversità e la moltiplicità degli enti. Poiché l' identità dell' ente non dipende dall' identità dell' azione entica e creativa che si ravvisa nella catena, ma è relativa ai subietti . Ma acciocché meglio si veda il modo, per quanto è possibile, di questo continuamento d' azione, conviene considerare che cosa influisca la Causa eterna nel causato. Questo è quanto ricercare: « Che cosa la causa influisca nell' effetto ». Avendo noi veduto: 1) che la Causa prima opera per via d' intelletto astraente; 2) che tali astratti, come contenenti, cioè come idee, sono d' una forma categorica diversa dal subietto infinito da cui sono presi per opera della mente, e come contenuto, cioè come essenze, sono diverse dallo stesso subietto infinito per quell' opposizione massima che abbiamo detto trascendente; 3) che ciò che le rende diverse è appunto l' averle staccate col pensiero dal subietto infinito; 4) che tali astratti, quando vengano dalla mente stessa determinati in modo che non resti piú in essi da nessun lato nulla d' indeterminato, possono essere realizzati; 5) che appartiene ad un intelletto perfetto e infinito la virtú di realizzarli, volendo; 6) che l' intelletto divino non può essere che perfetto, e oltracciò essendo un tale intelletto l' essere stesso, il suo atto e il suo termine altro non può essere che attualità di essere subiettivo, onde il conoscerli a pieno in sé esistenti è realizzarli, realizzarli è un dar loro l' atto dell' essere subiettivo, ossia un crearli: avendo noi, dico, veduto la verità di tutte queste proposizioni logicamente necessarie e connesse tra loro, possiamo ora dedurre le seguenti conseguenze che risolvono la questione proposta: 1) La natura creata non partecipa niuna porzione della sostanza di Dio stesso; ma è una natura totalmente diversa da quella di Dio. 2) La natura creata ha un ordine di derivazione dalla natura di Dio, per mezzo del divino intelletto che la crea. 3) La natura creata partecipa di quelle essenze che sono cavate per un' astrazione divina dalla natura subiettiva di Dio, poiché essa è la loro realizzazione. 4) Quando si dice che la natura creata partecipa delle qualità e delle perfezioni di Dio, si deve intendere non d' una partecipazione immediata, ma d' una partecipazione mediana, cioè mediante le essenze astratte che furono create per opera della mente divina dalla natura subiettiva di Dio. Le quali essenze tuttavia partecipano di Dio non nel senso di vera partecipazione; perché esse sono, in se stesse, in tutto diverse dalla divina natura, nella quale esiste in loro vece un' essenza sola, che, in quanto è oggetto della mente, dà alla mente soltanto la miniera, per cosí dire, da cui ella può cavarle per astrazione, senza che l' essenza unica soffra cosa alcuna da quest' operazione puramente mentale. E tale perciò è la partecipazione mediata che s' attribuisce alla natura creata delle qualità e perfezioni di Dio; partecipazione che altro non significa, che un ordine di derivazione. 5) Dicendo similitudine e comunità astratta , altro non intendo se non questo: che quello stesso astratto che determinato che sia è realizzato, è quello che è stato tolto dalla natura subiettiva di Dio per opera della mente. Di che avviene che l' astratto tipico , o idea, si presenti alla considerazione della mente, come un termine medio tra la natura creata subiettivamente esistente e la natura subiettiva di Dio. Con questo la mente concepisce come una proporzione tra la natura creata, e Dio, della quale proporzione il detto astratto forma il termine medio: e questo è ciò che costituisce quello che si chiama grecamente analogia , o come alcuni dicono, similitudine d' analogia tra la creatura e il Creatore. 6) Ma poiché l' astratto tipico è contenente e contenuto, e in quanto è contenuto dicesi essenza ed ha forma subiettiva (non però da sé sussistente, ma contenuta), in quanto poi è contenente e dicesi idea è obietto; perciò rimane a cercare il rapporto tra la natura creata, e l' astratto tipico come obietto. Or questo rapporto è di opposizione categorica, poiché la natura creata non appartiene che alla forma subiettiva, e però ha un' opposizione massima coll' obietto. Niente dunque vieta, che l' astratto tipico nella sua forma d' obietto contenente sia un' attualità divina, e però sia l' Esemplare del mondo, contenente il mondo subiettivo. Ma attentamente si badi: il Mondo cosí considerato non è il mondo sussistente in sé fuori d' ogni contenente, ma è il Mondo sussistente nel contenente: non è dunque il mondo che noi esperimentiamo, non siamo noi stessi questo mondo, né sono gli agenti che operano nel nostro sentimento, perché tutto ciò è fuori del contenente, ed è tale in quant' è fuori dell' oggetto. Per non aver conosciuto ciò e non aver fatte queste distinzioni, è avvenuto che la questione del Panteismo sia divenuta cosí difficile a snodarsi, non vedendosi come si potessero conciliare queste due proposizioni: « il Mondo è in Dio », e « il mondo non è Dio ». Poiché quando si dice: « Il mondo non è Dio », si parla del mondo nella sua esistenza propria e relativa a se stesso, e cosí è verissimo; quando si dice: « Il Mondo è in Dio »si parla del Mondo contenuto nell' oggetto eterno. Questi due modi d' esistere del Mondo non hanno tra loro alcuna similitudine, ma solo un rapporto d' origine, e un' analogia, hanno un essere totalmente diverso, e un' opposizione massima; e però anche la seconda sentenza è verissima, né punto contraddittoria alla prima. Abbiamo fin qui esaminato, se la natura dell' ente finito sia influita in esso dalla prima Causa per via d' emanazione di sostanza; e abbiamo risposto negativamente, facendo vedere che l' ente finito nulla partecipa della sostanza infinita, ma partecipa di ciò che si contiene nell' essenze finite astratte dal divino intelletto dell' Essere subiettivo infinito. Ora ci rimane a vedere, se la prima Causa creando le nature finite, col dare loro l' atto dell' essere subiettivo, pel quale esistano in se stesse, dia loro qualche cosa di se stesso, cioè del proprio essere subiettivo. Tante volte abbiam detto che « l' ente finito non è il proprio essere ». In questa proposizione, colla parola essere può intendersi la propria essenza , ovvero l' atto dell' essere subiettivo che realizza quell' essenza. Ella è vera nell' uno, e nell' altro significato. L' essere infatti è comune a tutte le essenze, ed è comune del pari a tutti gli enti finiti realizzati. Questi due significati della parola essere, cioè l' essere delle essenze e l' essere de' reali finiti, hanno il loro fondamento nelle due prime forme dell' essere, l' obiettiva, e la subiettiva. Poiché l' essenza è contenuta nell' essere obiettivo, i reali finiti all' incontro esistono per un atto d' essere relativo a sé puramente subiettivo. Che cosa è dunque quest' essere? appartiene esso alla natura divina? Ora, che cos' è l' essere subiettivo de' reali finiti? Di nuovo, ove se ne consideri l' origine, esso è quell' atto della mente divina, appartenente alla facoltà del Verbo, con cui pronuncia che sia in sé ciò che intuisce nell' essenza tipica. Nella coscienza di Dio l' atto creativo non è cosa distinta da Dio stesso, poiché Dio è consapevole di creare, e quest' atto creativo è sua propria attualità indivisa da se stesso essere assoluto. Nella coscienza della creatura quest' atto apparisce come l' atto con cui essa creatura esiste, perché ha coscienza d' esistere: ma quest' atto del suo esistere non è altro, è separato interamente da Dio, perché Iddio che lo fa si rimane nascosto: è solamente il termine, o l' estrema punta, per cosí dire, dell' atto, poiché la creatura è appunto termine per rispetto all' atto creativo. La creatura nello stesso tempo è consapevole di non esser ella stessa l' atto nel quale esiste, ma d' esser quella che è fatta esistere per quell' atto, ond' ella sente di avere una relazione necessaria a quell' atto come a un suo altro, e quindi si chiama un ente relativo perché esiste per una tale relazione che ha coll' essere. E di conseguente ancora, quell' atto dell' essere le apparisce relativo a lei, come quello che non fa altro che farla esistere nella sua propria natura, la qual natura varia e costituisce le diverse e differenti creature. Ma il relativo, e l' assoluto non solo sono diversi, ma hanno un' opposizione massima e trascendente. Onde, tanto è lungi che l' atto creativo, che è Dio stesso Essere assoluto, sia il medesimo coll' essere che è partecipato dall' ente finito, che anzi questo si diparte dall' identità con quello, d' una distanza massima. Siccome dunque noi prima abbiamo detto che la limitazione ontologica cangia un ente in un altro, un essere in un altro, cosí l' essere che attua le nature finite, a queste congiunto, essendo reciso da Dio per rispetto a queste, non può menomamente confondersi coll' atto creativo, o coll' attualità stessa di Dio, o con Dio stesso: le quali tre maniere dicono in fine lo stesso. L' ente finito dunque partecipa di quell' essenza dell' essere, che s' intuisce nell' essere astratto, e non della sostanza dell' essere sussistente. Ma l' essere di cui partecipa l' ente finito ha un ordine d' origine coll' essere sussistente, perché da questo è tratto per opera della mente astraente di Dio creatore. Né l' uno, né l' altro dunque, de' due elementi, di cui si compone l' ente finito, cioè la sua natura e l' essere subiettivo , è una partecipazione immediata delle qualità, e perfezioni in Dio sussistenti, ma mediata, cioè per mezzo degli astratti di queste qualità e perfezioni. Tuttavia si frappone una differenza tra la partecipazione della natura, e la partecipazione dell' essere. La natura è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto tipico ; e la sola forma categorica è diversa, essendo la natura dell' astratto in forma obiettiva, e nel reale in forma subiettiva. L' essere subiettivo non è partecipazione di tutto ciò che si contiene nell' astratto essere, poiché vi si contiene l' essenza pura dell' essere, la quale è illimitata; ma partecipa tanto dell' essere, quanto n' è suscettiva, e questo quanto è pari alla limitazione della natura che viene attuata. Che poi l' essere astratto senza dividersi in se stesso, possa essere partecipato parzialmente dalle molte nature finite, nasce da quello che abbiam detto, che la detta partecipazione non è identificazione; ella invece è congiunzione di presenza, rimanendo l' essere sempre un altro dalla natura che lo partecipa, onde egli non si predica delle nature col copulativo è, ma soltanto col copulativo ha, come dicendosi: « quest' uomo ha l' essere ». Nella teoria che abbiamo data dell' origine che han gli enti finiti dalla loro causa, si trova altresí la ragione ontologica dell' attività e passività che si ravvisa nell' ente finito, di quella legge di sintesismo di cui abbiam fatto grand' uso nella Psicologia, e dello stivamento delle stesse nature finite, che, come abbiam detto, sono appoggiate e quasi addossate l' una all' altra, e insieme stipate nell' universo. Il proprio e immediato subietto della limitazione è la sola essenza che ha natura di termine; il principio nell' ente non è limitato come tale, ma riceve appunto la limitazione per questo che finisce il suo atto in un termine limitato o determinato quantitativamente. La limitazione dunque determina il termine, e il termine limitato limita ad un tempo e determina il principio. Se pertanto si tratta de' due principŒ, l' intellettivo e il sensitivo, separati per virtú della mente astraente da' loro termini, il problema della loro determinazione ha queste principali condizioni: 1) che sia loro dato un termine determinato; 2) che questo termine determinato non abbia l' essere identico col principio a cui si congiunge. Sorge indi da sé la domanda: che cosa sia questa congiunzione , che tiene separate di natura quelle entità, cioè il principio ed il termine, in modo che la mente può pensarle come enti diversi. E la risposta si è: che la natura di quella congiunzione e separazione consiste nelle opposizioni di attività e di passività , di dazione e di ricevimento , ossia di presenzialità e di ciò a cui l' altro è presente. Questa è l' origine ontologica di tali opposizioni, che solo nell' essere finito possono aver luogo. Perché l' opposizione di dante e di ricevente nell' infinito appartiene alle opposizioni originarie , e a quelle d' alterità modale , passando ella tra le forme personali; laddove l' opposizione di dante e di ricevente nel finito, o piuttosto di presenzialità, appartiene all' opposizione categorica ad un tempo e trascendente , tra il subietto finito (forma categorica) e l' obietto ideale (essere). Ma qual' è, si domanderà, la differenza tra l' atto di ricevere semplicemente, e l' atto d' agire? - Non deve intendersi certamente, che l' atto di ricevere sia un non7atto, una cosa senz' azione, come in un senso traslato si dice che una cosa morta, per esempio un vaso, riceve in sé un' altra cosa morta, un liquore. Trattasi di vero atto del principio ricevente, atto che nel caso nostro diciamo intuizione. Per atto di ricevere intendiamo dunque quell' atto, con cui un principio attua se stesso in relazione al suo termine, ma non passa nel termine stesso. L' effetto quindi, che l' atto del ricevere lascia nel principio che lo fa, è una sua propria attualità, per la quale egli ha posto se stesso in relazione al termine, è l' attualità del principio ultimata e determinata. Quando invece il termine dato non differisce di forma categorica dal principio che lo riceve, allora questo, coll' atto di riceverlo e di porlo come correlativo a sé medesimo, agisce sul termine stesso e lo modifica, gli dà con ciò una nuova attualità. L' essere oggetto, per divenire correlativo d' un principio intellettivo finito, non ha bisogno di ricevere alcuna nuova attualità o modificazione, perché è per sé assolutamente un correlativo al subiettivo; non fa dunque bisogno di renderlo tale. La cosa non va cosí quando la natura del termine sia la realità pura subiettiva, che è il termine proprio d' un principio che sia puramente sensitivo, poiché il subiettivo non è per sé correlativo al subiettivo. Allora dunque questo principio subiettivo dee, ricevendo il termine, pure appartenente alla forma subiettiva, operare su di esso, per dargli quell' attualità che gli manca, acciocché possa divenire un suo correlativo. Riassumendo noi dunque, altro è creare altro è ricevere , e altro è agire . Creare è un atto della Prima Causa Intelletto perfettissimo, che nel modo detto pensa per astrazione le idee tipiche degli enti finiti, e realizza le essenze contenute in esse, realizzazione che segue di necessità all' atto volontario pel quale l' eterno intelletto vuole liberamente conoscerli. Non c' è in questa divina operazione un subietto in sé esistente che riceva, ma c' è solo un subietto nell' idea, che riceve la realizzazione, e in quanto il subietto della realizzazione è nell' idea divina, in tanto esso e la sua realizzazione è in Dio: il reale poi di quell' essenza, in quanto esiste solo rispetto a sé e subiettivamente, in tanto è l' ente finito in sé esistente. Il ricevere , e l' agire sono atti dell' ente finito. Come nel tipo eterno di questo ente ci ha necessariamente la composizione di principio e di termine distinti di natura, essendo questa composizione la condizion necessaria dell' ente finito, cosí tale composizione è anch' essa realizzata nell' ente reale. Questo ente reale non appartiene che alla forma subiettiva , non è essere, non è forma obiettiva, né forma morale. Nell' ente subiettivo si distingue dunque il principio ed il termine a guisa di nature separate. Il termine può tanto appartenere alla forma obiettiva dell' essere, quanto alla forma subiettiva. Se il principio subiettivo reale ha per suo termine l' essere nella forma obiettiva, egli è con ciò costituito subietto intelligente: la sua natura non si confonde mai colla natura di questo suo termine obietto, ma egli ha con ciò una comunicazione subiettiva colle cose eterne, e divine. Egli però nulla agisce su questo termine, ma non fa che riceverlo . Se poi il termine dato al principio subiettivo appartiene anch' egli alla forma subiettiva, in tal caso 1) lo riceve , e 2) nell' atto stesso del riceverlo agisce su di lui, e agendo lo modifica, lo attua in modo che egli possa essere termine conveniente. Quest' unione dunque del principio e del termine non si fa solo con un atto di ricevimento , ma con un atto altresí d' azione sul termine . Se or noi riassumiamo, dovremo dir cosí: 1) Il concetto di azione, e di passione nasce dalla relazione che passa tra il principio, e un termine di natura diversa dal principio. 2) Quella maniera d' azione che consiste nel solo ricevere ha luogo quando la natura del termine è tale, ch' essa è per sé termine , e non ha bisogno d' altro che d' essere ricevuta, acciocché sia termine. Tale è l' essere obiettivo che informa il principio intellettivo. Questa maniera d' azione che riguarda l' essere obiettivo, sia intuizione o altra operazione intellettiva, è bensí causata dalla presenza del termine, tale per essenza, ma non passa nel termine, finendo nel subietto: onde noi la chiamiamo azione intransitiva . 3) Quella maniera d' azione che è ad un tempo ricevere e azione modificatrice è un' azione del principio, il quale non solo riceve il termine, ma per potere pienamente riceverlo e in sé congiungerlo, il modifica . Quest' azione ha luogo quando la natura del termine, diversa da quella del principio, non è termine per se stessa, ma deve esser fatta termine dal principio stesso, mediante una modificazione ch' egli le imprime. Da quest' analisi risultano diversi modi d' azione e di passione: a ) Nel termine corporeo due elementi si manifestano: 1) forza, ossia causa di moto; 2) estensione «( Ideol. , 750 7 753, .71, 1207 n. ) ». La forza non ha propriamente natura di puro termine, perché è attività, e ogni attività è propria de' principŒ. Questa forza, che si manifesta nel corpo, non appalesa il principio subietto al quale possa appartenere; ma pur questo, che rimane nascosto, ci deve essere, e noi l' abbiamo chiamato principio corporeo «( Ideol. , ..5) », mentre la forza quale apparisce ne' corpi fu da noi chiamata attività finale , che è quella in cui finisce l' azione d' un principio senza uscire da se stesso. L' attività finale dunque che è ne' corpi, e che trae l' origine da un principio corporeo come da un suo subietto nascosto, s' unisce col principio sensitivo, per un atto di questo che se l' appropria e la rende a se stesso termine, cioè sensibile «( Psicol. , 291 sgg.) ». Nell' esser data quell' attività finale che è ne' corpi al principio sensitivo come sua continuazione, e nell' atto dello stesso principio che se l' appropria rendendolo suo sentito, consiste l' unione dell' anima sensitiva e del corpo, ed è la costituzione dell' ente animato . E qui si osservi attentamente che ciò che il principio sensitivo fa in rispetto alla detta attività finale, è di renderla suo sentito , onde il sentito si distingue dalla detta attività come un fenomeno sensibile sopraggiunto alla medesima. A questo fenomeno, che ha ragione di puro termine, appartiene l' estensione . Questa è l' azione entica e costitutiva del principio sensitivo corporeo, la quale, essendo determinata dall' atto creativo, non può mai, per alcuna forza finita, interamente annullarsi «( Psicol. , 663 sgg.) ». b ) Il principio sensitivo dunque, già costituitosi ente nel suo termine coll' aversi unita ed appropriata l' attività finale, può produrre, dentro certi limiti, il movimento tanto nel proprio corpo, quanto ne' corpi esterni connessi col suo, come abbiamo dichiarato nella « Psicologia (2.. sgg., 1.13 sgg.) ». Questa sarà da noi detta in generale azione motrice dell' animale che si distingue dall' azione entica dell' animale, da cui però trae la sua origine. c ) In queste due maniere d' azione del principio sensitivo comincia ad apparire la passività . Poiché nell' una e nell' altra il termine viene modificato dal principio: nella prima maniera venendo reso sensibile e vestito d' estensione, nella seconda venendo esso mosso, e cosí modificato non in se stesso, ma nella sua relazione collo spazio. Questi dunque sono i primi due generi di passività che si ravvisano nella natura, l' uno e l' altro appartenente al termine del principio sensitivo: 1) passività dell' attività finale manifestantesi ne' corpi, che consiste nell' esser fatta un esteso sensibile - sentimentazione ; 2) passività d' esser mosso - mobilizzazione . Noi abbiamo veduto che l' Essere è necessariamente uno e trino. Abbiamo parlato dell' essere uno, e delle questioni che si presentano allo spirito quando questo si scontra nella antinomia tra la speculazione e l' esperienza. Le quali questioni sono indipendenti dalla triplice forma dell' essere, e però appartengono al trattato dell' essere uno. Ma, dopo di questo, il pensiero meditativo scopre questa sorprendente verità, che, sia l' ente uno o molteplice, esso ad ogni modo ha per necessità assoluta una triplice forma, vogliam dire, è in tre maniere, che noi abbiamo chiamato soggettiva o reale, oggettiva , e morale ; ed essendo queste di una estensione illimitata, stanno fuori di tutti i generi, e a tutti i generi sono superiori. Onde esse costituiscono la base della classificazione massima, e le classi massime furono da noi dette Categorie. Di quelle tre forme abbiamo dunque parlato sotto questo aspetto, in quanto esse prestano la base delle categorie, o de' predicati massimi degli enti. Convien ora che noi ragioniamo dell' essere quale è in ciascuna di quelle tre forme. Ma in quale primieramente? Nell' oggettiva. Poiché il ragionare appartiene alla scienza: quello dunque che è il primo della scienza, cioè che primo si conosce, conviene che sia anteposto nella serie del ragionamento. Ora niente si conosce se non sia oggetto dell' intendimento; e se non è oggetto, convien che si faccia oggetto acciò sia conosciuto. La forma dunque oggettiva dell' essere è quella che immediatamente si conosce, e che tocca, quasi direi, la mente; e conviene che le cose tutte, affinché sieno conoscibili, prendano questa forma. Fino a tanto che si tratta di una cognizione di cose finite, la loro forma oggettiva, per la quale si conoscono, fu da un tempo molto rimoto, denominata idea (1). Che cosa divenga (si tratta sempre di un divenire relativo alla mente umana) quando si tratti di conoscere l' infinito, noi l' abbiam già detto, e di nuovo ne tratteremo dipoi. Si consideri ora la sorpresa e la gioia intellettuale di quella mente speculativa, che meditando sulle diverse nature componenti questo mondo, le riscontra tutte limitate e soggette a varie passioni e corruzioni, eccetto però una sola, che al pensiero si presenta impassibile, immobile, incorruttibile, necessaria, eterna perché necessaria. Quale scoperta maggiore di questa? Quale entusiasmo non dee sollevare nel pensatore che la prima volta la coglie? Convenientemente doveva l' idea, questa natura cosí diversa da tutte le altre, essere chiamata il divino «to theion», come la chiamò Platone. Poiché in tutto quanto è ampio il circolo delle cose dell' universo, l' idea è il solo elemento che vi si rinvenga, il quale abbia del divino, e il solo nesso che unisca il mondo con Dio, e quasi il punto di contatto delle due sfere, del finito, vogliamo dire, e dell' infinito, e però l' unica via di comunicazione, per la quale l' uomo possa innalzarsi sopra se stesso, riconoscendo la sua natura quasi cognata alla divina, col suo punto piú eminente appesa a questa. Il che s' intenda del solo ordine naturale. Poiché se l' umana intelligenza per via di determinazioni logiche può argomentando pervenire a formarsi un concetto di Dio sussistente, anche in questo slancio ella appoggia il suo ragionamento sul punto fermo dell' idea, che sola contiene e svela qualche cosa di quel divino, di cui l' intero, nascosto, dirò cosí, dietro alla simbolica cortina della realtà di cui si compone il mondo, si viene argomentando e divinando. Ché l' idea arreca veramente in questo modo all' umana mente l' ammirabile facoltà d' una cotale divinazione. Avendo dunque Platone trovato l' unico elemento divino nella natura, cioè l' idea, non è a stupire, che egli, arricchito del principio di tutta l' umana scienza, ponesse come capo e cardine [...OMISSIS...] della filosofia « la dottrina degli intelligibili » [...OMISSIS...] ; la quale lo rese il maggiore tra' filosofi: se non fosse parola invidiosa, vorrei dire l' unico avanti Cristo. E l' idea, l' essenza sempre eguale a sé della cosa, gli parve dotata di tanta lucidità, che pose in essa l' evidenza, e da essa, quasi da un postulato non possibile a rifiutarsi, fece partire ogni ragionamento filosofico. Cosí nel Fedone: dicendo ch' egli suole prima di tutto supporre quella ragione, che è di tutte fortissima, e indi cercar quali cose consuonino ad essa, e queste giudicar vere; quelle poi, che da essa discordano, false. E volendo ivi dimostrare l' immortalità dell' anima, la ragione fortissima che presuppone, e da cui parte, è « « che ci sia qualche cosa di per sé bello, buono e grande, e del pari l' altre essenze » » [...OMISSIS...] ; e questo richiede gli sia conceduto senza provarlo. Onde le ragioni d' ammettere le idee, di cui Aristotele fa una critica che merita d' essere criticata, come vedremo, si riducono per Platone ad osservazioni interne su quell' atto d' intuizione immediata, con solo il quale s' apprendono le idee; e però non tendono ad altro, che a persuaderci che noi vediamo colla mente le essenze, piuttosto che a dimostrarci che ci debbano essere. E perciò Socrate poco appresso, nello stesso Fedone, cercando perché le cose sieno belle, dice [...OMISSIS...] ; il che è quanto dire, una sí fatta proposizione essere evidente, e niuno, comeché pensi sull' altre cose, poterla ragionevolmente negare. Trovata pertanto l' idea, e vedute le eccelse proprietà di essa, e la sua fecondità, era trovata quella via, di cui Socrate dice nel Filebo, che [...OMISSIS...] . E però l' analisi delle idee, ciascuna delle quali da una diventava piú, e la loro ricomposizione, che restituivale all' unità, erano il nativo carattere della platonica filosofia; ed offrivano alla mente la gran questione dell' antinomia tra l' uno e i piú, incominciata già a suscitarsi tra i Pitagorici e tra gli Eleatici, ma di cui non si conobbe la profondità e la perplessità se non quando Platone, che amava piú la verità che la vana disputa, ne cercò lo scioglimento nella misteriosa, ma natural connessione tra le idee stesse, come l' attestano il Parmenide, il Sofista e altri suoi dialoghi. Quest' unità e questa moltiplicità che ad un tempo si trova in ciascuna idea, quando si va ripensando, conduce alle piú curiose questioni, e fa errare lungamente lo spirito per gli interminabili andirivieni della dialettica. Cosí dopo Platone la dottrina delle idee divenne ad un tempo e argomento di gravissime meditazioni, e un luogo comune degli Eristici e de' Sofisti, che colle loro sottili fallacie la resero spinosissima (1). Ma chiuse le scuole greche, essendo prevalso Aristotele, il gran nemico delle idee platoniche, questa questione principale e vitale per la scienza fu riguardata come d' importanza secondaria, e le dispute che divisero il Medio Evo intorno agli universali non erano che una piccola parte della gran questione, a cui dava occasione la dialettica e lo studio dell' Organo di Aristotele e dell' Isagoge di Porfirio. Era un rimettiticcio del pedale dell' albero della dottrina delle idee troncato da Aristotele. Il solo che abbia sentito altamente l' importanza di questa dottrina dopo i greci filosofi, e che abbia conosciuto che da essa cominciava e ad essa appoggiavasi tutto lo scibile, fu Sant' Agostino (2). Egli si lamenta che al tempo suo manchino del tutto i filosofi, e che atterriti gli uomini dal dubbio, stato sparso su tutte le cose dall' ultima Accademia, disperino di trovare essi quello che non aveva potuto trovare Carneade, onde il torpore e la pigrizia degl' ingegni; e per rompere e da sé rimuovere quest' odioso impedimento al filosofare, dice avere scritti i libri contro gli Accademici, dove mostra che si dà e che si può trovare la verità. Cosí, egli a Ermogeniano (3). Piú tardi il maggiore sforzo, che sia stato fatto per restituire la dottrina delle idee al posto che le compete, fu quello dell' Accademia medicea (1). Ma per le sciagure pubbliche, e per la nostra mollezza, o Italiani, perí troppo presto quella nobile istituzione; e ora, chi mai appresso di noi ne parla piú, o chi scuote la polvere ai volumi scritti da que' generosi ingegni, che si conservano come cose preziose, essendo divenuti rari nelle nostre biblioteche? Queste idee dunque sono l' essere nella sua forma oggettiva, quando si parla di enti finiti; che se si parla dell' infinito, l' oggetto allora è più che idea, come noi dicevamo. Ma non può essere completo il discorso dell' essere ideale, che forma l' argomento di questo libro, se non si considera la sua forma oggettiva in tutta la sua ampiezza. Onde, quantunque non ci proponiamo al presente d' esporre la teoria dell' essere oggettivo in quanto è infinito, il che appartiene alla Teologia, ma solo in quant' è ideale; pure non possiamo parlare di questo, senza avere un continuo riguardo a quello. Converrà dunque, che noi in questo libro consideriamo l' essere oggettivo sotto tre aspetti: come essere per sé manifesto , come essere manifestante , e come essere manifestato . Trattando dell' essere per sé manifesto, benché involga una relazione ad una per sé mente, noi lo considereremo in un modo assoluto, ossia indipendentemente dalla mente umana. Ma in quanto l' essere oggettivo è anche manifestante, lo considereremo in congiunzione colla mente umana. In quanto poi esso è l' essere manifestato, noi parleremo della sua congiunzione colle cose reali che fa conoscere. Il rispetto poi da noi dovuto a quel filosofo originale, che il primo arricchí il mondo di una magnifica dottrina intorno alle idee, e cosí del vero e solido fondamento di tutta l' umana scienza, al quale saremmo ingrati se non ci dichiarassimo discepoli di quest' ordine della naturale speculazione, ci muove a investigare, se anche Platone distribuisce a questo modo le ricerche che si possono fare intorno all' essere ideale, o se altramente. Al che fare mi sembra opportuno un luogo del Filebo. Parmenide avea ridotte tutte le cose all' uno. I Fisici, avanti e dopo Parmenide, volevano i molti, e non l' uno. Successero di quelli che nell' uno trovavano i molti, e nei molti l' uno. Ma queste questioni astratte rimanevano perdute ne' viluppi delle sottigliezze dialettiche perché non si distingueva accuratamente l' ideale dal reale (giacché l' uno e i molti possono appartenere all' uno e all' altro, spettando all' essere e non alle forme dell' essere), e non era ancora trovata la dottrina delle idee, né conosciuto come queste costituissero la forma degli enti reali. Qui stava il segreto dell' involuta questione, e il solo Platone pienamente il possedeva. Or questa maniera, nella quale si pretendeva dimostrare che i molti fossero l' uno, e l' uno fosse molti [...OMISSIS...] dice Socrate nel Filebo, esser già divenuta volgare ed acconsentita da tutti senza maraviglia, né consistere in essa la questione importante e difficile. Dove dunque? - Risponde Socrate, che dell' uno si può discorrere in due modi. Poiché, o si parla di tal uno, che non ha a far nulla colle cose che nascono o periscono, ed è quanto dire dell' uno astratto; in tal caso non si può rifiutarlo; né è da farci sopra contrasto. O si parla dell' uno partecipato; [...OMISSIS...] Platone dunque primieramente distingue la questione dell' uno separato, che è quanto dire dell' essere, da quella delle idee piú o meno determinate, che come altrettante unità danno l' unità ai singoli enti; e intorno a queste vuole che si domandino tre cose, se veramente sono, se sono immutabili, e come si comunichino ai reali rendendo uno ciascuno di questi. La questione dell' essere unico e semplicissimo, che costituisce il fondo di tutte le idee, e dell' unità astratta che è un concetto elementare del medesimo, si discute da noi nella prima parte di questo libro, dove si parla dell' essere per sé manifesto; e qui pure cadono i due primi quesiti intorno alle idee: se sono, e di quali proprietà vadano fornite. Il terzo quesito che propone Platone riguarda la congiunzione delle idee colle cose reali, e questo si discute da noi nella terza parte. Ma quello, intorno a cui versa la seconda parte del libro presente, cioè della congiunzione delle idee colla mente, non si trova indicato nell' accennata distribuzione di Platone. E veramente pare, che il grand' uomo non abbia posto eguale attenzione a quest' ultima ricerca importantissima. Perocché quantunque non gli potesse sfuggire, essendo tanto capitale, tuttavia non la propone mai direttamente e separata dall' altre, ma ne parla quasi per incidenza in varŒ luoghi, e senza bastevole distinzione e chiarezza: al che forse dee attribuirsi tutto ciò che rimase di oscuro nella teoria delle idee esposta da Platone; poiché, come vedremo, dall' intendere chiaramente in che modo l' essere ideale e le idee comunichino colle menti umane, dipende l' intendere come esse comunichino coi reali. Di che consegue, che l' investigare in che modo le idee illustrino la mente, dee precedere all' investigare in qual modo esse facciano l' ufficio di forme delle cose reali. Riassumendo adunque tutta la serie della trattazione che si contiene nel presente libro, diciamo ch' ella si distingue nelle tre parti seguenti: Parte I Dell' essere per sé manifesto. Parte II Dell' essere per sé manifesto in congiunzione colla mente umana; ossia dell' essere manifestante. Parte III Dell' essere per sé manifesto all' uomo in congiunzione colle cose reali; ossia dell' essere manifestato. Il concetto del per sé manifesto , come s' esprime con due locuzioni, per sé e manifesto , cosí si può analizzare dividendolo in due altri concetti: 1) Il per sé unito al manifesto significa, che l' essere non sarebbe se non fosse manifesto, onde gli è essenziale questo: di essere manifesto. Un tal essere dunque o non è, o è manifesto. Ma poiché l' essere non può non essere, perciò l' essere è; e collo stesso atto con cui è, è anche manifesto. 2) Il concetto di manifesto abbraccia i due concetti di manifestante e di manifestato, e di piú la loro identificazione; ed anzi in questa identificazione consiste il concetto di manifesto , e hanno origine le differenze di questo concetto da quelli di manifestante e di manifestato singolarmente presi. Il che significa, che per sé manifesto è quello che coll' atto stesso con cui si manifesta, e però è manifestante, è anche manifestato; laddove quello che è semplicemente manifestato non è per ciò manifestante, e quello che è manifestante, benché sembri dover essere manifestato, non è che deva essere manifestato per sé, ma può essere anch' egli manifestato da un altro. L' essere dunque per sé manifesto conviene che manifesti, e cosí sia manifestante; e che manifesti se stesso, e cosí sia ad un tempo manifestato; e di piú, che queste due qualità di manifestante e di manifestato costituiscano l' identico atto della sua natura; a queste condizioni, l' essere è per sé manifesto. L' essere, se non si manifestasse da se stesso, egli non potrebbe essere manifestato da niun' altra cosa, perché fuori dell' essere non ci sono altre cose. Il nulla non può manifestare ciò che è, il nulla non può manifestar nulla. L' essere dunque dee per prima dote aver questa: di manifestarsi per se stesso, di esser luce. Dunque l' essere per sé manifesto contiene due intrinseche relazioni distinguibili dalla sola mente, e non punto distinte in se stesse: 1) di essere manifestante, 2) di essere manifestato: due relazioni che si distinguono mentalmente nello stesso atto di essere, la quale identità di atto acquista semplicemente il nome di essere manifesto. Che si conosca dalla mente umana l' essere manifestato, questo non ha difficoltà alcuna. Ma perciò appunto, come possiamo noi conoscere o possiamo ragionare dell' essere manifestante?. Questo prova all' evidenza, che la mente umana non potrebbe arrivare a conoscere il manifestante, se non ci fosse un essere il quale identificasse in sé le due qualità di manifestato e di manifestante , il che è quanto dire, se l' essere non fosse per sé manifesto. Onde conviene incominciare di necessità dall' essere per sé manifesto , che dialetticamente è la sintesi del manifestante e del manifestato . E di vero, se l' essere coll' atto stesso con cui è manifestato non fosse manifestante, giammai la mente umana non potrebbe salire al concetto di manifestante, e senza questo non ci sarebbe piú l' umano ragionamento. Ma il ragionamento c' è, e c' è il concetto di manifestante. Dunque è necessario, per ispiegare l' uno e l' altro, ammettere un essere che sia del pari manifestante come l' idea , e manifestato come l' essenza . E` dunque necessario che l' essenza si veda nell' idea, come abbiam detto altrove (1). La riflessione è quella che s' accorge che l' essere davanti all' intuito ha queste tre condizioni, di manifestato, manifestante e manifesto. Ma come se n' accorge ella? E nell' ordine logico della riflessione, qual è la prima di esse che si presenta? La prima è quella dell' essere manifestato ; nulla potendo essere oggetto del pensiero, che restasse nascosto al medesimo. E acciocché il pensiero giunga a dare all' essere che gli sta presente quest' attributo di manifestato, la mente pensante dee: a ) aver prima percepito se stessa nell' essere, b ) aver riflettuto sopra di sé, e resasi consapevole di conoscer l' essere, c ) averne altresí dedotta la conseguenza, dicendo che l' essere è dunque a sé manifestato. Dopo di tutto questo la riflessione domanda, chi può averle manifestato l' essere. E non trovando davanti a sé altro che l' essere manifestato, non può ricorrere ad altra causa; e d' altra parte, vede che qualora anche ci fosse questa causa, sarebbe anch' ella essere, onde di necessità l' essere sarebbe il primo cognito ; di che si conchiude, che l' essere manifestato è essenzialmente manifestante . Ma dopo aver conosciuto che l' una e l' altra di queste attribuzioni gli appartiene per la sua essenza di essere, la quale essenza è atto semplicissimo; conchiude che la qualità di manifestante e di manifestato è una sola nell' essere, distinta in due per opera della mente: onde, per esprimere l' identificazione di queste due qualità, ella dà all' essere la qualificazione di essere per sé manifesto ; e questa è l' ultima e piú completa notizia, che raccoglie la riflessione. Prima di venire a quest' ultima, il pensiero umano dimora lungamente nella considerazione dell' essere e degli enti in sé, cioè dell' essere e degli enti anoetici; e a considerar l' essere non perviene che di poi. Laonde giustamente Aristotele distingue le cose che sono piú note per loro natura, da quelle che sono piú note relativamente a noi; e dice che coll' umano discorso si deve procedere [...OMISSIS...] : dove per piú note a noi si deve intendere le prime a noi note per riflessione; e per piú note secondo natura, si devono intendere quelle che sono intelligibili per se stesse. Questo progresso della riflessione della mente è quello, che apparisce nella storia della filosofia. La filosofia italo7greca cominciò dalla considerazione degli enti in sé, cioè dalla Fisica degli Jonici. Ma non trovandosi nella natura nessun elemento che fosse necessariamente costante e scevro da ogni possibile cangiamento; convenne confessare che nella natura non c' era un ente immutabile, col quale si potesse spiegare lui stesso e l' altre cose; cioè non c' era un ente che contenesse in sé la ragione di sé medesimo e delle altre cose. Allora vennero i Dorici a dire che conveniva cercare quest' ente al di là delle cose sensibili, e s' abbatterono nell' essenza intelligibile «noeten», che è quanto dire portarono la riflessione sull' essere ideale. Questi furono gli Eleatici, a cui aveano già spianata la strada i Pitagorici (2). Giunti colla riflessione all' essere ideale, trovavansi già nel campo dell' essere manifestante, manifestato e manifesto; e indi prese un nuovo corso la filosofia: potremmo anzi dire che indi incominciò. Ma poiché la riflessione, anche pervenuta all' essere per sé manifesto, è obbligata a fare questo progresso, che prima il consideri come manifestato (essenza), poi come manifestante (idea), finalmente come manifesto (essere oggetto); perciò noi vediamo esser comparso prima Parmenide, che l' essere manifesto considerò, piú che altro, come essere manifestato, trattando dell' essere come essenza: di poi esser venuto Platone, che insegnò la teoria delle idee. Ma dell' essere manifesto, come manifesto, e dell' essere in tutta la sua pienezza, rimane a considerare. Essere manifestato, vuol dire essere conosciuto. Convien dunque cercare la nota caratteristica ed evidente della cognizione. Ora, la cognizione prima di tutto dee avere un oggetto. Conoscere qualche cosa, è proposizione identica a quest' altra: « sapere in qualche modo, che sia quella cosa ». Sapere che sia quella cosa è proposizione identica a quest' altra: « sapere l' essenza di quella cosa ». Ora, il conoscere l' essenza di un ente, importa egli necessariamente che quell' ente sussista realmente? No, ché noi possiamo conoscere l' essenza di molte cose possibili, e non sussistenti. Ne viene spontanea la conseguenza, che la cognizione di certe cose, di certi enti, si può avere senza che essi sussistano. Dunque la sussistenza di tali cose non è quella, che le manifesti a noi. Dunque rispetto alle cose contingenti l' essere loro reale e sussistente è bensí manifestato, ma non è manifestante, e però non è l' essere manifesto. All' incontro, se noi abbiamo quella prima cognizione dell' essenza, noi potremo aggiungere ad essa altre cognizioni, e prima di tutte, che quell' ente, a noi già noto, sussiste. E qui si consideri bene, che il sapere che un ente a noi noto sussiste o non sussiste, non cangia l' essenza a noi nota dell' ente. La nuova cognizione dunque della sussistenza di un ente a noi noto è cosa accidentale rispetto alla cognizione dell' ente. Ma l' esserci data la sussistenza, conoscendone noi l' essenza o in sé o in un' altra essenza che la contiene, fa sí che noi possiamo conoscere l' ente a noi noto per l' essenza, perché nell' essenza già si contiene la sussistenza possibile. L' essenza dunque è quella che fa a noi conoscere la sussistenza di un ente, quando questa sia a noi data; l' esserci data, non ce la fa conoscere, ma è una condizione, posta la quale, noi la riconosciamo. Perciò noi chiamiamo l' essenza, ossia l' idea, che è l' essenza in quant' è manifestante, forma della cognizione; e la sussistenza del contingente abbiam chiamato materia , come quella che non è manifestativa. L' essenza adunque della cosa intuíta dallo spirito manifesta la sussistenza delle cose, quando questa sia data. Ma poiché questa seconda manifestazione non altera l' essenza; dunque la mutazione, che v' ha nell' aggiunta di questa nuova notizia, rimane unicamente nello spirito reso intelligente dall' essenza. E` lo spirito che ha fatto un nuovo atto, che acquistò una nuova notizia intorno allo stesso oggetto che conosceva; ma non acquistò una nuova essenza. La notizia dunque della sussistenza della cosa è di tutt' altra natura dalla notizia dell' essenza della cosa: questa è l' oggetto che sta davanti allo spirito, quella è una notizia per la quale lo spirito conobbe un nuovo modo del noto oggetto: la prima è quella che Platone chiama mente «nus», la seconda è quella che egli chiama opinione vera «doxa alethes» (1). La realità dunque è un modo dell' oggetto, non è l' oggetto dello spirito intelligente. Se dunque la notizia della sussistenza nasce per un nuovo atto dello spirito intorno allo stesso oggetto; dunque ella si riduce ad un nuovo atteggiamento dello spirito intelligente relativamente all' oggetto del conoscere: e come la notizia dell' essenza è la parte oggettiva della cognizione, cosí la notizia della sussistenza è la parte soggettiva , che si sopraggiunge all' oggettiva, da cui riceve natura di cognizione. Ma se l' essenza della cosa contingente ha natura di essere manifestante , ha ella poi anco natura di essere manifesto ? Abbiam detto, che per aver notizia di un sussistente a noi dato nel sentimento, faccia mestieri, che noi ne conosciamo l' essenza. Ora, l' essenza che ha l' estensione massima è l' essenza dell' essere privo di qualunque limitazione. Onde basta che uno spirito abbia l' intuizione dell' essere , che sappia che cos' è essere senza piú, a ciò ch' egli possa acquistarsi la notizia di qualsivoglia sussistente che gli sia dato. Perocché, quantunque non preceda l' intuizione dell' essenza speciale di quel dato sussistente, tuttavia precede nello spirito un' essenza assai piú estesa, che riceve la sua limitazione dalla stessa sussistenza che fa conoscere. Quindi procede, che le limitazioni poste dal nostro spirito all' essenza dell' essere, secondo i sentiti a cui si applica, sieno quelle che convertono l' essenza universale dell' essere nelle essenze specifiche e poi, per astrazione, nelle generiche . E però quanto nelle essenze c' è di limitato, tutto è dovuto ai reali sussistenti da noi sentiti; onde queste limitazioni non appartengono all' essere manifestante , ch' è l' essere puramente oggettivo. Rimane dunque che il puro essere senza limitazione sia il solo manifestante, come è per se stesso manifestato: e però egli solo sia l' essere per sé manifesto . Dai quali ragionamenti discendono i seguenti corollarŒ: I Non tutti gli enti sono manifestati e manifestanti . II Tutte le essenze specifiche e generiche hanno in sé un elemento, che è ad un tempo manifestato e manifestante. III La sussistenza de' contingenti non essendo contenuta nella loro essenza ; questa può essere senza di quella. IV La parola essenza applicasi all' ente in quanto è manifestato e manifestante, considerandolo nella relazione di manifestato ; e la parola idea o concetto esprime lo stesso ente nella relazione di manifestante . E come alla parola essenza risponde la parola sussistenza , cosí alla parola idea corrisponde la parola realità . V La natura del reale o sussistente, che può esser manifestato, ma non è manifestante, consiste nel sentimento e in tutto ciò che cade nel sentimento. VI Come le essenze sono l' oggetto del conoscere; cosí le mere sussistenze, riducendosi al sentimento, riduconsi di conseguente a quello che si chiama soggetto . VII Tutte le essenze degli enti limitati si riducono in una essenza sola veramente oggetto puro, e tutte le altre sono quella medesima essenza, ma limitata. VIII L' essere puro è dunque il solo per sé manifesto : collo stesso atto, manifestante e manifestato. In quanto è manifestato, si prova essere semplicemente in sé (anoetico); in quanto è manifestante si prova essere in sé presente ad una mente (dianoetico). Ora che l' essere manifesto all' uomo sia uno, scorgesi da queste osservazioni: 1) L' atto della mente, ossia l' intuizione (1), colla quale noi ci affissiamo nel puro essere, prescindendo affatto dalle sue determinazioni, è uno e semplicissimo; e ciò, perché a lei risponde un unico e semplicissimo oggetto, l' essere puro (essere universale, ideale, possibile, sono voci che indicano lo stesso essere con qualche relazione annessa) (1). 2) Dall' idea dell' essere universale si distinguono gli altri concetti col limitare e determinare quella prima. Ella dunque rimane in se stessa la medesima; ma lo spirito la considera in diverse relazioni colle cose che manifesta; e per ciò ella è una ed identica in tutti i concetti, né si distingue da questi, se non per le dette limitazioni e relazioni che ella riceve. Quindi le maniere di dire della Scuola: che la sostanza, la quantità, la qualità, ecc. contengono l' ente (2), il che è quanto dire sono sue limitazioni; ovvero che l' ente si divide ne' dieci predicamenti (3), e il dividere qui non è che un limitarlo colla mente. I concetti inferiori al concetto dell' ente, 1) si riducono all' idea dell' ente per ciò che hanno di positivo nella loro idealità; 2) si distinguono per ciò che hanno di negativo; 3) si distinguono di nuovo per ciò che hanno di positivo reale; il quale ultimo elemento li rende anche re et non ratione tantum distinti dall' idea dell' ente, che è purissima da ogni elemento reale. Ma prima che la mente speculativa pervenga a discernere questo fondo comune di tutte le idee, ella si persuade che molte sieno tra loro assolutamente separate. Ora, sia in quello stadio di filosofia, in cui si credono le idee esser molteplici, e l' una all' altra incomunicabile, sia in quello piú avanzato in cui se ne considerano i legami che le congiungono, accade che l' uomo divinizzi le idee. Poiché, osservandosi nelle idee tutte qualche cosa d' immutabile, di necessario e d' universale, attributi che appartengono alla natura divina, è agevolissimo a conchiudersi, che dunque alle idee spetta questa natura. Quindi due diversi errori: il politeismo idealistico ; e il monoteismo idealistico . L' uno e l' altro è un ideoteismo . Quanto al primo, se ne trovano le traccie ne' poeti che hanno preceduto Platone, i quali diedero alle idee i nomi di Dei. Cosí Epicarmo uditore di Pitagora (1), scriveva: [...OMISSIS...] : dove sotto il nome di Dei sono indicate le essenze immutabili. Platone nel Parmenide dice doversi concedere a Dio la scienza piú squisita, cioè quella delle essenze ossia delle idee; e quello che dice di Dio, lo dice appresso degli Dei. Qui sembra che distingua tra le idee possedute, e la divina natura che le possiede. Ma ben si vede, che queste idee in Dio non sono per Platone puramente oggetti di conoscere, ma sono altrettante essenze reali che informano la divina natura. Cosí pure nel Timeo dice che gli Dei sono partecipi dell' intelligenza, che è quella che comprende le idee, perché queste sono i puri intelligibili ( «eide noumena monon») (3); colla quale sentenza sembra che distingua di novo le idee dagli Iddii che le possedono. Ma nondimeno quelle idee, come si vede in appresso, sono in Dio (poiché qui usa il singolare) altrettante virtú reali ed operative. Ma d' altra parte sembra che queste idee, in quanto sono in Dio in una unità ordinatissima, costituiscano Dio stesso, secondo Platone; poiché dopo aver egli detto che Iddio le comunicò alla materia per quanto questa n' era capace (4), e cosí diede ordine al mondo, considera quest' opera come una comunicazione che Dio fa di se stesso quasi producendosi e generandosi nel mondo. Ed è a notarsi che incontanente soggiunge: « « Poiché convien distinguere due specie di cause, l' una il necessario [...OMISSIS...] , l' altra il divino [...OMISSIS...] » ». Il necessario è la materia, ossia la pura realità senza forma: il divino dunque rimane la pura forma, la pura idea partecipata. Cosí Platone cade nel razionalismo (non però senza qualche felice incoerenza con se stesso), ossia nella deificazione delle pure idee, perché chiamando queste il divino , loro contrappone e però esclude da esse il necessario , cioè la realità pura ed informe. Dal divino poi e dal necessario, come da due cause elementari, fa nascere il congiunto, cioè il mondo e i singoli enti che lo compongono. E perciò chiama il mondo « « un unico animale, contenente in sé tutti gli animali mortali ed immortali » » [...OMISSIS...] . La natura divina dunque per Platone non è che la natura delle idee. Ma poiché è impossibile separarla al tutto dal reale, vi aggiunge questo senza accorgersi che alla loro essenza non appartiene. Ora a tutti que' filosofi, che non hanno ben colta la diversità tra questi due modi di essere , il reale e l' ideale, accade che li confondano rendendoli un solo: taluni facendo che il modo reale prevalga quasi non ci fosse altro che esso, e questi senza confessarlo, e senza accorgersi, all' ideale attribuiscono anche le proprietà del reale; taluni altri facendo che prevalga il modo reale, a cui pure danno le proprietà dell' ideale. Lasciando questi ultimi, che sono volgari e di minor conto, i primi vedono facilmente la diversità de' due modi quando considerano la realità finita , perché questa si pensa direttamente come immune dalle idee; e cosí Platone, introducendo il Demiurgo a fabbricare il mondo, pose da una parte la materia qual causa necessaria, dall' altra la forma qual causa divina: ma non vedono piú quella diversità, quando si tratta d' una realità infinita e invisibile, di quella cioè di cui abbisogna lo stesso essere ideale per esistere. E allora accade loro che, attribuendo una realità alle idee stesse, non s' accorgono d' attribuir loro una cosa che non è idea, né parte d' idea, ma tutt' altro. Nello stesso tempo però tali dotti filosofi dal linguaggio stesso rimangono traditi; ché non trovano maniere di dire, se non tali che attestano quanto quelle due forme di essere si dispaiono tra loro, e restano sempre due, inconfusibili. Cosí Platone nel Filebo, dopo aver posto come principŒ l' uno cioè le idee, e i molti cioè la materia indefinita, e in terzo luogo il misto che dall' unione di que' due risulta, trova necessario un quarto principio, cioè la causa di quell' unione, la quale causa è Dio (2). Qui dunque Iddio apparisce distinto dalle idee stesse; e però questo discorso non consuona col chiamarsi da Platone cosí sovente le idee assolutamente il divino ( «theion»). Essendo dunque Platone espresso con maniere cosí incerte e vacillanti, non è maraviglia che i suoi discepoli si sieno in appresso divisi. Perocché alcuni ponendo mente all' unificazione delle idee in Dio, e spingendo l' uno di Platone all' eccesso, hanno collocata la natura divina in una nudissima astrazione sulle stesse idee esercitata; altri hanno concepito un Dio organato, per cosí dire, d' idee molteplici; e i piú, di queste stesse idee, separate le une dalle altre, fecero altrettanti Dei. Ma in fine tutti, si può dire, nel fondo idolatrarono le idee. A questa confusione mostruosa, o almeno oscurità di parlare, si deve attribuire lo scredito del Platonismo. Rare volte i discepoli hanno il coraggio di analizzare le idee non analizzate dal maestro, nel che sta il vero progresso; e in quella vece, spogliando il maestro stesso delle sentenze piú nobili e del linguaggio da lui trovato e arricchito di forme opportune, in mille modi giuocano di questi materiali della scienza, quasi come colle noci i fanciulli, senza romperle e cavarne il gheriglio. Cosí certe frasi e parole della scuola, di altissimo significato, che tanto dilettano e innalzan la mente quando si sentono nella bocca o negli scritti del maestro, inviliscono appresso i discepoli e annoiano per l' abusata loro ripetizione. L' uomo dunque ha per oggetto del suo naturale intuito l' essere puro, ma indeterminato; e quest' essere E` per sé manifesto. Ora una speculazione ontologica piú avanzata trova pure che l' Essere divino od assoluto deve essere per sé manifesto (1). Nasce dunque il dubbio, se l' essere naturalmente intuíto dall' uomo sia Dio. Le ragioni che potrebbero persuadere a una risposta affermativa, sono principalmente le due seguenti: 1) La qualità di essere per sé manifesto è una qualità ultima, e perciò divina: perché se l' essere manifesto non riceve la luce altronde, ma egli la dà alle cose che non sono per sé manifeste; dunque, come tale, egli è indipendente da ogni altro essere, e primo nel suo ordine: il che non può appartenere che a Dio. 2) Se l' essere per sé manifesto all' uomo non è Dio, dovendo essere anche Dio per sé manifesto, procede che ci sarebbero due esseri per sé manifesti, e quindi due principŒ intelligibili, il che sembra assurdo: che è assurda la dualità di principŒ supremi dello stesso ordine. Le quali difficoltà cadono davanti alla dottrina dell' essere assoluto, e dell' essere relativo. Poiché l' essere che è un modo unicamente relativo di esistere non pregiudica alla pienezza dell' assoluto, e neppure alla sua unicità [...OMISSIS...] . Onde non v' è che un solo essere assoluto per sé manifesto. Ma ciò non toglie che ci sia un altro essere per sé manifesto relativamente, cioè relativamente all' umana intelligenza, o ad altre intelligenze finite che sono esse stesse enti relativi. E poiché gli enti relativi non sono necessari, ma contingenti, perciò potrebbero cessare, con che cesserebbe l' essere manifesto relativo ad essi: onde non c' è che un solo essere che sia necessariamente manifesto, e questo è Dio. Laonde l' essere per sé manifesto relativo alle intelligenze finite, non è già indipendente dall' essere per sé manifesto necessariamente e assolutamente, perché, quantunque sia per sé manifesto, e come tale non abbia nulla al di là di sé, tuttavia è dipendente come essere relativo: di maniera che, come ha cominciato col cominciare delle intelligenze finite, onde può dirsi ad esse concreato, cosí cessando esse coll' annullamento, anche egli verrebbe a cessare. Né involge alcuno inconveniente, che gli enti relativi e contingenti partecipino qualche cosa di divino, purché questo elemento divino non costituisca la loro base; che anzi ragion vuole che conservino qualche traccia del suo autore, e però qualche elemento o relazione divina. E quindi abbiamo veduto che tutti i contingenti, sebbene non sieno l' essere, tuttavia hanno l' essere, che è cosa divina, non come loro base , né come loro propria appendice , ma come un loro antisubietto e condizione necessaria ad esistere in sé. Né s' incontra in ciò alcun pericolo di panteismo, perché tali enti non sono tal elemento divino, ma solamente lo hanno . Il nulla non può manifestar nulla; quello che manifesta è necessario che sia l' essere stesso [...OMISSIS...] . Dunque l' essere manifesto all' uomo non è il nulla. E tuttavia non fa maraviglia che i pensatori abbiano trovato tanta difficoltà ad ammettere che il puro essere indeterminato stia davanti alla mente, non accorgendosi che neppure lo potrebbero negare se non ci stesse. L' origine della difficoltà nasce da quel carattere che ha l' essere d' apparire come un nulla relativo [...OMISSIS...] , che è quanto dire, di non avere comprensione alcuna. Questo stato d' indeterminazione, che ha l' essere davanti alla mente, presenta la difficoltà di riflettervi, tra gli altri, sotto tre aspetti. Da parte della sua indeterminazione , non si può concepire come possa stare davanti alla mente la pura esistenza separata da tutti gli esistenti. Da parte dell' unità deficiente , riesce difficile a concepire un oggetto, a cui manca il termine per essere un ente. Da parte della sua somma semplicità , pare all' uomo di non conoscere, quando egli non avendo due o piú cose da mettere a confronto, di conseguente non conosce differenza di sorte alcuna. I filosofi che si lasciarono scuotere da queste difficoltà, omettendo di esaminare accuratamente il valore, presero diversi sistemi per eluderle. I primi, superficiali, dissero che l' idea d' esistenza, come gli altri astratti, si traeva per opera della mente dagli enti reali percepiti; senza accorgersi di due inconvenienti, cioè: 1) che se l' idea di pura esistenza si tolga coll' astrazione dagli enti percepiti, questa già s' ammetteva per data nella percezione, in maniera che restava a spiegare la percezione stessa. Perocché l' astrazione non fa che separare, e separare a parte, gli elementi che già ci sono, e però non crea né l' idea d' esistenza, né alcun altro elemento che cada nel percepito; 2) che se l' idea d' esistenza si può pensare astratta da tutto il resto, dunque convien conchiudere ch' ella possa stare davanti alla mente anche separata da ogni esistente. Dunque la difficoltà rimane la stessa (1). Altri, piú superficiali ancora, negarono al tutto l' essere ideale, non solo perché non rappresentava un contenuto reale, ma per una ragione assai piú sciocca; cioè perché non lo vedevano e toccavano, ond' anche lo mettevano in derisione: ché i filosofi volgari e minuti ricorrono sempre a questo argomento del riso. Fra quelli che riducevano a un nulla l' essere ideale, meritano in terzo luogo d' essere accennati i Nominali di tutti i tempi. Altri credettero che l' essere che sta davanti alla mente come suo lume fosse Dio stesso. Finalmente v' ebbero de' filosofi che negarono al tutto i possibili eterni, e con ciò le idee. Tutti questi filosofi erravano per non aver distinti i due modi di concepire l' essere, cioè come avente un' esistenza subiettiva indipendente dalla mente, e come avente un' esistenza obiettiva, la quale è bensí un' esistenza in sé, ma essenzialmente condizionata alla mente. Videro che non poteva avere il primo modo di essere, e però gli negarono ogni modo. E veramente l' essere indeterminato non può sussistere in un modo indipendente dalla mente, e in sé solo. Ma che sia in sé davanti alla mente, non c' è ripugnanza. E che sia distinto dalla mente, è manifesto, avendovi contraddizione nel dire che la mente fosse l' essere indeterminato, o viceversa. E che l' essere indeterminato non sia il nulla, del pari è evidente, poiché il nulla e l' essere sono contraddittorŒ. E se non c' è il contenuto, c' è però il contenente, e il contenente non è nulla, ed anzi pare che il contenente abbia qualche cosa di piú ampio del contenuto. Nullismo si chiama quel sistema di filosofia, che suppone che l' ente si annulli quando si riduce ad una mera possibilità, e che tuttavia da questo annullamento in cui si sommerge di continuo, di continuo altresí egli emerga, facendo cosí che tutto l' essere proceda dal nulla come da suo principio, e nel nulla ritorni come in suo fine, per un circolo sempiterno. Questo sistema si fonda adunque sulla supposizione che l' ente possibile, che è l' ente manifestante, sia nulla. Ma noi abbiamo veduto che non è il nulla. Dunque un tale assurdo sistema rimane pienamente abbattuto. Medesimamente consegue dalle cose dette, e dall' immediata osservazione, che l' essere manifesto , o manifestante all' uomo le cose, non è l' uomo, perché anzi l' uomo è ricettivo di quell' ente. Oltre di che è manifestamente assurdo che l' uomo sia l' essere in universale, perocché l' uomo è un essere particolare e proprio. Né tampoco l' essere universale può credersi una modificazione dell' anima umana. Perocché tutte le modificazioni di un ente particolare sono particolari. L' essere manifestante adunque essendo presente all' uomo, ma non l' uomo, né alcuna sua modificazione: ed essendo tale che in se stesso e per se stesso si manifesta, egli è l' oggetto in cui l' atto conoscitivo del pensiero si porta e termina. Il Soggettivismo ossia Psicologismo è quel sistema che riduce l' oggetto della mente, l' idea, ad essere il soggetto stesso, od una sua modificazione. Quindi due sono i sistemi di soggettivismo. Il primo confonde l' idea colla mente intuente, che n' è il soggetto. Questa confusione è frequente in tutti gli scrittori Alessandrini. Essi confondono l' intelletto divino , che ha ragione di soggetto, coll' idea che è l' intelligibile , e che ha ragione di oggetto (1). Essi talora dicono che l' idea è la mente, e viceversa la mente la chiamano idea (1). Il secondo sistema de' soggettivisti dichiara che le idee non sono che modificazioni dell' anima; ed a questi appartengono i sensisti moderni di tutte le classi, da Locke fino a Galluppi. Tuttavia confondono essi le idee colle sensazioni; perché queste sono modificazioni dell' anima; cosí pongono che anche quelle sieno tali. Tostoché si ammette che le idee sieno modificazioni soggettive dell' anima, nasce incontanente l' impossibilità di spiegare l' esistenza del mondo, l' esistenza di un diverso da noi. Quindi pressoché tutti i soggettivisti dotati d' ingegno si danno vinti a questa questione e non sono mai contenti per qualunque dimostrazione voi lor proponiate del mondo esterno. Quelli adunque, che invece di osservare come la cosa è, invece di rilevare il fatto, sentenziano a priori che l' essere , finché è solo possibile a realizzarsi, altro non può essere che una modificazione del soggetto intelligente; questi che non s' accorgono di suppor sempre il contrario in tutti i loro ragionamenti, né s' accorgono che senza suppor ciò non potrebbero aprir bocca; questi, che vedono direttamente insieme con tutti gli uomini la verità che noi annunziamo, e non la trovano piú quando come filosofi la vanno cercando colla riflessione; questi, dico, né possono dimostrare l' esistenza del mondo, anzi neppure di se stessi, né di cosa alcuna, ma la debbono ammettere alla cieca supponendo, colla scuola scozzese, un cotale istinto irresistibile; né possono accontentarsi di nessuna dimostrazione, benché validissima, del mondo, perché, fin che dimorano nel loro pregiudizio, non possono intenderla. Noi veggiamo che i piú famosi traviamenti nel campo dell' ontologia provennero dal non aver i filosofi bastevolmente osservata la detta natura dell' essere manifesto all' uomo. Quindi essi peccarono per eccesso o per difetto, e cosí vennero a dividersi i sistemi in due grandi classi estreme, i filosofi in due fazioni inconciliabili. I primi, cioè quelli che diedero troppo all' essere manifesto all' uomo, cioè all' idea, videro una verità; cioè ben videro che un tal essere non era punto il nulla, ma non sapendo concepire altra forma dell' essere che la reale, tosto conchiusero che dunque l' essere ideale era Dio. I secondi, cioè quelli che diedero troppo poco all' essere ideale, videro pure una verità, cioè videro che un tal essere non era punto Dio, ma anch' essi, ammettendo, con pregiudizio, che l' essere non avesse altra forma che quella della realità, dissero che l' essere ideale era nulla, onde i nullisti ; o che era una voce, onde i nominali ; o finalmente che era una modificazione dello spirito, onde i soggettivisti . Fra questi due sistemi erronei sembra ce ne possa essere uno di mezzo: di quelli che all' essere ora attribuiscono le qualità dell' idea, ora quelle della realità, contraddicendosi, senz' accorgersi. Perocché l' essere talvolta apparisce loro nella sua nudità ideale, e allora cosí lo descrivono; tal altra volta poi non potendo stare entro questi confini, scadono al supporre in esso gli attributi della realità. Ma chi ben considera, questo avviene universalmente a tutti quelli che professano il primo sistema, i quali non possono mantenere la coerenza ne' loro detti. Mi valgano ad esempio gli Eleatici. Essi ridussero tutta la filosofia a stabilire, che cosa fosse ciò che meritasse il nome di essere (1). A tal fine Parmenide stabilí una natura, che i Greci chiamarono «usia», semplicissima, priva di qualità, anteriore ad ogni composizione, natura ossia essenza che costituiva il fondo d' ogni pensiero. In questo riguardando, si poteva conoscere tutto ciò che era, cioè che avesse l' essere (2). Questo era un avere descritto ottimamente l' essere senza i suoi termini, ossia l' essere ideale. A malgrado di questo, tosto appresso attribuisce all' essere i termini ( «peras») e cosí lo rende ente assoluto senza accorgersi che questo era in contraddizione con quello che aveva detto prima; poiché l' essere co' suoi termini non è piú semplicemente quell' «usia», colla quale la mente conosce ciò a cui può dare il nome di ente. E questo parlar dell' ente come indeterminato, e poi senz' accorgersi prenderlo per determinato, è lo sdrucciolo in cui cadono i filosofi di questa sorte, fino all' Hegel. Nel libro terzo noi abbiamo dovuto indicare i caratteri dell' essere che sta presente per natura all' intuito umano, e gli abbiamo ridotti a due principali, l' estensione infinita e la nulla comprensione . Da questi due caratteri generali abbiamo dedotti i caratteri specifici, dieci de' quali vedemmo procedere dalla stessa natura di quell' essere: 1 essenza pura dell' essere , 2 oggetto essenziale dell' intelligenza , 3 possibilità dell' ente finito , 4 universale , 5 necessario , 6 eterno , 7 semplice , . intelligibilità , 9 forma delle menti ; 10 forma della forma delle cose finite ; e tre altri dalla natura dell' umano intuito: 1 ideale , 2 un nulla relativo , 3 la possibilità dell' ente infinito . Se ora noi consideriamo questi caratteri in relazione all' analisi fatta dell' essere per sé manifesto all' uomo , ci bisogna classificarli diversamente. Poiché que' caratteri: 1) parte appartengono all' essere come essere, cioè anoeticamente considerato, quale sta davanti all' intuito; 2) parte appartengono a quell' essere considerato come per sé manifesto; 3) parte appartengono a quell' essere considerato come manifesto all' uomo , cioè come intuito dall' uomo imperfettamente. E cosí considerato, o lo si riguarda come essere in sé, anoeticamente, e il suo carattere è quello di essere un nulla relativo . O lo si riguarda come manifestante, e il suo carattere è di essere idea . O lo si riguarda come essere manifestato, e allora non presenta per carattere dialettico, che la possibilità dell' ente infinito . Per non rifare quello che abbiam fatto nelle opere ideologiche e ne' libri precedenti a questo, troviamo solo necessario di dichiarare il concetto del possibile, come quello che riassume quasi in sé tutta la dottrina intorno all' essere manifesto all' uomo, e che è piú difficile ad intendersi degli altri. A tal fine conviene che in primo luogo rendiamo accorto il lettore degli errori che si possono prendere, e che furon presi, intorno a questo concetto. In primo luogo convien distinguere il concetto dell' ente possibile da quello dell' ente ipotetico . L' ente possibile non è mai un reale, ma sempre un ideale, cioè è l' essenza che s' intuisce nell' idea e si scorge atta ad essere realizzata. L' ente ipotetico all' opposto è un reale, che si suppone esistere a fine d' instituire su tale supposizione qualche ragionamento. Dee badarsi altresí di non confondere il possibile coll' idea del possibile . Alcuni infatti confusero due concetti cosí distinti. L' essere manifesto può bensí chiamarsi ente possibile, ovvero anche idea; ma non idea del possibile; che altro verrebbe ciò a dire, se non l' idea dell' idea dell' ente? Rimossi questi equivoci, cerchiamo di ben intendere il concetto dell' ente possibile (1). E` una di quelle cose che Aristotele dice le piú manifeste secondo natura, e le piú oscure all' uomo: il che veramente vuol dire piú oscure alla riflessione dell' ontologo. Poiché già subito in questo concetto si manifesta una singolare antinomia. Da una parte l' ente possibile non è ancora, e ciò che non è, è nulla; dall' altra, v' ha ripugnanza manifesta a dire che l' ente possibile sia il nulla. Che cosa è dunque il possibile? Rispondere che « è ciò che non involge contraddizione »è sufficiente all' esigenze della logica e della ideologia; ma l' ontologia, non se ne contenta; poiché ella vuol sapere che cosa sia ciò che non involge contraddizione, e che non esiste, ma che pure è possibile. Poiché eziandio quello che esiste non involge contraddizione, e però anch' esso è possibile; e in questo senso è possibile anche Dio, che non solo esiste, ma è necessario, di modo che non può non essere. Si vuol dunque sapere, che cosa sia ciò che non involge contraddizione e che non esiste, il che viene a dire che cosa sia il puro possibile. Si dirà che ciò che è possibile è un oggetto che sta davanti alla mente, e che non esiste fuori della mente, ma sí nella mente. E questo è già qualche cosa: poiché distingue due modi d' esistere, l' uno nella mente e l' altro fuori della mente; onde, quando si asserisce che il possibile non esiste ancora, allora si parla dell' esistenza fuori della mente, e non d' ogni esistenza. Con che viene a comporsi la predetta antinomia, rimanendo fermato che il possibile non sia il nulla, perché esiste davanti alla mente. Ma poiché tutto ciò che sta davanti alla mente, le sta davanti come essente in sé [...OMISSIS...] , rimane ancora a cercare che cosa sia in sé l' ente possibile che sta davanti alla mente, che non è la mente e non è neppure il nulla; e conviene che anche considerato in se stesso, l' ente in sé non involga contraddizione. Poiché se l' ente possibile è qualche cosa in sé (astrazion fatta dalla mente in cui è), che cosa rimane di lui, se è solo possibile e però non ancora esiste? Convien dunque sciogliere questa antinomia. E` dunque da rammentarsi la distinzione da noi fatta tra l' essere e l' ente [...OMISSIS...] : è da osservare che l' essere non è mai possibile, ma l' essere assolutamente è, che è l' essenza stessa dell' essere. L' ente all' incontro è l' essere co' suoi termini. Ma questi si possono pensare sussistenti, e non sussistenti. L' essere con alcuno de' suoi termini sussistenti dà il concetto di ente sussistente , l' essere senza i suoi termini dà il concetto di ente possibile . Da questo si vede: 1) Che nel concetto di ente possibile si contiene l' essere , il quale non è già possibile, ma assolutamente è; e perciò che l' ente possibile ha per sua base ciò che non è meramente possibile, ma che assolutamente è; con che cade l' antinomia che si fondava sul nudo concetto di possibilità escludente l' esistenza. I) Che l' essere che forma la base dell' ente possibile, dicesi ente possibile in quanto contiene virtualmente i suoi termini. Rimane dunque solo a dichiarare la possibilità di questi termini. L' essere ha due relazioni essenziali, l' una d' essere in sé , l' altra d' essere in sé davanti alla mente , con che acquista il nome di essere manifesto , e come è davanti alla mente umana, d' essere ideale . In quanto è essere ideale contiene tutte le idee meno estese, che noi chiamiamo concetti , ma solo virtualmente , il che è quanto dire che non è necessario, acciocché egli sia manifesto, che in esso si distinguano questi concetti. Ma nello stesso tempo noi siamo consapevoli di poter intuire in lui anche i concetti , cioè vederlo determinato. Questo equivale a dire che nell' essere ideale c' è la possibilità de' concetti . Spiegata cosí questa prima possibilità , non ha piú quella difficoltà che presentava da prima; perché essa riducesi alla potenza di un ente, nel caso nostro la mente umana, l' uomo. Ora che un ente finito, non sia totalmente in atto, ma abbia del potenziale, e quindi abbia una virtú d' uscire all' atto, la quale tuttavia non sempre esca all' atto, questo è un fatto ontologico che, sia pur difficile a spiegare, non ha però quella difficoltà che presentava il nudo possibile , a cui non si sa qual esistenza dare; poiché infine la potenza reale , (benché senza qualche suo atto) non è un mero possibile, ma un esistente reale; e il possibile non è piú che una semplice relazione, che vede la mente, tra l' atto implicito virtuale, e l' atto attuale. A quali condizioni poi la mente umana ponga delle determinazioni all' essere, e cosí ella si formi esplicitamente i concetti , piú o meno determinati, investigheremo nella terza parte di questo libro. I concetti dunque possibili compresi nell' essere ideale, altro non significano, se non che l' essere ideale è suscettivo d' essere intuito dalla mente umana con certe sue determinazioni. L' essere dunque tali concetti attuali, o meramente possibili, dipende unicamente dall' atto del subietto intelligente , e non dall' essere. Ma se si considera l' essere in sé , non come idea, ma come essenza , allora s' offre il concetto d' una seconda possibilità , cioè non d' una possibilità di concetti , ma di enti reali . E questa seconda possibilità ne racchiude tre, poiché si pensa una possibilità logica , una fisica ed una metafisica . Quando si dice l' ente reale possibile perché nel suo concetto non si trova niuna contraddizione, si ha una possibilità logica . E questa si distingue dalla prima possibilità , cioè dalla possibilità del concetto. Poiché il concetto : ha una possibilità anteriore , di cui egli è il subietto dialettico, e una possibilità posteriore , che nasce da lui attualmente essente e che ha per subietto il reale (pensato); ché altro è dire: il concetto è possibile a pensarsi, ed altro il dire: l' ente reale corrispondente al concetto è possibile ad esistere. La possibilità logica viene a dire, che si può pensare l' ente reale sussistente, senza che il pensiero trovi in ciò niuna opposizione alle sue leggi. Alla possibilità fisica non basta questo, ma si richiede di piú, che esista una potenza atta a produrre quell' ente di cui si ha il concetto, cioè a farlo sussistere. Ora, questa possibilità fisica manca del tutto nel puro essere reale, o nei concetti. Ma c' è in terzo luogo quella possibilità che si dice metafisica , e questa è la possibilità assoluta , non relativa al pensiero, o ad una potenza produttrice dell' ente, e neppure riguardante l' assenza di contraddizione di un concetto, ma una possibilità assoluta ed incondizionata. Questa possibilità metafisica è annessa alla possibilità logica di maniera, che data quella, c' è questa, cioè la mente appena che intuisce un' idea o un concetto, il quale è naturalmente immune da contraddizione, dice: « il tal ente è possibile », e pronuncia questo della sua realizzazione. Questa possibilità assoluta è cosa d' osservazione : la coscienza lo dice; il discorso e il senso comune degli uomini attesta questa coscienza. Su questo fatto i geometri dimandano, e tutti accordano loro, que' postulati, su cui poi ragionano. E tutti gli uomini istituiscono una gran parte de' loro ragionamenti sulle possibilità. Anzi il ragionamento e la dimostrazione non suole acquistare una forza apodittica, se non quando muove dalla possibilità assoluta, e all' evidenza di questa ci conduce; poiché allora solo si conchiude a necessità, quando si dimostra impossibile l' opposto, e l' impossibile suppone il possibile, dal cui concetto procede. La possibilità assoluta dunque è una verità necessaria, e però una verità primitiva , che non si dimostra con un' altra antecedente, perché è una di quelle notizie elementari che l' essere ideale indeterminato (idea), o determinato (concetti), produce colla stessa sua luce allo spirito che lo intuisce, tosto che la riflessione giunga ad osservare queste elementari notizie, che ella poi formola in proposizioni componenti la scienza. Dunque la possibilità assoluta non può esser negata per nessuna ragione posteriore. E questa è appunto la differenza tra la possibilità fisica e la metafisica: che la possibilità fisica è quella che s' induce dal sapere che esiste la causa; la possibilità metafisica è quella che la mente asserisce assolutamente e incondizionatamente senza pensare alla causa. Che anzi, qualora venisse tratto in mezzo il pensiero d' una causa efficiente, la mente, senza curarsi di sapere se esiste, o senza poterlo sapere, direbbe anche di essa assolutamente: è possibile. Da questo procede che, partendo dal punto luminoso della possibilità assoluta, si può argomentare e conchiudere all' esistenza d' una causa efficiente, con quella argomentazione che va dal condizionato alla condizione . Poiché se il condizionato è certo e indubitabile, come nel caso nostro della possibilità assoluta, dacché è evidente; giustamente si conchiude, che del pari indubitatamente ci sieno tutte quelle condizioni, senza le quali egli non sarebbe. Rimarrà a cercare quali sieno queste condizioni. Ora si trova che l' una di esse è l' esistenza d' una causa efficiente che lo produca: dunque questa causa esiste. La quale è una nuova prova a priori dell' esistenza di Dio. Poiché la causa di cui si parla deve essere necessaria, ché la possibilità delle cose è necessaria; e se è necessario il condizionato, tale anche la condizione. Poiché se la condizione, che nel caso nostro è la causa efficiente, non fosse necessaria, potrebbe non essere. E se potesse non essere, potrebbe essere impossibile il possibile che è condizionato. Ma questo involge contraddizione: dunque sussiste una causa efficiente necessaria di tutti gli enti reali possibili. E questa causa necessaria deve essere anche causa ultima . Che se essa non fosse immediata, ma tra l' effetto ed essa intervenissero altre cause, queste non sarebbero necessarie, e però la mente non le può mettere a priori che come possibili, e però esigerebbero sopra di esse un' altra causa esistente come loro condizione, la quale sarebbe l' ultima. C' è dunque nella mente umana dotata dell' intuizione dell' essere un' implicita e profonda disposizione a dar fede all' esistenza di un Essere assoluto potente di effettuare tutto ciò che non involge contraddizione, e il fatto universale della religiosità dell' uman genere lo conferma. Se questa questione fosse di sole parole, non la tratteremmo. Ma quello che diremo intorno ad essa tende a dichiarare meglio la natura di quel lume che è forma della mente umana, ond' è la potenza del conoscere e quindi la mente stessa. Ora, l' atto dell' intelligenza è duplice, cioè l' atto primo , che ha per suo termine l' essere indeterminato, e gli atti secondi . Coll' atto primo, col quale è costituita l' intelligenza, il soggetto non fa che ricevere irresistibilmente, cioè aver presente l' essere: egli non opera ancora come intelligente, perché come tale non è costituito, ma si costituisce in quell' atto medesimo. In tutti gli atti secondi, opera il soggetto già costituito intelligente. Se dunque per cognizione s' intendono quelle notizie, che gli vengono dalle sue proprie operazioni mentali, non si può dare il nome di cognizione alla notizia dell' essere indeterminato presente all' intuito. Importa distinguere bene la prima intuizione dalle intellezioni che vengono appresso. Se ci riduciamo all' intuito e mettiamo da parte tutto il resto, il soggetto intuente rimane privo d' ogni modo intellettuale: egli non può né ripiegarsi sopra se stesso e avere la coscienza di sé, né riflettere sull' essere che gli sta davanti per analizzarlo ed esercitarvi sopra qualunque altra operazione, né pensare al nesso tra l' essere e sé, e cosí acquistare la consapevolezza della sua propria intuizione. Poiché l' essere oggetto dell' intuito quieta l' atto di questo; ché ogni facoltà si quieta, trovato che abbia il suo termine «( N. Sagg. , n. 54. 7 550) ». Ci vuole dunque un altro termine perché si mova all' atto un' altra delle facoltà intellettive, che sono quiescenti nell' anima, e non c' è altro termine, oltre l' ideale, che il reale ; poiché l' essere morale non viene che in ultimo, dopo questi due. Il reale eccita la percezione, che è la prima funzione della ragione «( Psicol. , 1012, sgg.) ». Ora in questa funzione l' uomo trova l' ente, cioè l' essere fornito di termine e però compiuto. Di che procede, che il primo degli atti secondi ha per suo termine non l' essere indeterminato, ma l' ente; e che l' ente posto davanti alla mente sia la condizione di tutti gli atti secondi. Quindi il principio di cognizione «( Psicol. , n. 1294 7 1325) » riceve due forme: I L' essere è l' oggetto dell' intuizione naturale. II L' ente è l' oggetto delle operazioni intellettive. Questa seconda formola adunque viene a dire, che niuna operazione (atto secondo) può fare l' intelligenza umana, avendo solo presente l' essere , e non ancora l' ente . Quando poi è presente l' ente il che avviene la prima volta nella percezione, allora è possibile all' uomo di riflettere non solo sull' ente, ma ancora sugli elementi di esso, e di considerare astrattamente ciascuno di questi. Questo può far la mente, perché allora tutti gli elementi dell' ente ella vede nell' ente stesso, che le sta davanti, e che è la condizione del pensare, ed altresí la forma ch' ella applica agli elementi acciocché le si rendano pensabili in separato, rendendoli cosí enti dialettici. E invero le operazioni del pensare, che sono gli atti secondi, non potrebbero fermarsi a ragion d' esempio, in un mezzo ente, ché il mezzo non si può pensare se non dopo il tutto a cui si riferisce, e per la stessa ragione ciò che veramente si conosce deve esser uno. E quindi è che l' essere al tutto indeterminato non raggiungendo l' uno compiuto [...OMISSIS...] , non può esser l' oggetto d' un compiuto atto di conoscere, ma piuttosto d' una potenza di conoscere (1). E la condizione della potenza intellettiva è simile appunto a quella del suo oggetto; poiché questo, che è l' essere indeterminato, ha l' uno in sé, ma in un modo virtuale, in quanto è suscettivo di termini. E cosí la prima intuizione, non fu computata dagli antichi tra le cognizioni, non senza ragione, a dir vero; chè essa merita, in sé considerata, la sola denominazione di cognizion virtuale , come l' essere è l' ente virtuale, e considerata in relazione colla sola esplicazione, le si deve il nome di potenza di conoscere. Conviene però guardarsi da una falsa conseguenza; la qual conseguenza apparente si è, che l' ente finito contenesse piú di cognizione formale, che non l' essere il quale è oggetto d' una cognizione non compiuta. Poiché altro è che la cognizione sia compiuta , ed altro che sia formale : la cognizione compiuta è quella che ha davanti un oggetto compiuto, la cognizione formale all' incontro è quella che ha davanti un oggetto per sé noto, ossia per sé manifesto, ancorché non sia compiuto. Non è dunque manchevole il pensare, perché sia formale, ché per questo è anzi eccellente; ma è manchevole il pensar formale nell' uomo, perché gli è dato in scarsa dose, avendo il pensar formale per oggetto l' essere per sé manifesto. Ma altro è l' essere per sé manifesto indeterminato, altro l' essere per sé manifesto assoluto: il primo è dato all' uomo per natura, e costituisce il pensar formale limitato e manchevole; quando gli fosse dato a vedere l' essere assoluto, la sua cognizione sarebbe pure assoluta e tutta formale: questa è l' ultima perfezione del pensare formale. Da tutto quello che abbiamo ragionato fin qui, risulta che la forma dell' uomo, ossia dell' ente razionale, è l' essere per sé manifesto, in quanto è indeterminato. L' essere, senza i suoi termini, è l' inizio di ogni ente: contiene dunque la possibilità degli enti. Ma di quali enti? L' essere indeterminato non ne specifica alcuno, ma neppure ne esclude alcuno. Dunque egli è la possibilità tanto dell' essere finito , quanto dell' essere infinito . Ma la seconda l' abbiamo risposta tra i caratteri venienti dalla limitazione del nostro intuito [...OMISSIS...] , e però essa non è un carattere che appartenga all' essere in se stesso, e ciò perché l' ente infinito non ha possibilità, ma necessaria sussistenza. Rimane pertanto che l' essere indeterminato in verità altro non sia che la possibilità, ossia l' inizio degli enti finiti. Si ritenga dunque ben fermo nella mente questo vero, che « l' ente razionale umano è costituito o formato dall' essere per sé manifesto, in quanto è inizio degli enti finiti ». Come questo è il fondamento della natura umana, cosí convien che sia anche il tema del suo sviluppo e del suo perfezionamento. E quindi lo sviluppo della natura umana deve poter farsi da due lati; dal lato degli enti finiti, e dal lato dell' essere, in quanto è inizio di questi. Ma l' inizio degli enti finiti essendo dato immobilmente dalla natura, rimane sempre lo stesso davanti al soggetto, e però non ammette naturale sviluppo o accrescimento. Se dunque l' essere come inizio degli enti finiti manifestasse se stesso piú copiosamente, già non sarebbe piú ordine naturale, ma avrebbe luogo un altro ordine, un ordine soprannaturale. Gli enti finiti all' incontro sono quelli che costituiscono la natura, de' quali l' uomo stesso è uno; e però lo sviluppo dell' umano pensiero e affetto intorno a questi, costituisce l' ordine naturale. Vero è che anche intorno all' essere, come inizio degli enti, molto può travagliarsi l' umano ragionamento; ma questo rimane sempre nella cognizione dell' essere iniziale, e in questa stessa incontra un' immensa lacuna, la qual consiste in non trovare alcun nesso necessario tra l' essere e i reali finiti. Perocché questi non sono termini propri e necessari dell' essere, onde la loro esistenza non si può argomentare a priori . Come dunque esistono? La gran voglia, che ha l' uomo di conoscere la ragion sufficiente dell' esistenza de' reali contingenti di cui si compone l' universo, trasse Platone a dire che le idee (l' essere ideale) sono causa delle cose. Ma qui ebbe buono appicco Aristotele a redarguirlo, perché osservò che le idee non sono principio del moto, né cause sufficienti dell' esistenza; tant' è vero che si possono avere idee di cose che non sussistono (1). L' idea dunque dell' essere o quella dell' ente non racchiude in sé la ragione dell' esistenza delle cose contingenti. E però non ha alcun valore ontologico, né alcuna verità a priori , la formola testé proposta qual principio di tutta la filosofia: « « L' ente crea le esistenze » ». Laonde a trovare la ragione sufficiente perché sussistano quelle cose, che possono tanto sussistere come non sussistere, non basta il nudo concetto di essere e di ente oggetto dell' umano intuito, ma convien ricorrere ad una volontà libera ed eterna, il cui atto non s' intuisce. Ed appunto quel denso velo che ricuopre agli occhi intellettuali dell' uomo quest' atto volontario dell' essere assoluto, è la cagione per cui tutto questo universo sta davanti al pensare umano come un grand' arcano, un mistero impenetrabile. Questo affrena l' umana intelligenza. Ed ella spera talora di spuntare la sua voglia giungendo per via del ragionar formale, e di determinazione logica, a conchiudere che quell' atto creativo de' contingenti ci deve essere . Ma poi non rimane soddisfatta appieno di questa conquista. Poiché quantunque conosca che ci deve essere , tuttavia no' l vede questo atto, e però non sa come sia; onde spiega a se stessa l' esistenza dell' universo, ma con una incognita. Gli imprudenti si buttano a sistemi erronei, pei quali col favore di molte idee confuse persuadano a se stessi di vedere indubitatamente la prima causa. I prudenti dicono quello che diceva Socrate in que' dialoghi di Platone: « « aspettiamo che la prima Causa si manifesti da sé medesima » ». Perocché avendo noi conosciuto, che questa Causa ci deve essere, e deve avere prodotti noi stessi; di conseguenza, come ottima, manifesterà a noi se stessa, e cosí compierà quel voto, quella necessità intellettuale di conoscerla, che ella stessa ha lasciato in noi. Sarà questo il compimento dell' opera sua, che ella non può lasciare imperfetta (1). La dottrina dell' idea, come ogni altra dottrina speculativa, ha due maniere di processo ragionativo. Il primo processo parte dall' osservazione del fatto, e la sagacità del filosofo si dimostra in questo, che coglie e stabilisce il fatto in tutte le sue parti, e si assicura bene della sua verità con ogni cautela. Ciò che dà l' osservazione è in ogni caso un punto fermo. Ma se il fatto osservato è di tal natura, che mostri in se stesso necessità; allora s' avrebbe non solo un punto certo, ma eziandio evidente. E si scopre la forza dialettica del filosofo, quando da questo principio procede per via di continue illazioni. Poiché quando il fatto sia tale, che l' illazione si derivi a rigor di logica, egli non ha piú cagione di dubitare del fatto suo. Ma questo processo, il piú eccellente, è di pochi. Il secondo processo ragionativo, buono anch' esso se accompagnato dal primo, ma secondario e amplissimo fonte di sofismi ove se ne vada senza il primo, come per lo piú avviene, è quello che muove dai dubbi e dagli apparenti paradossi, e domanda che questi sieno rimossi e spiegati prima di assentire alla loro dottrina. Qualora questo processo ragionativo sussegua al primo, egli produce una nuova copia di sapere, e quasi una nuova scienza; conduce alle piú profonde investigazioni per cogliere le piú intime verità. Ma se si comincia da questo processo deontologico, cioè che cerca quel che deve essere invece che dal primo ontologico, che cerca quello che è, se n' hanno molti inconvenienti, e principalmente questo, che si parla di cose di cui non sono ben chiarite le idee; poiché è col primo processo che si chiariscono. E questo è il difetto del metodo degli Scolastici che, educati dalla logica di Aristotele tutta argomentativa, incominciano sempre dai dubbi. Noi dunque abbiam tenuto sempre nelle nostre ricerche per massima l' incominciare dal primo processo ragionativo. Onde, nell' Ideologia, colla quale abbiamo incominciato il nostro discorso filosofico, dichiarammo di prendere a punto di partenza l' osservazione , e non il dubbio metodico . Ma or che crediamo aver alquanto dato opera al primo processo, prendiamo la seconda fatica. Intendiamo dunque, in questa parte, di risolvere le principali obbiezioni che si sono accampate contro l' essere ideale. Le difficoltà, che s' incontrano meditando sull' essere manifesto e sui concetti, derivano da quattro fonti: 1) Dalla natura dell' essere stesso, qual si rappresenta all' intuito naturale dell' uomo; e queste abbiamo procurato di risolverle nella prima parte di questo libro, e nel libro terzo. 2) Dalla relazione coll' essere divino. 3) Dalla comunicazione coll' essere e dell' essere per sé manifesto colle intelligenze finite. 4) Dalla comunicazione dell' essere per sé manifesto co' reali finiti. Queste due ultime classi di difficoltà somministrano l' argomento alla seconda e alla terza parte di questo libro. Dobbiamo dunque ora svolgere le difficoltà che traggono l' origine dalla comunicazione che l' essere manifesto ha colla mente umana. Dobbiamo dunque trattare due questioni: Questione I Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte delle idee, cioè dell' oggetto. Questione II Delle difficoltà che s' incontrano nello spiegare la congiunzione delle idee colla mente da parte della mente, cioè del subietto. Prendiamo dunque a considerare la congiunzione dell' idea, ossia dell' essere, colla mente, in primo luogo per rispetto all' essere stesso ideale. Questa ricerca ci conduce a due risultati: 1) Che la natura dell' essere ideale è tale, che unendo in se stessa senza alcuna contraddizione due modi d' esistenza, uno in sé, e l' altro relativo alla mente, o per meglio dire avendo un modo d' esistenza che abbraccia questi due, rende possibile la comunicazione di sé ad una mente. 2) Che questa comunicazione non solo è possibile, ma è necessaria; di maniera che sarebbe ripugnante alla stessa natura dell' essere ideale, che una tale comunicazione non avesse luogo. Tutta la difficoltà a intender questo nasce dall' inclinazione di applicare all' esistenza dell' essere ideale le leggi dell' esistenza subiettiva. E infatti l' esistenza subiettiva è tutta relativa al subietto, cioè s' esaurisce e termina nel subietto stesso, onde ripugna che il subietto, se esiste solamente rispetto a sé, esista come subietto in altro modo. Vero è che il subietto intelligente può considerare se stesso come obietto. Ma in tal caso interviene il modo obiettivo di essere: onde riman fermo che il puro subietto come tale finisce in se stesso. Ma totalmente diverso e opposto si è il modo di essere obiettivo. Questo è un modo per la sua stessa essenza relativo ad altro. Vedesi dunque che dalla parte della idea, ossia dell' oggetto della mente, cessa ogni difficoltà al concepire ch' ella abbia un' esistenza che involge in sé la necessità d' esser ella presente a una mente, e che questa necessità non le toglie punto l' essere per sé distinta dalla mente. Poiché il modo d' esistere per sé, e il modo d' esistere relativo ad un altro non s' escludono, e possono entrare tutti e due ad un tempo in una sola essenza. Quello che impediva di conoscere questo vero alla mente, si era il non abbastanza conoscersi la natura della relazione e dei relativi. E la difficoltà, viene da questo, che gli uomini considerano esclusivamente le cose che loro cadono sotto i sensi nella loro esistenza subiettiva o estra7subiettiva, la quale è per sé, e non ha bisogno di relativi per essere concepita. Poiché l' esistenza subiettiva riguarda il subietto e non sorte da esso; e questa cognizione coll' aggiunta di quella di alcune relazioni accidentali tra le cose basta alla vita comune. Appartiene soltanto all' ozio della filosofia l' indagare la natura piú in là, e pervenire alla considerazione dei relativi essenziali ed assoluti, il che, direbbe Platone, è di tutti gli Dei, ma tra gli uomini d' assai pochi. Convien dunque che la mente speculatrice si persuada, lasciati a parte i relativi accidentali, che si dà un genere di relativi i quali sono per sé; di maniera che nel genere di quelle entità che per sé si dicono si contiene una specie di relativi. Onde il genere delle entità per sé e il genere dei relativi non al tutto s' oppongono e s' escludono fra di loro, ma una specie di questi secondi è in pari tempo una specie che appartiene al genere delle entità per sé, di maniera che nell' ordine logico dei predicati prima appartiene loro l' essere relativi a quel modo che la specie appartiene ad una data quantità prima del genere; con questo solo sono già divenuti una specie del genere de' relativi. Ma sopravvenendo loro per opera della mente l' attributo di essere questi relativi per sé, essi mediante questa giunta sono resi una specie del genere delle entità per sé. Onde non repugna che appartengano a due generi opposti perché vi appartengono a cagione di due predicati che si sovrappongono successivamente l' uno all' altro. L' essenza delle cose, come abbiam detto, è la loro quiddità (1). Ogni qualvolta si ha l' idea di una cosa, si sa che cosa è, a tal che si può in qualche modo definire; e tuttavia la cosa potrebbe egualmente sussistere e non sussistere (2). Dunque la mera essenza delle cose contingenti non involge la loro sussistenza, non è la sussistenza, che ce ne faccia conoscere la quiddità, ma la loro quiddità stessa presente alla nostra mente è l' essere che le manifesta. L' osservazione adunque, l' osservazione ontologica dimostra che le essenze delle cose contingenti appartengono all' essere manifestante, sotto la quale relazione acquista il nome d' idea. Questa è dottrina evidente insegnata dal maggiore e piú saldo filosofo che avesse mai l' Italia, l' Aquinate. Egli dice chiaramente che l' essenza è ciò che vien significato dalla definizione (1). L' Aquinate esprime ancora piú chiaramente il suo pensiero dove dice che « « l' essenza è ciò di cui l' essere è l' atto »(2) ». L' essere come atto è il reale; perciò l' essenza non ha in sé questo atto, ella dunque è in potenza, è la possibilità della cosa. Dove convien sempre ritenere, che tutte le essenze delle cose si riducono a una sola, cioè all' essere universale . Attesa la precedente sentenza di San Tommaso, Guglielmo Tennemann, nel suo « Compendio della storia della filosofia », ripone il Santo Dottore fra gli idealisti, scrivendo di lui cosí: « « Egli era idealista, e considerava l' oggetto dell' intelligenza, o la forma astratta delle cose, come la loro essenza originale »(3) ». Ma questo è abuso della parola (4) « idealista », la quale significa la setta di quei filosofi che negano la realità de' corpi od altre realità, riducendo la realità alle idee. Laonde, quantunque San Tommaso riconosca che l' essenza è ciò che s' intuisce nell' idea, ond' anco definisce l' essenza « « ciò che viene significato dalla definizione »(5), tuttavia egli è ben lontano dal negare la realità de' corpi od ogni altra realità. Ché anzi, paragonando il reale all' ideale, considera quello che nel suo linguaggio è chiamato essere come l' atto; e l' essenza rispettivamente come la potenza o per dir meglio, la possibilità; onde un' altra definizione che dà il Santo Dottore dell' essenza cosí: « Essentia est illud, cuius actus est esse (6) »; la quale consuona a capello con ciò che noi diciamo. Secondo la qual dottrina ancora San Tommaso insegna, che i particolari (contingenti) sono fuori dell' essenza (1). E veramente i particolari individui appartengono per primo all' ordine delle realità , e nascon da questa, né hanno la loro ragione sufficiente nella semplice idea della cosa. Ed egli è per questo, che noi abbiam già detto, ogni idea qualsiasi essere una specie, cioè la base d' una specie, ossia quel lume, pel quale non si conosce già l' individuo nella sua particolare sussistenza, ma tutti gli individui senza numero che venissero realizzati da un agente reale che n' avesse il potere. E qui potrebbe cadere la questione « se il proprio appartenga agli accidenti », della quale sentenza si dimostra l' Aquinate (2). A cui noi rispondiamo, che se s' applica la parola proprio all' essenza stessa delle cose, ogni essenza è propria, e questo proprio non è né accidentale né sostanziale, ma essenziale . Se poi s' applica il proprio ai reali, diciamo che nulla v' ha in essi di veramente proprio se non la stessa realità , e quindi che ove il reale è necessario (Iddio), in tal caso il proprio non può essere accidentale, ma ove il reale di cui si parla è contingente anche il proprio è accidentale, perché è accidentale la realità stessa che lo costituisce. Un' altra qualità dell' Essere manifestante è l' universalità. Egli dicesi universale non già perché in se stesso considerato come ente non sia uno, e in questo senso, particolare. L' unità è propria d' ogni ente concepibile. Dicesi adunque universale unicamente perché egli è il mezzo necessario a conoscere tutte le cose. Questa parola universale adunque esprime una relazione dell' essere manifestante, colle cose manifestate; e questa è scoperta dalla riflessione del filosofo che è pervenuto a raffrontare insieme l' Essere manifestante colle cose manifestate, e a rilevare che quello è il mezzo di conoscere queste. Laonde questa relazione non cade propriamente cosí distinta, da potersi enunciare nell' intuizione dell' essere stesso; perocché l' uomo ha tre passi di sviluppo avanti di pervenirci: 1) intuisce l' essere, senza sapere che sia mezzo di conoscere; 2) adopera l' essere qual mezzo di conoscere, senza riflettere alla relazione di quel mezzo al fine; 3) riflette a questa relazione, giacché altro è l' adoperar un mezzo ad un fine, e altro è il riflettere sulla sua qualità di mezzo e astrarre questa qualità, e cosí astratta enunciarla e ragionarne. Quest' ultimo passo il fa soltanto la filosofia. Stabilito adunque che la notizia che ha l' uomo per natura è quella dell' esistenza senza alcun' altra determinazione, consegue che l' esistenza cosí intuita dalla mente (Essere manifestante) sia pura forma di cognizione senza alcuna materia. Per forma della cognizione intendiamo quell' elemento, pel quale la cognizione è cognizione, pel quale ogni cosa cognita è cognita. Questo elemento dunque non può mancare in niuna cognizione. Di piú, questo elemento dee essere cognito per se stesso, poiché è egli stesso quello che fa sí che qualsivoglia cosa sia cognita. Dee dunque esser noto immediatamente, per sé noto. Ora in ogni nostra cognizione niente si conosce, se non si conosce l' esistenza; perocché ogni cosa nota non è altro, che cosa della quale si conosce l' esistenza (possibile) e le determinazioni. Ma ciascuna delle stesse determinazioni non si conosce, se non si conosce la sua esistenza possibile; e il conoscerle è lo stesso che il conoscerle esistenti nella loro possibilità. Dunque ogni conoscere è conoscere l' esistenza almeno possibile. Dunque l' esistenza ideale ossia possibile, ovvero l' idea di esistenza, è la forma di tutte le cognizioni. La materia delle cognizioni sono le determinazioni dell' esistenza, o ideali, o reali, o morali. E materia qui significa ciò che è conosciuto e che non fa conoscere, cioè che ha bisogno di altro cognito per essere conosciuto, ciò in cui finisce la cognizione come un suo termine. La mente trova questa distinzione che separa nella cognizione la pura forma del conoscere dalla materia. Ma come la stessa cosa può esser forma ad un tempo della cognizione e della potenza di conoscere? Questo è conseguenza della natura speciale di questa forma a differenza di tutte le altre, la qual natura consiste nell' esser forma oggettiva «( Psic. , n. 23.) ». Quindi accade che ella abbia le due relazioni, di cui abbiamo parlato, cioè che ella sia ad un tempo manifestante e manifestata . Sotto la relazione di manifestante dicesi forma della mente, perocché senz' essa la mente non sarebbe mente. Sotto la relazione di manifestata dicesi forma della cognizione, perché costituisce l' oggetto cognito, ciò che v' ha di oggettivo e però di formale in ogni cognizione. Quindi l' Essere ideale, se si considera come oggetto manifesto alla mente, e però distinto dalla mente, è causa immediata per la quale la mente acquista l' attitudine di conoscere. Ma se si considera quest' attitudine rispetto a quelli che si chiamano comunemente atti conoscitivi, se si considera che l' attitudine a far questi atti non è mai altro che l' attitudine a veder l' Essere stesso variamente determinato, egli è chiaro che l' Essere è la forma stessa del conoscere, perché ha la condizione di manifestante. Attesa poi questa doppia relazione dell' Essere ideale, accade che, nel ragionarsi di lui, egli prende quasi due faccie diverse: perocché talora ci appare come è in se stesso, indipendente da ogni mente, in questo senso, che si pensa a lui senza bisogno di pensare nello stesso tempo alla mente; talora poi ci appare come posseduto dalla mente stessa, legato alle menti particolari e cosí quasi direbbesi particolareggiato. In quest' ultimo rispetto egli è propriamente forma delle menti singole, e da questo legame colle menti singole divien singolare, e si moltiplica, non per sé, ma pel legame: come un' idea qualsivoglia, benché universale, dicesi particolare se si considera unita ad un particolare che fa conoscere, il che accade nella percezione, e nell' ente ipotetico. E già l' Angelico vide, che il lume del naturale intelletto doveva essere forma ad un tempo della mente e della cognizione. Onde gli attribuisce due funzioni, o due effetti, come li chiama: l' uno di rendere le cose attualmente intelligibili, « cuius est intelligibilia facere in actu », il che è quanto dichiararlo forma della cognizione; l' altro di perfezionare l' intelletto possibile, « perficere intellectum possibilem ad cognoscendum », il che è dichiararlo forma dell' intelligenza (1). L' Essere adunque in quanto è manifestante, o intelligibile per sé, informa la mente. In quanto poi è manifestato, è forma della cognizione. L' Essere in quanto è manifestato, per la sua propria virtú di manifestarsi, è ancora la forma degli enti sussistenti concepita dalla mente, a cui la sussistenza stessa fa l' ufficio di materia. La forma adunque delle cose è oggetto dell' intuizione, all' incontro la sussistenza è termine dell' atto di sentire: di maniera che la forma e la materia sono unite nell' universo di quel nesso appunto, del quale è unito il sentimento coll' intelligenza; nesso che non si scioglie mai, se non per via d' astrazione e d' ipotesi non conseguente a se stessa. Ora, fin a tanto che non si pensa ad altro, fuorché la forma ideale, questa forma pensata è meramente possibile, mancante dell' atto della realità; e però si dice in potenza ad essere realizzata. Ma ciò che è in potenza è anteriore a ciò che è in atto, l' atto compie ciò che è in potenza, e la potenza non è che il principio dell' atto. Quindi è che l' Essere ideale dicesi ancora non impropriamente Essere iniziale , perché da lui comincia la cognizione e la possibilità dell' Essere, da cui muove l' atto della sussistenza, che assolve e compie l' Essere stesso. Se poi si considera l' Essere tal quale cade nel primo intuito, egli non porge allo spirito la forma completa di nessun essere particolare, ma presenta l' Essere stesso non già completo, sibbene del tutto iniziale. Quest' è dunque anteriore sí nell' ordine del pensiero (ordine dell' Essere manifestante), e sí nell' ordine degli oggetti del pensiero (ordine dell' Essere manifestato), a tutte le forme particolari degli enti: e però se queste sono iniziamenti degli enti particolari, l' Essere qual cade nel primo intuito è iniziamento di questi iniziamenti, perché è la prima cosa che sia in essi, ed in essi si conosca. Dalla condizione poi d' iniziale solamente, che ha l' essere qual cade nell' umano intuito, conseguita che egli si predichi univocamente di tutte le maniere di enti, e sí bene di Dio, come delle creature. Perocché se non si potesse predicare l' esistenza delle creature, queste non sarebbero, e dicasi lo stesso di Dio (1). Predicare univocamente l' esistenza vuol dire: predicar l' esistenza, pigliata la parola nello stesso significato. Però non è a credersi che si predichi nello stesso modo, perocché predicare significa unire, attribuire qualche cosa ad un subietto. Ora la mente che considera le cose create siccome enti non attribuisce mica ad esse l' esistenza nello stesso modo, che a Dio; ma ella dà a Dio l' esistenza come cosa sua propria, alle creature come cosa partecipata, a Dio come essenziale e necessaria, alle creature come accidentale, la unisce a Dio identificandola con lui stesso, alle creature distinguendola da esse. I modi possibili della comunicazione degli enti fra loro sono due, perché due sono i costitutivi d' ogni ente contingente, l' essenza e la realità . Quei due modi di comunicazione possono stare separati, cioè effettuarsi l' uno e non l' altro. Cosí le bestie sono enti i quali non ricevono comunicazione cogli altri enti, se non nel secondo modo. All' incontro, allorquando un uomo intuisce l' essenza di un ente senza che gli si comunichi la realità di lui, la comunicazione dell' ente all' uomo è fatta nel primo modo, ed è comunicato il primo elemento degli enti contingenti, l' essenza . Allora, quando la comunicazione di un ente all' altro, si fa in entrambi i modi, e quindi si comunicano entrambi gli elementi dell' ente, l' essenza e la realità, allora vi è comunicazione perfetta, la comunicazione di tutto l' ente, la compiuta cognizione (1). L' essenza di un ente distinta dalla realità comunicata ad un altro dicesi idea ; e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, intuizione , conoscenza (per intuizione). La realità di un ente comunicato ad un altro dicesi percepita sensitivamente, e l' atto con cui è ricevuta la comunicazione, percezione sensitiva . Potendo trovarsi divisi que' due modi di comunicazione, niuna meraviglia è che allo stesso modo possano negli enti contingenti trovarsi divisi i due elementi della essenza e della realità; e che l' uno possa aver natura assai diversa dall' altro. Il primo elemento, l' essenza, è sempre immutabile ed eterna. Il secondo elemento, la realità, può essere eterna ed immutabile, nel qual caso s' adegua e continua all' essenza dell' essere in universale, e tutt' insieme è la natura divina; ovvero è contingente, ed in tal caso costituisce gli enti limitati e creati. Questi due elementi entrano nella composizione di ogni ente perfetto conosciuto. Lo scoglio della filosofia suol essere il non potersi intendere come si componga in un solo ente l' ideale e il reale. Ma perché questo è scoglio in cui s' infrange il naviglio? Perché la mente, avvezza a vedere ogni cosa nello spazio e nel tempo, va pure ripensando come anche quell' unione dell' ideale e del reale si faccia quasi nello spazio e nel tempo; il che è cosa impossibile ad avvenire e del tutto assurda. Quest' unione si fa in presenza della mente, non in alcuno spazio, ma nel mondo, per cosí dire, dell' essere stesso, nel mondo metafisico che è quello della verità. Quegli enti, ai quali si comunica l' essenza per via d' intuizione, sono fatti con ciò intellettivi; gli altri, a cui non è data questa comunicazione, sono privi d' intelligenza. Dal detto pertanto si trae in che differiscano l' essenza e l' idea ; quella è ciò che s' intuisce in questa (ente manifestato, oggetto): colui che l' intuisce la intuisce come cosa diversa da sé. Ma se questa cosa diversa dall' intuente si considera in rapporto coll' intuente, come atta ad intuirsi (ente manifestante), allora chiamasi idea . Come idea ella è nella mente; ma come essenza è la cosa in sé senza alcun rapporto colla mente stessa. Gli Scolastici distinsero l' idea , che dissero essere « quod cognoscitur (1) », dalla specie che dissero « quo cognoscitur », il mezzo formale con cui si conosce. Ma propriamente ciò che si conosce (nell' ordine ideale) è l' essere manifestato, cioè le essenze , e non le idee; ciò poi con cui si conosce sono le idee. La qual distinzione è importante perché se ne ha il conseguente, che le essenze possono essere molte, e l' idea cioè la loro intelligibilità una sola. Infatti noi abbiamo provato che colla sola idea dell' essere si conoscono tutte le essenze delle cose, solo che queste sieno date nel sentimento. Onde, a propriamente parlare, l' idea , il « quo cognoscitur », è una sola (2); ma aggiungendosi a lei diversi sentimenti, ella viene moltiplicandosi, e le molte idee che sembrano venirne, piú acconciamente si chiamano concetti , o ragioni delle cose (3), e specie se possono servire di fondamento alla specie, generi poi se possono servire di fondamento ai generi delle cose. Ora la specie , ossia il concetto specifico, ha questo di proprio, che è il primo che si trae dalla percezione, onde rappresenta alla mente tutta la cosa (possibile), laddove il genere non la fa conoscere tutta, ma solo qualche elemento che ha comune con altre cose. Quindi Platone distingue la specie dall' idea come l' essenza veduta nelle cose reali da ciò con cui si conosce. « Io stimo che tu reputi ogni specie ( «eidos») esser una per questo, che quando si mirano da te piú cose grandi, a te che le vedi tutte pare una sola idea ( «idea») ». Sicché le specie sono per Platone le essenze, e queste in quanto sono nella natura, son le forme delle cose, e in quanto sono intuite dalla mente, gli esemplari , perché, rappresentando tutt' intera la cosa, a differenza dei generi, possono essere condotti al loro atto esterno e reale dall' artefice che ha virtú di ciò fare, onde dice Platone, che « « le specie stanno nella natura siccome esemplari »(1) ». Platone talora invece di specie usa dire la nozione delle specie ( «eidon noema»), la qual parola nozione viene ad indicar l' atto della mente che intuisce le specie o forme nella natura, ovvero le stesse specie o forme o essenze in quanto sono intuite dalla mente, laonde mentre pone le specie nella natura, colloca la nozione delle specie negli animi (2). Le specie dunque per Platone sono le essenze compiute , l' ente ideale vestito co' suoi termini, ond' anco le chiama, distinguendole dall' ente, «ton onton eide» (3). Dal che si vede che la natura di esemplare non conviene propriamente all' idea , perché ella presenta un' essenza determinata, né ai concetti generici, per la stessa ragione, ma unicamente alla specie che presenta un' essenza al tutto determinata. Del resto è da distinguere l' essenza indeterminata dall' essenza determinata. L' indeterminazione dell' essenza non appartiene già all' essenza, ma altro non è che la limitazione del modo in cui si comunica, comunicandosi senza le sue determinazioni. Fra l' essenza dell' essere, poi, e quella delle altre cose v' ha questa somma differenza, che quella nelle sue determinazioni racchiude la realità, laddove l' essenze delle altre cose non la racchiudono. Indi è che l' essenza determinata dell' Essere, che è l' essenza di Dio, non si può comunicare se non comunica anche la sua realità, onde la comunicazione di lei non si fa per mera idea, ma per via di verbo, come altrove dichiarammo. La natura del conoscere giace nella sua oggettività, cioè il conoscere è la comunicazione di un ente (il cognito) ad un altro ente (il conoscente) fatta per modo, che colui che riceve la comunicazione dell' altro ente lo possiede non come se stesso, ma come un altro ente, e l' atto con cui riceve la comunicazione di quest' altro ente, e con cui lo possiede, finisce in quell' altro ente non in quanto sussiste in sé, ma in quanto è posseduto. All' incontro, la natura del sentire giace nella sua soggettività, poiché il principio senziente tende a costituire se stesso, non ad uscire di sé e trovarsi in un altro; e quantunque abbia un termine diverso, nol possiede come ente, ma quel termine coopera solo a costituire il principio che sente e variamente modificarlo. E` proprietà dell' ente oggettivo comunicarsi nel primo modo, la qual comunicazione è, come dicevamo, ciò che si chiama cognizione. Un ente in quanto riceve tale comunicazione dell' ente oggettivo, dicesi conoscente o intelligente. L' osservazione del fatto dimostra che gli enti contingenti in quanto sono tali, cioè in quanto sono meramente reali, non hanno questa qualità di essere enti, e però né pur di essere oggetti; quindi per se stessi non producono cognizione, ma solo appartengono al senso; e per essere cogniti conviene s' uniscano all' ente oggettivo, ed insieme con esso si comunichino. All' incontro dimostra il ragionamento, che l' ente per sé oggettivo (l' Essere) dee avere la sua propria realità, la quale però non si comunica all' uomo in questa vita, di modo che questa stessa realità appartenga all' oggetto, come essenza veduta nell' idea. Quindi una doppia difficoltà: 1) la difficoltà d' intender come la realità dell' Essere, oggettiva com' è, possa essere comunicabile come realità. 2) La difficoltà d' intendere come la realità contingente, che non è per se stessa oggettiva, possa essere comunicata oggettivamente. La prima difficoltà sorge nella mente di chi pensa, per due ragioni: 1) Perché non conoscendo noi per esperienza in questa vita altra realità che quella degli esseri contingenti, e trovando che questa realità è oscura per se stessa e non intelligibile, non7ente; non possiamo facilmente concepire che v' abbia una realità intelligibile per se stessa. Il che però non è ragionamento, ma forza di quell' abitudine che ci impicciolisce e limita alle cose dell' esperienza, dalla quale limitazione la mente del filosofo si scioglie solo che rifletta, come la ripugnanza ad ammettere cose diverse dalle sperimentate non è argomento a dimostrarne la impossibilità. D' altra parte, se egli è manifesto che noi comunichiamo colle essenze degli enti (la qual comunicazione si dice idea) apparirà manifesto, che per intelletto (che è la potenza dell' idea) noi potremo comunicare colla realità, se si trovi un' essenza reale per se stessa; ora tale si prova dover essere l' essenza divina. Onde non è punto assurdo che la divina essenza, realissima com' è, si possa comunicare a noi per via d' intelletto, pel quale ci è data la comunicazione delle essenze degli enti. 2) Perché l' essenza porgendosi all' intelletto nella sua condizione d' oggetto, e l' oggetto non cagionando che il conoscere senza operare nel soggetto; pare che non si possa manifestare giammai come reale, se prima non ha operato nel senso, modificandolo; perché il carattere della realità è appunto questo, di essere operativa nella realità dell' ente a cui viene comunicata, cioè nel sentimento. Il quale ragionamento non riceve per vero una soluzione di facile intelligenza, ma irrefragabile tuttavia. Perocché, si risponde che, quantunque la realità per se stessa oggettiva si comunichi come oggetto di maniera che l' ente che ne riceve la comunicazione possieda questa realità come un altro, un diverso da sé, e termini non in sé ma in quest' altro l' atto di tale ricevimento, e di tale possesso; tuttavia in quest' oggetto reale possederà la sua propria causa, e in essa troverà se stesso da cui emana (1): onde la comunicazione oggettiva sarà comunicazione oggettiva di un sommo bene: cioè di cosa che si comunica soggettivamente, cioè operando creando e perfezionando e dilettando, la qual dilettazione poi si compie col vederla nell' oggetto. Cosí avverrà che l' intelletto nell' oggettivo troverà il soggettivo, e quindi l' intelletto riceverà quella comunicazione non pure come principio di conoscere, ma ben anche come principio di sentire: onde in tal fatto la comunicazione oggettiva e la soggettiva unite insieme si alternano e insieme si unificano (1). Passiamo alla seconda difficoltà cercando se l' intelletto come senso nulla opera in questa vita, oltre attingere l' idea. « Se il senso intellettivo nella vita naturale dell' uomo si estenda alla percezione dei reali »: la risposta negativa, che altrove abbiam data a somigliante quesito, è ella vera? All' intelletto appartiene la sola intuizione ; la potenza dell' affermazione o della predicazione consegue ad esso, e però non produce un oggetto novo, ma solo pronuncia la reale ossia soggettiva sussistenza dell' oggetto intuíto. Il dubbio adunque può nascere solo rispetto alla intuizione delle essenze determinate dai sensibili, dei concetti specifici pieni, ed astratti conseguenti. Cioè si può dimandare: « se questi sensibili sieno intuiti dall' intelletto, ed intuendoli, se da ciò ne venga che l' intelletto puro percepisca de' reali ». A cui si risponde, 1) che i detti sensibili non sono sensibili all' intelletto in questo senso, che l' intelletto sia il principio sensitivo che li costituisce sensibili (giacché il sensibile o il sentito viene costituito dal principio sensitivo, come da sua causa); 2) che il soggetto umano intellettivo apprende il sensibile già formato in lui in quant' è anco soggetto sensitivo, lo apprende, non lo forma come fa il principio sensitivo, e lo apprende come entità determinata, il che è quant' a dire come essenza. Ora l' essenza, oggetto dell' intuizione, non è propriamente il reale a quel modo che sta nel senso, ché anzi ogni reale contingente considerato a questo modo è fuori dell' essenza, non è l' essenza stessa, come accade del reale necessario (di Dio), il quale dove si manifestasse all' uomo, si percepirebbe nella stessa essenza, oggetto dell' intuito, e come essenza egli stesso. A questa dottrina, certamente sottile ad intendere (la cui difficoltà consiste ad osservare ciò che si contiene nell' essenza determinata, senza aggiungervi nulla ad arbitrio), che stabilisce non poter mai l' intelletto, preso come senso, estendersi alla intuizione e percezione de' reali contingenti, si dee tuttavia qui aggiungere qualche cos' altro che la perfezioni e compia. E questo si è, che quantunque l' intelletto quando intuisce l' essenza determinata non abbia per suo oggetto il sensibile come reale, tuttavia ha per suo oggetto il sensibile nel suo modo di essere intelligibile. Perocché il sensibile stesso si può considerare: 1) o qual' è senza alcuna relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli è realità, ma non è ancor ente, né ideale né reale; è un ente imperfetto, incoato, a cui manca la forma dell' ente, è materia, quello che gli antichi dicevano non7ente; 2) o qual è in relazione coll' intelletto, ed in tal caso egli diviene ente7essenza, iniziale, ossia ideale; e qui il sensibile, come tale, è bensí supposto qual materia, ma non la forma stessa, l' essenza stessa; 3) o finalmente qual è in relazione colla ragione affermante, e solo in quest' ultimo stato egli acquista il nome di ente7reale. Onde si può dire, che quantunque l' oggetto dell' intelletto puro in tal caso non sia l' ente reale, tuttavia è un oggetto che in altra relazione, cioè in relazione al senso, è sensibile (realità non7ente), e in altra relazione, cioè in relazione alla ragione affermante, è ente7reale. Il termine è identico, ma senza relazioni all' intelligenza, non è ente: intuíto poi dall' intelletto è intuíto solo in quella sua relazione, per la quale è ente7essenza; percepito dalla ragione, è percepito in quella sua relazione, per la quale è costituito ente7reale. Dove è da notarsi, che si parla di una relazione con una intelligenza in genere, non coll' intelligenza dell' uomo. Perocché l' intelligenza dell' uomo dà al sensibile quelle relazioni che lo costituiscono ente7essenza, ed ente7reale rispetto all' uomo; ma l' intelligenza assoluta e divina è quella che gli dà tali relazioni in modo assoluto e permanente, e cosí tale lo costituisce. Ma qui giova che noi ci tratteniamo un poco a svolgere i concetti di cognizione in potenza e di cognizione in atto ; i quali sono dei piú comuni in sulle labbra e in sulle penne dei filosofi, e perciò dei piú difficili e d' una difficoltà celata; perocché i concetti piú elementari e piú necessari al ragionare si ammettono tanto facilmente per veri, che si crede di conoscerli a pieno solo perché si adoperano. E poiché Aristotele stabilí tutta la sua teoria dell' umana cognizione sulla distinzione fra ciò che si conosce in potenza e ciò che si conosce in atto, la dichiarazione di tali concetti che manca totalmente in quel filosofo, farà meglio conoscere il difetto di quella teoria. Il concetto della virtualità e della potenza è infatti dei piú oscuri e misteriosi. Perocché fra essere e non essere non si dà mezzo; ora ciò che è in potenza, egli sembra che ancora non sia, e però che sia nulla. E se non è nulla, che cosa è? Questa domanda è generale, estendendosi ad ogni essere in potenza; restringiamola per ora alla sola cognizione. Che cosa è dunque la cognizione in potenza? Che cosa è la cognizione in atto? Come vi hanno due modi di essere, l' ideale o iniziale, e il reale o sussistente; cosí vi hanno due modi di cognizione: la cognizione dell' universale, e la cognizione del particolare o singolo reale. Di piú, la cognizione dell' universale è indeterminata o determinata; e la indeterminata è piú o meno tale, onde v' ha quella che è indeterminata del tutto (l' essere in universale), v' ha quella che è solo in parte determinata, come accade dei concetti generici e specifici astratti. Ora l' universale quant' è piú indeterminato tant' è piú universale, perocché l' indeterminazione è l' universalità dell' universalità. Comprendendo dunque nell' universalità l' indeterminatezza che di tanto l' aumenta, che l' aumenta cioè nella proporzione che tengono le serie delle potenze la cui prima radice sia l' universale, cioè l' infinito, diciamo in generale che « conoscere checchessia per via d' universali è conoscere in potenza, e conoscere per via di realità è conoscere in atto ». Di che consegue: 1) che la piú attuata cognizione è quella dei particolari reali; 2) che di poi ogni cognizione degli universali è tanto piú cognizione in potenza, quanto gli universali conosciuti hanno piú d' universalità; 3) che perciò la cognizione di ciò che è meno universale è cognizione in atto, rispetto alla cognizione di ciò che è piú universale; e ciò che è piú universale è cognizione in potenza, rispetto alla cognizione di ciò che è meno universale. Dove si parla di piú e meno universali rispondentisi: a ragion d' esempio, del genere rispetto alle sue specie, e della specie rispetto al suo genere. Chi conosce il genere e nulla piú, conosce le specie in potenza solamente, come quelle che sono nel genere virtualmente contenute, ma non ancora distinte; e chi conosce solamente la specie astratta, si dice che conosce in potenza, ma non in atto ancora, la specie7piena; e chi conosce la specie piena, conosce l' individuo reale in potenza. Sicché cognizione in potenza o virtuale altro non significa, se non una relazione della cognizione di ciò che è piú universale, in rispetto a ciò che è meno universale: e cognizione in atto significa la relazione della cognizione di ciò che è meno universale, in rispetto a ciò che è piú universale. E quantunque la cognizione in potenza, ancora non sia; tuttavia si dice che è, perché non lei, ma la sua parte formale è già. Conciossiaché il piú universale è la parte formale della cognizione che ha men d' universale. I vocaboli dunque di cognizione in potenza o virtuale divengono cosí assai chiari, quando si conosca che furono inventati per significare un fatto gnomico, il servigio che fa l' universale all' intelligenza quando le è dato il meno universale, di mostrare in sé questo secondo contenuto, il che è lo stesso che farlo conoscere in atto. Queste dottrine non isfuggirono a quel grande filosofo di cui l' Italia inorgoglirà santamente piú che mai, quando riacquisterà un po' di spirito nazionale, e smetterà il suo fanciullesco attenersi alle gonne delle altre nazioni, dico a San Tommaso, il quale piú volte disse che: « qui cognoscit in universali tantum, cognoscit rem solum in potentia (1) », detto che doveva essere prezioso, se non ad interpretare, certo a dare una grande spinta innanzi all' Aristotelismo. La distinzione di cognizione in potenza e di cognizione in atto , a cui risponde l' altra di intelletto in potenza (intelletto possibile) e d' intelletto in atto (intelletto agente) fu proposta da Aristotele in occasione della difficoltà mossa da Platone nel Menone, dove sostiene che nel fanciullo dee preesistere la scienza, perché, interrogandolo opportunamente, pronuncia di belle e nuove verità, quasi ricordandosi di esse prima obliate. Aristotele sciolse la questione dicendo, che il fanciullo in parte sa, ed in parte ignora (1): sa in un modo, e in un altro ignora, poiché (soggiunge): [...OMISSIS...] . Queste due maniere di sapere sono appunto il sapere in potenza e il sapere in atto . Ma che è sapere in potenza o in virtú? E` appunto sapere le conclusioni ne' principŒ, i particolari o i meno universali negli universali o nei piú universali (2). Ma sapere i meno universali ne' piú universali è veramente saperli? Risponde, che questo non si può dire semplicemente sapere , ma si dee aggiungere sotto un rispetto ( secundum quid ), non usando gli uomini di adoperare semplicemente le parole sapere, conoscere, ecc. per indicare una tale cognizione. Piú volte San Tommaso ripete che questo è un conoscere il meno universale nel piú universale. [...OMISSIS...] . Cognizione virtuale adunque è modo, che significa un concetto tutto fondato nella relazione fra il meno universale e l' universale; e però non è un concetto vano. Dicesi cognizione , perché conoscendo il piú universale già si conosce un elemento, l' elemento formale del meno universale . Ma non dicesi cognizione semplicemente , perché non si conosce ancora il meno universale fino a tanto che si conosce solo un suo elemento, il suo elemento formale. Ma perocché, dato questo, basta che sieno poi date le sue determinazioni, a fare che incontanente si conosca il meno universale, quindi si dice che nell' universale si conosce virtualmente il meno universale. E poiché questo meno universale non è fatto conoscere dalle sue determinazioni per se stesse non intelligibili, ma in virtú del piú universale che precede nella mente e la collustra, perciò si dice che nel piú universale vi ha contenuta virtualmente la cognizione del meno universale. Aristotele dunque e San Tommaso conobbero assai chiaramente, che la virtú del conoscere il particolare o il meno universale sta nel piú universale, e però che questo è la forma della cognizione di quello: [...OMISSIS...] . E questo è già un essere andati molto innanzi. Perocché chi è pervenuto a conoscere che il piú universale è la causa del conoscere il meno universale, e conseguentemente è la forma della cognizione, non è molto lungi dal doverne conchiudere, che dunque l' universalissimo dee essere la luce prima, quella che non ha innanzi di sé altra causa nell' intendimento. Quindi Aristotele riconosce, che ogni dottrina e disciplina intellettiva « ex praeexistente fit cognitione (2) », e nel primo libro de' Fisici dice che gli universali, quanto a noi, sono anteriori ai particolari. Ma egli sembra che si contraddica nel primo degli Analitici posteriori , dove pone innanzi la cognizione particolare, perché la nostra cognizione, egli dice, incomincia dal senso. I quali due luoghi San Tommaso concilia dicendo, che negli Analitici posteriori Aristotele paragona la cognizione intellettiva, e la cognizione sensibile, e mette questa prima di quella: nei Fisici poi paragona due cognizioni intellettive, una piú universale dell' altra, come del genere e della specie, e la piú universale pone anteriore nell' uomo di tempo alla meno universale. Secondo la qual interpretazione l' ordine cronologico delle nostre cognizioni sarebbe questo: 1) cognizione del senso, non ancora intellettiva; 2) cognizione dell' intelletto, universalissima; 3) cognizione dell' intelletto meno universale. Quando poi si determina quale sia la cognizione universalissima, non cade piú dubbio che sia quella dell' ente , di che conchiude San Tommaso, che « ens est prima conceptio intellectus (1) », e poiché la metafisica tratta dell' ente, perciò non dubita che tutte le scienze ricevono i loro principŒ dalla metafisica (2). Onde Aristotele dice che negli universali (noi diremo piú coerentemente nell' universalismo) non solo vi ha scienza, ma di piú il principio della scienza, « Principium scientiae (3) », e propriamente quello che chiamarono gli Scolastici « principium quo cognoscitur », che è principio formale. Posto dunque che Aristotele accorda che la prima concezione dell' intelletto è l' universalissimo, l' ente, e che quest' è il principio d' ogni altra concezione intellettiva, rimane di vedere come a questa anteponga di tempo la cognizione che chiama sensitiva. Si riduce questa forse ad una questione di parole, cioè a veder, se ai sentimenti si possa con proprietà applicare il vocabolo di cognizione? Se la fosse cosí, sarebbe da rimettersi ai filologi. Per saperlo, convien cercare che cosa Aristotele attribuisca alla cognizione sensitiva, cioè ai sentimenti. Egli dà veramente al senso il giudicare ; ma posciaché riserba ogni universale all' intelletto, non rimane al senso che un giudicare metaforico, un giudicare senza alcun predicato universale, che però Aristotele stesso non osa dire che sia un affermare o negare (4). Riman dunque fermo, che nel senso non ci ha universale di sorta; or bene, noi quando parliamo di cognizione e di giudizio, intendiamo sempre un conoscere, un giudicare, dove l' universale intervenga. E solamente di questo conoscere trattasi di investigare l' origine. Chiarita cosí la questione, rimane a vedere come l' uomo giunga all' universale, ed anzi prima all' universalissimo che lo precede. Aristotele in alcuni luoghi dice, che vi giugne immediatamente, che l' intuizione dell' universalissimo, e dei primi principŒ che da esso derivano, si fa senza mezzo di sorta, e che però a tutti son noti per una natural intuizione senza dimostrazione alcuna (1). Ma anche dopo ciò rimarrebbe la questione: dove, e per quale occasione la mente intuisca l' universale. Ora scioglie Aristotele questa questione là dove insegna, che la mente trova l' universale nelle percezioni e sensazioni corporee, e da queste lo astrae e segrega. L' astrazione dell' universale dalle percezioni corporee si può intendere adunque in due modi: 1) nel modo in cui fu inteso volgarmente Aristotele, quasiché l' ente universale fosse già nelle percezioni corporee, e da queste si separasse come si separa un elemento da un altro: il che contraddirebbe all' altra dottrina aristotelica, che l' ente universale non si apprende dal senso, e che il solo intelletto l' apprende, e immediatamente; 2) nel modo, come l' abbiamo or ora noi proposta, che Aristotele introduca la percezione corporea unicamente come un' occasione, data la quale l' intelletto fa il suo atto d' intuire immediatamente l' universale, il quale però non è nel senso (come espressamente Aristotele dichiara), e però né pure in quello che il senso presenta. A vedere come questa seconda interpretazione sembri piú conforme alla mente aristotelica, ripassiamo la dottrina di questo filosofo circa la potenza intellettiva. Perocché egli distingue questa potenza dal senso; ma in un luogo sembra che la consideri piuttosto come un grado piú elevato del sentire, e cosí la faccia proceder dal senso; il che fu cagione che gl' interpreti rendessero Aristotele sensista, che pure se il fu, nol fu con coerenza. Ei dunque dice nel primo degli « Analitici Posteriori », che tutti gli animali hanno una potenza di discernere le cose, che si chiama da tutti senso. Ma questa potenza generica consta di tre potenze specifiche. Perocché, dato per natura a tutti il senso, 1) in alcuni non ci ha la permanenza del sensibile ; nei quali non vi ha conoscere eccetto il puro sentire; 2) in altri dopo le avute sensazioni permane il sensibile , ed in questi la forma sensibile che rimane è un quid unum , e la chiama memoria (piú propriamente direbbesi ritentiva); 3) finalmente in alcuni di questi ultimi le diverse forme sensibili che rimangono impresse si uniscono sí fattamente, che riman distinta la loro differenza, e ciò che hanno di comune e questo comune è la ragione , il concetto. Onde conchiude che [...OMISSIS...] . Questo è il luogo principale, al quale fermandosi, egli pare che Aristotele parteggi interamente coi sensisti. Ma non è da pigliare l' interpretazione cosí alla leggiera. E primieramente è notabile che in tutta la descrizione del modo onde la mente intuisce l' universale, punto non memora l' astrazione ; ma dice solamente che l' universale, il comune, rimane nell' anima da sé. In secondo luogo, soggiugne, che questo non può avvenire se l' anima non sia cotale, che possa questo patire . La qual parola patire è degna di osservazione; perocché non indica un' astrazione attiva. Il che solo, quand' anche non sapessimo altro della aristotelica dottrina, ci darebbe già forse a dubitare, se la spiegazione aristotelica dell' umano conoscimento sia conforme a quella dei moderni sensisti. In terzo luogo, l' intento aristotelico nel precitato discorso si è il dimostrare, che non vi hanno nell' uomo abiti determinati , e nominatamente l' abito dei principŒ , che chiama anco intelletto de' principŒ , ed è quanto dire la cognizione abituale de' primi principŒ del ragionamento. Ora noi concediamo tutto questo ad Aristotele, perocché non sosteniamo già che i principŒ del ragionamento, siano innati in noi, ed anzi non perveniamo ad acquistarli e formolarli se non coll' applicazione dell' idea dell' essere. E la loro formazione dee conseguentemente essere preceduta dalla percezione e dalle idee generiche e specifiche . Ma rimettiamoci sulle sue orme, e su quelle dell' Angelico che l' ha illustrato, e vediamo dove ci conduce quand' egli toglie a spiegare come deve esser fatta quell' anima che possa patire l' esperimento, pel quale rimane in essa l' elemento comune di piú cose sensibili, ossia l' universale. Allora quando l' anima è atta a ricevere in sé il comune di piú forme sensibili in essa rimaste, allora ella ha fatto l' atto d' intendere; allora i sensibili sono intesi. Ma i sensibili sono intelligibili per loro propria virtú? I sensibili hanno come tali un elemento universale da mostrare all' anima? poiché se essi hanno questo oggetto dell' intelligenza, già essi sono intelligibili per sé. Aristotele dice di no; dice anzi, che i sensibili rimasti nell' anima, che chiama anche fantasmi , sono intelligibili in potenza, ma non in atto. Se essi dunque sono conoscibili in potenza, ciò non può essere che rispetto a quell' anima, la quale intuisca l' universale dove potenzialmente si conoscono. Quell' anima dunque che può patire ciò che Aristotele chiama esperimento , dee possedere precedentemente qualche universale; altramente né conoscerebbe in potenza i fantasmi, né questi sarebbero in potenza conoscibili (1). Ma sotto questo nome di universale forse da niuna parte il rammenta, ma bensí sotto nome di lume. L' anima dunque, che può patire l' esperimento d' Aristotele, è quella che ha prima di tutto un lume, e che però non è un puro principio soggettivo; perocché il lume si distingue sempre dall' occhio che lo rimira. Ora quali sono gli effetti di questo lume dell' anima? Secondo Aristotele e l' Aquinate, essi sono due: il 1 si è di informare l' anima e perfezionarla per modo, che possa fare l' atto proprio dell' intelligenza; il 2 si è quello di rendere i fantasmi o forme sensibili, rimaste nell' anima dopo passate le sensazioni, intelligibili in atto (1). Quando dunque i fantasmi son essi resi intelligibili in atto? Secondo Aristotele e San Tommaso, quando l' anima aggiunse loro il lume che in sé possiede, cosí illustrandoli. Ma cosa è essere conoscibili in atto? Secondo i filosofi di cui parliamo, altro non è che essere conosciuti nel loro concetto, appunto l' universale, come Aristotele afferma espressamente. Dunque il lume senza il quale, secondo Aristotele, nessun' anima può patire lo sperimento deve essere l' universalità stessa, la quale tostoché s' aggiunga ai sensibili, senza bisogno d' altro lume sono conosciuti. Ma che cos' è questa universalità? e che perciò è il proprio oggetto dell' intendimento? Aristotele e San Tommaso ci dicono chiaro: « Intellectus est cognoscitivus omnium entium , dice San Tommaso, quia ens et unum convertuntur, quod est objectum intellectus (2) ». Dunque, convien dire, che l' universalità che aggiunge l' intelletto ai fantasmi, e cosí gl' illustra, sia appunto l' ente, che è concetto universalissimo onde tutti gli altri concetti ripetono veramente la loro universalità. Ma come mai dice dunque Aristotele, che l' anima nell' esperimento patisce, quando se ella dovesse aggiungere il detto lume, piuttosto opererebbe, e anzi che ricevere, darebbe del suo? Primieramente Aristotele considera il lume proprio dell' anima intellettiva, come forma o qualità passibile della stessa (3). Di poi, dice che vi deve essere nell' anima una potenzialità, di cui sia proprio omnia fieri , e chiama questa potenzialità intelletto possibile o intelletto in potenza. Ora l' intendere in potenza egli insegna non esser altro, che intendere nell' universale. Quello adunque che si può convertire in tutte affatto le cose conoscibili, non può esser altro che l' universalissimo, e questo è l' ente. Perocché: « « illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum, et in quo omnes conceptiones resolvit, est ens »(4) ». L' ente in universale adunque è quello che si cangia in tutte affatto le concezioni della mente, e a cui solo appartiene l' omnia fieri di Aristotele. Ed è da notarsi, che tutte generalmente le concezioni dell' intelletto, nel sistema aristotelico, sono considerate come qualità passive, o forme dell' anima (1). Quindi venendo l' ente in universale, che luce all' anima, a ricevere le determinazioni degli enti sensibili, in lui si fissa il comune generico e specifico di essi mediante le determinazioni del senso, e cosí l' ente in universale riceve o almen sembra che in tal fatto riceva. E considerandosi esso come parte dell' anima, dicesi che l' anima lo possiede, è atta a patire tali cose. Laonde, se Aristotele suppone che l' anima nell' intendere patisca; riconosce però, che l' anima ancora agisce nel suo atto d' intendere le cose sensibili, e in quanto ella agisce le dà la potenza dell' intelletto agente. Ora, come spiega egli quest' azione dell' anima? Primieramente egli dice che ella illustra i fantasmi, cioè aggiugne loro il lume, e cosí li fa conoscibili in atto; di poi ella astrae da essi, divenuti conoscibili in atto, l' universale. Ma che cosa è conoscibile in atto? L' ente: dunque, secondo Aristotele, l' anima considera nei fantasmi, nelle forme sensibili l' ente , e poiché con esso sono conoscibili in atto e senz' esso conoscibili solo in potenza; dunque l' ente è altresí il lume dell' intelletto agente, e i fantasmi vengono illustrati perché l' anima v' aggiunge questo lume ch' ella possiede. Dai fantasmi illustrati (2) l' anima astrae la specie, il genere, ecc., insomma gli universali di Aristotele (poiché la mente di Aristotele in quelli si fissa); e questo è facilissimo, poiché il lume aggiunto ad essi è appunto l' elemento universalissimo, che diviene genere e specie tostoché si può limitare e determinare. Conchiudasi adunque, che secondo Aristotele, in quanto l' anima possiede l' ente, ella ha un elemento che diviene ogni cosa conoscibile, e però dicesi ch' ella ha un intelletto possibile ; in quanto ella ricevendo le sensazioni, e ritenendone i vestigŒ, se ne serve come di determinazioni dell' ente, e cosí conosce intellettivamente gli enti, dicesi che ella ha l' intelletto agente . L' anima non ha dunque innata la cognizione abituale dei principŒ, né alcun abito determinato, ma solo la potenza di conoscere. Quell' anima adunque è intellettiva, e può patire l' esperimento , la quale avendo in sé l' universalissimo, lume che illustra i sensibili, ha conseguentemente la potenza di conoscere le cose tutte, mediante un primo atto di conoscere innato; perocché l' intelletto agente, come anco indica la parola intelletto, è per Aristotele un conoscere in atto, in atto cotale, nel quale si conoscono in potenza tutte le altre cose determinate (1). L' Aquinate insegna che l' intelletto possibile di Aristotele sta all' intelligibile in atto, come l' indeterminato al determinato; ed è appunto questa la maniera di dire da noi adoperata ad esprimere la relazione fra l' essere puro, che è al tutto indeterminato, e le specie e i generi, che sono lui stesso piú o meno determinato. Dice l' Angelico, che l' intelletto possibile non ha determinatamente la natura di alcuna cosa sensibile; e questo diciamo noi dell' essere in universale. Quindi Aristotele paragona l' intelletto alla tavola, che non porta ancora pittura determinata. E questa similitudine oltremodo conviene all' essere in universale. Aggiunge San Tommaso, che se vi avessero nell' intelletto gli oggetti determinati, cesserebbe il bisogno de' fantasmi ad intendere le cose sensibili. Dice ancora, che come il lume non ha in sé alcun colore, eppure riduce ad atto tutti i colori; cosí fa l' intelletto agente perché fornito del lume; ed aggiunge che egli partecipa questo lume dalle sostanze separate. Questo lume non è dunque l' intelletto soggettivamente preso, ma è l' oggetto indeterminato che informa l' intelletto, come il lume materiale non è l' occhio, ma quella forma visibile all' occhio per se stessa, per la quale e nella quale vede tutti i determinati colori. Finalmente lo stesso Angelico Dottore osserva, che Aristotele chiama l' intelletto agente anche abito , benché non abito determinato. Ora ogni abito intellettivo suppone un oggetto. Convien dunque dire, che l' intelletto differisca appunto in questo dalle altre potenze intellettive, ch' egli ha in sé la natura di potenza e di abito primitivo (1). Le quali cose tutte intorno alla mente di Aristotele e di San Tommaso ho voluto dire, perché noi non ne vogliamo già spezzare il filo della tradizione della scienza e della verità, ma ci studiamo anzi con tutte le nostre forze di rannodarlo. Dall' analisi adunque della nostra cognizione dei reali o sussistenti, risulta: 1) che la sua base è il puro sentimento (o ciò che cade nel sentimento), il qual sentimento nella mente umana non è ancor ente, perché si prende qui come è anteriormente alla percezione; 2) che la mente lo apprende come termine dell' essere iniziale (il quale è l' essenza dell' ente), e cosí appreso il sentimento è divenuto per la mente un ente, è divenuto sentimento7ente; 3) ma l' ente è cosí fatto, che egli ha due modi, ideale e reale. Quindi la mente, come ogni ente, cosí pure quell' ente7sentimento, di cui si tratta, può considerarlo come ideale e come reale ; 4) ma la forma ideale contiene sempre la stessa essenza dell' ente: dunque niun ente può essere concepito dalla mente privo di questa forma. All' incontro la forma reale non sempre contiene l' essenza dell' ente: ciò non s' avvera che nell' Ente essenzialmente reale, che è l' Ente necessario ed assoluto: gli altri tutti si dicono contingenti, appunto perché la loro realità non abbraccia l' essenza dell' ente. Quindi acciocché si percepisca anche la realità di questi, l' intendimento deve esperimentarne (sentirne) l' azione: mosso da questa esperienza, egli fa quell' atto di affermazione, col quale percepisce l' ente contingente anche come reale. Prima di riprendere il cammino, conviene che qui riassumiamo il problema dell' Ontologia. Il problema dunque è questo. L' essenza dell' essere è una; e ciò perché ogni essenza è una. E di vero, se io penso piú esseri, questi non possono esser piú, se non perché ciascuno ha l' essenza dell' essere: ma questa essenza deve essere la medesima, non un' altra; perocché se fosse un' altra, non sarebbero piú esseri, come si suppone, ma l' uno sarebbe essere, e l' altro sarebbe qualche altra cosa. Or quinci appunto si fa innanzi il problema dell' Ontologia: « Se l' essenza dell' essere è una, come gli esseri sono piú? ». Il rispondere solamente, che i piú esseri partecipano l' essenza unica dell' essere ma non sono dessa, è insufficiente a scioglierla; perocché si replica: « Supponendo che i molteplici enti partecipino l' essenza dell' essere, si suppone che v' abbiano due cose: un ché partecipante, e l' essenza partecipata: ma questo ché partecipante è egli essere? e se non è essere, che cosa è, quando nulla v' ha fuori dell' essere? ». [...OMISSIS...] come si disse in Italia, fin da quando si cominciò a filosofare. Intendere la difficoltà di questo problema è aver fatto un gran passo avanti nella filosofia. E ad intenderlo giova conoscere quante disputazioni sieno state agitate intorno ad esso: come tutta l' antica filosofia classica, cioè la filosofia italiana (perché anche la greca non è che la filosofia italiana continuatasi a svolgere) si dibatté continuamente e s' infranse entro la cerchia di questo sommo problema. A tre si riducono tutte le sètte dei filosofi. La prima è di quelli che atterriti dalla difficoltà del problema di conciliare l' unità dell' essere colla pluralità degli enti, negarono questi, e presero per motto «hen ta panta» ( unum omnia ), e ancora piú propriamente «hen to on» ( unum esse ): motto con cui fu designata la filosofia di Parmenide (1). Altri presero l' opposta via, negando l' unità dell' essere, e il motto di questa sètta fu «ta polla» ( multa ). Finalmente vennero le filosofie piú mature di Platone e d' Aristotele, i quali s' accorsero che né si poteva negare l' unità dell' essere, né la moltiplicità degli enti: ond' ebbero per loro motto «hen aei polla» ( unum et multa ), ovvero «hen polla» ( unum idemque multa ). Le due prime sètte non isciolsero il nodo, ma lo tagliarono annullando l' uno dei due termini; la terza tolse veramente la fatica di scioglierlo. Vero è che lasciarono a noi dei semi preziosi di verità, ma mancarono ad essi tre cose. 1) Non giunsero a discoprire che v' ha in questo problema una parte oscura ed invincibile. Essi s' accorsero bensí che rimaneva sempre qualche cosa di vago, di oscuro, d' incerto, onde molto dissero, specialmente Platone, sulla necessità d' un intervento dell' Essere supremo, acciocché ci si scoprisse con pienezza e certezza la verità, e l' arcano della natura ci fosse disvelato (2); ma, non avendo potuto trovare questo punto oscuro, ben sovente trapassarono il confine della mente, cioè pretesero di dire ciò che non si può sapere. Noi crediamo d' avere con precisione dimostrato in che consista questo punto ignoto, che sparge ombra su tutta la scienza ontologica conceduta all' umana mente: abbiamo detto che l' elemento ignoto è precisamente l' atto creativo , perocché, non cadendo questo nell' intuito dell' umana intelligenza, si può bensí colla riflessione conchiudere che ci deve essere, ma non si vede quale. 2) Ciò che dissero di vero, appena il toccarono, con un linguaggio breve, misterioso, né poterono quindi svolgere con chiarezza i loro concetti. 3) Finalmente riuscirono in frequenti contraddizioni, le quali o non si possono comporre o, se si possono, altrettanto studio e travaglio addimanderebbero, quanto la soluzione del problema medesimo. Delle due prime sètte la seconda, piuttosto che filosofia è volgare opinione, ed essa formò appunto que' filosofi che Cicerone chiama plebei: ma l' altra contiene un altissimo errore, e cosí ingegnoso e profondo, che può far gabbo alle menti piú perspicaci; anzi questa sola fu quella che vide il nodo della questione e ne fu vinta. Parmenide mise questo nodo in aperto, forse il primo di tutti, con mirabile sforzo d' ingegno ed eleganza di esposizione, come si scorge da' frammenti del suo poema «peri physeos» che ancor ci rimangono. Fissò l' acume del suo ingegno nell' essenza dell' ente, e argomentando da questa, tutto ridusse all' unità assoluta: attribuí l' origine della varietà ai sensi, e li dichiarò ingannevoli: onde disse ciechi gli occhi e ottusi gli orecchi e la lingua (1). Con questa maniera d' argomentare, dove non si può a meno di scorgere una mirabile forza logica, egli prova che l' essere è semplicissimo, ed è ogni cosa; e che perciò tutto è uno; e la pluralità non sono che fenomeni, cioè illusioni vane de' sensi. Il lettore sagace non potrà a meno di sentir qui tutta la difficoltà che presenta il problema ontologico a scioglierlo; la difficoltà che si trova a rispondere con rigore logico all' arguire dell' eleatica filosofia; di questa filosofia che fu indubitatamente quella che fecondò l' ingegno di Platone. In Platone stesso, come dicevamo, invano se ne cercherebbe una compiuta soluzione. Ma ciò che vide di vero questo gran filosofo, si fu il fatto che da una parte l' essere è uno, dall' altra gli enti sono piú, e che non conviene distruggere né l' un membro né l' altro del gran problema. Se egli è certo che l' essere è uno, e gli enti sono piú; dunque convien dire che la parola essere in questa proposizione « l' essere è uno »abbia un significato diverso dalla parola ente in quest' altra proposizione « gli enti sono piú »: altrimenti le due proposizioni sarebbero contraddittorie. Che cosa significa adunque la parola essere in questa proposizione: l' essere è uno? Certamente significa « l' essenza dell' essere »senz' altra minima giunta, sia che una qualche giunta le si possa fare, o no. Ora che cosa è l' essenza dell' essere senza piú? Noi vedemmo ch' egli non è già l' essere compiuto con tutti i suoi atti e termini, ma solamente l' essere iniziale «( N. S. , n. 1437) », l' iniziamento dell' essere. Ma nell' essenza dell' essere non si contiene egli ogni essere, ogni ente, ogni entità, ogni atto, ogni termine? Perocché ciò che è fuori dell' essenza dell' essere, se c' è, non essendo essere, sarà dunque nulla; come Parmenide arguiva. Qui appunto è dove sta il piú forte della questione. Ma noi abbiamo detto: I « Che nell' essere iniziale si contiene certamente tutto l' essere, ogni ente, entità, atto, termine, modo » - e questo è quel che vide Parmenide - ; ma che tutto ciò vi si contiene in un modo solo , e questo è quel che Parmenide non vide; il qual modo si chiama appunto iniziale, ideale, manifestativo, ecc.. Ora, posciaché l' essenza dell' essere contiene tutto, ella si chiama semplicemente essere . Ma, posciaché ella contiene tutto solo in un modo, non è assurdo che l' essere possa ancora avere altri atti diversi da quello, benché questi stessi atti sieno compresi nel primo, non al modo loro, ma al modo del primo. Laonde noi ci siamo spinti nell' investigazione dei varŒ modi dell' essere, e ne trovammo tre primordiali, ideale, reale, morale : e quest' è la prima divisione dell' ente, o moltiplicità che si trova nell' ente stesso, che denominammo « divisione categorica dell' ente ». E poiché questi modi sono la base delle categorie, rimase in tal modo sciolto il problema delle categorie. Ora ciò in cui si deve porre soprattutto attenzione, è sulla denominazione d' iniziale data all' essere in quanto è nel modo ideale . Poiché quando si dice che quell' essere è l' inizio di ogni essere , si prende la parola inizio in quel senso nel quale si dice « che l' idea o tipo ideale d' una torre è l' inizio d' una torre ». L' idea della torre e la torre materiale differiscono categoricamente (la qual differenza è la massima di tutte le differenze); e pure dall' idea della torre e dalla torre materiale caduta sotto gli organi sensorŒ si forma per noi un solo ente, un solo oggetto di percezione; il qual oggetto ha un inizio (torre ideale) e un termine (torre reale); e solo quando questi due elementi si compongono nella mente, allora ci ha per la mente l' ente reale che denominasi torre. Ogni qualvolta dunque si applicano i vocaboli di principio e termine entro l' ordine dell' essere reale, il principio è reale, il termine pure è reale; non differiscono categoricamente. Ogni volta che s' applicano entro lo stesso genere o entro la stessa specie di enti reali, il principio e il termine appartengono allo stesso genere o alla stessa specie. Ma nella percezione intellettiva (dove si forma l' oggetto del pensiero, l' ente) il principio e il termine né appartengono allo stesso genere, né alla stessa categoria, ma sí allo stesso ente. Poiché l' ente ha due faccie, coll' una delle quali guarda l' eternità, coll' altra il tempo: cosí giacendo nel talamo della mente il nesso della composizione dell' ente percepito, fanno tra sé il connubio il temporale e l' eterno (1). Fin qui si spiega come l' essere, benché uno nell' essenza , abbia nondimeno una trinità di modi. Questo è già un passo immenso; perocché si è già introdotta una pluralità a lato dell' unità , senza contraddizione. II Quando dunque si dice « l' essere è uno, non generato, unigeno, immobile, eterno, infinito », nel senso di Parmenide, la parola essere viene presa a significare bensí l' essere, tutto l' essere, ma in uno solo de' suoi tre modi, nel modo ideale . Quel primo modo contiene l' essenza dell' essere. Ma quest' essenza si manifesta ella a noi intieramente? Ecco un' altra questione. Ora, il fatto dimostra che l' essenza dell' essere essa sola contiene bensí ogni cosa, ma in potenza; fa conoscere tutto, ma solo potenzialmente, non attualmente: e che è la fina osservazione d' Aristotele. Appunto perché lo contiene unicamente in potenza, ella appare cosí uniforme e senz' alcuna moltiplicità. Ma primieramente noi vedemmo che l' essere ha tre suoi atti primi assoluti e totali, ossia che è in tre modi. Questi tre modi debbono certamente appartenere all' essenza dell' essere, appunto perché son modi ed atti primi dell' essere. Ma in quella guisa, onde la mente umana intuisce la pura essenza dell' essere, questa non vi trova ancora né il modo reale, né il modo morale. Dunque il modo reale e il modo morale vi è come sommerso, non apparente, indistinto; e in somma in potenza. Dunque se questi due ultimi modi appartengono all' essenza dell' essere - nel modo proprio dell' essenza - e tuttavia l' uomo, quando intuisce la semplice essenza, non ve li distingue, convien dire che l' essenza dell' essere è data all' uomo ad intuire incompletamente; e per questo difetto, dalla parte dell' intuizione dell' uomo, quella essenza appare cosí uniforme ed uguale come la ha descritta Parmenide. Questo gran filosofo adunque non si accorse di questa limitazione della mente umana; e ragionò di quell' essenza dell' ente, che è data vedere alla mente, come fosse la essenza intera, completa ed assoluta dell' ente. Tale è la sostanza delle cose ragionate precedentemente: rimane a vedere qual sia la via che ci resta ancora a percorrere per conciliare la moltiplicità degli enti e delle entità coll' unità dell' essenza dell' essere. L' essere è uno, ma egli identico ha tre atti essenziali. Se non si avesse altra distinzione dell' essere che questa, la questione sarebbe in qualche modo ultimata. Ma l' esperienza ci porge ben altra pluralità (1). Ella ci mostra in primo luogo che in ciascuno dei tre ordini cade pluralità, vi ha una pluralità ideale, una pluralità reale, una pluralità morale. In secondo luogo, l' esperienza ci mostra che almeno nell' ordine reale la pluralità degli enti e delle entità eccede l' essenza dell' ente; perocché gli enti che si dicono contingenti, non si mostrano racchiusi nell' essenza stessa dell' ente, eziandio che questa fosse a noi tutta manifesta. Ma, se si considera che è solo il contingente che introduce pluralità nell' ordine ideale e nell' ordine reale, di maniera che questa pluralità ne' due ordini è spiegata solo che si spieghi la pluralità de' contingenti; le due questioni che rimangono son queste: 1) Come può darsi un ente fuori dell' essenza completa dell' ente, come sembra che sia il contingente, quando fuori dell' essenza completa dell' ente non si concepisce che il nulla? 2) Onde la pluralità dell' essere contingente? La prima di queste due questioni è quella della possibilità della creazione; la seconda è quella della creazione stessa. L' una e l' altra riguardano il rapporto che ha l' essere contingente coll' essenza completa dell' ente; e l' essenza completa è l' essere assoluto, Iddio. Spettano dunque entrambe alla parte teologica e cosmologica della scienza. Le stesse quistioni nondimeno diventano ontologiche, quando si considera il contingente in rapporto coll' essenza astratta quale cade nell' intuito della mente. Ora, sotto questo aspetto le due questioni accennate si cangiano in altre: 1) Come noi possiamo vedere nell' essenza dell' essere quello che in quell' essenza non è, cioè il contingente? 2) Che cosa costituisca la pluralità dei contingenti? Cioè, non già come si origini il contingente, ché con ciò si torna alla creazione; ma come dall' esame del solo contingente si possa trovare e determinare precisamente ciò che lo renda cosí multiplo, come l' esperienza ce lo rappresenta. Quanto alla prima questione, noi abbiamo veduto: in primo luogo che la possibilità logica e metafisica di tutti i contingenti si contiene nell' essenza dell' essere, e quindi niuna meraviglia è che coll' essenza dell' essere si conoscano. In secondo luogo essi non sono enti se non perché si considerano uniti alla essenza dell' essere; e in quanto poi sono mere realità, precise dall' essenza dell' ente, intanto non sono punto conoscibili né tampoco concepibili. Ma come queste realità si possono unire coll' essenza, e cosí renderle concepibili, se sono all' essenza dell' essere straniere? E se sono straniere all' essenza, non sono essere. E se non sono essere, che sono? Queste domande ci riconducono alla questione teologica e cosmologica. Ma posciaché ne toccammo qualche cosa, qui riassumerò il detto. E` dunque da considerarsi che l' essere è in tre modi, l' ideale, il reale, il morale. Ora il contingente si riferisce al modo morale, perché la causa di lui non può essere che un agente libero «( N. S. , n. 299 n. ) », e la libertà appartiene all' ordine morale. Se dunque l' essere per essenza è libero, egli per essenza altresí può terminare l' atto suo liberamente. I termini di quest' atto libero, sono le realità contingenti. Dunque anche queste realità, come termini dell' atto libero, vengono ad esser compresi nell' essenza dell' essere. Rimane dunque l' altra questione: « Che cosa costituisca la pluralità de' contingenti? ». E qui si presenta tosto una gravissima domanda che forma l' argomento di questo libro. E` ella la dialettica, quella che moltiplica gli enti, come pretende Hegel? O la pluralità delle cose è ella indipendente affatto dalla mente umana? ha un fondamento nelle cose stesse? Ecco la gran questione: questione che a chi non s' è addentrato nelle profondità dell' Ontologia sembra superflua; ma che riesce tuttavia piú difficile a sciogliersi piú che la mente la penetra a fondo. Noi dobbiamo adunque, prima di tutto, esporla con chiarezza, e farne sentire la difficoltà. Qualunque cosa, di cui l' uomo ragioni, affermi o neghi, distingua o confonda, divida od unisca, ella è sempre una cosa da lui conosciuta. Da questa considerazione generale fu mosso l' autore dell' idealismo trascendentale, Emanuele Kant, a conchiudere: [...OMISSIS...] . Ma per una incongruenza, di cui fu redarguito da' suoi successori, escluse da questa sentenza le cose spettanti all' esperienza sensibile, alle quali lasciò una cotale realità pratica indipendente dalla mente; dicendo delle insensibili, che esse certo erano nella mente, incerto se anche fuori di essa. Fichte, credendo di partire da un vero inconcusso che tutte le cose non eran per l' uomo se non entro la sfera dell' Io pensante, disse di piú che non poteano esser al di fuori dello stesso Io: anche perché da' visceri dell' Io pensante si vedevano derivare; giacché tutte si ponevano con altrettanti atti dell' Io. Cosí la questione logica passò ad essere pienamente ontologica : non si trattò piú come le cose tutte si conoscessero, ma come si producessero. Ma in questo sistema rimaneva distinto ciò che poneva l' Io co' suoi atti, dall' Io ponente: l' atto del porre non poteva essere la cosa posta. Di piú l' Io poneva piú che se stesso, perché poneva l' assoluta perfezione, a cui egli sempre aspirava senza però raggiungerla. A Schelling questi parvero altrettanti difetti di quel sistema. Onde egli credette di aver fatto una grande scoperta dicendo che bisognava identificare l' Io ponente e l' Io posto, od anzi l' Io ponente con tutto ciò che l' Io poneva, e però anche coll' Infinito: il soggetto coll' oggetto; e persuaso d' aver fatto con ciò un sistema nuovo, l' intitolò il sistema dell' Identità assoluta . Applaudí Hegel al pensiero del suo maestro; ma pensò di togliere il vago e l' indeterminato di quest' identità assoluta col darle il nome d' Idea , quasiché con un nome si potesse raggiustare una dottrina: e cosí pose un' idea che fosse tutto, e divenisse tutto. A tal fine conveniva, che l' Idea fosse pensiero, e che il pensare fosse tutto, e l' Idea, essendo pensante, tutto divenisse con atti di pensiero. Essendo questa la necessità del suo sistema, tutte queste cose asserì della sua Idea; giacché, secondo il metodo di filosofare della scuola tedesca, l' asserzione continua ed imperterrita toglie ogni difficoltà. Quindi la dialettica divenne per questo filosofo la creazione stessa di tutte affatto le cose, che altro non erano se non determinazioni dell' Idea, determinazioni che l' Idea poneva con atti di pensiero, uscendo da se stessa, e rientrando continuamente in se stessa con movimento dialettico. Noi abbiamo piú volte indicati i profondi errori e i grossolani assurdi di questi sistemi. Ma, posciaché niun sistema erroneo sarebbe possibile se non tenesse del vero, nel libro presente dobbiamo tornare sull' argomento per additare altri errori. La questione dialettica è dunque questa: « Se il pensiero ponga una separazione reale tra le cose »: ossia « se la pluralità degli enti contingenti dipenda dal pensiero ». A nostro parere, si deve prima di tutto distinguere il pensiero in se stesso, e nel suo movimento. La dialettica , propriamente parlando, altro non è che il movimento del pensiero ordinato dalle sue proprie leggi; cosí presa la dialettica niente produce di reale, niente separa, niente moltiplica, ma solo distingue, e produce degli esseri di ragione. Ma, se si considera il pensiero in se stesso; se per dialettica s' intende tanto il movimento del pensiero, quanto lo stesso pensiero: in tal caso ancora la dialettica, il pensiero, niente produce e moltiplica da sé solo considerato, ma co' suoi aggiunti contribuisce alla produzione e moltiplicazione degli enti contingenti, di cui l' uomo pensa e ragiona, nel modo che si dirà. Noi crediamo di avere stabilita una base immobile all' umana certezza, il punto fermo su cui posare la leva del ragionamento, nell' essere ideale. Abbiamo mostrato che questo è ciò che tutto il mondo appella verità . All' uomo dunque è data per natura la verità stessa, e basta che ad essa ei si attenga, e la accetti dovunque ella si mostra, perché la sua mente conseguisca pienissima pace. Ma vogliamo ora solamente dimostrare, che tutti, anche quelli che non conoscono né intendono scientificamente come sia che il pensiero dell' uomo si fondi sulla verità stessa e perciò solo esista, forz' è che credano al pensiero. Infatti gli scettici stessi, quando vogliono provare col ragionamento il loro scetticismo, mostrano che credono e pretendono che gli altri credano a que' principŒ su cui fondano il loro ragionamento: credono dunque al pensiero che somministra loro quei principŒ. I Kantiani, quando dicono che le forme del ragionare sono soggettive, e però non hanno virtú se non di provare entro la sfera del soggetto pensante, tolgono al pensiero la fede in ciò ch' egli dice: perocché il pensiero dice anzi il contrario; esso dice che quelle forme sono assolute e assolutamente veraci. E tuttavia credono al pensiero, perocché essi partono da questo principio: « Gli atti di un soggetto non possono uscire dal soggetto di cui sono atti; dunque né pure i loro oggetti possono esser altro che condizioni, modificazioni, leggi d' operare del soggetto stesso ». Ma chi ha somministrato loro questo principio? Il proprio pensiero: credono dunque al pensiero; e la questione non riguarda « se si debba credere sí o no al pensiero », ma unicamente « se il pensiero dica questo, o dica quest' altro ». Gli Hegeliani dicono che altro non v' ha che un' idea, la quale pel proprio movimento si trasforma in tutte le cose. Ebbene questa maniera di ragionare suppone che l' autore di essa creda al pensiero; creda ai principŒ, su cui egli ragiona, che gli sono somministrati dal pensiero; creda all' idea, al pensiero dell' Idea, alle determinazioni che ne nascono; insomma a tutto ciò che il pensiero somministra. Convien dunque partire dal principio ammesso da tutte le parti, che « al pensiero non si può negar fede »: resta solo a consultare per sentire ciò ch' egli dice di se stesso. Movendo da questo punto fermo, possiamo pervenire a conoscere qual sia il primo errore dialettico della filosofia di Hegel, dal quale errore tutti gli altri provengono. E a scoprirlo e metterlo in evidenza, useremo il seguente discorso. Alcuni pensieri non si possono concepire senza averne precedentemente concepiti altri nei quali quelli sono virtualmente contenuti. Di qui procede che i pensieri posteriori i quali si ammettono in virtú degli anteriori in cui si contengono, non possono mai di loro natura distruggere gli anteriori che gli hanno generati, e da cui ripetono ogni loro autorità. Quindi sarebbe cosa assurda il pensare che la conseguenza, tratta da un principio, avesse virtú di annullare il principio da cui è tratta, giacché ella stessa non esiste, né ha nessun legittimo valore, se non in quanto esiste ed ha valore il principio. Per tale ragione dei contrarŒ, accade che se una conseguenza è assurda, sia assurdo anche il principio da cui si trasse. Quindi ogni qualvolta taluno stabilisce qualche argomentazione fondata sopra un ordine di pensieri posteriori, e pretende con tale sua argomentazione di distruggere l' autorità e il valore dei pensieri anteriori, vi dev' essere indubitatamente un vizio logico nel suo modo di argomentare. Or tale appunto è il vizio che corrompe nella sua radice il sistema di Hegel, e tutta la scuola tedesca da Kant a noi. Perocché ella, partendo da pensieri derivati ed ammettendoli come certi, si sforza di adoperarli a perdizione e distruzione dei pensieri anteriori, onde quelli derivano, e tolti via i quali, anche quelli son tolti. Questo è il primo errore dialettico del kantismo e dell' hegelismo: vediamolo. Qual' è l' ordine dei pensieri puri? Egli può esser espresso nel seguente schema. I Intuizione dell' essere in universale e indeterminato. II PrincipŒ supremi del ragionamento. III PrincipŒ medŒ . IV Forma del sillogismo. Quindi conséguita, che chi movesse il suo ragionamento dalla considerazione delle forme de' sillogismi, o pretendesse servirsene per distruggere l' autorità dei principŒ medŒ o supremi, cadrebbe nell' errore di logica che abbiamo indicato, poiché le forme sillogistiche non si possono ammettere senza già aver ammessi per buoni quei principŒ. Del pari errerebbe colui che, partendo da qualche principio medio pretendesse di distruggere i principŒ supremi. Finalmente sarebbe viziosa l' argomentazione di colui che, fondando il suo argomentare sui principŒ supremi, togliesse a negare e annullare quella verità che presenta l' intuizione dell' Essere, e che è fonte e vita di tutti i principŒ e di tutte le verità. Di che potremo trovare la formola del primo e universale paralogismo dialettico, la quale è questa: « ogni qualvolta si ammette il valore de' pensieri posteriori, e si pretende di stabilire su di questi una argomentazione v“lta a distruggere il valore del pensiero anteriore, vi ha paralogismo ». Kant muove il suo filosofare da un principio medio, e de' piú bassi, il quale è questo: « « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi » ». Su questo principio fonda un' argomentazione colla quale pretende distruggere il valore oggettivo dei principŒ supremi, e dell' intuizione dell' essere, e per conseguenza anche delle forme del sillogismo, argomentando in questo modo: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi; Dunque anche il pensante pensa secondo le proprie leggi; Dunque il pensiero dell' uomo, soggiacendo alle leggi del soggetto limitato come l' uomo, non può avere un valore oggettivo ed assoluto, ma soltanto un valore soggettivo e relativo. Dunque i principŒ anche supremi del ragionamento, l' intuizione dell' Essere, le forme del sillogismo, non provano già quello che mostrano di provare, ma altro non danno che apparenze soggettive, che hanno valore per l' uomo, ma non in se stesse, o almeno non si può sapere se l' abbiano ». Questa argomentazione pecca del vizio indicato, di far cioè che il pensiero posteriore distrugga i pensieri anteriori, da cui esso è nato. E veramente muove dal principio « che ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo principio si ammette come assoluto: egli è universale: abbraccia tutti i soggetti; suppone dunque che il pensiero conosca i soggetti possibili, e il modo del loro operare. Questo è il medesimo che supporre che il pensiero abbia una virtú e autorità oggettiva: che le cose siano com' esso dice che sono. Dunque questo principio: « il pensiero ha un' autorità ed un valore oggettivo, il pensiero fa conoscere le cose come sono in se stesse », è un principio che appartiene ad un ordine anteriore a quello dell' altro principio su cui si fonda l' argomentazione kantiana: « Ogni soggetto opera secondo le proprie leggi ». Questo secondo pensiero non può essere adoperato giammai per annullare il valore oggettivo del suo antecedente, che è appunto questo: « che il pensare ha un valore oggettivo ». Si dirà forse: E bene, anche il principio da cui muove Kant abbia un valore subiettivo: cosí sarà tolta la contraddizione, e tutto il sapere umano, non avrà mai piú che un valore subiettivo. - Rispondo: Per dir questo dovreste aver prima provato che « ogni pensare ha un valore subiettivo »; ma questo è appunto quello che si tratta di provare, e che non si può provare, stando alla vostra argomentazione, se non si ammette come oggettivamente certo il principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi ». Non potete dunque addurre alcuna dimostrazione che ci provi che questo principio « ogni soggetto opera secondo le sue proprie leggi »sia valido solo rispetto al soggetto, e non lo sia assolutamente ed oggettivamente. Che vi abbia dunque nell' argomento kantiano un esiziale paralogismo, risulta evidentemente dal conoscere che « con un principio posteriore si toglie ad annullare quanto attestano i principŒ anteriori, da' quali quel principio posteriore dipende »(1). I successori di Kant, e specialmente Hegel, lungi dall' accorgersi del paralogismo, altro non fecero che spingere avanti la fabbrica, lasciata difettosa dal suo fondatore, solo perché incompleta. Dice Hegel che Kant pretese di togliere via le contraddizioni della ragione - contraddizioni per altro che non sono della ragione, ma de' nostri filosofi, i quali imputano la brevità e il difetto delle loro proprie vedute alla ragione stessa - e la lotta che hanno insieme le nozioni opposte, per esempio quelle di finito ed infinito, attribuite entrambe da Kant all' universo, trasportandole dal di fuori dentro allo spirito. Ha ragione dicendo che un cosí fatto ripiego non sana l' assurdo di quelle contraddizioni, non pacifica quella lotta, perocché altro non se n' ha, se non che invece d' esser diviso contro sé e squarciato il mondo, rimane diviso contro sé lo stesso spirito. Ma qual nuovo rimedio propone Hegel? Egli fa scomparire, è vero, con Schelling dalla sua idea le dette contraddizioni, supponendo che in essa nulla v' abbia di distinto e di determimato; e dove niente è distinto e determinato, certo è tolta la pluralità, e cosí la possibilità di piú elementi contrarŒ. Ma finalmente quell' idea col suo movimento dialettico genera, secondo Hegel, quelle istesse contraddizioni fino a dichiarare l' essere uguale al nulla e la mancanza di questa derivazione dialettica di tali forme è il difetto che Hegel rimprovera a Kant. Or dunque se l' idea - e non v' è altro che l' idea per Hegel, giacché ella è tutto, ella divien tutto - è quella che produce le nozioni contrarie e le supposte contraddizioni e antinomie della ragione, non rimane cosí ne' suoi visceri lo stesso assurdo? Come Kant adunque rimosse la pretesa lotta dal mondo, e la lasciò nello spirito; cosí Hegel la rimosse a dir vero anche dallo spirito, nella condizione di atto e di effetto, ma ve la lasciò poi nella condizione di potenza, cioè la lasciò in causa nell' idea. Perocché se l' idea la produce, la deve altresí virtualmente contenere, giacché l' effetto trovasi sempre nella virtú della causa; e quest' è quello che Hegel stesso confessa: onde, venendo tolto il principio di contraddizione nella sua stessa radice, torna qui l' oppugnazione d' un pensiero anteriore - qual è il detto principio - da cui debbono pure ricevere il loro valore, se ne hanno, tutte le posteriori argomentazioni del nostro filosofo. [...OMISSIS...] . Non si può negare che qui si rilevi con molta acutezza una interna contraddizione del kantismo. Kant riconobbe che le forme logiche per se stesse hanno un valore oggettivo, hanno valore di far conoscere le cose in sé (1); ma poscia disse che mancava loro la materia, che questa non era che fenomenale, perché fuori di esse, data dall' esperienza de' sensi; onde quelle forme fatte per conoscere le cose in sé, mancavano tuttavia di valore, non si conosceva per esse che fenomenalmente. Questa contraddizione del Kantismo è importantissima a notarsi. Fichte cercò rimediarvi col supporre, che anche la materia, non solo le forme, provenisse dall' anima. Ma questo era un lasciar il solo soggetto produttore del suo oggetto: in tal caso né le forme logiche né la loro materia avevano piú un valor oggettivo. Questa loro oggettività era apparente, fenomenale; se si toglieva con ciò la contraddizione Kantiana, non si ammigliorava la condizione del conoscere. Che anzi, a dire il vero, anche la contraddizione rimaneva, perché da una parte il conoscere pareva oggettivo, dall' altra si dichiarava soggettivo. L' apparenza oggettiva lottava dunque colla natura soggettiva: l' Io ingannava dunque se stesso. Che cosa fece Hegel? 1) Hegel ritenne quello che aveva ritenuto Kant, che le forme logiche avessero un valore oggettivo; 2) disse, che il far venire la loro materia dal di fuori, cioè dal senso, importasse altrettanto che renderle inutili a produrre una conoscenza oggettiva. Questo era quello che aveva preteso Kant. Ma Hegel ammettendo che se la materia venisse dal di fuori alle forme logiche, queste sarebbero inutili, pensò con Fichte che dal di fuori elle non dovesser venire; 3) disse ancora, che Fichte aveva invano preteso di rimediare al male, col dedurre tanto le forme logiche quanto la loro materia dal soggetto, dall' Io; perocché con ciò non solo la materia rimaneva di una verità soggettiva; ma le stesse forme logiche incorrevano nella stessa rovina; e però il loro mostrare la cosa in sé diveniva apparente; 4) disse che dunque conveniva ammettere che le forme logiche avessero un valore oggettivo, e che portassero altresí la loro materia in se stesse, con che anche la materia loro diveniva oggettiva, ed il sapere oggettivo ed assoluto veniva cosí assicurato. Questo ragionamento facilmente illude, parendo che sia rigorosamente logico. Ma ch' esso non possa esser tale, il dimostrano anche i falsi ed assurdi conseguenti che ne derivano. Uno di questi si è che in tale sistema non potrebbe piú aver luogo l' errore (1), né rimarrebbe piú luogo a spiegare come il sapere umano fosse limitato. Una verace e compiuta filosofia deve dar ragione sufficiente non solo di ciò che l' uomo sa, ma ben anco di ciò che non sa: deve non solo spiegare tutti i progressi dello spirito umano, ma ben anco giustificare i lamenti altissimi che mandò la filosofia di tutti i tempi, d' accordo in questo col senso comune, sulla brevità dell' umana mente, sulla difficoltà di trovare il vero, sull' impossibilità di trapassare certi confini, sulla facilità d' errare. Dove sta dunque il vizio del mentovato ragionamento di Hegel? Esso sta qui, nell' aver egli accettata per buona quella sentenza di Kant che sosteneva non potere le forme logiche avere un valore oggettivo, quando la materia, a cui venivano applicate, giacesse fuori di esse. Ammessa quella sentenza tanto da Kant quanto da Hegel, essi si divisero solamente sul fatto: perocché a Kant parve che il fatto fosse appunto questo, che la materia venisse presa dallo spirito umano fuori delle forme logiche, e ne seguitasse quindi la rovina del sapere oggettivo; invece Hegel, trovando assurda questa conseguenza, negò il fatto, e disse che nelle stesse forme logiche dovea esser contenuta anche la materia del sapere. Il pensiero di Hegel aveva contro di sé: prima di tutto, il senso comune degli uomini, che attesta il fatto andare altrimenti; e di poi l' autorità di tutti i piú gravi filosofi antichi e moderni. Hegel rispose ingegnosamente a queste difficoltà osservando, che ciò che attestavano gli uomini era da essi attinto dalla propria coscienza. Ora, ei disse che la coscienza si formava e svolgeva a gradi. V' avea dunque una coscienza comune ordinaria; e l' opposizione, che questa faceva contro al sistema da lui proposto, potea venire dal non essere ancora formata quella coscienza a cogliere quegli ultimi fatti dell' umano conoscere, su cui egli poneva le basi del suo filosofare. Premesso dunque ciò, disse, che il lavoro del filosofo avea due parti: la prima storica; la seconda propriamente speculativa. Colla prima il filosofo dovea partire dall' ordinaria coscienza degli uomini, e, notando e narrando tutti gli stati successivi, pe' quali ella può passare, condurla fino all' assoluto sapere. Colla seconda poi dovrà, facendo il viaggio contrario, mostrare la necessità dell' origine di quegli stati della coscienza procedenti tutti dal sapere assoluto, dall' Idea. Del quale lavoro Hegel tolse a fare la prima parte nella « Fenomenologia »; la seconda nella sua « Scienza della Logica ». Ma il risultato di questa filosofia - ed è anco il principio di essa - si è questa proposizione: che « « l' essere puro e il puro niente è lo stesso » »: [...OMISSIS...] : ecco la formola di questa filosofia. La formola, che fa un' equazione dell' essere e del niente, è la formola suprema de' contraddittivi: tutte le contraddizioni sono in essa comprese; ella tutte le rappresenta come il piú alto genere rappresenta tutte le specie: e questa contraddizione prima ed universale, è la scienza di Hegel. Hegel dunque, non fa che sostituire ad una contraddizione psicologica, una contraddizione ontologica; trasportarla da un ente particolare a tutti gli enti, allo stesso essere. Egli non fa che dire, che l' ente e il niente stanno insieme; l' uno trapassa nell' altro, anzi l' uno è passato nell' altro, l' uno è nell' altro come in se stesso (2); quindi a cagione dell' identità che v' è tra loro, cessare la contraddizione! Quasi che contraddizione e identità non significassero l' opposto, non fossero contraddizione elleno stesse. Coll' ammettere quindi nel primo pensiero stesso l' assurdo, egli pretende di distruggere l' assurdo. L' annunziare una tale dottrina sembra dover bastare a confutarla. E pure quanti scioli in Germania, colla gravità e coll' autorità di professori, non l' hanno bevuta e la insegnano tuttavia come la chiave dell' universo sapere? Non è già che noi neghiamo ad Hegel molto ingegno: senza molto ingegno non si fanno bere altrui di cotali paradossi. Sia pure un Protagora, un Gorgia, un sofista qualsiasi; ma un sano filosofo, no. Anzi, appunto perché l' ingegno fu speso a piene mani per vaghezza di persuadere al mondo a rinunziare affatto al lume della ragione, egli è necessario non passare sotto silenzio i sottilissimi artifizŒ adoperati a sí tristo e funestissimo intento. Tutti gli argomenti adunati da Hegel, altro non fanno che ribellarsi contro a quel pensiero anteriore a tutti, da cui cavano il loro apparente valore, tentando di torlo via del tutto ed annichilarlo: il qual principio è quello di contraddizione. Onde tutti debbono necessariamente peccare del paralogismo dialettico da noi segnalato. Ritornando dunque al principio di Hegel che « essere e niente s' identificano », egli va cercando di levare d' attorno a un cosí strano principio l' odiosità di quell' assurdo che pur contiene, ricorrendo ad una speciale sua interpretazione. Dice che il niente, di cui egli parla, non è il puro nulla, ma quel nulla che risulta dalla negazione, o, come ancora s' esprime, dalla contraddizione: perocché, afferma, non si può arrivare al progresso scientifico, se non si giunge ad ammettere « « che il negativo è appunto il positivo » », ossia, « « che il contraddittorio non si scioglie nel nulla, nello astratto niente, ma solo nella negazione dello speciale suo contenuto » », ossia ancora, [...OMISSIS...] Ma primieramente, tanto se si tratta di una cosa particolare, quanto presa la proposizione in generale, il negativo non sarà mai e poi mai il positivo. Una cosa particolare, o piuttosto limitata, avrà bensí certe limitazioni, ma non si potrà mai dire che queste limitazioni sieno la cosa stessa. Di poi egli è vero che nella dottrina di Hegel la proposizione « « l' essere e il niente sono identici » » si restringa a quel niente che è negazione di una cosa particolare, e non al nulla assoluto ed astratto? Basta aprire la sua « Scienza della Logica » per convincersi che la cosa non è tale. Hegel incomincia in essa a parlare dell' essere semplicissimo ed astrattissimo, e questo appunto ei lo fa perfettamente uguale al niente, e il niente a lui. [...OMISSIS...] : ed è da questo essere7niente che si pretende sorgano tutte le cose. In terzo luogo, fosse anche vero che, quando il nostro filosofo dice che « « l' essere è il niente » », intenda sotto la parola niente tutto ciò che è particolare, tutto ciò che determina e restringe l' essere; non sarebbe ciononostante uno sformato abuso di parole chiamare niente l' essere indeterminato? Perocché: o si vuole che, tolte all' essere tutte le determinazioni, resti ancora qualche cosa, e in tal caso l' essere puro è essere, e però non è niente; o si vuole che, tolte all' essere le dette determinazioni, s' annulli lo stesso essere, e in tal caso si ha bensí il nulla, ma non piú l' essere. Essere e niente non possono stare insieme in un solo concetto, appunto perché essenzialmente contraddittorŒ. Coll' ammettere una tale compenetrazione e identificazione dell' essere e del nulla, la contraddizione non si toglie già, ma si accresce, si erige in principio della filosofia. L' assegnare poi alla parola niente altro significato da quello che ella ha, non è egli un introdurre gli equivoci a bel principio della filosofia? Ma Hegel ripeterà: « Che cosa è mai l' essere senza alcun contenuto? ». Rispondiamo che, se si trae dai visceri dell' essere ogni suo contenuto affatto, si avrà certo il nulla, ma in tal caso non si avrà piú l' essere; onde non si verificherà mai che l' essere e il nulla sieno identici: se poi si vorrà conservare l' essere, egli non sarà senza qualche contenuto, perché almeno conterrà se stesso. Ma egli è di piú da por mente all' equivoco della parola contenuto «( Inhalt ) » tanto usata da' filosofi tedeschi. Questa parola involge la relazione col contenente: contenente e contenuto sono concetti relativi. Onde non sono applicabili in nessun modo all' essere puro, il quale è semplicissimo: e, considerato senza relazione con altro, egli non è né contenente né contenuto; ma unicamente e semplicemente essere. E` dunque una maniera impropria il dire, che l' essere puro non ha alcun contenuto, se non si aggiunge, che non è neppur contenente: egli non è né forma né materia, in quanto queste parole involgono una relazione tra loro, ma è puro essere: l' essere cosí preso è superiore alla forma e alla materia; ma non per ciò conseguita ch' egli sia niente, appunto perché è essere. Che se si replica, che l' essere in questo stato di astrattezza e purità non è, e che perciò esso è il nulla; conviene rispondere che se non è, dunque ha cessato. In tal caso resta il solo nulla, e non resta piú l' essere. Ma sarà a dirsi in appresso esser falso, che l' essere astratto e puro al tutto non sia per la ragione che egli esige qualche determinazione, se pur la esige; a quel modo che non si può dire che l' accidente sia il nulla per la ragione che esige d' essere concepito nella sostanza. Che se la mente nostra nel concepire l' accidente lo astrae dalla sostanza, questo altro non significa se non un modo imperfetto del concepire; ma la stessa mente non potrebbe fare ciò se non conoscesse la sostanza e nel pensare compiuto non unisse la sostanza coll' accidente «( Psicol. , n. 1372 sgg.) ». L' accidente dunque è, ma la separazione dell' accidente dalla sostanza è solo nella mente. Onde si vede che le cose hanno due modi di essere, l' uno nella mente e l' altro in se stesse; i quali due modi sono appunto quelli che Hegel vuole ridurre a uno, senza che gli possa riuscire, appunto perché non può riuscire ad alcuno il dimostrare ciò che è assurdo. Si dica il simile dell' essere: se si piglia in una totale astrattezza, si potrà forse sostenere che in tale stato non sia in se stesso, ma è nondimeno nella mente: o, per dir meglio in se stesso è: ma la separazione di lui da ogni sua determinazione è solo nella mente. L' essere adunque in nessuna supposizione s' identifica col niente, sebbene la separazione di lui da ogni sua determinazione sia un' operazione o una funzione della mente: e però neppure essa è il niente. Che se poi si cerca l' origine dell' errore di Hegel, si scopre che questa giace nel concetto del diventare , preso da lui secondo l' intelligenza del volgo. La mente di Hegel manca affatto d' analisi: e questo è pure il difetto di tutte le filosofie della sua nazione, onde nasce la loro oscurità. L' ingegno germanico è certo naturalmente robusto, ma la sua coltura è troppo prematura: un paio di secoli di studio non bastano a rendere analitica una nazione. La preziosa dote della mente italiana, sommamente chiara, perché sommamente analitica, è il frutto di tre mill' anni: ogni secolo ci ha lavorato a formarla, ci ha importato altresí qualche nuovo elemento: la civiltà di questa nazione è un abito - ahi pur troppo negletto! - non è uno sforzo momentaneo e contro natura, che dopo un momento di eccessiva energia ricade sopra se stesso. In fatti che cosa significa diventare preso alla volgare? Significa che un ente passa dal non essere all' essere, o che un ente ne diventa un altro. In questo significato si suppone che ci abbia un ente, soggetto identico del non essere e dell' essere, soggetto identico di due enti successivi, l' uno che cessa e l' altro che sopravviene. Nel primo caso è un soggetto pari al nulla perché non è, e diventa un ente che è: il nulla dunque si suppone effettivamente identico all' ente. Nel secondo caso parimenti il soggetto è prima un ente, che per diventare un altro deve annullarsi. Vi ha dunque un momento nel quale questo soggetto è nulla; ma questo soggetto medesimo è l' uno e l' altro ente: dunque il soggetto medesimo pari al nulla, è ente. Ma con un po' d' accurata analisi si scorge che questo soggetto identico è una pura immaginazione e illusione; che non s' avvera mai il diventare preso cosí alla materiale, anzi non può avverarsi, perché è assurdo. Già gli scolastici, S. Tommaso principalmente, dimostrarono (non asserivano come fanno i filosofi di cui parliamo) che un ente non può divenire un altro; perché dovrebbe prima annichilarsi, onde mancherebbe l' identico soggetto della mutazione. Oltre questa prova intrinseca, l' esperienza non pone sotto gli occhi che cangiamenti di forme: mai e poi mai enti novi, o passaggio di un ente in un altro. E` inutile la questione tanto agitata dagli antichi, se si cangino le forme sostanziali, o le sole forme accidentali. Perciocché ad ogni modo trattasi sempre di cangiamenti di forme , e non veramente di enti. E poi questo cangiamento di forme è egli forse un vero diventare? Niente affatto di ciò, ma v' ha la cessazione dell' una, e la comparsa dell' altra, senza che quest' altra sia la prima, la quale anzi è cessata. E` una puerilità filosofica di Hegel il dire che vi ha un vero passaggio dell' una nell' altra. Questo passaggio realmente non esiste: è la sola mente che lo s' immagina, perché ad essa rimane presente la prima forma anco quand' è passata: ond' ella dice, di quella forma che non è piú, ma cui tuttavia la mente pensa come se esistesse, che essa è passata nell' altra. Né manco s' avvera che la forma prima cessando passi allo stato di nulla, come Hegel pretende. Ma anche qui v' ha l' illusione medesima. La forma cessata non è piú, ma è bensí ancora nel puro pensiero, che l' ha presente benché passata: onde lo stesso pensiero ad essa congiunge il nulla, come se il nulla fosse qualche cosa perché il nulla nel pensiero è qualche cosa. Ma il vero si è che il cessare di quella forma non è un passaggio, ma è un mero cessare. Onde quella forma non è già un soggetto identico, il quale si vesta ora dell' esistenza, ora del nulla. Ciò che si disse della forma intera, si dee dire delle sue parti. Ciascuna particella non si cangia, non diventa: è l' ente che rimane identico, il quale per ciò appunto non si cangia, né diventa. Onde il diventare nel senso Hegeliano, ossia volgare, non s' avvera mai: è un puro pregiudizio, un concetto confuso ed in se stesso ripugnante. Veniamo al concetto di creazione, sul quale Hegel tanto insiste, e troveremo la stessa mancanza di analisi, come pure la mancanza totale di dottrina teologica, effetto anche questo del protestantesimo, che, rinunziando a' fonti antichi della teologia, si è ridotto a fare miseramente colla filologia una teologia, come chi volesse colla grammatica comporre un libro di matematica sublime. Anzi udiamo parlare lo stesso Hegel: [...OMISSIS...] . Ecco a quali miseri equivoci s' appiglia il nostro filosofo. La cristiana filosofia non sostenne giammai, che l' essere sia venuto fuori dal niente come dall' uovo; molto meno che il niente sia il soggetto che divenne un ente, e che perciò il niente e l' essere sieno lo stesso. Ammise bensí la creazione dal nulla, ma in questo senso, che prima che un ente creato fosse, egli non era; e però egli non era il niente, né il niente era lui: il niente e l' essere sono successivi, dinanzi alla mente. Tra il niente dunque e l' ente non v' è il passaggio d' un soggetto unico a due stati diversi, e molto meno v' è il diventare. E perciò la prova che Hegel pretende cavare dal concetto di creazione, dato dalla cristiana teologia, altro non prova se non ch' egli non ha molto approfittato nello studio di questa scienza. Di poi egli dice, che, senza ammettere l' unità e inseparabilità dell' essere e del nulla, che si ravvisa nel concetto del diventare, non si può spiegare né il cominciamento né la fine dell' Universo. Egli ci fa questo sofisma. [...OMISSIS...] . Questo argomento è ineluttabile, ma che prova? Prova unicamente che niun ente è cominciato, e niun ente cessa, prendendo le parole incominciare e cessare secondo la significazione volgare e materiale, che Hegel introduce senza esame e senz' analisi nella filosofia: ma non prova mica che niente incominci e niente cessi nel vero senso filosofico di queste parole. Nel senso filosofico, non si vuol mica dire che l' incominciare sia atto dell' ente, quasicché sia l' ente quello che dà a se stesso l' esistenza: certo che se si dovesse cosí intendere, l' ente farebbe un atto prima di essere; l' ente dunque sarebbe il nulla che fa quest' atto di passare all' esistenza. Cosí la intende il filosofo tedesco; ma cosí non l' ha mai intesa la tradizione de' grandi maestri. Dicendosi che un ente incomincia, altro non si vuol dire che in un dato istante un dato ente fu, quando nell' istante anteriore non c' era nulla. Lo stesso si dica del cessare di essere: il cessare di essere non fa che significare due istanti tra quali non passa alcuna relazione di causa e d' effetto: ma nel primo istante l' ente è; nel secondo non è piú, ogni suo atto è già cessato. - Hegel può replicare: prima che l' ente, che incomincia, e prima del suo annullamento vi deve dunque essere una causa che il faccia esistere, o l' annulli. Dunque prima che l' ente sia, non v' è il nulla: dopo che l' ente è cessato, di novo non v' è il nulla. Verissimo; ma la causa non è l' ente di cui si parla. E non v' è alcun bisogno di sostenere che l' ente sia il nulla, o il nulla sia l' ente, a potersi ammettere una causa distinta dall' ente. Non ne vien mica che questa causa sia il nulla, o che sia col nulla indivisibile; appunto perché il nulla è nulla; e non si può unire né dividere, in senso proprio, con cos' alcuna. Non vi ha dunque la contraddizione che pretende di trovare Hegel in quelli, che d' una parte ammettono, che l' ente non sia il nulla, dall' altra ammettono l' incominciamento del mondo. Del resto il sofisma che adopera Hegel per dimostrare in contraddizione quelli che danno al mondo un principio, egli lo adopera puramente come un argomento ad hominem , perocché non è già egli, non può essere egli un di coloro che riconoscano che il mondo è cominciato. Il concetto del diventare in quel senso materiale, in cui egli lo prende, esclude qualunque possibilità che il mondo abbia veramente cominciato ad esistere. In vero, prendendosi il diventare come un atto dell' ente che diventa, egli è chiaro che quell' ente, che con atto proprio diventa, era prima un falso nulla, perché era un nulla che operava, e però un nulla identico all' ente. Cosí non è piú possibile altro sistema che quello dell' eternità del mondo che da se stesso continuamente si sviluppa: e questa infatti è la dottrina che Hegel confessa dichiaratamente di professare. Divien cosí il mondo una serie di mutazioni infinite, una serie di cause e di effetti, che non ha principio. Che cosa è da raccogliersi da tutto ciò? Certamente non altro che il concetto del diventare, cosí rozzo e volgare come lo prese Hegel per metterlo a fondamento del suo edifizio filosofico, è intrinsecamente assurdo, e ch' esso non è somministrato né da cangiamenti che avvengano nella natura, né dal domma della creazione, né dall' infinitesimo de' matematici. Rimane dunque, in tutta la sua nudità, la duplice contraddizione che contiene il principio della filosofia Hegeliana: cioè che l' essere sia niente; e che da un essere, che è niente, possano diventare tutte le cose. Alle quali contraddizioni assurdissime conviene aggiungere questa terza. L' Hegel inveisce amaramente contro tutti i filosofi, che lo precedettero, perché divisero le forme logiche dal contenuto di esse, e dissero che questo si prendeva dal di fuori, dal sentimento; quelle erano date dalla mente. Dopo di ciò egli pone a fondamento di tutta la filosofia l' essere senza alcun contenuto (1), e da questo essere, che non ha contenuto e che è niente, fa venir fuori, svolgendosi, tutte le cose: anzi fa lui stesso uguale al Tutto. Se quest' essere non ha alcun contenuto, dove lo prende? Dal Niente? Certamente, Hegel risponde, dal Niente : e volea dire dalla negazione . Ma se il contenuto è il niente, o si trova nel niente, dunque il contenuto stesso è l' essere, o si trova nell' essere; perché l' essere è lo stesso che il niente. Non è dunque piú vero, che l' essere puro sia privo di contenuto. E se il niente ha egli qualche contenuto da dare, in tal caso si domanda di novo dove lo prende. Tali sono le difficoltà sulle quali Hegel trapassa leggiero, senza dare alcuna soddisfacente spiegazione. Dal fin qui detto apparisce che il nostro filosofo in sostanza altro non fa che considerare i diversi concetti della mente (e ben inteso della mente umana, checché egli sogni: ché altra mente non ha in cui fare le sue osservazioni), lasciando soli questi concetti senza la mente, dichiarandoli altrettanti enti; onde l' andare e il venire di questi (nella mente) è tutto il movimento dialettico che egli vi trova, e che ei loro attribuisce, quasi si movessero da se stessi, e l' uno passasse nell' altro; ma ciò egli fa senza addurre nessuna prova ch' essi abbiano questa vita supposta, senza rendere alcuna sufficiente ragione del preteso suo movimento: meno ancora addurre ragione, perché il moto cessi, o perché non cessi mai quasi non avesse mai raggiunto il suo fine. Cosí il problema dell' Ontologia, che domanda una ragione sufficiente della moltiplicità degli enti e de' loro mutamenti, rimane colla filosofia di Hegel pienamente insoluto e lasciato da parte, e non vi si fa che un' aggiunta d' indicibili contraddizioni. Ma egli è oltremodo utile alla scienza d' investigare le origini logiche degli errori in cui si perdettero i piú celebri filosofi: e però noi vogliamo qui tornare alquanto su quella confusione tra l' idea e il verbo della mente, che abbiamo additata come la stirpe degli errori dell' Hegelianismo. Ignorare la distinzione dell' idea dal verbo della mente, è il medesimo che ignorare la differenza che passa tra il conoscere per intuizione e il conoscere per affermazione . Hegel sostiene che il niente è lo stesso dell' ente. [...OMISSIS...] . Che sia pensato il niente, si può dire: passi dunque; ma che sia rappresentato, questo poi no: molto meno ch' esso sia. Onde è dunque questo sofisma? Il conoscere per via d' intuizione è un conoscere oggettivo : ogni intuizione ha un oggetto, fa conoscere un oggetto. Il conoscere per via di affermazione o di negazione è soggettivo ; non fa conoscere un oggetto novo, ma dispone in un dato modo il soggetto in verso l' oggetto dato dall' intuizione; cioè, altro non produce che una persuasione del soggetto circa l' oggetto dato dall' intuizione. Ora quando si dice di pensare il niente, si parla di un conoscere per intuizione, o d' un conoscere per affermazione, e negazione? Certo, conoscere il niente è un conoscere per negazione. Infatti il concetto del niente non si ha che per la negazione dell' ente. L' ente è l' oggetto, l' oggetto è sempre l' ente. Questo è dato dall' intuizione. Sopravviene il verbo della mente, cioè la negazione dell' ente, e che cosa ella produce? Produce una disposizione del soggetto intellettivo verso l' ente; la persuasione che l' ente non sia: il niente dunque non è; non v' è altro che la persuasione dell' essere intelligente che l' ente intuito non sia, non esista. L' ente, che si nega dalla mente, può esser un ente particolare, possono essere tutti gli enti: ciò è indifferente: l' oggetto è sempre l' ente, e mai e poi mai il niente; ma il soggetto fa un atto riguardante quell' ente, o quegli enti, e quest' atto è la negazione, e l' effetto di quest' atto è la persuasione che quell' ente o quegli enti non sieno: e questa persuasione appartiene al soggetto, è uno stato della mente: nessun oggetto novo s' è formato: la affermazione, o la negazione, o il loro effetto, la persuasione, non producono niun oggetto novo. Questo errore di Hegel è uno sbaglio rozzo e volgare: la sua origine è nell' uso della lingua. Una parola è un segno arbitrario, non è già la cosa stessa significata; quindi l' uso della parola dipende dall' arbitrio dell' uomo. L' uomo può usare la parola anche a significare l' ente negato. A tal fine s' inventano i vocaboli niente, nulla e simili. Ma poiché solitamente le parole, e particolarmente i nomi, significano enti, perché vi è già l' abito di attribuire ad ogni parola un oggetto, un ente; quindi chi non ne considera il valore, non ne analizza il significato, si dà a credere volgarmente che tutto ciò che viene significato da un nome sia un ente, un oggetto. All' incontro, accade che si trovino delle parole, de' nomi, che non significano già novi oggetti, novi enti; ma sí anzi enti negati dall' intelligenza. Tali parole dunque sono inventate a significare quel conoscere che si fa per via di negazione, e non quello che si fa per via d' intuizione; e quindi non suffragano menomamente al sofisma hegeliano. I vocaboli dunque niente, nulla , e simili, ingannano, perché hanno una forma positiva, ma diversa da tutti gli altri vocaboli. Il significato di tali vocaboli, pensato in generale, e però supposto positivo, è un' altra classe di concetti che abbiamo chiamati virtuali : classe che denomineremo virtuali7segnativi , quali sono le lettere dell' alfabeto nell' algebra, di cui non si considera il valore, ma si suppone che abbiano tutte un valore; ond' accade poi che quando si discende a determinare questo valore in particolare, facendo passare il concetto da semplicemente virtuale in attuale, allora si trova che alcuna di quelle parole non ha valore alcuno, perché è .uguale . 0. Or questo errore è perpetuo nella filosofia di Hegel: in esso consiste essenzialmente la sua dialettica, di cui mena tanto vanto che in essa fa consistere tutt' intera la sua filosofia: quell' errore è in una parola l' argomento dialettico, col quale fabbrica que' suoi ragionamenti, che il conducono al paralogismo dialettico indicato di distruggere i pensieri anteriori mediante pensieri posteriori. E veramente la singolare scoperta di Hegel consiste in una pretesa di dedurre per via di negazioni dall' essere puro e astratto tutte le idee, e tutte affatto le cose che sono nel mondo e fuori. Egli dice, come abbiam veduto, che quando l' essere ha prodotto in sé il niente, allora è già nell' essere quell' elemento che genera e produce il contrario dell' astratto, e quindi il passaggio dell' essere astratto al sussistente e a tutte quelle che egli chiama determinazioni concrete (1). Prende dunque il niente come un oggetto novo che è, e che sorge nel seno dell' essere. Ma noi vedemmo che il niente non è un oggetto novo, ma altro non è che l' ente colla negazione: la qual negazione non è un oggetto, na una disposizione soggettiva della mente negante. Cangia dunque in oggetti queste disposizioni soggettive, che niun oggetto producono; anzi si tolgono via: e questa è la creazione dialettica del nostro filosofo. In un altro luogo spiega il suo pensiero dominante dicendo che [...OMISSIS...] . Questo, secondo lui, è il vero metodo della scienza filosofica, da lui definito [...OMISSIS...] . Ora questo movimento di sé, che da se stesso fa il contenuto della coscienza, è per Hegel una continua negazione ripetuta con continuo progresso. Perocché dice: [...OMISSIS...] . Cosí vuole che il secreto del processo dialettico consista in un continuo negare, e che quindi escano tutti affatto gli oggetti ideali e le loro realizzazioni, insomma tutte le cose. Di che procede questa conseguenza, che mentre Hegel pretende di essere filosofo oggettivo per eminenza, di modo che per lui la logica oggettiva già prende luogo della metafisica formale di Kant, e cosí divien la Critica della Critica (3), in fatto, chi va al fondo e non si contenta di parole, trova che Hegel altro non fece se non comporre la sua filosofia di elementi soggettivi, quali sono appunto tutte le negazioni; né coll' appiccar loro i nomi di oggetti si possono rendere oggetti, perché un nome non fa mutar natura alle cose. Onde questo filosofo appartiene a quella classe che altre volte ho denominata di falsi oggettivisti ( Psicol. , 13). Il filosofo nostro confessa che quella negatività, che è l' anima dialettica, è una subiettività , e pure in questa subbiettività giace tutto il vero, e per essa solo il vero è. La verità hegeliana adunque è soggettiva, anzi è un prodotto del soggetto, perché ella è solo mediante questa subbiettività «( durch die es allein Wahres ist ) »: la subiettività dunque è anteriore alla verità, appunto perché questa è per quella. Hegel non è dunque piú che un soggettivista. In fatti il negare non può essere che l' atto di un soggetto negante. E che fa un soggetto che nega? Certo non produce alcun oggetto, che né pure il produce coll' affermare. Ma altro non fa che produrre in se stesso una persuasione relativa ad un oggetto che non esiste già per l' affermazione, né cessa per la negazione; ma in ogni caso è anteriore: ed è dato nell' intuizione. Ma Hegel pretende il contrario: egli converte dunque la persuasione soggettiva in oggetto: e poiché la negazione è per lui « l' anima dialettica che ha tutto il vero in sé, e per cui solo il vero è », perciò tutto il vero, tutti gli enti, tutti gli oggetti si riducono a disposizioni, a persuasioni, modificazioni del soggetto negante. Non essendovi dunque che il soggetto negante e le sue negazioni, quindi tutte le cose sono ridotte ad una sola: al soggetto, il quale, modificandosi, per via di negazioni diviene ogni cosa. Tale è il panteismo hegeliano. Or poiché il negante non può che negare se stesso (non essendovi altro da negare in tal sistema), il se stesso è anche oggetto, e quindi è Idea. Tale è l' Idea di Hegel, che ha il movimento dialettico in sé, ha l' anima dialettica, ha il diventare, ossia il negare, che è la mediazione tra sé e ciò che diventa. E che diventa? Diventa quelle disposizioni e persuasioni che da se stessa suscita in se stessa; le quali di novo negandosi rientrano nel soggetto Idea. Onde quell' Idea, soggetto, definisce anco « l' identità della teoretica e della pratica; della forma e del contenuto », e in generale di tutte le contraddizioni. L' errore sta sempre nell' aver convertite le persuasioni , che sono stati dello spirito intelligente prodotti dalle sue operazioni soggettive dell' affermare e del negare, in altrettanti oggetti; di non avere in una parola distinto il modo di conoscere per intuizione dal modo di conoscere per affermazione e negazione; l' uno oggettivo, soggettivo l' altro. Di questo primo errore dovea nascere e nacque che un oggetto negato sembrasse due oggetti che s' identificano. Quindi l' assurda proposizione che « l' essere e il niente sono lo stesso », supponendosi che l' essere negato altro non sia che l' identificazione di due oggetti: 1) l' essere, 2) il niente. E poiché l' essere si può sempre negare, e dopo averlo negato si può negare la negazione, perciò si disse che « l' essere passa nel niente, e il niente nell' essere », e che la mediazione di questo passaggio è la negazione. E` verissimo che nella negazione, per esempio nel nulla, s' inchiude una relazione colla cosa negata, per esempio coll' ente. Ma quali sono i termini di questa relazione? L' ente è l' uno, la negazione è l' altro. La mente che nega, deve indubitatamente conoscere (per intuizione) ciò che ella nega. Ma che perciò? Ne vien forse che questi due termini facciano un solo oggetto? Né Hegel stesso può talora dissimulare, che nella maniera di parlare, che egli usa, vi ha difetto. In un luogo, dove si sforza di trasportare la negazione nell' oggetto negato, e di farla qualche cosa che con esso lui s' immedesima, confessa nello stesso tempo che le proposizioni che ne risultano non possono soddisfare (1). Quest' è una confessione ben chiara; ma manca d' integrità. Non è solo inadeguata la forma di tali giudizŒ e proposizioni; ma le proposizioni stesse sono false, contraddittorie, assurde. Ma se sono tali, perché mantenerle? Perché riguardarle anzi come le proposizioni fondamentali di tutto lo scibile? Egli dà la colpa di ciò alla natura del giudizio stesso (poiché questi filosofi incolpano di continuo la natura e la mente, sopra di cui pongono se stessi come esseri dominanti!) [...OMISSIS...] . Certo è incapace, se lo speculativo e la verità è quella appunto che vuole Hegel, la contraddizione, l' unità degli opposti: nel che ei fa consistere, come vedemmo, l' apice del sapere. Ma se all' opposto si abbandona una cosí strana sentenza, perché non si potrà esprimere in un giudizio la verità? Quelle proposizioni assurde, diventano in qualche senso vere, se si convertono in queste altre: « Il finito è l' infinito colla negazione dell' infinità; l' uno è i molti colla negazione della pluralità; il singolare è l' universale colla negazione dell' universalità ». E perché anteporre l' imaginoso, il misterioso, il falso, l' assurdo, al linguaggio semplice e vero? Certo perché, usandosi questo, il prestigio è cessato: il sofisma cade: il sistema tutto intero crolla dalle fondamenta. Del rimanente, per restringere in breve l' osservazione principale che avevamo in animo di porgere in questo capitolo, allorquando la mente pensa una relazione fra opposti e contrarŒ, allorquando pensa un positivo e v' aggiunge una negazione; ella non ne fa già risultare un solo oggetto; ma anzi stanno a lei presenti i due termini della relazione senza confondersi, e la relazione quale anello tra essi. Il gioco di voler confondere tutto ciò in uno, è dunque una mera puerilità. A torto dunque Hegel inveisce contro i logici che ammettono il principio che « la contraddizione non sia pensabile », quando secondo lui « « pensare la contraddizione è il momento essenziale del concetto »(3) ». Anzi qui scorgesi venir meno ad Hegel l' accennata distinzione tra il conoscere per intuizione, oggettivo, e il conoscere per affermazione o negazione, soggettivo. Le contraddizioni che cadono nel conoscere per intuizione e quelle che cadono nel conoscere per affermazione o negazione sono di tutt' altra natura; e quelle prime non si chiamano con proprietà contraddizioni, ma piuttosto opposizioni, ovvero relazioni di contrarŒ. Hegel poi parla indistintamente delle une e delle altre senza conoscerne la differenza: e cosí calunnia i logici. Perocché questi dicono non pensabili le sole contraddizioni per via d' affermazione o di negazione. Onde il loro maestro Aristotele definisce la contraddizione: l' « affirmare et negare idem de eodem secundum idem ». Dove apparisce che egli non riconosce altra vera contraddizione che in quel pensare che si fa per via d' affermazione e di negazione. E bene, noi qui domandiamo al sig. Hegel s' egli si reputa cosí valente da saper dire di sí e di no nello stesso tempo, dello stesso attributo, dello stesso soggetto, sotto lo stesso aspetto. Mal per lui se ci risponde di sí: sarebbe lo stesso che dirci, aver egli questa facoltà singolare di fare e di non fare nello stesso tempo lo stesso atto: di avere intorno alla stessa semplicissima questione due persuasioni tra loro contrarie: di mentire essenzialmente. All' incontro l' intuizione non fa che presentare alla mente gli oggetti nella loro pura essenza e possibilità: essa non afferma che sussistano, né lo nega. L' essenza, per essere conosciuta, non abbisogna di essere affermata, né negata: la possibilità che l' essenza ideale venga realizzata, è una relazione tra l' ente ideale e la sua realizzazione. Il giudizio, « la tal cosa è possibile », non appartiene all' essenza pura, ma alla relazione che ella ha col suo realizzamento. E` necessario ben distinguere ogni giudizio dalla mera intuizione. Del resto l' intuizione pura può avere oggetti opposti, perché egli è manifestamente vero che piú cose, opposte fra loro ed escludentisi a vicenda, sono egualmente possibili: hanno di conseguente un' essenza atta ad essere intuita. Questo accade perché la contraddizione non giace mai nelle semplici essenze attualmente intuite, ma solo nel loro realizzamento. A ragion d' esempio, io posso pensare un dato individuo umano di color bianco o di color nero; l' uno e l' altro è possibile; come possibile l' uno e l' altro non si contraddicono; ma se si trattasse di passare alla realizzazione di un individuo umano, e potess' io crearlo, non potrei già fare lo stesso individuo tutto di colore bianco e ad un tempo tutto di colore nero. Ciò dunque che non è contraddittorio pensato come possibile, diviene contraddittorio pensato come reale. L' ordine de' possibili, considerato come l' ordine delle pure essenze, appartiene all' intuizione: e quest' ordine ammette opposizione e contrarietà, ma non ammette contraddizione: l' ordine de' sussistenti appartiene all' affermazione o alla negazione, e quest' è quel solo che ammette contraddizione (1). La stessa parola contraddizione , giusta l' etimologia, significa dizione o pronunciato contrario, e le dizioni, i giudizŒ, sono appunto affermazioni e negazioni. Queste sono le contraddizioni, che a sentenza de' logici, cosí alteramente dispregiati da Hegel, non si possono pensare dall' umana mente; appunto perché l' essere reale, che esclude da uno gli altri individuati, non può aver lotta intima seco stesso. Hegel vide, che nell' intuito si possono pensare i contrarŒ, come anco si può pensare la stessa relazione di contrarietà. Da questo conchiuse che si può pensare la contraddizione ( « Widerspruch »). Certo, che la mente intuisce cose opposte, e vede la relazione fra loro di contrarietà: ma con ciò la mente non si contraddice, né in veggendo tale relazione unisce e confonde in uno le cose contrarie, anzi in virtú di tale relazione, le tiene innanzi a sé perpetuamente distinte e separate. L' unica conseguenza che si può trarre dal fatto, che il nostro filosofo osserva, non è già quella che egli ne vuol cavare, che i contrarŒ si unifichino; ma sí questa sola, e a dir vero importante, che le cose contrarie ed opposte, dalla mente pensate, debbono avere qualche unità: ma non mica una unità in loro stesse, quasi che l' una sia l' altra reciprocamente; ma un' unità fuori di loro in qualche altra cosa unica che le contenga. Infatti, non è già contraddittorio il pensare, che cose opposte ed escludentisi si trovino contenute in una terza cosa, come non è contraddizione neanco che sussistano piú cose, l' una delle quali escluda da sé l' altra. Or, che i contrari pensanti dalla mente trovino unità non in se stessi, ma in altro, l' antica logica nol negò mai, e l' accagionarla di ciò è un mostrar di ignorarla. La metafisica poi in tutta buona pace con quella logica, la qual si può dispregiare ma non mutare, insegna primieramente, che l' intendimento che ravvisa tra due termini una contrarietà, con un atto solo pensa que' due termini, e li paragona, e l' unità di quest' atto è appunto l' unità che accoglie que' due contrarŒ. Questa unità è soggettiva, e consiste nell' unità, per cosí dire, del continente, cioè nell' unità del soggetto che contiene que' due termini contrarŒ. Ma la metafisica non si ferma qui: ella s' accorge bene, che il soggetto intelligente non potrebbe trovare la relazione di contrarietà tra que' due termini, se non li paragonasse; e non li potrebbe paragonare, se non li riferisse ad un terzo termine, nel quale di novo fossero in qualche modo già contenuti. Noi abbiamo già mostrato, che questo terzo termine c' è, ed è appunto l' essere ideale (1). Si domanda come nell' essere ideale possano contenersi oggetti contrari. Rispondo: la contrarietà rimanersi tra contenuti, non passare nel continente. La quale è una proposizione che nella sua forma non involge certo contraddizione, poiché si predica cose contrarie di due soggetti diversi, e non dello stesso. Si rifletta che l' essere nella sua forma ideale è unicamente l' essere possibile, ed apparisce ben chiaro che piú oggetti anche contrari possano essere, senza perciò contraddirsi. Perocché ogni contraddizione sta sempre nell' ordine della realità, a cui si riferisce l' affermazione e la negazione. La ragione di questo si troverà riflettendosi, che l' essere ideale non porge da sé solo l' attualità delle cose contrarie, ma solo le contiene virtualmente, e la contrarietà non ritrovasi che nell' attualità delle cose stesse. Non essendo adunque l' attualità delle cose nel concetto virtuale di esse, niente vieta che questo concetto si possa riferire a cose contrarie, come a una loro comune possibilità e virtualità, a quella foggia appunto come il concetto specifico si riferisce ad infinito numero d' individui, l' attualità di ciascuno de' quali esclude l' attualità degli altri, e però in questo sono contrarŒ. Ma un altro errore di Hegel, si è ch' egli riduce ogni cognizione a quella che si ha per via di negazione, di modo che nella stessa prima cognizione dell' essere puro pretende che vi si contenga la negazione: onde il suo principio, che « l' essere è il nulla, e il nulla è l' essere ». Egli abbracciò senza esame il pregiudizio universale dei sensisti, che la cognizione dell' essere puro s' acquisti per via d' astrazione , nella quale egli vide rinchiusa una negazione , benché anche questo non sia del tutto vero, potendo nascere l' astrazione senza positiva negazione (2), bastando una dimenticanza, o un lasciar indietro, un non osservare: che sono tutti atti diversi dal negare. Ma l' astrazione non può darci l' essere puro che nell' ordine della riflessione. Pigliando dunque il filosofo alemanno per principio del suo sistema mischiato senz' accorgersi di sensismo, l' essere puro riflesso , egli, invece di sollevarsi, come pur si propone, al di sopra della riflessione , comincia anzi la serie delle sue idee da un prodotto di questa. A torto adunque egli chiama il suo essere puro un primo, un immediato: questo è anzi un degli ultimi mediati, giacché la riflessione astraente non giunge a formarsi il concetto dell' essere puro se non assai tardi. Conviene con tutta diligenza distinguere le diverse operazioni dello spirito umano. La negazione propriamente è un atto dello spirito, col quale esso nega un' entità: la è insomma un giudizio negativo. Altro è dunque che alcuni atti dello spirito intelligente non abbraccino tutte le cose, ma abbraccino una sfera di cose limitate: altro è che lo spirito neghi quelle cose che sono fuori di quella sfera. Egli è questo uno de' principali sbagli di Hegel, il credere che l' intelligenza non possa conoscere una cosa se non nega tutte le altre. Posto quest' errore, ne viene che deve primieramente esser posta come nota la totalità , e che quindi si rendano note le cose singole per mezzo di negazioni limitanti quella totalità: questa totalità nota è l' idea assoluta di Hegel . [...OMISSIS...] . Ma questa totalità nota , quest' idea assoluta , che è tutto l' essere e tutti i modi dell' essere, non avrebbe ella bisogno di venir provata? non si dovrebbe dichiarare qual relazione abbia ella coll' uomo? Convien dunque dire che quest' idea assoluta sia presente all' uomo. Ma in tal caso l' uomo che la contempla non può essere l' idea contemplata, né l' idea contemplata può essere il contemplatore. Eppure in quell' idea, secondo Hegel, si contiene tutto anche il reale e il sussistente, conseguentemente l' uomo stesso. Ma se l' uomo stesso reale e filosofante è in quell' idea, rimane a sapere se in quell' idea altro non si abbia che quest' uomo, o vi sia troppo piú. Se in quell' idea non v' è altro che l' uomo filosofante, in tal caso l' uomo che pensa se stesso sarà quell' idea che pensa se stessa, e non potrà l' uomo pensar altro che se stesso. Ora l' uomo, che pensa se stesso, ha con ciò la coscienza di sé; ma secondo Hegel quell' idea assoluta è al di là d' ogni coscienza: non può adunque quell' idea essere unicamente l' uomo che pensa se stesso. Ma l' uomo non sa d' esser uomo, se non in quanto è consapevole di sé: l' uomo dunque non è cosa alcuna di piú di quanto la coscienza gli dice lui essere. Ma la coscienza gli dice di non essere piú che un ente limitato. L' uomo dunque è questo e nulla piú. Dichiarare adunque che l' uomo sia quello che non gli dice di essere la coscienza, è una posizione gratuita, e propriamente una stoltezza filosofica. Se dunque l' uomo non ha ragione di credersi piú di una minima particella dell' universo, egli non può essere tutta l' idea di Hegel, la quale è la totalità nota per se stessa, l' unità di ogni ideale e di ogni reale. Rimane che quest' idea assoluta sia troppo piú dell' uomo, e che l' uomo sia il prodotto dell' idea assoluta che dialettizza e va negando se stessa. Or bene, se la cosa è cosí, quest' uomo posteriore al dialettizzare dell' idea assoluta, siccome da essa prodotto, come può egli conoscere questo dialettizzare che non è il suo proprio dialettizzare, ma che è anteriore alla sua esistenza? Questo è ciò che Hegel passa in silenzio. Che se pure a quest' uomo, si concedesse l' intuizione di quell' idea sua madre; in tal caso già quest' idea intuíta, che tutto comprende, non sarebbe piú l' idea assoluta: poiché nell' intuizione di quell' idea, l' intuente, in quanto è intuente, sarebbe fuori di essa; e però essa non abbraccierebbe piú tutta la realità, com' è necessario che l' abbracci secondo Hegel, acciocché ella sia idea assoluta. Rimane dunque che Hegel ci dica com' egli parli e proponga la teoria di una tale idea assoluta. Poiché lo stesso fatto del filosofare distrugge il sogno di quell' idea assoluta che Hegel prescrive. Egli si dimentica, filosofando, di essere uomo, e il volo ch' egli prende coll' immaginazione, e non punto colla ragione, non è solamente temerario e funesto come quello di Icaro, ma è di piú oltremisura ridicolo. Ma se fosse vero ciò che egli afferma, le negazioni di cui parla, dovrebbero essere negazioni fatte dall' uomo. Se sono negazioni dell' uomo, in tal caso esse tutt' al piú proveranno che debbono essere precedute da una cognizione positiva abbracciante la totalità dell' essere, da una cognizione, dico, presente di continuo all' umano intendimento. Dunque, l' argomento, tratto dal conoscere per negazione, condurrà tutt' al piú ad un' idea presente all' uomo, e perciò contrapposta all' intuito umano: perciò escludente da sé la realità sussistente di quest' intuito. Questo solo fa crollare tutto l' edifizio hegeliano, che intende di stabilire una idea dove ogni realità si contenga. Ma l' argomento si appoggia oltrecciò sopra il falso supposto che l' uomo conosca tutte le cose particolari e limitate solamente per via di negazione. Ma onde venne ad Hegel questo errore di credere che tutti i limiti delle cose conosciute sieno posti dall' atto della negazione? Questo è un errore da lui ereditato: fu Fichte quello che introdusse il primo l' affermazione e la negazione nella filosofia tedesca, come elleno fossero fonte di tutto l' umano sapere, o certo delle sue limitazioni, disconoscendo il sapere intuitivo e limitato per natura (1). Fu osservato anche da Tedeschi di buon senso (1), che Hegel prende il concetto di una cosa per la cosa stessa; egli vuole che la dialettica sia la stessa cosa sussistente che dialettizza. Questo per altro è coerente coll' aver supposto che esista un essere assoluto (l' Idea), il qual contenga ogni modo di essere, e il quale abbia un moto interno suo proprio che lo rechi a spezzarsi in piú, per via di continue negazioni, limitandosi, determinandosi. Questo moto di negazioni è quella che Hegel chiama dialettica. Ora Hegel dice che questo essere assoluto, o come egli lo chiama idea assoluta , oggetto della filosofia, rimane sempre presente nel principio, nel progresso e nella fine, appunto perché ogni ente è lui stesso negato in qualche sua parte o determinazione. Essendo dunque quest' assoluto ogni cosa per via di negazioni, niuna meraviglia piú è se ogni cosa abbia la sua dialettica, e se ogni mutazione dell' universo altro non sia che un' operazione dialettica. Tutto ciò vien esposto da Hegel in un modo oscuro, lambiccato, forzato, senza addurre mai una prova che abbia forma di prova, accumulando asserzioni sopra asserzioni; e non dandosi cura di ciò che ad ogni passo gli si potrebbe opporre. Innumerevoli osservazioni noi potremmo fare su questa dottrina: ci restringeremo ad aggiungerne alcune poche a quelle che abbiamo fatto sopra. I Osservazione . - L' esistenza dell' idea assoluta di Hegel non può essere considerata tutt' al piú che come un presupposto gratuito. Questo supposto è introdotto dal nostro filosofo pel bisogno di rispondere agli argomenti degli scettici. Tutto l' argomento con cui si crede di provare l' esistenza di quell' idea si riduce a questo entimema: « Gli enti come sono concepiti siccome pure i loro concetti, hanno in sé la contraddizione, sono assurdi in se stessi considerati, come dimostrarono gli scettici. Ma non può ammettersi che sieno assurdi intieramente. Dunque debbono avere un altro modo di essere, nel quale non sono assurdi. Questo modo è il considerarsi in un' idea che tutti gli contenga senza distinzione, e però senza contraddizione che nasce loro dall' essere distinti. Dunque quest' idea, avente l' universalità e la totalità degli enti e dei concetti, esiste ». A convincere d' invalidità questo modo di argomentare, basta negare la maggiore. Noi abbiamo già sopra avvertito che negli enti e ne' concetti v' ha bensí distinzione, ma non per questo contraddizione: questa ce la pone Hegel del suo. II Osservazione . - L' ipotesi d' un' idea che contenga la sussistenza, è assurda. Perocché la sussistenza non si conosce per via d' idee, o per via di concetto, ma per via di sentimento e di affermazione. Nell' idea e nei concetti non s' intuisce che l' essenza possibile delle cose, la loro conoscibilità. Si confonde dunque l' essenza possibile col sentimento che la realizza. Converrebbe dimostrare che questi due modi dell' essere s' immedesimassero; ma quest' è quello che Hegel non fa né può fare, perocché una cosa semplicemente conosciuta come possibile, e una cosa sentita come reale, porge due modi di essere affatto distinti. Queste due cose potranno annodarsi in un essere intelligente; ma confondersi no. La conoscibilità e la sussistenza delle cose rimarranno sempre distinte e incomunicabili, niuna di esse potrà perdere la sua natura passando nell' altra. III Osservazione . - Si suppone che l' idea si presenti da prima come un universale, puro essere; e che poi quest' idea, negando se stessa, produca in sé le distinzioni contraddittorie. Ma quest' attività che ha l' attività di negare se stessa, onde viene? Tutto ciò è asserito gratuitamente. Non basta: tutto ciò ripugna. Se l' idea da principio è un universale, senza distinzioni; dunque non può avere la forza di negare se stessa, perché già non sarebbe piú semplicemente universale, essere purissimo; ma un essere determinato, appunto perché avrebbe una speciale facoltà. Le determinazioni dunque non sarebbero l' effetto dell' esercizio di tale facoltà, essendo la facoltà stessa una di esse; l' avrebbe senza darla a se stessa. IV Osservazione . - L' idea, negando se stessa, diviene il nulla. Ma: o s' intende con ciò che l' idea veramente diviene il nulla, nel qual caso s' avrebbe l' assurdo d' un essere, del sommo essere, che annulla se stesso; cosa ripugnante alla natura dell' essere; o s' intende che negando se stessa produce a sé il concetto del nulla, restandosi ella quel di prima. In tal caso la negazione non produrrebbe che concetti, e non s' avrebbe piú una negazione veramente efficace, operante la realità. V Osservazione . - L' idea diviene ogni cosa negando le proprie determinazioni contraddittorie, correlative. Ma non si può negare ciò che non si conosce. Dunque l' idea conosce in se stessa tutte queste determinazioni, prima che le neghi; e le conosce distinte, perché la negazione nega l' una e lascia l' altra. Dunque non è la negazione che produce tali determinazioni, ma prima già sono, e sono conosciute. E se si dice che non sono conosciute, ma che l' idea s' affissa in se stessa, e cosí vedutele, va poi negandole; in tal caso: 1) Ad ogni modo prima di negarle le viene a conoscere per intuizione o percezione, e però non è la negazione che le produce. 2) Oltre la facoltà di negare, e ancor prima, convien dare all' idea la facoltà di riflettere su di se stessa (cosa oppostissima al sistema di Hegel), d' intuire o di percepire: cosí si aggrava la difficoltà; perché non si può supporre quell' idea come un semplice universale, ma è giocoforza che fin da principio si presenti come un soggetto fornito di varie facoltà, e variamente determinato in se stesso. 3) Finalmente, se la cosa è cosí, in quell' idea non possono scomparire la contraddizione, e tutti i correlativi, ma debbono esser in essa distinti fin da principio. Torna dunque in pieno vigore l' argomento di Jacobi: o quell' idea è un semplice, e in tal caso come da sé sola produce il moltiplice? o è un moltiplice, e voi facendola semplice vi contraddite fin colla prima parola. Ora tutta la ragione del sistema hegeliano è la necessità di conciliare ed abolire le pretese contraddizioni, che gli scettici trovarono negli enti e ne' loro concetti. A questo nulla giova l' ipotesi di quell' idea: dunque il nostro filosofo ha buttato la sua fatica indarno. VI Osservazione . - Fichte diceva che l' Io pone contro se stesso il Non7Io. Hegel, che l' idea poneva tutti i suoi contrari per via di negazione. Ma altro è che l' Io e il Non7Io si trovino esistere in una certa opposizione; altro asserire che l' Io stesso è l' autore del suo contrario. Quest' asserzione, oltre essere del tutto gratuita, oltre essere una illazione falsa, perché quel che è un fatto si converte in un causale, non rimedia punto al difetto della contraddizione supposta, anzi raddoppia la difficoltà, perché, oltre rimanere a spiegare come esista una contraddizione in natura, rimane di piú a spiegare come un termine di questa contraddizione possa produrre la contraddizione stessa, producendo un suo contrario. La stessa osservazione si deve applicare al sistema di hegel. VII Osservazione . - Se davanti ad una mente fosse un' idea generica e nulla piú, detta mente potrebbe considerare quest' idea generica come un' entità particolare, ma non potrebbe mai trovare le specie subordinate a quel genere, né gl' individui di questa specie, e molto meno la reale sussistenza di questi individui. Sieno pure le specie virtualmente contenute nel genere, è impossibile che ella ve le distingua traendole fuori a priori . Soltanto quando le sono date a posteriori , allora le può trovare. Questo è un fatto somministrato dall' esperienza; ed ancor dalla natura dell' universale e della sua virtualità. Hegel dirà, che egli non distingue la mente dall' idea, ma che è la stessa idea universale quella che trova in se stessa i meno universali distinti e i reali sussistenti. Ma la difficoltà rimane la stessa; poiché è dalla natura dell' universale che quella difficoltà procede: se è universale non ha in sé distinti i concetti minori, né le realità, altramente non sarebbe universale. Quando anche dunque l' universale si ponga vivente e pensante, egli non potrebbe vedere in sé ciò che gli manca, né potrebbe uscire di sé per sapere ciò che gli manca. VIII Osservazione . - Il reale abbraccia Iddio e il mondo; e il mondo si compone di innumerevoli enti fra loro distinti. Questi possono essere piú o meno, maggiori o minori, di varie forme e nature. Di piú l' uomo non li conosce tutti, e ne va scoprendo di piú ogni giorno. Egli sa, che per quanto pensi non ne può scoprire un solo e conoscerne la natura positiva ragionando a priori . Cosí, per quantunque pensi, se gli manca uno de' suoi sensi, egli non può piú conoscere la natura positiva di quegli enti che si riferiscono al senso che gli manca. Niuna idea gli produce il sentimento corrispondente. Di piú ancora non dipende dal suo pensiero, che gli esseri vengano sottoposti a' suoi sensi. Questo è quello che accade all' uomo. Ora una teoria del sapere umano deve dare ragione di tutto ciò: ma l' idea assoluta di Hegel nulla spiega di tutto questo. Quest' idea, secondo lui, si trasforma nell' uomo stesso, nello spirito soggettivo e nel mondo, mediante altrettante negazioni, che le fa fare: la consapevolezza dell' uomo riceve le sue leggi da quell' idea, ed è quell' idea stessa. Ma quell' idea, opera ella a capriccio? od ha in sé qualche ragione che la obblighi ad operare piuttosto in un modo che in un altro? e qual è questa ragione? Di tutti questi fatti il sistema di Hegel non dà la menoma ragione; né solo li lascia inesplicati, ma li rende inesplicabili; perocché la sua idea, da cui tutto dipende, non è sapiente, e pur non può essere capricciosa. Non è sapiente, perché non è indicata la ragione che la possa movere a negare se stessa. Non può essere capricciosa, volendosi ch' ella sia la ragione stessa, l' autrice di tutte le cose, il fonte d' ogni sapere; e il mondo mostra vestigi di sapienza luminosissima, e la sapienza non può essere senza sapienza. Dobbiamo parlare della vuota visione , dove Hegel ripone il principio della scienza, e l' Assoluto stesso che col principio della scienza s' immedesima. Hegel conviene che per ciascun uomo la scienza deve muovere dalla propria coscienza (1). Ma egli fin da principio confonde la coscienza cogli oggetti contenuti nella coscienza definendo l' Io « « La coscienza di sé qual mondo moltiplice all' infinito » » [...OMISSIS...] . Or quest' è idealismo (piú propriamente il soggettivismo) ricevuto da Hegel come cosa già passata in giudicato, come un nuovo pregiudizio. E su questo errore il nostro filosofo erige il suo gotico edifizio. Or, la coscienza, interrogata a dovere, attesta ad ogni uomo che il proprio Io non è il mondo . Conviene dunque non già supporre preventivamente e senza esame, che il Mondo sia nell' Io, come il vino è in una botte, ma piuttosto diligentemente osservare la natura che ha la relazione che passa tra l' Io e il Mondo. L' Io può essere considerato nella sua parte sensitiva; la relazione peraltro del mondo materiale con un principio sensitivo, se ben si esamina, suppone un extra7soggettivo, una virtú che non cade nel sentimento, ma sí agisce in lui modificandolo (relazione di azione modificante); suppone altresí un esteso sentito, termine del sentimento, ma opposto al principio senziente, e però molto piú inconfusibile con lui (relazione di sensilità). In tutto ciò non si tratta ancor dell' Io, ma del mero principio sensitivo: l' Io è il principio razionale, e la relazione di questo col mondo è quella di percipiente a percepito. Ora, in nessun modo mai il percepito è il percipiente, o viceversa; esigendo la natura della percezione, che l' uno non sia l' altro. La coscienza lo attesta, e nessuna argomentazione vale a indebolirne la testimonianza; perocché, l' attestazione della coscienza è appunto uno di que' pensieri anteriori, dalla cui autorità dipendono tutti gli altri. E` dunque da tener fermo questo primo errore psicologico di Hegel di confondere il percipiente col percepito, di voler identificare l' uno all' altro, e ciò per via di una semplice asserzione, e di un mero postulato, quantunque ei si mostri tanto contrario a' postulati. Hegel dunque, dopo aver detto, che ciascun uomo move necessariamente dalla coscienza, dice, che il filosofo deve innalzarsi da questa al puro sapere . E che cos' è il puro sapere? « E` l' ultima assoluta verità della coscienza »(1). Suppone dunque che la coscienza abbia bisogno di prova e di giustificazione, che la sua assoluta verità stia nel puro sapere. Questo si potrebbe accordare qualora il nostro filosofo non avesse identificati gli oggetti della coscienza colla stessa coscienza. Perocché se questi oggetti sono distinti da lei, in tal caso ella potrà trovare in essi, in alcuno di essi, la sua verità e la sua giustificazione. Cosí appunto accade nel nostro sistema, nel quale l' essere (la verità) sta presente alla coscienza senza immedesimarsi con essa, ed essendo quest' essere la verità, il primo lume, tutto viene per lui dimostrato: anche la coscienza riceve da lui la sua autorità, il suo valore. Ma se gli oggetti tutti si identificano colla coscienza, nulla piú resta di distinto da essa, onde possa mutuare la sua verità, e provare la sua veracità; perocché essi sono gli oggetti conosciuti, e gli oggetti conosciuti sono la coscienza. Ma tornando al sapere puro di Hegel che costituisce l' assoluta verità della coscienza, è egli questo sapere puro nella coscienza o fuori di essa? Il nostro filosofo dice, che il sapere puro è « « risultato dal sapere finito della coscienza » » [...OMISSIS...] ; dove alla coscienza attribuisce un sapere finito, prendendo la coscienza come sinonimo di sapere: all' incontro il sapere puro secondo lui è infinito. Quindi il puro sapere, essendo infinito, sembra fuori della coscienza, che è un sapere finito. Dice ancora che [...OMISSIS...] : dove sembrerebbe che la coscienza stessa si trovasse nell' assoluto sapere in cui è portata nel suo sviluppo. Ma veniamo piú d' appresso alle sentenze del nostro autore. Dopo aver detto che la filosofia deve cominciare dal puro sapere, paragonando il puro sapere coll' Io , cioè colla coscienza, dice che [...OMISSIS...] . Non approva quindi di cominciare la scienza dall' Io come fece Fichte. All' opposto si deve cominciare da un semplice dove non v' abbia oggetto distinto dal soggetto. Laonde dice, che l' Io non potrebbe essere principio della scienza, se non si divide dalla moltiplicità de' suoi oggetti, che il rende concreto, e che cosí separato non è piú l' Io comune. [...OMISSIS...] . Al qual ragionamento noi opponiamo le seguenti osservazioni: L' Io è un principio razionale riflesso «( Psicol. , 61 sgg.) ». Non v' ha alcuna speranza di far cessare in lui la distinzione del soggettivo e dell' oggettivo, perché un principio non è intellettuale o razionale, se non a questa condizione, che egli abbia un oggetto da intuire o percepire, il quale nella sua forma di oggetto da lui si distingue. La distinzione dell' oggetto e del soggetto cessa soltanto allora che cessa l' intelligenza. Di che si raccoglie che il concetto fisso nella mente del nostro filosofo non poté essere altro che quello della materia e del senso, dove solo è l' abolizione del soggettivo e dell' oggettivo, posta da lui a condizione del suo puro sapere. Non vi ha dunque un atto, il quale possa sollevare il concetto dell' Io al puro sapere, come il nostro autore s' esprime, senza che ne rimanga affatto distrutto l' Io medesimo. Del resto egli è vero che in quel puro sapere, onde incomincia la scienza, non cade la distinzione dell' oggetto e del soggetto; ma è vero in tutt' altro senso, e a tutt' altra condizione. Cessa la distinzione nel puro sapere, perché non rimane altro che l' oggetto intuíto: il soggetto vi è del tutto escluso. Onde rimane escluso il Sé dalla sua cognizione; il Sé vi è solo come operante, non come conosciuto. E questo si avvera prima di tutto nell' intuizione di quell' essere essenziale, che è il vero principio della scienza. Dove si noti che quando noi diciamo che l' oggetto permane, diciamo ciò, intendendo che non rimane come oggetto, involgendo questo vocabolo la relazione col soggetto, ma vogliamo dire che rimane quell' ente, al quale poscia la riflessione attribuisce la qualità e denominazione d' oggetto, inserendolo al suo soggetto. Ora questo che facciamo noi, non può fare Hegel, il quale immedesima l' oggetto colla coscienza. Egli volendo evitare una dualità in quel primo vero onde incomincia la scienza, e perciò sbrigarsi dalla distinzione dell' oggetto e del soggetto, che fa? Immagina che questi possano andare insieme, e svariarsi l' uno nell' altro, ciò che è assurdo ed affatto opposto alla natura della cosa. E perché viene egli a cosí arbitrario partito? Per amore del suo sistema di cavare dal primo vero non pure tutta la scienza, ma tutte le cose reali e sussistenti altresí, quasiché l' essere non avesse altro modo che il scientifico. A tal fine doveva dunque stabilire un principio che contenesse il germe dell' ideale e del reale, e che non fosse tuttavia né l' uno, né l' altro, ma virtualmente fosse l' uno e l' altro: questo principio, non trovandolo, se lo immaginò. E pure aveva egli stesso detto questa buona sentenza che [...OMISSIS...] ; ma non gli valse. Egli si ridusse alla vuota visione degl' indiani filosofi, dove scomparisce ogni ente determinato, e credette d' essersi rinvenuto in essa al fonte di tutte le cose e di tutte insieme le idee. [...OMISSIS...] . Vi ha bensí un pensare puro; ma questo altro non è che il pensare naturale all' uomo, l' intuizione dell' Essere ideale indeterminato. Nel puro essere non è ancora compreso l' ente pensante, né è compresa alcuna realità, e però l' uomo pensando all' essere non pensa a soggetto, e non pensa alla relazione che l' essere ha con sé pensante. Questa relazione la scopre in appresso per via di riflessione, ed è allora che l' essere intuíto è diverso e contrapposto a sé intuente: il che è quanto dire, lo ravvisa nella sua relazione di oggetto e soggetto. Nel puro semplice pensare non è ancora la coscienza incominciata. La coscienza dell' Indiano che nomina Brama, dicendo sempre: Om, Om, Om, può essere bensí illusa, ma non vuota. Può bensí l' Indiano contemplare, non pensare ad un oggetto determinato: ma se veramente pensa, egli deve avere un oggetto almeno indeterminato, avrà il tutto senza distinzione, avrà l' origine delle cose, o checché altro egli attribuisca al suo Brama. Ora un oggetto anche indeterminato, non è certamente un nulla: perché neppure un concetto o un astratto è nulla: ed appunto perché non è il nulla, appunto perché è un oggetto, egli si distingue dall' atto del pensare, che ha condizione di soggetto. Fa meraviglia che Hegel non abbia potuto capire che chi pensa, in qualsivoglia maniera pensi, dee pensare ad un oggetto; che un oggetto indeterminato dee ancora essere un oggetto; e che se si toglie via tutto da quest' oggetto, si toglie con ciò stesso anche la possibilità di pensarlo: se poi resta qualche cosa, incontanente sopravviene la dualità del pensare e del suo oggetto sintesizzanti. Ma viemaggiore è l' abuso ch' egli fa della parola coscienza , quasi fosse sinonimo di pensare. Il pensare può essere oggetto della coscienza, e appunto da ciò da lei si distingue. La coscienza è un pensare riflesso, pel quale l' uomo sa ciò che passa in sé. Quindi è una grossolana illusione di credere, come fa Hegel, che la pura e vuota coscienza, possa essere cosí immediata, onde possa cominciare la filosofia. Ancora egli è assurdo parlare della coscienza vuota , quasi potesse essere senza oggetto. Falso è poi che la coscienza possa avere per oggetto immediato un indeterminato; dappoiché la coscienza ha sempre per suo oggetto lo stesso principio intellettuale e razionale a cui la coscienza appartiene, esprimendosi coi vocaboli sé, me, io , e simili. Noi stessi dunque siamo l' oggetto della coscienza, e noi siamo enti attuali, sussistenti, e determinati, benché possiamo essere consci di pensare ad oggetti indeterminati. Finalmente, mai e poi mai si potrà dire che questa coscienza vuota immaginata da' filosofi tedeschi sia l' Essere, l' essere puro; questo è l' oggetto del pensare, non della coscienza: e l' oggetto del pensare è distinto per sua propria natura inconfusibile coll' atto del pensare. Vi ha dunque difetto totale di analisi nel nostro filosofo: ond' avviene che egli confonde in uno i concetti piú disparati. Ora in questa confusione appunto egli si lusinga di aver trovato il principio della scienza e del mondo. Perocché a lui pare di aver fatta scomparire ogni distinzione fra soggetto ed oggetto, fra reale e ideale, fra sapere ed essere, fra essere e nulla; e che tuttavia gli rimanga in mano un germe fecondo, avente un movimento dialettico che riproduce dal proprio seno, dopo averle ingoiate, tutte quelle distinzioni. Ma in sostanza, se si désse veramente, o se concepir si potesse quella coscienza vuota, altro ella non sarebbe che un soggettivo, o il concetto astratto di un soggettivo, affatto incapace di produrre cosa alcuna da sé medesimo. E questo soggettivo dimostrerebbe nuovamente che il sistema hegeliano pecca di soggettivismo fino dalla prima sua mossa: perché quella coscienza non può essere finalmente altro che il concetto del soggetto intuente con astrazione da ogni oggetto. Coll' invece cominciare dall' oggetto, che solo è essere puro, incomincia da un soggetto, ossia dal principio soggettivo astratto, e il fa produrre fuori di sé tutti i concetti e le cose (gli oggetti) che si possono pensare a lui contrapposti (1). Ma, che questi sieno per loro natura a lui contrapposti, è un fatto; ch' egli poi li produca per proprio spontaneo e necessario movimento, non si dimostra in tutte l' opere voluminose del nostro filosofo; onde il passaggio, la pretesa loro generazione, il mirabile loro parto dalla coscienza vuota, non si vede, né niuna levatrice v' ebbe mai assistito, né può quindi attestarlo, foss' anco la madre di Socrate. Altrove abbiamo indicato, che i pensamenti ontologici, fino al cominciamento della filosofia in Italia, si divisero in tre sentenze. Alcuni sostennero che l' essere era uno ed immobile: tutto il resto esser fenomeno e illusione. Altri dissero che non s' aveano se non esseri moltiplici, trascorrenti, continuamente mobili, nascenti e morienti. Finalmente la filosofia matura di Platone e di Aristotele disse che v' avea l' uno e l' altro essere. Hegel retrocede e s' aduna colla seconda schiera. Infatti ponendo Hegel a principio della scienza il diventare , egli non potea piú riconoscere nulla di veramente stabile ed assoluto. Egli ci dice che « non vi è nulla né in cielo, né nella natura, né nello spirito, né ovunque sia, che non contenga tanto l' immediatità «( Unmittelbarkeit ) », quanto la mediazione «( Vermittelung ) », cosicché queste due determinazioni si mostrano come indivise e indivisibili , e la loro opposizione «( Gegensatz ) », come un nulla «( Nichtiges ) » »(1). Di vero, se per immediatità e per mediazione il nostro filosofo intendesse semplici vedute dello spirito, volendo significare che ogni cosa può essere dallo spirito pensata in modo immediato e in modo mediato, considerandosi come un immediato quand' ella si prende quale principio onde dedurre altre cognizioni, e come mediato quando si deriva e deduce essa stessa da un altro; in qualche modo potrebbesi lasciar passare quella sentenza. Ma no: ché per Hegel la veduta dello spirito è la stessa cosa, lo stesso oggetto: la diversità di veduta viene cosí trasportata nell' oggetto. Onde tutto, anche Dio stesso è : ed intanto è un immediato; e diventa , s' annulla, e torna a diventare: e intanto è un mediato. Tale è il circolo dialettico di Hegel. Laonde all' essere stesso, e però ad ogni essere, Hegel attribuisce di fare equazione al nulla. [...OMISSIS...] : di maniera che Dio stesso non avrebbe la verità se non isvanisse nel nulla; e alla sua volta non diventasse: lo stesso fluire di tutte le cose è il divino di Hegel. Hegel fu accusato di Panteismo e di Ateismo: vediamo se la cosa sia fondata. I sistemi di Panteismo si possono dividere in due classi: tutti fanno di Dio e del mondo una sola sostanza: ma alcuni a questa loro unica sostanza lasciano tutti gli attributi divini; altri le tolgono questi attributi e non le lasciano che quei soli che appartengono alle nature limitate. I primi sono manifestamente incoerenti, perocché gli attributi divini escludono quelli delle nature limitate, e il legare insieme cose sí opposte è contraddizione manifestissima. Tuttavia, non annullando essi direttamente le proprieta di Dio, non si possono dire assolutamente atei; benché il loro sistema tenga in seno il germe dell' ateismo, bastando levargli la contraddizione grossolana in cui cadono, perché ne riesca un ateismo puro. Ai secondi assai meglio conviene il titolo di atei che di panteisti, perocché in fatto annullano i caratteri della divina natura. Ora vediamo se all' una o all' altra classe di questi s' accosti il nostro filosofo. Tutte le cose si riducono alla sua idea assoluta: il movimento dialettico, che ha in se stessa, per via di negazione la trasforma in tutte le cose: ella è Dio, ella il Mondo, ella la Natura, ella lo Spirito. Tuttavia gli ripugna assai la parola di Panteista. Vediamo dunque com' egli se ne purghi: [...OMISSIS...] . Pianta dunque la sua difesa sulla definizione del Panteismo. Se questa definizione è accurata, egli se ne va netto ed assoluto, venendo tutta la colpa a ricadere su tutti gli altri uomini del mondo, i quali tengono che essere sia essere, e niente, niente. Perocché egli all' incontro tiene che essere sia niente, e niente sia essere, ed essere e niente sieno lo stesso, e costituiscano il diventare di tutte le cose. Dio stesso per lui diventa, come diventa il Mondo e lo Spirito. Ora, poscia che ciò che diventa non può essere Iddio, conseguita che, sebbene nel suo sistema tutto si riduce ad un solo principio, il diventare; tuttavia egli non sia panteista, perché Iddio manca affatto nel suo sistema, mancando la proprietà e il carattere di Dio di essere immutabile e non poter diventare cosa alcuna. In una parola egli si colloca cosí nella seconda classe de' Panteisti, che propriamente Atei devono denominarsi. Del resto noi abbiamo udito il nostro filosofo dichiarare che: [...OMISSIS...] . Né giova il dire che queste negazioni sono ne' limitati nostri concetti, perché Hegel nega questa limitazione del pensare e del concepire dell' uomo; e di questo appunto mena vanto, di aver tolto i confini all' umana mente, e d' esser giunto a trovare il pensare infinito: perocché, dice, l' infinito è il ragionevole , onde, secondo lui, il dire che la ragione è incapace di conoscere l' infinito, equivale a un dire che la ragione è incapace di conoscere il ragionevole, il che sarebbe assurdo! (2). Né vale il dire, che altro è la ragione assoluta che è quella di Dio, altro la ragione dell' uomo: perché Hegel attribuisce alla ragione il conoscere, o piuttosto l' essere o il far l' infinito, come cosa a lei essenziale; onde, là dove è la ragione, forz' è che sia l' infinito: la sua essenza è una sola. Perocché anco il filosofo che ragiona è la ragione stessa, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si è trasformata nel filosofo. Se non che supponiamo vero tutto ciò: che l' idea assoluta, negando se stessa, si sia trasformata nel signor Giorgio Guglielmo Federico Hegel. Ora quest' idea trasformata o è limitata, o illimitata ed infinita. Consideriamo i due lati di questo dilemma. Se ella è illimitata ed infinita, di conseguente è anche infallibile ed onniscia. Convien dunque dire, che il signor Hegel sia infallibile ed onniscio. E per la stessa identica ragione debbano essere infallibili, ed onniscŒ i suoi predecessori, ed ancora tutti gli umani individui. Ma questi diversi filosofi si negano e si accusano d' errore scambievolmente. O dunque tutti sono in errore, o ha ragione l' uno d' essi e torto gli altri. Nel primo caso la ragione trasformata de' filosofi non fa che cadere in errore, il che è assai peggio che l' esser solamente limitata. Nel secondo caso la ragione, contraddicendosi, mente a se stessa. Né gioverebbe ad Hegel rispondere, che, quando i filosofi si contraddicono, è la ragione, ossia l' idea assoluta, che, negando se stessa, si fa piú ricca, e solo quand' ella assorbe in sé ed abolisce queste contraddizioni, torna allo stato di idea assoluta. Poiché (lasciando stare il gergo frivolo di queste parole) rimane sempre a vedere se l' idea, che cosí si fa assoluta, è la mente de' filosofi che cosí opera, o non è questa mente. Se non è questa mente, rimane un mistero inesplicabile come Hegel, che è pure un filosofo individuo, sappia dire tutto ciò uscendo necessariamente da se stesso: per quale rivelazione? Se poi è la sua mente stessa, che fa tutto ciò: egli è evidente, che, per restituirsi allo stato d' idea assoluta, dee perdere la sua individualità, quella individualità che filosofeggia. Dee svanire il filosofo di Stuttgarda. Che diremo dunque al nostro filosofo? Diremo: tacete; parla l' idea assoluta, lasciatela far da sé. Non vi sono orecchi che l' ascoltino, è vero, poiché se v' avessero, ella si sarebbe trasformata in orecchi, sarebbe caduta nello spazio, nel tempo, non sarebbe piú assoluta. Ecco il requiem aeternam della filosofia. Passiamo all' altro membro del dilemma. Se l' idea trasformata, cosí trasformandosi si è limitata, in tal caso la ragione individuale del filosofo urta nel limite dell' infinito, e non è piú vero che il ragionevole del filosofo sia l' infinito, e non s' abbia altro infinito che questo. Rotta questa maglia, tutta la calzetta filosofica del nostro autore si discioglie fino all' ultimo punto. Ma consideriamo come il nostro filosofo aguzzi l' ingegno a voler provare che anche in Dio vi ha il negativo. [...OMISSIS...] . Di che egli deduce, che il vero concetto dell' infinito e la sua assoluta unità non è altro che temperare, vicendevolmente limitare, mescolare (2); e conchiude che dunque Iddio [...OMISSIS...] . Ora è evidente, che i ragionamenti che fa Hegel per dimostrare che in Dio cade il negativo, e che s' identifica col niente, non possono generare alcuna convinzione: perché tai ragionamenti partono tutti dal principio, supposto come certo, che le negazioni e determinazioni che fa l' umano intelletto quando dapprima tenta formarsi il concetto del sommo Essere, sono quelle che producono questo stesso Essere sommo, e insieme con lui il suo concetto. Quei ragionamenti adunque suppongono dimostrato che il pensare umano produca Iddio producendo il suo concetto; e le negazioni e astrazioni del pensare umano sieno gli elementi che costituiscono Iddio. A questa condizione quei ragionari hanno valore. Ma si osservi con quale confidente sicurezza, egli conchiude che se gli attributi di Dio debbano perdere la loro distinzione e ridursi in una unica essenza, non se ne possa aver altro che l' essere astratto vuoto di contenuto e però pari al niente: che non si possa adunare quegli attributi nell' essenza divina se non per via dell' astrazione che lascia da parte la differenza e serba solo quello che hanno di comune. Egli non rinviene colla sua perspicacia altra via d' unirsi a quegli attributi se non solo per astrazione; non ne sospetta neppure un' altra. E qui è da notarsi, che non è neppur necessario saper indicare un' altra via di identificazione dei sopraddetti attributi, ma basta che sia possibile avervene alcuna, benché incognita, acciocché la sentenza di Hegel ne vada in fumo: giacché questa non ha forza se non a questa sola condizione che « non ve ne possa essere alcun' altra ». Perocché si può in primo luogo dimostrare che per la via di Hegel non si perviene ad un essere perfetto sussistente e attualmente infinito, cioè a Dio; e però la sua via non condurrebbe ad altro se non a stabilire l' ateismo. Di poi non è impossibile il dimostrare che l' unificazione di quegli attributi, come non si può fare per via d' astrazione, perché l' astratto essere o anco l' astratta perfezione non è la loro unificazione, ma unicamente la loro abolizione; cosí si deve poter fare unicamente per via d' integrazione , la quale senza loro tor nulla di positivo, loro si aggiunge, e non mai per via di negazione; non è impossibile il dare in qualche modo ad intendere come far si possa questa integrazione, che pur supera cotanto l' umana esperienza. Già i teologi s' ingegnarono di farla intendere per via di analogie. Ma la migliore delle analogie, se ella non può fors' anco aspirare al titolo di vera similitudine, si è quella del principio razionale, il quale racchiude in sé tutte le entità sentite sotto la condizione di enti: dove accade che l' unica virtú dell' intelligenza sia anco senso, ma in un modo eminente «( Psicologia , 255 7 264) ». Oltrecciò egli è a stupirsi che il nostro filosofo sia cosí rozzo nell' analisi delle idee. Perocché egli si contenta di pigliare gli attributi della bontà, della sapienza, della potenza, ecc. al modo volgare, supponendoli tante essenze reali per sé separate. Che se invece ei si fosse data la cura di sottometterli all' analisi per ben conoscerne l' intima natura, avrebbe trovato ch' essi sono, piú che altro, relazioni dell' essenza divina al creato: nelle quali relazioni un termine, cioè Iddio, è semplicissimo; le creature sono molteplici, e di molteplici doti fornite. Onde niente vieta che le relazioni di Dio alle creature sieno molte, senza bisogno che questa moltiplicità cada in Dio. La scuola dei sofisti aperta da Kant in Germania ha formato dei pensatori, ciascuno dei quali vuol essere originale ed unico trovatore della vera teoria: il che non toglie che rubino là dove possono. Cosí si scorge, per poco che si consideri, come il pensiero motore della mente di Hegel nella formazione della sua logica fu questo principio di Spinoza: Omnis determinatio est negatio . Qui egli prese la sua negazione, quel portentoso mediatore che trasforma le cose, le une nelle altre; l' idea assoluta in tutti gli enti, e tutti gli enti nell' idea assoluta. Egli stesso parla di quella sentenza dello Spinoza dichiarandola d' infinita importanza (1). Dice che l' unica sostanza è la necessaria conseguenza di tale proposizione (2). Ma quanto non è equivoca e capricciosa una tale sentenza! Se ella si prende alla lettera, la parola determinatio e la parola negatio non significano che operazioni soggettive, le quali non appartengono all' oggetto. Onde se io determino, se nego qualche cosa in un ente, queste operazioni, che fo io, non alterano l' ente; e non pongono in lui nulla, o nulla realmente a lui tolgono: tutt' al più il mio concetto si rimane determinato soggettivamente. E quest' è appunto l' errore fondamentale di Hegel di fare del concetto e dell' essere una cosa sola, o per dir meglio, di supporlo. E pure questa identità del concetto e dell' essere, ch' ei pone a principio della logica (3), è il punto principale della questione che dovrebbe esser provato a rigore, acciocché tutto il castello, privo di solido fondamento, non vada a terra. Se dunque il determinare e il negare è un operare del soggetto determinante e negante, quest' operare non può produrre che un conoscere soggettivo. Rimane adunque l' altra questione, rimane a sapere, mediante la ragione integratrice, di quanto questo nostro conoscere soggettivo è aggiustato e conforme all' oggetto conosciuto, e di quanto non è, ma solo è una via imperfetta di conoscere, la cui imperfezione rimane nel soggetto e non passa all' oggetto. Questa questione non si può evitare né pure secondo i principŒ di Hegel, perché anche questo filosofo riconosce diverse maniere di pensare: il pensare comune, il dialettico e lo speculativo o razionale, al qual ultimo solo attribuisce il cogliere il vero. Rimane adunque ancora la questione: « Se ogni determinazione ed ogni negazione appartengono al pensare speculativo », e lo stesso Hegel dice di no; « se appartengono al pensare dialettico », e questo stesso non vorrebbe Hegel stesso sostenere, io mi credo; perocché con ciò verrebbe a disconoscere che anche il pensare comune nega e determina, cioè verrebbe a disconoscere un fatto evidente ed innegabile. Vi hanno dunque delle determinazioni e negazioni che finiscono nel soggetto; sono forme e modi limitati di concepire, e nulla affatto pongono di negativo nell' oggetto. Starà adunque a vedere quali sono. Ora Hegel stesso confessa che la negazione di negazione è un' affermazione (1), sebbene abbia, rispetto al soggetto che la fa, forma di negazione. E che cosí vuol dire essere un' affermazione? Vuol dire che nell' oggetto di cui si nega qualche negazione, non s' intende con ciò di negar cosa alcuna, ma di riconoscervi anzi il positivo. Ora tali appunto sono le negazioni che la mente umana fa intorno a Dio per formarsene il concetto. Queste non pongono nulla affatto di negativo in Dio, ma altro non fanno che negare il negativo, e però, vi riconoscono tutto il positivo senza elemento alcuno di negativo, che incontanente distruggerebbe il divino concetto. Dunque ella è falsa la sentenza di Spinoza che ogni determinazione è una negazione in senso oggettivo, com' egli la prende; tutt' al piú può essere vera in senso soggettivo. Sia pure l' operazione della mente umana negativa, cioè abbia pur la forma di negazione di negazioni: questa non è che la via che ella dee fare per la sua limitazione: non è l' oggetto, il termine a cui vuol pervenire: le negazioni rimangono anteriori ad esso termine. Erra dunque Hegel e si contraddice quando vuol provare che in Dio stesso v' è il niente: perocché egli con ciò trasporta nell' oggetto le operazioni del soggettivo pensare. Dalla maniera di questo pensare non si può ridurre quella dell' oggetto: dunque, se nel pensare vi è la forma negativa mescolata colla forma positiva, non ne viene per questo la conseguenza hegeliana che [...OMISSIS...] ; non ne viene « che il risultato di questo pensare sia identico al suo principio », il qual principio, secondo Hegel, è l' essere uguale al niente, il diventare (2); non ne viene che l' unità dell' essere e del niente sia la definizione dell' assoluto (3): dunque il diventare è un concetto imperfetto, appartenente al pensar comune , e non piú al pensare speculativo . L' Hegel dunque si propone di trovare il pensare speculativo razionale ultimo perfetto, e poi scambia questo pensare col comune imperfetto, e col dialettico che non è altro che la via a quello, sulla qual via rimangono le negazioni senza fondersi nell' ultimo oggetto. Dunque l' oggetto non essendo identico ad un tale pensare, egli è da un tale pensare indipendente. L' oggetto è sempre identico; il pensare muta e rimuta, e si perfeziona in ragione che accoglie piú in sé dell' oggetto non mutabile (1). Dunque l' hegelianismo è insussistente: reca ne' suoi visceri i germi della sua assoluta confutazione e distruzione. La via dunque tenuta dall' Hegel non conduce a rinvenire la soluzione del problema dialettico che ci proponemmo. Cercavamo se dal pensiero dipende la pluralità degli enti e delle entità. Abbiamo già veduto, che non è il pensiero, e molto meno il movimento del pensiero, quello che costituisce la trinità delle forme dell' essere. Ove si voglia assegnare al pensiero il suo posto in dette tre forme, conviene collocarlo nella categoria dell' essere reale, perocché il pensiero è un atto del soggetto, e il soggetto è reale, come pur sono reali i suoi atti. Vero è che il pensiero intuente quand' è diretto, risiede cosí fattamente nel suo oggetto che non fa ritorno su di sé: onde non conosce se stesso, ma l' oggetto, l' essere. Questo fatto ingannò Giorgio Hegel; il quale ne indusse che in tal atto il pensiero è abolito, e non rimane piú che l' essere . Ma l' unica conseguenza che si può raccogliere da quel fatto si è che l' essere è il solo cognito , il pensiero rimane incognito . Ma ne viene forse ch' egli non sia piú? Questo ne verrebbe qualora fosse vero il supposto « « ciò che non è cognito non è » ». Tale è in fatto, a ben considerare, il continuo supposto hegeliano: ma quel supposto che cosa è se non ciò appunto che si deve provare? Di piú, quel supposto, si può dimostrare del tutto falso. Infatti dopo l' atto diretto del pensiero affissato nell' essere, sopravviene nell' uomo l' atto riflesso per mezzo del quale si conosce lo stesso pensiero. Nella riflessione sul pensiero diretto quali sono gli oggetti? Questi sono due: cioè il pensiero diretto e l' essere suo oggetto. Il pensiero è azione : e l' oggetto non è azione, ma puramente essere . Ora, se la riflessione rende cognito il pensiero che prima era incognito, dunque il pensiero esisteva prima, perché non si può rendere cognito ciò che non esiste. Dunque poteva esistere un pensiero incognito di fronte all' essere cognito . Dunque è falso il supposto che ciò che è incognito non ancora esista. Si noti che questa dimostrazione s' appoggia al principio già stabilito che in ogni sistema conviene prima di tutto credere al pensiero. Ora la riflessione è anch' ella pensiero; pensiero della stessa natura del pensiero diretto, non variando dal pensiero diretto se non per la diversità de' suoi oggetti. Se non si volesse adunque prestar fede al pensiero riflesso, converrebbe egualmente negar fede al pensiero diretto; e quindi non si crederebbe piú al pensiero: non sarebbe piú possibile la filosofia, né il ragionamento. La quale considerazione abbatte dalle fondamenta il sistema dell' identità assoluta, e ogni altro de' falsi7oggettivisti. I quali attribuiscono alla riflessione il distinguere le cose e il moltiplicarle. Onde fanno che la riflessione sia quasi la creatrice della pluralità delle cose. Ma essi confondono l' ordine degli enti cogniti coll' ordine semplicemente degli enti. Poiché è bensí vero che la pluralità degli enti cogniti nasce dalla riflessione, ma non è vero che la pluralità degli enti, per sé, sia produzione del pensiero riflesso. Perocché, o si crede al pensiero riflesso, o no. Se non gli si crede, si dee negare fede ad ogni pensiero, ed allora è resa impossibile la scienza; se gli si crede, egli ci attesta due cose innegabili: la prima che non produce, ma solo conosce; la seconda che conoscendo non altera l' oggetto, ma il lascia tale quale è in se stesso (1). L' una e l' altra delle quali cose suppone che la pluralità degli enti preceda la riflessione, sia indipendente e sia una condizione necessaria di questa. La stessa cosa si rileva qualora si considera, che, se la riflessione producesse la pluralità degli enti, questi dovrebbero prima esser oggetto del pensiero diretto sotto la forma di unità. Ma il fatto ci dà il contrario; poiché nell' oggetto del pensiero diretto vi ha l' essere come unico cognito, senza il pensiero che rimane incognito. Dunque, la riflessione, di cui parliamo, non divide l' oggetto del pensiero diretto in piú; ma lasciandolo stare qual' è, vi aggiunge un oggetto nuovo, cioè il pensiero diretto oggettivato. La riflessione dunque è un atto della stessa natura del pensiero diretto: colla sola differenza che il pensiero diretto ha un oggetto solo; e la riflessione ne ha due legati insieme: cioè lo stesso oggetto, piú il pensiero che lo contempla. Se dunque il pensiero diretto non produce il suo oggetto, neppure la riflessione può produrre i suoi due oggetti e la loro relazione, ma questa pluralità d' oggetti dee antecedere la riflessione. Un' altra prova dello stesso vero si trae dalla dottrina intorno a Dio. Egli è fuori di controversia, che in Dio non v' ha riflessione, ma solo pensiero diretto. Se dunque fosse vero, che la riflessione cagionasse la pluralità degli enti, ne verrebbe l' assurdo, che Iddio non conoscerebbe la loro pluralità. Ma non potrebb' essere che l' ente stesso fosse in fine non altro che il pensiero? E da prima concediamo, che, essendo l' essere, pigliato nel suo puro concetto, indeterminato, non si porge immediatamente come assurda la sentenza che l' essere abbia per sua determinazione essenziale la natura di pensiero. L' essere è un atto: il primo atto: non par dunque assurdo, che, cercandosi che cosa sia determinatamente questo primo atto, si trovi che egli è pensiero, giacché il pensiero è anch' egli un atto. In tal caso la distinzione tra l' essere e il pensiero sarebbe unicamente mentale. Ma l' analisi del pensiero dimostra che la cosa non va cosí; e a quest' analisi si deve credere, poiché ella non è che la riflessione, che distingue le differenze e non le crea. E veramente noi già vedemmo, che l' essenza stessa del pensiero importa una dualità: cioè un' azione e un oggetto ; e che l' azione non è l' oggetto, né l' oggetto come oggetto è l' azione: il pensiero è azione; l' oggetto, non essendo azione, conseguentemente non è pensiero. Ma se il pensiero ed il suo oggetto, l' ente, sono distinti hanno fra loro nondimeno una essenziale relazione, cosí fattamente che l' uno non può star senza l' altro. I filosofi della Germania sognarono un pensiero senza oggetto (1), ma un tal concetto è del tutto assurdo: nella dualità del pensiero sta la sua differenza dal sentimento, il quale è uno. Del pari, sognarono l' oggetto senza pensiero, l' essere puro di Hegel. Ma l' essere non si può concepire senza che sia oggetto. Che se la prima condizione dell' essere è quest' appunto di potersi concepire, che ne costituisce la possibilità logica e metafisica; dunque egli per sua essenza è oggetto. E se per sua essenza è oggetto, dunque s' appoggia al pensiero, cioè al principio che il concepisce. Tenendo innanzi agli occhi questa verità, ne abbiamo una chiara dimostrazione della limitazione del pensare umano. Poiché vedemmo che il pensare umano è incognito a sé medesimo, e non si rende cognito se non per via di un altro atto di pensiero riflesso. Questo pensiero riflesso è ancora incognito a se stesso, e ci vuole un' altra riflessione acciocché si possa dall' uomo conoscere. E cosí è da dirsi di tutti gli atti riflessi, l' ultimo de' quali si resta perpetuamente incognito, perché non si oggettiva. Ma pensiero e realità sono tutti gli atti del pensiero appartenenti al soggetto pensante, che è l' ente reale. Quest' ente reale è; ma noi vedemmo che niente può essere se non è oggetto, perché la qualità di oggetto è essenziale all' essere. Il pensiero umano adunque non abbraccia tutto l' essere, ma una porzione si rimane fuori di lui: dunque il pensiero umano è limitato e inadeguato all' essere reale in tutta la sua estensione. Il che novamente abbatte que' sistemi che mettono l' umano pensiero in capo a tutto: lo vogliono infinito, lo divinizzano, e finiscono nell' ignominioso orgoglio dell' antropolatria. E questo stesso ragionamento ci condusse a conoscere l' esistenza di una mente suprema. Poiché ce ne dà in mano questo argomento: 1) Ogni ente reale deve essere conosciuto: poiché tutto ciò che è, è possibile; e tutto ciò che è possibile, è tale, perché è concepito da una mente: non può esser dunque alcuna cosa reale se non a condizione che sia oggetto d' una mente. 2) Ma molte cose reali si dànno, che non sono conosciute dalla mente umana. 3) Dunque vi ha una mente superiore, che conosce tutte le cose reali, tutta affatto la realità, compreso sé medesima; che la conosce senza riflessione, giacché ogni riflessione esclude se stessa dall' oggetto cognito; che la conosce ab aeterno , poiché se vi fosse stato un tempo, in cui la realità non fosse stata conosciuta, ella sarebbe stata impossibile, e non si sarebbe potuta conoscere giammai; che conosce tutta la realità anche futura, e perciò tutta la realità possibile, la quale è infinita. Ora, questa mente eterna ed infinita dicesi Dio. Or, come abbiam veduto che il pensiero sintesizza col suo oggetto, cosí viceversa l' oggetto sintesizza col pensiero. Questa relazione essenziale è già inchiusa nel significato della parola oggetto . Ma qualunque cosa s' esprima con un nome somministrato da un linguaggio qualunque, sempre si esprime la cosa sotto forma di un oggetto. Quindi procede che il pensiero e il suo oggetto sono due entità distintissime, ma però tali che l' una è sempre in presenza dell' altra, sicché né si dà pensiero senza oggetto, né oggetto senza pensiero per la relazione essenziale che li congiunge. Ma che cosa è l' oggetto? - Noi distinguiamo l' oggetto per sé dall' oggettivato, che è l' oggetto per partecipazione. Quand' io sto osservando una colonna di porfido, quali atti fa la mia mente? Quali notizie ne trae? La mia mente fa due cose: 1) ha un oggetto; 2) e attribuisce a quest' oggetto una potenza d' azione attuale sui miei sensi e sopra i corpi che lo accostano, la quale esterna azione tutta presa insieme dicesi reale sussistenza . La reale sussistenza adunque si riferisce al sentimento: l' oggetto proprio della mente non è che la colonna con tutti i suoi accidenti. Questa colonna co' suoi accidenti, se si divide dalla sussistenza, cioè dalla reale attività sul sentimento, rimane ancora, ma rimane non altro che una colonna ideale, l' essenza della colonna presente alla mente. Quest' essenza è per sé oggetto. Alla colonna, dunque, in quant' è per sé oggetto, non appartiene la sussistenza: la sussistenza adunque della colonna non è per sé oggetto. E tuttavia anche la sussistenza può diventare oggetto per partecipazione: il che si dice essere oggettivata. La sussistenza si oggettiva congiungendosi all' oggetto, con una maniera speciale, che qui descriveremo. Il principio umano è razionale; ma al principio razionale costituente l' uomo è naturalmente congiunta un' attività sensitiva, che da se stessa non è umana, ma dicesi umana in quanto è unita e sottostà al principio razionale. Questo sentimento, come pure ogni altro sentimento, presta materia alla cognizione umana. Ma il sentimento non si fa materia alla cognizione umana, se non quando il principio razionale con un atto suo proprio lo percepisce. Tale atto è duplice: e noi gli abbiamo imposto i nomi di universalizzazione , che è una funzione speciale dell' intuizione, e di affermazione . La materia del conoscere data dal sentimento viene oggettivata coll' universalizzazione, e non coll' affermazione. Infatti, che cosa è l' oggetto? Egli è un ente o un' entità considerata dall' intendimento nella sua pura essenza. Dunque, quando considero la colonna di porfido, ho oggettivato colla mente tutto ciò che mi ha somministrato il senso. Ho considerato quella pietra nella sua possibilità. Formato una volta nel mio intelletto un tale pensiero, l' azione della colonna su' miei sensi può cessare del tutto, la stessa colonna può essere annullata. L' oggetto del mio pensiero rimane tuttavia. L' oggetto del mio pensiero è bensí la colonna sensibile, ma solo nella sua possibilità, non nella sua realità: la realità dunque, l' azione attuale e reale, è cosa straniera all' oggetto del pensiero, giace fuori di quest' oggetto; ma la possibilità di tutte queste cose entra nell' oggetto. Ma qualora la colonna sensibile mi cagioni attualmente le sensazioni, allora non solo ne conosco l' essenza, ma ben anco dico: « quest' essenza di colonna, quest' oggetto possibile, non è soltanto possibile, ma è attualmente sussistente ed operante in me ». Con dir questo non ho mutata l' essenza; ma di quest' oggetto ho predicato l' attualità. Si dirà: ma se l' oggetto è divenuto reale, se acquistò l' attualità, non s' è egli aumentato con ciò stesso? - No; qui è il punto piú difficile ad asseguirsi. Quand' io pensavo la colonna nella sua pura essenza, io pensavo anche la sua attualità e realità, ma non la sentivo: ciò che mancava non era che il sentimento, e il solo sentimento è per se stesso fuori della sfera della cognizione, è un eterogeneo: tutto ciò dunque che è per sé conoscibile nella colonna, io lo possedevo nell' oggetto. L' attualità e la realità è conosciuta appieno dalla mente che ne contempla la natura. Dunque l' affermazione di questo sentimento non aggiunge nulla all' oggetto della mente, neppure la cognizione dell' attualità e della realità; ma aggiunge qualche cosa al soggetto uomo, il quale non è solamente mente, ma mente unita al sentimento (1). L' oggetto dunque essenziale è l' essere ideale, o sia puro da ogni limitazione, o sia limitato dalla relazione sua al reale limitato che nel modo detto si oggettiva. Un recente scrittore, disconoscendo questa verità la travolge siffattamente, che, il reale egli afferma essere il solo oggetto e dichiara soggettivo il puro ideale: cioè a dire, quello che è oggettivo lo fa soggettivo, e viceversa. Primieramente egli tolse dai sensisti l' erroneo pregiudizio che l' essere ideale si faccia per via d' astrazione (1). Di poi non s' accorse che anzi i veri astratti sono per sé oggetti, e che il soggetto intuente non è autore di essi, ma unicamente della loro limitazione e determinazione: onde questa si può dir soggettiva, ma non l' astratto in se stesso (2). Su questi due errori è fondato il paralogismo su cui cammina tutta l' opera sua Degli errori , ecc.; la quale tende a provare che l' essere ideale è cosa soggettiva, accagionandoci poi di panteismo e d' altri assurdi, perché diamo a ciò che è soggettivo attributi divini. Il quale argomento a troppo maggior ragione si rivolge contro di lui, poiché, divinizzando egli il reale, che è veramente soggettivo, e facendo che l' ideale vero oggetto sia opera della mente umana, confonde il divino coll' umano e l' umano col divino (1). Convien dunque conchiudere che l' essere ideale non è produzione della mente astraente, non è opera della dialettica, ma è per sé distinto dall' essere reale. Quelli che negarono non solo l' astratto, ma l' universale, cioè l' ideale, come cosa per sé esistente, non sapendo concepire altro che il reale a cui tutto vogliono ridurre: sogliono usare del sofisma detto da noi del Creatore e della creatura . Questo sofisma consisteva in questo dilemma: « « tutto ciò che è, è Creatore o creatura » ». Onde deducevano che chi pone l' ideale essere qualche cosa distinto per se stesso dal reale lo dovevano dichiarar Dio. Ma quel sofisma antico si scioglie con una distinzione pure antica, da noi piú volte adoperata, fra Dio e le cose divine : poiché le idee sono cose divine, appartenenze di Dio e riducibili in Dio: però non viene che sieno Dio nel loro stato proprio d' idee. I platonici, lungi dal voler negare l' ideale, lo innalzarono ad essere Dio stesso, onde venne prima quel razionalismo che, cangiando Iddio in un' idea, riduce tutta la comunicazione coll' Essere supremo a freddissime speculazioni ideali. Quindi la dialettica è divenuta per tali filosofi teologia, come divenne recentemente Ontologia allo Hegel e seguaci di lui. Ma egli era impossibile che questi filosofi, i quali dall' aver veduto che nell' idea sta qualche cosa di divino, erano corsi a conchiudere che l' ideale stesso è Dio, avessero cosí ferma e costante la mente in questo primo loro concetto. Ostava a ciò primieramente il non essersi ancora marcata la distinzione fra l' ideale e il reale. Dipoi il comun senso concepiva Iddio come un realissimo. Laonde, senza che pur se ne accorgessero, nel loro Dio ideale introdussero tutte le proprietà del reale; e le idee furono tosto cangiate in anime, eroi, deità, supremi Iddii. Ora, posciaché il commercio dell' uomo colle idee è frequentissimo e naturale, ne doveva venire, e ne venne la conseguenza che si supponessero frequenti e naturali comunicazioni con Dio e cogli Dei minori: onde tutte le superstizioni degli ultimi platonici, la Teurgía e la magía. Ma per tornare a coloro che tolgono via l' essere ideale per sé essente dichiarandolo produzione dell' umano soggetto, essi si partono in due sètte. L' una e l' altra vuole che sia l' astrazione quella che lo produce: ma i primi danno per oggetto reale su cui opera l' astrazione, gli esseri finiti; quelli dell' altra sètta, che procede dall' Hegel, vogliono che l' astrazione si eserciti sull' essere reale infinito, che a detta di Vincenzo Gioberti è termine primitivo e naturale dell' umano intuito. I primi sono i sensisti e i nominali; i secondi denominarono il loro sistema ontoteismo. Gli uni e gli altri convengono finalmente in questo: che il solo reale per sé esiste, e l' ideale non è che un' astrazione, un essere mentale che dal reale non è per sé distinto, ma solo per opera della mente. Noi riconosciamo bensí una relazione essenziale dell' ideale colla mente; ma neghiamo che l' ideale, in quant' è oggetto, sia un prodotto della mente: anzi la mente umana da lui dipende e dalla sua presenza è creata. La mente poi divina è compresente al suo oggetto né a lui inferiore. E veramente se l' ideale o universale è puramente soggettiva produzione dell' umana mente, non è piú in lui che possiamo trovare un dettame autorevole per la nostra condotta morale: egli non può imporre obbligazione piú di quel che l' uomo possa imporla a se stesso (1). Quindi la legge dovrà ridursi al positivo volere di un essere reale, senza che le azioni abbiano in se stesse alcuna differenza che le rendano per sé buone o per sé cattive. Questa conseguenza fu tirata dal celebre discepolo di Scoto, Giovanni Occamo. Occamo fu seguitato da Pietro Alliaco, da Andrea di Castelnovo e da altri. L' eredità di questi passò in Gregorio da Rimini e in Gabriello Biel (2), e da questi in Lutero, divenuta cosí per qualche secolo proprietà dei Protestanti (3). Occamo e tutti i suoi successori furono condannati dalla Chiesa cattolica. La Chiesa cattolica aveva troppa ragione di condannare una dottrina che toglieva l' intrinseca distinzione fra le azioni buone e cattive. Perocché, se non vi ha differenza morale fra le azioni, ne procede che la volontà, la quale prescrive le une e condanna le altre, operi senza ragione, di puro arbitrio. Laonde si verrebbe cosí a spogliare la volontà dello stesso supremo Legislatore di ogni bontà e di ogni lume e per conseguente di ogni autorità. Le stesse leggi positive conviene che abbiano in qualche modo un fine buono, altrimenti ne cessa la possibilità. Dee considerarsi attentamente che fra la volontà del legislatore e ciò che essa comanda o proibisce passa quello stesso sintesismo che trovasi tra l' intelletto e il suo oggetto l' ente: poiché la volontà è la stessa intelligenza in quant' è attiva; e il bene, oggetto necessario di lei, è lo stesso ente termine di tale attività. Ora, se l' universale e l' ideale non è luce autorevole che dimostri il buono ed il reo, non vi ha piú ragione di ubbidire ad una volontà legislatrice. Ma se l' ideale non è un vero oggetto, ma è cosa soggettiva ed umana, cessa ogni suo valore di mostrare e di provare checchessia; quindi è tolta via l' autorità stessa della volontà divina. Doveva dunque la Chiesa cattolica condannare quel sistema dei Nominali. Ma l' errore di quelli che non riconoscono l' ente sotto altra forma per sé che quella della realità, racchiude in seno molt' altre conseguenze, sovversive de' principali dogmi del cristianesimo; onde la Chiesa fu mossa a ripetere piú volte la condanna di quel sistema (1). E veramente, se l' ente in se stesso non è che reale, come potranno distinguersi le tre divine persone senza cangiarle in tre Iddii? Il nominalista Roscelino si appigliò al Triteismo, argomentando appunto cosí: Il solo essere reale è per sé, e il reale è sempre singolare e individuale. I singolari individui niente hanno di comune, poiché il comune è universale, e quindi ideale, che non è per sé: dunque le persone divine sono tre individui uguali, bensí, ma non aventi in comune la stessa identica natura. Un altro errore del Roscelino, conseguente al primo, si era: che col Figlio si fossero incarnate le altre due persone (2). Laonde sant' Anselmo chiamò i nominali dialetticamente eretici (3). E qui vuolsi diligentemente notare, che quelli che non riconoscono l' ideale come per sé distinto dal reale, distruggono il dogma della cristiana trinità: non già perché la divina natura sia qualche cosa d' ideale; ma piuttosto perché, distrutto l' ideale, non sono piú concepibili relazioni di sorta alcuna, né accidentali, né essenziali, né personali. Che anzi lo stesso Roscelino non fu abbastanza coerente all' error suo quando diede alle persone una uguale volontà e potenza (1). Ci son di quelli, che pretendono non avervi distinzione sostanziale fra il nominalismo e il concettualismo (2). Io credo che ci sia: credo che i nominali non riflettessero nemmanco al bisogno de' concetti, ma non s' avvisassero che i soli nomi potessero surrogare gli universali, onde sant' Anselmo li appella [...OMISSIS...] ; i concettualisti all' incontro s' accorgessero del bisogno de' concetti, ma li avessero come produzioni soggettive della mente. Per questo cadevano negli stessi errori teologici de' nominali, ovvero in errori simili, poiché, se l' essere ideale è un prodotto soggettivo, egli non è piú per sé ente distinto dal reale; il che equivale a negare la sua originale dignità, la sua divina natura. Se dunque la filosofia de' giorni nostri non ispezza il filo che la raggiunse a quella de' nostri maggiori; se vogliamo da' naufragŒ de' precedenti navigatori, dotati diligentemente in sulla carta, conservar memoria de' banchi in cui arenarono, e cosí render sicura la nostra filosofica navigazione: da quale epoca della storia filosofica potremo cavare migliori indirizzi, che dalle disputazioni, cioè, de' nominali, de' concettualisti e de' realisti, soprattutto poi dalle venerabili sentenze pronunciate in mezzo a quelle dispute dalla Chiesa? Non sarebbe egli tempo di sbandire oggimai dalla filosofia quel principio che produsse tante eresie? Or tuttavia, a che si riduce la filosofia de' moderni filosofi? Ella ricade perpetuamente in quell' errore. Per non dir che de' nostri, onde è mai che il Galluppi, il Mamiani, il Romagnosi, il Testa, il Gioberti, e tant' altri, deducono l' essere ideale, se non dal reale che dichiarano anteriore e per sé ente dando a lui solo l' oggettività, che pure al solo ideale veramente appartiene? Tutti questi filosofi soggettivisti di varie forme, non riconoscendo che un ente originale, il reale, debbono riuscire, qualor sieno conseguenti a se stessi, al sistema degli unitarŒ o a quello dei triteisti, e a tutti gli altri pe' quali fu condannato dalla Chiesa il nominalismo ed il concettualismo. Rimane dunque provato: 1) Che parlando dell' essere senza piú, questo è identico sotto due forme, cioè sotto la forma ideale e sotto la forma reale. La prima delle quali dà all' uomo l' universalità, la seconda la singolarità. Questa distinzione dell' essere è primitiva: forma parte dell' ordine intrinseco dell' essere stesso, e senz' essa non sarebbe l' essere, né la mente, né il pensiero. Onde è cosa falsissima farla una produzione della dialettica. 2) Che queste due forme o modi dell' essere sintesizzano tuttavia insieme per modo che l' una racchiude l' altra, l' una non può stare senza l' altra. Fermato questo, giova ora che noi vediamo che cosa l' ideale, che è per sé oggetto, in se stesso contenga. Noi abbiamo veduto che in sé contiene l' essenza dell' essere precisa dalle sue determinazioni , la quale fu anche per noi detta essere iniziale . Che contiene adunque la pura essenza dell' essere, che si rivela al soggetto umano? Ella contiene quanto segue: 1) Il primo elemento di ogni cognizione . - Perocché in qualunque cognizione il primo elemento è l' esistenza della cosa che si conosce, o della quale si conosce qualche cosa. Ma qui già è da porsi in guardia di non prendere equivoco: perocché altro è il conoscere il primo elemento di ogni cognizione, il che non è altro se non sapere che cosa sia esistenza, e altro è sapere che una cosa realmente esista, il che si fa affermandola. Nell' essere adunque puro e indeterminato, di cui io ho notizia per natura, posseggo benissimo l' idea dell' esistenza, della realità, della sussistenza; ma non sono mica messo in comunicazione colla realità e sussistenza degli enti. Onde, quando la reale sussistenza degli enti entra meco in comunicazione, allora io riconosco in essi e affermo quella sussistenza di cui io m' avevo l' idea. Il sapere in generale che cosa è sussistere, ossia l' averne l' idea, è il primo elemento di ogni cognizione; è ciò da cui la cognizione incomincia. E poiché, se manca il primo atto mancano tutti gli altri, perciò questa notizia è la forma dei conoscimenti, il lume dell' intelletto, spento il quale non restano che tenebre. 2) La ragione dell' ordine intrinseco dell' essere . - Questa è verità di altissima conseguenza. Ciò che noi vogliam dire con essa si è, che allorquando si ponga che l' essere, quasi aprendo il suo seno allo sguardo dell' uomo manifestasse tutto sé, sicché l' uomo intendesse a pieno come egli è organato, di quale ordine maraviglioso abbellito, scevro da ogni disordine e causalità: l' uomo vedrebbe manifesta la necessità di ogni parte di quell' ordine ed organismo dell' essere; e tale necessità consisterebbe in questo che egli non sarebbe piú essere, se non fosse cosí ordinato, gli mancherebbe l' essenza di essere se una sola porzione di quell' ordine gli mancasse. Il che è quanto dire, che la pura essenza dell' essere (l' essere ideale indeterminato) è la ragione suprema dell' ordine intrinseco all' essere, la ragione del modo o de' modi in cui è. Ma qui si osservi attentamente che altro è la ragione dell' ordine, ed altro è l' ordine dell' essere. Questo è moltiplice, non essendovi ordine senza pluralità; quella è una e semplicissima. Di che viene la conseguenza che l' essenza dell' essere può conoscersi senza ordine dell' essere, perché quella è diversa da questo; ma solo allora quando sta presente all' intelligenza nel tempo stesso l' essenza dell' essere e l' essere ordinato e compiuto, solo allora l' essenza dell' essere acquista dinanzi all' intelligenza stessa la qualità di ragione del detto ordine, qualità che non si poteva prima conoscere, perché racchiude una relazione coll' ordine dell' essere per anco ignoto. Indi è che si può dire, che, quantunque l' essere ideale non faccia conoscere da sé solo qual sia l' ordine interiore dell' essere, tuttavia lo contenga virtualmente o implicitamente appunto perché egli n' è l' altissima ragione; e però egli diventa il lume a conoscere quest' ordine, tostoché quest' ordine sia comunicato all' uomo nel sentimento. 3) La ragione delle determinazioni dell' Essere . - La parola determinazioni significa i termini, i finimenti e completamenti dell' essere, giacché in ciascun essere la mente concepisce un principio ed un fine. Che se la mente concepisce l' ente solo nel suo principio, senza il suo fine o termine, si chiama essere indeterminato. Ora i termini possibili e finimenti dell' essere sono diversissimi, e variatissimi, e possono essere di condizione finita o infinita ed illimitata. Quindi la parola determinazioni è assai diversa da quella di limitazioni , sicché di Dio, a ragion d' esempio, si può dire che è un essere determinato , benché non si possa dire che sia limitato. Diciamo adunque che l' essere ideale, ossia l' essenza pura dell' essere, contiene la ragione di tutte le determinazioni possibili dell' essere o finite o infinite. Non diciamo già ch' ella presenti la ragione piuttosto di queste che di quelle determinazioni possibili, ma bensí di tutto il complesso di tali determinazioni. Non già del perché una determinazione sia realizzata e l' altra no, ma la ragione del perché una determinazione qualunque sia possibile a realizzarsi. Tuttavia tale prerogativa ed attitudine non si manifesta se non al caso di usarne; e il caso si dà solo allora che ci sono dati degli esseri reali, e con essi insieme le loro determinazioni. E qui di passaggio giova distinguere tra gli esseri reali finiti, e l' Essere reale infinito. Poiché l' Essere reale infinito, posto che ci sia dato da percepire, non è piú un essere nuovo, ma solo il compimento e la determinazione dell' essenza dell' Essere, ma gli esseri finiti nello stesso tempo sono esseri nuovi in quanto alla loro realità, e sono parziali determinazioni dell' essenza dell' essere in quanto alla propria essenza. 4) La ragione dell' Essere assoluto . - Da ciò che dicevamo risulta questo vero, che se ci fosse dato a concepire l' Essere assoluto, noi troveremmo la ragione di lui nell' essenza dell' Essere. Dicendo « la ragion di lui »non dico solo la ragione dell' ordine, o delle determinazioni dell' Essere assoluto (il che già indicammo), ma della sua realità e sussistenza; perocché non sarebbe assoluto se non fosse reale e sussistente; di maniera che questo è solo quell' essere, nell' essenza del quale entra la realità. Che l' essenza dell' essere sia ragion dell' ordine e delle determinazioni, questo non si può sapere se non allora che si contrae questo ordine e queste determinazioni. All' incontro che l' essere ideale sia ragione di una realità infinita, questo si può sapere, purché si abbia conosciuta qualche realità, e se n' abbia tratto la notizia generale della realità. E ciò perché essa stessa l' idea dell' essere mostra d' essere un cotal tema non compiuto ed intero. E nel vero, supponendo che già si sappia che cosa sia realità, si sa tantosto che questo è il termine dell' idea. Avendovi adunque un essere ideale, illimitato, infinito, e necessario, egli è gioco forza che ci sia pure una realità illimitata, infinita, necessaria che costituisca il suo proprio termine. Argomentando dunque dall' essere ideale, la mente perviene a conoscere l' esistenza divina. Quindi dicevamo che l' essere ideale si porge a noi come ragione dell' Essere assoluto; ossia dà a noi la ragione, perché la mente nostra è obbligata ad ammetterne l' esistenza. Né ciò conduce già all' assurdo, che Iddio abbia una ragione fuori di sé; giacché l' argomento, che noi facemmo, importa anzi che Iddio ha la ragione di sé in se stesso; la qual ragione è a noi comunicata, precisa dall' essenza divina, ma tale che ben si scorge esser essa un' appartenenza di Dio medesimo. - Ma Iddio ha egli una ragione? - Non ripugna ammetterla, purché si ponga in lui stesso, e non fuori di lui. La quale dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori non può essere direttamente impugnata; ma dà occasione a considerare certe verità che, a primo aspetto sembrano non certo assurde, ma misteriose ed inesplicabili le quali possono benissimo proporsi in forma di obbiezione. Eccone una: « Voi dite che l' essenza dell' essere ha d' avere i suoi termini: e lei unita co' suoi termini, e compiuta, dite esser appunto l' Essere assoluto. Ma voi chiamate termini di quell' essenza anche gli enti contingenti, onde pare che facciate di questi una cotal porzione di Dio ». La verità difficile, esclusa la quale si presenta una tale obbiezione, si è il distinguere i termini dell' essenza dell' essere che compiono quest' essenza e le sono necessarŒ acciocché sia, dai termini che non le sono necessarŒ né la compiono. Onde gli enti contingenti si dicono termini dell' essere ideale, o essenze pure dell' essere, in tutt' altro significato da quello nel quale si dicono termini di lei i termini suoi necessarŒ. A conclusione di tutto ciò noi riassumeremo cosí: 1) E` a noi nota per natura l' essenza pura dell' essere, e in questo non può cadere inganno alcuno, perché l' essenza dell' essere è la verità stessa (1). 2) L' essenza pura dell' essere che è a noi data è la pura notizia di che cosa sia esistenza , onde questa notizia si chiama anco idea dell' esistenza . 3) L' essenza pura dell' essere è la nozione della pura esistenza, perché manca de' suoi termini necessarŒ e completivi (come pure d' ogni altro); e però dicesi anco essere iniziale, perché è ciò onde incomincia ogni ente concepibile acciocché sia ente: quindi anco il primo elemento d' ogni cognizione. 4) A malgrado che l' essere da noi intuíto non sia che iniziale, egli è la ragione di tutti gli enti; e però al confronto con essi, egli ci fa conoscere perché sieno cosí, e non altramente. 5) La notizia dell' essere iniziale ci fa conoscere altresí la necessità che esista un Essere assoluto, cioè la necessità che l' essere iniziale sia in se stesso compiuto; e però contiene un principio che ci conduce alla cognizione dell' esistenza di Dio; non però della sua natura. Se dunque l' essere ideale è essente per sé; coesistente e non posteriore al reale; non prodotto da alcuna mente, ma termine di ogni mente: e se nell' ideale si contiene la ragione suprema e la possibilità di tutti gli enti reali, del loro ordine intrinseco e delle distinzioni che si possono fare in essi: dunque la dialettica non è la causa né la ragion suprema della pluralità che dicevamo; ma essa anzi deve ricorrere all' essere ideale per trovarci dentro questa ragione, onde la pluralità degli enti e delle distinzioni originariamente procede. Vero è che la ragione della pluralità non è la pluralità stessa, benché virtualmente la contenga. Questa pluralità è propia dell' essere reale, e dalla natura di questo si deve desumere: quando poi la pluralità esiste realmente, allora si vede attuata nell' ideale; e in esso se ne contempla la ragione altresí, che prima ci stava occulta in modo virtuale. Nell' essere ideale trovano un corrispondente le stesse finzioni, gli stessi errori dello spirito umano; né perciò essi sono dall' ideale giustificati, perocché li presenta per quel che sono, cioè per finzioni ed errori. La cognizione umana è limitata, è imperfetta: ne vien quindi ch' ella sia necessariamente fallace? V' ebbero alcuni filosofi i quali credettero poter fare questa illazione. Perocché nell' ente, se questo non si presenta all' intelligenza tal quale è in se stesso, l' intelligenza vedrebbe l' ente come non è, e quindi vedrebbe il falso. Ma l' ente in se stesso è illimitato. Se dunque la mente non vede tutto l' ente, e però è fallace e priva di verità la sua cognizione. Al quale argomento rispondiamo accordando che la verità esige una certa infinità. Ma questa condizione si avvera appunto mediante l' intuizione dell' essere ideale. Perocché in questo vi ha tutta l' essenza dell' essere, la ragione come vedemmo di tutto l' ordine dell' essere: lo stesso essere reale e morale vi si comprende, benché solo virtualmente. Di che avviene che la cognizione dell' ente è sempre vera purché si riferisca a tutto l' ente, quantunque non sia cosí intensa e vivace e cosí esplicata come potrebbe essere. A quella guisa appunto che una formula algebrica può contenere la vera soluzione d' un problema benché non sia tratta fuori in numeri. Il qual vero è importantissimo all' argomento di questo libro. Nel quale noi ci siamo proposti di parlare delle diverse apparizioni dell' essere nella mente umana, e di cercare: « quali appartengono alla dialettica, quali sono superiori ed anteriori ad essa: se è vero che la dialettica o il movimento del pensiero sia quello che spezza l' ente, uno per sé; se le apparizioni dell' ente ci ingannino necessariamente ». Ora tutte le apparizioni dell' essere si riducono a tre generi, che costituiscono altrettanti modi di conoscere proprŒ dell' uomo: 1) Quello dell' essere ideale , che la natura dà all' uomo, onde quel modo di conoscere che si chiama intuizione . 2) Quello dell' essere reale , che in misura limitata si dà alla natura dell' uomo, onde il modo di conoscere che si chiama percezione . 3) Quello che ha luogo in virtú dell' attività stessa dell' anima, la quale si esercita su quell' ideale e reale che le è dato da natura, onde il modo di conoscere che si chiama riflessione . L' intuizione è illimitata. La percezione è limitata dalla natura. La riflessione viene dall' attività dell' anima e non solo è limitata, come è limitata questa attività, ma in quanto ella contiene il modo di conoscere per via di predicazione soggiace al vero ed al falso; poiché il vero ed il falso sta sempre in questa maniera di conoscere. La prima di queste tre maniere di conoscere, essendo illimitata, presenta allo spirito la stessa verità, e quindi la norma colla quale vengono perfezionate e rettificate le altre due. Il conoscere per via di percezione, quando si riscontra a quella norma, si ravvisa limitato: e questo basta per impedire che egli non inganni l' uomo: giacché il sapere che è limitato, è sapere il vero e non il falso, il qual si avrebbe soltanto qualora si giudicasse illimitato quello che è limitato. Il conoscere per via di riflessione talora è solamente limitato; talora è un conoscere falso, nel qual caso non è, a dir vero, piú conoscere, ma solo credere di conoscere. In quanto al conoscere riflesso egli è limitato riscontrato alla norma, cioè alla verità, che si conosce nel primo modo; viene perfezionato in questo senso che se ne conosce la limitazione, ond' è ch' egli non può piú ingannare. Ché quando il conoscere limitato si conosce fornito di quella limitazione che gli è propria, già diventa con ciò stesso un conoscere verace e non può piú ingannare. Quando poi nella riflessione cade errore, vi è sempre la via di rettificarlo, bastando che si riscontri alla norma suprema, e cosí l' errore è tolto appunto perché è conosciuto. Quindi in tutte affatto le apparizioni dell' essere non vi ha mai inganno od errore necessario, benché possa esservi necessaria limitazione. La ragion prima d' ogni limitazione dell' umano sapere sta in questo, che la natura comunica l' essere reale limitato. Infatti l' essere ideale è dato dall' intelligenza senza limitazione. Or onde che l' oggetto dell' intuito umano sia l' essere ideale senza il reale? Questa separazione del reale dall' ideale vien' ella dal soggetto umano? dalla sua limitata realità? Appunto cosí. E veramente noi dimostrammo che l' essere in sé non può avere la sola forma ideale. La separazione dunque dell' una dall' altra non dipende dall' essere, ma dal soggetto, che per sua propria limitazione riceve l' una e non l' altra. A chiarire la questione noi porremo un principio generale: « Riducendosi ogni realità al sentimento e a ciò che cade nel sentimento, niun essere può apprendere l' ente reale se non per via di sentimento: quindi ogni essere finito essendo un sentimento finito per natura, non può apprendere che un sentimento piú o meno finito secondo che è quel sentimento che lo costituisce ». Dal qual principio deriva questa importantissima conseguenza che niun ente finito può apprendere o percepire per natura l' essere reale infinito. Consegue che di necessità l' essere ideale risplenda alle menti finite solo, senza il suo corrispondente reale. Si dirà: se l' ideale è relativo al reale, come può starsene tutto solo nella mente? Rispondo che ei contiene il reale virtualmente e questo basta a fare ch' egli si possa comunicare, e a dar indizio della necessità del reale corrispondente: ma non basta a fare che si percepisca attualmente il reale stesso. Contenere virtualmente il reale, e averne in sé la ragione, viene al medesimo. Quindi è che s' abbia nel sol reale un punto nel quale la mente appoggiandosi si può slanciare a indovinare per cosí dire che un reale corrispondente all' ideale debba esistere, benché non lo percepisca, né sappia determinarne le positive qualità. Vi è dunque nell' ideale una cotal scienza di semplice indicazione del reale: scienza che noi diciamo negativa, perché non sa indicare le positive qualità del reale, di cui però quasi divina la necessaria esistenza (1). E` dunque da conchiudersi che l' essere reale infinito non può essere percepito da nessun essere finito per sua propria natura; ma solo l' infinito reale può percepir se stesso per sua natura, perché la realità infinita è la sua natura. Se dunque l' essere finito percepisce il reale infinito, non può concepirlo che come cosa sopraggiunta e datagli altronde. E questo è quello che insegnano anco i teologi cristiani quando dicono che niun essere finito può vedere Dio per natura, ma solo per grazia. Ma rimane dopo di ciò a ricercarsi come questi reali finiti, possano aver luogo. Ciascun di essi è forse il sentimento infinito che pone de' confini a se' medesimo? Come si possono concepire de' sentimenti finiti fuori dall' intuito se questo già abbraccia tutto? Poiché come sarebbe infinito se non abbracciasse tutto, se non comprendesse ogni sentimento? Le quali ricerche appartengono tutte al problema della Creazione, che noi ci riserbiamo di trattare a parte. La ragione dunque del perché la percezione sia limitata ad un reale finito si riduce al perché un reale finito possa essere creato; giacché, supposta la creazione d' un reale finito, ne vien qual necessaria conseguenza che la natural percezione di questo reale finito non possa eccedere i confini di esso reale finito. L' intuizione e la percezione precedono dunque la riflessione, giacché sono atti semplici: in essi non vi ha discorso da un pensiero ad un altro. La dialettica adunque, che è il movimento del pensiero, il passaggio d' un pensiero in un altro, è posteriore all' intuizione ed alla percezione; e però quella divisione dell' ente, come pure quelle determinazioni e quelle limitazioni che sono poste dall' intuizione e dalla percezione, non procedono dalla dialettica, ma sono a questa anteriori: sono date o dalla natura dell' ente senza piú, quali sono le distinzioni categoriche, o dalle leggi della Creazione. I limitati creati non procedendo adunque dalla dialettica, come vuole Hegel, ma essendo ad essa anteriori, né pure è vero ciò che pretende questo filosofo che quelle limitazioni sieno passeggiere e mortali, perché si perdono nell' essere dialetticamente (1): niuna dialettica può fare rientrare nell' essere infinito le cose finite, come niuna dialettica poté farle uscire. La dialettica di Hegel è l' esagerazione d' una verità: tali sogliono essere tutti gli errori de' filosofi. Noi ammettiamo di buon grado una maniera di ragionare, che si può chiamare acconciamente dialettica trascendentale . Ma si restringerebbe ad arbitrio il significato della parola dialettica . L' arte di ragionare si dice dialettica, e ogni ragionamento è dialettico, se rettamente procede. Or noi diciamo dialettica trascendentale quello speciale ragionamento pel quale la riflessione, avente a materia l' intuíto ed il percepito, trova le relazioni di questi coll' essere assoluto. Questa dialettica trascendentale ha due uffici: 1) Trova ciò che nella percezione vi ha di assolutamente vero, e ciò che vi ha di vero relativamente, confrontando il percepito coll' essenza dell' ente. Nel che s' avverta che questa critica, che la dialettica trascendentale fa della percezione, non riguarda propriamente parlando la percezione stessa, ma quel primo giudizio che segue alla percezione, col quale diciamo a noi stessi o piuttosto presumiamo di conoscere il percepito d' assoluta condizione. Di questo errore ci scioglie la Dialettica trascendentale, e il fa, paragonando il finito percepito coll' infinito intuíto, ossia coll' essenza dell' essere. 2) L' altro ufficio della Dialettica trascendentale consiste nell' estendere la cognizione umana dal finito all' infinito, che è quella funzione che altrove chiamammo dell' Integrazione , la quale si compie raccogliendo le relazioni essenziali e necessarie fra il finito e l' infinito, o le relazioni categoriche. Se il negativo è il solo principio del movimento del pensiero, ne verrà che la Dialettica si rimarrà del tutto sterile, cioè non potrà uscire dalla percezione mescolata quanto si voglia colla negazione dello spirito. E questa sterilità è veramente il carattere della dialettica di Hegel, il quale non può uscire dal circolo del Mondo e delle cose contingenti come vedemmo. Poiché, per quante negazioni e negazioni di negazioni egli accumuli, altro non fa che maneggiar sempre la stessa pasta e darle forme nuove senza accrescerla pur d' una sola molecola. Il dir poi che la negazione della negazione equivale alla affermazione, è bensí vero, ma nulla conchiude a suo pro. Perocché, se il negare del negare è affermare, perché sarò io obbligato a procedere per quella doppia negazione piuttosto che a dirittura per l' affermazione? E se posso affermare senza bisogno d' altro, dunque il movimento dialettico non istà nel negare solamente, ma egualmente nell' affermare. Ma, tanto per affermare, quanto per negare, io ho bisogno di una ragione. Non è dunque il negare o l' affermare preso in astratto che dia movimento al vero pensiero dialettico; ma quella ragione che presiede alle negazioni o alle affermazioni, le giustifica e le conduce. Or questa ragione non è ella stessa né negazione né affermazione, ed ella manca al tutto alla dialettica hegeliana la qual non conosce che la scienza di predicazione. L' intuizione né afferma, né nega, ma talora omette di considerare, cioè restringe il proprio oggetto ideale. Restringendo l' oggetto dell' attenzione intuitiva, non si pronuncia nulla di falso, ma solo si limita il conoscere intuitivo. Gli antichi distinsero accuratamente la limitazione , che il soggetto intellettivo pone al suo oggetto, dalla negazione . Quella può esser fatta ad arbitrio senza questa: questa dee esser fatta con una qualche ragione, altrimenti produce un errore (1). Ora questa ragione è il vero principio del movimento dialettico del pensiero. Hegel confonde la semplice limitazione dell' oggetto colla positiva negazione, il che lo travolge ad interminabili errori. E di vero, se noi consideriamo que' modi d' argomentare, pei quali noi siamo stati condotti dal reale limitato percepito a trovare l' esistenza d' un reale infinito non percepito, vedremo che non dobbiamo cotanta scoperta alla semplice negazione, né tampoco alla limitazione; ma piuttosto a quella ragione superiore che ci ha fatto conoscere la stessa limitazione del reale percepito, e ci ha fatto conoscere esser ella di tal indole, da dimostrare assurda l' esistenza di quel reale se non si ponga un altro reale incognito ma pur esistente che lo produca e mantenga. Infatti due furono le vie del nostro ragionare che ci condussero allo stesso termine. La prima mossa dall' ordine intrinseco e necessario dell' ente reale; il quale esige che ogni ente reale debba avere un atto assolutamente primo. Onde ogni atto reale che non è assolutamente primo, esige, per poter essere, un altro atto reale che sia assolutamente primo. Questo principio ontologico diede la mossa al nostro ragionamento, e non la sola limitazione del percepito (molto meno alcuna negazione). Il qual principio non è finalmente altro che la relazione categorica fra l' essere reale e l' essere ideale applicata all' essere reale limitato, e cosí trasformata in un giudizio che dimostra l' insufficienza di questo solo. Ma questa legge ontologica, che ci condusse a trovare una prima causa reale dell' ente reale da noi percepito, non ci bastò tuttavia a dimostrare che questa causa dovesse essere in atto, giacché nell' idea d' una causa reale non si contiene la necessità della sua attuazione, potendosi pensare tanto in atto quanto in potenza. Non contenendosi adunque nel concetto d' un primo ente reale assoluto l' atto stesso produttore della realità limitata, noi dovemmo supporre, per la stessa necessità logica, che questo primo essere siasi determinato liberamente a produrre il reale limitato, essendo questa la sola supposizione che ne spieghi l' esistenza. Ma quell' atto libero, per sé solo considerato, mancava della sua ragione, di natura sua essendo possibile egualmente che fosse posto e che non fosse. Or egli è posto, noi lo sappiamo: perché è posto il suo effetto, il percepito. Ma l' affermare che quell' atto sia posto, quando può esser l' una cosa e l' altra, suppone la scienza di predicazione andata al di là della scienza d' intuizione. Or questo è assurdo. Convien dunque restituir l' equilibrio fra l' una e l' altra scienza. A tal fine ricorremmo ad una legge dell' essere morale. Questa legge risulta dalla relazione categorica fra l' essere morale e l' essere ideale. L' essere morale supremo (perfetto, essenziale) ama, vuole, produce l' ordine perfetto dell' essere reale che è conoscibile nell' ideale. Acciocché dunque l' idea e l' affermazione riescano equilibrate, io debbo ricorrere ad un' altra idea che giustifichi l' affermazione, e quest' è l' idea d' un reale operante come prima causa. Se nell' idea di questo reale supremo non si contiene l' operazione, debbo ricorrere alla ragione morale, come abbiamo già detto. Per questa maniera di dialettizzare la mente trapassa tutti i confini dello spazio e del tempo, della materia e dello spirito umano, e in una parola del creato universo: Hegel colla sua negazione non può mai varcare questi confini, onde l' ateismo ed il materialismo del suo sistema. Egli cerca invero di divinizzare il pensiero ed il mondo, che è per lui nel pensiero, rifuggendosi cosí nel panteismo: ora questo stesso egli fa ad arbitrio, perché a giusta ragione né il pensiero umano né il mondo può cangiarsi nella divinità. Que' due primi errori sono conseguenti al suo sistema; quest' ultimo è di piú una inconseguenza. L' intuizione e la percezione non ammettono errore. L' errore adunque incomincia colla riflessione. Noi abbiamo parlato di quella riflessione ben ordinata che tende a completar la cognizione dell' essere acquistata coll' intuizione e colla percezione, il qual uso della riflessione appellammo dialettica trascendentale . Or prima d' inoltrarmi a svolgere le altre maniere d' adoperare la riflessione, giova che noi separiamo il fenomeno dell' errore, che non è propriamente cognizione, ma cosa eterogenea al conoscere. Ogni errore si riduce ad atto dello spirito: il quale pronuncia che qualche cosa sia, quando ella non è, e viceversa. Che cosa è il vero? - Il vero è l' essere pronunciato dallo spirito. Il vero ed il falso adunque è una qualità dei pronunciati dello spirito. Se ciò che lo spirito pronuncia è l' essere, il pronunciato ha per sua qualità l' esser vero; se ciò che pronuncia non è l' essere, il pronunciato dello spirito ha per sua qualità l' esser falso. Se il pronunciato dello spirito è vero, l' uomo per esso conosce l' essere che ei pronuncia a se stesso, ha la cognizione. Se il pronunciato dello spirito è falso, non ha la cognizione. Il falso ed il vero convengono nell' essere pronunciati dello spirito, ma non nell' essere cognizione. Quanti uomini dotti apparirebbero ignoranti, se si separasse tutto ciò che v' ha di erroneo nelle loro opinioni! Dare il nome di dotti a quelli che insegnano grandi cose, ma erronee, è abuso di vocaboli: sarebbe tempo che il mondo se ne vergognasse. Ma nell' errore non vi ha ignoranza solamente; vi ha di piú falsa credenza. La credenza è una disposizione soggettiva: la cognizione non è mai puramente soggettiva; dee avere un oggetto. Se l' oggetto non c' è, l' uomo può fingerlo, ma il fingerlo non fa che sia. Quindi si deduce: 1) che l' errore appartiene a quella forma di conoscere che dicemmo di predicazione; 2) che quantunque l' errore tenga la forma di questo conoscere, tuttavia egli non è mai propriamente cognizione; 3) che egli è una disposizione soggettiva; 4) che questa disposizione pone il soggetto intellettivo in contraddizione coll' oggetto; 5) che l' errore suppone un' attività intellettuale, la qual muove se stessa, non verso l' oggetto, ma a ritroso di lui; 6) che l' errore non istà nell' oggetto, ma in ciò che si afferma o si nega intorno all' oggetto. L' errore dunque è un conoscere privo d' oggetto: la sua natura per questo consiste nel negativo, e non punto nel positivo, qual è sempre la natura del male (1). Ma per ben intendere come l' errore sia privo di oggetto, conviene porre attenzione a queste tre cose: 1) che ciò che v' ha di oggettivo nel pensiero erroneo, non è ciò che costituisce l' errore; 2) che il credere ad un oggetto assurdo, non è aver veramente dinanzi alla mente un oggetto; 3) che l' affermare, o il negare, non è cosa che appartenga all' oggetto, ma al soggetto, e non produce un oggetto, ma semplicemente una disposizione soggettiva che dicesi fede, persuasione, ecc.. Rimane dunque il credere senza oggetto. Rimane l' atto soggettivo, la persuasione che termina nel nulla. Or che cos' è dunque questo credere? Questo persuadersi che certi elementi di conoscere con certi nessi abbiano un risultamento quando non l' hanno? Abbiamo detto che è una disposizione soggettiva di un essere intelligente, la quale rimane senza oggetto. E una disposizione soggettiva è del pari l' affermazione e la negazione. Non è poco difficile a intendere bene la natura di tali disposizioni soggettive. In prima, tali maniere di disposizioni non possono cadere che in un soggetto intelligente. Egli da se stesso si muove verso l' oggetto per prenderlo e farlo suo: questo impossessarsi dell' oggetto e appropriarselo, fa sí che la cognizione diventi una disposizione che il soggetto dà a se stesso; poiché lo sforzo posto in essa, il possesso di essa, è tutta operazione e atteggiamento soggettivo. Tale è il verbo della mente; è un pronunciato del soggetto. Tale è la credenza: questo aderire, questo assentire, o affermare, ovvero fare il contrario di tutto ciò, è attività soggettiva suscettibile di vero e di falso. Se si assente ad una proposizione falsa, vi ha l' errore. Ma se il falso della proposizione fosse evidente, niuno potrebbe assentirvi. Conviene adunque sempre che il falso si nasconda: onde in ogni errore cade nel soggetto qualche oscurità; assente a ciò che non vede chiaro, a ciò di cui non vede chiaro la ragione. Ogni qualvolta adunque lo spirito umano impera a se stesso di assentire e credere a proposizioni che esprimono ciò che non è ( errore semplice ), o ciò che non può essere ( assurdo ), vi ha errore: il qual si può definire « un atto dell' essere intellettivo che non raggiunge l' essere ». Dalle quali considerazioni in primo luogo s' intende che gli errori e gli assurdi non sono punto entità; e che perciò la ricerca ontologica non ha bisogno d' occuparsi intorno alla generazione degli errori e degli assurdi, che come tali non sono punto entità. In secondo luogo, si ravvisa quanto vanamente l' Hegel abbia infarcito l' ontologia delle negazioni, de' negativi, del nulla, pareggiando il nulla all' essere, perché anche il nulla viene pensato. Egli non ebbe c“lta la distinzione fra la cognizione oggettiva e la soggettiva, e quindi molto meno egli poté vedere che vi hanno degli atti del soggetto intellettivo i quali si rimangono senza loro proprio oggetto. Coll' aversi ben dichiarato pertanto questo fenomeno dello spirito intelligente di poter fare degli atti che non raggiungono alcun oggetto, si ha dissipato intieramente il prestigio della dialettica di Hegel. Il cui sofisma sta sempre nel prendere il segno dell' oggetto per l' oggetto; i componenti dell' oggetto, cioè gli oggetti che si suppongono componenti, per l' oggetto che essi debbon comporre; gli atti del soggetto intelligente e le relazioni di questi atti con qualche oggetto, per l' oggetto stesso. Nel pensare erroneo adunque interviene sempre un oggetto fattizio composto di segni, d' idee e di nessi d' idee, il quale oggetto fattizio si adopera a determinare l' oggetto ultimo del pensare, ma invano; poiché nel pensare erroneo quest' oggetto ultimo non si trova, è affatto nulla: e l' errore sta appunto in questo, nel voler che il nulla sia qualche cosa. Quindi l' errore non istà negli oggetti fattizŒ; neppure in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che non deve avere, ma in un atto soggettivo privo di quell' oggetto che deve avere, che pretende d' avere quando non l' ha. S' io dico il nulla è nulla, il mio pensiero non ha oggetto, perché il nulla non è oggetto, e tuttavia non è erroneo, perché non pretende di averlo, anzi sa ed afferma di non averlo; ma s' io dico « il nulla è qualche cosa », erro, perché fo un pensiero che, mentre non deve aver alcun oggetto, vuole, pretende, afferma d' averlo (1). Questa contraddizione fra la intenzione del pensare e l' oggetto, è propriamente l' errore. Vi è dunque un pensare per via di oggetti fattizŒ, il quale non è erroneo: e di questo giova che ora parliamo. Al pensare umano presiedono queste due leggi: L' oggetto del pensiero è l' essere. L' attenzione del pensiero non può fissarsi in un essere determinato se non vi è tirata e tenuta dal reale sentito. Queste due leggi reggono il pensare oggettivo. Dato questo pensare, sopravviene l' affermazione e la negazione, cioè il pensare di predicazione. In virtú di queste due leggi accade: 1) Che l' uomo non possa limitare colla mente e determinare ad una forma speciale l' essere ideale se non prevalendosi di un reale che attiri e trattenga la sua attenzione e serva a lui di segno determinante e limitante l' ideale. Nulla di meno gli ideali determinati, cioè le specie piene, sono oggetti fattizŒ in questo senso che risultano dalla relazione categorica che passa fra l' ideale e il reale finito mediante l' intelletto. 2) Quando si comincia ad esercitare su di essi l' astrazione, interviene l' azione della riflessione soggettiva che limita vie piú l' oggetto (l' essere universale) che in natura non è limitato. Or non potendo la mente pensare una tale limitazione senza l' aiuto d' un reale, e non giovandole a ciò quel reale a cui corrisponde come tipo l' ideale, ella deve ricorrere ad un altro reale che le presti l' ufficio meramente di segno. Egli è per questo che gli astratti non si possono avere senza il linguaggio o altri segni che giovano a dirigere e fissar l' attenzione in qualche elemento dell' ideale, cioè della specie piena rattenendola dal fissarsi nell' intera specie «( Psicologia , Vol. II, n. 1515 sgg.) ». Ma, cercandone la ragione ontologica, questa si trova ne' bisogni parziali dell' uomo, e la ragione di questi bisogni molteplici e parziali dee riferirsi alla condizione del sentimento che costituisce l' uomo: soprattutto al sentimento animale, avente per termine il corpo e la materia divisibile senza termine alcuno. Diamo un esempio. Considerare le sostanze materiali nella loro qualità di alimentari, egli è un considerarle astrattamente. Ora che cosa induce l' uomo a questa astrazione? L' aver egli il bisogno di alimentarsi. E questo bisogno onde procede? Dal sentimento animale, dall' organismo, e in fine poi dalla materia. Altro dunque è l' ideale , altro le diverse vedute dello spirito che lo considera secondo i diversi bisogni dai quali è mosso a considerarlo. Onde, se la specie piena è l' ideale nella sua relazione col reale finito intero, gli astratti sono pure l' ideale considerato in relazione delle diverse parti, elementi, virtú, attitudini, bisogni del reale medesimo. L' azione dunque del soggetto intelligente è quella che moltiplica i concetti, o sieno universalmente determinati, o sieno astratti. L' oggetto, ossia l' essere ideale, in queste operazioni rimane sempre presente allo spirito, ma egli viene moltiplicato, e questa moltiplicazione è quindi l' opera del pensiero. Ma si noti bene di qual pensiero: di un pensiero i cui atti sono limitati. Quindi la domanda: « qual' è la ragione, perché gli atti del pensiero riescano cosí limitati ». A cui si risponde: « perché il pensiero è limitato al reale ». Nel che si osservi che una limitazione del pensiero ne porta un' altra. E veramente, posto che i primi atti del pensiero sieno limitati a cagione della limitazione del reale, e cosí quelli astratti che vengono tosto appresso la percezione, avviene che l' uomo sia spinto a moltissime altre astrazioni di astrazioni senza fine, tutte anch' esse limitate. Del che la ragione è questa. Il primo pensiero dell' uomo, l' intuizione naturale, ha un oggetto infinito; ma in questo primo suo atto intellettuale egli è ricettivo. La sua perfezione consiste nell' aderire all' infinito essere colla sua propria attività. Per questo il suo pensiero attivo si mette in moto. Ma questo pensiero attivo trova incontanente la limitazione del reale. Egli quindi si sforza d' uscirne per arrivare all' essere assoluto. A tal fine non gli rimane che accumulare pensieri sopra pensieri, i quali sono tutti limitati, perché sono limitati i primi ai quali è dato un termine limitato. Quest' è la ragione ond' accade che le speculazioni di quelli uomini che si danno alla contemplazione della verità sieno interminabili, e che gli uomini, per quanto sappiano, non si chiamano giammai soddisfatti: il solo sapere naturale non felicita l' uomo, perché non conduce all' intera cognizione e percezione dell' essere assoluto. Gli astratti, noi dicemmo, non si pensano dalla mente se non legati ad un reale che serve loro di segno. Questo pensare per via di segno, è un pensare limitato d' una speciale maniera. Il segno reale è oggetto certamente del pensiero; ma non è l' ultimo oggetto, il termine di un tal pensiero: questo è la cosa significata. Si pensa dunque un oggetto per mezzo di un altro. Il segno è un reale, e l' astratto significato è un oggetto ideale. Si pensa dunque un ideale per mezzo, ossia coll' aiuto, di un reale. Abbiamo veduto che il pensare limitato non è un pensare erroneo, ma che l' errore facilmente ad esso si accoppia ed è quand' egli si prende e giudica per assoluto. Ora il pensare gli astratti, come pure generalmente il pensare per via di segni, benché in se stesso non erroneo, diviene all' uomo occasione d' errori. Un primo errore prende l' uomo quando si dà a credere che gl' ideali determinati ed astratti sieno in se stessi cosí disgiunti come sono nella mente dell' uomo. Quando l' uomo pensa l' un di essi, non pensa l' altro, onde gli pare che ciascuno sia indipendente dall' altro. Un altro errore sarebbe, se, l' associazione fra il segno reale e l' astratto segnato oscurandosi dinanzi all' attività soggettiva del pensiero, l' uomo prendesse il segno per la cosa segnata. Questo errore è molto frequente e apparisce in piú forme, divenendo piú errori. Uno di questi errori si è quello de' dialettici che talora danno corpo e realità alle astrazioni: ma di questo maggiore è quello di coloro che tolgono via l' idealità, non riconoscendo altro ente che il reale; ovvero che abusando di parole chiamano reale l' ideale. Un altro errore della stessa specie fu quello dell' idolatria, onde gli uomini adoravano le immagini e i simulacri invece delle cose divine che dovevano rappresentare. Questo errore grossolano mostrava come la percezione del reale sensibile legasse a sé le menti per modo che non lasciavale piú andare all' ultimo termine insensibile a cui era v“lto il pensiero. I segni, oltre aiutare il pensiero a fissare gli astratti, lo aiutano altresí a fissare gli enti in quanto sono negati dalla mente. La parola nulla , a ragion d' esempio, significa l' ente assolutamente negato. La parola male, difetto, errore , ecc., significa l' ente in cui manca qualche cosa che vi dovrebbe essere. Questo pensare è intieramente soggettivo rispetto al suo oggetto proprio e finale, perché questo manca del tutto, e solo vi ha l' oggetto immediato che è il segno della mancanza dell' oggetto ultimo. Un tal modo di pensare non è ancora erroneo per se stesso; ma l' uomo, vi mescola facilmente degli errori, come accade se giudica che l' oggetto negato, o l' oggetto mancante a cui si riferisce il segno, sia un oggetto vero o un oggetto reale. A spiegare la facilità con cui l' uomo sdrucciola a questi errori, conviene rammentare il principio di cognizione pel quale l' uomo non può pensare nulla che non abbia la condizione di ente. Quindi allorché egli restringe la sua attenzione a pensare un astratto, il quale astratto talora è anche negativo, per esempio, limitazione, privazione, niente , ecc., egli è obbligato di considerare questi termini del suo pensiero siccome enti, altrimenti non li potrebbe pensare cosí nudi e da per sé presi. Cosí diventano oggetti fattizŒ e non veri. Vi è dunque bisogno che la riflessione critica sopravvenga, e glieli faccia riconoscere per fattizŒ, acciocché non lo ingannino. Ma questo lavoro della riflessione critica costa qualche fatica all' uomo, e però si lascia andare a prender quegli oggetti per veri: e allora ei cade in errore. Vedesi adunque che v' ha un seme d' errore nella stessa limitazione a cui soggiace l' umano pensare. Non conviene dimenticare che tutti i ragionamenti, fin qui da noi esposti, intesero ad indicare le origini delle diverse apparizioni dell' essere, di quella moltiplicità nella quale esso all' uomo si presenta. A chiarir meglio tutte queste dottrine egli è uopo dichiarare la natura dell' essere intellettuale, giacché l' uomo è un essere intellettuale, e noi parliamo della pluralità e delle diverse apparizioni dell' ente in relazione a questo. L' essere intellettuale è una conseguenza del sintesismo fra l' ideale ed il reale, perocché l' essere intellettuale è reale, ma accoppiato e informato dall' ideale (1). Ora quest' essere reale informato dall' ideale, può esser finito o infinito. Come può esser finito? Questo è quel nodo che dicemmo appartenere al problema della creazione, e qui ne supponiamo la possibilità. Ora, se l' essere reale a cui risplende l' ideale, è infinito, egli è quell' istesso essere che nell' ideale si vede, perocché nell' ideale si vede la realità infinita, ma nella forma ideale. Ma se il reale è finito, dalla congiunzione di questo coll' ideale nasce l' intellettuale finito, il quale non può vedere nell' ideale direttamente se stesso: onde l' essere ideale apparisce come fosse solo e veramente separato dal reale. Questa divisione adunque dell' ideale dal reale viene, come abbiamo detto piú sopra, unicamente dalla limitazione dell' intellettuale: la qual verità si svela dalla Dialettica critica. Quindi anche accade che l' intuizione d' un ente intellettuale limitato non facendo conoscere il reale, è necessario che il detto ente intellettuale per conoscere se stesso usi di un altro atto, quello della percezione, laddove l' intuizione propria dell' intellettuale infinito è tutt' insieme percezione di se stesso. Come poi il reale è finito, cosí di sua natura è chiuso in se stesso e non percepisce che se stesso, e quindi non percepisce il nesso di creazione che lo lega e continua al reale infinito. In tal modo egli si percepisce come una sostanza separata; benché la Dialettica critica ritrovi che questa sostanza non apossa esister sola senza che v' abbia un reale infinito che la faccia sussistere. Posta questa costituzione dell' ente reale intellettivo finito, s' intende come a prima giunta, ai primi atti dell' intelligenza, e quindi al pensar volgare, rimanga nascosto il sintesismo dell' essere. I nessi essenziali, che raggiungono le forme e le sostanze fra loro rimangono nascosti: quindi quelle e queste sembrano del tutto separate e non pur distinte. Se non ci fosse un essere intellettuale, non esisterebbero relazioni. Il confronto di due termini suppone un terzo termine oggetto in cui si operi il confronto; perocché i termini della relazione, fin che restano distinti, non si confrontano, né basta, per confrontarli a scoprirne la relazione, che si accostino; ma si debbono in qualche parte immedesimare e legare insieme. Qual è dunque questo legame? Certo che il soggetto intellettivo dee esser uno egli stesso per poterli confrontare: ma, poiché le cose conosciute sono nel soggetto intellettivo come oggetti e il soggetto intellettivo non pensa a se stesso in quant' è soggetto, le cose che si confrontano non possono ricevere l' unità dal solo soggetto intellettivo. E` dunque necessario che v' abbia un oggetto in cui si confrontino, e quest' oggetto è l' essere ideale nel quale tutti gli enti e tutte le entità si trovano co' loro nessi e vincoli sotto la forma ideale. Ma l' essere ideale, appunto perché è per essenza oggetto, sintesizza col reale, e non con ogni reale, ma propriamente col reale intellettivo. Il sintesismo adunque fra l' essere ideale e il reale non consiste solamente nel dovervi avere questi due modi di essere acciocché l' essere sia; ma consiste nel trovarsi essi cosí fattamente annodati da doverne risultare per la loro unione l' essere intellettuale. Ora, dato l' essere intellettuale, questo va discoprendo ogni ente nell' ideale, e quindi anche va discoprendo nell' ideale tutte le relazioni e tutti i legami degli enti. Tutti questi vincoli e relazioni nell' idea non si fanno già di nuovo né procedono con successione, ma vi sono tutte eterne: onde dicemmo che l' idea già contiene la ragion della pluralità degli enti [...OMISSIS...] . Ma non è per questo che l' uomo ve le veda tutte sino a principio, ma ve le va discoprendo successivamente a cagione della limitazione dei suoi atti e della poca realità che gli è comunicata. Cosí è che l' uomo va discoprendo le verità da se stesso nell' eterno specchio dell' essere (ché cosí si può chiamare l' idea) con replicati sguardi successivi. La sede dunque di tutte le relazioni è nell' idea, e suppongono l' esistenza di un essere intellettivo che in essa le intuisca. Noi ne proponiamo qui la classificazione ontologica. In prima vi hanno le relazioni eterne e per sé essenti fra le tre forme supreme dell' essere, ciascuna delle quali non sarebbe se le altre due non fossero. L' uomo, attesa la sua limitazione, intuisce l' essere ideale diviso dalla realità; cosí pure pensa in qualche modo l' essere reale diviso dall' idealità. Cosí l' uomo afferma la realità senza badare all' idealità di cui si serve per apprenderla (1). Solo colla riflessione integrante ne discopre in appresso il sintesismo. Ma l' essere morale non è oggetto de' primi pensieri dell' uomo, ma diviene oggetto della stessa riflessione; e però questa forma non si presenta semplice e divisa dalle altre due, anzi non si può concepire senza le altre due. La relazione categorica fra l' essere ideale e reale giace in un nesso ontologico fra loro, il quale nesso produce l' essere intellettuale. L' atto, pel quale l' essere intellettuale vive nell' ideale realizzato, è l' essere morale. Tale è la congiunzione intima dell' essere essente nelle tre forme. All' essere infinito, all' essere come essere, appartengono le seguenti relazioni: 1) La soggettività o realità informata dall' oggetto, e però soggettiva, la quale ha la relazione opposta coll' oggetto. 2) L' oggettività, ossia intelligibilità, in quant' è intelligibile ossia ideale, ovvero anche oggetto, ha una relazione col reale e propriamente col reale intelligente da esso ideale informato. 3) L' amabilità. L' essere, in quanto è inteso, in tanto è amabile; e perché egli è inteso nell' oggetto, è amabile nell' oggetto, e non da sé solo. Onde questa relazione non può essere costituita se non dalle due prime, in quanto il reale è conosciuto nell' ideale. 4) La soggettività o realità intellettiva informata dall' amabilità, la quale ha la relazione opposta all' amabilità. Quest' ultima relazione non è un nuovo modo di essere, ma è il modo soggettivo in quanto trovasi nell' oggettivo. Di queste primitive ontologiche relazioni noi piú innanzi favelleremo ampiamente: ci basti l' osservare come le esposte dottrine ci pongono in caso di giudicare di quella sentenza che chiama effetto della dialettica ogni pluralità che si scorga nell' ente. Discendiamo ora adunque a classificare le relazioni che ci presentano gli esseri contingenti. Le relazioni ontologiche surriferite, appunto perché intime all' essere, non possono del tutto mancare neppure ne' contingenti, perché loro non manca intieramente l' essere. Ma se l' essere non manca in essi, vi è tuttavia limitato: e la limitazione dell' essere limita altresí la partecipazione delle relazioni categoriche. Vediamo con quali distinzioni e differenze si ravvisino nell' essere contingente quelle supreme relazioni. In primo luogo, l' essere contingente non esiste come tale che sotto la forma reale. Quindi, da sé solo considerato, non si può concepire; è non7ente «( Psicologia , n. 1305 sgg.) », ente incoato, rudimento di ente. Non potendo dunque l' ente essere sotto un' unica forma, l' essere contingente dovette venir sostenuto e sorretto dall' essere eterno, acciocché non si risolvesse nel nulla. Quindi unita all' essere reale contingente, trovasi la forma ideale sempiterna. Ora il morale non è che quell' atto di vita pel quale il soggetto si compiace di tutto l' essere conosciuto nell' ideale. Quindi il morale appartiene in proprio alla totalità dell' essere, all' essere assoluto. Rimane che: il contingente non è per sé intellettuale, ma è intellettuale per partecipazione; né esso è per sé morale, ma è morale per partecipazione, o piuttosto è ordinato alla moralità. Queste sono le relazioni categoriche dell' essere partecipate dal contingente. Ma un altro fonte delle relazioni proprie dell' essere contingente nasce dalla sua stessa limitazione. La limitazione è ella stessa quella che lo rende contingente; perocché: il suo concetto è correlativo all' illimitato; questo si concepisce senza di quello, preso nel significato di prima intenzione (1). Ma quello non può essere concepito senza di questo. Il limitato è logicamente posteriore all' illimitato (2): quello si può pensare e non pensare, ma il concetto di questo è tale che, quando si pensa, s' intende impossibile di pensare il contrario: ogni limitato è dunque necessariamente contingente. Il limitato adunque e contingente ha una relazione coll' assoluto, e questa è relazione di creazione, come vedremo. Ma poiché l' assoluto è in tre modi, triplice è pure la relazione del limitato reale contingente coll' assoluto. In quanto l' assoluto è ideale, si manifesta al contingente (e il manifestarsi è una relazione ideologica). In quanto l' assoluto è morale, intanto si comunica al contingente semplicemente come legge morale, ossia obbligazione, la quale è una relazione deontologica: cosí l' essere morale non è dato al contingente, ma mostra la via di pervenirvi. In quanto poi l' essere assoluto è reale, intanto ha relazione di causa col contingente. Non gli manifesta se stesso, non essendo proprio del reale il manifestare, né comunicare se stesso, poiché non potrebbe comunicarsi all' ente contingente se prima quest' ente non fosse: e per far che sia, il che è crearlo, deve restringerlo entro i suoi confini; e produrlo entro i suoi confini è lo stesso che non comunicargli l' infinita realità (1). Ma qui è d' uopo penetrare piú addentro nella natura propria delle relazioni. La relazione in generale è un nesso fra due termini veduto dall' intelletto. Se vi potessero essere due termini veduti simultaneamente collo stesso sguardo dell' intelletto che non avessero fra loro nesso di sorta alcuna, allora si direbbe che avessero la relazione di assoluta separazione: cioè l' intelletto produrrebbe egli stesso una relazione fattizia, il vero valore della quale sarebbe intieramente negativo. La ragione, per la quale l' intelletto ha questa facoltà di considerare come positive le relazioni negative, è quella stessa che egli ha di produrre a se stesso quelle entità fattizie di cui abbiamo ragionato. Cosí l' intelletto pensa il nulla ed il negativo con un pensiero che passa per oggetti che non sono nulla. Ma sebbene l' uomo pensi di queste relazioni negative, tuttavia è impossibile che si dieno due termini del pensiero, i quali sieno privi di qualsivoglia relazione. Perocché, hanno almeno la relazione d' analogia di questo stesso che sono pensabili. Che se l' un d' essi fosse negativo, fosse il nulla a ragion d' esempio; in tal caso la relazione v' avrebbe tra il termine positivo e le operazioni dello spirito negante. Se i termini sono entrambi negativi, la relazione giace fra le due persuasioni che li costituiscono. Ma se i termini sono entrambi positivi, essi convengono almeno nell' essere, e però non può mancar loro la relazione d' identità quanto all' essere. Ora consideriamo le relazioni che cader possono fra i termini positivi, che sono vere entità. La prima cosa da notarsi si è la distinzione delle relazioni che passano fra termini della stessa natura, e quelle che passano fra termini di diversa natura. Diciamo adunque che, se, i due termini essendo della stessa natura, il primo sta al secondo in quanto alla natura come il secondo al primo, la relazione è uguale considerata da una parte e dall' altra. Ma se i termini sono di diversa natura, allora la relazione che il primo ha col secondo è anch' essa di diversa natura dalla relazione che il secondo ha al primo. Or questo stesso, si dee anche dire, proporzion fatta, di que' termini che convenissero o variassero negli accidenti: cangeranno le relazioni come cangiano gli accidenti. Questo dimostra chiaramente che ogni relazione fra due termini è duplice, e non semplice come comunemente si crede, potendosi considerare i due termini con due vedute diverse dell' intendimento, l' uno rispetto all' altro, e l' altro rispetto al primo. Ciascuna di queste relazioni abbinate suole appellarsi abitudine , poiché manifesta come l' uno de' due termini se habeat rispetto all' altro. Or poi i termini delle relazioni possono essere d' altrettante maniere quanti sono i termini del pensiero. Ora i termini del pensiero sono di quattro maniere: 1) essenti; 2) fattizŒ; 3) falsi; 4) assurdi. I soli due primi sono interamente veraci. Quindi il pensiero concepisce o crede di concepire quattro maniere di relazioni, ciascuna delle quali tiene la natura di que' termini. I termini essenti sono compresi nelle tre categorie, cioè sono entità reali, ideali e morali. L' abitudine che ha ciascun agli altri due è diversa, come è diverso l' un modo dall' altro. Ma poiché l' essere è identico in tutti i tre modi, sembra che abbiano altresí una relazione d' identità. Tuttavia è da considerarsi che l' identità non appartiene ai modi, ma all' essere; onde il dire che i tre modi hanno una relazione d' identità non è proposizione esatta: perocché non è vera se non in quanto nei modi si considera l' essere e non il modo. Qui il pensiero umano aggiunge del suo. Poiché non sapendo egli concepire in un modo perfetto l' essere assoluto, che è ad un tempo nei tre modi uno senza replicarsi, egli considera l' essere successivamente, prima in un modo, poi nell' altro, poi nel terzo; ma, sopravvenendo la Dialettica trascendentale, questa pronuncia che quell' essere, che pareva triplicarsi, è identico. Oltre questa relazione fattizia d' identità, se ne presenta al pensiero un' altra fra l' essere e il modo categorico. Ma anche questa è puramente fattizia, poiché l' essere in ciascuna delle tre forme è tutto e puramente essere: onde non v' ha mica un modo suo che non sia lui stesso, ma egli stesso è i tre modi ed è ciascun modo. Questo linguaggio adunque, nel quale appariscono distinti i modi e le forme categoriche dell' essere dall' essere stesso, manifestamente dimostra quel pensare umano imperfetto che ha prodotto un tal linguaggio; e la Dialettica trascendentale sopravviene a correggerlo. Ma torniamo a considerare le abitudini dell' essere assoluto, in ciascuna delle sue forme, coll' essere limitato. Abbiamo veduto che fra l' essere ideale qual si concepisce nell' ente assoluto e l' essere ideale qual si osserva nell' ente limitato, apparisce una relazione d' identità. Ella nondimeno è imperfetta da parte dell' intelletto reale che lo contempla. Ma se si considera la relazione che ha l' ideale coi reali finiti percepiti realmente, o supposti, questa relazione è quella di possibilità. Nell' essere ideale noi vediamo la possibilità logica delle cose. E la possibilità logica ci si presenta come possibilità assoluta, ossia con altra parola come possibilità metafisica. Quando noi abbiamo il concetto di un ente qualsiasi, se poi troviamo che questo ente esiste, non ce ne facciamo maraviglia, perché sapevamo che poteva esistere. Questo fatto dimostra che la possibilità logica contiene virtualmente l' indizio d' una cotal potenza infinita atta a fare che le cose (le essenze) passino all' esistenza. Ma appunto perché questa potenza infinita è compresa soltanto virtualmente nella possibilità logica, quindi noi non sogliamo cosí facilmente accorgercene, ma pure senza accorgercene operiamo e ragioniamo a tenore di quella secreta persuasione (1). Nati poi i concetti mediante il rapporto dell' essere reale finito coll' ideale veduto dall' intelletto, questi si moltiplicano coll' astrazione; e colla riflessione si trovano fra loro le relazioni d' identità e di differenza. Queste sono le abitudini dell' essere ideale verso il reale finito, delle quali fondamentale è la categorica; segue l' ideologica; e finalmente la relazione di possibilità logica metafisica. Le abitudini poi dell' essere reale finito coll' essere nelle tre forme supreme sono quelle d' intuizione per l' essere ideale; per l' essere reale, quella di creazione passiva; pel morale, come vedremo, quella di obbligazione e attività morale. L' essere reale infinito col reale finito ha l' abitudine di creazione attiva. L' essere morale poi prende col reale finito l' abitudine di legge (relazioni deontologiche), in quanto questo morale è nella forma ideale; in quanto poi è nella forma reale, in tanto non ha relazione naturale col finito, ma ha relazione di grazia nell' ordine soprannaturale. Gli antichi distinsero le relazioni in reali e mentali . Che è da giudicare di una tale distinzione? Primieramente le relazioni non si dicono mentali perché sieno condizionate ad un intelletto in generale, all' intelletto assoluto; ma si chiamano mentali qualora sieno enti fattizŒ dell' intendimento umano. In secondo luogo conviene anche spiegare l' appellativo di reali . Questo appellativo altro non può volere dire che le relazioni che sono indipendenti dall' intendimento umano. Premesse queste dichiarazioni, noi domandiamo come una relazione possa essere dell' oggetto, indipendentemente dall' intelletto umano. Di poi domandiamo come una relazione possa essere fattizia. Affine di rispondere alla prima di queste due questioni, riduciamo le relazioni ad abitudini di una cosa verso l' altra. Si presenta primieramente questa difficoltà: « L' abitudine non può essere in un oggetto solo, perché è relativa ad un altro; non può essere in entrambi gli oggetti, perché in tal caso sarebbero due abitudini distinte; non può essere frammezzo gli oggetti, perché frammezzo non v' ha nulla, e se vi fosse qualche cosa, sarebbe un terzo oggetto. Dove sta dunque l' abitudine di un oggetto all' altro? ». In quanto alle abitudini categoriche è da osservarsi che ciascuna forma dell' essere inesiste nell' altra, come abbiamo detto. Ciascuna forma è unita all' altra cosí essenzialmente, che senza questa unione non sarebbe. L' abitudine adunque è qui l' identico essere considerato come modo suo proprio. Tale abitudine risiede in ciascuno de' termini. Non vi ha dunque un vacuo tra un termine e l' altro, ma l' essere costituente entrambi i termini. Queste abitudini per sé essenti si spiegano adunque per via dell' inabitazione dell' un termine nell' altro. Questa inabitazione delle tre forme si ravvisa anche quando l' essere reale è finito; nel qual caso l' inabitazione rimane però imperfetta a cagione della limitazione dell' essere reale. Diciamo dunque qualche parola anche di questa inabitazione imperfetta, a cui si riduce la seconda classe di relazione: quella cioè che corre tra l' essere infinito nelle tre forme, e l' essere finito. La maniera con cui l' essere reale finito inabita nell' essere ideale non è cosí perfetta come quella nella quale l' essere reale infinito inabita nell' ideale. Il reale finito, non essendo nell' ideale che virtualmente, non si può sentire nell' ideale, perché il sentirsi è attualmente essere; e quindi il sentimento suo proprio non è per se stesso cognito, ma cieco ed incognito, giacché niente è cognito se non per l' ideale e nell' ideale. Ora l' essere un sentimento per se stesso incognito equivale al concetto di una separazione, di un esser fuori dell' ideale. Questa parola esser fuori dell' ideale riferita al reale finito, non significa che esser per sé incognito , e convien guardarsi di non attribuirle il concetto di un esser fuori materiale come la parte di un corpo è fuori di un' altra. Ma appunto perché l' ideale inabita nel reale finito, questo per natura sua intuisce l' ideale, senza percepire in esso immediatamente e con questa stessa intuizione se stesso, intuendovi solo il reale virtualmente. La relazione dunque del reale finito coll' ideale inabitante in lui è quella d' intuizione. Ora l' intuizione, essendo il primo atto intellettivo dell' essere finito, egli è l' atto sostanziale di questo essere, quell' atto pel quale l' essere intellettivo è. La sostanza dunque dell' essere intellettivo finito, questo stesso essere intellettivo inabita nell' ideale; ma non vi inabita, come necessario all' ideale, come identico con esso lui; ma come aderente a lui in modo accidentale e contingente, alla similitudine dell' atto del vedere rispetto alla forma visiva. Or poi la reciproca inabitazione dell' essere reale finito intellettivo e dell' essere morale trovasi ancora piú imperfetta. Perocché l' essere morale infinito è l' essere reale infinito che per sé cognito si dimostra infinitamente amabile a se stesso; ma il finito reale nell' ideale non percepisce punto l' essere reale infinito nella sua attualità, ma solo virtualmente: quindi solo virtualmente altresí ne intuisce l' amabilità. Onde l' essere finito intellettivo non ha per se stesso che l' elemento morale in potenza. Quando poi percepisce degli enti finiti proporzionati alle sue facoltà percettive, allora ravvisa in questi un' amabilità limitata, la quale, appunto perché limitata, non è ancora morale; ma quando poi s' accorge che l' amabilità dell' ente reale è proporzionata ai gradi di quest' ente, ha concepito una proposizione universale, che riguarda la totalità dell' essere e non piú una parte. Di piú, sentendo egli che questa amabilità appartiene alla natura stessa dell' essere, e che è assoluta, s' avvede che qualora i suoi affetti non si lasciassero regolare da tale amabilità, egli si porrebbe in contraddizione con tutto quanto l' essere e con se stesso altresí che n' è una porzione; sente in una parola quella che si dice obbligazione morale, necessità deontologica. L' essere morale adunque non inabita nella natura umana se non sotto la forma di legge obbligante; la legge obbligante adunque è l' essere morale virtualmente compreso nell' ideale e applicato dall' uomo agli enti finiti da lui percepiti, e piú tardi poi all' ente infinito in quel modo che gli riesce conoscerlo. Se poi si cerca come l' essere reale finito inabita nel morale, questa inabitazione per natura non si concepisce distinta dalla inabitazione di quello nell' ideale. Ma perché tale inabitazione si fa nell' intuizione, l' intuizione non è ancora l' attività libera (1) del soggetto, e però non si dà in atto un elemento morale; onde la facoltà morale, a cui si richiede un primo atto, nasce posteriormente, e da prima non ve ne sono che gli elementi. Per natura adunque il soggetto intellettivo finito non è ancor morale, e non ha che la sola disposizione a divenire cotale. Ma nell' ordine soprannaturale l' essere intellettuale finito inabita veramente nell' essere morale, di cui gli è data la percezione, e l' essere morale in lui: il che dichiara l' Antropologia soprannaturale. Qui osserveremo soltanto che allora dicesi vera inabitazione nell' essere morale quando tutta l' attività del soggetto si accoglie in lui come suo oggetto percepito e nel proprio sentimento sentito, quasi extrasoggettivo, poiché allora l' atto del compiacimento non compiacendosi piú di altra cosa, è tutto accolto in tale oggetto, in lui solo vive e come tale esiste. E qui giova richiamare quella sentenza di sopra accennata, che a far che sia una relazione è sempre necessario che intervenga l' essere intellettuale. Quest' essere stesso è la relazione categorica dell' essere reale coll' ideale: in questa prima relazione si fondano tutte le altre: l' intelletto interviene sempre, è sempre presente come una condizione senza la quale sparirebbero le relazioni fin qui descritte: esse non sono prodotte dall' intelletto, poiché egli stesso è una di esse: ma in quanto sono, in tanto sono anche intese nel primo intelletto, poiché l' intelletto è in tutte esse. L' umana riflessione poi posteriore a tale relazione non fa che riconoscerle in modo riflesso: ma avanti questa riflessione le relazioni categoriche non sono note per se stesse. E cosí appunto sono reali, non perché appartengono alla sola realità, o perché sieno senza ogni intelletto; ma perché sono nell' essere stesso, ne costituiscono l' ordine intrinseco, e quindi non sono già produzioni posteriori dell' intelletto umano. L' essere in una delle tre forme non ha relazione alcuna con se stesso. All' incontro l' essere reale finito ha moltissime relazioni con se stesso, perocché egli non è uno, ma moltiplice. La costruzione intima degli enti finiti produce certe loro interne relazioni, perocché niun ente finito è semplice, ma composto di piú entità finite che concorrono a formarlo. L' unione di queste entità, è la piú stretta di tutte dopo quella che abbiamo chiamata inabitazione delle forme categoriche. Ora, se fra questi componenti vi ha l' intelletto, o se l' ente reale risultante dai componenti è l' ente intellettivo, in tal caso la relazione è formata, poiché non si può dare relazione senza la presenza dell' intelletto, essendo proprio del solo atto intellettivo l' andare quasi fuori di sé in altro, e quindi l' essere acquista la frase scolastica ad aliquid . Ma se niuno dei componenti dell' ente è intellettivo, in tal caso il loro nesso in cui si forma l' ente non si può dire relazione, ma soltanto fondamento di quella relazione che risulta nell' intelletto quando questo scompone quel nesso e ravvisa come ciascuno è legato coll' altro (1). Convien accuratamente distinguere il fondamento della relazione dalla relazione stessa. Il fondamento può essere qualche cosa di reale; ma non è ancora l' abitudine stessa fino a tanto che un intelletto non considera quest' entità reale nel nesso ch' ella ha coll' altro termine. La piú intima delle unioni adunque è la categorica, perfetta nell' essere assoluto, imperfetta in quel modo che abbiamo detto nel limitato, e a quest' unione l' intelletto è sempre intrinseco; dopo la categorica la piú stretta unione è quella degli elementi che costituiscono un ente finito, e in questa unione talora l' intelletto è intrinseco, talora estrinseco, quasi uno straniero contemplatore: nel qual ultimo caso nei componenti dell' ente vi ha la materia ossia il fondamento della relazione ed abitudine, ma la relazione formale è posta dalla contemplazione dell' intelletto, e nell' ente. La terza maniera di unione si ravvisa nell' essere reale finito, ed è quella di azione e di passione. Per l' azione e la passione un ente non inabita totalmente nell' altro, ma entra nell' altro, non colla sua essenza, cioè col primo e totale suo atto, ma colla sua potenza, cioè, con un suo atto parziale. Rimane ad accennare la terza classe di abitudini relative che l' intendimento umano suole scorgere negli enti finiti; e abbiam detto esser quelle che nascono dal vario grado di conoscibilità che hanno le entità finite e dai diversi modi nei quali l' uomo le concepisce e le pensa. Queste si possono ancora suddividere in tre classi minori: 1) quelle che risultano dal diverso grado di conoscibilità; 2) quelle che risultano da un pensare puramente fattizio; 3) quelle che sembrano ovvero si credono risultare da un pensare erroneo ed assurdo. Tutte queste relazioni sono, almeno in parte, razionali. Da tutte le quali cose si scorge che volendo avere una suprema classificazione di tutte le abitudini relative, noi potremo dividerle in quattro grandi generi, ciascuno de' quali ammette molte suddivisioni. I Relazioni categoriche nell' essere assoluto ed infinito. II Relazioni categoriche partecipate nell' essere finito. III Relazioni dell' essere reale finito con se stesso. IV Relazioni mentali, ossia razionali, prodotte dai modi limitati di pensare dell' essere intelligente finito. A questa classe appartengono tutte le relazioni di relazioni, le quali non hanno fine, come non hanno fine gli atti possibili del pensare limitato. Vi hanno adunque tre maniere generiche o tre gradi di pensare: il pensare imperfetto , il dialettico trascendentale e l' assoluto . Noi abbiamo parlato del pensare imperfetto e del dialettico trascendentale; ci rimane ora a dire dell' assoluto. Il pensar comune è quello che s' arresta ai primi giudizi offerti alla spontaneità della mente dai vari sentimenti e principalmente dalle sensazioni esterne, come volgarmente si chiamano, i quali giudizi pongono quella stessa divisione dell' essere che il senso presenta, com' ella fosse assoluta. Su questi giudizi, mediante la riflessione, si edifica una logica ed una metafisica (e tale è quella di Aristotele eccetto qualche breve tratto dove s' innalza piú alto senza pure avvedersene), e insomma un sistema intiero di scienze. Il pensar dialettico trascendentale sopravviene a suo tempo, e convince il pensar comune di contraddizione, e quindi, spingendo il passo innanzi, tenta la via di abolire la contraddizione sgombrando cosí la strada al pensare assoluto. Quando poi dal pensare comune si cava l' edificio scientifico allora le antinomie dànno talora cosiffattamente nei piedi che non si può a meno di incastrarle nel sistema della scienza come altrettante obbiezioni. Ma gli uomini si affaticano a sciorre quelle antinomie, a rispondere a quelle obbiezioni collo stesso pensar comune che le ha nel seno; onde, o dànno risposte insufficienti di cui s' appagano, ovvero s' involgono in un raddossamento di obbiezioni sopra obbiezioni, di distinzioni sopra distinzioni, che rende la scienza un ginepraio. Questa è la ragione delle infinite sottigliezze della scolastica, le quali hanno finito collo stancare gli ingegni, e cosí la resero meno stimabile presso i dotti. Ma alto e arduo è l' investigare del pensare assoluto. In prima ogni pensare ha qualcosa di assoluto in se stesso; se no, non sarebbe pensare. Quest' è appunto quello che distingue il pensare dal sentire. Il sentire è un modo di essere relativo a chi sente: niente è d' assoluto se non il sentir di Dio, perché quello è il sentire dell' essere stesso. In che sta dunque l' essere assoluto? In che sta l' essere relativo? L' essere assoluto è l' essenza dell' essere: tutto ciò che si contiene in quell' essenza e si rimane essenza dell' essere, è assoluto. All' incontro il relativo è tutto ciò che non è l' essenza dell' essere, che non rimane piú tale essenza, a cui non compete piú tale denominazione. Da questa definizione dell' assoluto e del relativo si vede che il modo di essere relativo suppone un soggetto a cui sia relativo, un soggetto senziente o pensante, di maniera che il modo relativo dell' essere risulta dal sentimento o dal pensiero. All' incontro l' assoluto non involge nel suo concetto questa duplicità, perocché sotto questo nome non si concepisce che l' essere, l' essere come egli è. Il pensare assoluto è quando l' oggetto del pensiero è l' essenza dell' essere e tutto ciò che è in essa si pensa senza dividerla da essa. All' incontro il pensare è relativo quando il suo oggetto e termine è un' entità relativa, come sarebbe un sentimento limitato, considerato in se stesso: il che si dice anche l' esser fuori dell' essenza dell' essere, o esser da quest' essenza distinto. Dalle quali definizioni si scorge, che nel pensare vi ha sempre alcuna cosa dell' assoluto, perché niente si può pensare senza pensare insieme l' essenza dell' essere che in quanto è manifesta alla mente dicesi idea. Ma è da avvertirsi che nel pensare comune l' essenza dell' essere interviene come mezzo del pensare, piuttosto che come oggetto. Questa distinzione deve essere diligentemente considerata e chiarita. Diciamo adunque in primo luogo che v' ha un atto primo di pensare immanente, costitutivo della potenza degli atti secondi. A questo atto primo è oggetto unico e permanente l' essere ideale, l' essenza dell' essere manifesta. Quindi cotest' atto primo appartiene al pensare assoluto e non al relativo. Ed è questa la ragione perché di poi in ogni atto di pensare, anche relativo, si mescola il pensare assoluto e lo suppone innanzi a sé; innestandosi ogni atto secondo di pensare sul tronco dell' atto primo, il pensare relativo sull' assoluto. Questa è la ragione altresí per la quale in fondo ad ogni pensare giace una verità assoluta; la ragione per la quale gli scettici, cercando l' assoluto senza coglierlo, hanno il torto; la ragione perché la mente ha per norme de' suoi giudizi delle ragioni assolute (1); e finalmente la ragione perché l' essenza dell' essere, ossia l' idea dell' essere in universale, costituisca il vero criterio della certezza. Ma veniamo agli atti secondi del pensare: questi sono provocati dal sentimento, da un sentimento finito come quello dell' uomo, da sentimenti parziali di questo sentimento finito, come sono le sensazioni. Ora, fra gli atti secondi del pensare, quelli che precedono gli altri sono le percezioni, le quali hanno per oggetto gli enti sensibili: quindi questi atti di pensare si dicono relativi ed imperfetti perché hanno a loro materia delle entità relative. Vero è che interviene l' essere; ma, in quanto l' essere è universale, non vien se non come un precedente e come un mezzo per arrivare al particolare, né si pon mente a lui nella sua universalità, ma in quanto rimane limitato dal sentimento: onde non si pensa piú l' essere in se stesso, ma invece di lui rimane l' essere relativo a proprio termine del pensiero e dell' attenzione. Le percezioni adunque delle cose sensibili appartengono al pensare imperfetto e relativo, non all' assoluto; e tuttavia presuppongono un primo atto anteriore di pensare assoluto. Ora, posciaché la riflessione comune si fa sulle cose percepite, o certo con un continuo rapporto ad esse; quindi tutte le riflessioni comuni tengono della stessa loro materia primitiva alcuna imperfezione, e non possono giungere al pensare assoluto. Ma la riflessione analitica e l' astrazione aggiungono al pensare de' nuovi elementi d' imperfezione, mediante sempre nuove limitazioni apposte all' essere, ciascuna delle quali è una esclusione e quasi eliminazione della essenza dell' essere dinanzi al pensiero. Ma questa è la differenza tra il pensare ed il sentire, che il sentire non ha alcun bisogno dell' intuizione dell' essenza dell' essere, e però non ha niente in sé di assoluto; ma pensare non si può senza l' essenza dell' essere, e però è sempre qualche cosa di assoluto che forma la base di ogni pensiero, benché le percezioni e le riflessioni che ne conseguono tengono del relativo a cagione che non sono puro pensare, ma mistura di due atti congiunti di pensare e sentire (2). Sembra che quando si dice pensare assoluto si dica cosa semplice e non suscettibile di piú gradi, pigliandosi la parola assoluto , quanto un dire d' ogni parte perfetto. Ma non è questo il significato. Chiamiamo assoluto il pensare ogni qualvolta egli ha per oggetto l' essere nella sua propria semplicissima essenza. Ora questa essenza si fa presente alla mente umana in varŒ modi: ella rimane sempre dessa, ma non perciò è uguale la congiunzione di lei colla mente. Il che consuona con ciò che ragionammo del pensare attuale e virtuale. Quando l' oggetto del pensiero è l' essere stesso, allora la virtualità non è un difetto che sia nell' essere, ma sí nella mente. Questa virtualità dell' essere, come oggetto del conoscere umano (giacché in se stesso e come oggetto del conoscere divino non ha virtualità alcuna), è il mistero della finita intelligenza: è un fatto, e perché oscuro e misterioso non è meno un fatto. Quando noi parliamo di virtualità nella cognizione, non si creda che si parli di cognizione totalmente in potenza, la qual non sarebbe cognizione: parliamo di vera cognizione, avente un oggetto, abbracciante tutto l' essere, l' essenza dell' essere; ma egli è in quest' oggetto stesso, come oggetto non come essere, che trovasi la virtualità il che è quanto dire che quell' oggetto virtualmente contiene tutto, tutto l' essere. Ora i gradi di questa virtualità variano grandemente, ed è perciò che dicevamo anche il pensare assoluto avere diversi gradi. La prima comunicazione dell' essere essenziale alle creature non si fa che per via d' intelligenza. Or nell' intelligenza vi ha prima l' essere ideale che la informa; di poi si copula ad esso il reale onde nasce l' atto della percezione e gli altri atti a cui la percezione apre la via; finalmente si manifesta l' essere conosciuto come amabile e beante, che è quanto dire come essere morale. Ora, secondo quest' ordine delle tre forme dell' essere, si ravvisa anche nel pensare assoluto tre gradi, ad ognuno de' quali si scema la virtualità, e tuttavia non cessa del tutto. Il primo grado è quello della semplice intuizione dell' essere. L' oggetto dell' intuizione è virtualissimo di tutti, poiché non solo niente in esso si distingue idealmente, ma le stesse forme della realità e della moralità, non appaiono in esso attuali, ma si nascondono nella sua virtualità. E questo nascondersi vuol dir questo solo che, allora quando si giunge ad avere la percezione attuale del reale e del morale, vedesi che nell' ideale v' avea già il principio di queste due forme, e queste stavano in lui in modo simile a quello che la specie si sta nel genere. Il secondo grado del pensare assoluto è quando l' essere reale stesso è da noi conosciuto nella sua totalità in un modo distinto dall' ideale e tuttavia virtualmente. Che se noi aderiamo volontariamente all' essenza dell' essere, ci congiungiamo a lui moralmente, cioè attivamente per via di nostra volontà; questa unione in cui sta il sentimento morale dà materia al terzo grado del pensare assoluto, che anche qui può avere la sua virtualità e però ritenere dell' imperfetto. Le tre forme dell' essere adunque danno luogo a tre gradi del pensare assoluto. Ma questi gradi sono in pari tempo maniere distinte di pensare e categoricamente distinte, ciascuna delle quali ha i suoi gradi di virtualità, e però quelli d' imperfezione piú o meno. Del pensare assoluto che ha per termine l' ideale non accade far altre parole. Senza che, egli è cosí semplice, che non ammette altri gradi se non quelli della riflessione che vi si sopraggiunge, e che non accresce né diminuisce l' oggetto. Il pensare assoluto adunque, che ha per termine il reale, ha luogo, secondo la definizione, quando il reale che si pensa non lo si pensa come distinto dall' essenza dell' essere, ma come adunato in essa, come essenza dell' essere egli stesso. Questo può accadere in diverse maniere e con gradi diversi. Prima di tutto è da distinguere a questo proposito il pensare negativo dal pensare positivo. Perocché dicesi pensare negativo quando l' oggetto stesso non si percepisce sensibilmente e direttamente, ma si conosce per via di sue relazioni e differenze ch' egli ha da qualche altro oggetto percepito direttamente e sensibilmente. Il pensiero va negando dell' oggetto, a cui vuol pervenire, quella qualità ch' egli vede negli oggetti percepiti, e sa che l' oggetto di cui si tratta deve averne delle altre in luogo di esse, ma tuttavia non sa dir quali, e di queste qualità incognite conosce solo alcune condizioni ontologiche. E cosí quando la Critica trascendentale giunge a notare le antinomie del pensar comune, e perviene fino a conoscere che quelle antinomie nascono a cagione che il pensare che le produce si ferma nell' essere relativo, e intende che riducendo l' essere relativo all' assoluto quelle antinomie dispariscono: già con questo solo il pensare è pervenuto negativamente a rendersi assoluto, in quanto che è arrivato a vedere che l' essere assoluto non può fallire che ci sia. E qui giova osservare che anche nel comune delle intelligenze va quasi sott' acqua serpendo e lavorando un pensare assoluto. La cosa si spiega, tostoché si ponga mente a quello che abbiamo detto, che il primo atto dell' umana intelligenza appartiene al pensare assoluto, e quest' atto si mantiene sempre vivo, e accompagna e regge tutti gli altri atti. Né fa maraviglia che talora l' uomo ragioni senza aver coscienza del ragionamento che fa, perché va da sé, come vanno pure da sé tante altre potenze dell' uomo, e l' uomo non se ne può render conto se non vi riflette; e talora egli non vi riflette punto né poco. Il pensare assoluto che si fa, non per la primitiva intuizione o per la percezione dell' assoluto stesso, ma per via di ragionamento, è sintetico nel piú alto grado. Che cos' è la forza sintetica della ragione? Questa preziosa facoltà non consiste solamente in raccogliere o aver presenti molti fatti reali e circostanze, e molti dati del pensiero, ma consiste assai piú in saper unire questa pluralità, riducendola in uno quasi risultamento psicologico e ontologico di quei piú. Se ben si considera qual sia l' intima natura dello spirito quando sintesizza, si troverà che ella si riduce a pensare il particolare congiunto coll' universale o col tutto (1): il che far non potrebbe se alla percezione o considerazione del particolare la forza mentale s' alienasse dall' universale o dal tutto. Quegli ingegni che dalla percezione de' particolari rimangono quasi assorbiti e legati divengono inetti ad afferrare e stringere insieme l' universale coi particolari, e quindi i particolari fra loro, formandone unità; i quali tutt' al piú possono avere ingegno analitico, ma non sintetico. Quella forza adunque della mente di vedere i piú nell' uno, e quella inclinazione a non esser paga la mente de' particolari se non li vede raggiunti negli universali o in un cotale organismo (sia questo ontologico, logico o fisico), varia grandemente negli uomini e da questa varietà dipende che gli ingegni siano piú o meno sintetici e comprensivi. Or devesi qui osservare che l' universale è bensí necessario a formare quel pensiero che si dice sintetico, ma questo pensiero non è la semplice intuizione dell' universale, ma la congiunzione di particolari per via dell' universale e nell' universale. La ragione dunque di un problema, è come cappio di tutti i fili, la sintesi di essi. Or vi hanno delle menti che afferrano piú facilmente questa ragione. Quando un uomo di vaglia scrive o ragiona, gli vengono sul labbro o sulla penna filate e ordinate tutte le proposizioni del suo ragionamento, i lumi e gli amminicoli del discorso, cotalché l' uditore o il lettore è costretto a dire: « Questi ragiona bene! che connessione, che coerenza, che efficacia di prove! ». Ebbene, questo possente oratore e logico ragionatore, nel momento in cui incominciò a dire, aveva egli dinanzi al pensiero tutte quelle proposizioni bene concatenate? Di niuna di quelle aveva coscienza; ma, poiché gli uscirono fuori, convien dire che vi avesse in lui il pensiero fecondo ond' egli le trasse, come la filatrice il filo dal pennacchio. Ora quel pensiero che era in lui, doveva essere un pensiero sintetico, un pensiero fecondo di tutto il suo ragionare che aveva in seno, e pure quel pensiero rimaneva egli stesso inosservato ed occulto fino a tanto che il ragionatore non vi pose l' attenzione, che ne dedusse i lunghi suoi ragionari. Questo fatto dimostra due cose. La prima, che i pensieri della mente umana hanno due stati: l' uno d' involuzione, ed è sintetico; l' altro d' evoluzione, ed è analitico. La seconda, che il pensiero in istato d' involuzione sfugge facilmente alla coscienza, sfugge almeno dalla coscienza la sua fecondità, anche quand' egli è attualmente presente; laddove il pensiero analitico facilissimamente soggiace alla consapevolezza, se egli è attuale e presente, e non abituale come accade quando rimane nel deposito della memoria senza che ci si pensi. Or questo pensiero involutissimo e insieme attissimo a svolgersi, non è puramente l' intuizione dell' essere in universale, perché questa sola, benché pensiero involutissimo ed assoluto, non è atto a svolgersi, mancandole ancora l' elemento reale e quasi maschile che la fecondi. Oltre adunque l' essere ideale, per termine del pensiero assoluto, di cui parliamo, vi ha l' essere reale (la totalità dell' essere); ma questo concepito come un incognito di cui sono cognite piú o meno relazioni, e conseguentemente piú o meno qualità negative ed anche analogate (1). E poiché il pensiero assoluto, di cui parliamo, può risultare da piú o meno di queste relazioni, e da queste qualità relative ed attributi analogati; perciò il pensiero assoluto ha una gradazione, giacché forma una sintesi or piú or meno complessa di piú o di meno elementi risultanti: la qual gradazione appartiene sempre al pensare assoluto, perché abbraccia tutta l' essenza dell' essere nella sua realità, mancando tuttavia la percezione di essa, ma in suo luogo formando termine del pensiero l' incognito determinato dalle riflessioni dette. Questo pensiero assoluto è il fonte da cui proviene la Teosofia, la quale non è altro che quel pensiero stesso analizzato e dedotto in conclusioni, e tutte queste conclusioni sintesizzate e ridotte in quel pensiero. Perciò la Teosofia è la scienza che può aver anch' ella piú o meno di svolgimento, piú o meno di perfezione. E questo pensiero sommamente sintetico, difficilissimo a cogliersi dalla coscienza, tiene, rispetto al suo sviluppamento, la legge comune di tutti i pensieri sintetici. Il pensiero sintetico non ancora svolto sta nella mente come un' unità infeconda: tale sembra alla mente stessa. Ora egli accade che, se la mente si fa a contemplarlo fissamente per un tempo notabile senza adoperarvi intorno alcuna analisi, pare a lei di starsene per poco oziosa, e di meditare senza costrutto. E tuttavia questa meditazione, cosí unita ed asciutta, fortifica la mente; la quale poi in altro tempo incomincia e prosegue l' analisi di quel pensiero con grande facilità e ricchezza. Questa legge è comune ad ogni pensiero sintetico. Il pensare assoluto che ha un termine reale, se non eccede i confini della ragion naturale, non può esser altro che negativo. Di che la ragione è chiara: perché quello si dice pensare assoluto che termina nell' essere assoluto; ma l' assoluto reale non si percepisce dall' uomo entro i confini di sua natura. Per andare al di là, conviene che s' aiuti coll' ideale; e con quest' ala egli perviene a conoscere che deve esistere il reale assoluto, non percepisce lui stesso esistente. Che adunque a un soggetto finito come l' uomo sia dato a percepire il reale assoluto quest' è opera soprannaturale, poiché soprannaturale è il reale assoluto non avendo la natura che un modo di essere relativo. Questa comunicazione soprannaturale si fa in questa vita per due modi: per via di carattere e per via di grazia , secondo il favellare de' teologi; il primo de' quali si riferisce all' intelletto, il secondo alla volontà: nel primo caso si comunica l' essere assoluto come reale , nel secondo come morale . E quantunque questo argomento spetti all' Antropologia soprannaturale , tuttavia, egli era mestieri che qui s' additasse: cosí a fine di tenere distinto accuratamente ciò che è dell' ordine soprannaturale da ciò che è dell' ordine naturale; come altresí per la ragione che il pensare assoluto non si perfeziona che mediante l' ordine soprannaturale, solo in questo divenendo positivo. Onde manifestamente si vede come la creatura abbia bisogno del Creatore pel suo compimento, non che questo compimento appartenga alla natura o si possa dir naturale: che anzi è d' un' indole tutta soprannaturale e gratuita. Se dunque vogliamo tradurre nel linguaggio della filosofia quel carattere indelebile che giusta l' insegnamento di Cristo viene impresso nell' anima nella rigenerazione battesimale, diremo che è una percezione primitiva dell' assoluto reale principio dell' uomo soprannaturale la quale corrisponde all' intuizione dell' assoluto ideale principio dell' uomo naturale. Sono questi due pensieri assoluti: l' uno naturale avente per oggetto l' essere nella sua forma ideale; l' altro soprannaturale avente per oggetto l' essere assoluto nella sua forma reale. Questo nuovo pensiero assoluto è nell' uomo continuo, benché l' uomo non abbia piú coscienza di lui di quello che se l' abbia del natural suo pensiero assoluto l' intuizione dell' essere. Ma come quest' intuizione presiede alla produzione di tutti i ragionamenti naturali dell' uomo; cosí il pensiero assoluto proprio del cristiano che ei trasse dall' impressione della verità reale si manifesta come un senso o facoltà di sentire, giudicare, e ragionare rettamente di ciò che è soprannaturale e divino; ed è quella luce a cui camminano non pure gl' individui, ma ancora i popoli battezzati, giusta la profezia: ambulabant gentes in lumine tuo (1); benché anche questa luce sia il piú senza che n' abbia l' uomo coscienza (2). La ragione poi, per la quale di questa percezione soprannaturale non v' ha coscienza da principio, si è quella stessa per la quale di niun atto dello spirito s' ha coscienza senza una riflessione, la quale per lo piú non è contemporanea all' atto, ma a lui succede. Ma perché la coscienza della perfezione soprannaturale neppur di poi vi si aggiunge, o vi si aggiunge almeno molto difficilmente? Primieramente perché ella è immanente, ha forma d' abito: e gli atti abituali non sono stimolo della facoltà riflessiva. In secondo luogo perché l' attività divina, che in tali percezioni a noi si comunica, è quella attività creatrice che finisce unicamente in noi, e però ella non ha altro effetto ed espressione che noi stessi; e poiché è tanto difficile riflettere su di noi stessi cadendo la riflessione sugli atti nostri, e ancor piú difficile è distinguere in noi, che abbiamo natura sí semplice, ciò che è naturale da ciò che è soprannaturale, due elementi che fusi insieme costituiscono l' uomo cristiano; perciò si mostra cotanta la difficoltà che ha l' uomo di formarsi la cognizione riflessa dell' elemento soprannaturale che è in lui. Vi ha poi questa notabile differenza fra il ragionare che scaturisce da quel pensiero assoluto che s' ha per natura e il ragionare che scaturisce dal pensare assoluto cristiano: che il primo, pigliando la sua materia dal reale finito, cessa d' essere un pensare assoluto, e se rimane assoluto procede da un pensiero negativo dell' assoluto reale; all' incontro il ragionare che logicamente scaturisce dal pensare assoluto cristiano, è sempre assoluto egli stesso, pigliando la sua materia dall' assoluto reale positivamente pensato. Conviene anche avvertire che il pensiero assoluto cristiano tiene la sopraindicata legge del pensar sintetico, per la quale la mente, solo col tenersi raccolta a meditare il reale assoluto percepito, benché ancora non l' analizzi e sembri sterile quella sua immota contemplazione, si fortifica divenendo piú adatta a dedurre poi particolari conclusioni e ragionamenti in copia. Questo anco si dimostra dal fatto giornaliero, che, coltivandosi il sentimento generale della pietà cristiana, anche senza alcuna analisi e passaggio a proposizioni determinate, come accade nel popolo assistente alla liturgia in lingua che non intende: lo spirito intelligente ne rimane grandemente avvigorito, e si trova assai piú pronto e ferace al bisogno di documenti e ragionamenti speciali nell' ordine morale religioso e meno incerto di ciò che è da fare nei diversi casi della vita per conservare una cristiana condotta. Questa facilità e sicurezza di giudizio pratico e speculativo in persone rozze ed inerudite, ma pie, non si sa dire talora onde venga; ma il vero si è che viene dalla forza che ha preso in esse quel primo pensiero assoluto, che è la base occulta della vita cristiana e la luce prima soprannaturale onde pendono tutti i ragionari della mente. Vi è anco un pensiero assoluto morale: questo è quello che occultamente domina tutta la vita dell' uomo quando esso si rende pratico. Questo pensiero morale che presiede alla moralità di fatto di ciascun uomo, è anch' esso per lo piú occulto alla coscienza dell' uomo stesso, che alla luce di quello pensa ed opera senza fermare punto né poco la sua riflessione in quella pura luce. Questo pensiero morale assoluto non è semplicemente l' idea astratta della moralità d' un bene e d' un male morale; ma è un pensiero sintetico che ha del reale e del pratico; tanto sintetico che pare all' uomo piú che altro un sentimento e può ancora considerarsi come un atto abituale razionale della volontà. Infatti si può dire che sia ciò che l' uomo vuole nel piú intimo dell' animo suo, ciò che l' uomo vuole quando crede di operare secondo coscienza in tutti gli atti che egli fa, ciò per cui elegge e vuole piuttosto questi atti che quelli; il qual ciò è uno e identico in tutti gli atti. Il pensiero adunque sintetico morale che giace in fondo a ciascun uomo e ne determina l' operar morale, varia in piú modi; ed è perfetto solo quand' è assoluto, cioè quando contiene con piú o meno di virtualità tutto ciò che è veramente bene morale, senza esclusione di cosa alcuna. Tutti quelli, il cui pensiero sintetico morale principio del loro operare è assoluto, operano bene; ma quelli, il cui pensiero intimo fondamentale nell' ordine morale non è assoluto, hanno una falsa probità, non vogliono veramente ciò che è morale, benché osservino gli offici morali parzialmente. E` da notarsi che il pensiero morale rettore della vita può essere assoluto con piú o meno di virtualità. Ma oltracciò il pensiero sintetico7morale, che trovasi in fondo dell' animo, può essere assoluto e non essere tuttavia puro , in quanto che l' assoluto può andar vestito d' una forma speciale che non gli toglie l' essere assoluto, ma gli aggiunge qualche cosa che senza scemare la perfezione del primo pensiero gl' impedisce di svolgersi da tutti i lati, limitandolo ad un cotal modo determinato di svolgimento. Da questo procede principalmente la diversa fisionomia per cosí dire che ha la pratica della virtú negli uomini virtuosi. Il pensare assoluto, di cui parliamo, non è semplicemente quello: « evita il male e fa il bene »poiché è ancora astratto e negativo non determinando punto che cosa sia il male morale che si dee cansare e il ben morale che si dee fare, ma supponendogli conosciuti. All' incontro la prima vista del bene e del male che cade in un animo, questa vista interiore, immediata, colla quale l' uomo conosce direttamente che cosa sia il ben morale, vista che subito si cangia in un sentimento: questo è il pensiero assoluto morale di cui parliamo. Questo pensiero morale assoluto, il piú intimo di tutti i pensieri morali, sfuggente per lo piú alla coscienza, e costituente il carattere morale dell' uomo, spiega come si manifestino talora nelle persone piú rozze gli atti della piú eroica o delicata virtú; e come il senso morale, che distingue colla maggior giustezza le morali convenienze, sia sovente piú squisito in quelli che hanno minor sapere e coltura: è anteriore alla scienza che non può altro che svilupparlo. Or come poi rispetto all' essere reale abbiamo distinto un pensiero assoluto naturale e un pensiero assoluto soprannaturale: lo stesso dobbiamo dire rispetto all' essere morale. E il pensiero assoluto naturale è del pari negativo, mancando nell' ordine della natura quel bene ultimo assoluto che viene sempre dal pensiero morale supposto: onde nacque il gran vuoto alla morale stoica, come abbiamo altre volte dimostrato (1). L' essere assoluto è il bene assoluto. E, posciaché l' essere assoluto è dato all' uomo positivamente solo per quell' opera soprannaturale che si compie nel battesimo; quindi nel cristiano è infuso un nuovo principio morale, un nuovo pensiero assoluto positivo ed efficace, il quale dà all' uomo una nuova vita e una nuova potenza morale; ed è questo secreto principio che rimutò il mondo pagano e che rimuta interamente di male in bene quelle nazioni dov' entra il cristianesimo, vi emenda i costumi, vi fa pullulare azioni eroiche in ogni virtú, le incivilisce e le incammina in sulla via del progresso. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto viene costituito dall' assolutità dell' oggetto; e che ogni pensare imperfetto e relativo viene dal soggetto, il quale termina l' atto del suo pensare in ciò che non è essere assoluto. E tuttavia non è da credere che il pensare riesca imperfetto e relativo per l' unica ragione ch' egli ha degli oggetti finiti; ma la ragione di tal pensare è che si ferma unicamente in questi, non dando attenzione all' infinito, alla relazione che hanno con questo. Ma, che la mente non badi a questo nesso del suo pensare ordinario, dee procedere da qualche ragione naturale, non da difetto accidentale dell' individuo; perocché si vede che cosí fanno tutti gli uomini colle loro riflessioni e prime percezioni. Or questa causa noi l' abbiamo già indicata quando abbiamo detto che rimane occulto all' uomo il nesso che congiunge l' universo con Dio, l' essere relativo coll' assoluto. Ma colla fatica della mente si giunge alla dialettica trascendentale, la quale scorge a vedere la necessità di quel nesso e a conoscerlo negativamente. Vi è dunque un pensare assoluto primitivo naturale d' intuizione; vi ha un pensare assoluto per una cotal sintesi che si fa nell' anima spontanea e che vi dimora abituale (oltre il pensare assoluto infuso che è una via di percezione); finalmente vi ha un pensare assoluto per via di attuale riflessione speculativo scientifico. Quest' ultimo solo fa sí che l' uomo si chiami appagato del suo sapere. Dei due primi, fin che stanno soli, l' uomo non giudica cosa alcuna, né se ne loda, né se n' attrista, perché non se n' è reso consapevole; ma se v' aggiunge la riflessione, a prima giunta non li trova, o gli pare di non conoscer nulla di essi, e in ogni caso non se ne chiama soddisfatto. Appunto perché le due prime maniere di pensare assoluto mancano di questi due caratteri necessari alla soddisfazione dell' animo umano: 1) l' essere, il conoscere positivo; 2) l' essere, il conoscer conscio. Al pensare assoluto dell' intuizione innata mancano entrambi questi caratteri, poiché 1) l' oggetto è puramente ideale; 2) egli è occulto, non riflesso, senza espressione di sorta. Ma perché l' uomo tanto cupidamente desidera che l' oggetto del suo pensare sia reale, positivo, attuale? Ciò che soddisfa il soggetto deve esser cosa del soggetto: perciò conviene che la notizia il soggetto la faccia sua propria acciocché lo soddisfi. Ma appropriarsela, è quanto unirla a sé, a sé riferirla, altro non essendo la proprietà che l' unione d' una cosa esterna al soggetto per via di sentimento razionale (1). Ora non può far questo, fintanto che null' altro conosce che il solo essere ideale. Egli vede l' idea, non la possiede ancora. Il soggetto dell' intuizione è ricevente , non ancora agente ; e dove non vi ha azione propria, esso non può trovare un diletto che gli soddisfi, venendo al soggetto la soddisfazione dalla propria attività, o certo essendo a questa condizionata. Questa mancanza di attività soggettiva nell' intuizione è ancor meno che il non aver coscienza, poiché gli atti stessi dell' attività soggettiva possono rimanere senza coscienza od acquistarla. Or dunque, che l' essere ideale vuoto d' ogni reale non soddisfi all' umano intendimento, apparisce per due cagioni. La prima, perché questa cognizione si presenta come principio di un' altra cognizione che non si ha, ed a questa si richiama e riferisce; onde, tant' è lungi che possa appagare, che anzi essa è l' origine dello stesso desiderio che l' uomo ha di conoscere. La seconda, perché l' essere ideale non ha espressione alcuna, né alcun segno reale che sia stimolo all' attenzione, onde si rimane del tutto inosservato non producendo nell' anima altro sentimento distinto da quello che ha l' anima stessa nella sua condizione d' intellettiva. Passiamo a considerare come non soddisfaccia alla brama di conoscere, che ha l' uomo, il pensare assoluto negativo che riguarda il reale lasciato solo senza le sue deduzioni. La ragione di ciò non è che egli sia al tutto privo di reale, come accade dell' idea dell' essere; ma il reale che ne forma il termine non conoscendosi che per via di esclusione e di negazione, s' intende esser cosa esistente sí, ma incognita: onde eccita la voglia di conoscerla, anziché acquietarla. Ma quello che piú mi preme di osservare, si è quell' insufficienza all' appagamento che il pensare assoluto del reale ha in comune con molti altri casi di pensare sintetico. Il carattere di questo pensare è quello di esser privo di ogni espressione, di ogni segno sensibile che attiri l' attenzione. Questo pensare occulto, privo di espressione, perfettamente sintetico, ha luogo soprattutto nel pensare assoluto positivo del reale, costituente, come dicevamo, l' ordine soprannaturale. Essendo positivo questo pensare, esso ha per materia un sentimento; o piuttosto, il reale nell' idea dell' essere non si vede solo, si sente. Che cosa aggiunga il sentimento alla pura intuizione non si può insegnare a parole, convenendo rimettersi all' esperienza. Nondimeno, poiché il sentimento varia secondo che nasce dall' azione d' un essere piuttosto che d' un altro, per esprimere questa verità, noi abbiamo inventata una parola, non avendone trovata alcuna che ciò significasse nelle lingue: l' abbiamo chiamata, cioè, il tocco del sentimento , onde quel proprio sentimento dell' essere assoluto noi possiamo dirlo il tocco dell' essere . Ed ora possiamo tornare sul problema dell' Ontologia. Noi abbiamo veduto che il pensare assoluto ha, quasi direbbesi, tre faccie. Quella che riguarda l' essere sotto la forma reale; quella che riguarda l' essere sotto la forma ideale; quella che riguarda l' essere sotto la forma morale. Anche il problema ontologico si conforma a questi tre aspetti. Egli nasce dalla relazione tra l' essere finito, quale si conosce da noi per via di percezione che appartiene al pensar relativo, e l' essere infinito, quale si conosce da noi coll' intuizione ingenita che appartiene al pensar assoluto. Queste due maniere di pensare, la percezione e l' intuizione dell' essere, raffrontate fra loro, dànno l' antinomia ontologica, poiché si trova di piú nel finito, quale sta nella percezione, che nell' infinito, quale sta nell' idea dell' essere. « Come è egli possibile che nel finito sia piú che nell' infinito? che nell' infinito ideale non si trovi la ragione, la spiegazione, la causa del finito reale? ». Non iscade allora di trono la ragione, non perde ogni autorità? Cessa cosí d' essere vero che l' intelligenza presieda a tutte le cose di necessità ontologica. Non solo ritorna la confusione del caso, ma l' essere stesso ha perduto l' interno suo ordine, che risulta dall' essenziale rapporto fra la sua realità e la sua idealità: e l' essere senza ordine non si concepisce piú, è annichilato, rimane il nulla. Cosí il problema ontologico si riduce alla conciliazione fra il pensare relativo e l' assoluto, l' assoluto, dico, spettante alla categoria ideale. Ma la triplice faccia del problema apparisce allorquando si considerano i diversi modi del pensare relativo, confrontando ciascun de' modi di essi coll' assoluto. Perocché il pensare relativo: 1) talora termina colla sua attenzione nel reale, come accade nella percezione, ecc.; 2) talora termina colla sua attenzione nell' idea, come accade nell' universalizzazione, ecc.; 3) talora termina colla sua attenzione nel morale, come quando sente o pronuncia l' obbligazione, la bontà di una azione, ecc.. Ora se ciò in cui bada il pensiero è un ente finito reale, il problema ontologico si manifesta sotto quella forma che abbiamo espressa, e dimanda: « Come mai l' idea della cosa ne mostri la possibilità senza dare alcuna ragione della sussistenza? ». Il che si risolve in questa antinomia: 1) Il reale finito, l' universo, deve avere una ragione necessaria che ne determini la sussistenza. 2) Il reale finito, l' universo, può essere e non essere, e però non ha ragione che spieghi perché sussista, piuttosto del contrario. Ma se il pensiero si ferma nell' idea della specie e de' generi, allora la difficoltà prende un' altra forma: « Queste essenze sono reali? sono ne' reali, sono fuori de' reali? ». Di che l' antinomia: « Sono ne' reali, poiché di essi si predicano né si potrebbero di essi predicare se ad essi non appartenessero: - Non sono ne' reali, poiché essi sono comuni, e ogni reale è particolare: reale e comune si contraddicono ». Finalmente se il pensiero si ferma nell' essere morale, lo stesso problema acquista una terza forma: è l' antinomia morale che dimanda una conciliazione. Le due proposizioni opposte formanti cotesta antinomia sono le seguenti: 1) « Il soggetto non può tendere che al bene suo proprio, perché il bene, se non è proprio del soggetto, non è per lui bene; e se non è bene, non può tendervi ». 2) « Il soggetto, lungi dal dover cercare il proprio bene, anzi deve unicamente porre ogni suo rispetto ed affetto nell' oggetto, e con piena annegazione di se stesso riconoscere praticamente quell' essere secondo ciò che è oggettivamente ». Trattasi sempre di sciogliere un' antinomia che presenta il pensare relativo, sia nell' ordine reale, sia nell' ordine ideale, sia nell' ordine morale. Questa antinomia non si può conciliare che col pensare assoluto: senza di questo, o rimane insoluta, o di piú conduce gli uomini ai piú mostruosi errori. Ora le tre antinomie categoriche, che esprimono il problema ontologico, appartengono al pensare critico, e ciascuna mette il pensare relativo in contraddizione con se stesso, o col pensare assoluto proposto dubbiosamente. Ma nello stesso pensare assoluto si trova la conciliazione delle antinomie, purché tal pensare a trovarla si applichi. Cosí, per rispetto alla prima antinomia, la ragione perché il mondo sussista, non si trova è vero nell' idea del mondo, ma piú la si rinviene nelle profondità dell' essere morale: è una ragione deontologica, la quale non induce necessità fisica, ma deontologica soltanto. Or questa ragione è sufficiente a determinare l' azione del primo essere, come quello che è perfettissimo. La soluzione della seconda antinomia si trova pure facendo uso del pensare assoluto semplicemente che si può dire assolutamente assoluto, e consiste nel concepire l' essere come uno nelle tre categorie. Se dunque si tratta di spiegare come le idee specifiche e generiche sieno da una parte eterne ed affatto distinte, dall' altra molte; basterà riconoscere che l' elemento eterno che hanno le idee si riduce ad uno, cioè a quello dell' essere, onde tutte quelle che comunemente si dicono idee specifiche e generiche sono propriamente concetti di un' idea sola, dell' idea dell' essere; e cosí col pensare assoluto categorico rimane sciolta questa antinomia. Ma se l' antinomia prende un' altra forma, nella quale l' abbiamo esposta di sopra, ponendo da una parte che le essenze debbono essere nei reali di cui si predicano, e dall' altra che non possano essere nei reali; allora convien ricorrere, per uscirne, al pensare assolutamente assoluto, cioè a quello che apprende l' unità dell' essere nella trinità categorica. Anche l' antinomia morale si scioglie con quel pensare assoluto che ha per oggetto la relazione fra l' essere ideale ed oggettivo e l' essere reale e soggettivo. La qual relazione è questa, che l' essere soggettivo si assolve, perfeziona e beatifica coll' aderire all' oggettivo, non ritornando a se stesso se non in quanto nell' oggetto si ritrova. All' oggetto appartiene l' assolutità dell' essere, al soggetto la relatività ; ma la relatività si assolutizza quando finisce la sua azione nell' assolutità. Questa intrinseca costituzione dell' essere spiega come la morale non possa altrove consistere che nell' adesione del soggetto all' oggetto. Colla quale adesione il soggetto pare che operi in opposizione alla propria natura. Ma ultimamente ritrova se stesso nell' oggetto per amore del quale s' era perduto, e si trova felice: la sua esistenza, se non era assoluta, ha cosí partecipato dell' assoluto. Senza di ciò il soggetto finito mancherebbe della sua piena esistenza ontologica; e la necessità sentita di questa esistenza, acciocché sia completo essere, è la forza veramente ontologica dell' obbligazione. In pari tempo dalle stesse nozioni apparisce che l' attività morale va direttamente nell' essere , e però è universale come l' essere: di maniera che se il segno ultimo a cui tende si restringesse, e da assoluto com' è, l' essere diventasse relativo, non ci sarebbe piú nulla di morale. E questa è la regola a distinguere dalle vere virtú que' falsi concetti che ripongono la virtú in qualche relativo, e non l' estendono a tutto l' essere. Il pensare assoluto, fu già notato, altro è cosí semplice che non mostra nel suo seno distinzione alcuna, né parti, né organi: tale è l' intuizione dell' essere, tale quel pensar sintetico assoluto, occulto nell' anima, che abbraccia tutto il reale, e niente di determinato in esso, sia che spetti all' ordine naturale e negativo, o all' ordine soprannaturale e positivo. Altro è moltiplice, ed è quando si riferisce lo stesso pensare relativo all' assoluto, mettendo accordo tra essi: nel qual fatto il pensare relativo si pensa in un modo assoluto. In questa seconda maniera di pensare assoluto vi è dunque pluralità. Pluralità di termini, di elementi, d' oggetti; e pluralità di modi di conoscere. La pluralità dei modi di conoscere moltiplica gli elementi e gli oggetti; è quella che somministra la materia abbondevole al pensare. E nel vero, la percezione, l' universalizzazione, l' astrazione, la sintesizzazione, sono altrettanti modi di conoscere che producono gli elementi del ragionamento. Dove è da notarsi che la sintesizzazione non è ancora la sintesi assoluta, ma quella che si ferma per cosí dire a mezzo la via. Tale sintesizzazione comincia dal riportare il sentito all' idea dell' essere, che è la sintesi primitiva, o la percezione: dalla quale, se coll' universalizzazione si toglie via la persuasione della sussistenza, rimangono le idee specifiche piene, donde l' astrazione cava i cosí detti astratti. Ma lo spirito, seguitando a sintesizzare, riferisce i percepiti, gli universali e gli astratti all' idea dell' essere, e per essa viene a conoscere le relazioni, e i vincoli attivi e passivi che hanno fra essi. Atteso poi l' esperienza del mancare talora i conosciuti allo spirito, e del loro ripristinarsi e del mancar di nuovo (il che avviene per essere il pensiero umano contingente), si vengono formando le idee del nulla assoluto e relativo, quella delle negazioni. Tali sono gli elementi del ragionamento, i quali appartengono a diversi modi del pensare. Or tutti questi elementi, benché singolarmente presi appartengono al pensare relativo, tuttavia diventano, quasi direbbesi organi dell' assoluto allorquando s' innestano in questo, pensando la relazione che a questo tengono. Ed ora qui, alla fine, siamo in agio di toccare alcune questioni di logica trascendentale, intorno alle quali molto in Germania si fu assottigliato. La prima è, se il sapere umano si volge in circolo, di maniera che dopo le ricerche si torni a quello che si sapeva a principio. Questa questione, o riguarda il sapere, o la certezza del sapere. Rispetto al sapere, se si considera che l' idea dell' essere onde parte la mente contiene virtualmente ogni cosa, si può ben dire che vi abbia negli umani ragionari una specie di circolo, ma solo intendendo cosí la cosa, che nella fine si sa in un modo quello che a principio si sapeva in un altro modo: alla fine lo si sa attualmente, quando al principio lo si sapeva solo virtualmente; alla fine si acquista anche la coscienza di ciò che si sa, la quale al principio non si avea. Onde il sapere assoluto si trova ai due estremi del circolo. Al primo estremo è intuitivo, naturale; al secondo estremo è speculativo, scientifico. Che se trattasi della certezza, fu dimandato se la mente umana debba cominciare dal porre ciò che sa come una mera ipotesi, finendo poi il suo cammino col trovare quell' ipotesi convertita in certezza. Or quest' è vero in parte, non in tutto. Se si parla dell' andamento naturale e spontaneo della mente umana, essa incomincia dalla certezza e va sicura fino che urta nelle antinomie del pensar relativo. Allora nasce dubbio, e, verificata la contraddizione, un periodo di scetticismo nel quale non può riposare; indi il desiderio di uscirne, poi la speranza ai primi albori del pensare assoluto che ritorna a farsi vedere alla mente: il quale diventa pienamente luminoso, concilia le antinomie e restituisce alla mente il riposo. Il quale cammino, se è l' ordinario della mente, non è però cammino dell' animo, che può tenere la mente in briglia coll' autorità della ragione morale e non lasciarla mai perduta nel dubbio. Ma se si vuol parlare non di tutto il cammino che fa la mente svolgendosi, ma del scientifico solamente che è parte del tutto: in tal caso egli è vero che le prime cose, si possono dimandare siccome ipotesi, le quali ricevono poi, da quanto consèguita, il lume dell' evidenza. E cosí noi pure facemmo, cercando il fondamento dell' umana certezza. Supponemmo come un fatto il pensiero, benché non giustificato ancora, non purgato dal dubbio scettico che sia illusione, e nel pensiero trovammo l' essere; e nell' essere la verità stessa, l' evidenza innegabile, dalla quale partendo fu dimostrata la certezza de' fatti dell' esistenza umana, dell' umano pensiero; e come questo, fin che ha per guida la luce dell' essere, non può illudere o mentire (1). La seconda questione si è: « onde incominci la scienza ». E` simile alla precedente, involgendo questa difficoltà: « Se io comincio dire o pensare qualche cosa, e m' occupo a dimostrare questo qualche cosa o a accennarlo almeno come evidente, il pensiero che vi adopero è adoperato gratuitamente, non essendo provato ch' io il possa adoperare o che mi dica il vero, ond' egli è fuori dell' oggetto della scienza ». Come trovar dunque un cominciamento che non lascia fuori nulla, nulla supponga arbitrariamente, non dipenda da cosa che provata non sia, o almeno da cosa che rimane fuori dalla scienza? Di questo labirinto si esce nel modo accennato, cioè: 1) la scienza deve cominciare dal considerare appunto quel pensiero che è l' istromento di lei, e porlo quale ipotesi o postulato sino a tanto che l' osservazione non trovi nel pensiero l' idea dell' essere; 2) trovata questa base fondamentale, tutto l' edificio è consolidato, poiché l' essere porta quasi direi scritto nella sua fronte il suo titolo: pure contemplandolo si vede che non può non essere: anzi egli è la verità che toglie via tutte le illusioni. A questa questione è affine l' altra, che dimanda: « Se si possa definire la prima scienza », il che dall' Hegel si nega. La difficoltà e la soluzione della difficoltà somiglia alla precedente. Diamo che si definisca. Ora, questa scienza definita non sarà la prima: perché non può essere la definizione stessa. Se il definito non è la definizione stessa, dunque la definizione è ciò di cui la definizione si compone. Ciò di cui la definizione si compone, parole, concetti, ecc., nell' ordine del sapere è anteriore al definito: e però la scienza definita non è la prima cosa che si sappia; la prima scienza dunque non si può definire. Ma siffatta difficoltà non è insolubile, se non supponendo arbitrariamente e falsamente coll' Hegel che tutto si riduca alla categoria della scienza. Infatti, posto che sia vero che la scienza dee assorbire ogni cosa, non si può piú definire il suo principio: perocché in qual si voglia modo che si definisca, egli suppone sempre qualche cosa d' anteriore sfuggente alla categoria della scienza. Infatti, il pensiero, il puro pensiero, non è ancora scienza, ma via alla scienza. Scienza non può essere se non l' oggetto del pensiero. Rimane adunque il pensiero come una realità anteriore alla scienza che non si lascia assorbire dalla scienza. Vero è che il pensiero può pensare se stesso: ma questa proposizione suppone che il pensiero in quanto è pensante non sia al modo stesso del pensiero in quanto è pensato, e che tuttavia il pensiero pensante e pensato sia uno. Ma scienza non è il pensiero se non in quanto è pensato. Laonde, quand' anche si ponesse la definizione cosí: « la prima scienza è il pensiero pensato », questa definizione lascia fuori come un antecedente il pensiero pensante, il pensiero della definizione medesima. In somma l' atto, che è quanto dire la realità, è necessariamente anteriore all' oggetto e all' oggettivo, che è quanto dire alla idealità. Si dirà: Se voi cominciate la scienza, lasciando che vi scappi quasi fuor sopra quella un qualche cosa, cioè il reale; questo reale voi dunque lo accettate come uno sconosciuto refrattario interamente al pensiero. - Rispondo che se la scienza umana non raggiunge col suo primo passo questo, ben dimostra la limitazione dell' umano intendimento; ma non è però, che ciò che resta fuori dal primo pensiero, e che è condizione del pensiero stesso non pensato dall' uomo, non venga raggiunto di poi colla riflessione; e se non fosse raggiunto noi pur ora non ne potremmo parlare e dire che egli sfugge alla definizione della scienza prima. Dallo sfuggirci cosí, altra conseguenza non viene se non la distinzione tra la scienza considerata in se stessa nella somma sua perfezione e la scienza limitata dell' uomo. S' intende assai bene che la scienza considerata in se stessa e nella somma sua perfezione dovrebbe esser coetanea ed adeguata a tutto l' essere; anzi non dovrebbe avere che un atto abbracciante tutta la realità, non escluso se stessa; e quest' atto dovrebbe essere la stessa essenza del soggetto conoscitivo. Ma quest' ideale del sapere, che s' avvera in Dio, non s' avvera nell' uomo, al quale nondimeno è dato conoscere in qualche maniera ciò che il proprio essere ha di limitato. La limitazione di esso è pur questa, che sia successivo e abbia bisogno di definizioni e divisioni, ecc., che incominci e non sia stato sempre, che sia contingente e possa cessare, e che in quanto è sapere scientifico sia un atto secondo, il quale suppone innanzi di sé la realità del soggetto conoscente, e la realità dell' atto anteriore in ordine logico a' suoi oggetti che costituiscono la scienza. Poste le quali cose, quando si cerca la definizione della prima scienza deve intendersi di quella che è prima per l' uomo, giacché in Dio non vi è scienza prima né seconda, e la sola espressione di scienza prima involge il concetto di una scienza limitata. Or dovendosi questa e non altra definire, basterà che ciò che si definisce sia primo nell' ordine del sapere, benché non sia primo negli altri ordini categorici, cioè nell' ordine reale e morale. E però, quando si dirà che la scienza dell' essere ideale è la prima, non si andrà lontano dalla giusta definizione, benché questa definizione sia preceduta da un pensiero, che è realità, ma non scienza. All' incontro, la scienza della logica hegeliana, posta da Hegel per la prima, è proscritta dallo stesso Hegel allorquando egli dichiara che non la si può definire, cessando manifestamente d' essere una scienza ciò che non si può definire, ed apparendo contraddittorio che la scienza sia nello stesso tempo una cieca indefinibile realità. La legge ontologica del sintesismo dichiara che « l' essere ha un cotale organismo ontologico, che la mente divellando un organo dall' intero organismo ne ha un tal ente che, se si prende come ente completo, nasconde in sé un assurdo, del quale assurdo tostoché la mente s' accorga, conchiude che quell' organo divelto non può stare cosí solo, è nulla, e neppure si può pensare quando vi abbia vista dentro la contraddizione, ma si pensa fino a tanto che questa vi giace nascosta in istato, come abbiamo altrove detto, virtuale »(1). Dalla quale definizione si vede, che la mente fino ad un certo segno può sciogliere il sintesismo dell' essere, pensando un organo di lui separato dal tutto; ma ciò le avviene solo perché ella dapprima non s' accorge che l' organo cosí separato porta in seno una ripugnanza; e quivi è appunto l' origine di quel pensare che abbiamo chiamato relativo , in opposizione all' assoluto che non dismembra l' organismo ontologico. Or le due maniere di pensare assoluto e relativo, le quali si distinguono pe' loro oggetti, non si devono e non si possono giammai confondere insieme. Molto meno si deve confondere insieme l' essere assoluto e l' essere relativo quasicché questo si potesse ridurre a quello come parte al tutto. L' assoluto e il relativo si oppongono ed escludono per siffatto modo, che mai non si possono congiungere in uno, e restano sempre due; perocché l' essenza stessa del relativo importa che non sia assoluto. E questa relazione fra l' essere relativo e l' assoluto, dove sta veramente il nodo gordiano della Teosofia, è cosí nuova, che si scioglie in due proposizioni, le quali sembrano contraddittorie e non sono. Perocché si può sostenere, non aversi nulla di cosí vicino e legato, come sono vicini e legati l' essere assoluto e il relativo; e si può ugualmente sostenere, niuna cosa essere piú lontana e aliena da un' altra, quanto uno di quei due esseri dall' altro. La prima di queste due proposizioni è vera se si guarda all' origine. Perocché il relativo viene dall' assoluto; ma non si dee credere che sia formato dalla sua materia, che anzi l' assoluto non ha materia; neppure si deve credere che sia una medesima sostanza con lui, perocché l' assoluto non è sostanza, ma puro essere; onde il relativo comincia ad essere d' un tratto, mentre prima non era, per virtú dell' assoluto. Nello stesso tempo la natura dell' essere relativo e la natura dell' essere assoluto sono cosí fra loro contrarie, che nulla v' è nell' uno che sia identico a ciò che è nell' altro, e però sono ancora piú che categoricamente distinti ; infinitamente piú che da sostanza a sostanza: trattasi di una differenza di essere, che giustamente si può denominare differenza ontologica . Per intendere come stia questa cosa, conviene por mente, che l' essere si dice relativo in quanto esprime ciò che si riferisce, ciò che è ad un principio soggettivo. Questo principio soggettivo, e ciò che è a lui, è l' essere relativo (reale, non l' essere relativo ideale o razionale) (2). E chi terrà ferma tale definizione dell' essere relativo, né manco troverà difficile a rispondere s' altri chiedesse: come non sia cosa assurda che l' essere, il quale è pel concetto suo semplicissimo, si raddoppi per modo che v' abbia un essere assoluto e un essere relativo. Perocché: l' essere assoluto è uno e comprende ogni entità assoluta; ma tant' è lungi che comprenda la relativa come relativa, che se la comprendesse sarebbe difettoso e cesserebbe d' essere assoluto. Dove è da osservarsi che l' essere relativo non può concepirsi che come relativo. Né pregiudica alla dignità dell' assoluto, che fuori di lui v' abbia il relativo; appunto perché è un' esistenza relativa e non assoluta, ed è dipendente dall' assoluto, come da causa. Or il tener ben ferme queste relazioni fra l' essere assoluto ed il relativo, è la principale avvertenza che dee avere il teosofo. Si farà qui ancora un' altra obbiezione: se il relativo è anch' egli essere ed essere è pure l' assoluto, vi ha qualche cosa di comune fra l' uno e l' altro, e questa è l' essenza dell' essere. Tanto l' assoluto dunque, quanto il relativo partecipa della stessa essenza dell' essere, non sono dessa: vi hanno dunque due esseri, e di piú l' essenza dell' essere separata da essi, che non è l' essere: assurdo manifesto. A che si risponde che l' essere assoluto è l' essenza dell' essere ultimata e compiuta, e che l' essere relativo ne partecipa non assolutamente, ma relativamente al soggetto che è base dell' essere relativo; e perciò appunto dicesi relativo. Se dunque l' assoluto è l' essenza dell' essere intieramente compiuta, e il relativo non è l' essere, ma l' ha congiunto, vedesi in che modo si può dire che l' essenza dell' essere sia comune: questa non diviene due perciò, né l' assoluto ha qualche cosa di piú dell' essenza dell' essere, come la specie per esempio ha qualche cosa di piú del genere, ma è la stessa essenza dell' essere compiuta. Il relativo per contrario, non è, ma si forma, si genera continuamente, per parlare con Platone. E la generazione del relativo, si può esprimere in questo modo: un termine dell' attività volontaria dell' assoluto ha una relazione con se stesso: e a questo termine, in quanto ha una relazione con se stesso e non in quanto è termine dell' assoluto, si aggiunge dalla mente l' essenza dell' essere, e questa sintesi che fa la mente è la generazione dell' essere relativo. Ma: quando la mente aggiunge a quel termine l' essenza dell' essere, non ve l' aggiunge completa, ma priva de' termini suoi; e ciò perché la mente non conosce per natura che l' essenza dell' essere priva de' suoi termini. Vedesi manifestamente come l' essenza dell' ente rimanga una, e tuttavia per opera della mente ammetta un termine relativo, e cosí sembri accomunarsi a piú. Ma il vero si è che l' essenza dell' essere è solo propria dell' assoluto dove ella è tutta intiera e spiegata, quando il relativo non è propriamente ente per sé, ma si fa tale per operazione della mente stessa. Convien dunque dire che la differenza che passa tra l' essere assoluto e il relativo non è da sostanza a sostanza; e ancor maggiore della differenza da categoria a categoria; perocché s' ha differenza di essere in questo senso, che l' uno è assolutamente ente, l' altro assolutamente non7ente. Ma questo secondo è relativamente ente: ora col porre un ente relativo non si moltiplica assolutamente l' ente; sicché rimane che assolutamente l' assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensí un essere solo (1), e in questo senso non v' abbia diversità di essere, anzi unità di essere. Ma posto che la mente l' abbia fatto tale, esso dee avere tutte le condizioni dell' essere; altrimenti non potrebbe esser concepito, pel principio di cognizione che è la prima legge della mente (2). Or qui nasce l' obbiezione: non è ella condizione dell' ente anche il suo ordine intrinseco, quello che noi abbiamo chiamato organismo ontologico? E l' ente relativo difetta di questo organismo; che anzi noi appunto riponemmo in questo l' essere un ente relativo, che egli è distaccato relativamente a se stesso dall' intero organismo proprio di ciò che è assolutamente essere. Diciamo che, ogni qual volta l' ente relativo che si pensa non involge errore, egli deve avere tutte le condizioni dell' ente, perché ne partecipa l' essenza che dalla mente gli viene aggiunta. Ma posciaché la mente finita vede l' essenza dell' ente solo nella forma ideale, nella quale è contenuto l' organismo dell' ente solo virtualmente: perciò anche il pensiero degli enti relativi offre bensí tutte le condizioni dell' ente proprie dell' essenza, ma nasconde nella virtualità quella che riguarda il compiuto organismo ontologico. E tuttavia l' organismo, benché limitato, non manca neppure nell' essere relativo; giacché la legge del sintesismo che lo forma s' avvera ovunque è essere. Noi abbiamo veduto che ella ha come tre amplissimi campi. Il primo campo in cui la legge del sintesismo si spiega è lo stesso essere considerato nella sua compiuta essenza, che appar manifesta nei tre modi categorici, tutto intero e identico, nel modo ideale, reale e morale. Di poi si manifesta nel nesso necessario che hanno i termini dell' operare volontario coll' essere assoluto, i quali termini si contengono implicitamente nell' essenza dell' essere, e sono in essa attuati per volontà, e da morale necessità determinati. In terzo luogo, ricorre fra l' essere assoluto e il relativo, per essere la costituzione piena di questo una sintesi fra il sentimento finito e relativo e l' essenza dell' essere nella pura forma ideale, colla qual sintesi sono costituite le intelligenze che sono gli enti relativi completi - e ancora il sintesismo fra l' essere assoluto e il relativo apparisce quando l' intelligenza pensando la sua propria esistenza relativa si concepisce e si pone come ente; la quale operazione è una sintesi fra il sentimento relativo e l' essenza dell' essere. Finalmente allora quando l' ente relativo è ultimato mediante questa operazione sua propria, egli di nuovo si dimostra cosí costruito, che le sue parti sono tutte legate insieme, per modo che, l' una divisa assolutamente dall' altra occulta nel suo seno l' assurdo. Del terzo e del quarto genere, cioè del sintesismo fra l' essere relativo ed assoluto, e fra gli organi dello stesso essere relativo, dobbiamo trattare in questo libro, il quale ha per argomento l' essere nella sua forma reale. La mente adunque che contempla l' essere reale, il trova certo ordinato e ontologicamente organato; ma ella intende che tali organi o parti ontologiche debbono constare di qualche cosa, e questo qualche cosa si può acconciamente denominare materia essenziale dell' essere: ella è quella che costituisce propriamente la realità dell' essere. Non s' introduca qui coll' immaginazione la materia corporea che non ci ha a far nulla. E per evitare questo ravvicinamento fra materia corporea e materia essenziale dell' ente, noi risuscitando una voce antica, chiameremo questa, in quanto cade nella nostra esperienza, stoffo dell' ente (1). Dividendo noi coll' astrazione lo stoffo dell' ente reale dalla sua forma organica, ne abbiamo fatto anche cosí due elementi ontologici i quali sintesizzano insieme per modo che l' uno non istà senza l' altro, ma la mente col suo pensare imperfetto li separa, pensando attualmente ad uno, e sottintendendo virtualmente l' altro. Né tuttavia si prenda lo stoffo dell' ente reale di cui parliamo come fosse lo stesso concetto che gli antichi si formavano della materia prima ; perocché la materia prima degli antichi è concetto piú astratto, è l' astrazione dell' elemento comune a tutti gli stoffi degli enti reali; laddove per istoffo noi intendiamo la stessa essenza d' una realità, quale cade nella nostra esperienza, prescindendo da ogni sua organica costituzione ontologica. Principio di metodo per tutte queste ricerche, che tendono a scoprire la natura delle cose, è questo: doversi cogliere le cose come a noi si presentano in quel primo atto nel quale le conosciamo; perocché in appresso le operazioni della mente e i diversi sentimenti loro s' associano, le opinioni altresí ricevute ce le possono alterare e contraffare. La natura o essenza che si ricerca è certo la natura o essenza conoscibile. Se dunque ella deve cadere nella nostra cognizione, in qual cognizione cadrà, se non in quella, per la quale abbiamo imposto alla cosa un nome? Or questa è quella prima, che ce n' ebbe dato il concetto. Se i ragionamenti bene rispondono a questo concetto, sono veraci; se definiscono la cosa diversamente da quel primo concetto che solo è significato dal vocabolo, vanno forviando. Cosí ancora gli antichi logici sapientemente definivano l' essenza della cosa, ciò per cui da prima la si conosce. Or questo è il buon metodo, il metodo d' osservazione accomodato alle cose spirituali, osservare ciò che cade nella nostra cognizione, e come vi cade: osservare come le cose da noi si conoscono. Come adunque si conosce lo stoffo dell' ente? Lo stoffo dell' ente può essere conosciuto direttamente dall' uomo soltanto col mezzo della percezione ; e appunto perciò, considerando quale cognizione ci somministri la percezione, noi potremo formarci il concetto giusto dello stoffo dell' ente. Nella percezione di un corpo, la mente nostra distingue la grandezza, la forma e oltre di ciò prova una modificazione speciale del proprio sentimento che resta innominata; solo le si applicano in certi casi degli epiteti generali, come a ragion d' esempio si dice esser piacevole o dolorosa, ma niun vocabolo si trova nelle lingue per indicare il proprio di una data sensazione. Ad ogni modo in ognuna delle dette sensazioni vi è questo fondamentale sentimento, che riceve quasi subietto i limiti e accidenti della grandezza, forma, ecc.. Lasciando dunque che la parola sensazione abbracci tutto ciò che cade in lei, noi per esprimere la parte fondamentale e primitiva di essa adoperammo questa espressione: « il tocco della sensazione ». Or quello che abbiamo detto della percezione de' corpi esterni, dobbiamo universalizzarlo a tutte le realità: tutte possono essere percepite, e la percezione di un reale si distingue essenzialmente dalla percezione di un altro pel tocco del sentimento, ehe è l' effetto primo, immediato, proprio che colla sua azione produce nel percipiente; è quello per cui è conoscibile dall' intendimento, è quell' atto, in una parola, con cui un ente reale esiste in un altro pure reale, e però da ogni altro si distingue. Lo stoffo dunque d' un ente reale è conosciuto dalla mente nel tocco del sentimento; e questa è quella cognizione che si suol chiamare positiva . Si prende la denominazione di positiva , data alla cognizione, tanto pel contrario di razionale, ideale, dedotta ; quanto pel contrario di negativa . Nel primo significato vuol dire cognizione d' un fatto posto, attuale, presente, distinguendosi da un fatto possibile, non presente colla sua efficacia in colui che lo conosce. Nel secondo significato, si viene ad esprimere, che nella cognizione che abbiamo del reale, conosciamo ciò che è proprio di lui come oggetto, ciò che costituisce il suo fondamento conoscibile. Mancando questo fondamento, che è appunto il tocco dell' essere, si dice la cognizione del reale rimanersene negativa, cioè orbata di ciò che è proprio del reale, oggettivamente considerato, vuota di ciò che costituisce il suo effetto conoscibile, quella sua azione, per la quale un reale conosciuto vive nel sentimento di un altro reale. Una tale mancanza, che trae dalla cognizione, per cosí dire, la sua propria sostanza, non può essere supplita né surrogata da nessun ragionamento, da nessun' altra maniera di conoscere. Ma onde avviene poi che un reale può avere in qualche modo cognizione d' altro reale, benché non ne riceva l' azione, e il tocco della sensazione non cada nella sua esperienza? Perché, come abbiamo detto, un ente reale, oltre comporsi dello stoffo, si compone altresí d' un cotale organismo ontologico, e, trattandosi d' un essere finito, anche di elementi negativi, di limitazioni. Di piú egli ha molte relazioni esteriori con altri enti reali, che possono essere conosciuti. Allora il complesso di queste determinazioni, conosciute che sieno, si prendono come l' espressione del reale, tengono luogo del reale, e cosí costituiscono la cognizione dell' ente, che dicesi negativa, perché non fanno conoscere propriamente l' ente, ma soltanto lo segnano in modo, che qualora si venisse a conoscere, lo si riconoscerebbe per desso. E` nondimeno da avvertirsi che gli elementi negativi non determinano propriamente un ente reale, ma ne danno una cognizione generica o astratta, che può dirsi ideale. Questa parte di cognizione né pure ne prova la realità sussistente, ma supponendo questa siccome ammessa, ne fa conoscere i caratteri generali. Ma le relazioni d' un ente reale con altri enti reali possono determinare primieramente l' ente, e dimostrarne la sussistenza; il che s' avvera quando l' esistenza degli altri enti reali conosciuti sia condizionata a quello che resta incognito. Allora di questo si conosce che sussiste, ma ci rimane occulta la propria natura, perché manca il tocco del sentimento: la cognizione della sussistenza riman vuota della real essenza, e però dicesi negativa . Queste due maniere di conoscere un reale, quando si trovano insieme, diconsi « cognizione ideale7negativa ». Anche lo stoffo dell' ente ha due modi categorici di essere, l' oggettivo o ideale, il soggettivo o reale. Si chiederà come lo stoffo dell' ente possa essere ideale, se in esso abbiamo fatto consistere la realità dell' ente. E` a rispondere, che le forme categoriche inabitano l' una nell' altra senza confondersi; e che perciò anche la realità inabita nella idealità, e allora prende il modo di questa. E` la realità quasi direbbesi vestita d' idealità. Onde noi prendiamo la realità in due modi: o com' ella è pura e semplice; o com' ella si trova nel seno dell' idealità stessa. Quella prima è da noi chiamata realità senza piú, questa seconda dicesi essenza della realità , o idea della realità, o realità ideale, ovvero anche realità oggettiva, o tipo della realità. Sotto la stessa distinzione adunque deve considerarsi lo stoffo dell' essere, il quale se è nel modo suo soggettivo, costituisce la semplice realità; ma se si prende in un modo oggettivo, costituisce lo stoffo ideale, l' essenza dello stoffo. Lo stoffo non è l' ente, ma un elemento di esso, che la mente col suo pensare imperfetto divide dal resto. Onde, quantunque sia propria dell' ente l' unità «( Psicologia , vol. II, lib. IV, cap. .) », e cosí anco dello stoffo, tuttavia l' unità dell' ente può essere organica; laddove lo stoffo prescinde da ogni organismo, e però è un' unità semplice, cioè a dire priva di moltiplicità alcuna. E di vero né la stessa mente può trovare alcuna moltiplicità dello stoffo dell' ente, perocché ella nol conosce se non come somministratole dal tocco del sentimento, il quale è semplicissimo. Ciò che potrebbe far dubitare che lo stoffo non si presentasse alla mente come un semplice, si è la moltiplicità dei sentimenti e le loro diverse misture. Ma conviene distinguere in tali misture i sentimenti semplici ed elementari, e pigliare ciascuno di questi come rappresentante d' uno stoffo diverso. Un dubbio piú difficile a sciogliersi contro alla piena semplicità dello stoffo, si è quello della gradazione che si trova in un medesimo sentimento. Ora qui è necessario distinguere accuratamente fra la parte soggettiva della sensazione, e l' extra7soggettiva «( Antropologia , n. 199 sgg.) ». Lo stoffo dell' ente reale è appunto di due maniere; come è di due maniere il reale, soggettivo cioè ed extra7soggettivo. Parliamo del reale e del suo stoffo extra7soggettivo. Lo stoffo del reale extra7soggettivo, benché semplice, può essere a dir vero percepito dal soggetto con piú o meno d' intensità, e di perfezione: ma questa gradazione appartiene al soggetto, e non all' extra7soggettivo; il quale rimane semplice. Veniamo allo stoffo del reale soggettivo. Il reale soggettivo è il soggetto stesso sentito e le sue modificazioni. Ora noi abbiamo già detto, che trattandosi d' un soggetto senziente, questo non ha che un' unità organica, e però, benché unico, risulta da piú sentimenti distinguibili col pensiero astraente. Anche il suo stoffo adunque, partecipa di questa moltiplicità, e non è di questo stoffo che noi parlavamo, quando ne affermavamo la pienissima semplicità: il soggetto non è lo stoffo elementare, ma lo stoffo organato e d' ogni parte compito. Tornando ora ai due modi categorici dello stoffo, il modo di essere soggettivo è propriamente il proprio , pigliata questa parola a significare il contrario di comune . E per verità negli enti conosciuti, se sono puramente ideali ed oggettivi, v' ha il comune, e non il proprio; se poi sono enti reali (sussistenti o ipotetici), ciò che in essi vi ha di proprio è unicamente la sussistenza. Il proprio adunque non è altro che la sussistenza, la realità, pura e semplice, nella sua soggettiva esistenza. La sussistenza (il modo soggettivo) è l' ultimo atto dell' essere rispetto ad un ente, pel quale l' ente è in atto; è l' attuazione dell' essenza. Prima che un' essenza sia attuata potrà essere attuata in diversi individui, ma in quanto è già attuata in un individuo non può essere in un altro; perciò quest' atto ultimo è il proprio, non avendone alcun altro in cui ulteriormente attuarsi. Si può bensí trovare il proprio anche nella pura essenza quando si considera il proprio come inabitante nell' essenza (idea del proprio); ma in tal caso non è il proprio semplicemente , ma il proprio come oggetto, che si potrebbe chiamare con una maniera imitata dagli Scolastici, il proprio vago , rispondente al loro individuum vagum . La sussistenza e realità d' un ente non è la sussistenza e la realità di nessun altro; dunque ella sola è ciò che v' ha di proprio nell' ente; per essa sola il comune, sia sostanza, sia accidente, si rende proprio; cosí una sostanza in quanto sussiste è propria, e anche un accidente in quanto sussiste è proprio ma nel mero concetto della sostanza e dell' accidente nulla v' ha di proprio; ed anzi il proprio non vi ha in nessun concetto, ma soltanto nella sussistenza , che è il contrario del concetto o dell' idea: idea o concetto dice comune , sussistente dice proprio . Noi conosciamo due maniere di enti reali, noi stessi, e altri diversi da noi. Ora come conosciamo noi stessi? che cosa è questo noi stessi che conosciamo? - Per quantunque si consideri non si trova da dir altro, se non che ci conosciamo pel nostro proprio sentimento «( Psicologia , vol. I, n. 61 sgg.) », e che nulla conosceremmo in noi, se nulla vi sentissimo; convien dunque conchiudere, che noi siamo fatti di sentimento e non d' altro; non d' un sentimento fenomenale, e transeunte, ma sostanziale e permanente. Noi stessi dunque siamo sentimento. Ma che cosa sono le altre cose, gli altri enti reali distinti da noi? Come li conosciamo? Li conosciamo in due modi, come abbiam detto: o con una cognizione ideale7negativa o con una cognizione positiva. Quelli che conosciamo per via di cognizione ideale7negativa, noi li riferiamo a quelli che conosciamo positivamente. Possiamo sí bene pensare che esistano enti reali assai diversi da quelli che percepimmo, ma non diversi nel carattere generico e fondamentale; altramente ci sfuggirebbe di mano il concetto stesso dell' essere reale, e conseguentemente non potremmo piú ragionare. Gli enti diversi da noi, che noi conosciamo positivamente, si debbono pure distinguere in due classi: 1) quelli che percepiamo ; 2) quelli che ci rappresentiamo coll' immaginazione intellettiva . Gli enti diversi da noi, che noi percepiamo, sono: 1) il corpo nostro soggettivo; 2) il corpo extra7soggettivo; 3) qualche entità mista di corporeità e di spiritualità, come io credo che accada al contatto, se non anco alla vicinanza, di due esseri viventi della stessa specie (1). In tutte le diverse realità che si percepiscono, lo spirito giunge naturalmente alla sostanza e quivi si ferma. Ora tutte le entità percepite dall' uomo si riducono ad avere per loro basi conoscibili due sostanze: la sostanza del nostro spirito, e quella del corpo (2). Ma si vuol distinguere accuratamente fra ciò che si conosce come sostanza nella percezione del nostro spirito, e nella percezione del corpo. Questa differenza fu da noi esposta nella « Psicologia », dove abbiamo dimostrato che la sostanza spirituale che percepiamo in noi stessi ha natura di principio , quando la sostanza corporea non la percepiamo che colla natura di termine ; onde deducemmo che fuori della sostanza corporea, tal quale è da noi percepita e nominata, deve avervi un' altra sostanza che le serve di principio. Ancora da questa diversità, noi deducemmo la classificazione suprema di tutte le sostanze relative alla cognizione dell' uomo, cioè di quelle sostanze di cui l' uomo pensa e parla, o può pensare e parlare, riducendosi tutte a sostanze7principio, e sostanze7termine. Ora qui parleremo del corpo che noi percepiamo come sostanza7termine. Si deve distinguere fra la percezione de' corpi dataci mediante le speciali sensazioni organiche; e la percezione immediata che lo spirito fa del proprio corpo, al quale è individualmente unito. Quella detta da noi percezione extra7soggettiva, ci fa accorti che esiste un corpo extra7soggettivo, non congiunto a noi soggetto; questa, chiamata soggettiva, ha per suo proprio termine un corpo cosí aderente allo spirito nostro percipiente, che per essa il principio s' individua, onde tal corpo chiamasi soggettivo. La sostanza che serve di base conoscibile a tutte le notizie che noi possiamo avere intorno ai corpi, è data dalla percezione soggettiva; a quella si riferisce, in quella si riduce anche l' extra7soggettiva. E però la sostanza corporea si percepisce immediatamente nella percezione del corpo nostro proprio, anteriore a tutte le sensazioni organiche speciali. Ma è necessario che noi qui consideriamo, come le sensazioni speciali organiche si riferiscano al corpo nostro sentito immediatamente e fondamentalmente, non solo rispetto allo spazio, che occupano, ma ben anco rispetto allo stoffo della corporea natura (alla materia). Tutte le sensazioni speciali organiche ci danno dei sentiti , che non possono esser altro che modificazioni del sentito fondamentale (1). Questa proposizione sembra manifesta col solo enunciarsi, essendo un fatto, che quando io provo una sensazione organica qualsiasi, il mio sentimento è modificato. Quindi convien dire, che tutte le sensazioni speciali sieno virtualmente contenute nel sentimento fondamentale, e in esso quasi latenti. Il qual concetto, due cose racchiude. Poiché il sentimento fondamentale consta 1) d' un principio senziente, 2) d' un termine, che nel caso nostro è un esteso. Ora nel principio senziente forz' è ammettere la virtú di tutto ciò che cade nel suo termine, e cosí si può dire che nella virtú del principio senziente sieno virtualmente contenute le sensazioni speciali ed accidentali. Il termine esteso poi è suscettivo di varie modificazioni. E queste, nel principio soggettivo sono altrettante sensioni, benché nel termine considerato come extra7soggettivo sieno movimenti. Si può dunque dire: 1) che le sensioni organiche sieno virtualmente nel termine esteso in quanto egli esiste nel principio senziente, e non in quanto si considera da questo diviso; 2) che le dette sensioni sieno virtualmente contenute nel principio senziente, in quanto questo si considera come suscettivo d' essere unito al suo termine e di subire le leggi con cui questo si modifica. Le sensioni speciali sono dunque in uno stato di virtualità rimota nel principio senziente, e in uno stato di virtualità prossima nel termine permanentemente sentito, e dico sentito perché ciò esprime esistenza del termine nel principio. La causa poi che le determina all' atto non è né nel principio senziente, né nel termine sentito, ma in una potenza extra7soggettiva. Ma se si cerca dove stia la ragione di questa virtualità, convien riporla nella natura certamente misteriosa del principio senziente; in quel primo fatto dell' unione sostanziale del principio senziente e del termine sentito , in questo sintesismo dove sta la genesi contemporanea de' due termini, il senziente ed il sentito. Si prenda il sentito puramente come sentito. Come tale, egli è vero ciò che altrove dicemmo, il principio senziente non essere per sé limitato, ma limitarsi dal solo termine sentito: quello non essere tuttavia per sé nulla, ma essere una energia, e anzi perciò una energia illimitata, ma potenziale; l' atto della quale non ha luogo se non a condizione che sia dato il termine che colla sua limitazione lo limita. Il concetto di questa potenzialità illimitata del principio senziente, degno è che si svolga. Poiché porge alla mente questa difficoltà. Se non ci ha termine alcuno, non ci ha neppure un principio senziente, no' l si può piú pensare, e in tal caso sparisce anche ogni virtualità. Ma se ci ha un termine sentito, allora ci ha l' atto della sensazione, e non piú la mera virtualità. Dunque questo concetto di virtualità è un vero impaccio dell' immaginazione, e non piú. Questo argomento non calza. Quando il principio senziente ha un suo termine e però esiste, l' osservazione del fatto dimostra ch' egli ha un' energia sua propria, per la quale egli agisce siffattamente che l' efficacia della sua azione non può venirgli dal termine, benché il termine sia condizione di sua esistenza. Ora l' osservazione attenta del fatto dimostra parimente, che il principio senziente conserva spesso la sua identità, l' identica energia sua propria radicale anche quando il suo termine si modifica. Se adunque il principio senziente, è perfettamente identico a quello che era quando non sentiva quella cosa, ne viene per conseguenza che quel principio, prima ancora di sentire attualmente quella cosa, la sentiva virtualmente. Convien dunque dire che la nuova sensazione preesiste in un altro modo, quasi nascosta e confusa in sentimento maggiore, in quel sentimento che costituisce l' energia propria del principio senziente. Secondo questo concetto, un principio senziente, un soggetto, contiene in sé (sentimento fondamentale) tutte le sensazioni, di cui è suscettivo restando identico; ma le contiene indistinte, fuse insieme, senza l' ultima perfezione dell' atto, in un primo grado di atto, a cui solo manca l' ultimazione. Dalle cose dette apparisce, che le sensazioni accidentali sono congiunte colla sostanza spirituale (sentimento fondamentale); ch' esse suppongono questa, che questa contiene quelle virtualmente, e che quelle sono modificazioni del termine di questa. Ma perciocché oltre la sensazione, che accusa un ente spirituale, cioè senziente (sostanza principio), cade ancora nell' esperienza nostra una forza extra7soggettiva che accusa un ente materiale (sostanza termine); perciò vediamo come lo spirito vada dalla sensazione esteriore a percepire un ente reale, un corpo. Il passaggio che fa lo spirito dal sentito al pensato, è della stessa natura tanto se egli va dalla sensazione all' ente reale spirituale, quanto se egli va dalla forza extra7soggettiva che nella sensazione è contenuta, all' ente reale corporeo. Onde di questo solo ora noi parleremo. Alto e difficile passo nel cammino della Filosofia l' acquistarsi il giusto concetto del sentimento mero , cioè non pensato, non accompagnato dal pensiero. Una prova della difficoltà, si è il vedere come molti anche dotti scrittori, lungi dall' afferrare la vera natura della sensazione, la concepiscono sempre mista col pensiero della loro mente. Noi diciamo che questo è essenziale alla mente e al pensiero, d' aver per termine un' esistenza oggettiva, un ente oggetto; e che la mente non può pensare l' esistenza soggettiva della sensazione o del sensibile, se non nell' esistenza oggettiva, ossia nell' ente oggetto, e però mediante questa; diciamo dunque, che dee precedere nello spirito l' esistenza oggettiva, e che allora solamente egli ha la facoltà di pensare, perché ha il mezzo in cui e per cui può apprendere quello che è soggettivo; e il dir questo è quanto un dire, che la facoltà cogitativa si forma mediante l' intuizione dell' essere oggetto. Riduciamo la questione a questa domanda: « Allorquando lo spirito pensa un sensibile, l' oggetto del suo pensiero è egli né piú né meno il sensibile come sensibile? ovvero sia quell' oggetto ha un elemento di piú, che manca nel mero sensibile precisamente come sensibile »? La risposta dipende unicamente dal saper osservare qual sia l' oggetto sensibile del pensiero. Ora, per venirne a capo, noi poniamo come principio che ogni diversità che si trova fra il termine del pensiero, e la sensazione precisa dal pensiero, è un elemento da questa non somministrato, il quale deve essere spiegato. Ma egli è manifesto che ci ha gran differenza (piú veramente opposizione) fra un sensibile che si contempla come oggetto , e un sensibile che non è oggetto, ma è soggetto o soggettivo. Dunque l' essere oggetto non è dato dalla sensazione, dal sensibile. Di piú, il sensibile come oggetto può essere affermato o no. L' essenza dunque del sensibile7oggetto è scevra di affermazione. Ma se io penso un oggetto7sensibile senz' alcuna affermazione, egli è tale che io gli posso, volendo, applicare il predicato di possibile, e di universale. Or l' universale non è dato dalla sensazione. Dunque è dato altronde alla mente. Ma l' oggetto è l' ente, l' ente in universale; altramente l' oggetto dato alla mente sarebbe nulla. Dunque la mente non riceve dalla sensazione l' ente in universale; ma intuisce quest' ente con indipendenza da quella: e questa intuizione è la condizione antecedente, è la prenozione, colla quale ella può pensare il sensibile, e la sensazione. Di che si vuol conchiudere, che il sentito o sentimento può dirsi realità , non ancora ente ; perocché quest' ultima espressione acchiude l' oggetto, giacché l' istituzione della parola ente ha in vista il pensato, ossia l' oggetto della mente. In una parola, la realità non è l' ente, ma ella è un modo categorico dell' ente, uno dei modi nel quale è l' ente, e che si dividono da lui per astrazione, assegnandogli un vocabolo che ne esprime il concetto. La quale distinzione fra l' ente e la realità , è necessarissima all' Ontologia: senza di essa, questa aberra in una continua anfibologia. Del pari è necessaria quest' altra fra la sostanza e l' ente reale . E nel vero la sostanza fu da noi definita: « l' atto pel quale sono le essenze specifiche », le quali non sono già per gli accidenti, ma per quell' atto nel quale e pel quale questi sono, il quale atto si chiama sostanza. Ora in quel reale che viene pensato dalla mente siccome un ente, ella distingue un elemento primo, nel quale e pel quale sono gli altri, che perciò si chamano accidenti; e quel primo è la sostanza. Di che apparisce che la distinzione fra sostanza e accidenti proviene dalla forma reale dell' ente, e dalla limitazione a cui questo soggiace. Quindi nel sentimento e in ciò che cade nel sentimento, che sono i due generi del reale, si distingue la sostanza e l' accidente ; e però queste entità soggettive non sono conoscibili per se stesse, perché non sono enti, ma hanno bisogno, acciocché sieno alla mente, di venire oggettivate, cioè vedute nell' ente, che è essenzialmente oggetto della mente, il che è quanto dire unite coll' ente, col quale, e colla mente sintesizzano (1). Quando adunque la sostanza s' unisce all' ente7oggetto; allora ella è divenuta ente; e gli accidenti sono divenuti cosí modificazioni variabili dell' ente . Se si avesse un primo atto di sentimento, il quale per l' essenza sua fosse nella mente, cioè fosse unito all' idea, questo sarebbe ente per sé, inteso per la sua essenza. E tale è Dio. Nel quale ciò stesso che è soggetto, è anche oggetto; e non ha bisogno di venire oggettivato. Laonde la divina sostanza non è puramente sostanza , ma è ad un tempo ente , anzi è l' Ente. Laonde a diritta ragione fu proibito in qualche Concilio il dire che Iddio sia una sostanza in senso proprio, potendosi egli chiamare sostanza solo in senso analogico. Le quali cose ci mettono in istato di dare la teoria della rappresentazione. Vi ha un' opinione comune, che tutto ciò che la mente intende, l' intenda per via di rappresentazione, con che si vuol dire, che il pensiero non coglie gli oggetti stessi, ma qualche altra cosa che glieli rappresenta, la qual cosa dicesi idea. Noi abbiamo mostrato in piú luoghi l' erroneità di questa opinione. Non vogliamo ora ripetere il detto, ma solo succintamente indicare sotto quale aspetto abbia luogo una specie di rappresentazione nell' atto cogitativo. Questa cotal rappresentazione, è di due maniere: l' una consiste nel servigio che presta l' idea al conoscimento dell' ente reale; l' altra consiste nel servigio che presta il sentimento e la sensazione al conoscimento trascendentale dell' ente reale corporeo. Parliamo d' entrambe. L' idea fa conoscere l' essenza della cosa, ma non, da sé sola, la sussistenza. Pure la cosa sussistente non si conosce senza prima averne conosciuta l' essenza, cioè senza averne l' idea. Quindi è che si suol dire, che l' idea, la qual certo non è la cosa sussistente, la rappresenti. Secondo questa maniera di parlare, il primo immediato termine della cognizione è l' essenza la quale è solo rappresentativa. Onde fa bisogno un altro atto col quale lo spirito passi dal rappresentativo al rappresentato. E questo secondo atto è appunto quello che noi chiamiamo affermazione . Veniamo or alla seconda maniera di rappresentazione , ed è quella, nella quale il sentimento e la sensazione si prendono come rappresentanti, e l' ente reale come rappresentato. Qui si debbono distinguere più cose. Primieramente quel sentimento primo e sempre identico che costituisce la sostanza spirituale, non è già rappresentativo di questa sostanza, perché anzi è dessa medesima. Onde qui non si dà rappresentazione. Ma altro è la sostanza abbiam detto, altro è l' ente reale . Questo ente reale è la sostanza stessa, che sintesizza colla mente. Quest' ente reale (nel caso nostro, lo spirito) è conosciuto ancora immediatamente dalla mente senza intervento d' alcuna rappresentazione. Ma dopo di ciò sopravviene il ragionamento dialettico trascendentale, il quale vede che il sentimento finito è un relativo. Questo ragionamento trasporta dunque il pensiero dalla sostanza finita all' ente assoluto; ed è allora, che quella diviene una rappresentazione, o più veramente un vestigio, un geroglifico di questo. Questa specie di rappresentazione appartiene dunque unicamente al pensiero trascendente, ed è quella di cui accenna l' Apostolo, dove dice: Videmus nunc per speculum, in aenigmate . Le sensazioni, considerate quali modificazioni dello spirito, non lo rappresentano, appunto perché sono modificazioni, e però non mai sole, ma unite al sentimento sostanziale, né prime nell' ordine logico. All' incontro il sentito corporeo rappresenta il corpo. Ma dobbiamo spiegare in che senso lo rappresenti. Nel sentito convien distinguere due elementi, la forza e il tocco del sentimento . Ora vi ha una forza che modifica il principio senziente producendo in lui il fenomeno dell' esteso: vi ha pure una forza che modifica questo esteso. Non potendosi conoscere la forza che dal suo effetto, la nozione della forza è relativa, cioè si conosce nell' effetto. Vero è ch' ella suppone un ente soggetto a cui appartenga, ma trattandosi dei corpi, questo ente soggetto della forza corporea si rimane straniero alla nostra percezione, e tutto ciò che noi conosciamo è unicamente la forza. Questa forza, come prima ed unica cadente nella cognizione nostra, diviene per noi la sostanza corporea, e quindi il corpo. Cosí il corpo noi lo conosciamo immediatamente, e non per mezzo di alcuna rappresentazione. Ma questa cognizione è relativa; e desunta dall' effetto. Ora questo effetto essendo doppio, poiché l' effetto è quello che la forza produce in noi producendoci il fenomeno dell' esteso, e un altro effetto è quello che la forza produce nell' esteso stesso, perciò la sostanza corporea ha come due basi, che la farebbero parere due sostanze. Ma colla riflessione poi si trova che trattasi d' una sola sostanza, la quale prende in noi due forme a cagione ch' essa si conosce come termine, e non come principio, e il termine è doppio, benché il principio sia unico. In qualche maniera si potrebbe dire, che le due forme sostanziali nelle quali conosciamo il corpo, sieno rappresentative dell' unica sostanza corporea. Una forza diffusa nell' estensione esprime il concetto del corpo, che hanno comunemente gli uomini. Al qual concetto se si applica la dialettica trascendentale, questa conduce al di là della sostanza termine, e trova un ente soggettivo principio. Ma di questo non altro si conosce che l' esistenza con tale ragionamento, e però il comune concetto di corpo diviene cosí rappresentativo di questo ente trascendente, diviene vicario di lui nella mente nostra, quantunque la cognizione che ce ne dà non sia piú che proporzionale e negativa. Ma veniamo alle sensazioni organiche. Uno stesso corpo produce innumerevoli immagini, come pure sensazioni tattili, acustiche, ecc.. Dunque altro è il corpo, ed altro sono i sentiti organici. Ma questi li prendiamo pel corpo stesso, cioè per la forza che tutte quelle sensazioni produce. Quelli adunque ci fanno conoscere i corpi per una cotale rappresentazione. Questa rappresentazione non è però uguale a quella per la quale un ritratto ci fa conoscere la persona ritratta, perocché né il ritratto è l' effetto della persona ritratta, né in quello vi ha nulla dell' attività reale di questa. All' incontro la sensazione organica è l' effetto della forza, e tiene in se stessa una parte di questa tuttavia in atto. In questo modo adunque le sensazioni organiche rappresentano la sostanza corporea. Né la rappresentano come un incognito, ma come un cognito; perocché la sostanza corporea, è a noi cognita nel sentimento fondamentale. Le sensazioni adunque ci fanno riconoscere la presenza di questa forza. Noi abbiamo fin qui ragionato dell' ente reale a quella maniera, che egli cade nella percezione intellettiva: ora dobbiamo considerarlo come oggetto dell' immaginazione intellettiva. Quello che non può l' immaginazione sensitiva, bene il può l' immaginazione intellettiva, come l' esperienza ci dimostra. Perocché non è dubbio alcuno, che noi possiamo immaginare un altro noi stessi, ed anzi molti. Or egli è necessario che si analizzi questa operazione. In primo luogo noi non potremmo immaginare un altro noi stessi, se non potessimo concepire l' ente in sé quale oggetto, indipendentemente da noi, da quello che noi sentiamo. La quale operazione dell' intelligenza, se bene si perscruta, manifestamente si risolve in un atto che considera il senso per sé soggettivo come entità oggettiva, e, se trattasi di sentimento sostanziale, come ente. La prima operazione adunque dell' immaginazione intellettiva, che è la facoltà d' immaginare enti od entità, consiste in questo, in contemplare il sentimento proprio come un ente o una entità, oggettivamente, universalmente. La seconda operazione è quella di considerar questo sentimento oggettivo come possibile a sussistere in un numero indeterminato di individui. Già, se si tratta di un sentimento sostanziale, l' individualità vi è compresa. Se si tratta di sentimenti accidentali, la mente li individua pigliandoli come subietti dialettici. La terza operazione si è quella di pensare espressamente uno di questi sentimenti individuati possibili, o pensarne piú, in un numero determinato. E questo è appunto cosa che fa stupire chi ben considera: che uno spirito intelligente abbia virtú di formare in se stesso un altro ente, un altro principio senziente, un altro spirito. Questa specie d' inesistenza d' uno spirito in un altro è degna della piú profonda riflessione. Non è da credere che nell' immaginazione intellettiva avvenga solamente un fatto simile a quello che avviene nell' immaginazione sensitiva. In questa tutto si riduce a modificazioni del soggetto. Per l' immaginazione intellettiva si forma un soggetto nuovo nel nostro spirito, il quale noi sappiamo che non è il nostro, ma è naturato e foggiato come il nostro. Questo soggetto, non è un segno, non è un' immagine, non è una pura rappresentazione; molto meno è una modificazione nostra. Noi pensiamo propriamente e direttamente un soggetto sostanziale, quale è in sé, lo pensiamo senziente, pensante, ecc. d' un sentimento e d' un pensiero sostanzialmente e totalmente diverso dal nostro, al nostro incomunicabile. Come ciò si spiega? Vedemmo che l' essenza della realità è tutta nell' idea. Ora egli accade, che noi non vediamo nell' idea la realità della sua essenza, se non a misura che ci viene comunicata nel suo ultimo atto, che costituisce propriamente la realità sussistente, e che è il sentimento nostro e tutto ciò che cade in esso. Dato questo sentimento reale, noi tosto ne vediamo l' essenza nell' idea, e distinguiamo quest' essenza dall' atto di lei, il quale la realizza. Noi stimammo opportuno chiamare la realità nella sua essenza, stoffo della realità ; e nel suo ultimo atto, atto della realità . La realità adunque nella sua essenza, esiste nel mondo metafisico, cioè nell' idea. E se si tratta di realità infinita ed assoluta, vi esiste coll' ultimo suo atto, che a lei non può mancare. Ma se si tratta di realità finita e relativa, questa realità relativa vi esiste assolutamente, cioè nel modo assoluto, che è quanto dire come ideale e possibile. La realità dunque, il sentimento, un determinato sentimento, ha l' essenza sua nell' idea, e quest' essenza è proprio lo stoffo della realità. Questo sentimento che acconciamente si dice sentimento7entità, ha per natura sua un' esistenza oggettiva. Quest' oggetto adunque, che è un soggetto possibile, è ciò in che si affissa l' immaginazione intellettiva, quando forma e compone dentro di noi un sentimento sostanziale ch' ella pensa e contempla. Quest' oggetto dell' immaginazione intellettiva è distinto da noi stessi, appunto perché egli ha meramente un' esistenza oggettiva; laddove noi abbiamo un' esistenza soggettiva, e non ci intuiamo come s' intuisce un' essenza, ma di piú ci percepiamo come un soggetto relativamente esistente , e cosí rispetto a noi l' essenza è appropriata e coll' ultimo suo atto particolareggiata. Egli è degno qui di notarsi, che la distinzione antichissima fra materia e forma fu tratta dalla cognizione che noi abbiamo de' corpi. E` la natura stessa che costituí due termini distinti: 1) lo spazio puro illimitato; 2) ciò che empie lo spazio, limitato. Dallo spazio puro, limitato da ciò che lo riempie, procede il concetto di forma , il quale in rispetto a' corpi abbraccia la grandezza e la figura ; ciò che riempie lo spazio somministra il concetto di materia . Per questo si può concepire in qualche modo la materia senza la forma. Sono separate per natura: sono termini diversi del sentimento. Se non fossero termini diversi del sentimento, né pur l' astrazione potrebbe dividerli. Dalle quali cose acquistano nuova luce i difficili concetti di essere in atto, e di essere in potenza. Anche questi antichissimi concetti filosofici nella loro origine furon tratti dalle percezioni e notizie nostre de' corpi. In fatti la materia corporea non potendo esistere se non vestita di una forma, pel sintesismo che ha con questa si disse che quella, presa puramente, era in potenza alla forma. In tal modo, della materia si fece un essere astratto suscettivo di tutte le forme. Questo concetto rimane spiegato tostoché: 1) si riconosce che la materia ha in natura una distinzione dalla sua forma, trovandosi bensí unita con essa nel nostro sentimento, ma venendo a questo sentimento i due elementi (la materia e la forma) da due fonti diversi; 2) e tostoché si riconosce che la materia sintesizza nel sentimento nostro colla forma, onde senza di questa ella rimane un essere astratto e possibile, e perciò appunto universale; ed essere un' entità universale è il medesimo che essere in potenza (1). Anche la forma poi dicesi in potenza alla materia; ma la forma ha natura d' iniziamento dell' essere, laddove la materia ha natura di termine. Quindi il termine si considera in potenza ad unirsi col principio, quando per astrazione da lui si divide; il principio si considera in potenza ad unirsi col termine, quando del pari si divide da lui coll' astrazione. Quando adunque piú entità dipendono l' una dall' altra per un sintesismo unilaterale, cioè tale che trovasi soltanto rispetto alla dipendente e non rispetto a quella da cui dipende, allora questa può essere realizzata senza l' altra, come accade dello spazio puro che può stare senza il corpo; e quella, cioè la dipendente, rimane ideale, cioè un ente in potenza, e però dicesi che è in potenza quella realità prima rispetto alla seconda, cioè che non ripugna alla realizzazione della realità da lei dipendente. Cosí è che lo spazio, e la forma sono in potenza a ricevere la materia, e il corpo. Quando gli antichi metafisici considerarono tutti gli enti come composti di materia e di forma, essi altro non fecero che generalizzare ciò che avevano osservato ne' corpi. Cosí la loro Ontologia non fu che la Fisica generalizzata. Ma il peccato maggiore che commisero gli antichi generalizzando il concetto di materia si fu ch' essi non giustificarono in modo alcuno tale generalizzazione, né provandola con qualche efficace raziocinio, né deducendola per via di osservazione di tutti gli enti cogniti (cosa per altro assai difficile). Or poi, che questo principio non goda della generalità attribuitagli, ma si debba restringere ad alcuni enti, lo si prova facilmente anche coll' esempio dello spazio puro, il quale non ammette alcuna composizione di materia e di forma benché sia contingente, ma è un ente semplicissimo avente natura di termine dell' anima sensitiva. Al presente nelle scritture filosofiche la parola materia ha due significati ben distinti, l' uno speciale e l' altro generale. Nel primo vale « ciò di cui constano i corpi ». Sarebbe a desiderarsi che si chiamasse questa materia corporea . Nel secondo significato piú esteso significa in generale « ciò di cui un ente è composto ». Ma 1) quando si dice « ciò di cui un ente è composto », allora si suppone che l' ente si componga di piú elementi, come appunto accade de' corpi, i quali risultano de' due elementi, cioè da una forma, e da una materia che la empie; questo dimostra che la materia non si può trovare dove l' ente non sia composto né componibile. 2) Di piú, l' espressione « un ente composto di qualche cosa »suppone che la cosa che compone l' ente di cui si tratta sia concepibile prima dell' ente, e che quand' ella entra nella composizione dell' ente, rimanga identicamente quella che era prima. La materia dunque non si può rinvenire se non in quegli enti, che non sussistendo per sé, vengono alla sussistenza per una via concepita dal pensiero, il quale gli rappresenta a se stesso prima come informi, e poscia come formati: non si dà dunque materia , neppure nel senso piú generale della parola, negli enti necessari, ma solo ne' contingenti . I soli contingenti adunque, e fra questi quelli che constano di ciò che si concepisce identico ancor prima che l' ente sia formato (1), hanno materia , presa quella parola nel suo piú generale significato. Il vocabolo termine ha un significato sempre relativo al suo principio; e il vocabolo principio ha un significato sempre relativo al suo termine. Al che non badando potrà sembrare che tali vocaboli in queste nostre metafisiche trattazioni si prendano a significare cose molto diverse; ma pur non è, e solo avviene quello che incontra di tutti i vocaboli che ammettono una latitudine grande e generalità di significazione, la quale rimane sempre la stessa benché si applichino a cose speciali diverse. Di queste cose diverse, a cui s' applicano i vocaboli di principio e di termine, facciamo una breve enumerazione. Prima è a separarsi l' ente assoluto e l' ente relativo. Nell' ente assoluto distinguonsi tre forme primitive da noi chiamate reale, ideale, morale. Lasciando da parte la morale che complicherebbe il discorso, riteniamo la forma reale e la ideale. Queste si possono anche chiamare forma soggettiva, forma oggettiva. Se si considera la relazione di queste due forme fra loro, trovasi che la soggettiva ha natura di principio , e la oggettiva ha natura di termine immediato. Ma qui, nell' ente assoluto, principio e termine non dividono l' ente; perocché nel termine vi ha tutto ciò che nel principio, eccetto l' esser principio; e nell' ente principio vi ha tutto ciò che nel termine, eccetto l' esser termine; di maniera che la distinzione delle forme può dirsi modale e non entitativa. Ma le due forme oggettiva e soggettiva, se si considerano rispetto all' ente relativo, dividono l' ente, cioè fanno che vi abbia un ente soggettivo diverso dall' ente oggettivo. Il che si vede considerando che la forma oggettiva non appartiene in proprio all' ente relativo, perché la forma oggettiva è l' idea spettante all' ordine delle cose eterne e necessarie; onde l' ente relativo non ha come sua propria, che la forma soggettiva e reale. Rimane adunque la forma oggettiva, separata dall' entità relativa, come un' appartenenza dell' essere assoluto; e dall' altra parte rimane la entità relativa, soltanto soggettiva, che riceve e partecipa il nome di ente unicamente perché s' appoggia alla forma dell' ente assoluto, pel quale appoggio viene oggettivata . Se dunque noi cerchiamo in questa relazione dell' entità relativa colla forma oggettiva ed assoluta, qual sia il principio e qual sia il termine; noi troviamo che la forma cioè idea è principio, e l' entità relativa, soggettiva solamente, è termine. Ciò vale per qualsivoglia ente relativo. Ma quale è poi la ragione che divide l' ente relativo in piú enti? L' ente relativo che è termine, considerato in relazione coll' ente assoluto, costituito che sia come ente, e in se stesso considerato, dividesi in principio e termine. Infatti principio e termine nell' ente relativo divide l' ente, cioè fa che l' ente relativo non sia un ente solo, ma vi abbiano piú enti relativi, alcuni de' quali sieno principŒ ed altri termini. Per vedere come ciò sia, egli è uopo distinguere tutti i termini proprŒ dell' ente relativo. Ora primieramente noi troviamo che l' idea è termine dell' essere intellettivo, intelligente; quell' istessa idea che abbiam detto essere suo principio per modo che da lei riceve la denominazione oggettiva di ente. L' idea dunque, la forma oggettiva, partenenza dell' essere assoluto, sarebbe ad un tempo principio e termine dell' essere relativo intelligente. Non sembra qui intervenire contraddizion manifesta? No; perocché ella è principio in un ordine, ed è termine in un altro. L' essere relativo intelligente è anch' egli, come ogni altro essere relativo, nell' ordine oggettivo, e in quant' è nell' ordine oggettivo egli ha per suo principio l' idea, di cui è termine come soggetto divenuto oggetto ossia oggettivato; ma in quant' è in se stesso come semplice soggetto egli è principio, ed ha per suo termine lo stesso oggetto, cioè l' ente oggetto e l' ente oggettivato. Veniamo ora a quei termini che si possono conoscere coll' osservazione ontologica nell' interno degli enti relativi, e che sono anch' essi enti relativi. L' essere relativo intelligente è separato dagli altri enti relativi per quel suo termine che appartiene all' ente assoluto. Questo termine adunque divide e separa l' essere intelligente e relativo tanto da sé, termine, quanto dagli altri enti relativi. Ora in tutti gli enti relativi il termine a cui s' appoggiano nell' ordine soggettivo è uno straniero, e però un altro ente che per ciò appunto dicesi extra7soggettivo. Or fra gli enti extra7soggettivi non è oggetto per sé se non quello che è termine dell' intelligenza, l' idea; gli altri sono meramente extra7soggettivi; e non essendo oggetto forz' è che appartengano ad un altro soggetto che resta occulto, ma che si rileva appunto mediante questo ragionamento dialettico. Una di queste entità è lo spazio, e un' altra è la materia; e queste due entità sono termini del principio sensitivo animale. Or poiché son termini stranieri, ne viene che l' essere principio e termine divida l' ente per modo che l' ente principio, cioè nel caso nostro l' anima sensitiva, sia un ente diverso dallo spazio e dalla materia. E questa è la confutazione ontologica del materialismo, ricavandosi ad evidenza che l' anima sensitiva non è estensione né corpo; ma che all' estensione e al corpo ella è opposta siccome principio al termine straniero. Nell' ordine adunque degli enti relativi il principio e il termine divide l' ente, perché il termine è straniero. La differenza ontologica poi fra lo spazio e la materia è questa, che lo spazio è illimitato e però unico, né può essere realizzato se non tutto intero. La materia poi non può mai essere realizzata tutta. La sua essenza è inesauribile: quindi ella è subietto di quantità, venendo realizzata piú e meno. Vero è che la materia è anch' essa unica nella sua essenza ideale; ma non potendo l' essenza della materia per quanto di lei si realizza rimanere esausta, tutto ciò che di lei si realizza rimane limitato, e queste limitazioni prendono il nome di forma quando limitano la materia da ogni lato, onde la materia è suscettibile di moltiplicazione per la sua forma, cioè per la sua onnilaterale limitazione. Quindi le forme della materia possono variare all' infinito; la materia all' opposto è identica sotto ciascuna. Ma conviene aver sempre presente, che queste forme della materia sono limiti, e però non sono enti positivi. Di che si può trarre una piú compiuta definizione della materia dicendo « che ella è un ente termine del principio sensitivo, ed è soltanto termine, e termine finito in se stesso d' ogni parte »; dove dicendola termine finito in se stesso intendiamo dire che è finita rispetto alla sua essenza; perché la sua essenza abbraccia sempre di piú di ciò che è la materia realizzata, essendo inesauribile. Cosí la significazione della parola materia involge una relazione colla sua forma sia che l' abbia già in realtà, o che la consideri come atta ad averla. Le quali dichiarazioni premesse, noi potremo tentare una classificazione analitica di tutti gli enti, e per analitica intendo una classificazione fondata sui loro elementi, sui caratteri pe' quali vengono dalla mente concepiti. Ora la materia essendo un concetto relativo alla forma , conviene che noi favelliamo anche di questa. Se si comincia dal considerare accuratamente ciò che volgarmente si dice la forma del corpo, vedesi: 1) che la forma contiene due elementi, lo spazio ed i suoi limiti; 2) che il primo elemento, cioè lo spazio, che è ciò che la forma ha di positivo, viene all' uomo da una fonte diversa da quella, onde gli viene la materia corporea ed i limiti della forma; 3) che i limiti dello spazio, i quali lo determinano ad una forma, non sono suoi propri, ma appartengono alla materia limitata secondo l' arbitrio del Creatore; ovvero all' immaginazione che ha virtú di rappresentarceli; 4) che il corpo non esiste senza una forma, non già perché egli sia spazio, ma perché sintesizza collo spazio. Quindi l' atto primo pel quale il corpo esiste, e a cui viene imposta la denominazione di corpo, può dirsi la forma acquistata dalla materia colla sua estensione nello spazio e co' suoi limiti. Di qui viene che il corpo sia la materia formata. Ma non si potrebbe egli anche definire il corpo la forma materiata? No; e si intenderà considerando che lo spazio il quale è l' elemento positivo della forma, non è già quello che diventa corpo (ente termine) coll' aggiunta della materia; perocché per la sua semplicità e indivisibilità egli non soffre dalla materia alcuna modificazione o perfezionamento, né riceve limiti. Non diviene dunque lo spazio corpo, né soggetto del corpo; ma presta unicamente alla materia il luogo ove ella sia. All' incontro la materia estendendosi nello spazio con dei limiti suoi propri, viene da questi limiti definita. Quindi si considera la materia come il subietto dei corpi, e la forma come un cotal predicato loro essenziale. Se ora prendiamo la parola materia, nel suo significato piú generale, per ciò di cui un ente si compone; ogni qualvolta noi in un ente possiamo pensare una realità (qualche cosa che cada nel sentimento), ma priva di quei limiti di cui abbia bisogno per sussistere, senza quell' ultimo atto che ne rende possibile la sussistenza, noi chiameremo quella realità materia , e quell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto , lo chiameremo forma , nel qual senso la forma si può definire: « il complesso di quelle determinazioni che individuano l' ente », ossia, per le quali l' ente è un individuo. Quando adunque si dice forma si dice bensí l' ultimo atto che perfeziona l' entità rendendola ente compiuto, ma non si creda che per un tale atto s' intenda la sussistenza , perocché, trattasi dell' ultimo atto che perfeziona l' ente nel suo concetto, sussista egli o no; non trattasi di quell' ultimo atto ontologico che dicesi sussistenza , ossia realizzazione dell' ente ideale. Onde altro è la sussistenza dell' ente, altro la forma , che non fa se non rendere possibile la sussistenza della materia. Si vede, che il concetto di forma vuol avere un' unità molteplice ed organica, perocché la forma racchiude tutte le determinazioni che dee avere la materia acciocché possa costituire un ente reale. Si può dunque definire la forma anche in questo modo: « il complesso delle determinazioni di cui abbisogna la materia perché somministri il concetto di un ente realizzabile ». Ora, se si suppone che il concetto dell' ente di cui si tratta sia dato nella mente, si può altresí coll' analisi distinguere la sua materia, e tutte le determinazioni che la costituiscono un ente. Il concetto dell' ente determinato precede dunque nell' ordine logico i concetti analitici di materia e di forma. Ma l' ente stesso come viene egli dato? La soluzione di questa questione giace nascosta nell' abisso dell' Essere assoluto : l' essenza dell' essere ci scorge talora a conoscere quali enti (in potenza) sieno impossibili, e son quelli che involgono contraddizione; ma nessun mortale può enumerar e conoscere tutti quelli che non l' involgono: è l' ordine essenziale dell' essere a noi nascosto nella sua origine, che determina e risolve un tanto problema. Tostoché è dato l' ente reale composto di materia e di forma, quell' ente con questi due suoi componenti si disegna nell' ideale, nel quale la mente vede una materia ed una forma possibile. Ma vi ha grandissima differenza fra il concetto di materia (materia possibile), e il concetto di forma (forma possibile). Primieramente la materia non si può pensare come possibile se prima non la si è percepita realmente sussistente; perocché ella risponde a quello che abbiamo chiamato lo stoffo dell' ente; lo stoffo non è altro se non la materia, come sta nella nostra percezione. In secondo luogo la materia è una, e però il concetto della materia non fa conoscere che una cosa sola, e questa cosa che fa conoscere non è un ente completo, e piuttosto, come lo chiamavano i Greci, gli conviene il nome di non ente. Onde una intelligenza col solo concetto di materia non conosce ancora alcun ente; e il concetto facendo conoscere solo l' elemento di un ente, e questo non ancora moltiplicabile, perché la materia non si moltiplica che per la forma, manca di ogni universalità, e quindi tale cognizione soddisfa cosí poco l' intelligenza, che con essa sola a lei pare di non aver incominciato ancora a conoscere; perocché la luce che soddisfa all' intelligenza umana è propriamente quell' idea, quei concetti, pei quali si conosce tutti gli enti possibili di una specie, d' un genere, o di un modo qualsiasi. Or questo è appunto l' officio che fanno i concetti delle forme. Primieramente è da avvertire che i concetti delle forme suppongono già il concetto di materia: perocché la forma non essendo che il perfezionamento della materia, questa rimane sempre presupposta. In secondo luogo, appunto perché la forma perfeziona la materia dandole quegli atti che la costituiscono ente, perciò anche la limita; e cosí la divide e la moltiplica. Onde questa materia che è infinita può ricevere dalla forma quanti confini si vogliano senza che perciò venga esaurita giammai. Di che accade che una forma medesima possa riprodursi e realizzarsi in un infinito numero di individui (1). Cosí accade che il concetto di una forma sia per se stesso universale. E qui si scorge la ragione, perché gli antichi, gli Aristotelici e gli Scolastici specialmente, confusero sovente le idee colle forme (2). Ma il vero si è, che le cose s' intendono non colle loro forme semplicemente, ma colle idee delle forme, cioè colle forme nel loro modo ideale di essere. Questa differenza è importantissima, perocché in primo luogo se ne trae che il concetto della forma non fa conoscere se non quegli enti che sono composti di materia e di forma. Oltre ciò apparisce che le forme in primo luogo appartengono alla realità, in maniera che se si prescinde da ogni realità, non si può concepire né pure nell' idealità alcuna forma, se non creandosi un' illusione coll' immaginazione. Insomma ogni forma è una limitazione, e niuna limitazione cade nell' essere ideale puro; le forme ideali adunque nascono dalla relazione categorica fra il reale e l' ideale, in quanto questo si usa dalla mente a conoscere quello, onde diviene come suo rappresentante. Dalle quali cose tutte si raccoglie: 1) Che l' essere possibili infiniti individui reali d' una stessa specie piena nasce dalla congiunzione della materia colla forma a cagione dell' indeterminazione e illimitazione di quella, e che perciò questo deve aver luogo in tutti gli enti composti di materia e di forma. 2) Che la forma non è il lume conoscibile per sé, ma questo lume è unicamente l' idea; la forma quindi è anch' ella prima reale e poi ideale , risultando il concetto ideale disegnato nell' idea dal confronto colla realità. 3) Finalmente che non si può con proprietà attribuire forma agli enti semplici, che non hanno materia e non sono ordinati ad informare la materia: e qualora si voglia chiamar forme le intelligenze separate, conviene mutare il significato della parola, cioè prescindere dalla relazione della forma colla materia, e pigliare la forma in senso di primo atto o simigliante. Distinti gli enti nelle due classi di principŒ e di termini, se ne può trarre una verità importantissima e fecondissima nell' Ontologia, che « ogni attività dee appartenere unicamente all' ente principio, ed all' ente termine non può appartenere che la facoltà di essere ricevuto e di patire ». Perocché egli è manifesto che il subietto dell' azione è il principio di essa, e perciò appunto si chiama principio perché indi incomincia e si propaga l' azione. All' incontro nel termine l' azione finisce e non incomincia, e perciò ivi non può avervi attività, ma anzi il fine dell' attività. Si dirà che ogni ente per esser tale dee aver qualche azione, almeno l' atto primo che lo fa esser ente, secondo l' assioma degli antichi: « Qui nihil agit, esse omnino non videtur (1) ». Ma è da considerarsi che il termine non sarebbe ente se non fosse unito al principio, e da questa unione di lui col principio riceve l' atto primo pel quale ha condizione di ente; onde anche quest' atto primo non è suo proprio, ma appartiene al principio da cui dipende. Onde l' ente che è soltanto termine dipende dal principio, dal quale ogni atto egli riceve. Ritornando ora al principio, che dee dirigerci nella investigazione dell' ente reale, e che è perciò il principio rettore di tutto questo libro, noi dicemmo che « lo stoffo dell' ente reale non si conosce da noi che per via di percezione » [...OMISSIS...] . Dopo di ciò noi favellammo della veracità della percezione nel capitolo dove esponemmo la teoria della rappresentazione [...OMISSIS...] . Finalmente noi trattammo dell' immaginazione intellettiva , la quale ci rende presente un ente reale benché attualmente nol percepiamo. Egli è necessario indagare qui qual veracità si abbia l' immaginazione intellettiva; e ciò pel pericolo che nella dottrina dell' ente reale si intromettano delle illusioni non conformi alla verità. L' immaginazione intellettiva , come abbiamo veduto, è quella facoltà per la quale, dato un sentimento, la mente pensa un ente non agente attualmente nel senso, e lo pensa di quello stoffo che è somministrato dal sentimento attuale. Ora da questa facoltà dell' immaginazione intellettiva noi abbiamo tenuta distinta l' altra dell' affermazione . Imperocché altro è immaginare un ente fornito del suo stoffo, compiuto di tutto punto, che è appunto la specie piena attuata dinnanzi al pensiero, altro è affermare e persuadersi che quell' ente sussiste. Quell' ente semplicemente immaginato è ancora un ideale, un concetto; ché noi abbiamo pure veduto che anche lo stoffo di un ente è nelle due forme categoriche, la ideale e la reale [...OMISSIS...] : quest' ente all' incontro affermato come sussistente è reale, o supposto come tale (ente ipotetico), o tale creduto (ente illusorio). Da ciò si deduce che l' immaginazione intellettiva è verace; perocché non è funzione di lei affermare che quell' ente sta presente alla percezione; ma questo, se ha luogo, è solamente errore del giudizio (dell' affermazione), che prende l' immaginato per un percepito. La semplice intuizione immaginaria è verace, posto che l' ente immaginato non involga contraddizione. Poiché vi hanno due maniere di vero, come vi hanno due maniere di cognizione: le cognizioni intuitive, e le cognizioni di predicazione. Il vero, ossia la veracità delle cognizioni intuitive, consiste unicamente nell' assenza di contraddizione, poiché, non avendo contraddizione in se stesse, esse appartengono all' essere possibile, e l' esser possibile o ideale è la verità (1). Il vero poi delle cognizioni di predicazione consiste in questo, che ciò che si predica sia nel subietto di cui si predica. Ora l' immaginazione intellettiva appartiene all' intuizione. Nell' oggetto dunque dell' immaginazione intellettiva non vi ha nulla di potenziale; tutto è attuale. Ma noi abbiamo veduto che la contraddizione non si nasconde se non nei concetti potenziali. Dunque l' immaginazione intellettiva non può essere che verace; benché in appresso possa cadere l' errore in quella affermazione colla quale si pronuncia che l' oggetto immaginato è sussistente. Rimettendoci or dunque in via, il primo e originario fonte di ogni nostra cognizione del reale si è la percezione intellettiva, che è quanto dire: « la apprensione del sentimento, o di quanto cade nel sentimento ». Di questa rimane la memoria e poi ella si spezza nei tre elementi dell' affermazione, dell' idea, e del sentimento; e lasciando il primo da parte, gli altri due costituiscono il concetto specifico7pieno. Succede l' immaginazione intellettiva, che richiama in atto questo concetto dopoché è cessato di esser presente all' attenzione. Quindi all' opera dell' immaginazione intellettiva si associa l' astrazione. Vedesi adunque che tutto questo edificio di pensieri intorno all' ente reale ha per sua base e materia prima la percezione; e che perciò se noi osserveremo ciò che ci dà in origine la percezione dei reali, avremo lo sgranellato, per usare una frase del Romagnosi, di tutte le nostre cognizioni intorno al reale; e le classi primitive, per cosí dire, dei reali a noi conosciuti. Queste sono le seguenti: 1) Il sentimento di noi stessi, il quale è la prima sostanza reale, e come conosciuto a se stesso è un ente principio . 2) Il termine corporeo che ha l' anima nostra, termine a cui l' anima è unita per natura, per la percezione fondamentale. 3) La sostanza corporea extra7soggettiva. 4) Finalmente io sono persuaso che anche le anime altrui, si dieno a percepire alla nostra, non però nude, ma insieme co' corpi che esse informano, onde si generano gli affetti dell' anime fra loro. 5) Nell' ordine soprannaturale poi vi ha indubitatamente la percezione di Dio, la quale è fondamento alla dottrina che deve esporsi nell' Antropologia soprannaturale. Le nostre cognizioni intorno all' ente reale possono adunque ripartirsi in due grandi classi, le immediate e le mediate . Le cognizioni immediate sono quelle che ci vengono fornite dalla apprensione immediata dell' ente, cioè dalla percezione , e dall' immaginazione intellettiva che n' è la universalizzazione. Le cognizioni mediate procedono dal ragionamento che si fa sulle immediate, il quale è duplice, analitico e dialettico trascendentale . Fin qui noi abbiamo applicato all' essere reale immediatamente conosciuto il ragionamento analitico. A questo ragionamento appartien la notizia, che l' ente reale risulta quasi da due suoi primi organi, dal reale e dall' ente, cioè dalle due prime forme categoriche: cosí pure, che alcuni enti reali si compongono di materia e di forma. Finalmente anche quelli che non si compongono di materia e di forma, se sono enti finiti, si compongono di positivo e di negativo, cioè di entità reale e di limiti di questa realità «( Teodicea ) ». Vuol notarsi accuratamente, che i limiti degli enti si partono in due classi: altri sono accidentali , i quali si restringono o si dilatano senza che l' ente perda la sua identità; altri sono necessari ; e questi ultimi costituiscono la natura dell' ente e si dicono ontologici. Ma trattandosi di enti completi, cioè di quelli che risultano da un principio e da un termine, le limitazioni ontologiche si suddividono in due altre classi: perocché o limitano il principio, o limitano il termine. Ora, se il termine fosse mutato intieramente, l' identità dell' ente andrebbe sicuramente a perdersi. Ma se il termine rimane della stessa natura, l' aggiungersi un altro termine di tutt' altra natura adduce certamente un cangiamento sostanziale nell' ente; ma non per questo rimane perduta l' identità dell' ente. E questo è ciò che accade nell' ordine soprannaturale. All' incontro quelle limitazioni ontologiche che limitano immediatamente il principio degli enti, li costituiscono altresí per quello che sono, e non si possono alterare se ad un tempo non si smarrisca anche la loro identità. Queste limitazioni ontologiche costituenti , sono state prese alcune volte da' filosofi per la forma degli enti, e furon quelle che ingannarono l' Hegel, e il condussero a far venire il positivo stesso dal negativo. Per altro esse hanno in sé qualche cosa di oltremodo mirabile e misterioso; giacché per esse avviene che un ente limitato non può essere un altro. Acciocché si possa intendere come un ente limitato escluda da sé tutti gli altri, conviene supporre che l' essenza loro dipenda dalla stessa loro limitazione: la limitazione dunque ontologica7costituente entra nella essenza dell' ente, è un elemento negativo, ma che influisce sul positivo, lo determina e propriamente il forma. Acciocché la cosa si possa intendere, conviene ricorrere alla natura dell' ente relativo . Questo è costituito dalla relazione, è ente relativamente a sé; e solo relativamente ad un sé, a un principio di sentire e d' intendere, l' ente può essere limitato. La esclusione dunque nasce dalla relatività dell' ente . E che la cosa sia cosí, si può convincersi maggiormente ripensando a ciò che nasce nella propria coscienza. Ciò che a me non si riferisce, non esiste per me: egli è fuori di me. Cosí questo me è un principio relativo, che limita l' essere; e ne esclude da sé la massima parte. Ma il principio del sentimento non esiste che nel sentimento, senza di questo è nulla. Non vi ha dunque una divisione possibile fra il principio dell' ente e l' ente, ma il principio è nell' ente come un elemento nel tutto. Dunque l' ente di cui si tratta ha una relatività in se stesso: l' intima sua costituzione è dunque quella che lo divide dal mare dell' essere, per cosí dire, lo rende esclusivo, limitato, incomunicabile. Questo fatto è dato dall' esperienza, e non involge contraddizione; né pregiudica all' unità di tutto l' essere; perché quest' unità appartiene all' essere assoluto, e la limitazione è relativa, e appartiene all' essere relativo. Or poi quanti e quali possano essere enti sussistenti limitati, condizionati, relativi; questo è quello che rimane occulto negli abissi dell' essere assoluto, al cui fondo lo sguardo umano non può penetrare. Tornando dunque al ragionamento analitico applicato agli enti reali, a lui è dovuta ancora quella classificazione degli enti, che abbiamo esposto nel capitolo XXVIII di questo libro. Il ragionamento analitico trova ciò che è nell' ente reale conosciuto immediatamente; il ragionamento dialettico trova ciò che deve essere in esso o fuori di esso, acciocché egli sia un ente completo. Il ragionamento analitico non fa che riconoscere parte a parte ciò che è dato dalla percezione e dalla immaginazione intellettiva, senza aggiunger nulla; il ragionamento dialettico considera ciò che è dato dalla percezione e dell' immaginazione intellettiva come un condizionato, e ne cerca le condizioni. Il ragionamento analitico non applica piú l' idea dell' essere, e si contenta di averla come data nel percepito e nell' immaginato; ma il ragionamento dialettico tiene dinanzi l' essere ideale come un esemplare a cui riscontrare il percepito e l' immaginato, e conosce ciò che gli manchi per adempire la compiuta nozione di ente. Il pensiero dialettico, tenendo fissi gli sguardi nella natura dell' essere come in esemplare e norma di giudizi intorno all' ente, domanda che tutti questi caratteri si avverino e dichiara che dove non si avverino, ivi non è un ente completo: dove ne scorge alcuni, conchiude che vi debbano indubitatamente essere anche gli altri, facendo questo sillogismo: « Alcuni caratteri, elementi, organi o condizioni dell' ente sono: la percezione me ne assicura; Ma all' ente non può mancare nessuno de' suoi caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, né questi possono andar divisi; Dunque anche tutti quei caratteri, elementi, organi, e condizioni essenziali, che non sono dati dalla percezione, debbono esservi »(1). Cosí il ragionamento dialettico colla guida dell' essere intuíto esce dai confini della percezione e dell' immaginazione intellettiva; e perviene all' invenzione di nuovi enti, e di nuove verità che non cadono nell' esperienza. Or qual' è l' ufficio del pensare dialettico trascendentale? Non altro se non ridurre ad un pensiero attuale ciò che prima era nel pensiero virtuale e potenziale. L' elemento virtuale adunque, che è nella percezione e nell' immaginazione intellettiva, è il germe che si sviluppa col ragionamento dialettico, per un continuo novello confronto fra ciò che si percepisce, e l' essere ideale che nella percezione stessa si comprende. Uno dei piú importanti principŒ, di cui fa uso il ragionamento dialettico trascendentale, è quello che nasce dal quarto carattere ontologico, che l' ente dee essere un atto primo , acciocché sia concepibile, sia possibile. Di qui il principio che, ogni qualvolta l' atto primo è nascosto al pensiero, si dee conchiudere indubitatamente che egli tuttavia non manca, e il pensiero virtuale tacitamente lo suppone, il pensiero poi dialettico ed attuale è autorizzato ad affermarlo. Questo assioma trae seco amplissime conseguenze, la prima delle quali si è che « ogni qualvolta ciò che noi pensiamo è un ente termine, riesce ontologicamente necessario che esista un principio a lui corrispondente, che lo completi ». L' essere ideale ha ragione di principio rispetto a quella esistenza oggettiva che le cose hanno nella mente, è il principio oggettivo , ma non è un principio soggettivo, e noi parliamo ora di questo. Considerando l' essere ideale in rispetto all' ente soggettivo , egli non ha ragione di principio, ma di termine medio , di maniera che nell' ordine ontologico egli ha avanti di sé per suo principio il soggetto. Ma se noi consideriamo l' essere ideale rispetto al soggetto uomo, noi troviamo ch' egli ritiene pure la nozione di termine medio; e si riscontra una singolare analogia fra questo termine medio nel soggetto intelligente, e lo spazio che è pure termine medio nel soggetto senziente. Del rimanente, l' essere ideale nell' uomo è anch' egli un termine straniero. Il principio intelligente riceve dall' essere ideale l' oggetto primo che lo rende intelligente, egli riceve e non dà; dunque l' ente oggetto non può essere produzione del principio intelligente umano, ma egli esige l' esistenza d' un' altra attività, d' un altro principio che rimane all' uomo occulto. Ma qual principio suo proprio può avere l' ente oggetto? Un soggetto, come abbiam detto. Dunque l' ente oggetto suppone necessariamente, e virtualmente contiene l' esistenza d' un soggetto suo proprio, il quale sia principio soggettivo del termine medio oggettivo. Ma il principio dee essere adeguato al suo termine proprio, col quale egli costituisce un solo essere. Ora l' essere ideale è universale, infinito. Dunque egli suppone un soggetto infinito per suo principio. Questa è la dimostrazione dell' esistenza di Dio a priori , che si presenta in tante guise diverse, ma che è sempre la stessa nel suo fondo (1). Il ragionamento dialettico trascendentale adunque dimostra l' esistenza di enti che non cadono nella nostra esperienza, tanto partendo da quegli enti termini che sono dati nella costituzione del nostro sentimento, quanto partendo da quell' ente termine7medio, che è dato nella costituzione della nostra intelligenza. Ora possiamo sciogliere la questione « se l' essere reale si riduca sempre ad un sentimento ». In primo luogo, se noi poniam mente all' esperienza, questa non ci dà altri esseri reali se non quelli che hanno natura di termine, ovvero di principio. Ora i principŒ sono i soggetti, tutti dotati di sentimento. I termini reali poi sono i sentiti, i quali si riferiscono al principio senziente, e però sono nel sentimento. Ma se noi applichiamo a questi dati dell' esperienza il ragionamento analitico, troviamo: 1) che la parola sentimento significa propriamente l' atto ultimato del principio senziente; 2) che il termine sentito o è proprio, o straniero. Se è proprio, egli è lo stesso principio senziente come sentito. Cosí nel sentimento espresso con il vocabolo Io , il senziente e il sentito s' identificano; 3) ma se il termine è straniero, egli ha bensí un rapporto essenziale col principio straniero col quale è unito, ma non gli appartiene l' atto proprio del principio straniero, e però neppure il sentimento. Quindi egli si rappresenta al veder nostro semplicemente come materia del sentimento, materia bensí sentita, ma che potrebbe anche essere non sentita. Cosí il pensar comune è giustificato; ed egli non deroga menomamente alle verità filosofiche da noi esposte. Fra queste verità vi ha quella che ogni termine straniero addimanda un principio suo proprio, che è al di là della nostra esperienza. Ora il sentimento di tale principio proprio appartiene a quella entità che è a noi termine straniero, e però anche questa rientra nel sentimento. Ma quella entità che è a noi termine straniero non è già sentita dal suo principio proprio come è sentita da noi, poiché da noi è sentita come straniera e priva al tutto di principio proprio. Quindi nel termine del nostro sentire si debbono distinguere tre cose. Esso termine attualmente sentito; la materia che si suppone non sentita, e questa è un' entità astratta che si forma rimovendo dal sentito la qualità di sentito, dopo di che ci rimane un quid incognito, di cui altro non si conosce se non l' attitudine ad esser sentito; e la stessa materia sentita non da noi, ma dal suo principio proprio con un sentimento diverso dal proprio. Onde quella materia che rimane in mezzo ai due sentimenti si considera come materia identica dell' uno e dell' altro. Ma propriamente parlando ella non esiste separata dai due senzienti, ma è un cotal figmento della maniera nostra limitata di concepire; e quindi neppure ella è identica ai due sentimenti. Il concetto adunque di questa materia non ci fa conoscere che cosa ella sia in se stessa, ma solo ci fa conoscere avervi un' entità reale, la quale trovasi in un contatto di sensilità col nostro principio senziente, dal qual contatto esce il nostro sentito. Ora, questo concetto negativo è il concetto di una realità pura ed astratta , che è qualche cosa di anteriore al sentimento, e però appunto dicesi pura; 4) troviamo adunque che in ogni sentimento, come pure in ogni sentito, vi ha un' attività. Ora l' astrazione suol separare anche l' attività del sentimento dal sentimento; e a quest' attività suol pure dare il nome di realità pura , cioè separata dal sentimento che la completa. Ma anche qui non dobbiamo ingannarci prendendo i prodotti dell' astrazione quasi per sé essenti, come enti reali. Perocché se si parla del sentimento, lasciati a parte i termini stranieri, l' attività è sentimento ella stessa. Vero è che l' effetto di questa attività del sentimento si manifesta anche fuori del sentimento, modificando la materia del medesimo. E poiché quest' azione noi poniamo che appartenga ad un principio senziente che non viene raggiunto dalla nostra esperienza, quindi il concetto di azioni reciproche fra principŒ diversi che immutano reciprocamente i sentimenti proprŒ nei loro rapporti attivi. Il qual fatto è importantissimo, e non cosí facile a spiegare. Perocché, che un sentimento sia attivo entro la propria sfera s' intende, ma che egli produca un effetto fuori di questa, egli è un nodo difficile a sciorre. Tanto piú che l' effetto da esso prodotto in un altro sentimento non è da lui sentito, almeno nello stesso modo come lo sente chi riceve l' effetto. E pure il fatto de' termini stranieri dimostra, che il principio proprio di questi, comeché sia, influisce nel principio straniero in modo da somministrargli il termine. Se noi analizziamo questo fatto, dalla descrizione di un fatto cosí meraviglioso, qual' è l' azione e la congiunzione attiva e passiva dei principŒ sensitivi, si possono cavare le seguenti conclusioni. Se si tratta di quella congiunzione attiva e passiva per la quale gli enti relativi si costituiscono, convien dire ch' ella appartiene alla loro natura. E nel vero ella è appunto quel sintesismo, pel quale sussistono e reciprocamente si sostengono, onde gli enti non si possono concepire senza questa loro congiunzione essenziale, senza la quale perirebbero. La ragione pertanto di questa congiunzione dee cercarsi unicamente nell' autore della loro natura. Infatti non si potrebbe in essi trovare ragione che spiegasse tale congiunzione, essendo ciascuno un ente per sé. Or questo è nuovo argomento, col quale il ragionamento dialettico trova la necessità di una terza potenza che, quasi disposando due enti fra loro, li costituisca entrambi. Coll' astrazione si separa quell' azione di uno che è passione dell' altro, come fosse cosa diversa dai sentimenti stessi; ma propriamente è da dire che entra ella stessa in entrambi i sentimenti, come termine in chi lo fa, e principio ma principio straniero in chi la riceve. E cosí s' avvera che l' ente reale non sia altro che sentimento, ma sentimento suscettivo d' azione e di passione. Di che non di meno avviene che si formino colla mente due astratti, separandosi il sentimento dall' azione , e separandosi l' azione dal sentimento ; la quale separazione non esiste in natura, ma solo nell' ontologia scientifica in quant' è frutto dell' astrazione. Di che si passa facilmente all' errore di credere che si dia azione e passione senza sentimento, o che si dia sentimento senza azione o passione; laddove nella natura queste cose non ne formano che una, un ente solo, il quale sentendo agisce o patisce, ed agendo o patendo sente. Del resto, non deve essere leggermente trapassata l' osservazione che noi facevamo di sopra, che l' azione e passione di due principŒ senzienti suppone un terzo ente, o certo una ragione fuori di essi. Un terzo ente che ad un tempo stesso che fa esistere i due principŒ, li mette ancora fra loro in comunicazione: l' uno non può trovar certamente l' altro perché non lo sente; e perciò appunto è necessario che una terza forza sia quella che li congiunge; e poiché il congiungerli è lo stesso che porli in essere, perciò questa terza forza è quella che li pone in essere, che dà loro l' esistenza. Veduto come si distingue il concetto di azione dal concetto di sentimento, dobbiamo vedere come si distingua il concetto di essere dal sentimento medesimo. Il concetto di essere è il medesimo che il concetto di primo atto; e il primo atto è assoluto o relativo. Il primo atto assoluto è quello che è primo assolutamente cioè universalmente, di maniera che non se ne possa pensare un altro avanti di lui. Il primo atto relativo è quello che è primo nella sfera di un sentimento limitato, di limitazione ontologica, cioè tale che lo costituisce separandolo da ogni altro. Or si domanda se il concetto di atto primo, o sia di essere, diversifichi dal concetto di sentimento, di maniera che un ente possa essere non sentimento. Rispondesi, che in quanto all' essere assoluto, il concetto di essere o di atto primo è sotto ogni forma sentimento, ma non nello stesso modo, poiché nella forma reale è sentimento7principio, nella forma ideale è sentimento termine7medio, e nella forma morale è sentimento termine7ultimo. Rispetto poi agli esseri relativi, essendoci data in natura un' azione che non è sentimento rispetto a noi, perché il sentimento suo proprio ci rimane incomunicato e nascosto; perciò egli deve accadere e accade, che movendo da tali azioni l' intendimento nostro si formi il concetto di esseri privi affatto di sentimento. Perocché data a noi l' azione non sensitiva, l' intendimento nostro considera necessariamente o lei stessa come prima azione, primo atto, e però come ente insensitivo; ovvero ascende da essa a trovare un' azione prima, un primo atto che sia l' ente a cui ella appartiene, per quella legge ontologica per la quale la mente è sospinta sempre a pensare il primo atto, cioè l' ente come oggetto necessario del pensiero «( Psicologia , P. II, l. IV, c. VII) ». E cosí è che il pensiero comune giustamente concepisce una materia insensitiva, e in generale degli enti che non sono sentimento. Ma l' ontologo mediante le meditazioni che abbiamo esposte viene ad accorgersi che gli esseri insensitivi sono propriamente entità risultanti e relative di secondo grado, non veri enti primitivi relativi di primo grado. Or qui ci si offre una difficoltà. Se l' ente deve esser uno, come accade egli, che risulti sovente da un principio e da un termine? Si ponga attenzione che il solo termine non può giammai costituire un ente, benché possa costituire una sostanza relativa all' appercezione umana; d' altra parte il principio reale ha natura di soggetto, e però di ente soggettivo che è infine quanto dire di ente reale. Ora ogni principio reale è soggettivo e semplice ed uno: quindi la semplicità e l' unità dell' ente reale risiede nella semplicità e unità del principio reale soggettivo (1). Ma si dirà: il termine adunque non entra egli per nulla nella composizione dell' ente? - Si distingue il termine straniero , e il termine proprio dell' ente . Il termine straniero non è piú che un eccitatore e anche suscitatore del principio; ma tali termini non si confondono punto col principio, questo rimane l' unico soggetto suscitato: e il soggetto, che è uno e incomunicabile, è il solo ente reale. La moltiplicità dunque rimane fuori dell' ente, rimane nel termine che non è ente; l' unità e la semplicità è nel principio, che propriamente è ente. Il termine proprio all' incontro non è che l' ultimo atto dell' ente, e, per cosí dire, la punta dell' atto. Noi non abbiamo esperienza di alcun ente, il cui ultimo atto non abbia bisogno di un termine straniero; questa è la prova ontologica, che tutto l' universo a noi percettibile non è per sé, ma per altro. Tutti gli enti a noi cogniti finiscono adunque col loro atto in termini che non sono dessi. Ma non ripugna il pensare un ente, il quale avesse tali termini, i quali fossero desso. E questo è quello che indubitatamente avviene nell' essere Divino. Imperocché egli deve contenere i tre modi categorici, essere ad un tempo reale, ideale, e morale. Per altro egli è evidente che l' ente che ha un termine suo proprio, sarebbe semplice ed uno, appunto per la perfetta identità che passerebbe fra l' ente principio e l' ente termine; la distinzione sarebbe ne' modi di essere, e non nell' essere stesso; la divisione si farebbe nell' astrazione, ma non nello stesso ente. A rigore: non è ente veramente completo se non l' assoluto. Tuttavia si dicono relativamente completi quelli enti, che sono suscettivi di coscienza, i quali sono in se stessi e virtualmente a se stessi; onde relativamente a sé sono completi; perché essi non sentono il bisogno, per essere, che di se stessi. Ma oltre questi enti ve n' hanno di quelli che sono anche relativamente incompleti, e sono quelli, i quali non sono in sé, né a sé, non hanno veruna relazione seco stessi, perché non hanno sentimento proprio, e quindi non possono avere un sé , ma la loro esistenza è interamente relativa ai primi dotati di un sentimento proprio intellettivo che sono in sé. Tali sono appunto lo spazio, la materia, i corpi. Gli enti relativi dunque si dividono in due grandi classi: 1) in quelli che hanno un' esistenza relativa a sé; 2) in quelli che hanno solamente un' esistenza relativa ad altri, cioè a que' primi. Vero si è che l' uomo ha una naturale inclinazione d' attribuire alle cose diverse da sé un' esistenza simile alla sua subiettiva (1). Egli ha ben anco di ciò fare una cotale necessità dialettica, perocché non può concepire un ente, senza attribuirgli un' esistenza subiettiva. Ma questa necessità è appunto soltanto dialettica , cioè è una necessità che egli ha di cosí supporre ogni ente qual condizione necessaria a concepirlo (2). Ma queste necessità dialettiche , sono mere supposizioni , mere aggiunte provvisorie per arrivare a concepire gli enti; le quali aggiunte l' uomo stesso le abbandona tostoché si pone a ragionare sugli enti già concepiti. La prima classe adunque di enti relativi ha non solo un' esistenza oggettiva , ma ben anco un' esistenza soggettiva ; la seconda classe ha un' esistenza oggettiva , ma non soggettiva . La prima classe contiene gli enti primitivi , nell' ordine della relatività, la seconda classe contiene gli enti risultanti dalla connessione, e dal sintesismo degli enti primitivi fra loro. L' ente completo assolutamente ha un' esistenza oggettiva sua propria, laddove l' ente completo relativamente ha un' esistenza oggettiva partecipata. Sotto il qual aspetto, gli enti si possono distribuire in tre classi, che sono: 1) Ente completo assoluto , il quale ha un' esistenza oggettiva propria , e cosí parimenti una propria esistenza soggettiva ; 2) Ente completo relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata e non propria, ed un' esistenza soggettiva propria ; 3) Ente incompleto relativo , il quale ha un' esistenza oggettiva partecipata , niuna esistenza soggettiva. Ma torniamo al carattere dell' unità , che deve aver l' ente per legge ontologica. Questa investigazione conduce a vedere che l' unità ontologica è tale, che non esclude ogni moltiplicità, e quindi a conciliare la moltiplicità coll' unità ontologica. In fatti, la prima maniera di unità, è quella che essendo semplicissima, esclude ogni moltiplicità. Or questa specie di unità non si riscontra negli enti completi , né tampoco negl' incompleti ; ma tutt' al piú negli astratti, che non sono propriamente enti, ma piuttosto entità divise ipoteticamente col pensiero dal resto che hanno congiunto. Questa maniera di unità astratta , o di uno astratto , si può chiamare acconciamente elementare , perocché non può rappresentare che un elemento , non mai un ente. Ad essa si può ridurre 1) l' unità di numero, l' uno ; 2) l' unità di punto matematico ; 3) l' unità dell' estensione illimitata ; 4) l' unità dei singoli atti, delle singole potenze, dei singoli abiti , ecc.; 5) l' unità della qualità ; 6) l' unità della relazione , e dell' abitudine ; 7) l' unità dell' essere ideale . Questa unità elementare non è l' unità ontologica . Conviene adunque che noi cerchiamo un' altra maniera d' unità, la quale colla moltiplicità si compone; e per agevolarcene la ricerca, investighiamo quali sieno le pluralità che non distruggono l' ontologica unità. Noi possiamo enumerare le seguenti: I) L' essere assoluto è nei tre modi categorici: in ciascuno è identico e intero - quindi la pluralità dei modi categorici, in cui l' ente è identico, non toglie la sua unità. II) Gli esseri relativi completi , considerati nella loro esistenza soggettiva hanno dei termini stranieri; ma essi appunto perché stranieri, non entrano in composizione con quell' ente che in essi termina. Questi enti dunque, per avere tali termini, non perdono la loro unità ontologica. III) In quanto all' esistenza oggettiva degli enti, essa giace nell' essere ideale: ora questo non toglie l' unità ontologica per le seguenti ragioni: 1) Se si parla dell' essere assoluto , l' essere ideale non può distruggere l' unità dell' ente; perché questo è identico nei due modi di esistere, il soggettivo e l' oggettivo; 2) Se si parla degli enti relativi completi, ovvero incompleti, la loro esistenza oggettiva è nella mente; e noi abbiamo veduto che nella mente l' ente ideale e il realizzato è identico «( Sistema Filosofico , n. 23 sgg.) ». IV) Gli enti relativi incompleti, che abbiamo chiamato anche risultanti , o termini risultanti , hanno una moltiplicità relativa al soggetto o principio a cui sono termine, la quale è reale, benché essi non sieno soggetti . Ora, essendo a noi nascosta la natura di questo principio proprio, consegue che noi non sappiamo in che modo questo principio straniero produca que' piú termini, e se egli è un solo principio, forz' è che in lui vi abbia la pluralità del termine, come quello che essendo semplice, la può accogliere in sé medesimo. Tutte le grandi questioni ontologiche si riducono a due; la prima è quella astrattissima che si volge intorno la pura essenza dell' essere che nell' idea si contempla; la seconda è quella che tratta della costruzione dell' essere , e questa discende all' essere reale. Noi ci proponiamo in questo capitolo di entrare in questa seconda questione dell' ontologia, e ne uscirà forse un commentario a quella soluzione data da Anassagora (1) con sí brevi parole, che Socrate se ne lagnava (2). Noi vogliamo adunque dimostrare, che vi deve essere un' intelligenza non già per la necessità di spiegare i vestigi di una causa intelligente che si manifestano nel creato; ma perché senza un' intelligenza l' ente non sarebbe costituito, e però non vi potrebbe essere alcun ente; la quale è necessità ontologica. L' ente infatti è per sé necessario; perocché quello che è per essenza, non può non essere. Dunque è pure necessario tutto ciò che ha natura di condizione o di elemento costitutivo dell' ente. Se dunque si prova che l' ente non si potrebbe concepire, qualora non vi avesse intelligenza, con ciò sarà provata la necessità ontologica di questa. Rammentiamo che l' ente termine non può stare da sé solo senza il principio a cui essenzialmente si riferisce, e quindi che il sentito corporeo non può stare senza il principio senziente. Da questo viene immediatamente la conseguenza, che il pensare che non vi avesse nell' universo se non materia e corpi, è un pensare assurdo, perocché quando si dice materia e corpi si dice termini, e quando si dice termini si dice relazioni con un principio, e cosí si afferma implicitamente il principio. Quando poi si dice che non si hanno se non corpi e materia, allora si nega l' esistenza del principio. Dunque si afferma e si nega nello stesso tempo: dunque vi ha contraddizione. Questa è la prima confutazione ontologica del materialismo. Dimostrata la necessità ontologica dell' essere senziente, rimane a dimandare, se vi abbia contraddizione intrinseca anche nella supposizione che non vi avessero altri esseri fuorché il senziente. In primo luogo, questo essere puramente senziente, per la supposizione stessa sarebbe privo d' intelligenza, e però non avrebbe, né potrebbe avere alcuna coscienza di sé. Un Sé non esisterebbe; neppure esisterebbe chi potesse applicare a questo essere senziente il pronome Tu o Egli. Egli non sarebbe dunque né a se stesso, né ad alcun altro essere. Conviene conchiudere che non sarebbe del tutto. Poniamo l' obbiezione piú ovvia: « un essere senziente, se non vi avesse alcuna intelligenza, certo non potrebbe essere né conosciuto né affermato; ma come dimostrate voi, che egli non potesse essere al tutto, quantunque praticamente incognito a se stesso o ad altro chicchessia? ». In questa obbiezione parlasi d' un principio senziente che si suppone atto ad essere conosciuto, si suppone possibile, si suppone tale che abbia un Egli ed un Sé; il che è quanto dire, si suppone, che insieme con lui esista un' intelligenza, il che distrugge la supposizione fondamentale del ragionamento. Si rifletta che l' obbiezione fatta di sopra si riduce a questa proposizione: « potrebbe essere un ente senziente del tutto sconosciuto ». Ella si appoggia adunque sulla possibilità di un tale ente. La questione adunque si riduce tutta alla possibilità. Or che cosa è la possibilità? Noi abbiam detto piú volte, non è altro che l' intelligibilità. Dunque quando si dice un ente possibile, con questo stesso si ammette che sia intelligibile; ed essere intelligibile è lo stesso che avere una relazione con una intelligenza. Si suppone adunque, senza avvedersene, che una intelligenza esista all' atto dell' essere senziente. L' obbiezione adunque parla di un essere sconosciuto; ma nello stesso tempo suppone che sia conoscibile. Ora acciocché ella avesse forza dimostrativa, dovrebbe parlare di un ente non pure non conosciuto, ma anche non conoscibile, il che è quanto dire non possibile. Si replicherà che quest' essere intelligente basta che sia possibile anch' egli, non è necessario che sia sussistente. Ma si risponde, che il replicare cosí altro non sarebbe che il perdersi entro un circolo vizioso ovvero un progresso all' infinito. Perocché se si riconoscesse necessaria la possibilità , acciocché l' ente senziente sussista (e per vero dire ciò che non è possibile non sussiste); e quindi si riconosce la necessità che v' abbia un' intelligenza possibile; dove poi si porrà la possibilità di questa intelligenza? Converrebbe ricorrere ad un' altra intelligenza possibile. E posciaché la serie di queste intelligenze possibili non può andare all' infinito; cosí conviene di necessità fermarsi ad una intelligenza sussistente, nella quale si trovi la sede della stessa possibilità. La dimostrazione medesima si deriva da altri principŒ da noi stabiliti. Noi abbiamo veduto che il reale non può stare senza l' ideale pel sintesismo di queste due forme. Ora enti sensitivi, senza piú, sono reali. Dunque addimandano i loro ideali corrispondenti. Ma l' ideale è il termine oggettivo dell' intelligenza. Il termine poi non può stare senza il principio. Convien dunque che vi abbia un principio intellettivo nell' universalità delle cose, acciocché vi possa avere l' ideale che in esso essenzialmente dimora; e convien che v' abbia un essere ideale che costituisce la possibilità del reale, acciocché vi possa avere l' ente reale, che è l' effettuamento e l' ultimo atto di quello. E poiché il senziente è un reale; perciò non può esistere nell' universo il solo ente sensitivo. Lo stesso si deduce da un altro vero, cioè dall' essere l' ideale, ente iniziale, sí fattamente che la costituzione di ogni ente reale in lui incomincia. Egli è dunque impossibile che v' abbia la realizzazione di un ente, che v' abbia la sua forma reale la quale è compimento, se mancasse il suo inizio che è il primo passo che dà l' ente verso alla sua compiuta esistenza. Dal che procede, che l' ente che non ha intelligenza è incompleto, ed ha bisogno di appoggiarsi alle intelligenze fuori di lui, alle quali solo egli è relativo : all' incontro l' ente che è dotato d' intelligenza è ente completo , e però questa sola maniera di enti, cioè gl' intelligenti, meritano la denominazione aristotelica di entelechie che viene da «enteleches», perfetto , denominazione ontologica perché tratta dell' intima costituzione degli enti stessi. Cosí tutte le nature delle cose sono connesse, l' una all' altra si continua e si appoggia, e reciprocamente si sorreggono: quindi la mirabile unità del tutto senza alcuna confusione delle parti, l' armonia, e la consonanza di queste: la base altissima delle quali essenziali relazioni degli enti giace nell' originario sintesismo delle tre forme categoriche, nelle quali l' essere uno è medesimamente ancora trino. Il legame ontologico delle cose fra loro è quello che rende la teosofia una scienza sola, e non la lascia partire in piú. Che anzi le sue tre parti, che abbiamo detto essere ontologia, teologia naturale e cosmologia, neppur si possono trattare cosí recise e partire l' una dall' altra, che le materie dell' una non si debbano colle materie dell' altra alcuna volta tramezzare. E questo è quello che qui ci accade. Poiché sponendo noi le attinenze dell' essere reale, e come quello che è privo d' intelligenza s' attenga necessariamente e quasi si aggrappi all' essere intelligente, siamo sospinti a parlare della prima intelligenza a cui ogni ente è condizionato, e a raccogliere la dimostrazione della sua esistenza, che qui da se stessa in nuova forma ci si presenta. Dimostr. - Necessaria è una proposizione, quando la sua contraria involge contraddizione. Ora « che l' essere non sia necessario »involge contraddizione. Perocché se l' essere non è necessario, l' essere potrebbe non essere. Ma essere e non essere sono termini contraddittorŒ. Dunque la proposizione contraria involge contraddizione. Dunque l' essere non può non essere, ossia l' essere è di natura sua necessario; il che dovevasi dimostrare. 1) Questa necessità dell' ente è la proposizione fondamentale della scuola italiana d' Elea [...OMISSIS...] Dalla quale proposizione fu tratto a torto il panteismo perché si applicò all' ente relativo quella proposizione che non vale se non per l' ente essenziale ed assoluto. 2) La necessità dell' essere è la prima fra tutte le necessità; non vi ha alcuna necessità logica che da questa non derivi: non sia questa stessa partecipata. Laonde ogni necessità si riduce a questa, alla necessità dell' essere. Dimostr. - Nelle proposizioni nelle quali si predica qualche cosa dell' ente, il subietto della proposizione è l' Ente possibile, o ideale. E in fatti tali proposizioni, che sono giudizi analitici, riguardano le doti e qualità proprie dell' essenza dell' ente. Ora l' essenza dell' ente è quella che s' intuisce nell' idea. La proposizione adunque, che « l' essere è di natura sua necessario », versa intorno all' essere ideale , il che si dovea dimostrare. 1) Molti scrittori fra gli antichi, e del tempo medio, fra' quali ultimi Sant' Anselmo, credettero di poter dare una dimostrazione a priori dell' esistenza di Dio argomentando dal concetto di Dio. Recando questo concetto che « Iddio sia ciò di cui nulla si può pensar di piú grande » conchiusero che dunque non gli potea mancare la sussistenza. Cosí trovarono la sussistenza nello stesso concetto di Dio, e conchiusero che Iddio è per sé noto, cioè egli è noto tosto che è noto il suo concetto. Ma l' acutissimo San Tommaso trovò difettosa tale dimostrazione. E nel vero questa sussistenza nel concetto è ancora una sussistenza ipotetica , e non una vera e reale sussistenza. Onde San Tommaso giustamente disse: [...OMISSIS...] . Ora questa difficoltà che fa l' Angelico a quelli che vogliono provare l' esistenza di Dio dal concetto, non vale contro la proposizione che pone l' essere necessario, perocché questa proposizione pone l' essere soltanto nel concetto, cioè l' essere ideale. L' essere ideale dunque è per sé noto, e manifestamente necessario, né da alcuno che ragioni giammai negato con coerenza di ragionamento. 2) La necessità dell' essere ideale nell' ordine dell' umano ragionamento è il primo noto . Sopra di questo solido fondamento si erige la teoria della certezza da noi esposta nell' « Ideologia (1) »; perocché ogni certezza si acquista riducendo ogni proposizione che si vuole dimostrare a quella prima, di modo che « se si negasse la proposizione che si assume, si dovrebbe coerentemente negare anche la prima proposizione dell' essere per sé noto »: formola che esprime l' artificio di ogni dimostrazione. Quindi « la necessità dell' essere ideale »è anche il principio della Logica. 3) Nella tesi fu detto « l' essere che apparisce a noi necessario è l' essere ideale », e ciò perché l' essere necessario è anco nelle sue forme reale e morale, ma in queste forme a noi non apparisce immediatamente e intuitivamente, come si raccoglie dalla sensata obbiezione fatta da San Tommaso. Del resto non solo rispetto all' uomo, ma anche in se stesso l' essere ideale è il primo noto , perocché il reale necessario è conoscibile per necessario, appunto perché è nell' ideale: questa adunque è la ragion prima di tutte le cose. Dimostr. - Questo è il noto assioma dei logici, che ab esse ad posse datur consecutio . Ciò che è, appunto perché è, può essere; perocché se non potesse essere non sarebbe. Ma questo in altre parole viene a dire, che dato il reale si può argomentare il possibile, che è la proposizione che si proponeva. 1) Quando tutto il mondo dice che se una cosa è, ella per conseguente è possibile; allora viene a riconoscere che v' ha una progressione entitativa dal possibile al reale; di maniera che il possibile ed il reale si considerano come due passi che fa l' ente per costituirsi; ed è quanto un dire: « il secondo passo suppone il primo, non s' arriva al due se non passando per l' uno ». Noi pensiamo adunque e parliamo col senso comune, quando diciamo che il possibile è « l' ente iniziale »che è quanto dire « il primo passo dell' ente, che si pone ». 2) Se ella è sempre evidentemente vera la proposizione che ab esse ad posse datur consecutio , la sua contraria a posse ad esse non datur consecutio ha bisogno di essere limitata e spiegata cosí: che per essa si dica che « dal potere all' essere non si dà sempre un' illazione », e però che « quando si vuole arguire dal potere all' essere, trattasi di un tal potere, di un tal possibile, che nel suo seno racchiude necessariamente la sussistenza », il che non accade se non trattandosi di Dio, dove lo stesso essere è ideale e reale. Se dunque il reale suppone il possibile, ne viene che il reale solo non può stare nella natura, e però che sarebbe assurdo il pensare che non vi avesse altro che materia, o non vi avesse altro che sentimento corporeo; ma convien dire che se sono questi, dee esser altresí il possibile , ossia l' ideale . Dimostr. - L' essere ideale dunque è necessario. Ma l' essere ideale per la sua definizione è il termine oggettivo, l' oggetto della mente. Né si può concepire oggetto della mente senza che sia la mente di cui egli sia oggetto, né tampoco si può concepire la mente senza alcuna relazione con un oggetto. Se dunque è necessario l' oggetto, è necessaria altresí la mente ossia l' intelligenza soggetto, come diceva la proposizione. Di qui incomincia ciò che di nuovo vogliamo aggiungere secondo il titolo del capo presente. Dimostr. - Diamo che l' essere ideale fosse termine straniero di una intelligenza. In tal caso, quell' intelligenza non è il principio, ossia il soggetto suo proprio. Dunque il termine non cessa di esistere anche considerato diviso da quel soggetto che gli è straniero. Ma diviso da quel soggetto non potrebbe continuare ad esistere se non avesse un altro principio, e questo non gli può esser di nuovo straniero, perocché in tal caso si dovrebbe ripetere lo stesso ragionamento. Non potendosi adunque andare all' infinito nella serie de' principŒ che si suppongono uniti a quel termine, convien fermarsi ad un principio che sia proprio dell' essere ideale; e al quale l' essere ideale sia termine proprio, e questo è ciò che si diceva nel lemma proposto. Dimostr. - L' essere ideale non può stare senza un' intelligenza, di cui egli sia termine proprio. Ma il termine proprio è quello, nel quale l' ente è identico quale è nel principio, secondo la datane definizione [...OMISSIS...] . L' essere adunque è identico nel principio e nel termine proprio. Ma qui il termine è l' essere ideale, il quale ha i caratteri della necessità, della unità, dell' eternità, dell' immutabilità, e tant' altri caratteri divini. L' ente dunque dee avere i medesimi caratteri anche nel principio proprio, perché altramente non sarebbe l' ente identico. Ma il principio proprio dell' essere ideale è l' intelligenza, ossia un ente soggetto intelligente. Dunque l' intelligenza che è principio proprio dell' essere ideale dee essere anch' essa necessaria, universale, eterna, immutabile, ecc.. Ma una tale intelligenza è infinita ed assoluta. Dunque l' essere ideale non può stare senza un' intelligenza infinita ed assoluta, ciò che appunto si dovea dimostrare. 1) Un oggetto intelligente infinito ed assoluto che ha per termine proprio l' essere ideale è Dio. Dunque Iddio è, ed è necessariamente; e Iddio non è una potenza infinita cieca, ma una infinita intelligenza. 2) Dunque Iddio è un ente che è identico nel modo reale (soggetto intelligente) e nel modo ideale (oggetto). E però Iddio è ugualmente ne' due modi di essere accennati: egli ha come sua propria tanto l' esistenza soggettiva, quanto l' esistenza oggettiva. 3) Il primo ente adunque, l' ente essenziale vuol essere intelligente. Noi abbiamo fin qui favellato dell' intima costruzione dell' ente reale, applicando a questo l' osservazione ontologica (1): abbiamo veduto com' è costruito quell' ente reale, di cui abbiamo esperienza. Dall' esistenza del corpo o di piú corpi abbiamo arguito l' esistenza di un principio sensitivo, e dall' esistenza di uno o di piú principŒ sensitivi abbiamo arguito l' esistenza di una intelligenza. Questa maniera di arguire merita il nome di ragionamento sintetico . Ma non ci siamo fermati qui. Noi abbiamo di piú dimostrato la necessità assoluta che sussista un' intelligenza; e l' abbiamo dimostrata come illazione della necessità assoluta dell' essere ideale . Abbiamo veduto che l' essere ideale è un punto fermo, sufficiente a cui appoggiare, per cosí dire, la leva filosofica, e portarci alla certezza indubitabile di un soggetto reale sussistente, e non solo alla certezza della sua sussistenza, ma della sua necessità. Questo nostro si può chiamare a giusto titolo, ragionamento sintetico a priori . Varcato il ponte che unisce la possibilità colla sussistenza, non ci siamo fermati; ma siamo venuti fino a conchiudere con logica illazione che l' intelligenza che dee per necessità sussistere dee anche essere infinita, ed assoluta, e quindi esser Dio. Or fino che arguivamo unicamente un' intelligenza, non eravamo ancora usciti dalle cose che cadono sotto l' umana esperienza; ma quando poi ci slanciammo con un procedimento logico fino all' intelligenza assoluta ed infinita, allora abbandonammo interamente col nostro volo il mondo esperimentale e pervenimmo in una regione incognita, nella regione appunto dell' infinito. Questo è ancora ragionamento sintetico a priori , ma perché egli eccede l' esperienza, merita la denominazione che già abbiam data di ragionamento dialettico trascendentale . Dobbiamo ora continuare ad applicare questa maniera di ragionare agli esseri finiti di cui abbiamo esperienza, per discoprire, al di là dell' esperienza, ciò che è condizione trascendente dell' esistenza delle cose esperimentali: cominciamo applicando questo possente istromento della dialettica trascendentale all' ente sensitivo. Gli studi fatti nei moderni tempi dagli studiosi delle scienze naturali, diedero questo mirabile risultamento, che « tutte le operazioni e i fenomeni della vita e dell' animale organismo si riducono sempre a leggi perfettamente identiche ». Ma la Psicologia va piú innanzi (1): ella dimostra col piú gran rigore d' osservazione e di ragionamento, che: « il sentimento animale, ha in se stesso una virtú attiva capace ella sola di spiegare tutti i fenomeni animali, come pure tutti i fenomeni vegetativi, ed anco corporei dipendenti da ogni specie di attrazione; non però quelli delle leggi del moto meccanico ». Procede che a spiegare i fenomeni animali non si dee assumere altro principio o cagione ipotetica, fermandosi alla virtú insita nel sentimento. Giacché l' esistenza di questa causa è dimostrata, e d' altra parte è sufficiente alla spiegazione de' fatti: la legge adunque della ragion sufficiente vieta che si ricorra ad altra causa incognita non punto necessaria. La Psicologia ancora dimostra, che dalla disposizione degli elementi nello spazio, dipende l' organizzazione, la quale si forma per le attrazioni degli elementi, e modificazioni di tali attrazioni, quelle e queste dipendenti dalla virtú insita al principio sensitivo; e che dall' organizzazione dipendono poi tutte affatto le specie degli animali e i fenomeni della vita in ciascun d' essi «( Psicol. , 542) ». Quindi apparisce ancora in quanto sia vera la proposizione di certi fisiologi che dicono « la vita inesauribile », potersi questa diramare, distendersi senza fine alcuno. Tutto ciò non eccede ancora il regno dell' esperienza: proseguiamo. Il sentimento animale risulta dalla congiunzione di un principio con un termine. Questa congiunzione è cosí essenziale, che se si toglie via il principio senziente non è piú il termine sentito, e se si toglie via il termine sentito non è piú il principio senziente. La cosa è del pari evidente se invece di parlare di sentito si parla di corpi, e invece di parlare di senziente si parla di anime sensitive. Ma egli sta a vedere se il corpo e l' anima suppongono degli altri enti d' innanzi da sé, i quali se essere vi dovessero noi li chiameremmo, in relazione al corpo e all' anima, ultrasostanze. L' anima sensitiva è informata dal suo termine: questo la trae all' atto del sentire: la sua sede è lo stesso termine sentito: in esso ha la sua attualità senziente. La sua esistenza è dunque relativa al sentito: da questo ancora trae la sua individualità «( Psicol. , 560 7 566; 572 7 577) ». A malgrado di ciò, se colla astrazione noi mettiamo da parte il sentito, ci rimane tuttavia qualche cosa: il principio, è vero, non è piú senziente; egli ha perduto ciò che lo individuava; e tuttavia egli rimane ancor qualche cosa dinnanzi al nostro pensiero, rimane un principio. Lo stesso si prova in un altro modo. Il sentito porge la materia in cui esercitarsi quest' attività, e quest' attività si spiega agli atti suoi proprŒ tostoché la materia opportuna le sia preparata. Se dunque coll' astrazione della mente si rimuove questa materia, l' attività del principio rientra in se stessa, si accoglie in una potenzialità, ma non ne segue da ciò che ella sia perita dinanzi alla mente. Questo principio adunque non è piú principio in atto, ma rimane una potenza che riacquistando la materia può ridivenire principio. Vi è dunque anteriormente al principio senziente qualche cosa, che non è nominata in nessun linguaggio, perocché la parola anima o l' equivalente ne' diversi linguaggi non significa punto quella potenzialità anteriore al principio senziente, ma significa lo stesso principio senziente ovvero sia sensitivo. Ora quel qualche cosa che si vede dovervi avere avanti al principio sensitivo, avanti all' anima, è ciò che noi chiamiamo una ultra7sostanza. Il primo atto dell' anima sensitiva adunque è quello del sentimento fondamentale; e in questo primo atto, che termina nel sentito fondamentale, è la sostanza dell' anima, a cui solo conviene il nome. Se si suppone cessato questo primo atto, l' anima non è piú. Rimane ciò che vi era prima di lei, ciò che vi è al di là di lei, di cui il primo concetto che possiamo formarci è quello di una entità potenziale, che è quanto dire una potenza di produr l' anima. Quindi s' intende come l' anima sensitiva sia un ente relativo. A fine di conoscere questa relatività, conviene fissare dove stia il primo atto che mette in essere l' anima sensitiva. Questo atto sta nel sentimento di un esteso: questo sentimento non è l' anima: questo sentimento è chiuso e limitato, che non va fuori del suo termine: questa limitazione, questa sfera del sentimento determina la sua relatività, perocché è talmente relativo a quell' esteso, che fuori di lui quel sentimento non è piú; tutto ciò che è fuori di quel termine non esiste per quel sentimento, né in quel sentimento. Questa è una di quelle che abbiamo chiamate limitazioni ontologiche . Perocché abbiam detto che gli enti finiti si compongono di un elemento positivo, e di un negativo, che è appunto l' essenziale loro limitazione (1). E qui si trova la risposta alla difficoltà: « Come un negativo può essere un elemento che entri nella composizione di un ente? ». A cui si risponde: la limitazione ontologica è nel sentimento, e nel sentimento ella è qualche cosa; perocché anche il negativo è qualche cosa nel sentimento. In fatti un sentimento che sente la propria limitazione, da questo sentire la limitazione rimane determinato ad essere piuttosto un sentimento che un altro, e trattandosi di sentimenti primi, cioè atti primi, ad essere piuttosto un ente che un altro. Cosí la limitazione diventa ontologica anche per gli enti soggettivi e reali, di cui parliamo; non perché ella stessa sia qualche cosa di positivo, ma perché in conseguenza di essa ridonda nell' ente uno speciale sentire, che lo determina e separa da ogni altro sentire. Questa proposizione è conseguente a tutto ciò che abbiamo detto. E nel vero che cosa è il soggetto? Il soggetto è l' atto primo del sentimento; cioè quella cosa che prima di tutto è sentita e che è sentita attivamente, cioè nella sua qualità di atto. Quindi il soggetto ha natura di principio reale, e noi abbiamo già veduto che non si dà ente senza principio; perocché tutto ciò che esiste è principio o termine, niente conosciamo nell' università delle cose, niente possiamo concepire, che non abbia condizione dell' uno o dell' altro. Ma il termine non può stare senza il principio. Dunque senza un principio, che è quanto dire senza un soggetto, l' ente non è possibile. I Da questo si trae primieramente che mutato il soggetto, è mutato l' ente; l' ente non è piú quello ma un altro ente. II Di poi consegue che tutto ciò che è anteriore al soggetto, cioè all' atto primo del sentimento, resta fuori del sentimento, e perciò non appartiene allo stesso ente, ma ad un altro che esige necessariamente un altro soggetto. III Quindi che, se trattasi d' un soggetto intelligente, tutto ciò che è anteriore al sentimento che lo costituisce, non può essere da lui percepito: la limitazione del soggetto limita la percezione e la cognizione, e non lascia alla intelligenza che una conoscenza dialettica negativa. IV Tale è la costituzione dell' essere reale, la quale si riflette nell' ordine logico. In quest' ordine la ragione astraente si forma degli enti senza soggetto reale; ma in facendo quest' operazione, ella è necessitata di trattarli come fossero soggetti. Tali sono i subietti dialettici ossia subietti del discorso. Ora nel discorso vale rispetto a questi la stessa legge annunziata pe' subietti reali, cioè che mutato il subietto del discorso il discorso sia un altro. V Un altro importantissimo corollario, si è che qualora la mente divide un ente e ne lascia da parte il soggetto, quello che le rimane non è piú l' ente di prima. E questa è anche la ragione perché la semplice idea dell' essere non è Dio, giacché ella è puramente oggetto e però manchevole del soggetto divino. Laddove se la si considera quale è in Dio, si vede avere il suo soggetto, cioè lo stesso soggetto divino con cui s' identifica, ed ella stessa diviene altra cosa e cosí cessa di essere pura idea. Possiamo, qui giunti, affrontare una questione non meno ardua, quella dell' unificazione degli enti reali. Certo, non è possibile darne una soluzione completa attesa la limitazione dell' umana esperienza, ma possiamo stabilire un principio, che a lei presieda: « qualora un ente senta un altro ente non solo quanto al termine, ma ben anco quanto al principio, e lo senta come principio, allora i due principŒ si compenetrano, non sono piú due, ma un solo, e però un solo ente; laddove se un principio sente il termine di un altro ente, ma non ne sente il principio, egli è il caso della subordinazione ontologica degli enti, gli enti restano due, e non un solo ». Ora sentire un principio come principio è il medesimo che avere il sentimento proprio del principio; il medesimo che essere quel principio. Dunque un principio che ne sente un altro è il principio sentito, il che equivale alla identificazione de' principŒ e cosí degli enti. Questo non è un caso ipotetico: n' abbiamo l' esperienza nell' anima umana nella quale il principio intellettivo e il principio sensitivo è il medesimo «( Psicologia , 636 7 646) ». Dalla stessa verità dipende la sentenza di San Tommaso e degli Scolastici, che nell' uomo v' ha una sola forma sostanziale e questa è l' anima intellettiva; giacché qui per forma intendono l' atto primo che noi chiamiamo anche soggetto. Or questa dottrina dell' identificazione de' principŒ e quindi degli enti riesce preziosa anche alla teologia, come si vedrà nell' « Antropologia soprannaturale ». Ed ora che abbiamo esposto la teoria dell' ente reale per ciò che riguarda l' intrinseca sua costituzione, possiamo passare a dare la teoria della sua azione; il che esaurirà in qualche modo l' argomento di questo libro, giacché tutto si riduce ad essere e fare. Abbiamo veduto che l' essere stesso è un primo atto, e che l' essere reale è un atto soggettivo, che è quanto dire un primo atto di sentimento. Non è a noi necessario soffermarci a notare le differenze di significato che hanno le parole atto, ed azione: le useremo come sinonime fino a tanto che il ragionamento nostro non dimandi la loro minuta distinzione. Soltanto osserveremo che atto è piú generale di azione convenendo a tutte le tre forme dell' essere; laddove l' azione spetta soltanto all' essere reale e soggettivo. Ogni qualvolta adunque la nostra mente pensa un essere, o un grado di essere di piú che prima, ella pensa un' attività, un atto; e ogni qualvolta pensa un essere o un grado d' essere soggettivo o sentimentale, ella pensa un' attività, un atto, un' azione. Definiremo dunque l' azione « un atto dell' essere reale, pel quale esiste una entità che è nuova rispetto alla mente che la considera ». Dichiarato il concetto dell' azione in universale, dobbiamo discendere alle sue diverse maniere. E queste sono due, la creazione , che fa cominciare un ente del tutto nuovo, e l' operazione degli enti che già sussistono. Noi omettiamo di parlare qui della creazione di cui dobbiamo fare special trattato, e ci limiteremo a dare la teoria dell' operazione; la quale non fu forse mai svolta sufficientemente da' metafisici per non aver essi conosciuta l' intima costituzione dell' essere reale. E nel vero noi abbiamo veduto: 1) avervi degli enti sintesizzanti; 2) degli enti coordinati , cioè individui della stessa specie; 3) degli enti ontologicamente subordinati; 4) degli enti identificati. Ciascuna classe di questi enti ha la sua maniera propria di operare. Una delle questioni piú difficili si è: « come un ente possa agire in un altro ». E veramente ella pareva un nodo insolubile, poiché si ragionava cosí: « un ente non può uscir da se stesso, essendo limitato alla propria sfera; ma l' azione di un ente appartiene all' ente che la fa: dunque anch' essa dee rimaner nell' ente: dunque niun ente può avere alcun' altra azione se non quella che rimane in se stessa: ogni azione è interiore all' ente stesso che la fa ». Questo specioso argomento condusse Leibniz al sistema delle monadi, ed altri a quello delle cause occasionali, ed altri ad altri ancora. Per uscirne invece di ragionare su principŒ ontologici preconcepiti, astratti, imperfetti, gratuiti, conveniva rilevare colla osservazione ontologica l' intima costruzione e organizzazione dell' ente. Ce ne risultò che una quantità di enti finiti sono composti di un principio e di un termine straniero; che la loro entità, propriamente parlando, è il principio: essi non sono altro che principŒ, ma non già principŒ isolati e divisi, ma uniti ad un termine che gli specifica e gli individua, termine che ricevono in se stessi, ma ch' è diverso tuttavia da essi, ad essi opposto. Quindi in ognuno di questi enti giace una opposizione, vi hanno come due poli opposti, che noi chiamiamo la polarità degli enti . Questo non ha cosa alcuna che ripugni; giacché la proposizione che un ente inesista nell' altro non è ripugnante in se stessa, e solo sembra ripugnare a coloro che pretendono giudicare di tutti gli enti da quanto vedono avvenire ne' corpi, i quali sono impenetrabili. Convien dunque lasciare un' ontologia cosí misera e gretta ai soli materialisti. L' esistenza dunque di questa maniera di enti ha per condizione che l' uno, cioè il principio, abbia in sé l' altro come termine opposto. Per tal modo non è piú difficile spiegare l' azione che uno esercita sopra l' altro, perocché consegue da essa che l' uno può agire nell' altro senza uscire di sé medesimo. Il termine agisce nel principio e il principio nel termine: questa è la formula di tutte le azioni degli enti, di cui parliamo. Ma egli conviene che noi dimostriamo come la detta formula comprenda e spieghi tutte le azioni che esercitano fra loro gli enti sintesizzanti. I due primi che ci si presentano sono l' anima sensitiva e il corpo. Se si parla di un corpo animato, anima e corpo sono appunto principio e termine, costituiscono quell' essere completo che si dice animale. Il corpo è nell' anima e l' anima è nel corpo a quel modo che abbiamo spiegato. Qui non v' ha dunque alcuna difficoltà a spiegare la loro mutua azione. Ma i corpi agiscono anche fra loro. Un corpo esterno anche inorganico agisce sul corpo vivente, e modifica il termine del principio sensitivo cioè dell' anima: l' anima sente la mutazione violenta del suo termine. Del pari l' anima modifica il suo termine, ed anche lo muove, e col muoverlo lo accosta ai corpi esteriori e li modifica. Anche questa operazione dell' anima è spiegata, perché si esercita immediatamente sul proprio termine che è il corpo animato. Ma rimane a spiegare come un corpo agisca sull' altro. L' azione d' un corpo sull' altro è duplice. L' una è meccanica, quella che viene prodotta dal moto locale, quando i corpi in moto si urtano. L' altra è fisica, tendente all' organizzazione. Queste due maniere di azione, sono un fatto innegabile dato dall' esperienza. Ma la causa è data dall' esperienza solo in parte, cioè rispetto a que' movimenti che dipendono dal principio sensitivo. A conoscere adunque totalmente la causa de' movimenti altra via non ci resta se non il ragionamento dialettico trascendentale, che dovrà investigar due cose: 1) se la spiegazione de' movimenti che si scorgono ne' corpi si possa avere ponendo altri principŒ animali, fuori della nostra esperienza, che li producano; 2) se questi non bastando, si debba ricorrere ad un altro principio di moto. E nel vero tutto ciò che noi conosciamo ne' corpi tiene natura di termine. Ma tutto ciò che appartiene al termine del principio sensitivo, per la natura appunto che ha di termine, è inerte, passivo, ricevibile, e non piú. La forza dunque suppone un principio attivo e soggettivo. Se dunque là dove è il termine si manifesta una forza, questa non si può attribuire al termine quasi a subietto di essa (1). Con questo abbiamo veduto che oltre il termine corporeo deve esistere un principio corporeo trascendente che spieghi quella attività che si mescola col termine stesso. Or noi abbiamo altrove indagato quale possa essere questo principio attivo, ed abbiamo trovato il sistema degli atomi animati «( Psicologia , 500 7 553, 666, 667) ». Il qual sistema è sufficiente a spiegare il moto organico de' corpi animati. Ma è egli sufficiente a spiegare ogni attrazione, da quella degli atomi fino a quella de' corpi celesti? Finalmente il principio animale preso come causa di moto non ispiega la natura stessa del moto, ma la suppone. Quant' è dunque alla natura del moto, per cominciare da questa ricerca fondamentale, noi crediamo 1) che i corpi non fanno che ricevere il moto, e però non ne sono mai la causa, 2) che il moto è realmente discontinuo, e continuo solo fenomenalmente. La tesi del moto discontinuo conduce necessariamente a distinguere il moto fenomenale dal moto reale, a quel primo rimanendo la continuità e la traslazione della materia, e questo secondo riducendosi ad essere un avvenimento pel quale accade, che la materia si rende sensibile in una serie di luoghi successivi di cui niun senso può percepir la piccolissima distanza. Il che è difficile ad intendere solo a coloro che non pervennero a formarsi il giusto concetto della spiritualità dell' anima; ma la considerano piuttosto come un punto dello spazio; nel qual modo di considerarla ella deve trovarsi sempre in un dato posto dello spazio medesimo. All' incontro il vero si è ch' ella è immune affatto dallo spazio, e per conseguente è immune altresí da' suoi limiti; e di piú, tutto lo spazio semplice ed immisurato è in lei come suo termine, di che procede ch' ella abbia una perfetta indifferenza ad un luogo anziché ad un altro. Ma il suo termine materiale all' opposto occupa sempre una parte determinata dello spazio, e perché ella agisce in questo suo termine, pare che anch' ella sia determinata ad un luogo. Ora, se noi supponiamo che la causa prossima di questo termine materiale sia in parte l' anima stessa, in parte, come abbiam detto, un' altra sostanza spirituale, sicché l' azione di queste due sostanze spirituali concorrano a produrre il termine materiale, sarà facile ad intendere come queste possano assegnargli successivamente colle loro azioni diversi luoghi nello spazio, essendo loro indifferente un luogo o l' altro dove estrinsecare la loro azione. Ma ciò non basterebbe a spiegare perché il corpo nel suo movimento prenda una serie successiva di luoghi cosí vicini l' uno all' altro, specialmente che l' anima umana che a sua volontà può muovere il proprio corpo non è consapevole d' imporgli ella stessa una tal legge. E` dunque da considerare oltracciò, che l' anima umana riceve dal di fuori il suo termine, e ch' ella in quant' è sensitiva concorre a produrlo soltanto rispetto al fenomeno, ma non rispetto all' attività ed alla forza, verso la quale ella è passiva. Quest' attività dunque e questa forza dipende dall' altra sostanza, e da questa dee venir pure principalmente la legge del moto, che appar continuo a cagione della somma vicinanza de' luoghi in cui la materia si rende sensibile all' anima umana. Nel qual sistema né pur si perde, a cagione del moto, l' identità de' corpi, quell' identità, dico, che si può loro attribuire, e che lor viene da tutti attribuita. E qui si avverta bene che dalla tesi, « il corpo, che si muove, trovarsi successivamente in una serie di luoghi vicinissimi »procede che i diversi spazŒ da lui successivamente occupati abbiano una piccola distanza fra di loro, ma non già che per questo debba avervi necessariamente intermittenza nelle azioni delle sostanze spirituali che concorrono a porre il corpo successivamente, perocché il loro operare può essere immune dal tempo. Nulla di meno dandoci l' esperienza che il movimento del corpo impiega tempo, è da dire ch' egli nel suo movimento faccia delle piccole more in ciascun luogo in cui si pone, e che le sostanze spirituali che lo pongono, specialmente il principio corporeo onde viene la forza corporea, abbisogni d' uno sforzo per traslocarlo, il quale sforzo impieghi qualche tempo ad ottener l' effetto. Ma si può credere che questo sforzo che trasloca il corpo sia un' azione diversa da quella che lo fa essere. Questa seconda azione assegnerebbe la direzione alla prima, e potrebbe essere intermittente e consistere in uno sforzo bisognevole di qualche tempo ad ottenere l' effetto. E cosí facilmente si avrebbe in parte la spiegazione alla prima classe di azioni che si attribuiscono a' corpi, cioè la spiegazione della comunicazione del moto d' un corpo all' altro per via di percussione. Il corpo è termine di due principŒ, l' uno straniero che è l' anima, l' altro proprio che è il principio corporeo. Questo termine occupa una porzione dello spazio, e lo spazio è di natura immobile, e quindi una porzione di spazio non può essere trasportata in un' altra porzione, il che involge contraddizione colla natura dello spazio stesso. Se dunque ogni corpo ha bisogno di una data porzione di spazio, due corpi di egual grandezza debbono avere bisogno di due porzioni uguali dello spazio, e non possono stare entrambi in una porzione sola, ripugnando questo alla legge che ogni corpo occupa una porzione dello spazio. Quindi procede l' impenetrabilità de' corpi, che non è altro che questa stessa legge. Qualora dunque una porzione di spazio sia occupata da un corpo, il principio corporeo non può in questa stessa porzione porvene un' altra; di che nasce che se quell' attività che presiede al movimento de' corpi, e che è diversa dall' altra attività che li pone in essere, operando in questa seconda produce il movimento di due corpi in tal senso che tutti e due i corpi tendano ad occupare lo stesso luogo, nasca necessariamente un urto fra loro, l' effetto del quale urto sia appunto la comunicazione del moto. Le leggi della quale si riducono tutte a questa, che « la quantità totale del moto, nella stessa direzione, de' due corpi che si urtano, sia, dopo la percossa, uguale a quella che era prima ». Qui si dimanderà se quella attività che determina il moto, e quella attività che pone il corpo in essere appartengano entrambe ad uno stesso principio. - Io credo evidente che appartengano a principŒ diversi. Ed anco in generale si può dimostrare la necessità che intervengano due principŒ, non potendo lo stesso principio avere due attività che vengano in una cotal lotta fra loro. E nel vero, l' attività che pone in essere il corpo in un luogo dello spazio, tende o a mantenervelo in quiete, o a mantenerlo in moto equabile indifferente all' uno o all' altro stato; onde acciocché il corpo si faccia passare dalla quiete al moto, o dal moto alla quiete conviene che intervenga un' altra cagione. Conservando noi dunque la denominazione di principio corporeo a quello che pone i corpi, chiameremo l' altro in generale principio del moto , e la questione si ridurrà a cercare: « qual sia il principio del moto ». Ora investighiamo: « se il principio corporeo sia un solo per tutti i corpi, ovvero tanti quanti sono i corporei elementi ». A noi pare dover essere vera questa seconda sentenza. Or questa pluralità di principŒ corporei è quella che finisce di spiegare il fatto singolare dell' urto de' corpi, che rappresenta la lotta di piú principŒ e non l' operazione di un solo. Di che viene questa singolar conseguenza, che l' urto de' corpi esprime la lotta di due spiriti che finiscono col mettersi in accordo. I corpi sono enti7termine: l' azione apparente de' corpi fra loro si manifesta negli enti7termine, cioè nei corpi, ma l' azione appartiene sempre al principio, il solo principio è il soggetto dell' azione; tuttavia l' azione si manifesta nel termine perché nel termine risiede il principio, e però avviene che l' azione sembri propria del termine. Il che spiega la volgare opinione che i corpi sieno attivi l' uno sull' altro. Noi poi sappiamo dalla propria consapevolezza, che l' anima muove e modifica il corpo animato. Cosí ci è data dall' esperienza un' azione del principio sopra il termine straniero: in questo fatto noi percepiamo l' azione congiunta al principio; laddove nell' azione de' corpi fra loro non ci è data che l' azione divisa dal suo principio e stante da sé, onde noi siamo costretti dalle leggi del pensiero, cioè dal principio di cognizione, di aggiungerle un subietto incognito e indeterminato, ma pure un subietto, perché altrimenti non potremmo pensare quell' azione, e qui si ferma il pensar comune. Ma sopravvenendo la scienza con ragionamento dialettico, quel subietto volgare e comune, che gli uomini generalmente aggiungono all' azione de' corpi, si cangia in un vero ente sensitivo trascendentale, in un ente principio come abbiamo veduto. Negli enti sintesizzanti adunque ogni azione si riduce all' azione de' principŒ fra loro; ma quest' azione da noi si percepisce in due modi: o divisa dal principio che la produce, quando il principio si nasconde alla nostra esperienza, ond' egli dicesi trascendente perché non si rinviene da noi se non facendo uso del pensiero dialettico trascendente; o unita al principio stesso che la produce e n' è il soggetto, come accade delle azioni che esercita l' anima nostra sensitiva sul nostro corpo, e allora il principio dicesi esperimentale. Ora l' azione divisa dal suo principio e ricevuta da un altro principio, nel caso nostro dall' anima, come termine straniero, è ciò che costituisce la realità del termine stesso, ed è in questo senso che noi abbiamo posto l' essenza de' corpi nella forza, intendendo per forza un' azione7termine divisa dal suo principio. Quindi apparisce in che maniera gli enti7principio agiscano fra di loro senza immedesimarsi. Gli enti sono atti; ma gli atti sono di due maniere che i metafisici usarono chiamare primi e secondi. Gli atti secondi sono contenuti virtualmente negli atti primi, i quali costituiscono l' essenza dell' ente. Ora se gli enti7principio agissero tra di sé cogli atti primi, avverrebbe la loro immedesimazione, perché sarebbero i principŒ stessi che si unirebbero come principŒ. All' incontro, operando fra di loro soltanto con gli atti secondi, non s' identificano, ma solo si congiungono co' loro termini, e accade che quello che è atto secondo di un ente diventi termine straniero dell' altro reciprocamente. Cosí si spiega la generazione degli enti termini e l' azione reciproca degli enti sintesizzanti. La quale azione all' esperienza nostra si manifesta in un modo piú o meno completo. L' azione adunque degli enti sintesizzanti si può considerare sotto tre aspetti diversi: o come azione de' termini fra loro , o come azione reciproca fra un principio e il suo termine straniero , o come azione de' principŒ fra loro . Quest' ultima maniera di considerarla è la piú completa e dialettica; le due prime sono necessarie all' uomo a cagione dell' imperfezione e della limitazione del suo conoscere esperimentale, e relativo. Conviene altresí distinguere nella comunicazione degli enti sintesizzanti ciò che spetta all' azione costituente da ciò che spetta all' azione modificante . L' azione costituente è quella per la quale sono uniti e reciprocamente posti in essere; l' azione modificante è quella per la quale il termine si modifica restando però sempre unito al principio straniero. Nell' ordine degli enti sensitivi la modificazione del termine non procede se non dall' anima, che è il principio straniero del corpo, o dalla natura del corpo stesso; questi due enti sono quelli che obbligano il principio corporeo a modificare in certi casi la propria azione. Ma niente vieta che v' abbiano degli altri ordini di cose, degli altri enti sintesizzanti dove apparisca la libera e spontanea azione dei due principŒ, e certo poi ciò si scorge avvenire almeno nell' ordine dell' intelligenza soprannaturale; dove i lumi superni come termine oggettivo dello spirito variano e si ammodano non per virtú dell' anima che li riceve, né perché l' uno impedisca l' altro come i corpi, ma per l' azione spontanea e libera del loro principio proprio, che è Dio. Del rimanente, la spontaneità stessa dell' anima sensitiva non è un principio libero; anzi è determinato dalle sue proprie leggi. Queste fanno sí che l' anima sia propensa ed inclinata ad avere il corpo, suo termine, costituito in un dato stato, il quale è « lo stato piú piacevole e ch' ella può ottenere coll' operazione sua piú piacevole ». Di che si raccoglie che vi hanno nell' anima certi atti connaturali, e sono quelli ch' ella fa per arrivare alla condizione immanente a cui aspira, e degli atti opposti alla sua natura e alla sua spontaneità, ai quali è mossa per una violenza esterna. Or si rifletta che ogni percezione parziale che l' anima fa in conseguenza di una forza esterna che modifica il suo corpo, nasce da violenza , perché ella è parziale, laddove l' anima tende ad una condizione universale ed armonica del suo organismo. Quindi quella violenza esterna che modifica il suo corpo suscita in lei una nuova attività spontanea tendente a mettere tutto l' organismo in armonia colla nuova modificazione parziale ricevuta nel suo corpo. E quindi si manifesta la ragione, 1) perché l' azione costituente non è mai violenta, essendo universale e connaturale all' anima (eccetto se intervenisse il caso d' un' affezione morbosa), ed è l' anima stessa che spontaneamente la riceve e la produce; 2) perché l' azione modificante , veniente da cagione esteriore, come quella che è parziale, presenti il concetto della violenza , la quale però è piacevole se suscita nell' anima un' attività connaturale volta a restituire una migliore armonia in tutto il corpo animato, spiacevole poi se non presta occasione a questa nuova armonia. Onde nelle percezioni vi ha sempre violenza, non però sempre spiacevolezza, anzi diletto ove non dissipino l' armonia, ma la migliorino. Diamo ora un' occhiata al sintesismo del corpo, del senso e della intelligenza umana affine di conciliare insieme certe sentenze qua e colà da noi stessi pronunciate, che sembrerebbero discrepanti. Il corpo esterno al nostro sintesizza col nostro per la virtú che ha di mutarlo, onde nasce la sensazione organica. Rimossa l' azione del corpo esterno sul nostro organo sensorio, ne rimane il fantasma o l' attitudine di riprodurlo. Quando si pensa il corpo si pensa ciò che ha operato nel nostro organo sensorio, lo si pensa nell' atto di questa operazione: perocché l' atto, quantunque passato, riman presente all' intelligenza che non conosce prima né poi. Quindi è che tutto il concetto che noi abbiamo dei corpi è concetto che ce li fa conoscere nell' atto della loro operazione sopra di noi, e però nell' atto pel quale sintesizzano con esso noi. E poiché il concetto che abbiam delle cose racchiude la loro essenza a noi intelligibile che è quella a cui diamo il nome, nel caso nostro il nome di corpo, e sulla quale formiamo poi la definizione della cosa; perciò la cosa espressa dalla parola corpo acchiude una relazione sintetica con noi, cioè col nostro sentire; e però la cosa espressa dalla parola corpo non esiste piú se sopprimiamo uno dei due termini di tal relazione sintetica; tolto via adunque il principio sensitivo è tolto via anche il corpo. Rimane a vedere qual sia il sintesismo coll' intelligenza. Gli atti dell' intelligenza ossia le cognizioni sono di due maniere, oggettive e soggettive. Le cognizioni puramente oggettive sono le intuizioni, per le quali si contemplano le cose nella loro essenza e di conseguente nella loro mera possibilità. Or queste intuizioni hanno per oggetto o il solo essere senza determinazioni, ovvero l' essere con determinazioni, p. es. l' essenza del corpo. In questo secondo caso l' intelligenza ha bisogno di prendere dalla realità, e per conseguente dal senso, le determinazioni. Or queste determinazioni non potrebbe pensarle come possibili se il senso non gliene presentasse un esempio , che è appunto quello che da lei viene universalizzato. E qui comincia una prima sintesi fra l' intelligenza e il senso, di modo che non si può pensare un determinato possibile, se questo primo determinato non è innanzi dato dal senso. Non è già che il senso porga questa copia all' intuizione intellettiva; ma mentre le sta presente la copia, ella non vede la copia, ma l' esemplare; per quella legge che abbiamo di sopra dichiarata che ogni agente opera secondo la propria natura. Si dirà che per spiegare questo fatto converrebbe supporre che l' ideale e il reale avessero qualche cosa di comune. E la cosa sta appunto cosí; perocché l' essere reale e l' essere ideale hanno di comune o per meglio dire d' identico l' essere, di cui quelle sono forme categoriche. Ciò che rende a molti difficile intendere questa dottrina si è che essi non arrivano a capire che il reale e l' ideale non è disgiunto per se stesso, ma soltanto per la limitazione nostra e per la disgiunzione delle nostre facoltà, per la qual disgiunzione accade che una delle nostre facoltà, cioè il senso comunichi colla sola forma reale, e quindi ci sembri che il reale si stia da se stesso come cosa compiuta; e l' altra nostra facoltà cioè l' intuizione comunichi colla sola forma ideale, e quindi ci sembri che l' ideale pure stia da sé del tutto separato e segregato dal reale. E qui ci sembra utile cosa di toccare alquanto di quelle questioni che agitarono gli scolastici circa le relazioni reali delle cose. Il fiore di quanto insegnarono le scuole ci par contenuto in questo luogo di San Tommaso: [...OMISSIS...] . Nel qual luogo vi hanno piú verità importanti. E da prima la sentenza che: [...OMISSIS...] , esprime benissimo la natura del reale oscura e inintelligibile per se stessa, dividendosi cioè coll' astrazione dall' intelligenza, quindi bisognosa di trovarsi congiunta coll' ideale acciocché possa essere intesa. Di poi in quelle parole: [...OMISSIS...] , si ha la conferma di quel vero che noi dicevamo che ogni principio opera secondo la propria natura, e però che l' azione del corpo su di noi, è totalmente diversa dall' azione del principio sensitivo che ne è l' effetto. Ma dopo di ciò quella sentenza che la cosa sensibile e intelligibile sia fuori dell' anima, e però non venga tocca dall' atto del principio sensitivo, né da quello del principio intellettivo, esige la debita distinzione, né ella è vera se non limitatamente. Poiché il corpo sensibile si può considerare o nell' atto stesso in cui è unito all' anima e con esso lei sintesizza, ovvero quando si pensa da noi come separato dall' anima. Il corpo nostro sta sempre unito all' anima nostra e con esso lei sintesizza finché dura la vita; egli agisce continuamente nel principio sensitivo, e il principio sensitivo in lui. E` però vero che l' azione della causa ha un modo totalmente diverso dall' effetto, e questo dimostra che sono due nature diverse, due enti affatto diversi; e però la relazione è scambievole: solo si dee dire che questa relazione è formata da due relazioni unilaterali, perché il corpo non è all' anima in quel modo stesso nel quale l' anima è al corpo. Cosí pure, se si considera quella virtú dell' anima intellettiva che muove il principio sensitivo ad operare nel suo termine corporeo, nel tempo in cui essa è in atto, vi ha congiunzione sintetica fra l' intelligenza, il senso ed il corpo; quando poi quella virtú intellettiva non è piú nel suo atto, ella ritiene ancora la congiunzione sintetica o piuttosto l' identificazione col principio sensitivo, ma non immediatamente col corpo. Lo stesso è da dirsi della facoltà dell' intuizione. Or poi se si parla de' corpi esteriori al nostro (a cui soltanto ha posto mente l' Angelico nel luogo allegato), anche questi o si considerano nell' atto in cui sono al nostro congiunti; ovvero si considerano allontanati intieramente da' nostri sensi. Nell' atto stesso in cui essi operano sui nostri sensori, essi sintesizzano con noi mediante il corpo nostro, le cui impressioni da noi sentite diventano segni della loro esistenza, e si prendono altresí quasi cotali rappresentazioni fenomeniche di essi. Ma quando poi i corpi esterni si considerano nel tempo in cui sono rimossi al tutto dal corpo nostro, sono rispetto a questo modo come se non fossero. Non si può dunque dire nell' ordine meramente extrasoggettivo del senso che sieno fuori dell' anima, ma soltanto che non sono nell' anima. Ma l' intelligenza li pensa ancora. Li pensa tali quali erano quando si trovavano nell' atto di agire sull' anima, li pensa con quell' essere che avevano allora come sintesizzanti. Solamente che l' intelligenza con un altro atto si accorge che questi esseri sintesizzanti erano tali per il passato, e che al presente non operano piú sull' anima. Ma la facoltà di predicare il presente o il passato degli enti corporei è diversa dalla facoltà della rappresentazione. Egli è ancora un terzo atto dell' intelligenza, un' altra affermazione dell' anima, quella con la quale l' anima si persuade che esistano al presente i corpi esterni, quantunque rimossi da lei e nulla affatto su di lei operanti. Ella si persuade che esistano perché solitamente è propria dell' ente la permanenza, e ci vuole una ragione per dire che un ente ha cessato di esistere. Ora l' anima non ha poi trovato alcuna causa che li facesse cessare d' esistere. Di che la ragione è questa, che l' intelligenza nostra non percepisce la causa immediata de' corpi cioè il principio corporeo, e però non sa se questa causa continui o cessi di agire. Ma ella suppone che continui ad agire, essendo, come dicevamo, propria dell' ente la perennità e l' immanenza (9). Intendo per enti coordinati quelli che sono della stessa specie. Non abbiamo nessun esempio datoci dall' esperienza di enti coordinati che agiscano immediatamente fra loro, eccetto quello dei corpi che si percuotono e si comunicano il movimento. L' azione di un' anima sull' altra non è puramente immediata, poiché l' un' anima adopera il mezzo de' corpi per agire nell' altra, o agisce investita ne' corpi. I segni stessi che servono di comunicazione fra un' anima e l' altra sono sensibili e corporei. Or come accada l' azione reciproca de' corpi fu da noi già discorso favellando dell' azione degli enti sintesizzanti. Se poi ci possano avere altri enti principŒ coordinati i quali agiscano fra di loro immediatamente, né li possiamo affermare, né negare; non involgendo tale supposizione contraddizione manifesta, benché l' esperienza nulla affatto ce ne riveli. Dall' azione sintetica di cui abbiamo fin qui ragionato conviene distinguere l' azione ontologica , che si manifesta negli enti ontologicamente subordinati. Vi hanno due maniere di azioni ontologiche rispondenti a quelle due maniere di azioni sintetiche, che abbiamo chiamate costituenti e modificanti; trattiamone separatamente. L' esperienza non ci fa spettatori di questa maniera d' azioni, ma ci porge de' fatti, da' quali il discorso dialettico trascendentale vi ci conduce; né esse involgono contraddizione, e sono necessarie a spiegare i fenomeni che ci presenta il mondo. E poiché mediante l' azione ontologica rimane spiegata l' origine degli enti relativi, ci bisogna prima toccare della natura di questi enti relativi non mentali o ideali, ma reali. Il che faremo riassumendo il detto in forma di tesi e di corollari. Tesi I - L' ente reale è costituito dal sentimento. Tesi II - Si danno degli enti reali che sono principio di sentimento, e degli enti reali che sono termine di sentimento. Tesi III - L' ente7principio è incompleto se si separa dal suo termine, ma completo in se stesso se a questo congiunto: l' ente termine è incompleto tanto se si separa dal suo principio, quanto se sta unito ad un principio straniero. Tesi IV - L' ente7principio relativo è costituito dalla limitazione ontologica del sentimento. Tesi V - La limitazione ontologica degli enti relativi è di due maniere: l' una nasce dalla limitazione del termine, e l' altra dalla limitazione del principio. 1) Dalla qual tesi viene il corollario, che se vi avesse un ente il cui termine fosse infinito, e questo non gli fosse straniero, ma proprio, quest' ente sarebbe Dio. 2) Se ne cava anche il giusto concetto della limitazione ontologica, che è quella che fa sí che un ente non sia l' altro, e piú in generale quella che costituisce l' ente. Raccogliendo ora ciò che abbiam detto, possiamo definire in che precisamente consista la limitazione ontologica. Ella consiste nel principio non già separato dal suo termine, ma nel principio unito al suo termine, da questo posto in atto e individuato. Dove è da osservare, che il principio dal termine acquista un' attività che non aveva prima, venendo suscitata e posta in essere la sua attività. Ma l' atto primo di quest' attività suscitata e posta in essere è virtuale rispetto agli atti secondi, di maniera che il principio suscitato ed individuato, oltre essere un atto primo, è una prima potenza o virtú agli atti secondi. E questa prima virtú o potenza non è già conseguente all' atto primo, ma è lo stesso atto primo, il quale è anche virtú o potenza. Quindi il sentimento della prima potenza o virtú è l' elemento sostanziale dell' individuo, è quello che lo costituisce un ente distinto dagli altri enti, è ciò che v' ha nell' ente di immutabile; laddove il sentimento degli atti secondi è ciò che vi ha nell' ente di mutabile. Tesi VI - Ripugna che piú enti coordinati abbiano un termine identico. Tesi VII - Non ripugna che il medesimo termine sia straniero rispetto a un principio, e proprio rispetto ad un altro; ma in tal caso la medesimezza del termine non esiste se non in astratto, e per rispetto alla pura realità; laddove relativamente ai due principŒ egli è un termine diverso. Tesi VIII - Essendo il principio individuato di un ente relativo un sentimento di limitazione, se vi avesse un altro principio il cui termine contenesse tutto ciò che contiene il termine di quello e qualche cosa di piú, ciò non ripugnerebbe, e l' identità parziale dei termini non esisterebbe che in astratto, e per rispetto alla pura realità. Tesi IX - Il principio che ha un termine finito straniero, e il principio che ha lo stesso termine come proprio, sono due enti relativi finiti. Qui può nascere la domanda, se fra l' essere che ha il termine proprio e l' essere che ha il termine straniero vi abbia necessariamente non solo azione del primo sul secondo, ma ben anco reazione del secondo sul primo. E rispondiamo che questa azione e reazione o reciprocità d' azione non è assolutamente parlando necessaria, giacché ella è cavata da un' osservazione e ristretta a ciò che accade in alcuni fenomeni de' corpi (1). E certamente nell' unione del soggetto coll' oggetto non tiene una tal legge, perocché l' oggetto (l' idea) non è suscettibile di passione alcuna. Ma né anche nell' ordine della realità si può dimostrare che dove vi ha un' azione, ivi debba essere anche una reazione. In fatti le azioni del tutto interne di un ente non hanno propriamente reazione, né azione contrapposta. Finalmente né anche dove si scorge azione e passione, la quale trovasi nell' ordine delle cose reali finite, non è necessario che vi abbia sempre reazione, ossia azione reciproca. Tesi X - Come abbiamo veduto che quell' ente che ha un termine straniero può avere nel suo seno altri enti, ciascuno dei quali abbia per termine una parte del termine totale, purché questa parte costituisca un tutto perfettamente armonico ed uno; cosí non ripugna, che quell' ente che ha un termine proprio abbia nel suo seno altri enti aventi un termine proprio, porzione del termine totale, purché questa porzione costituisca da sé sola un tutto armonico e perfettamente uno. Quindi, se quella che presentemente si conosce come potenza di un ente potesse venir separata dal suo soggetto e stare da sé, incontanente ella stessa diverrebbe un soggetto, rimarrebbe una virtú che avrebbe natura di ente principio, di sostanza. E viceversa, se quella che presentemente è la virtú prima di un ente, divenisse la virtú seconda, venendole aggiunta una virtú anteriore come suo principio, egli cesserebbe d' essere un ente, un soggetto, perderebbe la propria individuazione, non sarebbe piú un principio individuato, né una sostanza; ma bensí una mera potenza di un altro soggetto, perdendo la sua limitazione ontologica. Tesi XI - Se si tratta di un ente maggiore che ha un termine proprio, l' ente minore non può nascere nel suo seno se l' ente maggiore non è intelligente e volitivo, e non lo suscita con un atto pratico della sua volontà. Tesi XII - L' ente che ha un termine straniero non può esser la cagione efficiente di quelli enti minori che sorgessero nel suo termine, ma la cagione efficiente di essi vuole essere il principio proprio del termine straniero, benché il principio straniero possa contribuirvi indirettamente. Tesi XIII - L' ente minore relativo, originato dall' azione ontologica costituente, non può avere un termine del tutto proprio, ma deve avere un termine straniero. Tesi XIV - L' ente intellettivo finito è creato immediatamente da Dio. Abbiamo detto che due sono le limitazioni ontologiche degli enti relativi e finiti: l' una nascente dal loro termine limitato, l' altra dall' estraneità del principio. Or nell' ente intellettivo il termine è l' idea, la quale è infinita. Questa dunque non può esser data che dall' infinito medesimo, cioè da Dio. Quindi l' origine dell' ente intellettivo finito deve ripetersi immediatamente da Dio. La sua limitazione nasce dall' essere questo suo termine a lui straniero. L' ente puramente intellettivo è quello che non ha alcun altro atto fuori che l' intuizione dell' idea. Il sentimento di questo ente è tutto oggettivo perché abita nell' idea. In che consiste adunque la sua limitazione ontologica? In questo, che non ha sentimento di alcuna realità. Che altro non sente se non l' idea. Questo sentimento purissimo dell' idea è una limitazione massima. Qui dunque l' azione ontologica costituente si ridurrebbe ad un' azione, per la quale Iddio distingue mentalmente in se stesso il sentimento della pura idea dal sentimento suo proprio, che è il completo sentimento di se stesso, e con atto libero fa sí che il sentimento della pura idea, distinto colla sua mente, sia anche isolatamente preso, e questo sentimento isolato, diverso totalmente dal divino (sentimento d' isolamento e di estrema limitazione), è l' ente intuitivo finito, da Dio in tal guisa creato. Tesi XV - Se l' ente principio ha un termine straniero finito, allora l' ente principio straniero e l' ente principio proprio devono avere un' origine contemporanea. La costituzione dunque degli enti relativi si fa per un' azione, che esercita un ente principio sul suo termine proprio. Ella esige che in questo termine proprio l' ente principio possa distinguere mentalmente qualche porzione, che, considerata da sé, ha unità ed armonia. La qual divisione puramente mentale non potrebbe farsi senza che il principio che la fa sia intelligente. Ma posciaché una parte del termine proprio divisa soltanto mentalmente non è meno realmente unita al tutto, e neppure si può chiamare parte reale di lui, perocché non vi ha neppure da lei col tutto una distinzione reale; perciò un nuovo ente reale non si origina con questo solo, ma è necessario oltre a ciò di supporre, che il principio che lo produce eserciti un' attività, la quale sia volontaria , come quella che opera dietro l' indirizzo della intelligenza, e sia libera , perché quest' azione non è necessaria all' ente principio operante, e non si racchiude nel concetto che n' esprime l' essenza. Ora quest' atto di libera volontà consiste nel far sí che in quella parte che fu distinta mentalmente nel suo termine proprio, e che è dotata di sentimento e di vita perché tutto il termine è sentimento e vita, nasca un sentimento proprio d' isolamento e di limitazione, il quale non s' estenda a tutto il termine, ma, racchiuso in sé, diventi egli stesso un sentimento uno ed armonico. E questo sentimento di limitazione è il nuovo ente individuato surto nel seno dell' ente maggiore, a cui come a sua radice s' attiene, in quanto alla realità pura scevra di sentimento e di cognizione, onde l' ente minore non può sentire né conoscere per se stesso l' ente maggiore. E posciaché in ogni sentimento vi è attività, se questo sentimento è unico ed armonico, l' attività si accentra ed unifica, prendendo la denominazione di ente principio. Attesa questa costituzione degli enti relativi, non è piú gran fatto difficile a dichiarare la natura dell' azione ontologica modificante, e a conciliare l' azione dell' ente maggiore coll' azione dell' ente minore. E veramente, come vi hanno due enti subordinati, il maggiore e il minore, cosí vi hanno pure due cause subordinate, due virtú, due azioni. L' ente maggiore colla sua azione ontologica costituente: 1) limitò il termine uno ed armonico; 2) fece sí che questo termine avesse il sentimento della propria limitazione e del proprio isolamento. Queste due cose che coll' astrazione da noi si dividono, propriamente non ne formano che una, e l' azione costituente è un atto solo, la limitazione del sentimento. Perocché il sentimento è termine ad un tempo e principio, secondo che si considera come finiente o come cominciante, in quanto è senziente o in quanto è sentito. Ogni sentimento ha queste due faccie, e se non le avesse non sarebbe sentimento. Or è da considerarsi che il sentimento della limitazione ontologica che costituisce un ente relativo, è un sentimento primo, il quale virtualmente contiene molti sentimenti secondi, che sono gli atti secondi ne' quali egli si sviluppa. Questi atti secondi non mutano il sentimento primo; ma mentre a principio li conteneva soltanto virtualmente in istato d' indistinzione, poscia li contiene anche in istato di distinzione. Il trovarsi di tali atti secondi nell' atto primo, virtualmente o attualmente, non muta la limitazione ontologica dell' ente. Tuttavia, benché l' ente rimanga identico, il suo modo si muta per gli atti secondi. Qui nasce dunque la questione, qual parte abbia l' attività dell' ente maggiore negli atti secondi dell' ente minore; e quella parte che vi ha l' ente maggiore si dice azione ontologica modificante. Ma qui è da osservare, che agli atti secondi di un ente limitato e finito concorre altresí qual causa l' azione sintesizzante. Nella Psicologia noi abbiamo trattato a lungo di quest' azione. Noi ci riferiamo in questo punto a quello che abbiamo colà ragionato. Ma perciocché gli enti sintesizzanti hanno bisogno di un ente superiore che li costituisca; perciò al di sopra dell' azione sintesizzante sta l' azione ontologica, e non solo quella che abbiamo chiamata costituente, ma ben anco quella che abbiamo chiamata modificante. L' azione ontologica costituente non fa, a dir vero, se non porre in essere il sentimento limitato che costituisce la natura dell' ente minore e prodotto. L' azione sintesizzante da principio è ella stessa un atto primo, e però una virtú rispetto agli atti seguenti. Ma il sentimento limitato e isolato non può esser posto se non col suo modo, perocché un sentimento privo del suo modo di essere non è piú che un astratto. Quindi l' azione ontologica costituente involge di necessità l' azione ontologica modificante, il che si prova cosí: l' azione costituente continua altrettanto quanto continua l' ente, ha natura di azione immanente come l' ente stesso è un primo atto immanente. Ma essa pone non solo l' ente, ma anche il modo dell' ente. In ogni istante dunque essa pone l' ente con quel modo che egli ha in quell' istante. Ma in quell' istante che l' ente sta per fare l' atto secondo, o che lo ha già fatto, il suo modo è costituito anche dall' assetto in cui si trova nell' atto secondo. Dunque l' azione costituente pone l' ente in quell' assetto o in quell' atto secondo; e in quanto pone tali svolgimenti dell' ente ella dicesi modificante. Ma negli enti sintesizzanti l' un ente è determinato all' atto secondo da una mutazione che nasce nel suo termine straniero e questa mutazione immediatamente è prodotta dall' azione del principio proprio del termine straniero. L' azione ontologica modificante adunque non agisce direttamente nel termine straniero, ma agisce prima nel principio proprio di questo termine, e cosí venendo questo principio a cangiare il modo della sua attività, questa attività cangia il termine straniero, e pel cangiamento del termine straniero anche il principio straniero cangia il modo della sua attività. Ma questo cangiamento suppone l' azione ontologica che pone in un altro modo il principio straniero. L' azione ontologica adunque opera in tutti e due i principŒ, ma in modo che le modificazioni de' due principŒ si corrispondono armonicamente. La virtú poi de' singoli enti sintesizzanti ha questo limite, che ella non può svolgersi agli atti secondi se non ne riceve lo stimolo dal suo termine, e quindi rimotamente dall' azione dell' altro ente principio che sintesizza con esso. Onde, data quest' azione stimolante, l' ente principio si modifica. Ma l' azione stimolante non è ancora la modificazione dell' ente principio individuato nel proprio sentimento, ma è un atto che si fa nella realità pura, la quale è base e radice de' due individui, ma non è gl' individui stessi, ond' essa è anteriore di concetto al sentimento individuato. Tuttavia l' azione dell' ente individuato, s' estende col suo effetto alla realità pura nella quale egli è radicato, e nella quale è pur radicato l' ente con esso lui sintesizzante, e la realità pura che riceve quest' azione la comunica all' altro ente, che ella ha pure nel suo seno. L' azione adunque ontologica modificante è quella sola che può spiegare l' azione degli enti sintesizzanti fra loro, e anche quella degli enti coordinati; poiché quest' azione non può essere spiegata senza supporre che v' abbia fra essi qualche elemento comune. Ma niente hanno essi di comune, che anzi nell' essere intieramente divisi l' uno dall' altro consiste la loro individualità e la loro natura di enti. Ma la comunicazione esiste tuttavia fuori di essi mediante l' ente maggiore e quella realità, che gli enti hanno per loro base e che tuttavia non è dessi, che appartiene perciò all' ente maggiore, in cui essi stessi gli enti minori sono. Gli enti che cadono nella percezione si riducono a tre generi soli: cioè agl' insensitivi , materia, corpi, enti termini; ai sensitivi , e agl' intellettivi . Gli enti insensitivi, puri termini, non hanno azione propria, come vedemmo, perché l' azione spetta sempre al principio che ne è il soggetto. Rimane dunque che noi qui parliamo degli altri due. Il principio sensitivo considerato in relazione a' suoi atti secondi è una virtú, ossia una potenza determinata, e condizionata soltanto allo stimolo. Posta questa condizione, l' ente sensitivo ha nello stesso sentimento primo che lo costituisce la determinazione degli atti che deve emettere, e questa determinazione è ciò che si chiama spontaneità. Questa attività ch' egli esprime in atti secondi sotto lo stimolo, dimostra che tali atti a lui appartengono come quelli che muovono da lui, cioè da quella virtú prima che li contiene, e che è egli stesso. Or come la virtú prima che è lui stesso è posta dall' azione ontologica costituente, cosí del pari da quest' azione è posta la sua spontaneità e gli atti da lei esercitati ed espressi, rispetto ai quali ella riceve il nome di modificante. Cosí le due cause sono subordinate, l' ente sensitivo è la causa immediata di tali atti, e il suo ente maggiore n' è la causa mediata. Ma la causa immediata è il soggetto di quelli atti i quali sono in lui contenuti, laddove la causa mediata non è il soggetto di quegli atti, perché colla sua azione pone un altro ente diverso da sé, e pone gli atti di questo ente, che perciò non sono atti suoi appunto perché sono atti d' un ente diverso. La causa mediata, cioè l' ente maggiore, è bensí soggetto dell' azione ontologica costituente e modificante, ma non dell' ente prodotto da quest' azione e de' suoi atti; ché non sarebbe ente se appartenesse egli stesso ad un altro soggetto; relativamente a sé egli non appartiene che a se stesso, perocché niente sente fuori di sé, e il suo sentire è il suo esistere. Ma rispetto all' ente intelligente è da farsi una distinzione; poiché o egli non si trova in istato di libertà bilaterale, o si trova in questo stato. Se non si trova in istato di libertà bilaterale, di maniera che tutti gli atti secondi sieno determinati nella sua virtú naturale, o abituale, in tal caso la concorrenza dell' ente maggiore e del minore, cioè la conciliazione della sua propria azione coll' azione ontologica che lo costituisce e modifica, si spiega in modo simile a quello che abbiamo esposto per gli enti meramente sensitivi. Ma grande difficoltà s' incontra a conciliare la libertà bilaterale coll' azione ontologica modificante. Lo scopo del discorso deve esser quello di difendere la libertà bilaterale rispetto alle azioni morali, come quella che è condizione necessaria del merito. L' ente relativo è un sentimento limitato: in quanto è sentimento egli è positivo, e in quanto è limitato egli è negativo. Ma poiché la natura propria di lui consiste nel sentimento della stessa limitazione, perciò la sua natura consiste nel negativo, la limitazione è quella che lo individua, il sentimento solo non lo costituirebbe ancora ente individuo. Quindi la limitazione appartiene a lui solo, e non all' ente maggiore, laddove il sentimento come positivo, astraendo dalla limitazione, non appartiene piú a lui che già piú non esiste, ma all' ente maggiore. Quindi anche nelle operazioni o atti secondi di un tal ente rimangono i due elementi, l' uno che tiene del positivo, e l' altro del negativo. Ora, che tutta la parte positiva dell' azione venga ad un tempo posta dall' ente minore e dall' ente maggiore, a quel modo che abbiamo detto degli enti puramente sensitivi, può ammettersi senza difficoltà; purché la parte negativa dell' azione non riconosca per sua causa se non l' ente minore. E che cosí debba essere, vedesi da questo, che il limite, il negativo, non appartiene punto all' ente maggiore. Dunque né anco gli effetti negativi e limitativi gli possono appartenere. Ma la natura del mal morale consiste appunto nella negazione o privazione, non essendo il male che cosa negativa. Dunque se il bene dell' azione morale esige la concorrenza delle azioni de' due enti il maggiore e il minore, non è da dire lo stesso del male che si trova nelle dette azioni, il quale non può appartenere che all' ente minore come quello che è solo soggetto della limitazione e della negazione. Ma il positivo e il negativo dell' azione è intimamente congiunto, perocché il negativo non è che il limite del positivo: dunque chi è l' autore del positivo, è necessariamente anche l' autore del negativo, come quello che potrebbe porre una quantità maggiore di positivo e cosí rimuovere i limiti. Quest' obbiezione, fortissima in apparenza, altro non prova se non che non ogni limitazione degli enti è accompagnata dalla libertà, non sempre l' elemento negativo è causa di un male libero. La libertà bilaterale non si mantiene già da noi per l' unica ragione che nell' operare dell' ente libero v' abbia del negativo; ma solamente diciamo, che se non v' avesse del negativo non vi avrebbe libertà al bene e al male morale, di maniera che l' elemento negativo è condizione della libertà bilaterale, non è quello che la forma. E in altre parole, non ogni elemento negativo è segno e principio di libertà, ma sí un dato speciale elemento negativo. Rimane adunque che noi vediamo qual sia questa specie di limitazione e di negazione che origina la libertà. La libertà bilaterale, non ci potrebbe essere, se l' ente intellettivo fosse già per sua natura tanto aderente al bene morale, che in niuna maniera si potesse da lui alienare. E questa è già una limitazione e negazione dell' ente libero, non aderire compiutamente e immobilmente all' ordine morale. Ma egli non sarebbe libero neppure qualora aderisse pienamente e immobilmente al male, perocché in tal caso gli mancherebbe fin anco la possibilità del bene. La libertà bilaterale suppone non l' atto ultimato del bene, ma soltanto la potenza di lui, per dir meglio la potenza di eleggere fra lui e il male. La potenza che si riferisce ad atti perfettivi del soggetto è sempre una limitazione, e cosí la libertà bilaterale si fonda nella limitazione, nell' elemento negativo dell' ente libero. La differenza fra questa speciale limitazione che costituisce la libertà bilaterale e la limitazione dell' ente sensitivo che non ha libertà, è degna da perscrutarsi. L' ente sensitivo, considerato in relazione a' suoi atti secondi, è una virtú che li contiene tutti, benché ancora involuti ed indistinti: condizionati altresí allo stimolo. Tutt' altra cosa è la potenza della libertà bilaterale. Perocché gli atti secondi di lei non sono contenuti e determinati in essa, anche dato qualsivoglia stimolo che non la distrugga; potendo essa determinarsi all' atto buono, o al suo opposto il cattivo. Dirò meglio; il suo atto proprio, e come tale contenuto in essa virtualmente, non è altro che l' elezione stessa, e l' elezione è quella che determina l' ente all' atto buono o al cattivo, e perciò essa stessa non è né bene né male, ma soltanto è la causa del bene e del male. L' azione ontologica adunque, che costituisce questa potenza dell' elezione libera, diversissima da tutte le altre potenze, altro non fa se non costituire appunto la potenza del bene e del male né all' uno né all' altro determinata. Questa azione ontologica adunque non toglie, ma forma la libertà. Ora posciaché l' elezione è l' atto proprio della libertà, a cui poi consegue la determinazione e l' adesione al bene e al male; perciò, quando l' azione ontologica pone l' ente libero nell' atto dell' elezione (e allora dicesi modificante), non determina l' uomo al bene o al male, ma solamente il pone nell' atto di eleggere l' uno o l' altro. Or quest' atto di eleggere altro non è che la stessa libertà in atto, a cui la determinazione al bene o al male conseguita in appresso come suo effetto. Cosí l' azione ontologica o costituente o modificante non pregiudica in modo alcuno alla libertà in potenza o in atto, che anzi è quella che le dà l' essere. Fatta poi l' elezione (atto iniziale e puramente interno) allora segue la determinazione e l' adesione della volontà al bene o al male, e l' azione ontologica modificante pone anche quest' atto di adesione, ma questa determinazione conseguente non pregiudica neppur ella punto né poco alla libertà, poiché l' atto della libertà l' ha preceduta, il quale atto è quella libera elezione che ha determinato l' adesione della volontà al bene o al male. Ora poi la libera elezione non vi potrebbe essere se non vi avesse i due termini fra cui eleggere: che sono il bene ed il male. Ma il bene appartiene all' elemento positivo dell' ente, e il male al negativo della limitazione. Se non ci fosse dunque questo secondo elemento, la limitazione dell' ente, non ci avrebbe libertà al bene e al male. In questo senso dicevamo che la libertà è cosa conseguente alla limitazione, non ad ogni limitazione, ma ad una limitazione propria dell' ente morale, ad una limitazione dell' intelligenza e della volontà. E perciocché la natura di ogni ente principio relativo consiste nel sentimento della propria limitazione che lo individua, per questo la potenza del male è propria dell' ente intelligente e morale; laddove la potenza del bene procede dall' azione ontologica dell' ente maggiore, che non è il soggetto della limitazione del minore, benché ne sia la causa. 1) La realità pura senza determinazione è un concetto astratto che non dice né ente, né sostanza, né accidente, né principio, né termine, né qualità, né quantità, ma dice solamente un modo dell' essere. Se da questo concetto astrattissimo di realità si discende ad uno meno astratto, ma però anch' esso astratto, e si considera quella realità che è termine esteso del sentimento, ella prende il nome di materia . La materia, presa cosí senza altre determinazioni, è illimitata o per dir meglio, indefinita, e però priva ancora di quantità. 2) Niente di reale può esistere indeterminato. Si prova perché ripugna. Infatti l' esistere indeterminato vuol dire essere ad un tempo e non essere. Perocché l' ente racchiude nel suo concetto certe condizioni o qualità, senza le quali non è ente, e queste sono le sue determinazioni; onde senza queste esisterebbe senza se stesso, senza ciò che ha in sé di essenziale. 3) La realità è di due generi, cioè principio e termine . Alla realità termine appartiene la materia, come dicemmo, alla realità principio lo spirito, cioè il principio sensitivo, il principio intellettivo, e il razionale. 4) Quindi quattro generi di forme: A ) La forma che determina e individua la materia (primo genere di forme). Questa forma produce la quantità dimensiva , la figura , il numero degli individui materiali, le parti. B ) La materia formata determina ed individua il principio sensitivo (secondo genere di forme). C ) Ciò che determina e individua il principio intellettivo è l' ente oggetto (terzo genere di forme oggettive pure). D ) Ciò che determina il principio razionale è l' ente oggetto7soggetto (quarto genere di forme con determinazioni venienti dal soggetto). 5) Finalmente noi possiamo anche raccogliere da tutto quello che detto è: A ) Che la moltiplicazione degli individui reali corporei animali e umani nasce dalla divisione della materia, la qual divisione è conseguente alla forma propria di questa. B ) Che la moltiplicazione delle specie nasce dalla varia natura del termine. Cioè, tostoché un termine ontologicamente considerato è cosí limitato, che l' uno esclude da sé l' altro, onde fra l' uno e l' altro non v' ha graduazione, ma intera separazione, per modo che ci vuole un' altra idea a pensarlo; questo termine suscita nel principio un sentimento pure cosí esclusivo , che non è per gradi ma in tutto da un altro sentimento diverso, nel che consiste, come vedemmo, la limitazione ontologica. Perché poi un termine si renda cosí esclusivo, come l' ente sia suscettivo di tale determinazione, quante possano essere tali limitazioni ontologiche, tutto questo, come abbiam detto, giace occulto nell' abisso dell' essere stesso: quei sentimenti specifici hanno radice in altrettanti atti esclusivi dell' essere. C ) Finalmente la moltiplicazione dei generi è dovuta al pensiero astratto, il quale nondimeno si fonda sull' ordine intrinseco dell' ente quando in questo distingue piú cose: in quanto poi le separa e le considera a parte, egli opera secondo le sue proprie leggi soggettive. I generi poi, che si fanno prendendo qualche fondamento puramente mentale, dovrebbonsi, anziché generi , chiamare classi . Le quali cose tutte parendoci che debbano riuscire difficili a ben cogliersi, ed essendo molte a mantenersi distinte nel pensiero, non dispiaccia al lettore se noi ci intratteniamo ad aggiungervi quella chiarezza e quella distinzione maggiore che per noi si possa. Al quale intento nostro primieramente ci proponiamo la questione, se l' ente reale abbia alcun sentimento dei principŒ che sono in lui fisicamente precedenti. Primieramente dee rimaner fermo che il principio si sente unicamente nel termine. Di poi è ancora da aversi presente, che ogni principio fisicamente non è ancora l' ente, il quale esiste soltanto per la sua ultima determinazione. In terzo luogo è da rammentare, che i principŒ precedenti s' identificano col principio proprio dell' ente; perocché è sempre il primo principio quello che, venendogli dati nuovi termini, mette fuori nuovi atti primi nella loro specie, e però è lo stesso primo principio che diviene successivamente tutti gli altri principŒ, e finalmente l' ultimo che costituisce l' ente. Quindi accade, che i diversi termini legati l' un coll' altro, e l' uno all' altro fisicamente subordinati, giungono a costituire un termine solo organato di piú termini, il quale è il termine proprio dell' ente. Le quali cose premesse, egli è manifesto, che tutti i principŒ debbono avere il loro sentimento in questo termine complesso ed organato a cui si riferiscono, un sentimento però, che ha la stessa unità e lo stesso organismo del termine dove risiede. Di qui procede, che il principio proprio di un ente abbia in sé qualche sentimento proprio della sua comunità con altri enti; giacché noi vedemmo che i principŒ precedenti sono comuni a piú enti, e come tali sono indeterminati, e però non costituiscono ancora nessuno degli enti particolari, ossia degli individui a cui sono comuni. Venendo ora a trattar di quel doppio modo dell' essere, pel quale un ente esiste in sé ed anco esiste in un altro ente, noi stimiamo dovere prima di tutto restringere la questione ontologica, cosí ampia in se stessa, riducendoci qui a favellare soltanto di quelle due maniere di essere, onde un ente si concepisce in se stesso, e si concepisce in noi. La parola noi esprime il principio sensitivo ed intellettivo. « Essere in noi »adunque significa, essere nel nostro principio sensitivo e intellettivo. Laonde tutto ciò che fosse del tutto alieno dal nostro sentimento o dalla nostra intelligenza, in una parola dal nostro principio razionale , non sarebbe veramente in noi, qualunque altra attinenza potesse avere coi principŒ ontologicamente anteriori a noi, dai quali pur dipendiamo. Di qui si può raccogliere una dichiarazione dell' espressione piú universale: « un ente esistere in un altro ». Perocché si scorge, che l' esistenza di un ente in un altro (trattandosi di enti sensitivi od intellettivi) è relativa all' ente che comprende un altro, o che è da un altro compreso. In una parola, l' essenza dell' ente reale soggettivo, è sentimento. Acciocché dunque un altro ente sia in lui, deve essere nel suo sentimento: se non ha l' altro ente nel suo proprio sentimento, non ha l' altro ente in sé. Questa relatività dell' inesistenza consegue alla limitazione ontologica, per la quale un sentimento sostanziale esclude l' altro, benché un sentimento sostanziale possa essere piú ampio di un altro. Questa proposizione è provata pur coll' osservare quale sia l' ente da noi intuíto. L' ente da noi intuíto è puro essere, è quell' idea per la quale noi siamo atti a dire che una cosa è, per la quale siamo atti a giudicare. Quest' essere della mente è indeterminato. Se l' essere intuíto è pienamente indeterminato, dunque egli è puro essere , senza i suoi termini: l' essere dunque ci è stato dato nella sua pura essenza, inizialmente, giacché l' essenza è l' inizio degli enti, e molto piú senza l' aggiunta di alcun fenomeno. Quindi l' essere puro da ogni sua determinazione, intuíto di continuo dall' intelligenza, non ha veruna azione in noi, ma la sola presenza ; il che bisogna di spiegazione pe' diversi significati della parola azione . Ogni qualvolta si scorge un effetto, suol dirsi che vi ha un' azione che l' ha prodotto. Qui prendesi azione per causa . Ma il comune degli uomini non osserva, che l' azione che si riferisce all' effetto, talora è la stessa causa, lo stesso ente che ha la relazione di causa; tal altra volta l' azione è distinta dall' ente causante, è un atto secondo di lui, non lo stesso suo atto primo. Eppure vi hanno effetti che debbon la loro esistenza, non già ad una azione distinta dall' ente causante, ma ad un' azione che è l' atto primo dell' ente causante, e perciò è lo stesso ente causante. Se noi vogliamo fissare un canone universale, col quale si conosca quali enti agiscano in altri col loro atto primo, colla loro presenza, potremo esprimerlo in questo modo: quegli enti i quali hanno dalla loro stessa essenza di essere o di poter essere in altri, questi agiscono col loro atto primo: e però non hanno azione nel senso volgare della parola, ma hanno soltanto presenza. Il qual canone applicato all' essere per essenza, cioè all' essere ideale, ci fa conoscere incontanente, che quest' essere sta nell' intelligenza nostra senza alcuna azione seconda ed accidentale; perocché egli ha per sua propria essenza l' essere nelle menti. Ora l' essere per essenza è appunto il termine oggettivo delle intelligenze, come vedemmo. Dunque il suo atto nelle menti è lui stesso. L' essere dunque è in noi quale è in se stesso. Di piú. Se noi consideriamo attentamente che cosa racchiuda il pensiero del puro essere, se meditiamo il significato della parola è , senz' aggiungervi nulla; noi ci convinciamo indubbiamente, che nell' essere pensato in tal modo non entra alcuna relazione con noi, né con alcun altro ente particolare, né con alcun individuo (il quale è formato da termini che determinano compiutamente l' essere). Perciò noi non mescoliamo coll' essere puro, oggetto dell' intuizione, niun nostro sentimento, niente di soggettivo, né manco di relativo; ma pensiamo l' atto primissimo di ogni cosa, prescindendo affatto dalla cosa di cui egli è atto. Quindi nell' essere non cade niun elemento fenomenale . L' essere adunque, qual' è posto nella intuizione, è scevro da ogni relazione colla mente stessa e da ogni sentimento. Onde la mente l' intuisce non apprendendo in lui relazione alcuna, l' apprende in un modo assoluto . Altro è dunque il pensare l' ente assolutamente ossia in modo assoluto, altro è il pensar l' ente assoluto (1). Pensare l' ente in modo assoluto, vuol dire pensar l' essere, prescindendo da ogni sua determinazione, pronunciare collo spirito nostro il monosillabo è , senz' altra aggiunta: questo modo di pensare appartiene al solo oggetto dell' intuizione, sia che quest' oggetto puro s' intuisca (essere), ovvero anche si affermi e si pronunci ( è ). All' incontro pensare l' ente assoluto è pensare l' ente infinito determinato in se stesso coi suoi termini infiniti e categorici (Dio). Quindi l' oggetto dell' intuizione non è l' ente assoluto, ma è il modo assoluto dell' essere, opposto al modo relativo . Ora, perocché l' intuizione è il primo di tutti i pensieri, ogni altro pensiero la suppone e la contiene. Il che dimostra che in niun pensiero manca giammai il modo assoluto dell' essere e del pensare. Che anzi questo modo assoluto è quello che caratterizza il pensare, e costituisce la differenza essenziale del pensare dal sentire . Quindi s' intende che cosa voglia dire « pensare una cosa in sé, o per sé ». Vuol dire pensarla in quella guisa appunto nella quale si pensa l' oggetto dell' intuizione, pensarla come oggetto. Queste maniere di dire esprimono il modo del pensare , e medesimamente il modo di essere . Dunque tutti gli enti, tutte le entità hanno per conseguente quel modo categorico di essere, che s' esprime colla parola oggettivo , ed è quel modo pel quale esistono essenzialmente in una mente intuente; e conseguentemente possono esistere in tutte le menti intuenti. Si può dunque pensare in un modo assoluto anche l' ente relativo , perocché la relazione appartiene all' ente, e l' assoluto appartiene al modo. Tutti gli enti relativi hanno un modo assoluto di essere, e quest' è il loro modo categorico ideale ossia oggettivo. Vero è che questo modo assoluto non è quello che li costituisce enti a se stessi, perché l' essere enti a se stessi è un modo relativo; ma il loro modo relativo è però congiunto al loro modo assoluto che precede ontologicamente e categoricamente la loro propria relativa esistenza (1). Tutto quello che non è ente puro, oggetto per la sua stessa essenza, si può dire fenomenico appunto perché egli non ha in se stesso le condizioni dell' ente fino che si considera separato da quello che per la sua propria essenza è ente per sé. Non è già che v' abbia qualche cosa che sia separata dall' ente, se l' unione e la separazione si consideri rispetto all' ente ontologicamente primo; ma l' entità relativa è separata considerando la separazione rispetto a lei stessa, poiché ella non sente la sua congiunzione coll' ente, attesa la limitazione ontologica del suo sentimento che la chiude in se stessa. Ora il sentire di questa entità essendo tutto ciò che ella è, e il suo sentire, benché sostanziale, essendo separato da quello che per la propria essenza è ente per sé, perché questo non cade in un tale sentire; consegue che fino che rimane questa separazione, ella non sia ente per sé; onde a ragione si chiama fenomeno . Ma per mezzo della mente che unisce il fenomeno sostanziale coll' ente per sé, anche il fenomeno si eleva alla condizione di ente per sé, perché viene considerato nell' oggetto, vien pensato in modo assoluto, viene oggettivato. Dobbiamo avvertire che i fenomeni si partono in due classi, che sono i fenomeni sostanziali , e i fenomeni conseguenti ai sostanziali , a cui si riducono anche gli accidentali. I fenomeni sostanziali sono quelli che ci si presentano come atti primi di un sentimento relativo, che escludono tutti gli altri fenomeni, eccetto quelli che a loro susseguono come atti secondi. I fenomeni conseguenti ai sostanziali sono atti secondi di questi, proprŒ, integrali, accidentali, ecc.. Quando la mente intuente l' essere concepisce per mezzo di questo i fenomeni sostanziali, ella li concepisce senza piú come enti. Ma i fenomeni conseguenti ai sostanziali non può ella concepirli come enti se non in unione coi fenomeni sostanziali dai quali dipendono; perocché ogni ente ha questa condizione, di dover essere un atto primo. I fenomeni sostanziali dunque sono i veri rappresentatori degli enti, e la regola onde giudicare della legittimità delle rappresentazioni che ce ne fanno i fenomeni secondari e conseguenti. Questi hanno anch' essi virtú di rappresentare, ma solo allora che vanno d' accordo coi primi, e discordanti da essi si chiamano a giusta ragione apparenze ingannevoli e illusioni. Dalle cose dette si raccoglie che l' inesistenza di un ente in un altro è proprietà esclusiva di quello che è essere per propria essenza. E nel vero, fuori di quello che è essere per essenza non rimane che il fenomeno nel modo che abbiamo spiegato. Egli è bensí vero che il fenomeno sostanziale, considerato in unione coll' essere per essenza, diventa anch' egli un ente cioè un ente per partecipazione. Ora un tal ente per partecipazione può anch' egli esistere in un altro, cioè in un altro ente intellettivo. Ma quest' inesistenza gli conviene soltanto in quanto egli è ente; ed egli è ente per partecipazione; dunque anche l' inesistenza sua in altro gli spetta soltanto per partecipazione, cioè in virtú di quell' essere per essenza, in cui si contempla e si pone, e cosí si rende intelligibile, ed acquista natura di oggetto. Dunque, soltanto quello che è essere per essenza ha virtú d' inesistere in un altro ente, cioè nell' intellettivo, nella sua purità di ente. Solo dunque l' essere per essenza ha virtú sua propria d' inesistere puro da ogni fenomeno in un altro ente, laddove l' ente per partecipazione inesiste in quanto è ente, ma mescolato col fenomeno dal quale riceve il nome di relativo. Ma i fenomeni stessi possono essi inesistere gli uni negli altri? Sí, hanno anch' essi certi modi d' inesistenza i quali però debbono essere accuratamente distinti. 1) Una parte del fenomeno esiste nel tutto. Questo modo d' inesistenza però è mentale anziché reale, come mentale è il concetto della parte. 2) Il fenomeno conseguente alla sostanza esiste nella sostanza. Questa proposizione si può esprimere piú generalmente dicendo che gli atti secondi inesistono nell' atto primo che li contiene o virtualmente o attualmente. 3) Venendo ora all' inesistenza de' fenomeni sostanziali, il solo principio è quello che contiene, e il termine è il fenomeno sostanziale da lui contenuto. Da quello che abbiamo detto riceve luce e sviluppo maggiore la teoria che abbiam data della rappresentazione. Lasciando da parte la prima maniera di rappresentazione , che spetta all' idea quasi specchio di tutte le cose, diciamo in che modo il fenomeno sostanziale sia rappresentativo dell' ente reale. In primo luogo vedemmo che l' ente è intuíto immediatamente, e in niun modo può essere rappresentato, perocché se vi avesse qualche cosa rappresentativa dell' ente non si potrebbe mai sapere che ella fosse rappresentativa dell' ente se già non si conoscesse l' ente. La rappresentazione adunque suppone sempre dinanzi a sé che si conosca l' ente; e quindi è impossibile spiegare la cognizione per via di semplice rappresentazione o similitudine, nel che sta il difetto della teoria della cognizione data dagli Scolastici. Ma se l' ente è già conosciuto, a che pro la rappresentazione? In primo luogo l' ente potrebbe essere conosciuto in un modo abituale, senza che ci poniamo attuale attenzione, o che lo crediamo a noi presente. In tal caso la rappresentazione ci presterebbe il servizio di attuare in lui la nostra attenzione. Pure non è questo solo il servizio che ci presta il fenomeno sostanziale. Ciò che noi conosciamo immediatamente, ciò che inesiste in noi per natura senza alcun fenomeno, non è che il puro ente spoglio di ogni sua determinazione. Egli è uno e semplice; ma gli enti sono molti, e l' uno di essi non è l' altro, ciascuno anzi è un individuo che ha un atto primo suo proprio. Quest' atto primo individuato qual si presenta nel nostro conoscere è quello che chiamiamo sostanza, e in quanto una sostanza si distingue totalmente dall' altra mediante la sua individuazione, la chiamiamo forma sostanziale. La forma sostanziale fa sí che una sostanza non sia un' altra, e negli enti finiti che cadono sotto la nostra percezione questa forma sostanziale è il fenomeno primitivo che rimane segnato da un nome sostantivo che gli imponiamo. Ma la forma sostanziale nella sostanza non è ancora l' ente; ma viene ad esser ente quando le si aggiunge l' essere che già conosciamo. Mediante quest' unione dell' essere col fenomeno sostanziale, unione individua, avviene che ne risulti innanzi alla nostra mente un ente reale; ma quest' ente reale non è piú un ente indeterminato, ma determinato dalla forma sostanziale in modo che si divide da ogni altro ente. Ora in questo fatto si può considerare l' ente reale conosciuto sotto due aspetti: o pigliandolo nella sua unità, e cosí possiamo dire di conoscere immediatamente quell' ente reale; o considerandolo nei due elementi dai quali risulta, e cosí noi vediamo che il fenomeno sostanziale non è per sé solo l' ente, ma una rappresentazione parziale dell' ente, di maniera che senza il fenomeno sostanziale noi conoscevamo l' ente solo inizialmente, ma ora aggiungendovi il fenomeno sostanziale conosciamo qualche cosa della realità di lui per la rappresentazione che questo ce ne fa. Vero è che questo fenomeno sostanziale è relativo a noi, e in quanto è relativo a noi non ci fa vedere qual sia il modo della realità proprio dell' ente essenziale; ma tuttavia ci presenta ad ogni modo una realità, la quale deve essere analoga alla realità compiuta ed illimitata essenziale all' ente. Cosí si può dire che tutti gli enti finiti che noi conosciamo rappresentano l' ente infinito, e per essi non s' accresce la nostra cognizione se non perché s' accresce la cognizione dell' ente essenziale: entro a tutte le nostre cognizioni adunque degli enti reali vi ha una cotale imperfetta rappresentazione dell' ente infinito. La percezione risulta dai due elementi, dall' ente ideale e dal fenomeno sostanziale dove termina l' affermazione. Quindi il nostro spirito nello stesso tempo che con una tale operazione conosce la sussistenza affermandola, conosce altresí nell' ideale qualche cosa di piú che non conosceva prima, perocché prima lo intuiva del tutto indeterminato, ed ora gli sono manifeste alcune sue determinazioni. Quando adunque noi percepiamo un ente reale, allora non è a credersi che l' essenza dell' ente in universale e il fenomeno sostanziale si uniscano quasi per giusta7posizione, ma eglino si compongono insieme e ne risulta un ente organato; non è da credere che conosciamo soltanto quello che prima era nei due elementi separati, l' essere universale e il fenomeno, ma v' ha qualche cosa di nuovo che risulta dalla loro unione: la cognizione nostra, che n' è l' effetto, si arricchisce di questo elemento nuovo, il quale rispetto all' ente ideale è un ordine che gli si aggiunge, e rispetto al fenomeno è la realizzazione di quest' ordine. Quindi nella percezione non si afferma solo il fenomeno, ma si affermano alcuni elementi che appartengono veramente all' ente come realizzati nel fenomeno sostanziale, si affermano congiunti, e poi si distinguono mediante l' analisi della riflessione: quindi si viene a conoscere distintamente, che l' ente affermato è atto primo , che è uno , che è pienamente determinato , ecc.; le quali sono proprietà dell' ente realizzate nel fenomeno; rispetto alle quali la nostra affermazione ha una verità assoluta. Or le cose ragionate circa il conoscere per via di rappresentazione dimostrano che l' uomo possiede una lingua interiore intima nella sua potenza conoscitiva, della quale si serve come d' istrumento del pensare. Perocché noi vedemmo che il fenomeno è quello che gli rappresenta l' ente, e che la varietà dei fenomeni è quella che gli rappresenta l' ente in diversi modi e gradi. Quindi senza i fenomeni il principio potrebbe avere bensí l' intuizione dell' ente in universale, e poniamo anche la percezione dell' ente assoluto, ma non la cognizione degli enti finiti e molteplici. Tutti i fenomeni sono dunque segni naturali degli enti; ma i fenomeni primitivi sono segni che si compongono cogli enti stessi finiti costituendo le loro forme sostanziali; giacché trattandosi di enti relativi non è maraviglia che anche le forme sostanziali siano relative. Quando s' impone un nome sostantivo ad un dato ente, allora questo nome esprime l' ente sotto quella forma sostanziale; e cosí il fenomeno primitivo resta inchiuso nel concetto dell' ente che si nomina, e nella definizione di lui. E ogni qualvolta senza badare a questo si volle ritenere quel nome per significare quell' ente spogliato del suo fenomeno sostanziale e quindi della sua forma sostanziale, si aprí il varco a innumerabili errori. Questo è uno dei piú ampi fonti della filosofia sofistica, e specialmente del panteismo germanico. I fenomeni poi conseguenti ai primitivi ed accidentali sono anch' essi altrettanti segni dell' ente, ma non sempre veritieri, come abbiam veduto. Quindi il pensiero tende bensí sempre all' ente di sua natura; ma nella condizione in cui siamo egli si serve per giungere a conoscerlo sempre piú di segni rappresentativi, quali sono i fenomeni, i quali formano come una lingua interiore. Questa lingua nello stesso tempo che conduce il pensiero alla cognizione degli enti relativi e moltiplici, lo dirige altresí quasi a ultimo fine di lui all' ente essenziale, di cui non vede a vero dire la realità propria, ma s' accorge di posseder certi segni di questa realità, e cosí in modo imperfetto e negativo finisce in essa come in ultimo punto delle intuizioni cogitative. Or poi merita sopra modo di esser meditata quella individua unione, che questi segni naturali formano coll' ente che rappresentano, sia questo ente principio o termine: per la quale unione individua si rappresenta alla mente una pluralità di enti compiuti e individuati e nella loro propria sostanza, per guisa che la cognizione è positiva e non negativa, onde ci persuadiamo di percepire quegli enti quali sono nella loro propria natura. Il qual fatto ben inteso spiega perché la parola esterna sia anche essa cosí utile all' intelligenza, e come il suono materiale del vocabolo s' associ e s' individui col concetto, per modo che il nostro spirito vede e pensa l' ente nel vocabolo, e senza i vocaboli non può a lungo ragionare, venendogli meno la presenza degli oggetti pensati. Il vocabolo è un suono e il suono è una sensazione. Vero è che questa sensazione è intieramente diversa dall' ente pensato e benanco da' suoi fenomeni; ma la mente non associa però meno la sensazione del vocabolo coll' ente che vuole esprimere; perocchè la legge del pensiero consiste nell' associazione di un fenomeno coll' ente, senza che sia necessario che il fenomeno, cioè il sentimento, sia uno piuttosto che un altro, supplendo la riflessione, la quale avverte se un fenomeno sia proprio e naturale dell' ente o non sia, nel quale ultimo caso il fenomeno sensibile è un segno arbitrario che rammemora insieme coll' ente anche il suo fenomeno o segno naturale. Cosí la lingua esteriore è un complesso di segni de' segni; cioè di segni arbitrari, che richiamano i segni naturali e con questi l' ente da essi determinato. Qui si vede spiegata l' origine, la necessità e la potenza della parola. Dalle cose dette possiamo raccogliere qual sia l' intima costituzione dell' essere umano: quest' essere è un principio unico individuato da tre termini di diversa natura, lo spazio , la materia e l' idea , organati fra loro all' unità. Or da quanto è detto riceve lume la natura della percezione fondamentale. Perocché dall' aver noi veduto che lo spazio e la materia, in quanto sono termini del sentimento fondamentale, sono puri fenomeni, e però termini proprŒ e non termini stranieri del principio sensitivo, col quale s' identifica il principio, ne viene che la percezione intellettiva fondamentale non è la percezione della realità pura straniera, ma è la percezione dello stesso principio, individuato nel fenomeno. Quindi il principio intellettivo, percependo il detto fenomeno, nol percepisce come cosa straniera, ma come cosa propria, il che è quanto dire percepisce il principio sensitivo individuato ne' due termini dello spazio e della materia fenomenale, il qual principio sensitivo viene cosí identificato col principio intellettivo. Per questo l' uomo a principio della sua esistenza ha un sentimento unico, che è quanto dire sente se stesso in quanto è animale, e sentendo se stesso sente anche il corpo, non essendo il corpo in quel primo sentimento se non l' individuazione del principio animale. Se dunque nel sentimento dello spazio e nel sentimento fondamentale non v' ha percezione della realità pura straniera, in qual momento nasce questa percezione? In prima dobbiamo intenderci sul significato di sentimento, di percezione sensitiva e di percezione intellettiva. Il semplice sentimento del tutto spontaneo, naturale, privo di ogni fatica, non è percezione. Quando nel sentimento ci ha ripugnanza, fatica, e tuttavia necessità (il che chiamasi sentimento di violenza), allora vi ha percezione sensitiva. La percezione sensitiva è dunque sentimento, ma non ogni sentimento, né tutto il sentimento, ma solo quell' accidente del sentimento, che dicevamo senso di violenza. La percezione intellettiva poi è quell' atto dello spirito razionale, pel quale egli apprende il sentimento come un ente. Quindi la percezione intellettiva è di tre maniere. Perocché lo spirito può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, o dalla parte del suo termine. Può percepire il sentimento dalla parte del suo principio, nel qual caso il principio intellettivo s' identifica col principio razionale. Lo spirito intellettivo può percepire il sentimento dalla parte del suo termine, cioè il sentito. Ora, rispetto al suo termine abbiamo distinto il sentimento semplice dalla percezione sensitiva. Se lo spirito intellettivo percepisce il sentimento semplice, il puro fenomeno, in tal caso non percepisce ancora la pura realità straniera; ma se percepisce il senso violentato, incontanente l' intelligenza si porta alla realità straniera come a substratum di un tale sentito, operando in virtú del principio di sostanza. Le tre maniere adunque di percezione intellettiva sono: a ) Percezione intellettiva del principio sensitivo. b ) Percezione del fenomeno sensibile. c ) Percezione di un sentito violento - In questa si percepisce la pura realità straniera. Ora dal sapere noi che tutto ciò che cade nel sentimento è fenomeno, e per ciò appartiene al principio sensitivo, e che la pura realità del sentito è trovata e posta soltanto dalla mente, ma non è quella che costituisce il nostro individuo, deriva che noi piú facilmente possiamo intendere come l' anima separata dal corpo possa conservare la sua individualità, perocché ella non perde quello che è suo. Vero è che il finimento del suo sentire non può esser piú quello di prima, non può esser piú il sentito di prima, perocché il sentito riceveva il suo limite dalla realità sottoposta. In questo caso il sentimento dee ricadere e concentrarsi in se stesso e non piú vestire di sé quella realità. Ora questo raccentramento de' sentimenti è appunto la loro riduzione in abiti , i quali, come abbiam detto, bastano a mantener l' anima quell' individuo che era prima. Finalmente il terzo termine del principio umano è l' idea. Abbiamo detto che nell' ordine logico l' idea diviene termine dello spirito, quando questo è individuato come animale. Il principio individuante l' animale è quello dell' armonia del sentimento eccitato, il qual principio ha in sé necessariamente anche i precedenti, cioè il principio del sentimento eccitato, del sentimento continuo, e del sentimento esteso, o spazio. Or quantunque l' idea non si presti come termine intuibile se non dopo che il principio ha tutte queste individuazioni; tuttavia è da osservarsi, che l' atto intuente l' idea non si fa già dal principio cosí individuato, quasiché quest' atto si ponesse colla mediazione dello spazio e del corpo; ma l' idea è veduta dal principio puro come principio, non in quant' egli è individuo, ma solo a condizione che sia individuo. Il che chiaramente si scorge considerando che l' idea non può soggiacere alla forma dello spazio o a quella del corpo, essendo scevra per sua natura da ogni estensione, da ogni passione, da ogni corporeità, da ogni mutazione, e da ogni limitazione; onde non si può intuire che con un atto immediato, nel quale altro non si distingue che il principio e lei, ed è per questo che l' essere è in noi puro da ogni elemento fenomenico. E qui ci troviamo in grado di rispondere alla questione: « se l' uomo conosca se stesso fin dal primo momento della sua esistenza ». Gli scolastici dicevano, che egli ha una cognizione abituale di sé. La soluzione ci pare troppo vaga: le considerazioni seguenti vi recano luce. Quando il principio che intuisce l' idea percepisce la propria animalità, la percepisce tale qual' è. Ora l' animale è un principio individuato in quella guisa che abbiam detto. Ma un principio percipiente un principio s' identifica con esso. Dunque l' uomo fino dal primo istante in cui trovasi a pieno costituito, ha percepito se stesso come principio animale individuato: la percezione è cognizione, dunque l' uomo fin da principio si conosce in quant' è animale. Ma si conosce egli ancora come principio intellettivo? Primieramente è a dire, che il principio non è il termine dell' atto, e nulla si conosce se non ciò che è, ovvero è divenuto, termine dell' atto conoscitivo. Ogni principio è bensí un sentimento e però anche il principio intellettivo è tale, ma il sentirsi come principio non è conoscersi. L' uomo dunque non si conosce come principio intellettivo colla prima percezione immanente, ma soltanto con una riflessione successiva, colla quale pone se stesso principio come termine dell' atto conoscitivo. Tre dunque sono i termini principali dell' umano principio: quindi tre attività primordiali: quindi non desta piú maraviglia che lo spirito unico nel suo principio ammetta pluralità nelle potenze. L' attività che finisce nello spazio come nel suo proprio fenomeno, è atto semplicemente, non potenza. Or quantunque il principio individuato dallo spazio presti alla mente il concetto di un atto e non di una potenza, tuttavia si può chiamare potenza dello spazio, per la quale il detto principio, quando riceve il termine corporeo, lo veste e l' informa della estensione. Ma se il principio dello spazio prima di ricevere l' individuazione del termine corporeo si può considerare come in potenza al ricevimento di questa forma, quand' è già individuato egli è già in atto, non piú in potenza. E in generale l' atto, pel quale un individuo è posto, non è potenza ma atto. Quindi né il sentimento del continuo né quello dell' eccitamento, né quello dell' armonia, né l' intuizione dell' essere, in quanto costituiscono il sentimento fondamentale, sono potenze, ma atti primi pe' quali l' individuo esiste. L' uno però di tali atti, quando è ancor privo dell' atto susseguente, dicesi in potenza a questo. Ma queste sono potenze a ricever la forma, perocché un subbietto può avere due specie di potenze, che sono: a ) Potenze a ricevere una nuova forma sostanziale mediante il ricevimento di un nuovo termine (1). b ) Potenze relative al cangiamento accidentale dello stesso termine, passive (facoltà di sentire il detto cangiamento) ed attive (facoltà di produrre il detto cangiamento). L' una e l' altra specie di potenze è sempre una facoltà di porre nuovi atti. Ma la prima specie si riferisce ad atti che producono una nuova individuazione, e che sono atti primi ed immanenti relativamente al nuovo individuo che producono; la seconda specie è di atti accidentali all' individuo, che nol cangiano in un altro, e possono essere transeunti. Ora qui egli è d' uopo di mostrare come nel seno stesso dell' ordine inerente alla realità si ravvisi una relazione ed una dipendenza di essa realità dal suo esemplare ideale. Quello che vogliam dire si scorgerà ove si mediti la natura del secondo genere accennato delle potenze, le quali si riferiscono ad atti che non cangiano il proprio individuo in un altro, e che quindi si dicono a lui accidentali. Ond' avviene che un subietto individuo possa uscire in tale genere di atti? - Da questo, che il termine di tali atti può ricevere delle modificazioni accidentali senza che cangi la sua sostanza. Ma queste modificazioni non sono tutte e sempre presenti nel termine, perocché in tal caso il termine non cangerebbe. Acciocché la potenza del principio reale sia possibile, conviene che il principio, oltre avere l' attività attuale di unirsi col suo termine in quel modo reale che gli sta presente, abbia un' altra attività virtuale che si riferisca a tutti i modi che può ricevere il suo termine e che in presente non ha. In altre parole, l' attività del principio deve abbracciare non solo la sostanza del suo termine, ma ben anche tutti i modi possibili di questa sostanza. Ora, i modi possibili non sono reali, e di essi uno solo alla volta può essere realizzato: dunque, il principio reale colla sua attività eccede il termine che ha presente. Convien dire adunque che il concetto della potenza involga una relazione secreta fra la potenza reale e i modi ideali del suo termine, di che si scopre la ragione per la quale nel reale stesso si trovi una virtualità: la virtualità reale suppone adunque e risulta da una dipendenza che ha l' ordine delle cose reali dal loro tipo ideale. Questa dipendenza è prova manifesta che il temporale e finito dipende da un ordine superiore delle cose eterne, ed è una nuova dimostrazione ontologica che vi ha un ordine invisibile di cose eterne ed infinite, tolto il quale le cose visibili reali e finite non potrebbero aver tra di loro quell' ordine che hanno. Non potrebbe adunque sussistere il mondo reale senza il mondo ideale che gli determina continuamente quell' ordine che in lui si ammira. Concludiamo questo capo osservando, che quantunque i tre termini fondamentali dello spirito umano, lo spazio, il corpo, e l' idea, abbian natura diversa, tuttavia sono cosí organati fra loro da riuscirne un termine solo. Perocché il corpo è ricevuto nel seno dello spazio, e il corpo e lo spazio nel seno dell' idea. Onde l' essere razionale nell' idea possiede gli altri suoi due termini, e quest' unità che formasi nell' idea di tutti e tre è quella che individua l' essere razionale «( Psicologia , 567 7 5.4) ». Noi abbiamo parlato delle azioni , come pure delle inesistenze . Dalla diversa indole delle azioni e delle inesistenze si spiega, come si rinvengono certe azioni che non modificano il loro termine. Poiché l' inesistenza non è azione, nel senso comune della parola che esprime un atto secondo; ma se l' inesistenza stessa si considera come un' azione, e costituita da azioni (nel qual caso l' azione si prende impropriamente anche come atto primo), allora si trova che vi hanno azioni che non modificano il loro termine. L' inesistenza è una proprietà del solo essere essenziale : nessuna cosa inesiste in noi tale quale è, se non l' essere. Ora posciaché l' essere ideale ed essenziale talora è indeterminato, talora piú o meno determinato, secondo che costituisce l' essenza dell' essere universale, dell' essere generico, o dell' essere specifico, quindi ogni intuizione o cognizione delle essenze appartiene a quella classe di atti e di azioni, che non modificano menomamente il loro termine, perché altro non suppongono, ed altro non le costituisce, se non la pura inesistenza; questa è dunque la causa delle azioni che non modificano il loro termine. L' azione del principio rispetto al fenomeno sentimentale suo termine è una di quelle azioni, che producono il proprio termine, e però che non lo modificano. Ella è una specie di creazione; differendo dalla creazione soltanto in questo, che la creazione è libera, laddove il principio che produce il suo termine fenomenale è provocato a produrlo, e determinato a produrlo piuttosto in un modo che in un altro. Quest' azione è un atto primo, col quale il principio pone la propria individuazione. Quest' azione si può anche descrivere come un movimento del principio verso la sua forma che lo rende un individuo determinato. Il principio puro dal fenomeno, e cosí pure la realità straniera che sta al di là del fenomeno, nulla hanno di fenomenale, ma appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale. Dico che appartengono all' essenza dell' essere nella sua forma reale, considerando unicamente quello che di essi ci porge il concetto che noi n' abbiamo. L' atto dunque della mente, che per via d' astrazione pensa il principio puro e la realità pura, non avendo per suo termine che l' ente, e l' ente inesistendo senza poter offrire alcuna modificazione, egli è di quelli atti, che non modificano il loro termine. Dalle cose dette risulta, che anche la percezione intellettiva non modifica il proprio termine. Perocché se si tratta della percezione intellettiva de' corpi, il termine di quest' atto è la realità vestita del fenomeno unita all' essere ideale. Ora noi vedemmo che la realità appartiene all' essere realizzato, e però non è suscettibile di modificazione; il fenomeno poi che la veste esiste precedentemente alla percezione intellettiva, ed è un termine prodotto dall' azione del principio sensitivo: in quant' è poi percepito dalla mente non è cangiato il fenomeno stesso, ma soltanto considerato in relazione coll' ente oggettivato, e, per cosí dire, entivato . Or l' aggiungere al fenomeno l' ente non lo modifica, anzi v' aggiunge ciò che è immodificabile e che rende lui stesso immodificabile: quest' aggiunta non essendo fenomenale, ma immune da ogni fenomeno, non può recare varietà alcuna nell' ordine del fenomeno. Se poi si tratta della percezione fondamentale con cui il principio intellettivo percepisce la propria animalità, è da dire il medesimo; e tanto piú, che nel sentimento fondamentale non cade la percezione della realità straniera, ma del fenomeno solamente. Avvi bensí la percezione del principio sensitivo nella sua individuazione e quindi avvi pure l' unificazione del principio sensitivo con l' intellettivo, onde se n' ha un unico principio razionale . Or questa unificazione è una specie di inesistenza, e però non distrugge l' attività del principio sensitivo, né punto la altera o modifica, perché niun principio come tale è variabile e modificabile, per la ragione che è semplice e che appartiene all' ente stesso; ma soltanto può essere aggiunto ad un principio piú elevato, mediante la quale unione cessa di essere quel principio individuato per sé solo esistente che era prima, ma si rifonde in un altro principio individuato maggiore, onde l' individuo viene cosí ad aver cangiata la sua forma sostanziale. Se questa si vuol chiamare modificazione, tale è appunto l' unica modificazione che il principio intellettivo fa della propria animalità. L' immaginazione intellettiva è quella che ci rappresenta un ente vestito del suo fenomeno, per esempio, immagina di vedere e di toccare un corpo qui presente quando presente egli non è. Ora il fenomeno sensibile è quello che rappresenta l' ente dinanzi all' immaginazione. Ma il fenomeno non è propriamente l' ente, ma il segno dell' ente. In quanto adunque l' immaginazione intellettiva termina il suo atto in un segno rappresentativo e non nell' ente stesso, ella non può modificar l' ente, perché questo non è il termine del suo atto. In quanto poi la mente dal segno rappresentativo, procede a pensar l' ente segnato, né pur ella lo modifica, perocché già noi vedemmo che l' ente non è punto modificabile, e che a lui spetta la pura inesistenza nella mente. Da tutto ciò si può raccogliere che gli atti conoscitivi non modificano mai il loro termine, perché non fanno che aggiungere al sensibile l' ente, rimanendo il sensibile come la determinazione dell' ente. Tutto ciò che v' ha nel sensibile si vede nell' ente, e, e l' ente nel sensibile. Questa è semplice inesistenza e inesistenza oggettiva, nella quale non vi ha azione, perocché l' agire è solo proprio del soggetto, e dell' oggetto l' inesistere. L' oggetto può esser pensato nella sua totalità, ne' suoi elementi o nelle sue relazioni ecc.; tutto ciò non modifica l' oggetto, ma la modificazione appartiene all' atto conoscitivo del soggetto: soltanto che l' oggetto si pensa piú o meno completamente. Ma non vi sono dunque anche delle azioni che modificano il loro termine? Indubitatamente un individuo, quand' è costituito ed emette degli atti secondi, modifica se stesso modificando il suo proprio termine. Anche ciò che ha natura di termine, come sono i corpi, manifestano in sé delle azioni reciproche, e quindi reciprocamente si modificano. Ma questi atti secondi, il cui effetto è la modificazione del proprio termine, vogliono essere spiegati a quel modo che risulta dalle dottrine piú sopra stabilite. Richiamandone qui le principali possiamo conchiudere: 1) Che solo i diversi principŒ operano e modificano se stessi. 2) Che due principŒ l' uno straniero all' altro, quando sono posti in relazione mediante un termine comune (comune entitativamente, cioè come realità pura (1), benché avente un modo relativo e fenomenale diverso), sono reciprocamente i motori delle proprie attività, perché ciascuno ha potere dal termine comune, e modificato il termine proprio dell' uno, la spontaneità dell' altro principio è necessitata a modificare il termine proprio; perché i due termini, in qualche modo, s' unificano. 3) Che quando i termini sembrano agir fra loro e modificarsi, senza che apparisca l' azione de' loro principŒ, come accade nel movimento e nell' urto dei corpi, l' azione tuttavia non si può attribuire ai termini come termini, giacché come tali sono inerti ma ai principŒ che inesistono ne' corpi, sebbene questi principŒ non si percepiscano. Noi abbiamo fin qui investigata la natura dell' essere reale e svolta la sua intima organizzazione. Oltre al porre questa dottrina generale intorno all' ente reale, noi dividemmo l' ente reale in assoluto e relativo, e convenendoci favellare dell' assoluto piú a lungo nella seconda parte di quest' opera, ci stendemmo a descrivere l' intima costituzione dell' ente relativo. Vedemmo che egli non è completo s' egli non ha un principio ed un termine, oltre il dover egli avere una relazione colla mente che gli dà la forma oggettiva ed ontologica, od esser mente egli stesso. L' ente reale adunque completo si riduce mai sempre ad essere « un ente principio individuato ». Ma vedemmo ancora che gli enti puramente sensitivi sono individuati da un fenomeno posto da essi in quanto sono principŒ senzienti, senza il qual fenomeno non sono ancora enti mancando loro l' individualità, di maniera che sono enti individui soltanto in quanto inesistono nel fenomeno specifico come in loro proprio termine. Questo fenomeno specifico e primitivo costituisce la loro forma sostanziale, e per esso sono piuttosto una sostanza che un' altra. La cosa non è cosí rispetto all' ente intellettivo, il quale, come tale, non ha fenomeno alcuno, ma soltanto ha per suo termine l' essere, e inesistendo in questo suo termine partecipa la condizione di essere senza bisogno d' altro; di maniera che fra gli enti finiti le sole menti sono enti per se stesse, laddove il reale puramente sensitivo (molto meno quello che si concepisce come insensato) non è ente per se stesso, ma soltanto per la relazione con quella mente che lo percepisce, o che in qualunque modo lo pensa. Ora taluno male intendendo questa teoria potrebbe falsamente indurne che ella arrecasse nocumento alla verità dell' esistenza de' corpi e a quella de' reali sensitivi, quasi queste entità fossero pure apparenze, e la dottrina intorno ad esse esposta si riducesse ad un sistema di idealismo con pregiudizio eziandio della certezza delle cognizioni umane. Or quantunque noi ci siamo dati cura di distinguere accuratamente il fenomeno dall' apparenza, e abbiamo anche difesa la certezza del pensare relativo, tuttavia noi vogliamo pigliarne occasione a compiere la teoria della verità e della certezza che abbiamo in parte esposta nel Nuovo Saggio e nel Rinnovamento e in altre opere. Nelle quali noi abbiamo dato la teoria della verità logica : or dunque esporremo quella della verità ontologica . Cominciamo dal chiarire che cosa s' intenda per verità logica, e che cosa per verità ontologica. La verità logica è la verità delle proposizioni. Si suol parlare di questa quando si dice che la verità e la falsità appartiene ai giudizŒ, i quali s' esprimono in proposizioni; ovvero quando si dice che la verità e la falsità appartiene a quella maniera di conoscere, che si appella conoscere per via di predicazione. Diciamo adunque primieramente che ogni proposizione esprime un atto dello spirito intelligente, con cui vede la convenienza di un predicato e di un soggetto e vi dà l' assenso. Il vedere questa convenienza e il dar l' assenso sono atti inseparabili, ed anzi nel primo loro nascere un atto solo. Ma questo primissimo e naturale assenso è differente dall' assenso posteriore libero, o certo volontario. Il primo assenso appartiene all' inesistenza del principio intellettivo nell' essere; perocché il principio intellettivo inesiste nell' essere in quanto lo vede, e se nell' essere vede la convenienza del predicato col soggetto, con questo atto di vederla inesiste ancora nell' essere dove esso trova un tal ordine. Questo è il primo principio della volontà, la potenza volitiva nell' atto del suo nascere. Se l' essere non avesse un ordine intrinseco, giammai dall' intuizione di lui potrebbe uscirne la potenza volitiva, la quale ha sempre per termine un assenso dato o negato all' ordine dell' essere stesso. Or questo assenso ha piú gradi: lo spirito può aderire all' ordine dell' essere con piú o meno di attività e d' intensione, con un atto solo di assenso o con atti replicati. Questo aumento di attività nel detto assenso non è inchiuso naturalmente nell' intuizione, ed è per questo che si distingue l' intuizione della convenienza fra un predicato e un soggetto, e l' assenso dato a questa convenienza. Una proposizione ha tre parti che si sogliono chiamare da' logici il subietto, il predicato e la copula. La copula si può sempre ridurre ad una espressione sola, cioè al verbo è , il quale può supplire a qualunque verbo. Infatti chi dice questa proposizione: « l' uomo muore »non ha fatto che rendere piú breve quest' altra: « l' uomo è mortale », riducendo la copula e il predicato in una sola parola, che esprime effettivamente due concetti in uno. Se dunque si considerano le proposizioni in questa loro forma semplice e primitiva, vedesi che ciò che si dice in ogni proposizione si è che il subietto è ciò che esprime il predicato. Si fa dunque una specie di equazione fra il subietto e il predicato. La forma poi della copula è non esprime solamente tale equazione in se stessa, ma esprime l' assenso di chi forma il giudizio, perocché è è una parola pronunciata da chi giudica e significa in parole il suo giudizio. L' assenso poi ossia il giudizio è vero se vi ha l' identità pronunziata fra il subietto e il predicato, ed è falso se non vi ha. L' identità dunque del subietto col predicato è la verità oggettiva della proposizione; l' assenso dato a questa verità oggettiva è la verità soggettiva, o per dir meglio la verità oggettiva partecipata, posseduta dal soggetto giudicante. Tale è la verità logica, che può essere considerata astrattamente in due modi: in se stessa, quasi nella sua possibilità, e nel soggetto intelligente che le assente. Ma quale è poi la verità ontologica? - E` a considerarsi che il subietto delle proposizioni logiche è supposto in esse, e che l' intento della proposizione non è altro se non di far conoscere che al detto subietto spetta il tale e tale predicato. Rimane dunque a determinare questo subietto, rimane a vedere se egli esiste, o qual modo e grado di esistenza egli si abbia. Il subietto delle proposizioni logiche viene sempre presentato in esse sotto la forma di un ente, ma non sempre è tale, potendo nascondersi sotto quella forma di ente ciò che non è ente, o ciò che non è ente compiuto, o insomma ciò che ha un modo di esistere anziché un altro. Malgrado di tutto ciò la logica verità della proposizione può rimaner intatta; perocché quella verità non consiste che nella copula, cioè nella identità parziale fra il subietto ed il predicato, e quindi non dipende dalla natura del subietto. Questa verità logica che consiste nella convenienza di un predicato con un subietto, e non in altro, non solo non inganna perché è verità, ma è all' uomo preziosissima sicura regola della sua vita prammatica e morale. Ma posciaché l' uomo in tutti questi giudizi pensa il subietto sotto la forma di ente, egli è manifesto che questo pensiero è tanto piú vero, quanto il detto subietto ha piú dell' ente; e questa si è quella verità che diciamo ontologica. Or la verità ontologica non si può ella ridurre alla verità logica, non si può tradurla in un giudizio, in una proposizione? Questa questione si riduce a quest' altra: quando pensiamo un subietto, lo pensiamo noi sempre e necessariamente mediante un giudizio? Ora, noi adesso cerchiamo se nel pensiero stesso di un ente si contenga necessariamente un giudizio. Ora l' ente si pensa in piú modi. E primieramente colla semplice intuizione si pensa l' essere in universale, la quale non racchiude giudizio alcuno, giacché il giudizio suppone innanzi a sé l' esistenza di chi giudica, e però è sempre un atto secondo, laddove l' intuizione è l' atto primo pel quale esiste il principio intelligente, è l' inesistenza d' un principio reale nell' idea come in suo termine, e quindi è la costituzione del soggetto atto a intendere e portare giudizio. Di poi l' ente si pensa colla percezione intellettiva. Questa è un atto del principio che intuisce l' idea, al quale essendo dato il sentimento, lo apprende necessariamente nell' idea in cui egli inesiste, e però lo apprende come ente in quanto nel sentimento gli è dato il principio senziente, ed insieme apprende anche tutto ciò che è richiesto dall' ordine dell' essere intuíto, benché non sia compreso nel sentimento come la realità pura straniera. Noi abbiam trattata la questione: se questa percezione sia un giudizio, e abbiamo detto che avanti ch' ella si formi non esistono i due termini del giudizio, cioè il soggetto e il predicato distinti fra loro; ma che dopo compiuta la percezione si può per via d' analisi risolverla in un giudizio «( Sistema Filosofico , 43 7 50) ». Questa espressione dunque: « egli esiste », esprime l' analisi della percezione dopo che è già fatta, non la percezione nell' atto del farsi, perocché egli, il sentimento, prima che aggiungiamo la parola esiste, essendoci del tutto incognito non è atto a fare da subietto del giudizio. Se dunque attentamente si considera la proposizione: « questo sentimento è un ente », ovvero piú in generale: « il tale oggetto è un ente », manifestamente si scorge che già la prima parola della proposizione: « questo sentimento », ovvero « il tal oggetto contiene l' ente », significa un ente perché significa un oggetto cognito, e quindi la seconda parte della proposizione: « è un ente », non è altro che una ripetizione di ciò che fu già detto nella prima parola; se non che la prima parola esprimente il subietto dinotava l' ente unito individualmente colla sua determinazione come è in natura, quando la seconda parte della proposizione pone l' ente come fosse un elemento separato, il che è un puro arbitrio della mente, che ha virtù di astrarre e dividere ciò che è indiviso ed anche indivisibile. Scorgesi da tutto ciò: 1) Che la verità ontologica consiste nell' ente, e che ciò che si pensa ha piú di verità ontologica quanto piú ha di ente, e ha meno di verità ontologica quanto meno ha di ente, e che l' aver piú o meno di ente è un fatto al tutto indipendente dai nostri giudizŒ e dalle nostre proposizioni, dal nostro assenso o dissenso. 2) Che questa verità ontologica non può essere espressa direttamente in un giudizio o in una proposizione, ma viene pensata immediatamente nel pensiero dell' ente; e che allorquando si scioglie questo pensiero in una proposizione, questa non lo rende con esattezza. Perocché interviene un' operazione della mente che divide quello che è indivisibile, e mentre la verità ontologica sta tutta e compiutamente racchiusa nel semplice pensiero dell' ente, il quale ente pensato non somministra piú che un solo de' termini del giudizio, per esempio il subietto, la mente per via di analisi cerca di scioglierlo e spezzarlo ne' due termini del subietto e del predicato; e per far ciò ella è costretta a replicar due volte la stessa cosa, giacché non può pronunciare il solo subietto senz' avere espresso tutto il pensiero dell' ente a cui spetta la verità ontologica, mentr' ella pur vuole estenderla e diffonderla nella copula e nel predicato, che non le aggiungono se non una inesatta ed impropria superfluità. Ogni intelligenza ha per sua legge fondamentale il principio di cognizione che dice: « il termine del pensiero è l' ente ». In oltre ogni intelligenza ha quest' altra legge « di poter pensare tutto ciò che sente », perocché ogni sensibile è contenuto nella sfera dell' essere come il meno nel piú. Finalmente l' intelligenza umana ha una terza legge, ed è: « dopo aver pensato l' ente, poter limitare la sua speciale attenzione in modo che ella non abbracci tutto l' ente, ma solo un elemento, o una relazione ». Queste sono le tre leggi piú generali del pensare umano. In virtú della prima legge, la mente umana non può pensare che l' ente (perché questo costituisce l' essenza d' ogni pensiero); ma per la seconda e terza legge, ella pensa anche il sensibile e l' astratto . Come dunque si conciliano queste tre leggi? Non sembrano esse in contraddizione? Perocché mentre la prima dice che l' intelligenza, ogni intelligenza, non può pensare che l' ente, le altre due dicono che l' intelligenza umana, può pensare anche quello che non è ente, come il sensibile e l' astratto : perocché l' ente essendo per essenza uno, semplicissimo, indivisibile, se gli manca qualche cosa non è piú ente, e però quello che è parte di lui o elemento di lui, non è lui. Questa conciliazione si fa con una quarta legge dello spirito umano, la quale si è, che « l' umana intelligenza suppone ente quello che vuol pensare, ancorché non sia ente »e con questa supposizione lo pensa. Né per questo il pensare umano necessariamente s' inganna. Perocché quantunque egli pensi gli elementi e le parti relative dell' ente come altrettanti enti, tuttavia l' intenzione del pensare non si ferma alla forma di ente aggiunta pel bisogno della concezione; ma termina in quei relativi e parziali, per intendere i quali s' indusse a vestirli da enti, e le sue azioni stesse riferisce a questi. Oltre di che può sempre colla riflessione tornare su cotesta sua fattura, e in essa discernere l' ente aggiunto e sceverarlo dall' elemento o parte relativa che per quell' aggiunta rese pensabile, e cosí istituisce una critica del proprio pensiero mediante un altro pensiero piú elevato e perfetto. Or la dottrina della verità ontologica viene ad essere questa critica appunto del pensare umano, in quanto egli pensa il non ente sotto la forma di ente. Perocché la verità ontologica è lo stesso ente come oggetto del pensiero, e non come mezzo del pensiero. Onde procedono queste due proposizioni: 1) Che il termine del pensiero ha piú di verità ontologica piú che egli ha di ente non mutuato dalla mente, ma in proprio. 2) Che medesimamente il pensiero ha piú di verità ontologica piú che il suo termine ha di propria entità, e non aggiuntagli dalla mente per necessità di concepirla. La verità ontologica adunque è l' ente per essenza. Ma questa maniera assoluta di definire la verità ontologica uguagliandola, o anzi identificandola all' ente, non dimostra aver relazione con una mente, poiché egli pare che l' ente considerato in se stesso e per assoluto a niuna mente si riferisca. La quale obbiezione cade da se stessa, purché si osservi che la ragione, per la quale il concetto assoluto dell' ente non involge quello di una mente in cui inesista, altra non è se non la stessa imperfezione del pensar nostro. Ma una riflessione piú profonda ci fa conoscere che ogni ente da noi concepito, di cui possiam favellare, è necessariamente oggetto, e che il concetto di oggetto suppone sempre quello di soggetto intelligente, e però qualunque ente di cui si parla involge una relazione intrinseca ed essenziale con una mente. Ma se l' ente di cui lice pensare e favellare è necessariamente oggetto, e se l' oggetto è relativo ad una mente, questa relazione non determina per sé sola a qual mente egli sia relativo. E primieramente apparisce ad evidenza, che egli non ha alcuna necessità di essere relativo alla mente umana, o ad altra mente qualsivoglia finita e contingente; perocché potendo tutte queste menti non essere, ne verrebbe che anche l' essere potesse non essere, il che è un assurdo manifesto. Se dunque si considera che l' ente essenziale è un oggetto necessario, forz' è conchiudere ch' egli abbia una relazione necessaria con una mente necessaria, nella quale per sua propria natura inesista ed essa in lui secondo i diversi rispetti di sciente e di scito. E poiché l' essere essenziale come oggetto inesiste per propria essenza in una mente necessaria, perciò questa mente lo dee conoscere e penetrare in tutto il suo ordine intrinseco, e quindi dee conoscere in lui se stessa, giacché nel suo ordine la contiene e racchiude. Onde se le menti finite non vedono nell' ente oggetto se stesse, e però loro sembra che l' ente oggetto abbia un modo di esistere suo proprio fuori di qualunque mente, la mente infinita all' incontro vede nell' ente oggetto se stessa, e in se stessa vede l' ente oggetto; ond' ella conosce immediatamente che l' ente oggetto esiste per sé, e questo esistere per sé è un esistere nella mente infinita che pure esiste in lui per sé. Quando adunque si dice che la verità ontologica è l' ente per essenza, allora non si piglia già l' ente in quanto è fuori della mente, come apparisce al nostro intuito; ma si piglia l' ente in quanto noi con un ragionamento ontologico trascendente veniamo a conoscere che è per essenza nella mente divina, onde la verità è cognita per la sua propria essenza, e quando i metafisici distinguono il vero non cognito , e il vero cognito , la distinzione non è assoluta, ma soltanto relativa alla mente umana o altra mente finita (1). Indi nella mente divina la verità è conosciuta per sua essenza, onde l' essere oggetto e l' essere conosciuto nella mente divina è il medesimo. Di che la mente divina non solo conosce, ma ha sempre conosciuto l' ente pienamente in tutto l' ordine suo, e niuna cosa che non sia ente è da lei conosciuta come ente, nel qual caso ci avrebbe deficienza di verità ontologica in quella mente, il che è impossibile. La mente umana all' opposto non fa che partecipare di questa verità ontologica con certa misura e contingenza. Diciamo che la mente umana partecipa di questa verità ontologica che risiede nella mente divina come in sua propria naturale sede. Perocché ella intuisce l' ente come oggetto, e questo oggetto lo riceve, non procede da lei, è anteriore a lei. E` ben da riflettersi che l' oggetto veduto dalla mente umana è oggetto per sé, e non in virtú della mente umana che è posteriore a lui, e che dicesi mente soltanto perché intuisce l' oggetto. Diciamo ancora, che la mente umana partecipa della verità ontologica con misura e contingenza. E in quanto alla contingenza, ella è manifesta, poiché la stessa mente umana è contingente. In quanto poi alla misura, ella si scorge in tutte quelle limitazioni del pensare umano che abbiamo a lungo e in varŒ luoghi descritte, le quali si possono ridurre a due, che per la loro generalità abbracciano tutte l' altre sotto di sé, e queste sono: 1) Il non estendersi l' intuito dell' umana mente se non all' essere iniziale, e il resto dell' ente contenersi soltanto virtualmente in quell' ente virtuale, che le è dato a vedere attualmente. 2) Il dover ella percepire o pensare come ente quelle cose che non sono enti, ma sono appartenenze dell' ente; ond' è che tali percezioni e pensieri hanno qualche cosa di ontologicamente falso, il che però non pregiudica alla logica verità de' giudizŒ e delle proposizioni. Dalle quali cose tutte possiamo conchiudere che si può ragionare della verità ontologica in due maniere: o considerandola in se stessa qual' è nella mente divina, o considerandola qual' è partecipata dalla mente umana. Gioverà altresí a chiarire il concetto di verità ontologica definirla in altre parole, dicendo ch' ella è l' identità dell' ente reale coll' ideale. Poco innanzi noi dicevamo che la verità ontologica è l' ente per essenza. Ora l' essenza dell' ente si manifesta nell' essere ideale. L' ente reale adunque quanto piú prende di quell' essenza che nell' ideale si mostra, tanto ha piú di verità ontologica. E quanto egli partecipa del concetto, della ragione, ossia dell' idea dell' ente, tanto egli s' identifica con essa. Quindi quanto è maggiore l' identificazione del reale coll' ideale dell' ente, tanto maggiore è la verità ontologica di cui parliamo. Se questo discorso si fa dell' essere puro, allora parlasi di una verità ontologica assoluta. Ma se si parla di enti limitati, l' identificazione del reale col loro concetto determinato e specifico dà luogo ad una verità ontologica relativa. Ogni maniera di verità suppone sempre una relazione fra due termini, l' uno dei quali può dirsi tipo , e l' altro ectipo . Il concetto di tipo e di ectipo non rappresenta già forme secondarie; perocché il tipo e l' ectipo appartengono allo stesso essere per essenza, sono forme primitive le quali costituiscono una parte di quell' ordine pel quale egli è organato. L' essere come tipo è l' essere nella sua forma ideale, l' essere poi come ectipo è l' essere nella sua forma reale; è sempre una sola essenza, un solo e medesimo essere sotto due forme per le quali è in sé ordinato. Ora qui si può domandare « se i vocaboli di verità e di vero debbano applicarsi al tipo, o all' ectipo, o alla relazione fra loro ». Noi abbiamo detto piú sopra, che una relazione si scioglie in due abitudini . E veramente anche i due termini nominati, il tipo e l' ectipo, hanno un' abitudine l' uno rispetto all' altro; il tipo ha un' abitudine in verso all' ectipo, e l' ectipo ha un' abitudine in verso al tipo, nelle quali due abitudini si scioglie la loro relazione , non rimanendo altro, che sia quasi nel mezzo, fuori di quelle rispettive abitudini. Ciò posto, diciamo che la parola verità esprime l' abitudine del tipo in verso all' ectipo; e che all' incontro la parola vero esprime l' abitudine che ha l' ectipo in verso al suo tipo. Se noi applichiamo questa proposizione al primo tipo e al primo ectipo, a quello che è per essenza tipo, e a quello che è per essenza ectipo, cioè all' ideale e al reale , noi ne avremo che l' idea dell' essere è la verità, e che i reali sono veri in quanto adempiono in sé ciò che quell' idea manifesta, e cosí in quanto sono ectipi di lei. Ora è da avvertire che una cosa qualsiasi dicesi vera in quanto partecipa, adempie, esprime la sua verità ; e però acconciamente di ogni cosa vera si dice che ha la sua verità; il che non toglie che il vocabolo verità non significhi il tipo. Illustriamo tutto ciò percorrendo le principali maniere di veri e di verità rispettive, seguendo l' uso del parlar comune, e in ciascuna distinguiamo il tipo e l' ectipo. 1) Verità ontologica assoluta . - In questa il tipo è l' idea (Verità), e l' ectipo è il reale in quanto adempie in sé l' essere che s' intuisce nell' idea (Vero). 2) Verità ontologica relativa . - Il tipo è il concetto (Verità), e l' ectipo è il reale finito in quanto adempie in sé quell' essere limitato che s' intuisce nel concetto (vero). 3) Verità logica . - Il tipo è la convenienza del predicato col subietto (verità), e l' ectipo è l' assenso dato a quella convenienza, sia soltanto internamente coll' animo (vero logico), sia anche espresso colle parole (vero dialettico). 4) Verità morale . - Il tipo è la legge (verità), l' ectipo è l' azione che adempie la legge (vero). 5) Verità artistica . - Il tipo è la natura, o l' archetipo ideale della natura, o un capolavoro che si piglia a ricopiare (verità), ectipo è l' opera dell' artista, che ritrae tali esemplari (vero). A questa maniera di verità si può ridurre altresí la verità di traduzione d' una in altra favella, dove lo scritto originale è il tipo (verità), la traduzione è l' ectipo (vero). 6) Verità significativa . - Il tipo è la cosa segnata (verità), l' ectipo è il segno (vero). Ma se la verità ontologica è la forma ideale dell' ente, che cosa sarà il vero primitivo ed originale? Egli sarà l' ente stesso considerato nella sua relazione di ectipo all' ideale. Ora l' ectipo primitivo e originale dell' ente si porge essenzialmente in due forme diverse, e sono le altre due forme categoriche dell' ente medesimo, il reale e il morale: quindi egli è essenziale all' ente di esser vero in quanto è realità, e di esser vero in quanto è moralità, come gli è essenziale di essere verità in quanto è idea ossia manifesto. L' essere è conosciuto per sé ed amato per sé: queste sono due condizioni essenziali all' essere, le quali si trovano racchiuse nel suo stesso concetto, quand' egli si arricchisca dalla mente colla realità, e di lui cosí arricchito si mediti l' ordine intrinseco. Quindi è che l' essere è ontologicamente vero, e vero sotto due forme; vero in quanto è conosciuto; vero in quanto è amato. Questa doppia identificazione dell' essere come ectipo coll' essere come tipo è l' intrinseco ordine dell' essere assoluto o assolutamente considerato. L' essere assolutamente considerato è l' essere considerato come puro essere, non aggiungendovi altro. Questa maniera di considerare l' essere può aver luogo in un modo limitato o illimitato. Si considera l' essere assolutamente, ma in modo limitato quando si esclude qualche cosa. Ma si può considerar l' ente assolutamente senza esclusione alcuna, ed è allora che nello stesso concetto dell' ente si trova essere lui per sé inteso e per sé amato. Il che se ci vien dato dal concetto dell' ente, necessariamente si deve trovar ciò nell' ente assoluto, come quello che compie e adegua tutto quel concetto. Veniamo all' ente relativo. L' ente relativo è quello che non è ente per sé: non è ente per sé quello che non si può pensare in sé e per sé e senza ricorrere ad altra cosa che non è lui. Ora niun ente finito non può essere pensato in sé e per sé, cioè assolutamente, senza ricorrere all' essere ideale che è un diverso da lui (1). Dunque egli per se stesso non è ente, e quindi per se stesso non è ontologicamente vero. Questa è una limitazione ontologica degli enti finiti: che non siano veri enti per sé, non avendo per sé e in sé la verità che li renda per sé manifesti. Sí fatta limitazione si riduce a questo, che non hanno per sé la forma ideale, sicché l' essere di questa è diverso dall' esser loro. Ma l' ente è anche nella forma reale: anche sotto questa forma vi è tutto l' ente: quell' ente dunque che non è per sé vero, mancandogli la forma ideale, non potrebbe essere ente tuttavia compiuto nella sola forma reale? No, poiché quantunque sotto la forma reale possa essere e sia tutto l' ente, tuttavia questo non ha luogo se non a condizione che l' ente reale inesista nell' ideale, o per dir meglio, che l' ente reale sia per sé manifesto perocché il reale non è tutto l' ente se non è per sé manifesto e quindi vero, mancandogli in tal caso l' atto del conoscere che è reale, e quello dell' amare che è pur reale, i quali atti reali non potrebbe avere per sé, se egli non fosse per sé inteso e per sé amato. Onde l' ente non può esser tutto sotto la forma reale, se ad un tempo non sia anche tutto e identico sotto la forma ideale e morale. L' ente reale adunque che non è vero per sé conviene necessariamente che sia un reale finito, e per dir meglio, non ente: egli adunque non è ontologicamente vero, ma diviene vero soltanto per partecipazione, quando lo si unisce a quell' ente che è vero per sé. Dopo ciò che fu detto, non è piú difficile intendere la sentenza de' Padri della Chiesa, i quali asseriscono, che le cose finite a Dio paragonate non sono, sono nulla (1): non sono, perché non sono per sé enti. Nello stesso tempo però sono, se si considera che partecipano dell' ente che in sé e per sé non hanno. Onde S. Agostino acutamente scrisse, le cose inferiori a Dio « nec omnino esse, nec omnino non esse ». E prosegue: [...OMISSIS...] . Cioè tu sei per te stesso, e le creature non sono per se stesse. Ora allo stesso modo che le cose finite non sono e sono, cosí pure non hanno verità ontologica per sé, ma ne partecipano. Il gran vescovo d' Ippona pone questa sentenza: « Id vere est, quod incommutabiliter manet (3) ». Qui egli parla della verità ontologica, e non l' attribuisce che a Dio, perché egli solo è ente reale per sé, il che vuol dire, come abbiamo spiegato, è per sé reale nell' ideale, perocché solamente essendo per sé nell' ideale è per sé ente, vero ente, e però non ente per accidente, sempre ente « incommutabiliter manet ». Dice ancora quell' altissimo ingegno, che le cose sono per altro quando inesistono in un altro, cioè in quello che è in sé e per sé ente, e cosí noi abbiam veduto che i reali finiti allora acquistano il concetto dell' essere, quando si contemplano inesistenti nell' essere ideale, quindi nell' essere per sé manifesto, che si riduce a Dio (4), a cui il santo Dottore cosí sublimemente favella: [...OMISSIS...] . Dove vien espressa quella inesistenza di cui parlammo, per la quale egualmente, ma sotto un diverso rispetto, si può dire, che i reali sono nell' essere e che l' essere è ne' reali. In che dunque sta la falsità delle cose? Perocché altro è non essere vere, altro è essere false. La verità ontologica non ha falsità in contrario, perocché consistendo ella nell' ente, questo è o non è, ma non è mai falso. Convien dunque osservare che non si può parlare d' una falsità ontologica, la quale non esiste; ma soltanto d' una falsità logica, o se si vuole, psicologica, cioè relativa alla percezione e alla concezione dell' uomo, non di una falsità delle cose in sé. La falsità adunque non cade nelle cose, ma nell' uomo quando le piglia per enti in se stessi, laddove non sono tali, il che pure insegna S. Agostino con questa sentenza: [...OMISSIS...] . Noi abbiamo già altrove descritti gli errori che prende il pensare imperfetto e comune degli uomini: questi costituiscono la falsità psicologica , che noi cosí chiamiamo per indicare che la è data dalla limitazione della natura conoscitiva dell' uomo, a cui non reca danno piú che non glielo rechi la sua propria limitazione, sia perché non lo impedisce dal conoscere la verità, di cui egli abbisogna, sia perché egli può purgarsi di quella maniera di falsità che si mescola nelle prime sue operazioni, coll' uso di quella verità pura ed assoluta di cui egli partecipa. Questa maniera di falsità psicologica è piuttosto una persuasione istintiva, che un ragionamento, e però non è un giudizio analizzato; non si può dire una falsità logica, perché la logica sta propriamente nel ragionamento, ossia nel sillogismo al quale si appoggiano le proposizioni. Si dà dunque verità, e non già falsità ontologica: ciò che non è vero ontologicamente, non è per questo ontologicamente falso; ma il non vero ontologicamente occasiona nell' intelligenza finita il falso psicologico. Cosí i reali finiti non sono veri per se stessi, perché non sono enti per se stessi: or l' intelligenza finita li percepisce come enti senza piú; onde facilmente la riflessione attribuisce poi loro l' essenza di ente in proprio, e cosí cade nel falso. Ma qui nasce una difficoltà. - Noi abbiamo detto che tutto l' essere è manifesto per sé; che nell' essere ideale si contiene tutto virtualmente; e che questa virtualità non può essere che relativa a noi intelligenze finite, ma suppone che nell' essere ideale, il quale è diverso da noi, tutto sia conosciuto attualmente, il che trae la necessità d' un essere assoluto, nel quale tutto sia conosciuto per se stesso, perciò anch' esse le cose finite e contingenti. Ma se le cose finite e contingenti sono conosciute per se stesse, in tal caso non sono piú finite e contingenti. Questa gravissima difficoltà rimane sciolta nella mente di colui che abbia chiaro il concetto dell' esistenza relativa di cui abbiam favellato. Questa relatività, è inchiusa nella limitazione ontologica. Una tale relatività di esistenza non cade nell' essere assoluto, benché l' essere assoluto ne abbia la cognizione, e cosí l' esistenza relativa, costituente le cose finite, sia tale anche rispetto alla mente divina. Ma appunto perché nell' essere assoluto non cade la stessa relatività e limitazione ontologica, perciò si dice giustamente che la relatività e la limitazione ontologica costituente le cose finite è fuori di Dio, fuori dell' essere assoluto; e in questo senso le cose costituite sono fuori di Dio, da lui essenzialmente diverse, il qual vero annienta il panteismo. Si dirà: se l' essenza ideale delle cose finite è in Dio ed è diversa dall' esistenza reale delle cose, in tal caso ben si vede come le cose finite non sieno conosciute per se stesse, quindi non sieno per sé enti, e ancora si vede come Iddio conosca per sé l' essenza ideale delle cose: ma l' essenza ideale delle cose non fa conoscere che la loro possibilità, e non la loro sussistenza. Come adunque in Dio ossia nell' essere assoluto è ella cognita la sussistenza delle cose finite? Convien qui ricorrere all' azione ontologica anteriore, di cui abbiamo parlato innanzi. Le cose finite incominciano ad esistere per un' azione ontologica che precede la loro esistenza, e che non costituisce la loro esistenza relativa: cotest' azione è l' atto di Dio creante, e quest' atto è in Dio, ed è Dio, e però è noto per se stesso come tutto ciò che è essere assoluto. Tra quest' atto, e i reali finiti non v' ha nulla di mezzo; ma posto quest' atto, i reali finiti sono in quel modo, tempo e misura che determina quell' atto. Ora questo modo, tempo e misura è determinato dall' essenza ideale delle cose e dalla perfetta sapienza del creatore. Dunque l' essere assoluto essendo conscio del proprio atto creante, che è per sé noto perché è lui stesso, ed essendo conscio dell' atto della propria sapienza che lo determina, è conscio altresí della sussistenza relativa delle cose, la cui essenza ideale gli è pure nota per sé. Cosí egli conosce le cose finite aventi un' esistenza relativa in sé medesimo come in causa, dov' esse hanno la loro radice anteriore e la forza d' esistere relativamente, che è lo stesso atto creante. Quello che impedisce d' intendere che la cosa è cosí, è il non conoscersi abbastanza la dottrina della limitazione. Non si suol badare ad altra maniera di limitazione eccetto quella del piú e del meno: quella che determina i gradi accidentali che si osservano nella qualità delle cose. La limitazione qui è accidentale. Il soggetto rimane identico, rimane identico anche il suo termine essenziale, il termine non è che limitato negli accidenti. Ma la limitazione ontologica è totalmente d' altra natura. Perocché ella limita ciò che costituisce l' ente. Ma la costituzione dell' ente risulta da due parti, perocché l' ente è costituito come ente , e l' ente è costituito come ente specifico : la mente distingue ciò per cui un ente è costituito come ente, da ciò per cui un ente è costituito come ente specifico. L' ente specifico è costituito da un principio e da un termine, il qual termine è la sua forma sostanziale. Se si cangia questa forma sostanziale, è cangiato l' ente specifico. La forma sostanziale non è ente, ma soltanto una parte costitutiva dell' ente; ella perciò si concepisce dalla mente come un subietto dialettico. Quando si considerano i suoi cangiamenti e le sue limitazioni, allora questo subietto dialettico non è altro che un concetto generico, cioè il concetto del termine in genere, il concetto della forma sostanziale in genere. Certe limitazioni adunque cangiano l' ente specifico, perché limitano la sua forma sostanziale, e quindi cangiano il principio dell' ente che è il subietto reale, il quale è individuato dal suo termine sostanziale. Questa è la prima maniera di limitazione ontologica, la quale determina la specie degli enti. Veniamo ora a considerare ciò per cui un ente è costituito come ente, il che ci fa conoscere la seconda maniera di limitazione ontologica. Questa non cangia soltanto la specie, ma cangia a dirittura l' essere. L' essere è uno e semplicissimo. Quindi accade che se si concepisce l' essere in qualunque modo limitato in se stesso, non gli può piú convenire la parola essere nel significato puro e semplice, nel quale prima gli si attribuiva. Quando si parla in questo modo dell' essere, allora si parla assolutamente di lui, anzi si parla di lui come assoluto essere. Quindi l' assoluto essere non può ricevere alcuna limitazione. Tuttavia non ripugna la limitazione che non è assoluta, ma soltanto relativa; perocché questa non affetta né limita l' essere nel senso assoluto. Ma se si dà il caso di una limitazione relativa, in tal caso questa limitazione relativa, totalmente straniera all' essere assoluto, non potrà appartenere che ad un essere relativo, il quale non è essere nel senso puro e semplice della parola. Quindi una tale limitazione non solo cangia la specie dell' essere, ma cangia l' essere stesso. Laonde l' essere relativo è lo stesso essere che l' essere limitato, ma questo essere limitato appunto perché è limitato non è piú l' assoluto; né vi ha nulla di comune fra l' uno e l' altro, perocché nell' essere limitato l' essere assoluto, che è il suo contrario, è semplicemente tolto via per l' opposizione delle nozioni, giacché l' assoluto come assoluto non piú s' intende, tosto che vi si apponga una limitazione. Il supporre dunque che fra l' essere assoluto e il relativo vi abbia qualche cosa di comune è intrinsecamente assurdo. Dunque molto meno vi può avere un subietto reale comune. Questo subietto è puramente immaginato dalla mente, è l' essere ideale e iniziale, il quale dalla mente si considera per ugual modo, sia qual subietto sia qual predicato, onde accade che egli si predichi di Dio e delle creature. Ma ciò non toglie che quando si predica delle creature si attribuisca loro un' esistenza soltanto relativa. Perocché questo essere ideale non appartiene in proprio alla creatura, che soltanto lo riceve ad imprestito dalla mente; ma sí appartiene all' assoluto, è un' appartenenza di questo, è una forma primitiva in cui l' essere è. Tolto via adunque dalle creature questo subietto ideale che loro non appartiene, esse non sono piú enti: tolto via da esse per astrazione , esse non presentano altro concetto che di non enti, in via ad essere, rudimenti di enti, entità e non enti, ed entità relative; tolto poi via da esse assolutamente, non per mera astrazione, ma per vera negazione , le creature non danno piú altro concetto che quello di meri assurdi. Le creature dunque non possono essere concepite come enti se non congiungendole colla loro essenza ideale ed eterna, il che fa la mente concependole, e per questo anco si dice che sono enti per partecipazione . Di che procede che i finiti sono veri enti per partecipazione del vero ente , e questa è quella verità ontologica, che loro solo conviene. Ma in quanto i finiti sono in Dio, non hanno essi alcun' altra verità ontologica? Noi abbiamo distinto un triplice modo del loro inesistere in Dio: il modo causale, il modo eminente, e il modo tipico. Iddio contiene i reali finiti in modo causale, come la causa efficiente contiene l' effetto, non come ogni causa efficiente, ma in quel modo proprio in cui li contiene la causa creante. Or questa causa non ha nulla affatto di comune coll' effetto che prima al tutto non esisteva. Quando adunque si dice: « i finiti reali inesistono nella causa creante »s' intende dire unicamente, che in quella causa esiste quella forza che non è dessi, ma che è il loro sostegno trascendente, ed ultra sostanziale. Qui dunque non ha luogo la questione della verità ontologica de' finiti reali in Dio; perché i finiti reali nella loro causa altro non sono che la loro causa, e la verità di questa non è la verità loro, ma la verità ontologica di Dio stesso. Si dice poi che i finiti sono in Dio in un modo eminente, per significare che tutti i pregi delle creature sono in Dio come il meno è nel piú, senza divisione, senza limitazione di sorte alcuna, ben anco senza distinzione, perciò fusi quasi direbbesi nell' infinito. Ma se i pregi che sono nelle creature non hanno piú divisione, sono forse ancora quei dessi di prima? No certamente. Ora quando si dice che i pregi delle creature, e tutto ciò che hanno di positivo, esiste in Dio in un modo eminente, s' intende che que' pregi positivi esistono in Dio senza separazione, senza limitazione e senza distinzione. Ora in questo stato que' pregi non sono piú que' pregi, non è piú nulla di ciò che trovasi nelle creature, ma è tutt' altra cosa, piú eccellente certamente, piú grande, anzi cosa infinita; ma finalmente non sappiamo che cosa sia, sappiamo solo che è Dio stesso. Chi dicesse diversamente, chi dicesse per esempio, che esistono in Dio propriamente i pregi delle creature con qualche giunta, questi professerebbe il panteismo, quella specie di esso che si potrebbe denominare teosincretismo. Finalmente le cose finite inesistono in Dio come nel loro esemplare; o, in altro modo, in Dio esistono le essenze eterne delle cose, non le cose stesse reali, il cui essere è relativo. Ora gli esemplari che stanno nella mente divina determinati dall' atto della creazione sono la stessa verità ontologica delle cose finite. Queste adunque hanno in Dio e non in se stesse la loro verità ontologica. Non si può dunque dire che i reali finiti sieno in Dio ontologicamente veri, ossia veri enti; ma si dee dire che in Dio hanno la loro verità ontologica, e che sono veri in se stessi in quanto partecipano della loro verità che è in Dio: la quale partecipazione nasce per opera della mente che li concepisce, cioè unisce i reali relativi ai loro esemplari, alle loro eterne essenze o ragioni, in una parola vede congiunto il reale finito coll' infinito ideale. Uno dei piú importanti, e nello stesso tempo dei piú difficili concetti della scienza ontologica, si è quello della relatività degli enti finiti. Ove lo studio di tale scienza sia pervenuto ad intenderlo con tutta chiarezza e pienezza, egli ha già nelle sue mani la chiave dell' ontologia intiera. Laonde noi crediamo necessario rifarci sopra questo concetto e perscrutarlo a parte a parte. Il nostro discorso deve riguardare l' ente relativo compiuto, perocché gli enti relativi incompiuti si riducono sempre a quello come parti al tutto: ciò adunque che si può dire della relatività di questi è un' appartenenza, un corollario della relatività di quello. Ora, prima di tutto qui è uopo rammentare che noi già dimostrammo due essere le condizioni dell' ente relativo compiuto: 1) che egli sia un soggetto; 2) ch' egli sia un soggetto intelligente. Dobbiamo dunque chiarire come sia vera questa tesi: il soggetto finito intelligente è un ente relativo. Piú sopra abbiamo supposto la possibilità di un' intelligenza che altro non sia che un' intuizione dell' essere ideale. Convien dunque dimandare se ciò che abbiam supposto per ragion di metodo possa essere veramente. Se possa darsi un ente relativo, che altro non sia che una pura intuizione dell' ideale, di maniera che la stessa intuizione sia anche il principio, il soggetto, l' atto primo dell' ente. Se quest' ente è possibile, non potrebbe avere atti secondi senza cangiarsi in un altro, né potrebbe avere altro sentimento che quello dell' intuizione stessa che sarebbe il suo unico atto. Ma qual è il sentimento della intuizione? A me non vien dato di concepirlo: perocché l' intuizione altro non sente, per quanto mi pare, che l' essere ideale suo termine, e questo essere ideale sentito non è altro che la luce dell' essere ideale posto in atto, perocché l' essere ideale non sarebbe ideale, non sarebbe luce se attualmente non lucesse, se non fosse per sé sentita ossia manifesta. Ora la pura luce dell' essere ideale sentita manifesta non si può distinguere dallo stesso essere ideale qualora non vi sia un altro principio da lei diverso che la sente. Ma questo principio non esiste se egli non ha alcun sentimento proprio distinto da quello che, come dicevamo, è essenziale allo stesso essere ideale. Dunque non può esistere un ente finito che non sia altro che intuizione pura dell' essere ideale, giacché un tal ente non avrebbe nulla che lo distinguesse dall' essere ideale medesimo. Acciocché dunque esista un soggetto finito intelligente, egli è uopo ch' egli si abbia oltre l' intuizione dell' essere ideale un sentimento proprio che lo distingua dall' essere ideale medesimo, e a lui lo contrapponga. Un tal essere sente adunque per necessità di sua natura due cose. Egli sente l' essere ideale termine della sua intuizione; e in quanto lo sente, l' essere ideale relativamente a lui è, è luce a lui: questo lui poi è l' altra cosa che egli sente: per dir meglio è il sentimento proprio. Or noi abbiam veduto, che dato un sentimento proprio il quale abbia l' intuizione dell' essere ideale, inesiste a se stesso nell' essere ideale, di modo che si sente oggettivamente e quindi si sente come ente. Questa è la ragione per la quale, fra gli enti relativi, quello che è intelligente si dice ente compiuto; perocché un tale finito reale ha dalla sua propria natura l' inesistere nell' ente e sentire questa sua inesistenza. Egli non è l' ente, ma si sente nell' ente per la sua propria natura; è il sentimento della sua propria esistenza oggettiva , senza la quale non si dà ente, perocché l' ente è per sé oggetto. Ma l' oggetto in cui si sente, l' essere ideale, non è lui stesso; dunque la sua esistenza oggettiva è partecipata: egli è ente per partecipazione . Ora, se il soggetto finito intelligente è ente per partecipazione, conseguentemente non è ente assoluto, ma relativo . Perocché egli è ente per la relazione che ha coll' ente, o viceversa per la relazione che l' ente ha con esso lui. Alla dottrina esposta circa la relatività degli enti finiti taluno trarrà un' obbiezione, da quelle sacre parole: « facciamo l' uomo a nostra imagine e somiglianza ». Come dunque sta scritto che l' uomo, ente relativo com' è, sia fatto ad imagine e somiglianza di Dio? E` da rammentarsi quello che hanno osservato i Padri della Chiesa, che la sacra lettera vigilantemente dice, che l' uomo fu fatto ad imagine e similitudine di Dio, e non dice che l' uomo sia l' imagine o la similitudine di Dio, e né tampoco che sia simile a Dio. Perocché, che cosa è la similitudine? La similitudine, altro non è che l' idea tipo delle cose: le cose sono simili fra loro quando si conoscono con un' idea comune: quest' idea dunque è quella che forma la loro similitudine (1). La similitudine dunque di tutte le cose, quella che rende simili fra loro tutte le cose in quanto sono enti, è l' essere ideale, il quale si riduce a Dio come una sua appartenenza. L' essere ideale e l' essere oggetto è per sé. Ora la mente inesistendo in lui partecipa dell' esistenza oggettiva. Dunque la mente è fatta alla similitudine di Dio, cioè a quella similitudine, a quell' ideale che è in Dio e che essendo in Dio è Dio. All' incontro la mente non è già questa similitudine, perché, come vedemmo, questa similitudine che è l' essere ideale è oggetto, e come tale, non soggetto, ed è eterno ed infinito; e la mente creata è un soggetto contingente e finito (2). Vi hanno adunque due proposizioni che sembrano contraddittorie e non sono: L' intelligente creato è a similitudine di Dio. Niuna cosa creata ha con Dio similitudine di sorta alcuna. La prima è vera perché l' intelligente creato partecipa dell' esistenza oggettiva dell' idea, che è per sé esemplare, o similitudine, e non si può staccare da quest' idea senza che ne perisca il concetto. La seconda è vera quando si considera l' ente creato solamente per quello che ha di suo proprio, che altro non è se non la relatività, di maniera che non ha di suo proprio nemmeno l' esser ente, dicendosi ente soltanto per la relazione che ha coll' ente, per la quale relazione l' ente s' unisce con lui. Cosí considerato il reale finito ha quella relazione con Dio, che ha il non ente coll' ente, nella quale di questo secondo si nega tutto ciò che si afferma del primo e viceversa, di maniera che neppur resta l' analogia. Ma quando lo si fa partecipare all' ente, o per l' ordine stabilito dalla creazione come accade nei reali intelligenti, ovvero per la concezione della mente, allora il creato partecipante l' ente acquista un' analogia con questo, lo imita in qualche modo, e il reale completo, ossia intelligente, con tutta proprietà si dice fatto alla similitudine dell' ente. Abbiamo detto che i reali relativi sono, come tale, termini esterni della creazione. E veramente il relativo non è fuori del relativo, e però non è nell' assoluto, il che sarebbe contraddizione: dunque il relativo non può essere un termine interno dell' atto creativo, perché se fosse tale sarebbe Dio, giacché l' atto creativo è Dio, e Dio è l' essere assoluto che esclude da sé il relativo. Ciò posto, il concetto di un tal ente è bensí eterno e però deve essere in Dio, ma la realizzazione di questo concetto dell' ente relativo non è altramente in Dio. Vi hanno dunque in Dio dei concetti senza che vi abbia la corrispondente realizzazione de' concetti puri, e questa è la ragione per la quale l' ideale apparisce separato dal reale: egli è separato in quanto rappresenta il reale finito, in quanto è l' esemplare del mondo, e come tale è separato anche in Dio dal reale che è fuori di Dio. Ora questo esemplare del mondo è l' oggetto della sapienza umana, come diremo in appresso, e però l' idea di cui l' uomo per natura è fornito è pura idea separata dalla realità. Or dunque il complesso di questi concetti si può chiamare e fu chiamata prima d' ora la sapienza creatrice (1). Non si deve già credere che questi concetti in Dio sieno realmente distinti l' uno dall' altro; ma tutti insieme costituiscono una sola sapienza creatrice e, come dicevamo, l' esemplare del mondo. E come in Dio debba essere l' esemplare sostantifico del mondo vedesi anche da questo, che l' essere è per la sua essenza manifesto, giacché l' esser manifesto è una delle tre forme primitive in cui l' essere è. Ora, se è manifesto, è manifesto tutto e non una parte. Avendosi dunque mostrato che il mondo esiste per via di creazione, cioè per una azione ontologica anteriore a lui, e però eterna, che s' identifica coll' essere stesso, forz' è che anche quest' azione sia per se stessa, per l' essenza sua, manifesta. Ma quest' azione è quella che pone gli enti relativi componenti il mondo. Or ella non sarebbe manifesta se non fosse manifesto il suo termine, il suo prodotto; dunque anche questo, cioè il mondo, è in Dio manifesto, e questo mondo manifesto è l' essenza ideale del mondo, l' esemplare sostantifico del mondo. Il quale esemplare manifesto per se stesso non può distinguersi realmente dal Verbo, se pel Verbo intendiamo l' essere, tutto l' essere per sé manifesto, appunto perché anche l' esemplare del mondo è per sé manifesto. Ma il mondo reale, l' ectipo di tale esemplare è realmente distinto e separato da Dio. Ora il mondo si riduce a un complesso di reali intelligenti, che sono gli enti finiti completi, e di altri incompleti, relativi a quei primi. Qual' è dunque la sapienza che convenga al mondo acciocché sia ente completo, cioè intellettivo? L' ente finito completo, noi abbiamo detto, si compone di due elementi, del suo elemento ideale e del reale, del tipo e dell' ectipo, dell' essenza e della realizzazione, della verità e del vero. Infatti, se vi ha il solo reale non è ancora ente completo, mancando l' essenza dell' ente; la sintesi di queste due cose, del reale colla sua essenza, completa l' ente. Dunque la sintesi del mondo e dell' esemplare del mondo fa sí che il mondo sia un ente finito completo. Ma questa sintesi si fa nella mente ed è la mente. Convien adunque che nel mondo vi sia una mente o piú menti, dove si scorga fatta o si faccia questa sintesi. Dunque era necessario che nel mondo vi avessero delle menti acciocché egli fosse completo, e la sapienza propria di queste menti doveva avere per oggetto l' esemplare del mondo. Nulla di piú si richiedeva acciocché il creato ottenesse la sua naturale perfezione di ente. Ma l' esemplare del mondo in Dio è ancor piú che esemplare del mondo, perché è ad un tempo il Verbo divino, cioè non è il solo mondo manifesto, ma è tutto l' ente manifesto. L' ente manifesto eccede adunque quella sapienza che è consentanea alla natura delle menti finite componenti il mondo. Di qui si vede chiaramente la distinzione e la separazione fra l' ordine naturale e l' ordine soprannaturale delle intelligenze finite. La qual dottrina conviene da noi divisarsi con piú alte considerazioni. Noi abbiamo parlato del mondo in quanto è intellettivo in generale. Questo mondo intellettivo risulta da piú intelligenze. Restringendoci noi a considerare l' uomo, egli non ha tutta la sua perfezione attuale nel primo momento in cui esiste; ma piuttosto trovasi da principio costituito come una potenza che si sviluppa gradatamente, e che sviluppandosi convenevolmente attinge la sua perfezione attuale (1). Ma poiché egli da principio è una potenza reale, quindi come non ha la perfezione attuale, cosí neppure può attualmente conoscerla, ma solo potenzialmente. Di che avviene che nel primo momento della sua esistenza non gli sia dato ad intuire l' esemplare del mondo, ma gli sia dato l' esemplare del mondo in potenza. Or questo esemplare del mondo in potenza è l' idea dell' essere indeterminato costituente, come abbiam veduto, la forma oggettiva della ragione umana. Ma l' idea dell' essere indeterminato ammette due sviluppi, l' uno naturale e l' altro soprannaturale. Il naturale è quello che abbiam detto procedere a mano a mano collo stesso sviluppo naturale dell' uomo, dimodoché in lui si va ognor piú disegnando e manifestando all' uomo il mondo. Il soprannaturale è l' opera di Dio solo, il quale fa sentire all' uomo come l' essere ideale si attui in modo da rendere Dio manifesto, manifestandosi cosí l' identificazione dell' esemplare del mondo col Verbo divino. Se dunque noi pigliamo tutti i concetti, i concetti dico immediati, cavati dalla percezione intellettiva di ogni sentimento proprio; se prendiamo dico tali concetti di tutti gli enti finiti intelligenti, che furono, sono e saranno, e tutti insieme li componiamo e ordiniamo nell' ordine, di cui il loro complesso è suscettibile; noi ci avremo in tal modo composto l' eterno disegno di Dio, l' eterno esemplare del mondo. Di che si scorge che l' eterno esemplare di Dio esprime il mondo nella sua relatività, nella quale solo esiste, e però non fa già conoscere qualche cosa di assoluto, ma di relativo, quale è unicamente l' esistenza, o l' entità degli enti creati. Di che si può e si dee dire, che la verità ontologica degli enti finiti è anch' essa una verità relativa a questi, e non assoluta, altro con ciò non significandosi se non che quell' esemplare non fa conoscere già come è l' ente assoluto, ma come l' ente apparisce relativamente agli stessi reali finiti, e aventi una relativa esistenza. Né da questo si può già dedurre, che dunque quella verità ontologica per essere relativa abbia qualche cosa di falso in se stessa. Abbiamo già veduto, che la verità ontologica, non ammette falsità ontologica a lei opposta. Oltracciò abbiamo distinta la verità ontologica dalla verità logica . Questa seconda, che procede dall' essere ideale, e consiste nell' assenso dell' animo ad una proposizione, è sempre assoluta ed incondizionata, e se non è tale non è verità, ma falsità logica. Ora la verità ontologica relativa non induce necessariamente alcuna logica falsità. Falsità logica sarebbe se noi pigliassimo la verità ontologica relativa per verità ontologica assoluta, cioè se noi asserissimo, che l' esemplare del mondo fa conoscere l' essere assoluto, siccome i panteisti fanno; ma fin a tanto che il nostro sentire si risolve nella proposizione, che « il detto esemplare del mondo fa conoscere l' ente relativo », noi sentiamo il vero, e la proposizione è di una verità logica assoluta. Ora questo appunto è quello che si avvera in Dio, il quale sa che l' esemplare del mondo esprime l' ente relativo ch' egli crea con quell' esemplare. Vero assoluto non è che l' ente assoluto, perché risponde alla verità dell' ente, è l' identità del reale coll' ideale. All' incontro oggettivo è ogni vero, anche il relativo, benché il vero ossia l' ente relativo non sia vero ente per se stesso, ma perché nella mente sintesizza col vero ente, cioè coll' ideale. In questa maniera i reali finiti, divenuti oggetti, si posson dire veri oggettivi, ma ad un tempo relativi, veri oggettivi per partecipazione della verità. Riassumiamo ora le diverse maniere di verità ontologica, di cui abbiamo qua e colà fatto menzione. I primi due generi adunque di verità ontologica sono quelli dell' assoluta e della relativa . Ma la verità ontologica relativa, di cui l' uomo va partecipe, ammette poi varie specie. E le due prime sono quella degli esseri reali, e quella degli esseri mentali. Gli esseri reali si suddividono ancora in due classi, gli uni hanno un solo grado di relatività, gli altri ne hanno due, cioè sono relativi de' relativi. I primi hanno un' esistenza soggettiva, sono soggetti, sono i principŒ senzienti7intellettivi individuati; i secondi hanno un' esistenza soltanto oggettiva, sono i termini de' primi; tali sono quelli, a ragion d' esempio, che si percepiscono come esseri bruti, i corpi, e la materia. Atteso dunque questi due gradi di relatività che hanno gli esseri finiti, si dee dire che il pensar nostro, la nostra immaginazione intellettiva ha piú di verità ontologica quando pensa come ente un soggetto, un principio individuato, che quando pensa come ente un corpo bruto, a cui non si può attribuire alcuna vera e sua propria soggettività, ed ancor meno poi quando pensa come ente un astratto, di che parleremo in appresso. E qui giova distinguere un' astrazione naturale , diversa da quella che l' uomo suol fare ad arbitrio, e alla qual sola si è riserbato sin qui il nome di astrazione, benché le due operazioni non differiscano sostanzialmente, almeno in quanto al risultato. La differenza fra questa specie d' astrazione naturale che fa la mente, e quell' astrazione che chiamammo arbitraria, e che la mente s' accorge piú facilmente di fare appunto perché suol farla scientemente, si è questa. Ogni astrazione si fa sopra un pensiero complesso che precede «( Psicologia , vol. II, n. 1313 sgg.) ». Ma nell' astrazione comune e arbitraria il pensare complesso suol essere quello di un ente attualmente concepito, o almeno per addietro, dalla mente; laddove .asterisco . nell' .asterisco . astrazione naturale, che noi facciamo in percependo i sensibili esterni, il pensare complesso è soltanto quello dell' ente virtuale, perocché noi applichiamo quest' ente virtuale ai reali sensibili senza curarci punto di esaminare quale elemento manchi a tali reali sensibili acciocché sieno enti completi, bastandoci di aggiunger loro questo elemento virtualmente, cioè lasciando questo elemento immerso nella virtualità dell' ente ideale che loro aggiungiamo. E qui, temendo piú l' ambiguità del discorso, che non l' accusa, che ci possa esser data, di prolissità, stimiamo opportuno di chiamare l' attenzione del lettore a distinguere viemmeglio la limitazione ontologica dalla limitazione virtuale . La limitazione ontologica, come abbiamo detto tante volte, è quella a cui soggiace il reale, laddove la limitazione virtuale è quella a cui soggiace l' ideale. Il reale si riduce al sentimento. Quindi la limitazione ontologica non è che la limitazione del sentimento sostanziale. La limitazione virtuale all' incontro nasce dall' essere nella sua forma ideale. L' essere ideale abbraccia sempre ogni cosa, manifesta ogni cosa, ma egli non manifesta all' uomo ogni cosa attualmente , ma virtualmente . Quindi la limitazione virtuale dell' essere ideale non moltiplica lui stesso in piú enti, perocché egli rimane sempre il medesimo essere manifestante ogni cosa, benché non manifesti all' uomo ogni cosa nello stesso grado e modo: onde ella non si dice ontologica, perocché ella non moltiplica l' ente; laddove la limitazione del sentimento sostanziale si dice ontologica, perché moltiplica gli enti, giacché ogni sentimento limitato è un ente diverso ed esclusivo di un altro sentimento. E che il principio della moltiplicazione degli enti non affetti lo stesso essere ideale si vede da questo, che un tal principio è la realità sussistente . Ora questa non cade mai nel puro ideale ossia non diviene mai ideale, onde tutto ciò che è ideale è un comune, o certo una specie, l' ente relativo possibile, non la sua sussistenza. Che se non fosse cosí, si confonderebbero le due forme dell' essere, l' ideale, e la reale, le quali sono inconfusibili ed incomunicabili. Tuttavia si dirà, che quantunque l' ideale non si confonda mai col reale, pure i concetti pieni sono ideali e sono molti, e se non fossero distinti, il creatore non avrebbe potuto creare su di essi gli enti finiti. Della quale istanza la risposta può derivarsi dalla dottrina esposta poco innanzi circa l' astrazione. Non si potrebbe pensare un astratto, se virtualmente non si pensasse l' ente, di cui quell' astratto è, comecchessia, un elemento. Applicando questa dottrina a Dio, noi diciamo che tutti i reali finiti possibili si contengono virtualmente nell' essere assoluto in quanto è ideale, ossia manifesto. E il contenersi virtualmente non è imperfezione di lui, ma degli enti finiti che non hanno da se stessi alcuna realità. Ora tutti i finiti, fino a tanto che sono virtualmente contenuti nell' ideale, non formano che un ideale solo e semplicissimo, perché sono privi di tutte le loro distinzioni. Quando adunque Iddio ne trae alcuni dalla loro virtualità all' attuale esistenza per l' atto creativo, allora essi escono distinti mediante la loro realizzazione. Questo trarli dalla virtualità all' attuale esistenza, secondo la frase di San Paolo, è un « ex invisibilibus visibilia fieri (1) ». Quest' attualità de' reali contingenti e relativi è fuori di Dio, ma essi all' ideale divino in quanto è loro esemplare sostantifico sono congiunti, per l' atto divino. Cosí i concetti sono distinti, distinti per una relazione estrinseca, la quale non moltiplica punto né l' atto del pensare divino, né l' ideale che acquista tali relazioni come subietto dialettico, quando il vero subietto di esse sono le intelligenze finite, che nell' ideale altro non possono conoscere che se stesse. Possiamo ora esaminare qual verità ontologica possieda la realità pura, e il principio puro, che è quello che ci rimane, astrazion fatta dalla sua individuazione. Che cosa è dunque la realità pura? Facilmente si risponde, che il concetto di realità altro non presenta se non una delle forme originarie dell' essere. Quindi questo concetto non ci presenta attualmente un ente, ma soltanto essa forma originaria dell' ente, e l' ente rimane nel pensiero virtuale. La realità pura adunque si pensa con un pensiero che astrae dall' ente. Ma qui si deve osservare, che l' astrazione porge al pensiero umano un doppio risultato; perocché ella o diminuisce o accresce l' oggetto del pensiero: sotto un aspetto lo diminuisce, e sotto un altro lo accresce ed arricchisce. Diminuisce l' oggetto del pensiero allorquando l' astrazione lascia da parte ossia sottrae all' attenzione attuale qualche cosa che è positivo nell' ente; lo accresce ed arricchisce, quando ella lascia da parte qualche cosa che è negativo nell' ente, come sarebbe la limitazione e la relatività. Il che spiega l' apparente contraddizione che occorre nelle dispute filosofiche, nelle quali talora si parla di un astratto come di cosa nobilissima, altissima, ricchissima; talora se ne parla come di cosa assai povera e gretta. A ragion d' esempio, si dice che l' essere è ciò che v' ha di piú nobile e di piú perfetto; ed altre volte si dice che l' essere è il minimo grado di perfezione che possano avere le cose. E` vero l' uno e l' altro. L' essere per la sua potenzialità infinita è il piú grande e nobile oggetto del pensiero. Ma se si considera la sua attualità, egli non ne ha altra che quella della realità (perché parliamo sempre dell' essere reale), e quindi egli fa conoscere una attualità poverissima, la piú povera di tutte, giacché alla realità che fa conoscere non si può aggiungere cosa alcuna, ché allora la si attuerebbe maggiormente, e quindi non si penserebbe piú l' essere reale puro, contro all' ipotesi. E` altresí da considerare, che quanto piú la mente fa rientrare l' essere nella sua potenzialità, togliendogli d' attorno coll' astrazione le attuazioni limitate; tanto piú egli rimane puro essere (1). Ora l' essere assoluto è puro essere, e quindi questo che è l' essere attualissimo , e quello che è l' essere potenzialissimo , convengono in ciò, che sono entrambi puro essere. Di qui è che l' essere si predica di Dio e delle creature in senso univoco. E` vero che Iddio è l' essere assoluto, e che i reali finiti sono puramente esseri relativi; ma il concetto puro dell' essere che chiamammo potenzialissimo prescinde dalla stessa relatività, e in somma prescinde da tutte le limitazioni, e quindi da tutte le qualità limitate degli enti finiti; poiché solo in questo modo rimane innanzi al pensiero il puro essere. Che se noi estendiamo questo discorso e procuriamo di determinare tutto ciò che può appartenere all' essere puro, e quindi tutto ciò che può predicarsi univocamente tanto di Dio quanto delle creature, noi rinverremo che i concetti astrattissimi dotati di questa prerogativa sono quattro né piú né meno, cioè il concetto dell' essere e i concetti delle sue tre forme, perocché in ciascuna delle tre forme vi ha l' essere puro e scevro di ogni altra differenza. Quindi anche la realità pura, cioè tale a cui la mente non aggiunge altro che realità, come altresí la idealità pura, e la moralità pura, sono astratti coi quali pensiamo tal cosa che conviene ugualmente a Dio e alle creature; perocché tali concetti non abbracciano punto il modo onde conviene a Dio ed alle creature, il quale è diverso, dacché questo diverso modo è messo da parte per opera dell' astrazione. E quindi noi siamo in istato di dichiarare che cosa si voglia dire quando si dice che al di là del sentito si riconosce dovervi avere una realità pura. Con questo non si decide se questa cosa al di là del sentito sia l' essere infinito o un essere finito, ma solo si dice che qualche cosa vi ha di reale, qualche cosa che a noi non è nota se non quanto all' elemento astrattissimo della realità. Siamo ancora in istato d' illustrare il concetto di principio puro. Noi abbiam distinto il concetto di principio puro dal concetto di principio individuato. Il principio individuato è l' ente attuale, sia egli finito o infinito; ma il principio puro è concetto astrattissimo, pel quale il pensiero si limita a considerare solamente un principio. Questo principio non è che l' essere reale potenzialissimo. Soltanto che egli esprime altresí la condizione di principio. Ma questa condizione è comune a tutti gli enti completi, che soli si possono dire semplicemente enti, perocché il concetto di principio racchiude le tre idee elementari dell' ente, quella di attività, di unità e di esser primo, giacché il principio è uno, primo, attivo. Quindi ciò che viene espresso colla parola principio appartiene all' essere reale, e non al fenomeno; e fino che si rimane cosí puro da ogni individuazione non rappresenta nessuna creatura, ma cosa anteriore alle creature, un elemento mentale dell' essere assoluto; al quale poi s' appoggia come a sua base la relatività delle creature. Fin qui abbiamo favellato della verità ontologica di cui partecipano gli enti reali finiti. Di poi abbiam cercato qual verità ontologica spetti a quelli ultimi astratti, coi quali non pensiamo attualmente se non un elemento proprio dell' ente per essenza, come sarebbe l' ente potenzialissimo, il principio puro, la realità, o la moralità pura ecc.. Ancora abbiam detto che l' ideale illimitato è la verità ontologica stessa. Abbiam detto del pari, che quando l' ente ideale viene limitato dalla sua relazione con un reale finito, con che egli prende natura di concetto specifico o generico, quest' ideale divenuto esemplare de' reali finiti è la verità ontologica relativa di questi. L' essere mentale fu da noi distinto dall' ideale. All' essere mentale appartiene l' assurdo, ed è di questo che vogliam qui domandare, s' egli abbia alcuna verità ontologica. Facile certamente è il rispondere di no, perocché egli non è ente. Ma nasce il dubbio: se non è ente, come dunque si concepisce? Perocché se egli non si concepisse in alcun modo, non si potrebbe dire tampoco ch' egli sia un assurdo: merita dunque la questione di essere accennata. A risolverla, noi neghiamo che veramente si concepisca l' assurdo, dimodoché sarebbe un' improprietà il dire che si concepisca. L' assurdo non è che un affermare e un negare lo stesso. Ora è impossibile all' uomo affermare e negare lo stesso contemporaneamente, perocché la negazione distruggendo l' affermazione, l' atto che unisce queste due cose sarebbe nullo, cioè farebbe un atto che si farebbe e non si farebbe nello stesso tempo, il che è impossibile. Dire che non si può fare quest' atto affermante negante è lo stesso che dichiarare l' assurdo una cosa inconcepibile, un non oggetto del pensiero, e però un non pensiero. Quando si dice che l' assurdo è inconcepibile allora egli sembra che già lo si concepisca, perocché sembra che non si possa negare ciò che non si concepisce. Ma questa è un' illusione come è un' illusione il credere che si concepisca il nulla, perché si dice che il nulla è il contrario dell' ente. La mente dà ad imprestito al nulla un' entità per potergliela poi ritorre e negare. Del pari la mente dà ad imprestito un' entità fittizia all' assurdo per poter dichiarare poi che egli non ha questa entità. Questa negazione che fa la mente è puramente una verità logica. All' opposto colui che affermasse concepibile l' assurdo pronuncierebbe una falsità logica. Ora l' uomo può certamente pronunziare una falsità logica, può dire quello che non è; ma non ne viene da questo, che perciò quanto egli dice abbia qualche verità ontologica. La falsità logica è relativa all' arbitrio dell' uomo, alla facoltà dell' errore: essendo questa volontaria, l' uomo può voler asserire che sia un ente quando non è; ma quest' atto di volontaria affermazione è impotente a fare che sia l' ente affermato che non è, e quindi non produce alcun vero ontologico. Quello adunque che l' uomo pensa intorno all' assurdo appartiene interamente al pensare soggettivo e non all' oggettivo, appartiene alla facoltà di affermare e non a quella d' intuire, e l' affermazione priva di ogni intuizione non ha e non produce alcun vero oggetto, è puramente un atto del soggetto che riman privo di verità. Fra le nozioni ontologiche piú difficili a dichiarare vi ha quella della potenza, di cui pure e la filosofia e il comune linguaggio fa un uso cotanto frequente. Giova adunque che vi ci fermiamo alquanto, poiché la solidità del sapere dipende soprattutto dall' avere ben penetrata la natura di tali nozioni comunissime. Continuandoci adunque a quello che abbiam detto nella Psicologia (1), prima di tutto osserviamo che la potenza suppone un soggetto a cui ella appartenga. Il soggetto è sempre un principio che almeno deve essere sensitivo, e che non è compiuto se non sia anco intellettivo. Questo soggetto o è individuato, ente completo, o non è individuato, ente incompleto, principio senza termine. Ma la mente umana pensa anco de' subietti dialettici che non sono soggetti, ma dalla mente stessa sono assunti per necessità di conoscere e di ragionare. Quindi si trae una prima classificazione delle potenze che appartengono a veri soggetti, cioè a principŒ, sieno individuati, ovvero solamente astratti; e potenze che appartengono a subietti dialettici. I soggetti o principŒ individuati sono gli enti completi: a questi soli convengono delle potenze reali, perocché essi sono reali. Se un ente fosse tale che non potesse subire alcun cangiamento, egli non avrebbe potenza, ma solamente atto. Le potenze adunque si riferiscono a cangiamenti possibili: secondo che sono questi cangiamenti, sono anche le potenze; queste si ripartono in classi come quelli. Ora i cangiamenti di cui è suscettivo un soggetto finito, dipendono dalle variazioni accidentali de' suoi termini, e però le potenze di un soggetto sono tante, quanti i suoi termini, e le specie di cangiamenti che posson subire. Ma il cangiamento che nasce nel soggetto in conseguenza delle modificazioni del suo termine, dà luogo solamente a potenze passive. Ora lo stesso soggetto, che è il principio, quando è individuato, ha un' attività propria che tiene proporzione alla sua passività. Quindi le facoltà attive che sorgono nel seno delle passive, fra le quali di tutte principali è la libera volontà. Queste potenze attive e passive si riferiscono tutte ad atti accidentali del soggetto: questi atti non cangiano il soggetto, egli rimane in tutti identico. Tali sono le potenze del principio individuato. Non esistono realmente che principŒ individuati. Ma poiché il principio individuato è molteplice, ha un ordine intrinseco, almeno ha una dualità, risultando da principio e da termine. Quindi la mente può collocare la sua attenzione nel solo principio o nel solo termine, considerando ciascuno di questi elementi come un ente, il che ella fa, lasciando l' altro immerso nella virtualità del pensare. Tali sono gli enti incompleti. Quando la mente concepisce un principio separato dal suo termine, allora ella lo pensa in potenza all' individuazione, cioè a ricevere il termine. Ma se la mente considera il principio senza il termine, e prescinde altresí da ogni relazione di lui col termine, in tal caso ciò che le rimane non è altro che il concetto di un qualche cosa, che non è piú neppure principio, perocché il principio involge sempre una relazione al termine. Quindi la mente può considerare il principio diviso dal termine in tre modi: 1) O per una astrazione che non abbandona intieramente l' individuo, come se noi pigliassimo a considerare il principio che è proprio d' un animale o dell' uomo. 2) O per una astrazione che abbandona l' individuo specifico e generico, onde ciò che pensa è un principio puro, e in tal caso è un elemento dell' ente reale. Il principio cosí concepito è in potenza a ricevere qualsivoglia termine. 3) O con una astrazione che abbandona anche ogni relazione con qualsivoglia termine. Qui vi ha la potenzialità di esser principio. Se ora noi vogliamo rilevare il valore di questi tre oggetti della mente, troveremo: 1) Che il concetto di principio specifico o generico porge quello di una potenzialità agli individui d' una specie o d' un genere. Questa potenzialità ha un' esistenza puramente relativa ai termini che individuano il principio, e però non ha nessuna assoluta esistenza. Quindi la mente cadrebbe in errore se giudicasse che un tal principio esistesse, o potesse esistere diviso dai suoi termini. 2) Che il concetto di principio puro, essendo un elemento dell' essere reale, si può riferire tanto all' essere assoluto, quanto all' essere relativo. Che in quanto all' essere assoluto egli è lo stesso essere assoluto, e perciò è realissimo. In quanto poi all' essere relativo altro non è che la stessa potenza creativa di Dio: è un principio anteriore ad ogni genere e specie; non entra in composizione coi reali finiti, perché è ad essi ontologicamente anteriore. 3) Che il concetto di ciò che rimane nella mente quando togliam via dalla nozione di principio ogni relazione ai termini, non può darci altro che l' essere puro che virtualmente si conteneva nel concetto di principio. Qui la potenzialità appartiene all' imperfezione del nostro pensare, e oggimai trattasi di un subietto dialettico, a cui una tal potenzialità si oppone.

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