Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattuta

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Sulle sponde del Tevere siede una donna in abiti vedovili: è la personificazione di Roma che, interrogata da Fazio e Solino, denuncia la propria condizione di vedova inconsolabile per la rovina che si è abbattuta su di lei a seguito del trasferimento ad Avignone della sede papale. Il Dittamondo fu infatti scritto intorno alla metà del Trecento, e dunque nel pieno di quel periodo, convenzionalmente definito della «cattività avignonese» (da captivus, prigioniero), che cominciò nel 1309 dopo la nomina di papa Clemente V e si concluse nel 1377 con il ritorno di papa Gregorio XI nella sede di Roma.

Pagina 43

Scultura e pittura d'oggi. Ricerche

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Boito, Camillo 1 occorrenze
  • 1877
  • Fratelli Bocca
  • Roma-Torino- Firenze
  • critica d'arte
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Il tetto è rovinato; il troncone di una trave, precipitando, s’è ficcato in terra verticalmente; ogni cosa è abbattuta, sconquassata, fracassata, ridotta in frantumi. L’occhio si confonde nelle miserande macerie; ma, un po’alla volta, attenti, esce dai rottami un seno mezzo scoperto e la testa arrovesciata di una giovane donna. Attenti: vedete le braccia distese di quella poveretta, e la sua rozza veste impigliata al troncone della trave, e le ginocchia ed i piedi? Attenti: ecco un bambino ignudo, già morto. Guardate ancora, scavate con l’occhio in mezzo a tante rovine, non vi lasciate vincere dalla compassione e dal ribrezzo: ecco un secondo bambino, ignudo, morto. Sentite un lamento? Cerchiamo palpitanti, allibiti, cerchiamo: ecco un terzo bambino nudo, che respira in mezzo ai cadaveri. Quel letto è pauroso e tremendo: pauroso e tremendo senza uscire dall’arte.

Pagina 177

Taluni scritti di architettura pratica

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Pietrocola, Nicola Maria 1 occorrenze
  • 1869
  • Stamperia del Fibreno
  • Napoli
  • arte
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Così per la copertura della camera superiore si farà la volta a mezza botte che poggia sopra i fianchi, e non sulla facciata; ond’è che questa non avrà alcuna spinta dalle costruzioni interne, talchè queste resteranno ancora salde abbattuta che fosse la facciata. Per fare infine che detta volta superiore sia a cielo e non a botte, si costruiranno con l’istesso sesto della curva i due quadranti alle teste della botte istessa, l’uno verso il muro di facciata, e l’altro verso il muro opposto, ove si potrà portare anche dal principio la volta corrispondente; e così non resterebbe a farsi che la sola quarta parte di volta sul muro di facciata per fare che la volta comparisca al di sotto interamente a cielo.

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Aristotele esposto ed esaminato vol. I

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Spossata e discreditata la forma realistica , Ockam, l' idolo degli ecclettici francesi (questi terribili riabilitatori delle riputazioni perdute ) ripropose nel secolo XIV la forma nominalista , già abbattuta al suo nascere due secoli prima. Molti buoni ingegni, spauriti dalle conseguenze del realismo, sperarono di trovare nel nuovo nominalismo qualche asilo sicuro alla sbattuta filosofia. Dopo un lungo tafferuglio col vecchio realismo, il nuovo nominalismo pareva rimasto padrone del campo, e già Ockam riceveva il titolo di Dottore invincibile. Del rimanente, al vedere che la scuola nominalista può vantare delle glorie postume, dal secolo XVI e XVII fino a noi, ben apparisce che la filosofia aristotelica non sapeva più dove posare il capo, e invano le si voleva acconciar sotto un nuovo origliere. E veramente in Italia Mario Nisolio combattè due secoli dopo Ockam pel nominalismo contro il realismo (1). E in Germania l' opera del grammatico modenese ebbe l' onore di essere ristampata e commentata dal Leibnizio nel 1670; e nella dissertazione, di cui il maggior filosofo arricchì quell' edizione, non dubitò di scrivere: [...OMISSIS...] ! In Francia Giovanni Salabert pubblicò nel 1651 la sua Philosophia nominalium vindicata . L' Inghilterra finalmente, la patria di Ockam, non mancò mai di quei dottori che insegnassero il nominalismo. Nel secolo XVII Melchiorre Goldast ed Edoardo Brown fecero l' apologia di Ockam, e nello stesso secolo il nominalismo fu rivestito a nuova foggia dall' Hobbes, e si rimase poi nella scuola scozzese (3). Tutti questi tentativi, fatti in sul cadere della scolastica e continuati con perseveranza anche dopo la sua caduta, per ristabilire il nominalismo, dimostrano la ripugnanza e quasi direi l' orrore che aveva lasciato in tutti gli animi il realismo aristotelico. Ma si tentava l' impossibile: ed era un' illusione il credere di riparare così ai danni della filosofia. Il realismo e il nominalismo sono i due fianchi dell' ammalato [...OMISSIS...] E veramente, l' abbiamo già detto innanzi, il realismo e il nominalismo nascono dallo stesso errore aristotelico, cioè che « l' universale sia nelle cose reali e non altrove ». Se è nelle cose reali, dunque l' universale è reale; ecco il realismo nel senso proprio. Se è nelle cose reali, dunque l' universale fuori di queste è un nulla, un puro nome: ecco il nominalismo . Sono dunque due formole della stessa dottrina e non due sistemi, sono due conseguenze dello stesso principio. Questa dunque del nominalismo fu la faccia razionalistica che mostrò l' aristotelismo nel suo spegnersi: in Germania scoperse di nuovo, nello stesso periodo, anche l' altra cioè la mistica . E questo accadde perchè, in sullo scorcio della sua vita, s' abbattè nella riforma protestante. Il protestantesimo, scossa l' autorità, non si potè mai adagiare e rimanersi tranquillo nel raziocinio, così mal sicuro nei suoi passi quand' è solo, impotente del tutto, se trovasi sfinito in un puro nominalismo. Niuna maraviglia che l' uomo, ridotto a questo solo, provi una incredibile inclinazione a buttarsi in un falso misticismo. Il quale è come il bigottismo dei dissoluti di professione. Ma il seguace della religione cattolica con assai più confidenza s' affida alla ragione, come il fanciullo muove più ardito le gambe quando sa d' aver vicina la madre. Da questo provenne dunque che in Germania l' aristotelismo cadente s' avviluppò di nuovo nel falso misticismo, e di nuovo in progresso, rivolgendosi, mostrò ancora l' altra sua gota razionalistica, che ricomparve a pieno discoperta nel Kant e nel Fichte, per riapparire mistica e panteistica nello Schelling e nello Hegel, ove questa filosofia sembra aver determinato il suo corso fatale divorando se medesima. Quegli storici della filosofia che raccolgono le opinioni, che di secolo in secolo corrono intorno a un dato sistema e a un dato filosofo, e le trovano discrepanti, e oltracciò vedono succedere alle lodi i biasimi, o ai biasimi leggeri altri biasimi più gravi (com' è avvenuto dell' averroismo già convinto d' errore nel secolo XIII, ma nel XIV detestato come padre d' empietà e d' immoralità), si persuadono facilmente che in tali giudizi non ci sia altro che talune contraddizioni casuali, la causa delle quali si debba cercare o in un andazzo del tempo o in accidenti stranieri alla scienza; e s' incaricano sul serio di rettificare e di ammoderare, colle loro discrete sentenze, quelle esorbitanze, quelle esagerazioni o contraddizioni. Ma questo tono di superiorità giudiziale, così comune nei nostri tempi, non ha sovente altro fondamento che o una scarsa perspicacia, o la mancanza d' uno studio profondo sulla natura intima delle filosofie che hanno esercitata una lunga dominazione nel mondo. Poichè niuno può essere storico della filosofia se prima non è filosofo egli medesimo . Tale vicenda ci porge, come dicevamo, la filosofia d' Aristotele, ora esposta dai commentatori greci, ora dagli arabi, ora spiegata dagli orientali, ora dagli occidentali. Onde dunque tante diverse interpretazioni spesso contrarie? Se ne dovrà dare tutta la colpa agli interpreti? Onde tante lodi a lato di tanti biasimi? E onde il biasimo e, direi quasi, la detestazione, cresciuta in fine a segno da considerarsi l' aristotelismo come sorgente inesausta d' errori, come germe d' irreligione, come ostacolo al progresso della civiltà, come soffocatore del gusto e non più oggimai tollerabile sulle cattedre? Fu tutto questo l' effetto d' un semplice riscaldo di testa, d' un eccesso appassionato e nient' altro? Così per vero considerano la cosa alcuni storici ed eruditi, che hanno per massima di dire sempre un po' di bene di tutto ciò di cui fu detto male, e un po' di male di tutto ciò di cui fu detto bene. Quanto a noi, siamo d' avviso che tutte le principali maniere d' intendere Aristotele, sebbene diverse ed anche contrarie, trovano qualche fondamento di solidità nella stessa lettera del testo aristotelico. Mi condusse a questa conclusione l' esame del fatto; e di questo fatto si trovano le ragioni: 1 nel disordine con cui furono affastellati gli scritti d' Aristotele: nella perdita di molti di essi, e nel guasto che debbono aver subìto gli altri a noi pervenuti; 2 nella maniera colla quale Aristotele stesso scrisse quasi a brandelli molte sue cose, senza forma sistematica; 3 finalmente nell' imperfezione d' esposizione e di linguaggio. I guasti che debbono aver riportati i libri dello Stagirita nella grotta ove furono nascosti dagli eredi di Neleo, e ci rimasero sì a lungo per sottrarli ai re di Pergamo, che mandavano a caccia di libri per le loro biblioteche; il disordine nel quale probabilmente furono estratti di là; gli errori e i nuovi guasti introdotti nelle copie che ne fece trarre Apellicone, supplendone le lacune con mano imperita, più filòbiblo che filosofo, come lo chiama Strabone (1); la classificazione e la disposizione arbitraria, e i nuovi restauri fattivi da Tirannione e da Andronìco Rodio peripatetico (2); tutte queste sventure debbono aver assai male conciati gli scritti del nostro filosofo, di maniera che or ci è impossibile trovare quanto quelli che abbiamo, s' allontanino da quelli veramente usciti dalla sua mano (3). Ma più ancora di cotesti guasti, doveva influire a rendere incerta e molteplice l' interpretazione della dottrina d' Aristotele, il non averla egli stesso voluta esprimere chiaramente, ancor che non si voglia credere genuina la nota lettera ad Alessandro. Anzi sebbene la tela della dottrina aristotelica sia forse la più ampia che mai alcun filosofo anteriore ardisse d' intelaiare, tuttavia si potrebbe dubitare, senza temerità, s' egli stesso si sia costruito in mente un sistema filosofico unico, netto e coordinato in tutte le parti. Certo (anche senza contare che alcuni dei libri che ci rimangono col nome d' Aristotele non sono autentici, altri non autentici in tutte le loro parti), basta por mente alla maniera e al fine diverso in cui e per cui egli compose quei diversi scritti, per avvedersi tosto quanto debba esser difficile il raccogliere qua e colà i brani sparsi in essi, e intenderli, e accozzarli in unica dottrina, quand' anco nessuno ne mancasse all' interezza del sistema. Si sogliono dividere le opere del filosofo in tre classi, intitolandosi le une «hypomnematika» o memoriali, le altre «exoterika», o cose popolari, e le altre ancora «akroamatika» o cose scolastiche, o se piace meglio, scientifiche (1). Ora i memoriali , scritti per uso proprio, altro non sono che annotazioni, tratti, pensieri, consegnati occasionalmente alla carta, senza alcun metodo scientifico, sol quanto bastasse allo scrittore per ricordarsene. Egli è manifesto che in questo genere di scritture non si deve cercare un sistema compiuto, nè pretendere che sia chiaro a noi quello che l' autore notò perchè fosse chiaro a sè medesimo. Nè manco si può aspettare di conoscere la sua vera mente dai libri popolari , poichè gli antichi filosofi non solo credevano di dover nascondere al popolo una parte, e la più preziosa parte della verità, ma anco si facevano lecito di allettarne e molcerne gli orecchi con insegnamenti, di cui pur conoscevano tutta la falsità. Finalmente i libri acroamatici , riservati ai soli uditori della scuola, e certi anche tenuti via più occulti «en aporretois» si solevano scrivere a bello studio in un modo astruso e misterioso. Laonde nè pure in questi il sistema (quando anco ci si contenesse) potrebbe apparire in piena luce. Al che s' aggiunga, essere tutti questi libri venuti alla posterità così uniti e sparpagliati come dicevamo, anche per la venalità dei librai, che non avrebbero trovato a smerciare facilmente l' intero corpo voluminoso e costoso di tali scritti, e però li spacciavano divisi e con tanta e tale sconnessione, che difficilmente si potè e si può riconoscere a quale delle due indicate classi ciascuno dei libri si debba riferire, e forse uno stesso libro ora è composto di brandelli d' altri da distribuirsi per tutte e tre. Si crede tuttavia che Aristotele abbia lasciato a Teofrasto i suoi libri ordinati e distinti in «pragmateiais», o trattazioni, dette da Cicerone disciplinae partes (1). Ma a queste non pare che possano appartenere gli ipomnematici , troppo imperfetti e d' uso privato, e forse nè pure gli exoterici o popolari , siccome alieni dal sincero pensiero dell' autore, ma puramente gli acroamatici o scientifici, come quelli che soli possono ricevere, e di ricevere son degni, una divisione scientifica (2). E tra i molti libri che si sono perduti d' Aristotele, non possiamo sapere quanti ce n' erano d' acroamatici, anelli forse necessari al sistema. Ognuno intende che, con tutte queste difficoltà gravissime, è vano lo sperare di pervenire a conoscere con sicurezza l' intero sistema filosofico che fu nella mente del nostro pensatore, se pure ce ne fu veramente uno intero. Ma soprattutto a chi attentamente considera la lingua, lo stile, la maniera di scrivere adoperata da Aristotele, non solo in diversi libri, ma anche nello stesso, diversa, cessa la maraviglia del vedere che in diversi tempi e da diversi ingegni il suo pensiero sia stato inteso e spiegato in modi diversi e contrari, e che pure non sarebbe facile convincere una sola delle tante teorie, di non aver a base qualche passo delle opere dello Stagirita strettamente interpretato. Primieramente non c' è un solo vocabolo filosofico che non riceva nei suoi scritti diverse e molte significazioni, e quando l' usa è ben rado ch' egli ci avvisi in quali di esse lo prende. Mancando questo avvertimento, poco giova ch' egli in V dei « Metafisici » abbia raccolto trenta vocaboli o locuzioni tra le più frequenti, e a ciascuna abbia assegnato un certo numero di significati, senza contare che quelle trenta voci sono assai lungi dall' esaurire il suo dizionario filosofico, e che i significati posti a ciascuna non sono ancora tutti quelli ch' egli stesso attribuisce nell' uso che ne fa. Finalmente talora adopera i vocaboli nel significato attribuito dai filosofi anteriori e contrario a quello che assegna egli stesso. S' aggiunga la maniera sospensiva e dubitosa con cui esprime le sue proprie opinioni, sulle quali sembra spesso vacillante. Pone il maggiore sforzo nel suo dire e spende la maggior copia delle parole in ottenere che il lettore senta la difficoltà della questione, men sollecito poi di darne una retta soluzione (1): al qual fine fa largo uso di ragioni pro e contra, e non si sa sempre discernere se parli in persona degli avversari, o in sua propria: e fa uso frequentissimo della particella «pos», che lascia in una cotale incertezza i contorni della dottrina. Come Aristotele insegna che la virtù consiste nel mezzo, così pare che egli si compiaccia di fare altresì delle opinioni (2): cerca di collocarsi tra i due estremi contendenti: distribuisce un po' di ragione e un po' di torto a tutti i filosofi che l' hanno preceduto. E se facesse sempre il taglio netto tra quello che approva e quello che disapprova, s' avrebbe chiaro il suo pensiero: ma non lo fa per tutto, e dice l' una cosa e l' altra, rimettendo troppe volte al lettore l' interpretazione sotto quale aspetto la dica e sotto quale la contraddica. Non solo poi nei libri ipomnematici , ma anche nei sintagmatici (3) egli ragiona di questioni vive al suo tempo, e agitate nelle scuole che Speusippo e Senocrate guidarono dopo la morte di Platone: e suppone che il suo lettore conosca come si conducevano quelle dispute, e quali argomenti s' usavano in quelle pugne, e di quali formule si vestivano, come invero tutto ciò dovevano conoscere i suoi contemporanei. Ma non è questa per noi una delle più piccole cagioni dell' oscurità d' alcuni luoghi dello Stagirita: chè siamo venuti troppo tardi, e di quei filosofi, condiscepoli ed emuli d' Aristotele, non ci rimangono gli scritti, ma frammenti scarsissimi: la solenne voce poi dei maestri, e il frastuono clamoroso dei discepoli svanì ben presto in un assoluto silenzio (4). Che se al presente gli eruditi si affaticano di raccogliere qualche parola o qualche detto, e accozzarlo, e congetturare su qualche punto la maniera speciale di concepire e di favellare in quelle scuole usata: il lavoro è appena incominciato, e la sterilità del terreno non promette abbondevole raccolta. Ma si può spiegare come i discepoli d' un filosofo, suddividendosi tra loro, attribuiscano poi al medesimo sistemi diversi e contrari, e ciascuno accampi a suo favore ragioni non dispregevoli, anche astrazion fatta dalle circostanze indicate, che tutte s' uniscono a contribuirvi nel caso d' Aristotele. Poichè un sistema sta per intero nei principŒ , e le conseguenze sono già tutte in essi. Ma la deduzione di queste può esser fatta bene e male, e da filosofi diversi. Ora, allo storico della filosofia appartiene certamente l' indicare chi abbia posti i principŒ, e chi dedottene le conseguenze: ma questa è la storia dei filosofi e dei loro speciali lavori e non ancora la storia dei sistemi. Il sistema non perde la sua identità, o ch' esso si presenti concentrato nei soli principŒ, o che l' esposizione ne svolga le conseguenze, siano poche o molte, e anche tutte. Colui che ha formulati i principŒ è il solo autore del sistema. Se le conseguenze non sono state da lui dedotte e nè anco prevedute, a lui non appartiene l' imputabilità morale di esse; ma glien' appartiene tuttavia, per dir così, l' imputabilità filosofica, poichè chi ha posto i principŒ ha già posto le conseguenze. Il che vale pel caso in cui i principŒ siano pienamente definiti e determinati. Ma accade troppo spesso, che i principŒ stessi insegnati da un filosofo vengano da lui posti in un modo indeterminato e imperfetto, o che la loro indeterminazione sia intrinseca agli stessi concetti della mente, o dipenda dalle formule verbali, delle quali quei principŒ si vestono. Nell' uno e nell' altro caso il pensiero dei discepoli, che pur accettando senza controversia i principŒ del maestro, non può formarsi, ma tende continuamente a renderli feraci di conseguenze, è naturalmente portato ad aggiungere da sè a quei principŒ che il maestro lasciò nell' indeterminazione, le determinazioni che mancano. Ora, i principŒ stessi determinati diversamente si moltiplicano: determinati a un modo riescono diversi ed anche contrari da quei principŒ medesimi determinati a un altro modo; chè l' indeterminato contiene il diverso ed anche il contrario. Non è dunque fuori di ragione il riferire ad un medesimo filosofo diversi e contrari sistemi sotto quest' aspetto: e possono esser vane in tal caso le contese dei discepoli per vincere chi abbia bene interpretato il maestro e ne abbia colto il sistema: poichè tutti, in un senso, possono veramente avere il sistema del maestro, e in un altro senso non averlo nessuno: l' hanno cioè tutti, se si considera che i loro sistemi, benchè diversi e contrari, giacciono virtualmente nel sistema più indeterminato del comune maestro: non l' ha nessuno, se per sistema del maestro si intenda la sua dottrina materialmente presa con tutta quella indeterminazione nella quale egli la lasciò. Poichè i discepoli, per lo spontaneo progresso del pensiero, togliendovi d' attorno l' indeterminazione che gli dà il carattere, non si mettono nè pure in sospetto d' alterarlo con ciò, e tutti potrebbero intendersi e aver ragione qualora s' avvedessero e convenissero che una delle determinazioni non esclude l' altra, onde il principio indeterminato sta lì per tutti, e questo solo ritengono dal comune maestro. E non fu questa certamente la meno efficace delle ragioni per le quali i seguaci di Platone e quelli d' Aristotele si dividessero in tante sette, e così disparate, senza però trovar mai la via della concordia. Da questo stesso provennero poi altre conseguenze. I principŒ di Aristotele, variamente determinati dai suoi seguaci ed interpreti, racchiudevano altrettanti complessi diversi d' illazioni. Perciò non fa maraviglia che essi, da una parte si traessero al servizio del cristianesimo, dall' altra divenissero sementi dell' empietà. Nei commentari di Averroè prendono questa rea natura. Che i maestri cattolici del secolo XIV come Alberto Magno e san Tommaso, abbiano confutati gli errori dell' arabo commentatore senza veemenza, e che nel secolo susseguente il Petrarca e i dottori domenicani con alto e nobile sdegno combattessero l' araba dottrina, imputandole l' immoralità, la eresia, l' incredulità che vedeano propagata per tutto e annidata nella corte degli Hohenstaufen e penetrata in tutta la parte ghibellina, non può far meraviglia, se non agli storici dell' eclettismo francese. E` assai naturale che i principŒ, fino a tanto che stanno da sè soli, si combattano col freddo raziocinio: armi uguali s' appongano ad armi uguali. E` naturale e giusto del pari, che la corruzione che s' ingenera in appresso quando se ne inducano le conseguenze e se ne fanno le applicazioni alla vita e il contagio ampiamente n' è propagato, venga assalita e investita dall' eloquenza di uomini che ardono d' uno zelo santo e provano nel cuore un crudel dolore che ne li fa lamentare. Ci si dirà forse che le varie difficoltà fin qui indicate tolgono quasi la speranza di pervenire a conoscere con chiarezza tutto l' intero della dottrina aristotelica. E se la cosa è così, come voi ci annunciate un' opera che la espone? o che cosa dunque vi proponete in questo vostro libro che intitolate: « « Aristotele esposto ed esaminato » »? Domanda ragionevolissima a cui brevemente dobbiamo rispondere. Dicevamo che in Aristotele si trova un sistema, ma indeterminato e incerto in molte sue parti, e che a una tale indeterminazione e incertezza si deve reputare principalmente il vario modo d' intenderlo dei suoi interpreti. Ora, questo appunto noi intendiamo far risultare dallo scritto presente nel quale affrontiamo i diversi luoghi nelle opere dello Stagirita sopra le questioni capitali, e facciamo ogni prova di conciliarli insieme. Apparirà che una perfetta conciliazione è almeno a noi spesse volte impossibile, e che talora si presentano principŒ che sembrano piuttosto diversi che contrari; ma esaminato poi il loro valore nelle conseguenze che portano in seno, si scoprono appartenere essi a dottrine contraddittorie e inconciliabili. Abbiamo posta ogni diligenza per iscoprire nei singoli luoghi del nostro autore quale dei molti significati che attribuisce ad ogni vocabolo filosofico sia appunto quello di cui in essi fa uso. Con questa cura si conciliano, a dir vero, in parte i luoghi diversi che si riferiscono a uno stesso punto di dottrina, ma non interamente però. Ora, questa incoerenza dipende, a parer nostro, dall' indeterminazione della dottrina medesima. E il fare che spicchi agli occhi del lettore questo vero, è la prima parte della critica che noi intraprendiamo di fare alla filosofia d' Aristotele. Poichè noi abbiamo già avvertito che il carattere di quest' opera non è già d' essere filologica ; ma d' esser critica , e d' una critica che riguarda la stessa dottrina. In una parola, noi scriviamo come filosofi , scriviamo un giudizio sopra un' antica filosofia: vi ci accingiamo spassionati, senza lasciarci prevenire da alcuna autorità. Questo giudizio nostro (qualunque valore possa avere in se stesso) accusa la dottrina che giace sparsa nelle opere che si attribuiscono ad Aristotele di tre peccati: il primo d' esser formulata in un modo indeterminato e di prestarsi per conseguenza a interpretazioni diverse e contrarie; il secondo d' essere incoerente, anche prescindendo dalle contraddizioni puramente verbali che sono la conseguenza dei diversi significati pei vocaboli, considerata solo la dottrina in se stessa; il terzo d' essere erronea non già in tutte le sue singole parti, ma in ciò che costituisce il fondo e l' unità del sistema. In certe parti farà certamente bella mostra di sè la perspicacia ammirabile e la sottigliezza d' Aristotele, e niun' altra qualità sembra così propria a tanto ingegno quanto questa della sottigliezza . Non ebbe tutta l' antichità, io credo, un' altra mente che fosse più analitica e più dialettica di questa d' Aristotele, e sol essa poteva lasciare ai posteri quel gran monumento aere perennius della sillogistica . E fu questa parte dialettica appunto che innamorò di sè, a buona ragione, tutto il medio evo, nè potrà mai essere, per iscoperte nuove e nuovi progressi, obliata e dismessa: quest' è ancora la parte, per la quale l' aristotelismo recò grandissimo vantaggio alla cristiana teologia che ne serbò sempre riconoscenza. Ho indicato brevemente l' intento dell' opera presente: più ancora che di conoscere storicamente quali fossero le dottrine professate da Aristotele, noi siamo solleciti della verità : il nostro intendimento, lo diremo ancora, non è storico, nè eclettico, ma strettamente filosofico e razionale . L' ultimo risultato, a cui tendono di loro natura le diverse ricerche ed osservazioni che andremo esponendo, si è di vagliare il vero dal falso che ci possa essere in tutto quell' ammasso di opinioni che si presentò fin qui con pretesa d' appartenere agli insegnamenti ed alla dottrina d' Aristotele. Sceverandone il falso e quasi affiggendovi segni, ai quali possa esser da tutti conosciuto, speriamo che si debba scemar il pericolo d' incorrervi nuovamente: porgendo netto il vero, se ci riesce, e procurando di fare che ciascuno veda l' evidenza della sua luce, speriamo che più facilmente se ne conserverà il possesso tra gli uomini, e l' oro che troviamo nella miniera del peripatetismo, separato dalla scoria, potrà essere accresciuto dai moderni con nuovo metallo di buona lega. S' abbrevierebbe di molto il lavoro che il mondo presente aspetta dagli scienziati, che cioè gli restituiscano o ricostituiscano una sana e sufficiente filosofia, qualora non s' avesse più a disputare sul buono e sul reo degli antichi sistemi e specialmente di quello che trionfò di tutti gli altri, l' aristotelismo; ma ne fosse riconosciuta per sempre la separazione. Allora nessuno più abuserebbe d' una incerta autorità nei trattati filosofici a complicare e avviluppar le questioni, e nessuno oserebbe di riprodurre le antiche maniere di dire senza averle prima giustificate e sanate da ogni equivocazione. L' autorità infatti deve essere sbandita dall' interiore della filosofia essenzialmente razionale. L' ufficio dell' autorità è quello di precedere alla mente razionatrice come consigliera e amica, e di susseguire ad essa dando conferma ai raziocinii e aiuto alla persuasione che va troppo lenta e debole dietro all' astratto ragionamento. L' autorità divina oltracciò presta all' umanità un beneficio assai maggiore; supplisce alla ragione quando questa si ferma venuta ai suoi ultimi confini; e la rimette in sulla via se erra nelle cose di suprema importanza, quali sono quelle che riguardano gli eterni destini dell' uomo. Ma tutto questo è sempre guadagno estraneo alla filosofia che si tesse puramente a filo di raziocinio. Se il nostro lavoro contribuirà a rendere più netto e men intralciato il pensiero e il discorso dei filosofi, spacciandolo da un gran numero di concetti e di vocaboli equivoci che sopravvissero in tutta la loro ambiguità alla caduta dell' aristotelismo, esso avrà ottenuto l' uno dei due scopi che gli furono proposti. In tal caso apparecchierà altresì la via (e questo è l' altro scopo) alla seconda scienza metafisica che abbiam promesso di comunicare al pubblico, cioè alla « Teosofia », l' ultima, e per vero la più elevata parte dell' edifizio filosofico, quella in fine che più di tutte le altre esige proprietà nelle voci, distinzione nei concetti, rigore nei raziocini. Propagata l' umana stirpe, e divisa successivamente in nazioni, ella smarrì un po' alla volta, e confuse la memoria della propria origine e della prima sua istituzione. Se si eccettui l' ebraica stirpe, nella quale l' antica tradizione fu conservata per speciale provvidenza, noi vediamo i più dotti del popolo più ingegnoso del mondo, il Greco, ignorare che l' umanità avesse avuto un padre ed una madre comuni (1). Tra queste genti spoglie della storia umanitaria e della primitiva sapienza, e quindi abbandonate a se stesse, nacque la filosofia, e questa toccò tra i gentili il suo apice per opera di Platone. Aristotele fu il più celebre dei suoi discepoli, ingegno di gran lunga meno elevato, ma acre, sottile, laborioso. Se si dovesse prestar fede all' autore d' una sua vita, sia questi Ammonio o Filopono, Aristotele, colla sua scuola, non intendeva punto di combattere il maestro, ma « « quelli che meno rettamente interpretavano le sue sentenze »(2) », il che è quanto dire i suoi condiscepoli Senocrate, Speusippo, Amicla ed altri. Ma molti luoghi delle sue opere e il fondo stesso della sua dottrina ci persuade del contrario. Sappiamo che Platone stesso si lamentava di lui dicendo: « « Aristotele ricalcitrò contro di noi, come i poledri generati, contro la madre »(3) », ed Eliano e Diogene ci narrano l' arroganza del discepolo, che obbligava il vecchio maestro a rimuoverlo dal suo consorzio (4). Oltre di che l' ambizione [...OMISSIS...] , rimproveratagli da Senocrate, era in costui sì grande, che non solo voleva primeggiare nelle filosofiche discipline, ma punto dalla gloria oratoria d' Isocrate, anche alla scuola di questo contrappose una sua scuola d' eloquenza (1). Ma lasciando da parte la storia dei dissapori privati (chè quel solo che a noi importa è la dottrina), reputiamo non potere noi in altro modo condurre questa nostra esposizione e critica della dottrina Aristotelica, che raffrontandola di continuo a quella veramente originale del suo maestro, dalla quale la derivò nella sua miglior parte, e dimostrando in quali sentenze e come dalla medesima s' allontani. Volendo noi dunque esporre ed esaminare a questo modo la dottrina propria d' Aristotele, quale risulta dagli scritti di lui, che a noi pervennero, conviene che incominciamo col determinare quel punto di dottrina, che cagionò la separazione del gran discepolo dalla scuola di Platone. Il qual punto è chiaramente indicato nel libro M (XIII) dei metafisici con queste parole: [...OMISSIS...] . E lasciando per ora i numeri, quelli che pongono le idee, « a un tempo fanno le idee (2) come essenze universali, e di nuovo come separate, e come predicate dei singolari. Ora noi abbiamo già prima dubitato che la cosa vada così. A coloro che dicono le idee universali, il non dar essi le stesse essenze ai sensibili fu cagione che unissero in un medesimo queste contraddittorie attribuzioni. Poichè credevano che i singolari, che sono nei sensibili, fluissero: e niuno di essi permanesse: l' universale poi fuori di questi non solo essere, ma essere un altro che. Questo pensiero fu mosso da Socrate per le definizioni, come abbiamo detto avanti, ma non le separò dai singolari. E vide bene, non separandole. E` manifesto dall' opere. Poichè senza gli universali non si può ricevere scienza. Ma il separare è la causa delle difficoltà, che occorrono intorno alle idee:. [...OMISSIS...] Il punto dunque, che cagionò lo scisma aristotelico fu la separazione delle idee. Egli riconosceva: 1 che senza le idee universali non ci può essere scienza [...OMISSIS...] , ammetteva dunque idee universali; 2 riconosceva altresì in queste qualche cosa di stabile e di eterno, onde viene la necessità della scienza, e lodava Socrate per aver eretta la morale su definizioni delle essenze incorruttibili delle cose; 3 ma diceva, dopo di ciò, che Socrate non aveva mai pensato a dividere le essenze delle cose sensibili da queste, e che aveva ben veduto non separandole. Biasimava perciò coloro che delle idee fecero altrettante sostanze sussistenti da se medesime diverse dalle sostanze sensibili, e trovava una contraddizione nella dottrina di questi filosofi, che ad un tempo stesso facevano le idee: 1 essenze universali; 2 essenze separate dei singolari; 3 essenze dei singolari; [...OMISSIS...] quasi facessero le idee ad un tempo stesso universali e singolari, e affermassero e negassero, che fossero le essenze dei singolari. Egli dunque disse che le specie si separano bensì colla mente, ma sono realmente negli individui reali sussistenti. Essendo nella mente separate dalla materia, danno luogo alla scienza; essendo negli individui reali, sono le vere forme sostanziali ed individue di questi. Alla difficoltà poi, che le cose sensibili siano di continuo fluenti, e non possano per conseguenza avere nulla di stabile, come pur sono le essenze, rispose col fare la materia eterna e immutabile, e ridurre le specie ad un' ultima eterna sostanza, scevra d' ogni materia, mente divina; a cui le cose tutte tendendo incessantemente, come al bene, acquistassero la specie di cui sono capaci. Così credette d' aver trovato due punti fissi e quasi due poli: la materia prima e l' ultima divina forma . Ma questo era un ricadere in sostanza nel sistema del suo maestro circa le idee: perchè concedeva la necessità, che esistesse una prima e suprema forma separata e per sè essente. Nè voleva certamente di più Platone, che, quantunque riconoscesse nelle idee la necessità eterna di essere, le riduceva nondimeno anch' egli in una mente prima, e le dichiarava esistenti in virtù degli atti di questa mente. Perciò non fa maraviglia, che molti in tutti i tempi credessero possibile di conciliare la dottrina aristotelica colla platonica, dichiarandola piuttosto diversa nelle parole che nella sentenza (1). E benchè noi crediamo questa conciliazione impossibile, tuttavia egli pare che Aristotele affetti talora di mostrarsi discorde da Platone anche quando non è; e che in quei luoghi, nei quali s' attiene alla dottrina del maestro, benchè con altre espressioni, proceda con lucidezza, in quelli nei quali se n' allontana veramente, si perda spesso in sottigliezze, equivoci e difficoltà inestricabili. Uno di questi luoghi è appunto quello in cui pretende che le specie stesse, che nella mente sono universali, inesistano come particolari negli individui reali, cadendo così nella stessa contraddizione che imputa ai suoi avversari [...OMISSIS...] e che non si può imputare certamente a Platone, il quale non pone le idee stesse nei singolari sensibili, ma solo in questi riconosce delle copie «ektypa», di quegli esemplari. Il concedere, come Aristotele fa costantemente, che « « senza gli universali non ci può essere scienza » », giacchè la necessità stessa della scienza nasce dall' universalità (1), e nello stesso tempo affermare, che gli universali sono nei singolari, è appunto, come dicevamo, e come meglio vedremo in appresso, dichiarare le essenze singolari ad un tempo e universali. Sembra che Aristotele cerchi di nascondere questa contraddizione sua propria, che indebitamente riscontra nella scuola di Platone, non solo ai suoi lettori, ma a sè medesimo, colla varietà e quasi direi sinuosità del linguaggio e della maniera di concepire. Ora, essendo in Aristotele la maniera di concepire universalissima e del tutto formale (2), avviene ch' egli riponga sotto uno stesso vocabolo, e tratti ad un tempo cose le più disparate, riunendole sotto le medesime vedute logiche. Possono infatti vestire una stessa forma logica entità reali, ideali, dialettiche etc. (3). Ma questa maniera di ragionare rompe tutte le classificazioni naturali degli enti; e da una parte si possono far comparire, come aventi una stessa natura, cose di natura diversissime: dall' altra si moltiplicano gli enti senza necessità, chè una stessa entità diventa molte davanti al pensiero, rivestita di varie relazioni logiche e di vocaboli ad esse corrispondenti. Nel passo citato in principio del nostro discorso si nominano idee, essenze, universali. Ma tutte queste parole, e quant' altre si riferiscono alla stessa questione, cangiano di significato ad ogni piè sospinto nel dettato aristotelico: per raggiungerlo conviene che teniamo dietro ai suoi andirivieni. Cominciamo dall' essenza, o se vogliam mantenere la parola greca, dall' «usia». . [...OMISSIS...] Ma ciascuno di questi quattro modi si moltiplica. Poichè del subietto dice continuando che in un modo questo si dice materia «he hyle», in un altro forma, «he morphe», in un terzo il composto della materia e della forma, «to ek tuton». Chiama poi la forma « « lo schema dell' idea, » [...OMISSIS...] . Sono tre dunque i significati della parola subietto , e questo è uno dei quattro significati della parola «usia». Un altro di questi quattro significati è la quiddità , ma questa si divide anch' essa per lo meno in tre significati. Poichè dice in un altro luogo che le cause come quiddità, [...OMISSIS...] , sono: il tutto, «to holon», la composizione, «he synthesis», e la specie «to eidos» (3). Che cosa dunque è la quiddità, il «to ti en einat»? Secondo il primo e proprio significato « « non c' è quiddità in altri se non nelle specie del genere »(4) »: poichè questa è l' oggetto della definizione. Per questo la quiddità è una specie, «to eidos», ma non tutte le specie sono « specie del genere ». Infatti la parola specie s' applica da Aristotele al genere stesso e a tutte le idee. Quando dunque Aristotele dice, che la quiddità è la specie, deve intendersi unicamente della specie sostanziale, che è la sostanza categorica, che si predica degl' individui, e non deve intendersi degl' individui stessi. Ora se la quiddità è la specie, o come anche dice, è la specie del genere, dunque è un universale: tant' è vero che ammette definizioni, e che i singolari non l' ammettono. Ma quando dice, che anche il tutto, «to holon», e la composizione «he synthesis», è quiddità, allora si può intendere tanto la quiddità degli individui reali, quanto quella degli individui ideali: poichè il tutto e la composizione possono esser pensati come possibili, ovvero anche come sussistenti. C' è dunque sempre la dimenticanza (pur comune ai filosofi) di tener separato l' ordine ideale dall' ordine reale (1). Ora il tutto ideale, e la composizione ideale è la stessa specie sostanziale , quando però il tutto abbia unità, senza di che non potrebbe avere definizione (2), e per composizione s' intenda quella che mette l' ente in atto. Un altro dei quattro significati dell' essenza è il genere . Ora qui siamo in un universale ancora più esteso che non è la specie: ma la stessa parola genere riceve molti significati (3). Come dunque, non contento di queste definizioni, aggiunge che l' «usia» è anche l' universale? Non l' aveva già affermato dicendo che significa la specie e che significa il genere? Per Aristotele non c' è universale che non sia genere o specie. Ma convien dire che introduca qui l' universale come nuova parola, che dice lo stesso con una relazione logica diversa. Pure quando prende l' «usia» prima e singolare, allora s' affatica a dimostrarvi ch' ella non può essere un universale (4). Come dunque crede d' evitare la contraddizione? Da una parte l' «usia» in senso primo e proprio non è e non può essere l' universale; dall' altra l' «usia» è la quiddità, l' universale, il genere, parole tutte che indicano universalità. Risponderemo forse col distinguere la prima e la seconda «usia» (5), e diremo che la prima sola non è universale, e che quando insegna che l' «usia» si dice in quattro modi (poichè « sembra essere «usia» a ciascun ente la quiddità, l' universale, il genere, il subietto di queste cose ») parla solo dell' «usia» seconda ? La risposta non appagherebbe, poichè per lo meno il subietto deve appartenere alla «usia» prima , come quello che non si dice d' altra cosa, ma di lui le altre cose si dicono. Osserveremo ancora che in quel luogo parla dell' «usia» senza fare alcuna distinzione tra la prima e la seconda. Vero è che il subietto stesso può essere ideale o reale (le due modalità perpetuamente confuse), e che il subietto ideale è un universale anch' egli (1); onde questo secondo apparterrebbe alla sostanza seconda, che si può predicare della prima (2). La parola «usia» dunque sarebbe usata equivocamente, quando dicesi «usia» seconda : il che involge di necessità tutti i ragionamenti in equivoci inestricabili, se non s' emenda il linguaggio. Ma noi crediamo che la maniera, con cui Aristotele tenta di conciliarsi con se stesso, non si limiti ai due significati della parola. Acconsente egli che un vocabolo abbia diversi significati, purchè si riferiscano tutti ad un primo e proprio, e gli altri nascano dalle relazioni delle cose nominate colla prima nominata in senso proprio (3). La seconda «usia» dunque ripeterà il suo nome di «usia» dalla prima. Ma come è possibile questo, se la prima è singolare e non si predica d' altra cosa (4), e la seconda è universale e si predica? Come l' universale riceverà il nome dal singolare? E` sempre la stessa questione, che ritorna, delle due attribuzioni contrarie: all' «usia» si dà l' essere singolare ( «usia» prima ), all' «usia» si dà l' essere universale ( «usia» seconda ). Il dire che questa venga dalla prima è un tentativo di conciliazione: è la soluzione della questione aristotelica, che rimarrà ad esaminarsi, ma questa soluzione ad ogni modo suppone le due attribuzioni di universale e di singolare date alla cosa stessa, all' «usia»: contraddizione, di che a torto si accagionava Platone. Esaminiamo dunque brevemente questa soluzione di più in appresso. Nel libro E (VI) dei metafisici, nel quale Aristotele dà i vari significati delle parole filosofiche, in vano si cercherebbe quello di cui abbisogniamo, dell' universale : convien dunque che noi lo raccogliamo dai vari luoghi, nei quali Aristotele ne fa uso, e dall' intrinseca natura del medesimo. Tra i vari sensi che riceve la parola universale , noi dobbiamo fissare quei due che divennero il fondamento delle due filosofie di Platone e d' Aristotele; e che nascono da due maniere diverse di concepire, vere in se stesse entrambe. Per legare a nomi questi due universali chiameremo l' uno idea , l' altro individuo vago . Il primo nome di idea è usato da Platone, ed evitato, quanto mai può, da Aristotele che le sostituisce i vocaboli di specie e di genere . Il secondo nome di individuo vago non si trova nè in Platone nè in Aristotele ed appartiene agli scolastici, ma è opportunissimo a indicare quell' universale, in cui massimamente concentrò la sua attenzione Aristotele, e con cui volle discacciare di luogo l' idea platonica. Che queste due maniere d' universali cadano nella mente umana apparirà chiaro a chi avrà ben intesa la distinzione delle due fondamentali facoltà, da noi distinte nella medesima, dell' intuizione e dell' affermazione (1). L' intuizione ha per oggetto un' essenza intelligibile , che, a quel modo che si rappresenta all' uomo, dicesi idea . In questo pensiero non cade alcun individuo reale, anzi nessuna realità. La riflessione poi trova la possibilità che quell' essenza intelligibile venga realizzata; trova ancora che ordinariamente può essere realizzata in molti individui; e conchiude che l' idea è universale: quest' è il primo universale , che diremo platonico. La seconda facoltà, cioè l' affermazione , comincia a produrre i suoi atti nelle percezioni dei reali sensibili : giacchè queste percezioni inchiudono sempre almeno una implicita affermazione (2). L' oggetto della percezione è un reale, che in essa s' afferma. Il reale compiuto, su cui non è stata ancora esercitata astrazione di sorta, è un individuo , un individuo , dico, reale e però un singolare. Ora diamo un uomo, che abbia conosciuto in tal modo un dato individuo reale . Costui può dire indubbiamente a se stesso: Quest' individuo reale, ch' io conosco, è possibile, poichè ciò che esiste è possibile. Dopo aver detto ciò, può dire ancora, facendo uso della sua immaginazione: Ecco che io immagino un altro individuo reale uguale a questo, e del pari un altro, e un altro, all' infinito. Finalmente egli domanda a se stesso: Che cosa ho io pensato fin qui? forse delle astrazioni? e risponde: No certo, ho pensato un numero determinato d' individui reali e non più: ciascuno di questi individui esiste esclusivamente in se stesso, e niuna sua particella, per menoma che sia, è comune a ciascun altro. Io non ho fatto altro, che affermare coll' immaginazione un individuo dopo l' altro, che vedere la possibilità d' individui reali: tutto ciò che è in ciascun individuo pensato rimane sussistente in lui, e fuori di lui non sussiste. Questo è l' individuo vago . Ora, è egli un universale? Se è un universale, è una maniera d' universale ben diversa dalla prima. Poichè, se si vuole descrivere questo concetto, si avrà che con esso si universalizza l' esclusione dell' universale. E in vero, quando si dice individuo reale, si dice: non universale. Onde col dirsi: è possibile questo non universale, altro non si dice se non: E` possibile questo non universale (1). L' universalità qui giace nella possibilità della non universalità. In questa maniera Aristotele si persuase d' aver escluso l' universale nel senso platonico sostituendo l' individuo vago , cioè il pensiero d' individui reali: si persuase d' avere lasciato l' universale come fondamento della scienza e del raziocinio nella possibilità che si replichi il pensiero dell' individuo reale. Senza bisogno d' ammettere alcun universale esistente nella natura delle cose, si persuase finalmente d' aver conciliata in tal modo l' universalità e la singolarità delle essenze. Laonde definendo l' «usia» non solo dice che è la materia, l' ultimo subietto, che non si predica d' altro (2), ma è anche la forma e la specie. Or come ciò? Si badi; la forma e la specie non prese in se stesse, ma inesistenti nelle cose reali o singolari, [...OMISSIS...] , però quella forma e specie che sia un che determinato realmente, [...OMISSIS...] . E ciò, perchè c' è sempre nella parola essenza i due significati d' ideale e di realizzata, e Aristotele si attiene a questo secondo, di maniera che parla di quell' essenza che si contiene nel concetto di individuo vago , che è quello della stessa realizzazione. I questo modo la causa formale essendo realizzata, non si predica del subietto, perchè il reale non si può predicare del reale (1): e così presa anche l' «usia» seconda è in sè reale e singolare, e conviene in questo colla prima. Appartiene dunque all' individuo vago: questo spiega perchè Aristotele desse il nome d' «usia» non solo alla prima (l' individuo) ma anche alla seconda (il genere e la specie): anche questa in quanto inesiste, è singolare e reale. Di qui si scorge ragione del perchè Aristotele non parli mai in un modo diretto e assoluto dell' essere , come d' una cosa unica e da sè; ma in quella vece vi dirà come l' essere si predica o per accidente, o per sè (2); e quando parla dell' essere che si predica per sè, vi dirà che l' essere sono le dieci categorie, di maniera che l' essere come essere non ha unità, è nulla, è solo una maniera di concepire le diverse categorie; come pure ciascuna di queste non ha neppur essa unità e, non essendo una, è nulla (poichè ogni cosa che esiste, esiste come uno), onde di nuovo non è anch' essa altro che una maniera di concepire gli individui reali , i quali solo esistono da sè, «choristos» (3). L' oggetto dunque del pensare è il singolare , l' individuo reale . L' universale poi rimane del modo con cui si pensa l' individuo reale, perchè si può pensar questo individuo reale, e poi si può pensar quello, e poi un altro, e così via: e c' è sempre la possibilità di replicar l' atto ( individuo vago ). Quindi le categorie stesse, se si considerano come realizzate in individui, sono singolari e reali. Ma c' è differenza tuttavia tra la prima categoria, cioè l' essenza sostanziale e l' altre. Poichè la prima dà il nome e la natura all' individuo: così quest' uomo riceve il nome e la natura dall' essenza umana e non dalla qualità del color bianco o da altra categoria (1): onde la prima, realizzata che sia, è lo stesso individuo reale, non così l' altre, che si predicano della prima, e si possono predicare e negare molte volte dello stesso individuo, come se un uomo cangiasse più volte di colore. Di che queste conservano un' altra specie di universalità predicabile, oltre quella propria dell' essenza sostanziale. Quindi la sola sostanza si divise in prima e seconda: intendendo per prima l' individuo reale (2), e per seconda l' essenza sostanziale realizzata nell' individuo, per esempio l' umanità realizzata in Socrate, di cui l' altre categorie o essenze accidentali si predicavano. Crede dunque Aristotele di conciliare l' universalità e la singolarità dell' essenza sostanziale a questo modo: « « l' essenza sostanziale è universale, perchè la mente può pensarla in quanti individui reali ella vuole, ed è singolare, perchè ella non esiste che in ciascuno di questi individui » », è la causa formale della loro esistenza, è ciascuno di essi. Quindi domanda: « « l' essenza sostanziale è universale? è, cioè, di quelle cose che si predicano universalmente? » ». E risponde di no e di sì. [...OMISSIS...] . Con queste ragioni dimostra, che l' essenza sostanziale non può essere un universale; ma egli volge il discorso e risponde anche di sì, cioè che può essere sotto un altro rispetto. [...OMISSIS...] . Vien dunque a dire, che quello stesso universale, se trattasi di quiddità o d' essenza sostanziale, inesiste realmente nell' individuo reale e così è singolare e proprio. L' uomo (l' essenza umana), a ragion d' esempio, è universale in se stesso considerato, ma in quell' uomo reale nel quale inesiste è singolare: l' animale (l' essenza animale) è pure universale considerato da sè; ma inesiste come proprio e singolare nella specie e non esiste da sè, separato. Vero è, che tutto ciò, che si contiene nell' essenza sostanziale d' un individuo reale, non ha una ragione o una definizione: come se prendiamo la ragione d' animale, o d' uomo, questa ragione non abbraccia tutto ciò, che costituisce l' essenza sostanziale e la quiddità d' un uomo singolare e reale; ma non è meno vero, che l' animale, o l' uomo inesiste, come essenza sostanziale, in un modo proprio, nell' individuo reale: e costituisce la causa formale di lui (3). In fatti, continua a dire, poniamo, che l' ousia prima sia un prodotto, come vogliono i platonici che sia la partecipazione dell' essenza. Ne verrà, che l' essenza ( ousia seconda ) sia quella che inesistendo in un individuo reale lo costituisce ciò che è, cioè un' ousia prima . Or se quella non fosse sostanza (essenza sostanziale), sarebbe una qualità o tal altra cosa accidentale; e come allora potrebbe essere costituita una sostanza da ciò che non è sostanza, ma cosa di posteriore alla sostanza? (1) Se poi l' essenza seconda (universale) fosse un' essenza diversa dall' essenza prima e singolare, e quella costituisse questa, ci sarebbe una dualità di sostanze nello stesso individuo, per esempio, in Socrate; [...OMISSIS...] . Convien dunque dire che l' essenza costituente, e l' essenza costituita sia la medesima. Convien dunque conchiudere, che quella stessa essenza sostanziale, che in quanto si predica di molti è universale, cioè l' ousia seconda , sia quella stessa essenza sostanziale che costituisce l' individuo reale, ousia prima , ed esistendo in questo, è singolare, e questa essenza singolare sia perciò lo stesso termine della predicazione; affermandosi col predicare questa essenza reale nell' individuo. Poichè non c' è un' essenza sostanziale, che non sia di nessuno individuo, ma ogni essenza sostanziale è di qualche individuo, [...OMISSIS...] . Fuori dunque degli individui reali, ossia delle prime essenze sostanziali, altra essenza sostanziale non esiste, che sarebbe superflua a costituire gl' individui reali, e un impaccio. L' essenza sostanziale dunque presa da sè e non riferita ad individui non è punto: [...OMISSIS...] . In questa maniera Aristotele credeva di uscire da quell' ambiguità, da quella specie d' antinomia, in cui la questione degli universali involgeva la mente. Poichè 1 da una parte gli universali sono necessari a costituire la scienza, nulla sapendo l' uomo senz' essi; 2 dall' altra gli universali, come universali, non possono esistere, poichè tutto ciò che esiste è l' individuo singolare, e quest' è ancora l' oggetto vero del conoscere. Ai platonici, che ammettevano le essenze universali separate, le idee, e i singolari esistere per la partecipazione di quelle, faceva questo argomento: [...OMISSIS...] . Credette dunque di comporre quest' alternativa, che secondo lui resisteva al sistema platonico, dicendo: 1 che c' era qualche cosa di singolare negli enti, che non ammetteva alcuna ragione universale , e quest' era « il subietto ultimo »la prima materia: 2 che c' era negli stessi enti qualche altra cosa (l' essenza seconda, cioè la specie e il genere, e l' altre categorie), che si predicavano universalmente e in comune: questo predicarsi universalmente non voler dir altro, se non che lo spirito umano può attribuire a diversi individui la stessa qualità. Ma questa qualità predicata può essere essenziale, ed è quella che si dice « sostanza seconda », e significa un quale circa la sostanza prima, [...OMISSIS...] . Quest' è quella qualità sostanziale, quell' universale (la specie e il genere), che illustra, fa conoscere la sostanza prima, e però si chiama sostanza seconda (4). Ecco dunque che cosa sono gli universali d' Aristotele; non sono, nel senso proprio e vero, sostanze, ousie , come li vuole la scuola platonica: quindi sono posteriori alle sostanze (per le quali sempre s' intende la realità), qualità di esse, qualità o essenziali o accidentali. Ma così è forse sciolta la questione? Non ancora; perchè rimane a domandare tuttavia « come questi universali esistano nei singolari ». Da prima risponde, come vedemmo, che ciò, che si afferma colla predicazione, si afferma esistente nell' individuo singolare e reale, come una qualità di questo; perciò la cosa affermata è anch' essa inesistente come singolare e reale. Ma perchè dunque si dice universale? Perchè lo spirito può replicare lo stesso atto di predicazione rispetto ad altri individui. Questa risposta, di cui si fecero forti i nominali, non può soddisfare, se non a chi non l' analizza. E veramente, sia pure che lo spirito predicando affermi d' un individuo una qualità reale, e d' altri ancora la stessa qualità in ciascun d' essi reale, ma rimane a spiegare come questa qualità sia la stessa . Come più qualità reali, ciascuna delle quali inesiste come propria in diversi individui, possono essere una stessa qualità? Nè varrebbe il dire, che non sono le stesse, ma simili : poichè più cose non sono simili, se non hanno almeno qualche elemento uguale . Ritorna dunque la questione: « come più elementi reali possano essere un elemento uguale ». Aristotele crede di sfuggire alla difficoltà con una parola nova che introduce: dice dunque, che è uguale la loro ragione , «logos», distinguendo la realità dalla ragione della medesima, come vedemmo ne' passi citati. Ma una parola nova non iscioglie la questione. Che cosa è la ragione della realità? Ecco quello che Aristotele non dice, e dove rimane sana e salva, sebbene appiattata, l' idea che si vuole escludere. Questa ragione dunque sarà la conoscibilità delle cose, l' universale fuori delle cose. Si dirà che ella è un atto della mente? Sia pure. Ma che un atto della mente sia un quale della mente, s' intende: ma non s' intende come un atto della mente sia un quale delle cose, se pure le cose, per esempio le pietre e gli alberi, sono sostanze diverse dalla mente, e non la medesima sostanza prima, «usia protos». Il problema dunque della cognizione umana, come pure quello de' generi e delle specie delle cose, rimane insoluto, nelle mani del discepolo dissidente di Platone. Abbiamo veduto, che la parola subietto, secondo Aristotele, si prende in tre significati, come materia, come forma, e come l' ente reale composto di materia e di forma. La materia è il subietto ultimo di cui tutto si predica, anche l' essenza sostanziale, o sostanza seconda. Il composto di materia e di forma è un subietto, di cui propriamente non si predica l' essenza sostanziale seconda, che è uno de' componenti (la forma), ma gli accidenti. Del subietto come forma, cioè dell' essenza sostanziale o sostanza seconda, si predicano del pari gli accidenti (1): onde questi sono predicati di predicati, e però vengono ad avere una doppia universalità. Ma restringendo il nostro parlare alla forma, cioè all' essenza sostanziale o sostanza seconda, questa è quella, come vedemmo, che fa conoscere l' essenza prima, ne dichiara la natura, ne è, si può dire, la sua intelligibilità, in quant' è universale, ossia concepita come comune o predicabile di molti individui. Ma qui appunto s' affaccia ad Aristotele una nuova difficoltà: se cioè la forma reale e la specie siano cose perfettamente identiche. Il sistema aristotelico esige strettamente questa identità, perocchè in un tale sistema non esistono specie fuori degl' individui reali; e però spesse volte Aristotele usa promiscuamente dell' una e dell' altra parola. Ma non può reggere a lungo in questa confusione di cose così disparate, l' una essendo una realità, l' altra una idealità. Che cosa fa egli adunque? Ricorre all' espediente di dare due significati diversi alla stessa parola specie , o alla stessa parola forma . Chi non sente qui l' imbarazzo e la contraddizione? La specie è diversa di materia in Callia e in Socrate, ma è la medesima di specie . Conviene dire che la specie riceva in queste parole due significati, cioè sia adoperata specie per forma reale , la quale è molteplice e può considerarsi come subietto [...OMISSIS...] , e sia pure adoperata per specie o idea universale, qual è nella mente, che certamente è una e indivisibile (1). Ora, come poi quella forma reale , che dice in un modo essere subietto, sarà schema dell' idea, [...OMISSIS...] , come altra volta l' ha chiamata? (2). Che differenza c' è dunque tra lo schema dell' idea , e l' idea ? Questo rimane oscuro in Aristotele, non potendosi nel suo sistema interpretare questo schema, come si potrebbe in quello di Platone per una cotale copia dell' idea esemplare, nel qual modo cessano le difficoltà. Un altro impaccio. - Aristotele dice, che [...OMISSIS...] . Come poi, essendo uno e semplice, possa inesistere in molti, questo non lo dice, non soddisfacendo la spiegazione, che abbiamo esposta nei capitoli precedenti. Quando poi dice, come testè vedemmo, che è diverso nei molti per la materia, ed è il medesimo per la specie, [...OMISSIS...] , allora non s' accorge, che questa specie appunto, e non altro, è l' universale; onde il dire, che l' universale è il medesimo per la specie, è lo stesso che dire, che « « l' universale è il medesimo per l' universale » », cioè per se stesso, e se è il medesimo per sè, come dunque sarà diverso per la materia restando universale? O come sarà identico al singolare quello, che è universale per sè? L' attribuirgli un nome novo, quello di ragione, «logos», questo, come vedemmo, lascia la questione intera, come prima. Laonde, spinto dall' evidenza del vero, talora gli viene detto il contrario (senza avvedersi della contraddizione), come là dove, dopo aver parlato delle prime sostanze, cioè delle sostanze singolari che chiama « primi degli enti », dice che nelle sostanze seconde, che sono una classe d' universali, inesistono le prime, come nelle loro specie, [...OMISSIS...] . Questa maniera, che si adatta ottimamente al sistema platonico, è al tutto discrepante dall' aristotelico. Del rimanente l' una e l' altra delle due opposte espressioni, prescindendo dai sistemi, ha la sua verità. Poichè dovendosi distinguere in tutti i percepiti e i concetti la comprensione e l' estensione , sotto l' aspetto della comprensione gli universali sono nei singolari, e sotto l' aspetto della estensione i singolari sono negli universali. Ma convien riflettere, che quando noi diciamo, che gli universali sono ne' singolari, intendiamo (e non si può intendere altramente), in quanto sono percepiti o concepiti nella mente, perchè solo nella mente si può congiungere l' unico universale ai molti singolari. E tuttavia non v' ha dubbio, esser vera, assolutamente parlando, ed essere importante e luminosa questa sentenza di Aristotele: « « tolte via le sostanze singolari, non ci sarebbe più nulla »(2) ». La qual sentenza non gli può essere certamente contesa da Platone, che ogni cosa deriva da Dio, alla cui natura compete al sommo l' unità e la semplicità. Ma il guaio sta nell' applicare questo stesso principio alle cose finite e mondiali, alle quali pure l' estende Aristotele. Se questo filosofo avesse posta la necessità d' una sostanza singolare precedente a tutto, mente infinita, dove fosse l' universale eterno, e quindi la fonte delle idee, sarebbe andato d' accordo con Platone. Ma parlando delle specie in relazione agli enti reali della natura, pretese, che anche in quest' ordine le sostanze singolari precedessero agli universali. Egli non potè certamente mantenere un linguaggio coerente a un tale assunto. E veramente, se le sostanze prime e singolari sussistono nelle specie come potranno essere i primi degli enti? Il contenuto potrebbe essere prima del contenente? Aristotele medesimo dice di no; insegna anzi, che i contenenti si dicono anteriori ai singolari; [...OMISSIS...] . Di più egli riconosce senza esitazione, che la sostanza singolare riceve il suo nome e la sua definizione, e quindi la sua quiddità (2) dalla specie che di essa si predica, e che perciò è universale. [...OMISSIS...] La quiddità dunque viene alla sostanza singolare dalla specie universale, che le s' attribuisce, e quella si conosce dalla mente con questa. Come dunque quella sarà prima, se riceve la sua quiddità, l' esser quello che è, da questa? Come sarà prima ciò che si conosce, di ciò, con cui si conosce? Come si avrà il fine prima d' avere il mezzo necessario ad ottenerlo? Si può stringerlo ancor più cogli stessi suoi ragionamenti. Poichè egli pone, che gli accidenti sieno nelle sostanze, come in loro subietto. Dall' essere essi nelle sostanze, argomenta che non sono dunque i primi, e che senza le sostanze non ci sarebbero le altre cose degli enti (4). Ottimamente; ma quest' argomento trae la sua forza dal principio accennato, che « il contenente è anteriore al contenuto ». Ora egli colloca le sostanze singolari nelle specie, che danno loro la quiddità. Come dunque non deduce, secondo lo stesso principio, che le specie abbiano un' anteriorità a quelle singolari sostanze, e in quella vece pretende che sa il contrario? In un altro luogo, volendo provare, che non ci sono elementi comuni alla sostanza e all' altre categorie, dice che, se ci fossero, sarebbero anteriori alle categorie, perchè l' elemento è anteriore a ciò, che consta d' elementi. Ma anteriormente alle sostanze non c' è nulla. Riconosce dunque che il più comune, ossia il più universale ha un' anteriorità al singolare (1). In un altro luogo però dice, che la materia e la ragione «logos» cioè la specie, in quelle cose che si fanno per natura, sono ad un tempo (2). Se sono dunque ad un tempo la materia e le specie componenti la sostanza reale, come questa può esser prima, e non tutt' al più coeva a quelle? Pur egli va avanti e trae da quelle premesse questa conseguenza: [...OMISSIS...] . Ma qui c' è un salto nel ragionamento, perchè da premesse, che riguardano cose naturali e reali, si passa ad una conclusione che riguarda l' ordine delle cose ideali . C' è anche una petizione di principio, perchè sarebbe vero, che, essendo nelle cose reali la forma e la materia ad un tempo, non fossero necessarie le idee, quando non ci fosse da spiegar altro che le cose reali; ma se oltre queste ci sono le specie, se ci sono le cose possibili , che non essendo reali pur sono qualche cosa, in tal caso, ci sono anche queste da spiegare, e così le idee ridivengono necessarie. Quella conclusione dunque vale a condizione, che sia vero il principio, che colla conclusione stessa si vuole stabilire: pecca dunque di circolo. E questa conclusione era probabilmente venuta, o certo più facilmente ammessa, per una falsa maniera di parlare già introdotta nelle scuole, e da Platone stesso, mi pare, usata, od accettata, quella cioè che chiamava la materia il tuttinsieme «to synolon», o tutte cose, «panta», onde la questione [...OMISSIS...] come la propone Aristotele, questione che ha una ripugnanza intrinseca. Aristotele fa dunque gli universali ora posteriori, ora simultanei, ora anteriori ai singolari. Ma vediamo, se facendo uso delle sue sottili distinzioni, possiamo conciliarlo seco medesimo. Circa l' anteriorità nell' ordine della cognizione, che dice essere un' anteriorità assoluta (1), così distingue: [...OMISSIS...] . Ma che secondo il senso sieno anteriori i singolari agli universali, non c' è, a dir vero, bisogno di dirlo: poichè il senso, secondo Aristotele stesso, è dei soli singolari, e non raggiunge punto nè poco gli universali, se non per un certo parlare improprio e traslato. Laonde, quando Aristotele gli attribuisce gli universali per accidente (2), altro non fa che impacciare la nettezza del ragionamento, non potendo significare un tal modo di dire, così caro al nostro filosofo, se non che l' intendimento vede nella sua universalità quello, che nel senso è singolare. Ma il vedere questo non è altro, che il vedere la ragione della cosa sensibile, ossia la specie , la quale non è certamente lo stesso sensibile reale, nè con lui si può confondere, ma è appunto l' universale, e nient' altro che questo, riferito al singolare. Ora, secondo Aristotele, il solo intendimento ha per oggetto l' essere o la ragione della cosa (prendendo Aristotele questi due vocaboli come equivalenti): l' ordine dunque della cognizione, «kata logon», è l' ordine dell' essere e della verità, che nella mente e non nel senso si trova. Di nuovo dunque, nell' ordine dell' essere delle cose, l' universale è anteriore al singolare, parlando sempre delle cose contingenti. Finalmente, secondo lui, sono anteriori le sostanze singolari, perchè, dice, queste sole producono le altre colla generazione, e non producono la specie separata dalla materia, ma tutt' insieme. Quei primi principŒ, che sono in atto, « « non sono universali. Poichè il principio dei singolari è singolare. L' uomo detto dell' uomo è universale, ma non ce n' è alcuno »(1) »; ci sono soltanto degli uomini singolari. Quelli dunque sono i principŒ, e i principŒ sono anteriori. Ottimamente. Ma questo non prova, se non che il singolare generante è anteriore al singolare generato: il che non ha a far nulla colla questione delle specie. Questa comparisce ben tosto appresso, quando convien spiegare come la specie , essendo una e comune a molti, non sia qualche cosa di diverso da ciascuno dei molti, ed anteriore a tutti i singolari, e generanti e generati, potendo ella accomunarsi colla mente anche a qualunque numero di singolari possibili. Qui si sente l' imbarazzo del nostro filosofo, che si involge nell' oscurità. [...OMISSIS...] (2). Dunque s' abusa della parola specie , perchè 1 si dice che la specie mia non è la sua , la specie di ciascuno singolare è diversa (qui si prende evidentemente come forma reale ); 2 e pure si dice, che queste diverse specie non differiscono di specie o di ragione . Sono dunque due le specie, l' una singolare diversa in ciascuno dei singolari, l' altra universale, comune a tutte le specie singolari. Aveva dunque ragione Platone di dire che le cose sensibili non hanno la specie universale , ma solo la imitano, che la forma de' singolari è una certa copia o imagine della specie; e Aristotele non avrebbe fatto altro, che estendere la denominazione di specie a quello che non è veramente specie , fondando il suo nuovo sistema sopra un equivoco di parole. Così dunque Aristotele, parlando delle cose, che si generano, ossia, come dice, dei principŒ dei sensibili (1); ma venendo a quella specie, che è nella mente dell' artefice, confessa apertamente, che la specie è anteriore all' opera. E questo per lui è un nuovo imbarazzo. Vediamo come anche di questo procacci di uscire. Confessa dunque, che nell' opere dell' arte le specie sono anteriori, ma queste, dice, inesistono nell' opifice, e perciò in un reale, perchè « « le cause moventi (come l' opifice) esistono come nate avanti » ». L' arte non è un principio insito in ciò che si fa, com' è la natura, ma in un altro; [...OMISSIS...] . Onde, quando si cercasse la specie dell' opifice stesso, allora si troverebbe coesistente alla sua materia, e non anteriore. Ma di quante difficoltà rimane involta questa risposta? La prima è quella di sapere, se la specie , che è nell' artefice, sia specie dell' artefice stesso. A ragion d' esempio: la specie della casa, che è nella mente dell' artefice, è la specie dell' artefice, o dell' opera futura dell' artefice? Aristotele qui si trova in un impiccio tanto maggiore, quant' è maggiore l' acutezza della sua mente: ei si dibatte seco stesso tra le contraddizioni. Comincia dal dirvi, che [...OMISSIS...] ; e così mentre si parlava prima dell' artefice, ora si parla dell' arte, quasichè l' arte e l' artefice sia la medesima cosa. Ricomparisce dunque, sebbene con altra forma, la stessa questione: « se l' arte sia la specie dell' artefice, che opera secondo l' arte, o della sua opera futura ». Quand' anco dunque la specie , secondo cui opera l' artefice, si chiamasse arte , non sarebbe con questo sciolta la questione: « se la specie della casa nella mente dell' artista sia la specie dell' artista, o qualche cosa di diverso da esso, sostanza operante, che la possiede, qualche cosa fornita di caratteri e di natura propria », poichè la sostituzione d' un nome non scioglie la questione. Oltracciò il confondere la specie coll' arte va in opposizione cogli stessi principŒ d' Aristotele, il quale insegna che la natura , e l' arte sono due principŒ motori, l' uno interno e l' altro esterno, e insegna pure che la specie all' incontro è ciò, in cui tende il moto, [...OMISSIS...] , e che « « nè move, nè si move » » [...OMISSIS...] , poichè le forme o specie sono immobili [...OMISSIS...] . Dunque le specie non sono l' arte , come l' arte non è l' artista, sostanza reale e prima per Aristotele. Di più, se la specie, per confessione d' Aristotele « « è ciò in cui tende il moto com' a suo fine » », questo, che si dice anche « « primo nella mente dell' artista, e ultimo nell' operazione »(4) », conviene pure che sia qualche cosa, prima che l' opera abbia raggiunto e sia realizzato, poichè, se ci tende, non l' ha raggiunto ancora. Nè si dirà, che il moto tenda nel nulla, perchè anzi ciò, in cui tende, è dichiarato più nobile di quelle cose, che sono al fine (5). La specie dunque è qualche cosa d' anteriore alla sua realizzazione, secondo i principŒ riconosciuti da Aristotele medesimo: ma quest' elemento anteriore al reale finito sfuggì alla mente del filosofo. Quando poi ei non era preoccupato da questa terribile questione delle idee, confessava ingenuamente, che la specie, per esempio: la sanità (nella mente del medico) non è operativa, e però non è l' Arte, se non per la metafora; [...OMISSIS...] . Perchè dunque, quando nella questione delle idee si trova stretto, dice, che la sanità stessa è l' arte, cioè una causa operativa, senza avvertire il lettore della metafora? La ragione è chiara; se ne l' avesse avvertito, svaniva l' argomento. Ed è da notarsi, che come, per via di metafora, confonde l' Arte colla specie, così confonde pure colla specie, per un' altra metafora, la Natura, che è l' altro motore, cioè il motore interno; onde ne dà una doppia definizione, ossia la fa risultare da un doppio elemento, chiamandola ad un tempo un certo chè e un cert' abito a cui , [...OMISSIS...] . Il certo chè è la specie, l' abito poi a cui , è la tendenza alla specie, che ancora manca nella materia. Per natura dunque intende la specie, ma con aggiungervi un principio abituale attivo: dove osserviamo, che se la specie ha bisogno di quest' aggiunta, dunque essa da sè non è attiva. [...OMISSIS...] (1). Allo stesso modo dunque, che altrove fa risultare l' individuo dalla materia e dalla specie , qui il fa risultare dalla materia e dalla natura , sostituendo alla specie la natura, e per poter far ciò v' inserisce un abito attivo, e tuttavia non crede di moltiplicar con questo i suoi principŒ che sono costantemente tre: la materia, la specie, e la privazione. Ma in fatto non bastandogli la specie a spiegare la produzione delle cose, ci aggiunge un abito attivo che è veramente un quarto principio, che egli dissimula, e chiama così la specie , resa da lui attiva, col nome di natura . Tornando dunque a ciò, che dicevamo in principio, il luogo citato parso oscurissimo agli interpreti, che si dividono in varie sentenze, secondo noi contiene uno sforzo, che fa Aristotele, per conciliare il suo sistema « delle specie non altrove esistenti che nelle sostanze reali » col fatto delle operazioni e produzioni dell' uomo, che si fanno dietro le specie che sono nella mente dell' uomo stesso, e non nelle cose. Analizziamo senz' altro il nostro contesto. Ivi si propone di mostrare che « « nè la materia, nè le specie si fanno » ». E, tra gli argomenti, che adduce, il principale è questo, che ciò, che si fa, esige un principio, dal quale si faccia ( «u») e quest' è la materia , e un altro, in cui termini l' operazione ( «eis ho») e quest' è la specie . La materia dunque e la specie sono condizioni di ogni trasmutazione: dunque nè l' una nè l' altra si genera ( «u ginetai»), chè altramente s' andrebbe all' infinito, convenendo, che, se la materia o la specie fosse l' effetto della trasmutazione, ci fosse un' altra materia, e un' altra specie anteriore, e così senza fine. Ma la specie , che è nella mente dell' artefice, è ella forse il principio «eis ho», ossia «eis ti» ( « in quod, in aliquid »)? - Qui comparisce la difficoltà, perchè la specie reale, in cui termina la trasmutazione, non è nella mente, ma nella cosa prodotta dalla trasmutazione. Introduce dunque un terzo principio, che è il principio movente [...OMISSIS...] , e dice che appartiene a questo principio movente l' Arte, e che l' Arte è lo stesso che la specie, secondo cui opera l' artefice: quasi dica, che i principŒ moventi, essendo nati prima, [...OMISSIS...] , si dee cercare, come sia nata l' arte in un altro discorso. Ma con questa risposta riserva la questione e non la scioglie. Traduciamo ora le parole del testo come noi crediamo che vadano intese: [...OMISSIS...] . Pare che gli rincresca d' introdurre quest' arte, perchè lo fa dubitativamente, benchè tosto appresso, rinfrancato, ne parli in modo assoluto: quella specie dunque, che è l' arte , è fuori della casa reale, che è la sostanza composta di materia e di forma. [...OMISSIS...] ; in un altro per verità da quello delle cose naturali. - Qui confessa, che l' arte, la specie nell' artefice, è, ma in un altro modo da quello in cui sono le specie nelle sostanze naturali (e certamente anche nelle sostanze prodotte dall' arte, dove la specie è unita intimamente colla materia e da questa inseparabile). Non dice tuttavia quale sia questo modo, e però riserva di nuovo, e non iscioglie la questione. Dice bensì, che non si generano, nè corrompono: con che confessa di più, che tali specie sono privilegiate sopra quelle che si generano e si corrompono, e però sono in questo agguagliate a quella che prima avea chiamata « « l' ultima ( «ta eschata») » »; cresce con ciò, anzi che diminuirsi, la difficoltà. [...OMISSIS...] Traducendo così questo luogo io m' allontano alquanto dalla comune interpretazione; ma parmi che inteso così riesca più chiaro. Aristotele vuol persuadere, che tutto ciò che c' è, si riduca alle sue sostanze prime , cioè alle sostanze reali composte di materia e della specie che la finisce e determina. Ora questa mi pare, che voglia indicare colle parole «tes malist' usias he teleutaia», e che esse non si devano già riferire alla materia, essendo proprio della specie l' esser fine, e non della materia, che è indeterminata e senza fine per se stessa, e l' ultima materia si direbbe «eschate» ma non «teleutaia» (1). A quell' «he teleutaia» dunque si deve sott' intendere, per quant' io credo, «usia», che è la specie sostanziale, la seconda sostanza [...OMISSIS...] , finale della prima [...OMISSIS...] . Trae vantaggio da una sentenza di Platone, approfittandone a suo modo. Platone avea detto, che le cose reali e sensibili sono l' altro o il diverso delle specie, e le specie l' altro o il diverso delle cose «alla tuton»: di qui vuol conchiudere Aristotele, che le cose e le specie sono relativi indisgiungibili. Avea detto ancora Platone, che le essenze delle cose tutte sono le specie , e poichè nominandosi le cose si nominano le loro essenze, quindi le cose tutte sono specie; [...OMISSIS...] ; il che ammette e riconosce costantemente per vero Aristotele per tutto, ov' insegna, che le seconde sostanze, [...OMISSIS...] , quali per lui sono le specie sostanziali, si predicano delle prime, cioè delle sostanze reali [...OMISSIS...] in modo, che a queste si dà il nome e la definizione di quelle (e la definizione esprime l' essenza): onde se si domanda d' un uomo reale, (prima sostanza) « che cosa è », si risponde giustamente: « è un uomo »(seconda sostanza), il che ritorna alla sentenza platonica «eide estin hoposa physei» (3). Da questo adunque argomenta Aristotele, che le specie non ci possono essere, secondo Platone, che delle sole cose in quanto sono naturali, e non in quanto sono fatte da un artefice intelligente: le specie, dunque, conchiude, devono essere nelle nature reali, coerentemente alla dottrina di Platone, e resterà poi sempre a spiegare, che cosa sia la specie nella mente dell' artefice. Ora questo procura veramente di farlo nel primo dei posteriori, e nel terzo dell' anima; ma come gli riesce? Ci troviamo alcune sentenze generali, ma la questione non si lascia vincere (4). Vediamolo. Aristotele suppone, che l' intendere « sia un patire, simile in qualche modo, a quello del senso »; [...OMISSIS...] . Ora l' intendere è tutt' altro, poichè la sensazione o il fantasma non significano nulla, l' intendimento all' incontro rende lo stesso fantasma significativo degli enti . Come avvien dunque ai fantasmi stessi l' abilità di significare ? Questo è quello, che Aristotele non s' accorge punto di dovere investigare (6). Se avesse frugato qua entro avrebbe probabilmente conosciuta una verità, che gli sarebbe stata luce nova; perchè avrebbe veduto, che segno non si dà, senza che preesista una idea, avente un' esistenza obiettiva (1). L' idea dunque da Aristotele è supposta, non ispiegata, e in vano negata. Se si suppone che dalla passione sofferta dall' azione della sostanza reale resti qualche cosa nell' intelletto, a quel modo che spiega nel primo de' Posteriori, come, dimandiamo di novo, questa cosa, che resta, sarà un segno, come sarà rappresentativa d' una sostanza reale? Il nodo sta qui, e sfugge interamente ad Aristotele. Suppone senza difficoltà, che quello, che resta nell' anima, sia l' intelligibile , «noeton»; ma non si tratta di supporre l' intelligibile, bensì spiegare come una cosa qualunque possa essere intelligibile. Dice che la forma, in quest' azione della sostanza reale sull' intelletto, si separa, e conchiude che « come le cose sono separabili dalla materia, così sono le cose intellettuali » [...OMISSIS...] . Quello che si separa, secondo lo stesso Aristotele, è l' essere della cosa dalla cosa , come l' essere della carne dalla carne [...OMISSIS...] ; la quiddità [...OMISSIS...] ; il comune . Ma se veramente si separa quest' elemento intelligibile, quest' essenza seconda dei reali, e il filosofo non ci tiene anche qui a bada con delle metafore, è da conchiudersi, che le specie non sussistano solo nelle sostanze reali, ma anche separate, e nelle menti, e sieno di due maniere e d' opposta natura. Nel qual caso egli si fa con Platone, e rinnega il proprio sistema. - Vuol egli dire, che queste specie prima si trovano nelle sostanze reali, e posteriormente nell' intelletto, a cui dà la facoltà di prendersi per sè quell' elemento separandolo dalla materia? - Ma d' altra parte la specie comune non può stare in nessuno dei singoli, chè un singolare, come tale, niuna cosa propria comunica all' altro, ma è finito tutto in se stesso. Pure Aristotele, senza vedere, che quest' è impossibile, è obbligato dalla necessità del sistema ad ammettere il comune ne' singolari reali, e lo chiama « l' uno ne' molti »(3). Che se è uno , separato quest' uno da' molti per opera dell' intelletto, s' ha una specie sola partecipata da' molti, che è quello appunto, che attribuisce a Platone, [...OMISSIS...] , ma Platone la faceva anteriore alle cose finite, e da queste partecipata, Aristotele la vuole posteriore, e da queste partecipata all' intelletto umano, per un' operazione di questo, ritornando così indietro dal cammino fatto da Platone, e ravvicinandosi a' Pitagorici (1). Oltrechè poi, essendo manifestamente impossibile, che nei singolari, che come tali hanno una esistenza ciascuno separata, e senza alcuna comunanza, ci sia il comune o l' universale (e se non vi fosse l' intelletto non potrebbe separarlo), Aristotele è obbligato, per sostenere il suo sistema, d' adoperare delle frasi contradditorie. A ragion d' esempio dice che la specie è l' « uno ne' molti »(2), cui l' intelletto poi separa. Ora mentre qui fa, che la specie, cioè la sostanza seconda, inesista ne' molti singolari e reali, che sono le sostanze prime, tutto il contrario dice nel libro delle Categorie, dove, come abbiamo veduto, insegna, che le sostanze prime sono nelle sostanze seconde o specie; [...OMISSIS...] . Ora questo, che le sostanze reali (finite) sieno nelle ideali, non involge punto contraddizione, perchè s' intende, come nell' universale possa dirsi che si contiene il singolare ; ma che nel meno stia il più, nel singolare l' universale, l' idea nella realità, questo manifestamente ripugna, a meno che si consideri il reale, non quale è in sè, ma qual è pensato dall' intendimento; dove il reale è composto di reale e d' idea, e in questo composto l' intendimento può trovarci l' idea, come la parte che sta nel tutto; ma questo modo di concepire l' ideale nel reale pensato, o favorisce Platone, e non Aristotele, o riconduce Aristotele a Platone. Se dunque noi prendiamo da Aristotele quello che ci concede, che « le cose non si potrebbero conoscere per mezzo delle specie qualora queste non fossero nelle cose »verremo contro lui stesso ad argomentar così: « le specie che sono universali non possono esistere ne' singolari reali, ciascuno de' quali ha un' esistenza chiusa nella propria realità: ma quando i reali singoli sono conosciuti da un intendimento, allora c' è ad un tempo presente a questo, sebbene in diverso modo, la realità di ciascuno, che niente ha di comune colla realità degli altri, e la specie universale e comune, che coll' astrazione si può segregare. Dunque questa specie universale, che è l' intelligibilità de' reali, vien posta dall' intendimento, e non è ne' reali quali sono fuori di questo ». Ma pure conviene, che Aristotele ci dica chiaro, se la forma reale , che ha ciascuno degli enti finiti, sia numericamente la medesima colla specie , che è nell' intelletto che li conosce, o se questa sia diversa e forse una similitudine di quella. Non dimandiamo, se si chiamino equivocamente con uno stesso nome, perocchè gli equivoci non sciolgono le questioni, ma se si tratta d' una identica e univoca specie. Se dice, che sono diverse, benchè simili, in tal caso ricade su di lui la censura, ch' egli fa a Platone, di moltiplicare gli enti, e per ispiegare i reali introdurne altrettanti e più d' ideali (1). Nè varrebbe cos' alcuna l' aggiungere, che le specie dell' intelletto sono simili alle specie o forme delle cose reali: poichè lo stesso può dir Platone; e poi, come sa egli che siano simili se non confrontandole? E per confrontare la specie reale e l' ideale, conviene avere presenti all' intelletto sì quella che questa: ma se quella si conosce, questa seconda è inutile «( Ideol. 107, not.) ». Di più, se sono simili hanno una specie comune , e intorno a questa rinascerà la stessa questione, onde s' andrebbe all' infinito colla serie delle specie «( Ideol. 11.0 7 11.9) ». Dirà dunque, come effettivamente risulta dai luoghi allegati, che sono identiche numericamente. Ma questo è impossibile secondo i suoi stessi principŒ: e vediamolo. 1 Aristotele riconosce, che la forma degli enti è singolare; e che la specie dell' intelletto, con cui si conosce, è un universale . Il singolare non può essere identico coll' universale; nè vale il dire che l' intelletto è quello che aggiunge l' universalità, perchè l' universalità non è una cosa accidentale, che si possa aggiungere o levare alla specie, ma la specie è universale essenzialmente, e questa universalità deriva intrinsecamente dalla natura della specie stessa; 2 Aristotele dice, che [...OMISSIS...] ; dunque la specie nell' intelletto si produce all' atto dall' operazione dell' intelletto stesso. Ma la specie, forma dei particolari reali, è già prodotta all' atto in essi prima ancora che sieno conosciuti. Il che tanto più vale per Aristotele, che non riconosce necessario all' esistenza dei sensibili che sieno conosciuti, mettendo in beffa gli esemplari di Platone (2). Non possono dunque esser la stessa cosa la forma de' reali , e la specie dell' intelletto , facendosi quella in atto, quando questa non è in atto, ma ha bisogno, che l' intelletto stesso la renda in atto; 3 Aristotele dice, che la forma, che è l' essere stesso delle cose, è separabile dalla materia per opera dell' intelletto. Nell' intelletto dunque la forma o specie è separata dalla materia, ed è quello ch' egli chiama l' intelligibile ( «to noeton») (3). Ora la stessa numericamente, ed identica specie, non può essere, alla maniera di concepire aristotelica, nello stesso tempo, separata ed unita colla materia: dunque di nuovo la specie , che è nell' intelletto, non può esser quella stessa che è ne' reali (4). A malgrado di tutto ciò Aristotele è obbligato dal suo sistema d' ammettere, che la specie nell' intelletto e ne' reali sia veramente identica, poichè se dicesse questo per metafora, intendendo che sono simili, che forza avrebbe il suo argomento contro Platone d' aver coll' introdurre le idee moltiplicati gli enti inutilmente, rendendo anzi più difficile la spiegazione dell' esistenza delle cose? Ma per sostenere la detta identità, quanti assurdi non deve egli ingoiare? Primieramente è assurda questa proposizione: [...OMISSIS...] . Ora la scienza contemplativa è forse l' intelligente? No certamente; ma l' intelligente ha la scienza. Sia pur dunque, che la scienza si possa dire il complesso delle cose intese, non è per questo che l' anima intelligente sia queste cose. Ignora Aristotele, con tutta l' antichità, la profonda differenza tra l' esistenza subiettiva propria dell' intelligente, e l' esistenza obiettiva propria degl' intesi, che è il filo che riconduce da questo labirinto, o almeno egli confonde spesso in uno queste due cose. Aggiunge Aristotele che [...OMISSIS...] . Che se è ben detto, che l' anima intellettiva sia il luogo delle forme in potenza, consegue che l' anima intellettiva sia distinta dalle forme, come il luogo da ciò che occupa il luogo. E se le forme sono identiche nell' anima e ne' reali, sono nell' anima anche i reali indivisi dalla loro forma, il che nega Aristotele. Sembra piuttosto manifesto, che Aristotele, quando dice separabile per la virtù dell' intelletto la forma dalla materia, non considera le cose in sè, quali sono fuori della mente, ma quali sono nella mente concepite dall' anima. L' una delle due dunque: o le sostanze reali e prime non esistono che nella mente, o se esistono fuori della mente, non ha luogo la separazione: o si ammette che esistano identiche fuori e dentro, e in tal caso la mente non è più il proprio luogo delle forme, perchè queste stanno anche fuori della mente. Ma se le specie esistono nell' anima intellettiva solo in potenza, anche l' anima stessa esisterà solo in potenza, poichè « è il medesimo ciò che intende, e ciò che s' intende », e ciò che intende è l' anima intellettiva, ciò che s' intende sono le specie. Non si ritrae Aristotele da questa conseguenza, anzi chiama l' anima [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' uomo, secondo Aristotele, un' anima intelligente possibile, che è lo stesso che le forme possibili. Ora come è tratta poi quest' anima all' atto? Sente egli stesso che non può bastare il definire l' intelligenza un che puramente possibile, un suscettivo delle forme, e però è obbligato d' aggiungere all' anima stessa [...OMISSIS...] . C' è dunque nell' anima una mente che diventa tutte le forme, [...OMISSIS...] ; e un' altra mente che la fa diventar tutte le forme. Ora quella mente che produce le forme non può essere le forme stesse da lei prodotte, perchè produrrebbe in tal caso se stessa: oltredichè le forme sono in potenza, e questa mente che trae le forme in atto, è per essenza in atto, separabile dalla materia, immista e impassiva; [...OMISSIS...] . Non può esser le forme nè pure dopo che le ha prodotte, perchè non le produce in sè stessa, ma nell' altra mente possibile, che è suscettiva delle forme, e che diventa tutte le cose. Tuttavia dice che questa mente producente è più eccellente dell' altra e sola immortale e perpetua. [...OMISSIS...] . Gli Arabi intesero, per questa mente separata, una mente separata dall' uomo, poniamo la mente divina; ma questa interpretazione è chiaramente smentita da Aristotele, che dice tale differenza, di mente in potenza, come materia, e di mente in atto, dover essere nell' anima stessa, [...OMISSIS...] . Se dunque la mente in atto trae la mente in potenza a divenire le specie in atto, e però quella è diversa dalle specie in atto da essa prodotte, e pure, quella sola è immortale e perpetua: convien dire che c' è qualche cosa di più eccellente delle specie stesse in atto, e queste periscono, quella poi sopravvive. Ma in tal caso come fa egli che la mente agente sia la scienza in atto, la quale è appunto il complesso delle specie in atto, come avea detto avanti? e queste stesse specie in atto aveva detto essere quella mente possibile che diventa tutte le specie? Poichè torna a dire, a proposito della mente agente, che « « quella scienza, che è in atto, è il medesimo che la cosa (4) » ». L' apparente contraddizione mi sembra conciliarsi a questo modo. E` da ritenersi che, secondo Aristotele, tutte le sostanze mondiali sono composte di materia e di forma, ma il loro essere sta nella forma (5), la materia poi, benchè non sia la forma, riceve da questa l' essere per sì fatto modo, che senza questa non esiste, e se si considera in separato non rimane più che un concetto astratto di relazione, come insegna espressamente nel secondo de' libri fisici. La forma dunque e la materia sono unite sì strettamente, che costituiscono un solo essere chiamato da Aristotele « « quella che da prima è sostanza » » [...OMISSIS...] . Questa dottrina l' applica egli anche alla natura dell' anima. [...OMISSIS...] . Ora questa materia e questa forma dell' anima sono la mente possibile e la mente agente. Queste due menti non si devono disgiungere, ma unite fanno un solo subietto intelligente, una sola anima intellettiva completa. L' effetto della loro unione, quando la mente possibile abbia ricevuto le disposizioni preambule , sono le specie. Queste adunque sono come il nesso tra la mente possibile e l' agente, e il termine d' entrambi: la mente possibile dunque le riceve per la sua unione e aderenza colla mente agente; ma come le forme sono atto, dipendono e appartengono a quest' ultima: così la materia riceve la forma, ma non è, e non diviene perciò la forma: la mente agente poi avendo la materia (la mente possibile e le condizioni preparatorie su cui operare) emette un atto che non avea prima e sono le specie: queste dunque sono la stessa mente agente in quanto è attiva sulla datale materia cioè sulla mente possibile, condizione della quale attività sono i sensibili (2). E conviene che vediamo appunto come la mente possibile si disponga alle specie, come altresì queste sieno prodotte dalla mente agente. E` da ritenersi in prima che il concetto della materia divisa dalla forma non è che un' astrazione, cioè un relativo (3) per Aristotele, e che ciò che è in potenza non è ancora. Onde la mente in potenza non è ancora mente. L' anima dunque in quant' è mente in potenza, non è ancora anima intellettiva. Che cosa è dunque per Aristotele? Senso. Vediamo come questo senso sia suscettivo delle specie . In fine al secondo libro degli Analitici posteriori, dopo che aveva dimostrato prima, che « « ogni cognizione nova nell' uomo nasce da una cognizione precedente »(4), » e che le conseguenze si cavano da principŒ preconosciuti: viene alla questione dell' origine de' principŒ stessi che non si possono dedurre da principŒ anteriori, senza andare all' infinito. Trova assurdo il dire, che noi li abbiamo per natura, perchè non ne abbiamo coscienza; trova pure impossibile, se non li abbiamo, di generarli in noi, perchè non c' è la cognizione antecedente, da cui generarli. Conchiude adunque che si deve ammettere una speciale facoltà (1), non però più eccellente dei principŒ stessi, che è quanto dire una potenzialità. E così si fa a spiegare questa facoltà inferiore, da cui poi s' hanno i primi principŒ della ragione. Da questo luogo sembra potersi inferire, che Aristotele deduca l' intelligenza dal senso, e che il sensibile corporeo, qual è il fantasma, si converta da sè prima in concetto ( «logos»), poi in memoria ( «mneme»), poi in esperienza ( «empeiria»), poi in principŒ ( «arche») delle arti e delle scienze pure col fermarsi nell' anima. Questi suoi modi, ripetuti da Aristotele altrove, hanno fatto credere ad alcuni, come tra gl' Italiani del cinquecento a Pietro Pomponazio (4), che colla filosofia d' Aristotele (e non si credeva ce n' avesse un' altra migliore), l' anima umana non si potesse dimostrare immortale, perchè i fantasmi sensibili se ne vanno col corpo. Per la stessa ragione Alessandro Afrodisio e Averroè introdussero l' Intelletto passivo , pel quale intendevano la potenza sensibile, atta a fare tutte quelle operazioni, e in questo l' arabo Commentatore poneva la specie , ponendo poi un intelletto agente separato dall' uomo, e unico per tutta la specie umana (1). Ma avendo Aristotele espressamente insegnato la sopravvivenza d' una parte intellettiva dell' anima (2), e altri luoghi delle sue opere esigendo una diversa interpretazione, conviene che ci atteniamo a quella che meglio e più facilmente concilia Aristotele con se stesso. Aristotele adunque dopo il luogo arrecato degli Analitici posteriori soggiunge: [...OMISSIS...] . Acciocchè dunque si possa fare quei passi ch' egli descrisse dalla sensazione al concetto fino a' principŒ scientifici , dice che l' anima dee essere costituita in un dato modo, ma qui non dice quale . Per conoscere adunque la natura di quest' anima, convien ricorrere ai libri dell' Anima e a' Metafisici, dove si vede che la natura d' una tal anima dev' essere intellettiva. Non è dunque il solo senso, che possa fare tutto ciò che in fine agli Analitici posteriori descrive, ma il senso in un' anima intellettiva. La dottrina dunque propria dell' intendimento è supposta, ed è quella che abbiamo prima indicata, e considerando quale sia questa, si può raccogliere, che l' opera del senso non è che una preparazione, o condizione materiale agli atti della intelligenza. Questa è la più conciliante interpretazione che si possa dare ad Aristotele, che certo s' esprime assai oscuramente. E per raccogliere come noi crediamo doversi intendere Aristotele, nel capitolo 4 del terzo libro dell' Anima, egli parla, secondo noi, della mente umana in universale. E poichè talora dà il nome di mente a ciò che non è mente, per traslato, come dice pure per un certo traslato, che il senso giudica (4); perciò qui si dà cura di definire di qual mente parli, e dice di quella « « per la quale l' anima conosce ed è prudente » [...OMISSIS...] ; e poco appresso di nuovo si dà cura, acciocchè non nasca equivoco, di avvertire che parla di quella mente « « colla quale l' anima raziocina e congettura » [...OMISSIS...] . Così distingue questa mente di cui parla e che è sola vera mente, dal senso. E quanto sia distinta da questo, risulta dalle parole che seguono, dove dice che [...OMISSIS...] . Distingue dunque i sensibili, e però i fantasmi, dagl' intelligibili: questi dunque, oggetto della mente, non sono i fantasmi. Ma gl' intelligibili non sono naturalmente in atto, ma in potenza: conchiude dunque, che anche la mente non ha altra natura, che quella di potenza , [...OMISSIS...] . Nel capitolo seguente viene a determinare come sia fatta questa potenza, e qui dice che quantunque sia potenza, ella deve avere una virtù in sè stessa, che (date certe circostanze) la trae all' atto, onde distingue nella stessa ed unica potenza due funzioni, l' una di ricevere, l' altra di fare, che non chiama parti ma differenze ( «diaphoras»). Queste funzioni o differenze appartengono alla stessa parte dell' anima di cui ha detto voler parlare (1). Ma l' averle chiamate, ciascuna, mente ( «nus»), fece sì che si rendesse più difficile l' intenderne la dottrina, considerandole come due menti, o intelletti diversi, il possibile, e l' agente. All' incontro il sistema riesce assai più chiaro, se si considerano come due attitudini, virtù, funzioni, o piuttosto elementi della stessa potenza, nella quale unità compariscono costantemente nel capitolo quarto. E veramente in questo capitolo in primo luogo loda la sentenza di Anassagora, che aveva detto la mente dovere essere immista ( «amige») e però senza alcun miscuglio di cosa corporea [...OMISSIS...] , semplice ( «haplun»), senza passione ( «apathes»), e non avente nulla affatto di comune con alcun' altra cosa [...OMISSIS...] : le quali qualificazioni la distinguono affatto da ogni cosa sensibile , e però la specie della mente, secondo questa dottrina, conviene che sia totalmente diversa e separata non solo dalla forma materiale, ma ancora da ogni sensazione: onde le difficoltà che più sopra abbiamo indicate, e che qui lasciamo da parte. Posta questa spiritualità e purità della mente, Aristotele propone due dubbi: 1 se la mente ha nulla di comune coll' altre cose, e se l' intendere, come fu detto prima, è un certo patire, in che modo la mente intenderà? 2 se l' intendere è patire, come la mente intenderà sè stessa? Come patirà da sè stessa? Acciocchè patisca da sè stessa ella dovrebbe esser duplice, dovrebbe agire e patire ad un tempo, e l' agire e il patire suppone un chè di comune [...OMISSIS...] . Se essa è intelligibile come l' altre cose, sarà mista di materia e di forma e non più semplice, cioè avrà qualche cosa in sè, che, separandosi dal resto, la renda intelligibile [...OMISSIS...] : nè intelligibile in un altro modo può essere, perchè l' intelligibile è unico di specie [...OMISSIS...] . Quant' è chiaro e lungo Aristotele nel proporre le obbiezioni, altrettanto è oscuro e breve nel rispondere alle medesime. Tuttavia non dubito che la risposta ch' egli intende dare sia la seguente. Alla prima difficoltà risponde così. Prima accorda che il patire supponga qualche cosa di comune tra il paziente e l' agente, [...OMISSIS...] . Poi non nega questo comune alla mente, ma esso è appunto comune per questo che [...OMISSIS...] . Ora l' intelligibile è l' agente, come ha detto prima [...OMISSIS...] , e la potenza suscettiva di questi [...OMISSIS...] è il paziente. Onde da prima questa è divisa, [...OMISSIS...] ; perchè non è uscita ancora al suo atto che la finisce. Ella, la mente, patisce quando fa l' atto di conoscere, perchè in virtù di quest' atto quella che prima era potenza, riceve gl' intelligibili; ma questi intelligibili, quando sono in atto, sono lei stessa, perchè essi sono l' estremo suo atto, o termine. Onde, di questa divisione, che da prima si ravvisa nella mente tra il suo essere in potenza e il suo essere in atto, dice che [...OMISSIS...] . Questo è il celebre luogo d' Aristotele, del quale tanto abusarono i sensisti moderni senz' intenderlo. Aristotele paragona la mente, in quant' è potenza, alla tavola rasa, ma questa tavola per Aristotele è una potenza viva, che quando vuole (1) si scrive da sè stessa (2). Ed aveva già prima avvertito, che ci sono due maniere di patire [...OMISSIS...] . Onde non è assurdo, che si attribuisca una tale potenza, che non importa alcuna corruzione nè alterazione, ad un incorporeo. Laonde un recente Scoliaste della psicologia Aristotelica raccoglie che, secondo questo filosofo, [...OMISSIS...] . E la cosa si rende evidente, dove si consideri la differenza che Aristotele pone tra il senso e la mente, dove chiaramente apparisce, che nè la mente viene dal senso, nè i sensibili si trasformano punto in intelligibili. Se dunque gl' intelligibili sono nell' anima, e per un atto di questa si attuano, la specie intellettiva e quella, di cui partecipano le cose reali fuori dell' anima, non sono identiche, ed è una metafora il dirle tali, onde ritornano in campo le difficoltà che Aristotele oppose a Platone, circa l' attitudine delle idee a far conoscer le cose. Come dunque si risponderà alla prima questione? Tutta la risposta si riduce a queste parole, che « quando la mente fa l' atto dell' intendere, allora la stessa mente e la cosa intesa sono il medesimo ». Ma tanto è lungi che Aristotele spieghi come ciò sia o possa essere, che dalla sua stessa dottrina risulta che la cosa intesa si divide in due, materia e forma, e con questa sola s' intende, rimanendo l' altra al senso; ma questa stessa, la forma, è solo equivocamente la medesima nell' intelletto, e fuori dell' intelletto, e per similitudine, come hanno più espressamente detto gli Scoliasti, e i loro successori, gli Scolastici. Ma che per via di similitudine non si possa spiegare la cognizione delle cose esterne, fu da noi dimostrato (10 7 11). Laonde si ricorse dagli espositori d' Aristotele ad un altro ripiego, cioè a dire, che la stessa forma aveva due maniere di essere, l' una nella mente senza materia, l' altra fuori della mente nella materia, e si limitarono ad impugnare la terza maniera di essere, che attribuivano, secondo noi falsamente, a Platone, cioè l' esistenza della essenza in sè fuori d' ogni mente, e fuori delle cose (1). Ora l' essere caduti a questo, era un trovarsi nel vero cacciativi dalla necessità logica, e senza pure accorgersene. Se avessero afferrata l' importanza di questa sentenza che usciva loro di bocca, ed avessero distinto accuratamente l' essere dalla maniera di essere , che nel loro linguaggio si confondono, avessero veduto che l' essere può conservarsi identico sotto più forme, avessero studiata la natura di queste forme e trovato che l' una era subiettiva (alla quale si riduce l' extrasubiettiva), e l' altra obiettiva , sarebbero pervenuti a vincere le immense difficoltà che seco ravvolge il problema della cognizione umana. Ma quanto rimanessero lontani da ciò, l' incertezza, l' improprietà e l' incoerenza, con cui parlano, il manifesta. E riguardo ad Aristotele, s' osservi anche qui, come inframetta di continuo al discorso delle particelle diminutive ed eccezionali, che poi non ispiega più in nessun luogo, e che pur gli valgono di scusa per avere la facoltà di prendere la stessa proposizione quando gli accomoda, o escluderla in caso diverso, appigliandosi alla sua contraria. Così quando dice che la mente « « è in potenza in qualche modo, «pos», le cose intelligibili » », tutto il nodo della questione sta in quella particella «pos», piccolissima di mole a segno che sfugge all' attenzione de' lettori, come un nonnulla, ma che pure è quella cosa che contiene tutto il sistema, se c' è sistema; e se non c' è, che fa credere che ci sia. Ora quella particella è appunto la più trascurata dal nostro filosofo, ne commette al lettore la interpretazione, e supponendola chiara da sè, non ci fa commento. Intanto da quella proposizione limitata e condizionata, perchè non s' avvera che in qualche modo, «pos», ne cava una conseguenza assoluta, che « « la mente può pensare quando le piace agl' intelligibili » », il che suppone che gl' intelligibili non sieno in qualche modo nella mente, ma che semplicemente ci sieno: altramente la conseguenza dovrebbe essere, per non riuscire più larga della premessa, che « « la mente in qualche modo può pensare quando vuole agl' intelligibili » ». Quando poi la proposizione non gli va bene, prende la contraria che, « gl' intelligibili sieno in qualche modo fuori della mente »; ed eccoli nelle cose reali, contro quello che avea prima supposto. La seconda questione, dopo la prima, è assai più facile a risolvere. Poichè se gl' intelligibili si fanno per l' atto stesso dell' intendere, e sono la stessa mente in atto, chiaro è che la mente in atto dee essere intelligibile a sè stessa, essendo l' atto della mente l' intelligibile, onde dice, che è « « anch' essa intelligibile come gl' intelligibili, poichè nelle cose scevre da materia è il medesimo l' intelligente e l' intelligibile »(1) ». E quest' è il passo dove Aristotele consumma la confusione e la identificazione del subietto coll' obietto: poichè la mente in tal modo da subiettiva che era in potenza, in atto è divenuta obiettiva. Continuando dunque ad esporre l' intricato ed oscuro sistema d' Aristotele circa l' intendimento umano, dicevamo, ch' egli nel capo quarto del libro terzo dell' Anima, stabilisce in generale da prima, che la mente umana è un potenziale, «dynaton», e non è altra natura che questa [...OMISSIS...] . Ma qui la parola potenza, o ciò che è potenziale, deve prendersi in altro significato da quello in cui la prende poco appresso, quando dice che [...OMISSIS...] . Poichè se quando gli intelligibili sono in potenza, non ci potesse essere una mente, in tal caso la mente sarebbe solo degli intelligibili in atto, e non ci sarebbe una mente potenziale, «dynaton», che non ha niuno degli intelligibili in atto; e pur questa non solo c' è secondo lui, ma è immista e pura da concrezione corporea, acciocchè vinca e domini, «hina krate», come aveva detto Anassagora, espressione che Aristotele ammette, e spiega così [...OMISSIS...] ; il quale luogo conferma quello che dicevamo avanti, cioè che Aristotele per la Mente possibile di cui parla nel citato capitolo quarto, intende l' unica mente umana, anche quella che opera, conosce, raziocina, congettura, prudenteggia [...OMISSIS...] , essendo prima potenza, ed ella stessa poi atto, entelechia. Il medesimo si prova da questo che nel capitolo quinto dice, che il solo intelletto agente, [...OMISSIS...] , è separabile, e nel capitolo precedente, dove parla del possibile [...OMISSIS...] , dice che è separabile dal corpo (1); il che mostra che si tratta della stessa mente analizzata, e considerata sotto due aspetti diversi. Rimanendo dunque a spiegare come questa potenza intellettiva passi al suo atto, dice che anche quando la mente è divenuta ciascuna forma [...OMISSIS...] , uscendo al suo atto « « è anche allora in certo modo in potenza » [...OMISSIS...] «ma non a quel modo come prima che imparasse o ritrovasse »(2) ». La mente umana dunque si rimane sempre una potenza, ma in altro modo quando non ha ancora appreso nulla, e in un altro quando ha già appreso. Queste due potenzialità della mente erano state dichiarate prima da Aristotele. Poichè aveva distinto l' uomo che non sa ancor nulla, ma che è in potenza ad imparare, ad acquistare l' abito della scienza; e l' uomo che già ne ha l' abito , come chi ha la scienza grammaticale, il quale può ripensare alle cose che sa, quando vuole, e quando non ci pensa è in potenza all' operazione del contemplare. Prima dunque la mente è in potenza all' abito della scienza; poi è in potenza all' operazione del pensiero attuale. Ora l' uomo, che è sciente in potenza al primo modo, lo chiama « « genere e materia dello sciente » » [...OMISSIS...] . Questa mente dunque « materia di tutte le specie », viene ad essere il medesimo della « materia ideale »di Platone, di cui abbiamo parlato, poichè di questa prima materia ideale, secondo Platone, si compongono tutte le idee. Dove si vede manifesto, che come abbiamo già prima osservato, Aristotele confuse l' esistenza puramente obiettiva di questa materia e di tutte le specie, che ne derivano, coll' esistenza subiettiva dell' uomo intelligente, onde la chiamò [...OMISSIS...] , « un che intelligente », e volle, che questo « che intelligente »dovesse essere lo stesso che « un che inteso », partendo dal principio « « che in quelle cose che sono senza materia (corporea) l' intelligente è il medesimo che l' inteso » » [...OMISSIS...] . Principio affatto gratuito, di cui Aristotele non reca in alcun luogo la minima prova, e contrario al testimonio della coscienza, giacchè chi pensa è consapevole di non esser nessuna delle cose pensate, eccetto se pensa se stesso: che se fosse le cose pensate, egli non potrebbe più distinguere quando pensa se stesso, e quando pensa l' altre cose. Che se avesse afferrata questa distinzione tra le due maniere d' esistenza di cui parliamo, e avesse riconosciuto che « la materia ideale, di cui si formano tutte le idee determinate »non ha e non può avere che un' esistenza obbiettiva, egli avrebbe colto nel segno. Poichè chiamandola «dynaton», possibile, l' avrebbe altresì saputa chiamare in un modo oggettivo «to dynaton», il possibile ; e sarebbe pervenuto alla nostra teoria delle idee, che pone nell' anima umana una materia ideale indeterminata, e questa non esser altro che « il possibile, «to dynaton» », ossia come noi lo chiamiamo più espressamente « l' essere possibile », distinto affatto dall' anima che l' intuisce. Le cagioni, che indussero Aristotele a dare alla materia prima dello scibile un' esistenza subiettiva ad un tempo ed obiettiva, confondendo insieme maniere d' essere così distinte, furono varie. - E prima, l' impegno che avea preso di mostrare, che le idee platoniche non potevano giovar nulla alla cognizione delle cose, perchè estranee a queste; onde non gli rimase che la via di unire le specie alle cose, e di fare le specie nelle cose e nella mente identiche, temperando poi un tale assurdo colla particella «pos», e col dire il contrario altrove in altre parole, come quando fa che la mente patisca dal simile, [...OMISSIS...] , cioè dall' intelligibile , [...OMISSIS...] , quando questo non doveva esser pur altro, che l' effetto e l' atto della mente stessa. Un' altra cagione è quella, comune a tutta l' antica filosofia, che vi era assai poco considerata la coscienza , e non si deduceva la dottrina dell' anima dall' anima stessa, ma dall' analogia delle cose esteriori, attribuendosi all' anima quella costituzione, che in queste si ravvisava. Ora in tutte le cose reali e finite non c' è che potenza , atto e limitazione , e la parola forma è tolta dall' intelletto e a loro applicata, ma in esse veramente, in quanto sono fuori della mente, non c' è specie o forma alcuna. Confondendo dunque le cose reali in sè colle cose reali pensate dalla mente, si prese l' atto che hanno i reali, per identico alla forma che non è in esse, ma solo nella mente, ed è dalla mente data ad esse quando si conoscono, essendone la forma o la specie l' essenza intelligibile. Questa confusione d' elementi diversi accadde anche ad Aristotele, nel secondo libro cap. due dell' « Anima », dove la materia è detta potenza , e l' atto è detto specie o forma , [...OMISSIS...] ; quando la specie o forma è diversissima dall' atto, essendo puramente oggetto in cui termina l' atto dell' intelletto. La confusione di questi due concetti, atto e specie od oggetto , si confermò nella mente di Aristotele, o si giustificò a' suoi occhi dall' aver supposto, senza sufficiente esame, che tra il senso e l' intelletto passasse una similitudine maggiore di quella, che veramente ci passa, come risulta da questo luogo: [...OMISSIS...] . Egli vuol dire, che noi diciamo d' intendere colla scienza , e d' intendere coll' anima : [...OMISSIS...] . Dove chiaramente apparisce, che Aristotele prende come equivalenti i vocaboli di forma, di specie, di ragione e di atto [...OMISSIS...] . Pare però rispetto a quest' ultimo, che dubiti egli stesso di ciò che afferma, perchè dopo aver detto francamente che la scienza e la sanità sono forme e specie e ragioni dello sciente e del sano, non osa poi dire, con egual franchezza, che sono loro atto , ma « « come atto, [...OMISSIS...] » ». E crede oltracciò necessario di giustificare quest' ultima appellazione dicendo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque osservato, che nel parlar comune si dice, che l' uomo conosce coll ' anima, ed anche che l' uomo conosce colla scienza, attenendosi a questa maniera di parlare strettamente, distinse due principŒ, denominandoli con cui , [...OMISSIS...] , quo appresso gli scolastici, l' uno de' quali l' anima , l' altro la forma ultimata cioè la scienza o la sanità . Ma si considerino attentamente queste parole: « Noi viviamo e sentiamo e raziociniamo coll' anima ». Si distingue dunque il noi dall' anima. Il noi indica certamente il subietto, la persona umana . Ma l' anima non è ella anche persona umana? Se si distinguesse l' anima dalla persona, come gli antichi infatti distinsero «psyche» da «pneuma», si potrebbe dire acconciamente che: « noi viviamo e sentiamo coll' anima », intendendo per anima « la vita animale e sensibile ». E probabilmente fu tratto Aristotele a considerare l' anima come un istrumento con cui noi operiamo, dall' aver fondata la sua psicologia sulla definizione dell' anima generica, e però della più imperfetta. Ma dicendo egli oltracciò che noi coll' anima « raziociniamo », non può più dirsi che noi facciam questo coll' anima sensitiva. Coll' anima intellettiva dunque? Nè pure, perchè quest' anima siamo noi stessi, subietto personale. Come dunque poteva dire Aristotele che noi raziociniamo coll' anima? Aristotele considera l' uomo composto di corpo e d' anima, come di materia e di forma [...OMISSIS...] , e questo composto è quello, a cui attribuisce gli atti che si fanno coll' anima. Ma in vano, perchè negli atti intellettivi, la parola noi che esprime il subietto che si fa, è un sentimento semplicissimo ed incorporeo (1). In secondo luogo Aristotele cade in un manifesto assurdo, poichè ponendo il corpo come materia e potenza, l' anima come forma e come atto, e dicendo che tutti gli atti sussistono nella materia come in loro subietto (giacchè nega che l' anima sia subietto), viene a fare che il noi intelligente sia il corpo e che l' anima sia il suo atto (2). L' anima umana dunque è ella propriamente il subietto che sente coll' istrumento del corpo, e intende coll' idea, e non è quella, con cui si sente e s' intende da un composto. Un' inesattezza così grande di parlare condusse Aristotele ad altre strane confusioni: [...OMISSIS...] : e questo che ha potenza ad essere così è il corpo suscettivo d' essere animato, cioè di ricevere quell' anima che è una ragione e una specie, componendo così l' uomo di corpo, organizzato sì, ma per sè del tutto materiale, e di specie , onde il puro corpo sarebbe il subietto della specie . Vedesi che Aristotele non colse punto nè poco la distinzione tra la forma subiettiva , l' estrasubiettiva e l' obiettiva (2), e però non intese, che la specie o idea è una forma obiettiva, e che ha quindi bisogno d' un subietto vivente e senziente per essere da questo intuìta, e così avuta; il che non può fare alcun organismo materiale, che ha un' esistenza puramente estrasubiettiva, ed è suscettivo soltanto della forma estrasubiettiva. Questa confusione tra la forma subiettiva ed estrasubiettiva, e la forma obiettiva, vedesi dal mettere insieme che egli fa la sanità e la scienza , quando quella è una forma subiettiva , e questa è una forma obiettiva . E come abbiamo già detto prima, alla subiettiva non appartiene nè pure il nome di forma , ma semplicemente quello di atto , e questo non si chiama forma, se non considerato in relazione all' intelligenza che n' ha l' idea, la quale, applicata all' atto conosciuto, dicesi forma. C' è ancora in questa dottrina Aristotelica un altro errore profondo, ed è quello di supporre che la materia costituisca sempre il subietto , anche de' composti. Prendendo la materia al modo Aristotelico come « ciò che è in potenza », convien distinguere tre materie, e relative ad esse tre maniere di forme: la materia e la forma estrasubiettiva, la materia e la forma subiettiva, la materia ideale e obiettiva, che è ella stessa in un altro rispetto, anche forma. Ciascuna di queste materie costituisce benissimo il subietto della forma a sè relativa, ma non di tutto il composto; come nell' uomo, se si prende per materia il corpo e per forma l' anima, quello non è punto il subietto di questa, benchè si possa prendere per subietto delle sue proprie forme corporee. La materia estrasoggettiva dunque è estesa e corporea, ed essa è suscettiva di sole forme (o piuttosto limiti ed atti ) estrasoggettive , come la sfericità, o la cubicità di un corpo: la materia subiettiva è la potenza di sentire o d' intendere, e quest' è l' anima sensitiva in quant' è costituita da un sentimento fondamentale e sostanziale suscettivo di modificazioni o sensazioni, ed è l' anima intellettiva in quant' è costituita da una prima intuizione e conseguente sentimento e potenza di emettere degli speciali atti intellettivi: gli atti poi sensitivi e intellettivi, rispetto all' intendimento che li pensa, si dicono forme subiettive: la materia ideale finalmente è l' essere indeterminato, e in quanto è suscettivo di determinazioni si può chiamar materia delle idee speciali e generiche, ma in quanto egli è essenziale obiettività, si dice forma obiettiva di tutte l' altre idee e di tutte le cose. Ora nelle due prime maniere di materia e di forma, la materia propria di ciascuna, o si prende pel subietto, od anche è tale; il subietto d' una forma estrasoggettiva non può essere altro che dialettico, cioè non propriamente un subietto, ma un estrasubietto che si prende per subietto dalla mente per la necessità del pensare: il subietto poi d' una forma subiettiva è vero subietto, e però non può mai essere un estrasubietto. Quanto poi alla forma ideale ed oggettiva, ella non ha subietto negli enti finiti, ma si prende come subietto dialettico delle sue determinazioni. C' è però un subietto, che non s' appropria già quella forma come un elemento della propria natura, ma un subietto che la intuisce come un diverso da sè, propriamente come oggetto; e quest' è l' intelligenza finita, come è appunto l' anima dell' uomo. Il vero dunque e reale subietto è costituito solo dalla materia subiettiva ed è il principio sensitivo e l' intellettivo: l' estrasoggettivo e l' ideale non sono subietti, se non dialettici. Se dunque si cerca di questo composto che dicesi uomo , qual sia il subietto, è da rispondersi non altro che « il principio sensitivo e intellettivo che è l' anima in quanto è persona », e perciò il subietto non è la materia, ma la forma dell' uomo, cioè l' anima intellettiva, che non è forma del solo corpo, ma di tutto il composto uomo (1). A torto dunque Aristotele considerò il corpo come il subietto dell' umana natura, il subietto di quell' atto , che chiamò anima, poichè scrisse: [...OMISSIS...] . Gli espositori cercano di attenuare il torto d' Aristotele, dicendo che egli parla non del corpo puramente materiale, ma del corpo unito all' anima (3). Ma se l' anima è un atto del corpo, chiaramente apparisce che il corpo è il subietto di quest' atto, e se l' anima è un quid corporis benchè non sia corpo, il corpo rimarrà di novo il principale; e finalmente il dire che « l' anima sussiste nel corpo »è un non intendere la dignità e potenza dell' anima, perchè in questa piuttosto, come dice S. Tommaso, sussiste il corpo vivente, e da essa è contenuto nella sua unità. I quali errori d' Aristotele nacquero in gran parte dall' aver considerata l' anima con principŒ troppo generici ed astratti (4), onde poi non potè conservare la coerenza seco stesso, quando pose che l' intellettiva era un altro genere d' anima , [...OMISSIS...] , e che potea separarsi dal corpo realmente [...OMISSIS...] , e non di mero concetto [...OMISSIS...] . Ma tornando ora noi alla confusione che fa Aristotele tra quello che per sè è atto , e non forma , e quello che è per sè forma: vedesi questo equivoco nelle due forme che reca in esempio, la scienza e la sanità , dicendo, che quella è forma dello sciente , questa del sano . Poichè la sanità non è che un atto dell' animale, e non è forma se non quando quest' atto è pensato dalla mente, perchè allora è oggetto, e non fa sano nessuno; laddove la scienza è per sè forma, non potendo esistere che nella mente come un complesso di oggetti da questa contemplati. Confonde dunque l' atto che si può dire forma subiettiva, colle vere forme obiettive (1). Ed anzi nella scienza stessa due cose si devono distinguere, quelle appunto che Aristotele prende per una sola, cioè l' atto della mente che contempla, e questo non è forma, se non in senso subiettivo e traslato, e le idee contemplate, e queste sono veramente e propriamente le forme. Da questa confusione avviene che Aristotele parli dell' anima intellettiva come fosse ad un tempo un atto subiettivo, e come fosse ella stessa obietto; negando però all' anima in genere l' esser materia e subietto, e accordandolo al corpo vivente (2). La considera in fatti come un atto subiettivo quando ammette che essa sia un che sciente. [...OMISSIS...] . Benchè parli qui d' uno sciente in potenza, tuttavia non si potrebbe chiamare sciente semplicemente [...OMISSIS...] , se non avesse un atto qualsiasi di sapere anteriore alla cognizione ricevuta. E veramente quello che nega Aristotele all' uomo per natura sono, come vedemmo, degli « abiti di sapere determinati (4) », e quando parla del sapere acquisito, sempre adopera tali espressioni, che indicano una scienza determinata, come in questo luogo adduce per esempio la grammatica. Aver dunque l' anima intellettiva ed essere sciente in potenza è il medesimo per Aristotele. Ora l' atto che s' esprime colla parola sciente , è un atto subiettivo, e non una forma obiettiva. Ma altre volte e interpolatamente, come gli accomoda, Aristotele parla dell' anima intellettiva come fosse una forma obiettiva , come abbiamo veduto, e come si può di nuovo rilevare dal seguente luogo (5). [...OMISSIS...] . E poco appresso la dice « « essenza come concetto » » [...OMISSIS...] , e la paragona al concetto della scure, che non è separato dalla scure se non di nome. Così ora la fa atto subiettivo del corpo vivente (1), ora specie ossia forma oggettiva, confondendo l' una cosa coll' altra. Ma quest' atto, questa entelechia del corpo, restringendoci all' anima intellettiva, ha egli stesso tre gradi successivi; il primo fa l' uomo sciente in potenza ed è l' anima intellettiva , il secondo è la scienza appresa come abito , di cui dà in esempio la grammatica, il terzo è l' atto della contemplazione d' una cosa determinata che già si sa per abito (2). Il primo che è l' essenza dell' anima, e che avea detto atto del corpo, diventa ella stessa nel discorso d' Aristotele, rispetto alla seconda e alla terza maniera di atti « genere e potenza »; [...OMISSIS...] ; di che deriva, volendo esser coerenti ai principŒ Aristotelici, che l' anima non solo è atto del corpo, ma anche subietto, perchè materia e potenza d' altri atti, che da lei procedono (4). Di più ella non ha bisogno, per fare alcuni di questi atti, di alcun organo corporale. Costretto di confessar tutto questo, Aristotele si trova impacciato più che mai, nel rispondere alla domanda: se quest' anima possa sussistere separata dal corpo, e dice e ripete, che questo è cosa oscura (1), ma finalmente confessa di sì: « « Niente vieta, che alcune parti dell' anima sieno separabili, perchè non sono atti di nessun corpo » »: a queste parti adunque, o parte, che non è atto del corpo, si deve necessariamente attribuire la condizione di subietto di quegli atti che sono esclusivamente suoi. Ora, se può sussistere, conviene che sia un subietto determinato , perchè l' indeterminato non può avere propria esistenza. Non si può dunque chiamare materia , se non relativamente ad atti accidentali. Ma il subietto degli atti accidentali è la forma, ossia è la sostanza, secondo lo stesso Aristotele, come vedemmo. Non può dunque dirsi materia , se non in un senso relativo e dialettico. E ancora Aristotele descrive l' anima come subietto, ogni qualvolta la descrive come quella che contiene e dà l' unità agli elementi corporei, [...OMISSIS...] (2), poichè il contenente ha ragione di subietto relativamente al contenuto; e molto più quando la considera come cosa superiore e dominante il corpo, il che attribuisce a tutta l' anima, ma soprattutto poi alla mente (3). Ma, di nuovo, come quest' anima, per sè subietto, passa dal primo suo essere di potenza, cioè di sciente in potenza , [...OMISSIS...] , a' suoi atti? Il primo genere di questi (ciascun de' quali può in appresso rimanere nell' anima com' abito determinato, o può divenire oggetto d' attuale contemplazione) è quello che Aristotele chiama mente, «nus», e che gli Scolastici tradussero intelligentia : questa mente ha per suo oggetto i principŒ, [...OMISSIS...] (4) e non è scienza, perchè la scienza è sempre accompagnata col raziocinio, e però non è mai de' principŒ (1), ma è anteriore alla scienza perchè è « « principio della scienza » », [...OMISSIS...] , ed è della scienza più evidente, [...OMISSIS...] . Questa mente dunque è la stessa mente da potenza passata all' atto suo proprio e primo, che è quello d' intuire le specie e gli astratti, che Aristotele unisce sotto gli stessi nomi d' indivisibili , [...OMISSIS...] , impartibili [...OMISSIS...] , universali, [...OMISSIS...] , immediati, [...OMISSIS...] , principŒ, [...OMISSIS...] , o principŒ primi, e immediati, [...OMISSIS...] (2) e la stessa mente che da «dynamei» è divenuta «entelecheia». Ora il maggiore sforzo del filosofo si pone appunto nello spiegare questo passaggio, nello spiegare come la mente si provveda delle specie determinate , che le mancano da principio, onde si paragona a una tavola rasa, la quale è la questione dell' origine delle idee. Poichè spiegate le idee, è facile lo spiegare gli atti che vengono appresso, cioè quello di contemplare attualmente le idee che si hanno, «theoreim», e di conoscere ragionando, «noein, dianoeisthai» (3). Ora Aristotele, per ispiegare questo passaggio concepì una facoltà di sentire in genere, nella quale si radichino tutte le attività dell' anima, d' ogni anima qualunque, e questa anche noi abbiamo ammessa (4). Ma questo sentire si diversifica ne' varŒ animali, e specialmente da tutti gli altri nell' uomo. In questo Aristotele riconosce un senso de' singolari, e una sensione degli universali. [...OMISSIS...] . E` dottrina costante di Aristotele, che il senso esterno è de' singolari, e l' intelletto degli universali (6), ma nell' uomo rimane una sensione dell' universale . Questa suppone una facoltà dell' universale nell' anima, che è l' intelletto, e che si può dire una special maniera di senso, perchè sente immediatamente l' universale. Quest' universale è quello che Aristotele chiama talora essere della cosa, talora essenza, specie, forma., ecc.. Il che si conferma con queste parole: « « Nell' anima ragionativa inesistono i fantasmi come pure i sensibili »(7) », il che si può intendere così, che i sensibili soggiacciono ai pensieri, come loro materia e condizione. In questa maniera si salva dall' assurdo la sentenza che « « la sensione faccia nel modo detto l' universale » » [...OMISSIS...] : distinguendo Aristotele la sensione dall' attuale sentire , che prende la sensione per ciò che rimane nell' anima intellettiva dopo l' atto del sentire; e si può congetturare, che questa maniera di restare, di rimanere nell' anima, sia stata suggerita ad Aristotele dalla stessa lingua greca, di cui la sua filosofia è una continua interpretazione, poichè da «meno», permaneo, constanter maneo , si derivava «menos», che significava « anima mente », da cui il latino mens . Viene dunque a dire Aristotele, che data una sensione esterna, rimane una sensione interna, che non è l' atto del sentire esterno, ma d' un' altra facoltà di sentire troppo diversa, della facoltà di sentire l' universale, che dicesi intelletto , «nus». E però benchè sostenga che l' universale da prima si trovi ne' singolari [...OMISSIS...] , pure è costretto d' ammetterlo anche fuori di essi [...OMISSIS...] , cioè nell' intelletto, dove è solo l' uno e non i molti, come prima abbiamo veduto della specie che dirige l' arte (.0 e segg.). E che la cosa sia così, rilevasi anche da questo che, a spiegare come l' anima abbia l' universale, non si contenta della sensazione esterna, ma c' introduce un' operazione interna, che chiama «epagoge», inductio (2), e chiama gli universali, che per essa si conoscono, «prota», quasi primi conosciuti. Poichè l' induzione aristotelica è cosa totalmente diversa dall' induzione introdotta da' moderni sensisti per ispiegare l' origine delle idee: i moderni introducono il paragone de' singolari, il che suppone questi conosciuti avanti gli universali; Aristotele non fa menzione di paragone alcuno, anzi dice, che i singolari si conoscono dalla mente per mezzo degli universali: è una operazione sola, che fa la mente, colla quale, all' occasione delle sensazioni, conosce ad un tempo gli universali e in questi i singolari, [...OMISSIS...] , riunendo quelle due operazioni, che noi abbiamo chiamate percezione ed universalizzazione . A una tale induzione Aristotele non accorda tuttavia la dimostrazione scientifica dell' essenza e della quiddità della cosa [...OMISSIS...] . Noi diciamo che nella percezione c' è ad un tempo il singolare e l' universale; ma con quest' ordine logico, che è prima la sensazione singolare che non è cognizione, per secondo l' universale, che è la prima cognizione, e per terzo la cognizione del singolare o l' affermazione: e quando questa si abbandona, rimane nella mente l' universale realmente diviso dal singolare. S' ascolti Aristotele: [...OMISSIS...] , come accade se non s' è fatta l' applicazione della cognizione universale al particolare. Ed è per questo che Aristotele rappresenta la mente come un senso, e la chiama sensione (il che impacciò gl' interpreti), e la distingue dalla facoltà di ragionare [...OMISSIS...] per indicare, che opera immediatamente, senza moto di raziocinio come il senso, ond' anche noi abbiamo chiamato « sensione intellettiva » l' intuizione dell' essere; il che Aristotele in quella vece dice della percezione, nella quale l' intendimento apprende con una sola operazione l' universale e in questo il singolare reale. [...OMISSIS...] Tale sensione dunque, che è la mente, non è la sensione esterna, ma l' interna e mentale; è in una parola la percezione intellettiva. Se dunque c' è, oltre il senso corporeo, una facoltà nell' anima umana, che quasi continuandosi al senso, forma gli universali, e che è un cotal senso anch' essa dell' universale, come lo chiama Aristotele [...OMISSIS...] , facoltà che altrove chiama mente, «nus», di novo dimanderemo come Aristotele la concepisca. E vedemmo, che secondo lui prima è potenza, «dynamis», poi atto, «entelecheia». E` la stessa mente che passa dallo stato di potenza a quello di atto. Ma la mente in potenza è come la materia de' suoi atti. Come dunque passa a questi suoi atti? Se fosse materia inerte, ci vorrebbe una causa esterna che la movesse. Questa causa esterna non può essere il sensibile , perchè espressamente dice Aristotele, che il solo senso è mosso dal sensibile, la mente poi dall' intelligibile . Ma se l' intelligibile è opera della mente, come può esser quello che la move a formarlo? Aristotele dunque accorda alla mente ancora in potenza un' attività propria, per la quale all' occasione delle sensazioni, ella si mova a formare, o più veramente a intuire gl' intelligibili e gli universali. - Ma può ella intuire gli universali, senza averne un primo in se stessa? Se si considera che alcune volte Aristotele riduce tutti gli universali alle dieci categorie, e si dimentica degli altri, come dell' ente e dell' uno, che altrove accenna pure come universalissimi: noi diremo, che così prendendo gli universali, egli ha ragione di negarlo, poichè le categorie sono tutte più o meno determinate. Prendendo dunque in questo senso la parola universale, non c' è che dire. Ma se si considera tra gli universali anche l' essere possibile al tutto indeterminato , che rimane dagli universali categorici d' Aristotele e dagli altri, ch' egli a questi subordina, squarciato e limitato, crediamo, che dalla stessa dottrina d' Aristotele consegua, che la mente in potenza di questo filosofo, presa come subietto, sia fornita di un tale universale, il quale le dà quella virtù, che la rende mente attiva, «nus poietikos», ossia atta a formare le categorie, e le altre idee inferiori, alle quali Aristotele riserbò il nome d' universali, e presa come obietto, sia ella stessa questo universale, che perciò diventa tutte le cose, e la rende «nus to panta gignesthai». Le ragioni, che a ciò mi movono sono le seguenti: 1) Aristotele dice, che ci deve essere nell' anima intellettiva, « « una mente tale che faccia tutte le cose » », [...OMISSIS...] , e che questa mente è « « come un cert' abito, quale il lume » », [...OMISSIS...] . Ora il lume è una cosa, che si vede, e non è l' occhio, nè l' atto dell' occhio, ma ciò che veduto, fa veder l' altre cose. Dunque questa virtù naturale della mente umana è un oggetto veduto, col quale si vedono l' altre cose. Onde Aristotele soggiunge: [...OMISSIS...] . Questo è il lume della ragione, che noi abbiamo dimostrato nell' ideologia essere l' essere in universale presente alla mente, senza il quale nulla potrebbe conoscere la mente, e col quale conosce tutto ciò che presenta il senso. Ma quest' essere non è nessun colore, ma indifferente a tutti, e in una simile indifferenza fa consistere Aristotele l' universale (1); esso è puro, immisto, non ha nulla di comune col sensibile ed ha tutte l' altre attribuzioni che gli dà Aristotele, tra l' altre quella di non essere alcuna delle specie, quand' è in potenza, ed esser tutte le specie, quand' è in atto, poichè ogni specie e idea è sempre l' essere variamente determinato, [...OMISSIS...] , onde, conchiude Aristotele, non ha altra natura che quella di possibile ; [...OMISSIS...] . 2) Dice poi che questa mente è « come un abito »: e un abito dice cosa che si ha , e non quello che si è (3). Onde indica una duplicità o differenza, perchè altro è l' avente , altro la cosa avuta . La mente dunque di cui qui parla Aristotele non è il principio subiettivo, che ha, ma un diverso da esso, com' è appunto questo lume diverso dall' occhio. Così l' anima intellettiva ha l' idea, ma non è l' idea. E poichè altrove Aristotele nega, che sieno innati nell' anima « abiti determinati di scienza », [...OMISSIS...] , convien dire, che questa mente, o lume, sia posseduta a foggia d' abito indeterminato, appunto perchè non è alcuna specie determinata. 3) Abbiamo veduto che Aristotele confonde in una l' esistenza subiettiva coll' obiettiva, e alla sua mente dà l' una e l' altra, e le proprietà d' entrambe. Questo gli accade, perchè la mente risulta veramente dall' unione per così dire dell' una e dell' altra esistenza, cioè dell' anima ch' esiste solo subiettivamente, e dell' essere ideale che esiste solo obiettivamente: ma il valore della parola « mente »per noi è subiettivo, indicando « « il principio o la facoltà che ha presente l' oggetto e lo intuisce e per esso conosce l' altre cose » ». Aristotele all' incontro, prendendo la mente ora come subiettiva, ora come l' obietto stesso, è costretto a dare di essa una doppia definizione, e però la dice: 1) abito , che si suol prendere subiettivamente per una facoltà del subietto, perchè chi ha, è il subietto; e la dice anche: 2) lume , che ha valore obiettivo. Non può dunque trovare una definizione unica della mente, che possa esser mantenuta con coerenza in tutti i suoi ragionamenti. Ma quando parla della « mente agente », egli per lo più la prende in senso obiettivo, ed è questo che dimostra, come quell' acutissima sua mente sentiva, senza poterlo nettamente esprimere, essere impossibile concepire l' umano conoscere, senza dare all' anima intellettiva qualche primo e fondamentale oggetto. Tale dunque è per lui la mente attiva, «nus poietikos». Questa dunque l' assomiglia al lume e non all' occhio: e vuole che produca le specie, cioè gl' intelligibili, come il lume produce ne' corpi i varŒ colori. Per questo noi già vedemmo, che la mente è chiamata altrove da lui specie, ragione, forma, tutte parole, che esprimono esistenze obiettive, e non punto subiettive. Che anzi chiama la mente non solo principio della scienza [...OMISSIS...] , ma « «principio del principio », [...OMISSIS...] »(1), e finalmente con tutta chiarezza « «specie delle specie », [...OMISSIS...] »(2). Ora niente più propriamente di questa definizione conviene all' essere indeterminato , come abbiamo osservato altrove, e d' altra parte l' appellazione di specie , e molto meno « di specie delle specie », non può convenire a niuna facoltà subiettiva. 4) In quarto luogo si richiami alla mente la dottrina aristotelica, da noi accennata di sopra, circa la materia. Per Aristotele la materia è un puro relativo, e però non può sussistere sola senza la forma, perchè dice Aristotele, da sè non è un chè determinato (3). Ora la mente umana, prima che acquisti le specie determinate, è detta da Aristotele materia . Ora, se la semplice materia non può sussistere da sè, conviene ch' ella abbia anche una forma. E in fatti la chiama anche forma, dicendola mente agente, «nus poietikos». Ora la forma della mente non è altro che la specie, che la rende qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (4), e quivi stesso dice, che è una forma come la scienza , [...OMISSIS...] (5), non come l' attuale contemplazione. Ora, queste appunto sono le proprietà dell' essere universale , che sotto aspetti diversi sia materia ideale , come quello che giace per fondo di tutte le specie determinate e subietto, e forma universale , ossia « specie delle specie »come lo chiama appunto Aristotele. Al modo stesso i generi , che sono ciò che c' è in più specie di comune, sono detti da Aristotele materia rispetto alle specie , benchè ne siano allo stesso tempo la forma. Ed è coerente, che Aristotele non solo chiami la mente materia delle specie, ma ben anco genere », poichè ammette nell' uomo per natura un « che sciente, [...OMISSIS...] (6) e tosto appresso dice, che l' uomo è « « un chè sciente come genere e materia » », genere di tutte le specie, materia di tutte le forme di scienti , che prende in appresso col suo sviluppo. Se non s' interpreta dunque a questo modo la mente d' Aristotele, non ci rimarrebbe altro che un viluppo di contraddizioni e di non sensi. Quelli che hanno voluto far comparire Aristotele un puro sensista, come i moderni, e anche un materialista, come il professore dell' università di Padova, Pomponazio co' suoi discepoli, fondavano il loro argomento principalmente sopra una sentenza che ricorre frequente in Aristotele, cioè, che [...OMISSIS...] . Ma essi non posero mente alla forza del verbo «noein», che esprime un movimento cogitativo della mente, e non la stessa mente, «nus», la quale, com' insegna Aristotele, non è movimento (2). Ora che la mente non esca a' suoi atti, o piuttosto l' uomo non esca a' suoi atti intellettivi, se non alla presenza de' fantasmi, questo lo diciamo anche noi: la questione è anteriore a questi atti transeunti della mente, riguardando la natura e la costituzione della stessa mente, domandando cioè, « « se questa, la mente, esiga un oggetto per esistere, se l' uomo abbia per sua propria natura immobilmente presente un oggetto, col quale operi quasi con istrumento » ». Aristotele risponde, a nostro parere, di sì, solamente che chiama questo stesso oggetto o istrumento, la mente, «nus», e l' uomo per lui è il subietto, che opera con essa, e questa mente oggetto, egli la chiama propriissimamente « specie delle specie », e la rassomiglia alla mano (3), che è per l' uomo « l' istrumento degl' istrumenti »(4). E questo stesso, di considerare la mente come un istrumento, di cui si vale l' uomo alle diverse sue operazioni intellettive, dimostra di novo quello che dicevamo, cioè che questa mente non è per Aristotele una facoltà subiettiva d' intendere, ma il mezzo , con cui l' uomo intende. Così appunto chiama Aristotele la mente e anche l' anima intellettiva « principio con cui », principium quo degli Scolastici. Di che apparisce la ragione che avea di negare ogni cognizione innata. Non dava egli questo nome di cognizione, se non a quella, di cui l' uomo ha consapevolezza: perciò, secondo lui, si conosce solo quell' oggetto, di cui si è consapevoli o di cui si può esser consapevoli, quando si vuole [...OMISSIS...] (1): e questo è un principium quod , cioè un principio, in cui si porta l' atto della consapevolezza. Ammise dunque nell' anima qualche cosa COL QUALE ci procacciamo consapevolmente le cognizioni, ma non qualche cosa IL QUALE sia oggetto della nostra consapevolezza. E l' essere ideale, ossia il possibile, «dynaton», è certamente tanto principium quod , termine dell' intellezione, quanto principium quo , mezzo di conoscere l' altre cose. Ma Aristotele l' ammise solo come mezzo , e non lo riconobbe come oggetto , perchè esso rimane da prima occulto all' umana consapevolezza, e non si scopre se non da poi per una riflessione che fa l' uomo sulle proprie operazioni razionali, a far le quali esso s' adopera come mezzo: lo dichiarò come un lume atto a far risaltar dalle cose i varŒ colori, ma non s' accorse poi, che il lume dovea essere prima veduto lui stesso, acciocchè facesse vedere i colori diversi, di cui egli non era che il complesso. Del resto l' aver distinto l' uomo dalla mente , e quello dichiarato il subietto conoscente, questa il mezzo , con cui conosce, conferma ad evidenza, che per mente agente Aristotele non intese il subietto o la facoltà subiettiva che è il subietto stesso considerato in relazione con una classe de' suoi atti, ma intende un obietto , appunto un lume. Allo stesso modo avea detto che l' uomo conosce prima « per l' anima »intendendo « l' anima intellettiva o la mente ». In questa dottrina però non è costante Aristotele, il quale in altri luoghi riconosce che la mente è anche da sè una sostanza, ed ha atti suoi proprŒ senz' uso d' organo corporale, come vedremo. Ma oltre ciò, dagli stessi principŒ del nostro filosofo, si cava che non si può dividere il principio con cui si conosce, da ciò che si conosce, perchè non si può conoscere con ciò che non si conosce. Aristotele stesso l' insegna con queste parole: [...OMISSIS...] . E così seguita a dimostrare che i principŒ si devono sapere e credere più delle conclusioni, altramente essi non ci potrebbero servire di mezzo a conoscere queste. [...OMISSIS...] . Da tutte queste premesse consegue che la mente non è solo, secondo Aristotele, un mezzo di conoscere, ma un oggetto, più evidente, più noto, più creduto di tutte l' altre cose. Ma tornando alla necessità de' fantasmi per conoscere, l' argomento col quale i Sensisti credono d' attirare a sè Aristotele, svanisce loro in mano anche per un altro modo, solo che si consideri ciò che veramente ne dice Aristotele. Esaminiamo con diligenza i luoghi più classici, in cui egli espone la sua mente. Nel terzo della sua Psicologia al capo ., riassume se stesso, e comincia a collocare nella natura dell' anima due elementi, un chè sensibile , [...OMISSIS...] , e un chè scibile [...OMISSIS...] , questo scibile è lo stesso che prima aveva chiamato « un chè sciente, [...OMISSIS...] »e, « materia e genere »degli scienti o aventi la scienza, [...OMISSIS...] (3). Dal che già si vede, quanto Aristotele fosse lontano dal fare dell' anima umana una qualche statua condillacchiana, che anzi in essa poneva, non certo alcuna idea, ma il genere e la materia universale di tutto lo scibile, che è appunto quello, che facciamo noi. Ora dice che « « questo sensibile e questo scibile o sciente dell' anima, sono le stesse cose in potenza, cioè il sensibile dell' anima è il sentito [...OMISSIS...] in potenza » », e lo scibile dell' anima è il saputo [...OMISSIS...] , pure in potenza (4). Non è lo stesso di quello, che noi abbiamo detto in altre parole, esser così fatta la natura dell' anima umana ch' ella possiede un sentimento fondamentale , dove si può dire, che ci sono in potenza le specie sensibili delle cose sentite (5), perchè diviene tutte le sensazioni, non essendo queste che sue modificazioni, e un' idea che è in potenza tutto ciò, che poi sa l' uomo in appresso, luogo delle specie, [...OMISSIS...] (6), anzi specie delle specie [...OMISSIS...] ? (7). Continua Aristotele proponendosi questa questione: [...OMISSIS...] . Ora niuna cosa è separata dalle grandezze sensibili, dice Aristotele, cioè a dire, non c' è la cosa intellettuale puramente, come voleva Platone, senza il sensibile, chè, rimosso questo, non esisterebbe più la cosa (1). [...OMISSIS...] . Primieramente trova assurdo, che le cose stesse sieno nell' anima, essendo composte di materia e di specie. Ora la specie può esser nell' anima. C' è dunque una specie colle cose fuori dell' anima, e una specie nell' anima, che fa sentire e conoscere le cose. Tornano le difficoltà più sopra notate. Poichè quando Aristotele dice « « che la mente è tutte le cose, perchè è le specie stesse, e queste sono le cose » » o conviene intendere tutto ciò metaforicamente, ed allora non ci rimarrebbe alcuna spiegazione del fatto della cognizione umana, ma parole, quasi un mantello da coprire le spalle del filosofo; o conviene ammettere che la stessa entità, rimanendo identica, abbia due modi d' esistere, il subiettivo o estrasubiettivo nelle cose, e l' obiettivo nella mente, il quale appunto perchè obiettivo è specie; al che non pare esser giunto Aristotele. Di poi, qui Aristotele non ha in vista altro, che di spiegare la cognizione che l' uomo s' acquista delle cose corporee, delle grandezze sensibili, e rispetto a queste, certo non si può ammettere cognizione innata. In terzo luogo Aristotele trova la necessità del fantasma per contemplare, «theorein», le dette cose sensibili, e questo « contemplare », com' ha espressamente dichiarato, non riguarda l' abito della cognizione, ammesso anche da Aristotele senza fantasma, ma l' atto della mente, che pensa l' oggetto, o la prima volta, e allora impara o percepisce, o di poi quando pensa alle cose reali e sensibili che già conosce (3). E chi mai potrebbe negare, che a pensare attualmente un sensibile determinato (che altramente non sarebbe sensibile), ci abbisogni il fantasma? Anche questo è fuori di questione. In quarto luogo dice bensì Aristotele che la specie intelligibile è veduta dal contemplante nella specie sensibile , ma con ciò stesso distingue quella da questa. E tant' è vero che la distingue, che dice che quella si contempla « «insieme col fantasma » [...OMISSIS...] »; onde non è il fantasma. E questo vie più chiaramente si spiega nell' opuscolo «peri mnemes», dove è indicato più precisamente l' uso che del fantasma fa l' intendimento, e l' aiuto, che esso presta all' intendere, e quest' aiuto non è ch' egli già sia l' oggetto inteso, ma si riduce a mantener ferma l' attenzione, come chi vuole speculare sulla natura del triangolo, si mette sott' occhio un triangolo reale, benchè lo specolatore non badi punto alla sua grandezza, o a' suoi difetti (1): ma gli giova quel cotal simbolo al pensiero del triangolo ideale ed astratto, che non ha alcun quanto determinato, e non è nè manco sensibile, non essendo sensibili punto nè poco le linee matematiche, che lo costituiscono: pure il triangolo intelligibile è in qualche modo nel sensibile, perchè nel sensibile c' è un atto che corrisponde a una specie che ne rappresenta alla mente la forma possibile: onde l' intendimento vede il reale (fantasma) nel possibile, nell' essenza, di che s' era per un momento accorto Aristotele stesso quando scrisse che «en hois eidesin hai protos usiai legomenai huparchusi» (2), e non viceversa quando scrisse al contrario, che «en tois eidesi tois aisthetois ta noeta esti» (3) dal che s' avrebbe, che « « le sostanze reali sarebbero nelle specie intelligibili, e queste nelle specie sensibili, e le specie sensibili nelle sostanze reali » ». O bisogna dunque convenire che Aristotele fu incoerente, o intendere che la mente vede gl' intelligibili nelle specie sensibili, non perchè quivi essi veramente ci sieno, ma perchè la mente stessa colla sua attività ve li pone, benchè per sè non ci sieno punto. E porre ne li deve indubitatamente, se si considera, che Aristotele stesso insegna che la mente opera senza organo corporale (4), laddove il fantasma non si può avere senza organo corporale. Finalmente quell' Aristotele che avea preteso contro Platone che tutte le specie intelligibili si riferissero alle cose reali, e che perciò non esistessero da sè, ma altro non fossero che la forma o l' atto di queste, si trova necessariamente condotto a distinguere « « i primi intelligibili » » [...OMISSIS...] , cioè gli universalissimi, da tutti gli altri; e di questi già dubita se si pensino co' fantasmi, o senza fantasmi, anzi mostra apertamente di credere che senza, come osserva il Trendelenburg (1); appartengono immediatamente questi intelligibili al lume della mente agente, e noi diremo all' oggetto. E veramente gl' immediati, [...OMISSIS...] , s' intendono immediatamente dall' intendimento (2), ed anzi l' intelligibile si fa col tocco e coll' atto dell' intendere, [...OMISSIS...] (3), onde l' intelligibile non esiste prima di quest' atto nè nel fantasma nè altrove, perchè l' esistere in potenza non è ancora esistere. Questi primi intelligibili sono chiamati da Aristotele principŒ, «archai» o principŒ della dimostrazione, «archai apodeixeos», ed essi sono indimostrabili, appunto perchè veduti immediatamente dall' anima intellettiva. Ma qual è il primo di questi intelligibili, secondo Aristotele? La stessa mente. [...OMISSIS...] . Conviene dunque che la mente sia qualche cosa di oggettivo e di per sè conosciuto, acciocchè sia il primo principio della scienza e della dimostrazione, quello che fa conoscere l' altre cose (5). Pure questa stessa mente acquista d' improvviso nelle mani d' Aristotele un' esistenza subiettiva, da per tutto dove la fa operante. E congiunge egli espressamente questi due modi di esistere da per tutto dove dice che « è il medesimo la mente e l' inteso » [...OMISSIS...] (1). Poichè è l' atto stesso della mente, che fa gl' intelligibili in atto, e questi li ha la mente, onde dice, che la mente « opera avendo » [...OMISSIS...] (2): gl' intelligibili dunque non sono fuori della mente, ma la mente li fa in se stessa, li fa in atto, avendoli in potenza: e quest' intelligibili, quando così sono fatti in atto, sono la mente stessa in atto, appunto perchè sono atti della mente. Quindi la doppia mente che Aristotele pone nell' uomo, in potenza, prima di fare gl' intelligibili, e in atto. Ma quella mente che fa gl' intelligibili, è essa stessa per natura sua in atto, altrimenti ci vorrebbe un' altra causa che la riducesse all' atto, onde di essa dice Aristotele, che « « questa mente è separabile, e immista, e impassiva, ed essente per sua essenza in atto » » (3), ond' anco asserisce, che di essa non si può già dire, che « « ora intenda, ora non intenda » » (4). Se dunque « « l' intelligibile è l' atto della mente » », e c' è nell' uomo una mente, che è atto per sua propria natura, consegue, che questa mente sia un intelligibile ella stessa, e però, che Aristotele ammetta innato nell' uomo un primo intelligibile , che chiama Mente, e questo primo intelligibile sia lume e principio della dimostrazione e della scienza, e non sia scienza, ma anteriore e più vero [...OMISSIS...] della scienza (5), e sia principio de' principŒ, e specie delle specie, e privo d' ogni corpo e d' ogni fantasma. Lo stesso si deduce anche dall' altro principio aristotelico, che « « ciò che è immateriale è per se stesso intelligente ed intelligibile » » (6). Ora la mente agente è tale: dunque ella stessa è il primo degli intelligibili, da cui tutti gli altri. Cercando quale sia il primo degli intelligibili per l' uomo, noi abbiamo trovato che è « l' essere possibile » al quale possiamo con verità applicare quello, che Aristotele dice della sua mente, insegnando che sia separabile solo «tuth' hoper esti» (7) « ciò che è », e quell' altre parole pure dello stesso filosofo: [...OMISSIS...] , perchè quello stesso intelligibile che in sè è in atto, in potenza è tutti gli altri intelligibili, il possibile assoluto indeterminato, l' essere. Risulta la medesima conclusione da un' altra dottrina di Aristotele, secondo la quale trova la mente in atto, ossia il primo intelligibile, tanto necessario per ispiegare la natura delle cose mondiali, da dichiararlo per sè sostanza , [...OMISSIS...] : onde ammette che possa sussistere per sè separato dalle cose corporee. Perciò dice che questa mente sia nell' uomo parte dell' anima, ma separabile, e la dimostra separabile perchè essa non « « è atto d' alcun corpo » » [...OMISSIS...] (2), come sono le altre parti, che colla mente formano nell' uomo un' anima sola: e perchè l' esperienza dimostra che l' anima non invecchia col corpo, benchè possa essere impedita da certi suoi atti per l' infermità del corpo (3). Dice dunque, che la mente è da sè sostanza, [...OMISSIS...] (1). Questa importantissima conclusione procede dal principio costantemente insegnato da Aristotele, cioè che, sebbene in uno, cioè in un qualche individuo della natura, possa precedere la potenza all' atto, come esserci, a ragion d' esempio, il seme prima del frutto, tuttavia non può esser così nella università delle cose, e il seme precedente a quel frutto, che di sè germina, deve essere stato preceduto dall' individuo perfetto che ebbe in sè o produsse il seme; e ciò: 1) perchè la potenza sola non esiste, è un concetto della mente; se esiste, è solo per essere unita a qualche atto; 2) la potenza non opera; che se operasse, sarebbe in atto; e però ha bisogno di qualche agente in atto, che la ecciti e la sviluppi facendola passare all' atto. L' atto dunque deve precedere in ogni ordine di cose, tanto nelle cose fisiche, quanto nelle intellettuali: altrimenti non si potrebbero spiegare gli atti , che sono nell' universo, il quale ridotto a pura potenza sarebbe annullato (2). Anche alla potenza dunque di conoscere dee precedere un atto primo di conoscere, e però ammette anche nell' anima umana una mente in atto e dice: [...OMISSIS...] . Riconosce dunque la necessità di dare all' anima intelligente, acciocchè sia tale, un atto d' intendere anteriore alla potenza di conoscere, un atto che non è nel tempo, che non cessa mai, onde di esso non si può dire che ora intenda e ora non intenda, una scienza in atto, la quale sia il medesimo coll' intelligibile, ossia colla cosa intesa, [...OMISSIS...] (4). Colloca dunque nell' anima un intelligibile indeterminato, e come genere, attualmente e continuamente contemplato, uno e continuo (5), che dice esser lo stesso dell' atto essenziale della mente, col quale questa mente riduce poi in atto tutti gl' intelligibili determinati, onde altrove usa le parole «to noein» e «to theorein», per la stessa mente, «nus» (6). Convien dunque osservare quale sia tutt' intera la dottrina aristotelica. Quest' è fondata sulla distinzione delle tre essenze elementari, materia, specie e composto . La materia è un concetto della mente, non può stare da sè, non è qualche cosa di determinato; [...OMISSIS...] . La specie o forma può stare da sè, perchè è già qualche cosa di determinato, [...OMISSIS...] (1). E similmente il composto di materia e di forma può stare da sè. La specie dunque ha due modi d' esistere, da sè, e unita colla materia. La specie unita colla materia e formante il composto dà alla materia un atto delle operazioni, che non aveva da sè. Ora Aristotele dice che l' anima è specie, e però pone che possa tanto stare da sè, quanto unita alla materia (2), e quando sta da sè, le vengono meno quelle operazioni che a farsi hanno bisogno della materia (3), come d' istrumento, e non solo come d' istrumento ma anche come di potenza e di subietto. Aristotele accorda quest' esistenza dell' anima fuori della materia non solo all' anima intellettiva, ma ben anco all' anima sensitiva, poichè dice che per vecchiezza il principio sensitivo non perisce, ma solo l' istrumento; onde se al vecchio si desse un occhio vigoroso e giovanile, vedrebbe come il giovane (4). Pure più frequentemente insiste sulla separabilità della mente, e pare che ponga questa sola separabile; ma probabilmente intende comprendere in essa il principio sensitivo, considerandolo come un principio o rudimento della facoltà di conoscere; onde per indizio, che gli uomini per natura amino di conoscere, allega l' amore, che hanno, delle sensazioni (5). E poichè l' anima separata non cade sotto la nostra esperienza, si fa a considerarla nel composto, poi passa ad argomentare dalla sua natura ciò che può essere separata. Nel composto considera tutte le operazioni, e dice che l' anima è quella che le contiene tutte ed unifica e però non ha parti (6). Secondo questo principio, l' anima che contiene il corpo e tutte le operazioni del composto dovrebbe essere il subietto ; ma in questo non è coerente, e fa che l' anima tenga qualche cosa del materiale, perchè avendo detto che il corpo è la materia del composto e l' anima la forma, e la materia essendo per lui potenza, e l' anima di conseguenza atto, fece il corpo vivente subietto di quest' atto, chiamandolo sostanza, [...OMISSIS...] (1), onde vuole che « il corpo vivente (il composto, l' uomo considerato dalla parte del corpo), sia quello, che senta la compassione e impari e raziocini [...OMISSIS...] per mezzo dell' anima (2); e pure, come vedemmo, l' intendere [...OMISSIS...] l' attribuisce all' anima sola, senz' uso di corpo, e in mille luoghi parla delle diverse funzioni ed operazioni dell' anima, onde gli è forza di considerare l' anima come subietto paziente ed operante, e non come mezzo delle operazioni. E del pari in tutti quei luoghi dove dice, che il corpo e le sue parti sono istrumenti dell' anima, anche dell' anima sensitiva, riconosce questa per subietto, che adopera quegl' istrumenti, e la considera anche come potenza de' suoi atti (3). Come dunque il corpo per natura vivente sarà il subietto e non l' anima? A questa sentenza fu tratto Aristotele da' suoi principŒ dialettici, come si vede dalla ragione che dà per provare che il corpo vivente è il subietto; [...OMISSIS...] . Avea già detto nelle « Categorie » che gl' individui singolari non si predicano del subietto, ma sono sostanze prime, delle quali si predicano le specie come del loro subietto (5). Avendo dunque detto che l' anima rispetto al corpo è specie , e le specie si predicano del subietto, e non viceversa, fece che il corpo di cui si predica la specie dell' anima sia il subietto di questa, e questa la qualità essenziale e specifica di quello (6). Onde si vede che Aristotele confuse il subietto dialettico col subietto reale . Certo si può prendere il corpo vivente pel subietto dialettico, come quando si dice - e lo dice spesso Aristotele - che l' anima è nel corpo; ma il subietto reale è l' anima, e però si dice (quello che pur dice Aristotele), che il corpo è nell' anima come nel suo contenente ed unificante. Questo subietto dunque reale, l' anima, rimane, anche disciolto il corpo, ed uscita da esso, come s' esprime lo stesso Aristotele (7), ma senza quelle operazioni, che essa fa pel corpo. L' intendere poi [...OMISSIS...] non ha bisogno d' organo corporale, onde dice che la mente pare un altro genere d' anima (1), ed è non lontano dal considerarla un atto del corpo, come si può considerare il pilota un atto della nave. [...OMISSIS...] . Quest' anima dunque, secondo Aristotele, è una sostanza dell' ordine delle specie , che quantunque si può predicare del corpo vivente, come si predicano l' altre specie delle sostanze prime ossia composte (3), tuttavia è determinata, e da se stessa è atto sussistente, e così separata dalla materia è ad un tempo l' intelligente e la cosa intesa, ossia il primo intelligibile, materia e subietto di tutti gli altri intelligibili o specie più o meno determinate che sono suoi atti secondi. A questi atti secondi o specie intelligibili determinate, la mente ossia l' anima intellettiva non esce, se non quando è unita al corpo, perchè tali specie intelligibili le vede nelle specie sensibili, e le specie sensibili non sono divise dalle cose sensibili e reali, cioè dai corpi (4). E questo è il punto di divergenza d' Aristotele da Platone, poichè questi ammetteva tali specie o idee determinate come esistenti da sè fuori de' sensibili e de' reali, e Aristotele lo nega. Ma nello stesso tempo ammette una specie prima pura da ogni materia e da ogni elemento sensibile, che è in potenza tutte quelle specie determinate, e questa è quella che chiama mente, «nus». Stabilito questo, Aristotele ascende a questioni maggiori. Poichè domanda a se stesso, se, essendo la mente cosa che può stare da sè, abbia essa nel suo essere proprio e separato dalla materia, preceduto, almeno nell' ordine logico, la materia stessa e il composto. E quest' appunto sostiene: [...OMISSIS...] (1), dove allude alla dottrina di Anassagora, di cui accenna nel XII dei Metafisici (2). Nel qual libro questa stessa questione è trattata più pienamente. Quivi prende a dimostrare che ci deve essere « «una qualche sostanza eterna ed immobile », [...OMISSIS...] ». Egli muove la sua dimostrazione dalla necessità di spiegare il fatto della generazione e della corruzione delle cose, che suppone sempre stata e quindi sempre stato il moto. Ora dice, che a questo moto continuo conviene assegnare una causa, e questa in atto , poichè in potenza, ancorchè fosse eterna, non produrrebbe il moto continuo (3). Questo motore dunque deve essere un principio, la cui essenza sia atto; [...OMISSIS...] , e, sia uno o più, dee essere scevro da materia [...OMISSIS...] . Ora è qui da risovvenirsi che, secondo Aristotele, ogni sostanza che sia pura da materia, è per sè un intelligibile e un intelligente, ed è pura specie. Ammette dunque Aristotele delle specie eterne, che sono sostanze senza materia, e menti in atto, e sono eterne appunto perchè sono in atto per loro propria essenza, [...OMISSIS...] . Dice in appresso che quest' immobile sostanza è « separata da' sensibili »e che è « priva d' ogni grandezza »senza parti e indivisibile (4). Queste dunque non sono di quelle specie che sono vedute dall' uomo ne' sensibili. Trova dunque necessario di ammettere delle specie, come sostanze eterne, intelligibili, senza materia, separate al tutto dalle cose sensibili, per ispiegare, come per una prima causa, i movimenti mondiali e la generazione e corruzione delle cose. Perchè si concepiscono certe cose mosse e non moventi, altre mosse e moventi, altre finalmente moventi immobili, essenzialmente in atto: e queste sole possono essere prime cause. [...OMISSIS...] . Ora prosegue Aristotele a osservare, che non c' è nulla che possa movere restando egli stesso immoto, se non l' appetibile [...OMISSIS...] e l' intelligibile [...OMISSIS...] . Ora i primi appetibili e i primi intelligibili s' immedesimano (1). In fatti il primo volibile è il vero bello (2), il quale è ad un tempo intelligibile e appetibile. Ma osserva, che è anteriore la ragione d' intelligibile a quella di appetibile, perchè si appetisce una cosa per la ragione che sembra tale, e non sembra tale per la ragione, che la si appetisce: laonde il principio dell' appetizione volitiva è l' intellezione (3). Ma come la mente esce all' atto dell' intellezione? Risponde che è mossa dall' intelligibile ; [...OMISSIS...] . Dal che consegue che l' intelligibile come quello che move la mente, logicamente è anteriore alla mente in potenza, e anteriore altresì all' intellezione, che è la mente condotta al suo atto. Laonde l' intelligibile è anteriore a tutto e forma una serie per sè: tra gl' intelligibili poi la prima è la sostanza che logicamente precede agli accidenti, e tra le sostanze quella, che semplicemente è, cioè quella che è in atto; perchè se fosse in potenza non sarebbe ancora, e non potrebbe dirsi semplicemente che fosse. Il primo dunque tra tutte le cose è « « un intelligibile puro, sostanza in atto » ». Ma tale non potrebbe essere, secondo Aristotele, se non fosse egli stesso, quest' intelligibile, per sè intellezione e così atto o mente intelligente. C' è dunque una mente che è essenzialmente intelligibile e intellezione e intelligente nel tempo stesso, poichè l' intelligibile è per Aristotele l' estremità dell' atto della mente. Riconosce dunque Aristotele la necessità che preceda un intelligibile per sè a tutto, il quale abbia non solo un' esistenza obiettiva, ma anche subiettiva, e sia una mente in atto che si continui quasi numero trino, [...OMISSIS...] (5), nei tre stadŒ di mente, intellezione, intelligibile, [...OMISSIS...] e sia una sola sostanza eterna e divina, onde conchiude, [...OMISSIS...] , « poichè questo è Dio »(1): questo, dico, lo riconosce necessario per ispiegare non meno l' origine della mente umana, che la generazione e il movimento delle cose naturali. Ma come egli applichi quest' intelligibile eterno a spiegare tutto ciò, è difficile a dire, perchè ne tocca con brevità, oscurità e dubbiezza qua e colà ne' varŒ libri che ci rimangono. Cominciamo dalla mente umana. Nel secondo « Della generazione degli Animali » (2) propone la doppia questione se nel seme [...OMISSIS...] , e nel concepito [...OMISSIS...] ci sia l' anima, e onde venga [...OMISSIS...] ; e prima dice che c' è un' anima vegetale [...OMISSIS...] , che poi ne emette una sensitiva [...OMISSIS...] , per la quale il concepito diventa animale (3), finalmente una razionale, per la quale diventa uomo (4). Di queste tre anime ossia gradi di perfezione dell' anima il rudimento è nella vita de' generanti ossia nel loro seme, onde così ne descrive lo sviluppo. [...OMISSIS...] . E qui passa alla seconda questione, se queste tre anime vengano dal di dentro cioè dalla virtù seminale, che è nel corpo, o dal di fuori s' aggiungano al feto. [...OMISSIS...] . Dopo aver detto che le tre anime così sono insite nel corpo seminale e si sviluppano l' una dall' altra, da queste tre anime separa la mente e conchiude così: [...OMISSIS...] . Qui distingue dunque la mente, «nus», dall' anima, dico anche dall' anima intellettiva, «noetikes», in virtù della quale l' animale si fa uomo. Pare dunque evidente che qui Aristotele prenda la mente sotto l' aspetto d' intelligibile , ossia com' oggetto primo dell' anima intellettiva, e in fatti anche le parole che seguono dimostrano la mente distinta dall' anima stessa. [...OMISSIS...] . Dice dunque che la sola mente è divina e viene dal di fuori, cioè da Dio, che è, come vedemmo, l' intelligibile, pura forma, senza nulla di corporeo e di sensibile. Tuttavia il corpo animato avendo in sè il principio dell' anima trina, cioè vegetale, sensitiva, e intellettiva [...OMISSIS...] , alla qual ultima avviene dal di fuori la divina mente, partecipa anch' egli del divino, e però lo chiama « « più divino degli elementi » » [...OMISSIS...] . Ma come la mente s' aggiunge venendo dal di fuori, così anche si separa dal corpo; [...OMISSIS...] , sebbene egli pare che in questo luogo oscuro si separi piuttosto dal corpo crasso un corpo sottile, unita al quale sia la mente partecipata da Dio. Di qui nasce un' altra questione: Che cosa fa dunque questa mente divina al tutto separata dalla materia, ma che avviene all' uomo, cioè all' anima intellettiva, e che pure nell' uomo stesso non fa uso d' alcun organo corporale? Anche su questa questione un gran buio. Pure se attentamente si considerano e si pesano i diversi luoghi paralleli, parmi che ne risultino due cose: 1 Che la mente informa l' anima umana e la rende intellettiva e così capace d' intendere i sensibili e tutto ciò che da questi si trae per astrazione; 2 che essa mente somministra da sè i primi intelligibili, [...OMISSIS...] , in occasione delle sensazioni, i quali primi intelligibili nè sono fantasmi, nè s' intuiscono ne' fantasmi, nè vengono in alcun modo dal senso, ma dalla mente pura. Che questo sia il pensiero d' Aristotele, apparirà chiaro quando si osservi attentamente la differenza ch' egli pone tra la scienza, «episteme», semplicemente, e la mente , «nus», che è la scienza o cognizione de' principŒ «ton archon episteme». La scienza semplicemente detta , secondo Aristotele, si trae dalle sensazioni, non così la scienza de' principŒ ossia la mente , «nus», poichè egli così la chiama, «nus an eie ton archon» (1); questa viene da Dio, ossia dalla mente separata e pura. Per non essersi distinte queste due maniere di cognizioni, fu erroneamente creduto che Aristotele riducesse l' origine d' ogni sapere umano, come a suo principio, alle sole sensazioni. Ma niente di più falso, come già apparisce anche dal detto di sopra. S' esamini attentamente il luogo classico, che è l' ultimo capo de' « Posteriori », dove cerca l' origine dei principŒ. Per venire a questi, prima di tutto descrive la formazione della scienza semplicemente detta . La formazione di questa percorre i seguenti gradi: la sensazione , la memoria , l' esperienza , il principio dell' arte e della scienza , «technes arche kai epistemes», dell' arte se riguarda la generazione o l' operazione, della scienza se l' ente; [...OMISSIS...] . Fin qui ha descritto la formazione della scienza propriamente detta, e di questa conchiude che [...OMISSIS...] . Ma la formazione della scienza suppone avanti di sè un' altra specie di cognizione, che non è scienza, o abito di scienza, ma è ciò da cui viene la stessa scienza, e questa cognizione anteriore sono i supremi principŒ ossia la mente. [...OMISSIS...] . Descrisse dunque prima come successivamente si formi la scienza nell' uomo, ma perciò appunto non descrisse, come si sieno formati i principŒ, poichè questi non appartengono alla scienza. E veramente la scienza che descrisse, è quella che si fa per via di discorso, come egli stesso dichiara, [...OMISSIS...] , e gli abiti determinati, menzionati più sopra, qui li chiama abiti riguardanti la cognizione raziocinativa, [...OMISSIS...] . Il principio dunque della dimostrazione è fuori della dimostrazione come il principio della scienza non può esser la scienza, [...OMISSIS...] . E che la scienza, di cui aveva parlato, fosse raziocinativa e dimostrativa, l' avea mostrato anche dicendo che si conoscevano i primi per analogia, che è una specie di ragionamento come vedemmo; [...OMISSIS...] . Sopra la scienza dunque colloca Aristotele un genere più splendido, e questo è il complesso degli ultimi principŒ, cioè la mente stessa, [...OMISSIS...] . Colloca adunque nell' uomo un abito, non un abito determinato, un abito di scienza, ma un abito anteriore e più vero della scienza, principio della scienza, anzi principio del principio, [...OMISSIS...] . E lo chiama « « principio del principio » » per distinguerlo da quello, che prima avea chiamato «technes arche kai epistemes», con che intendeva l' universale, e da quello che avea chiamato «ta prota», cioè i più estesi universali ossia le categorie (1). Sopra tutti questi sono gli ultimi principŒ della dimostrazione, il principio del principio della scienza, la mente. Questa mente è la mente in atto, che nel terzo dell' anima chiamò abito e lume, [...OMISSIS...] e che disse esser quella, che trae al suo atto la mente potenziale, quella perciò che rende l' anima umana atta a trarre dalle sensazioni nel modo detto la scienza; poichè non ogni anima è atta a ciò, ma quella che è tale, cioè a cui è venuta dal di fuori questa mente divina, [...OMISSIS...] . Ora questi primi principŒ proprŒ della Mente, Aristotele li chiama immediati [...OMISSIS...] , e l' uomo non può saper nulla per via di dimostrazione, a cui appartiene la scienza, se non conosce prima que' principŒ (2), onde li chiama più noti della scienza, [...OMISSIS...] ; questi dunque precedono nella mente umana la scienza. Ma Aristotele qui si trova in una somma perplessità. Da una parte egli riconosce che niuna scienza ci può essere, se l' uomo non conosce avanti que' principŒ; onde dice: [...OMISSIS...] . Dall' altra, trova pure assurdo, che ci sieno in noi gli abiti della scienza, senza che noi n' avessimo coscienza [...OMISSIS...] . La risposta a queste difficoltà consiste nella distinzione tra due generi di cognizioni, la cognizione dimostrativa, e la cognizione de' principŒ, il qual ultimo genere avviene, che talora sia nell' uomo, e l' uomo nol sappia (1), e da esso si fa il secondo, cioè quello della scienza. Laonde la scienza suppone la cognizione de' principŒ, ma una cognizione latente fino che non c' è l' oggetto d' applicarla. Sia a ragion d' esempio quest' oggetto il triangolo. Il concetto generale di triangolo si forma per l' induzione aristotelica che abbiamo descritta. Conosciuto il triangolo si rileva che i suoi tre angoli sono uguali a due retti, mediante un sillogismo che parte dal principio di contraddizione . Questo principio, [...OMISSIS...] , dice Aristotele, deve assumersi come noto. Dee ancora preconoscersi il triangolo prima di venire alla dimostrazione; e se s' impara dal maestro, sapersi che questo appunto indica la parola « triangolo ». Due cose si devono dunque preconoscere prima di dedurre che gli angoli del triangolo sono uguali a due retti, [...OMISSIS...] . Preconosciute queste due cose, si conosce anche la conseguenza che se ne trae. Domanda dunque Aristotele: [...OMISSIS...] . E così scioglie il dubbio, che Platone proponeva nel dialogo intitolato il Menone «( Ideol. 222 segg.) ». Distingue dunque Aristotele l' universale individuo dai primi principŒ del ragionamento, e vuole che quello si formi per via d' induzione dal senso, questi vengano immediatamente dalla mente di sua essenza in atto, e, da latenti forse che stanno nell' anima, si manifestino in occasione di sillogizzare mediante l' universale conosciuto per la detta induzione. L' universale individuo [...OMISSIS...] è di quelli che si dicono senza congiunzione, [...OMISSIS...] , i principŒ sono di quelli che si dicono con congiunzione, [...OMISSIS...] , cioè s' esprimono in un giudizio o proposizione; tale è il principio di contraddizione: « che d' ogni cosa è vera l' affermazione o la negazione ». I primi non hanno nè vero nè falso in se stessi, perchè nulla affermano o negano: ai secondi appartiene la verità e la falsità. Ora la verità appunto delle proposizioni è ciò che Aristotele riconosce superiore alla sensazione e immune affatto da queste, e rimette totalmente alla mente in atto. [...OMISSIS...] . Dal che deduce che se il vero e il falso è la congiunzione degl' intelligibili ossia de' concetti, dunque non sono i singoli concetti, e però molto meno i fantasmi. [...OMISSIS...] . Ora l' aver posto Aristotele che l' oggetto della Mente in atto sia la verità , non discorda nè pure in questo da noi, che abbiamo detto il primo oggetto della mente essere appunto la verità «( Ideol. ) ». Ma resta a vedere più accuratamente che cosa sia questa verità che non viene da' sensi, ma è dalla mente immediatamente conosciuta. Cercando dunque Aristotele qual sia il fondamento della verità de' giudizi e delle proposizioni, trova che tutte dipendono in ultimo da due principŒ o prime proposizioni per sè evidenti ed indimostrabili: 1 il principio di contraddizione ; 2 e un principio che egli non denomina nè chiama principio, ma che noi per maggior chiarezza, parendoci che così si determini meglio il suo pensiero, chiameremo principio d' affermazione assoluta . A questi principŒ Aristotele suppone questo fondamento: [...OMISSIS...] , perchè niente è o si fa con incertezza o a caso, ma tutto l' essere è determinato (4). Ora consideriamo a parte i due principŒ. Il principio di contraddizione è questo: « D' ogni cosa è necessario che sia vera o l' affermazione o la negazione ». Su questo principio osserva Aristotele, che non è già necessario che sieno veri i due estremi dell' alternativa presi in separato, ma o l' uno o l' altro, e il principio non determina punto quale: [...OMISSIS...] . Laonde non determinando questo principio quale de' due estremi sia vero, ma solo, che l' uno o l' altro è vero; non basta per conoscere la verità, ma dee esser soccorso da qualche altro, che togliendo l' alternativa, mostri quale sia de' due il vero: dal che poi s' inferisce l' altro, falso. Questo secondo principio è quello, che noi abbiamo chiamato di affermazione assoluta e che da Aristotele viene solamente indicato. Poichè dice che l' alternativa che si ha nel principio di contraddizione, c' è solo ne' contingenti cioè in quelle entità che non sono sempre in atto, [...OMISSIS...] . C' è dunque un altro principio per le cose necessarie, che dice: [...OMISSIS...] . E come il principio di contraddizione ha per fondamento la natura dell' entità in astratto, senza che si consideri ancora se l' entità sia contingente o necessaria: così il secondo principio nasce quando s' è conosciuto che ci hanno degli enti contingenti e degli enti necessari, pei primi de' quali rimane valevole lo stesso principio di contraddizione che pone l' alternativa, per gli altri poi è già tolta l' alternativa, e al principio di contraddizione sostituita l' affermazione assoluta (4). Da questo si vede, che, secondo Aristotele, il vero è nei giudizŒ ed è lo stesso ente affermato (1) detto da lui, « « ente nel senso più eccellente e proprio », [...OMISSIS...] ». Poichè ciò, che non è affermato, cioè gli enti che si dicono senza composizione, come sono le specie, che si riducono alle categorie - si concepiscano queste in atto o in potenza - non sono da Aristotele considerati come enti completi, chè, concepiti in tal modo, e non affermati, non è ancor detto che sieno o non sieno, e restano solo possibili, per la mente, ma l' ente affermato è completo (se l' affermazione è vera) cioè è l' ente che veramente è (2). Distingue dunque le cose che ammettono composizione dalle cose semplici, come sono le specie. Nelle prime dice, che « « l' essere è il comporsi e l' esser uno, il non essere è il non comporsi e l' esser più » » (3). Questo comporsi e non comporsi è tolto dalla forma del giudizio, che è l' unione che fa la mente del predicato col subietto: e vuol dire, che se il predicato nel fatto si compone col subietto, la cosa è così come s' afferma, e questo la chiama essere , [...OMISSIS...] : se poi il predicato, che noi uniamo al subietto, nella cosa non si unisce e compone, essa non è qual s' afferma, e questo lo chiama non essere [...OMISSIS...] . Dunque, se la cosa è come s' afferma, c' è il vero, se non è, non c' è il vero. Il vero dunque è l' essere affermato. Ma dove non c' è composizione di subietto e di predicato come nelle specie?... Domanda dunque in queste cose incomposte « « che cosa sia l' essere e il non essere, e il vero e il falso »; [...OMISSIS...] ». E risponde che « « il vero è il toccare, ed esprimere colla voce », [...OMISSIS...] », cioè il toccarle colla mente, l' intuirle e il significarle colla voce, distinguendo il mandare una voce, dire un vocabolo «fasis», dall' affermare, pronunciare una proposizione, «katafasis». Ora osserva che circa gl' incomposti, «asyntheta», l' intuirli, o come dice, il toccarli colla mente è il vero, ma il contrario di questo vero non è propriamente il falso, ma semplicemente l' ignoranza, chè l' ignorare è non toccare, [...OMISSIS...] . Il che dice in molt' altri luoghi. Ed è molto da considerarsi questa sentenza d' Aristotele. Poichè se le essenze incomposte, le quali sono certamente le specie, che altrove chiama seconde essenze, [...OMISSIS...] , o se non queste sole, anche queste però, non si generano, nè si corrompono, e la mente umana non le produce già, ma le tocca o non le tocca, le intuisce o non le intuisce, e se queste sono sempre e sempre in atto, [...OMISSIS...] , e perciò eterne, e se queste nelle cose corruttibili e sensibili non sono sempre, perchè queste si cangiano e perdono i loro atti, e ne prendono altri, che rispondono ad altre specie: conviene certamente dire che Aristotele ritiene molto di ciò che ebbe appreso alla scuola del suo maestro. E come s' ha da intendere dunque quello che altrove dice che le specie intelligibili s' intuiscono dall' anima nelle specie sensibili? Non può essere in alcun altro modo, se non così; che le specie sensibili sieno l' occasione e quasi il luogo, dove la mente umana vede le specie eterne, sebbene queste sieno immuni da ogni corruttibile e sensibile elemento. Ma Aristotele vede un' altra verità maggiore. Poichè si presentò alla sua mente la questione, « perchè le essenze o specie semplici ed incomposte sieno sempre in atto, e non si generino nè corrompano, ma, o si tocchino dalla mente, o non si tocchino ». E rispondendo a se stesso s' accorge, che questo avviene necessariamente per la natura dell' ente , che è la specie o essenza prima e indeterminatissima, a cui tutte le altre si riducono: onde ne dà appunto questa ragione che [...OMISSIS...] . E in tutto questo troviamo che Aristotele è con noi, o a noi sommamente s' avvicina. Poichè: 1 Riconosce, che la verità è l' essere , o affermato , o toccato, intuito dall' anima intellettiva (2); 2 Che le essenze e specie, essendo incorruttibili ed eterne, sono o toccate o non toccate dalla mente, e però si dà ignoranza, ma non inganno circa di esse; 3 Che queste essenze o specie si riducono all' essere stesso [...OMISSIS...] , dal quale ricevono l' ingenerabilità e l' incorruttibilità e quindi l' altre loro doti. Altrove suddivide il falso delle cose, che ammettono composizione, e dei giudizŒ, in due specie; la prima quando le cose non si compongono, cioè il predicato non si affà al subietto, o anche è impossibile che si compongano, e queste cose, dice, non sono enti, [...OMISSIS...] : la seconda, quando le cose, gli enti, qualunque sieno, [...OMISSIS...] , sono atti per natura ad apparire quali non sono o quelli che non sono, come l' ombre ed i sogni. Queste cose sono un chè, ma non ciò di cui producono la fantasia, [...OMISSIS...] . Quest' acuta sentenza, che ogni ragione è falsa d' altro che non di ciò, di cui è vera, suppone che la ragione resti, e diventi vera o falsa, secondo che l' uomo l' applica all' ente a cui appartiene o a un altro, e in quanto resta ella è vera del secondo genere di verità, cioè degl' incomposti. Questa ragione poi, che è sempre vera in sè, ma di cui l' applicazione può essere falsa o vera, è il principio, come già vedemmo «( Ideol. 10.3 segg.) », che atterra lo scetticismo critico. L' essere dunque, secondo Aristotele stesso, è la verità, e rivestendo la sua dottrina del nostro linguaggio, l' essere presentandocisi in due modi, come reale e come ideale, due sono i generi della verità, il primo de' composti, il secondo de' semplici: al primo corrisponde il giudizio che unisce, e però il vero qui è «to sygkeisthai kai hen einai», al secondo corrisponde l' intuizione, e però qui il vero rispetto alla mente, è «to thigein» (2). Nè fa meraviglia, che si dia da Aristotele la verità egualmente alle cose e alla mente, perchè egli parte dal principio, che la mente dopo che ha intese le cose è divenuta le stesse cose e che [...OMISSIS...] . La mente in atto dunque, venuta dal di fuori all' uomo, somministra i primi principŒ all' atto di giudicare della verità e di raziocinare, che non è altro che un conoscere l' essere nelle cose. Quindi questa mente venuta dal di fuori è quella che rende intellettiva l' anima che la riceve, ossia che dà all' anima « « la mente in potenza » » cioè a dire una facoltà atta a raziocinare, che da Aristotele è anche chiamata « « mente dell' anima », [...OMISSIS...] », ed è definita « « quella con cui l' anima raziocina e percepisce », [...OMISSIS...] » (2). Ora come non si può raziocinare senza che anteriormente l' anima intuisca i principŒ, così questa mente dell' anima o facoltà di ragionare dee essere preceduta nell' uomo da un' altra mente in atto, ch' egli chiama [...OMISSIS...] . Solamente è da notare che Aristotele non intese bastevolmente l' intima connessione ed identificazione tra l' universale ed i principŒ , i quali, come noi abbiamo mostrato, non sono altro che lo stesso universale applicato a giudicare del meno universale «( Ideol. 559 7 566) »: onde ogni universale nella sua applicazione a' giudizŒ, che da lui, come da regola si fanno, è un principio del ragionamento, principio più o meno esteso, a quello stesso modo che è più o meno esteso l' universale. Se questo avesse veduto chiaramente Aristotele, non avrebbe divisa la cognizione dell' universale dalla cognizione de' principŒ: ma si sarebbe accorto che quella e questa dipendono dallo stesso atto d' intuizione dell' essere, benchè quella, posteriore a questa, abbia bisogno a formarsi d' altre facoltà, che chiameremo, complessivamente, facoltà d' applicazione e di deduzione. Non pare dunque, che Aristotele abbia colto la natura comune degli universali, ma solo vide, che gli ultimi e più estesi universali, [...OMISSIS...] , non poteano aver nulla di comune coi fantasmi. E questo lo argomentò dal considerare « i giudizi intorno alle verità delle cose », i quali, mettendo a confronto le specie per giudicarle, non poteano essere le specie stesse, e doveano avere altresì per regola de' principŒ evidenti e precogniti: onde disse, che [...OMISSIS...] . E dimostra ciascuna di queste qualità che devono avere i principŒ della dimostrazione; tra le quali quella di essere più noti e precogniti, [...OMISSIS...] . Dalle quali ultime parole si vede, che conobbe certo Aristotele, che i primi e sommi universali erano il medesimo che i primi e sommi principŒ; ma non molto s' accorse che di qualunque universale, fosse anche il minimo, si può dire il simile, cioè che è atto ad essere usato in giudicare, e in dimostrare, come un principio. La distinzione poi che fa tra le cose anteriori e più note assolutamente e semplicemente, e anteriori e più note relativamente a noi, acciocchè abbia un senso, dee intendersi relativamente alla nostra consapevolezza, poichè, come ha detto altrove, « « avviene, che le notizie più chiare » [...OMISSIS...] «nella stessa dimostrazione stieno celate » » nell' uomo (1), cioè l' uomo le abbia senz' accorgersene. Onde chiama cose anteriori e più note a noi quelle che sono tali in ordine alla riflessione nostra, benchè i sommi universali devano essere anche a noi stessi noti precedentemente, e più noti d' ogni altra cosa, se da essi dobbiamo dedurre la cognizione di tutte l' altre cose, come Aristotele stesso segue a mostrare: poichè dice: [...OMISSIS...] . Insegna dunque chiaramente Aristotele, che a quello stesso uomo [...OMISSIS...] che è atto ad imparare per dimostrazione, devono precedentemente esser noti e più noti i principŒ e l' assurdità di ciò che a questi s' oppone, [...OMISSIS...] perchè così è rimossa da lui la possibilità dell' inganno; e però quando dice, che rispetto a noi è più noto ciò che s' approssima al senso, dee intendersi rispetto al nostro accorgerci, e al nostro sapere riflesso e consapevole. I sommi universali dunque, i primi intelligibili, i principŒ indimostrabili [...OMISSIS...] sono il medesimo per Aristotele, e questi sono noti all' uomo prima d' ogni sapere acquistato per dimostrazione: ora dopo aver dimostrata la necessità che queste notizie nella mente umana precedano, riassumendosi, le chiama tutte insieme « « principio della scienza » »; [...OMISSIS...] . Ora in appresso dice che questo principio della scienza è la mente, [...OMISSIS...] . Per mente dunque intende Aristotele il complesso de' primi intelligibili anteriori alla dimostrazione, indimostrabili, notissimi, tutto ciò in una parola che ci può essere d' anteriore alla dimostrazione, di cognizione evidente, [...OMISSIS...] onde dice, che la mente è dei principŒ, [...OMISSIS...] . Di nuovo dunque raccogliamo che la mente è presa in senso obbiettivo come i primi intelligibili (3). E di questi primi intelligibili, che sono essenze incomposte, dice Aristotele che sempre sono in atto, e non mai in potenza da cui passino all' atto: [...OMISSIS...] . Questi intelligibili sono dunque, secondo Aristotele, sempre in atto, davanti all' anima intellettiva, e costituiscono la mente che viene dal di fuori, il lume della ragione, [...OMISSIS...] . Ma se questa mente è una, come poi essi che la costituiscono, sono molti? Se si considera attentamente i diversi luoghi d' Aristotele, si trova ch' egli stesso riduce la moltiplicità de' principŒ ad un solo, che contiene in sè tutti gli altri. E veramente gli altri non sono che il primo principio, che riceve diverse espressioni secondo il diverso genere d' entità a cui si applica. E questo primo principio per Aristotele è quello di contraddizione. Del quale dice espressamente che per natura sua è « « il principio di tutti gli altri assiomi », [...OMISSIS...] . Se dunque il principio di contraddizione è il principio di tutti gli altri assiomi, questi sono sue conseguenze, e però per lui, come per un primo lume, si conoscono: dice ancora, che [...OMISSIS...] . Sui quali luoghi notevolissimi conviene osservare: 1 Che se il principio di contraddizione è il principio degli assiomi, [...OMISSIS...] , e se la mente pure è il principii de' principŒ, [...OMISSIS...] , consegue, che il principio di contraddizione, che contiene nel suo seno tutti gli altri principŒ, sia lo stesso che la mente obiettiva ed in atto d' Aristotele, [...OMISSIS...] . Il principio di contraddizione è dunque, secondo Aristotele, la luce sempre in atto dell' anima intellettiva: vedremo in appresso a che cosa esso si riduca. 2 Il nostro filosofo insegna pure ne' luoghi citati chiaramente che non si può concepire un ente o una ragione qualunque degli enti senza già avere il principio di contraddizione, [...OMISSIS...] , e che chi si fa a conoscerla, deve venire a impararla, già avendo quel principio, [...OMISSIS...] . E dire esser necessario che si preconosca questo principio per concepire o imparare qualunque ente o ragione, nel linguaggio d' Aristotele risponde alla nostra percezione intellettiva o concezione degli enti: solamente egli nota in tale conoscere anche l' intuizione della necessaria certezza della cosa concepita, onde dice, che non si concepisce come ipotesi, [...OMISSIS...] , e anche noi ce la comprendiamo ma implicita e indistinta dalla percezione e concezione, distinguendosi poi solo in appresso per un atto di riflessione scientifica. 3 E qui si ha la chiara spiegazione di ciò che voleva dire il nostro filosofo in fine al secondo degli Analitici posteriori, dove descrivendo il modo col quale l' anima dalle sensazioni viene formandosi la scienza, dice che [...OMISSIS...] . La condizione dunque che dee avere quest' anima è che abbia precedentemente in sè in atto il principio di contraddizione ossia la mente che le viene dal di fuori: con questa mente ella può conoscere, percepire, ragionare, e però distingue l' anima intellettiva che è in potenza, dalla mente che è in atto, e colla quale l' anima intellettiva intende e ragiona tutto ciò che intende e che ragiona (3). Conviene ora osservare a conferma di tutto ciò, come sia lontanissimo da Aristotele il confondere ciò che dà il senso, con ciò che è l' oggetto dell' intelletto. Poichè quantunque dica che si vedono da noi le specie intelligibili nelle specie sensibili , e quantunque faccia venire la scienza nostra per via d' induzione , [...OMISSIS...] nel modo spiegato, e dica che il senso faccia l' universale, [...OMISSIS...] , tuttavia tiene sempre al tutto distinto il termine sensibile dall' intelligibile. E già vedemmo, che per senso non si dee intendere i sensi particolari ed esterni « ma una potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente »: onde questa potenza è generica e può variare di specie ne' diversi animali, nell' uomo poi questa potenza immediata è anche intellettiva, onde anche noi non ricusiamo di riconoscere nell' intuizione « un senso intellettivo »che tocca , per usare una parola Aristotelica, l' intelligibile. E che per senso Aristotele intenda in genere questa potenza interna dell' anima d' apprendere immediatamente, e non i soli cinque sensorŒ, vedesi anche dall' ammettere egli « « un senso comune » » [...OMISSIS...] (1), che non è niuno de' cinque. Oltre di che il sensibile per Aristotele non è che l' accidente degli enti (2), e anche questo si trova sì fattamente nell' anima, che fuori di questa non esiste più in atto; in potenza poi non è ancora esistere, e quindi al senso egli dà l' apparenza e non la verità, benchè dica, che di queste apparenze sensibili ciascun senso ha la sua e in essa non s' inganna (3). All' intelligenza sola poi riserva l' essere delle cose (4), le essenze , la verità, gli universali. Laonde censurando Democrito dice che [...OMISSIS...] . Dal qual luogo, come da molti altri si trae: 1 Che Aristotele assegna ai sensi l' apparente, [...OMISSIS...] : 2 che assegna alla mente l' essere , [...OMISSIS...] , la verità, [...OMISSIS...] : 3 e che dalla mente, che viene dal di fuori, vuole distinta l' anima, non solo come una parte di questa, qual sarebbe la mente subiettiva, ma come un' altra cosa, qual è la mente obiettiva (6). Ora per anima propriamente distinta dalla mente Aristotele intende « quel principio immateriale, che usa nelle sue operazioni per istrumento il corpo da esso animato ». E tra queste operazioni, [...OMISSIS...] del composto, enumera tra le principali e più evidenti [...OMISSIS...] , alle quali si devono aggiungere quei tre modi d' operare che, come vedemmo altrove, chiama compassionare, imparare, raziocinare, [...OMISSIS...] : poichè ogni discorso dell' anima intellettiva ha bisogno dell' aiuto de' fantasmi. Dice che quelle operazioni, che sono del composto, non sono tutte fatte dal senso, ma « « alcune dal senso, alcune altre col senso » » [...OMISSIS...] (4), onde il raziocinare si fa bensì col senso, ma non dal senso, e così, secondo Aristotele, insieme col senso opera la ragione, che non è il senso, ma che al senso s' unisce, e concorre a produrre un effetto congiunto in uno nell' anima, che per la sua unione è talora da Aristotele chiamato sensazione benchè abbia un elemento razionale ed intelligibile: il che io credo voglia dire in quelle parole che [...OMISSIS...] . Il termine dunque del senso corporeo è interamente diverso per Aristotele dall' oggetto della mente; ma questa ha due atti, il primo, «noein», è l' intuire, che si fa senz' organo corporale, e l' altro è «dianoeisthai», raziocinare, che non si fa dal senso, ma col senso, e che perciò abbisogna d' organo corporale (6). Non essendo dunque il puro sensibile il vero, ma l' apparente, se si confonde il sensibile col vero, si distrugge « « il principio di contraddizione » » e si cade nell' opinione di Protagora, che « « tutte le cose fossero ad un tempo vere e false, perchè or vere, or false appariscono » » (1). Aristotele confuta quest' opinione dimostrando che [...OMISSIS...] . Poichè il subietto del movimento e della mutazione deve essere uno e immoto, altramente, se tutto si movesse, non ci potrebbe essere movimento. E venendo al sensibile dice: [...OMISSIS...] . Il sensibile dunque è un relativo che domanda per condizione qualche altra cosa d' anteriore a sè, del tutto insensibile. Ora quest' altra cosa anteriore al sensibile è l' essere , e come il sensibile è il termine del senso, così l' essere è l' oggetto della mente in senso subiettivo, ed è la stessa mente in senso obiettivo. In quest' essere si trova quella costanza, che non si trova nel senso, onde come quelli che riposero la verità nel senso, la resero mutabile, ossia non verità, così quelli che la riconoscono nell' essere, la scorgono permanente. [...OMISSIS...] . Intende dunque sempre di asserire « « la natura degli enti » » quantunque parlasse dello stesso sensibile, perchè « « asserire qualche cosa del sensibile » » non è sentire, ma un' altra cosa diversa dal sentire, appartenente allo intendimento, che è quello che fa l' atto dell' asserire, e quest' altra cosa asserita è sempre « « la natura dell' essere » ». Ora per la costanza e immutabilità di questa natura procede che « « essere e non essere » » non istieno mai insieme, e però riman fermo il principio di contraddizione, la cui difesa fatta da Aristotele nel IV de' Metafisici obbliga il filosofo a riconoscere che questo principio a cui riduce tutti gli altri, non è infine se non « « la intuizione evidente della natura dell' essere, il quale non può contraddirsi mai, cioè è in un modo immutabile »(1) ». Se dunque, come vedemmo, la mente oggettiva e sempre in atto d' Aristotele sono i primi, ossia i principŒ (2), e questi si riducono tutti al primissimo, che è quello di contraddizione, e questo non è altro che « « la natura invariabile dell' essere » », ne viene che l' essere sia la mente in atto d' Aristotele. Nell' ordine dunque delle cognizioni umane, secondo Aristotele, c' è: 1 l' essere, ossia la mente obiettiva, [...OMISSIS...] : 2 il quale essendo immutabile e costante non può esser nulla di contrario a sè stesso, e questa sua permanenza s' esprime col principio di contraddizione, che dice « « l' essere non può non essere » » secondo la forma intuitiva; e secondo la forma di predicazione « « d' ogni ente è vera o l' affermazione o la negazione » »: 3 da questo vengono gli altri principŒ immediati e indimostrabili, [...OMISSIS...] , cause della conclusione, [...OMISSIS...] : 4 istrutto l' umano intendimento di questi principŒ, di cui a principio non è consapevole, ma che possiede impliciti nell' essere che intuisce per natura, vede nelle sensazioni, cioè nelle specie sensibili , le specie intelligibili immateriali, ed universali, e di universale in universale perviene all' essere stesso che intuiva per natura, e che ora conosce coll' atto consapevole della sua mente: e quindi; 5 la scienza di dimostrazione , che riguarda le conclusioni che si cavano da quei principŒ, ed è scienza mediata e riflessa. Tale risulta l' Ideologia d' Aristotele, se si mettono insieme, colla maggior coerenza possibile, i varŒ luoghi delle sue opere, ne' quali egli la sparpaglia, e la va quasi direi seminando. Tutto il principio di questo sistema è l' essere , la mente oggettiva, sempre in atto, che l' uomo ha, e perciò è detto « abito »parola che indica da se stessa una dualità d' opposizione tra l' avente e l' abito, cioè l' avuto, ed è detto parimente lume. E che questo essere7lume sia « l' essere indeterminato ossia comunissimo », vedesi da ciò che dice Aristotele della « Filosofia prima ». Poichè come anteriormente alla scienza di dimostrazione c' è un altro genere o modo di sapere, [...OMISSIS...] che è quello de' sommi ed immediati principŒ che si hanno dall' uomo per natura e che tutti sono contenuti nella natura dell' essere; così stabilisce Aristotele, che antecedentemente a tutte le scienze ci sia una scienza, che non tratta d' alcun essere particolare, e perciò dell' « essere comunissimo », e questa è quella che chiama Filosofia prima. La prima dunque di tutte le scienze deve considerare l' ente in universale, senza alcuna parziale determinazione, che è l' ente comunissimo. E questo ente, che dice esser lo stesso che l' uno, lo chiama primo, [...OMISSIS...] a cui tutte le notizie intorno all' ente si riducono (4): primo certamente nella mente, benchè, considerato come predicato, esso stesso si diversifichi, e non sia più il medesimo. Dove si parla manifestamente « dell' essere comunissimo »che non esiste tale in separato, ma che pure è davanti all' intelligenza, come « « il primo uno e il primo ente » » cioè quell' idea dell' ente che antecede ogni altra cognizione dell' ente, e alla quale ogni altra cognizione si riferisce, [...OMISSIS...] , poichè se quest' uno in questa universalità e indeterminazione non fosse davanti all' intelligenza, l' altre cose o notizie non si potrebbero a lui riferire, nè predicare egli stesso in un modo molteplice, onde [...OMISSIS...] . Se noi ora rivolgiamo indietro lo sguardo, vediamo qual lungo cammino abbia fatto il pensiero aristotelico e come si sia immensamente allontanato da' suoi primi principŒ. Egli incominciò la sua opposizione alla dottrina di Platone prendendo a provare, che le idee separate dai sensibili reali non esistono, e che esistono solo le specie , e queste sono le forme , e le forme altro non sono che gli atti sostanziali delle stesse cose reali: laonde esistono solo in queste unite colla materia. Ma a questa ardita e complicata proposizione s' affacciò come contraria la necessità degli universali , perchè ci sia la scienza e non restino le cose al buio. Tentò dunque di provare, che per universale altro non si può intendere se non ciò che gli Scolastici poi chiamarono l' individuo vago , il pensiero del quale termina sempre in un singolare reale, ma questo pensiero si può replicare per molti individui reali successivamente: onde il poter sempre pensare e immaginare nuovi individui reali è tutto ciò che si nasconde sotto il nome d' universale, e questa possibilità che un tal pensiero si replichi indefinitamente, è un carattere dello stesso pensiero, e non delle cose reali e singolari. Entrò nondimeno tra' piedi la difficoltà di questi individui reali, oggetto suscettivo di diversi pensieri ed immaginazioni, i quali sono pure tutti uguali o simili tra di loro; altrimenti, non si intenderebbe come si dicessero essere della medesima specie e del medesimo genere: e però rimaneva sempre a spiegare che cosa sia quest' uguale, simile, o comune, che si chiama specie o genere. Occorse a quest' incaglio il filosofo rispondendo, che quest' era la ragione delle cose. Ma si dimenticò d' avvertire che, se questa ragione comune delle cose, era diversa dalle cose, conveniva pur dire che cosa questa ragione fosse. Altrimenti i Platonici avrebbero potuto rispondere, che la ragione introdotta dal nostro filosofo che volea cacciare le idee, era appunto l' idea (mutato solo il nome), la quale non è le cose, essendo queste per loro essenza singolari, e quella per sua essenza universale , e per conseguente comune . D' altro lato veniva a turbare i sonni all' infedele discepolo di Platone un altro fatto della natura non possibile a negarsi o a dissimularsi; e quest' era, che l' uomo, che produceva dei lavori esterni, li lavorava sopra un' idea da lui preconcetta, e però esistente ancora scevra d' ogni materia reale, giacchè la materia reale si foggiava poi dall' artista su quel modello o esemplare. All' evidenza di questo fatto Aristotele dovette convenire che oltre le specie che informano le cose reali e singolari e che sono unite colla materia, ci sono altre specie separate dalla materia, il cui domicilio è la mente. Così cominciò ad ammettere in qualche modo le specie separate , intendendo per separate, prive della materia reale. Ma il valent' uomo corse a riparare la breccia, e cominciò a dire o a fare intendere che le specie nella mente, e le specie nelle cose reali, sieno identiche: onde la sanità nella mente del medico è quella stessa che da lui prodotta esiste nell' uomo sano. E così pure diede all' anima intellettiva la facoltà di separare nelle cose reali la loro specie dalla materia, e così separata in esse contemplarla. Ma il soccorso era debole a segno, ch' egli stesso dovette confessare che l' identità di tali specie non era che una metafora: confessione alquanto umiliante in colui, che aveva cacciato in faccia al maestro questa stessa parola di metafora , a proposito delle sue idee esemplari (1). Infatti è per ogni verso impossibile sostenere, che la specie intellettiva della pietra sia quella stessa specie reale , se così si vuol chiamare, che è l' atto sostanziale e reale della stessa pietra, da questa indivisibile, finchè la pietra dura; indivisibile, dico, egualmente, o si pensi dagli uomini, o non si pensi. Costretto dunque dalla perspicacia stessa della sua mente ad ammettere, che le specie delle cose reali esistono anche separate da queste, cioè nella mente, e così già sciolto quel connubio indissolubile che avea pronunciato a principio, egli fu sbalzato in una regione molto più lontana dalla materia e dai reali sensibili, a cui credea prima d' aver legate, quasi schiave alla catena, le idee o specie, e dovette fare altre ed altre concessioni alla scuola che avea disertato. Infatti egli ben vide, abbondandogli l' acume dell' ingegno, che nell' ordine delle cose intelligibili non c' erano solamente quelle specie, che sono prossime alle cose reali (1), ma c' era una gerarchia di specie, cioè sopra le specie propriamente dette c' erano i generi, e questi si riducevano come a ultime classi, ai generi categorici (2), e sopra questi ancora i generi universalissimi, cioè l' essere e l' uno, due generi, che tornano ad un medesimo. Ora venuto a quest' ultima specie, lontanissima più che mai dai reali e dai sensibili, non solo la riconobbe pura d' ogni materia, ma vide ancora, ch' ella dovea sussistere, e però essere un' essenza sostanziale, anzi una sostanza prima, che chiamò Mente. Questa Mente oggettiva poi nell' uomo la considerò in potenza alle specie inferiori fino alle ultime, cioè alle più prossime ai reali sensibili; in se stessa poi e fuori dell' uomo la dichiarò essere Iddio, Primo Motore di tutte le cose, in cui finisce ogni contemplazione ed ogni appetito. Così trovò una specie, la quale non è più solo separata di ragione, [...OMISSIS...] dai reali sensibili, ma ben anco di attualità e di sostanza, [...OMISSIS...] , dovendosi dopo un gran viaggio vedere ricondotto, quasi direi prigioniero, alla casa del suo maestro. Ma non però gli si arrese del tutto. Riprendendo noi dunque l' esposizione della divergenza della opinione di Aristotele da quella di Platone suo maestro, ripassiamo i novi argomenti che egli adduce contro le idee platoniche, o le nove forme di cui le riveste. Ma facciamolo in modo da restringere il dissidio entro a' suoi più brevi confini, non tenendo conto delle divergenze apparenti, anzi, per tutto dove ne incontriamo sciogliendo l' apparenza della discordia: il che ci obbliga a cercare tutte le vie di conciliare il maestro e il discepolo per tutto colà, dove una conciliazione è possibile. Diciamo dunque che i due principali argomenti accampati da Aristotele contro le idee platoniche sono: 1 Che esse nulla servono a spiegare l' esistenza de' reali sensibili, di cui consta il Mondo, perchè sono da questi intieramente separate, onde con esse altro non si fa che aggiungere sostanze a sostanze, e così accrescere le cose da spiegarsi invece d' assegnarne le cause (1). 2 Che esse nulla servono a spiegare la cognizione umana de' medesimi reali sensibili , per la stessa ragione, che quelle idee, essendo pienamente separate per loro natura, non sono l' essenza di questi, e però, intendendo esse, non s' intendono questi. Da tutto quello che abbiamo detto precedentemente, si può in qualche modo raccogliere, che Aristotele non intendeva propriamente impugnare nè l' esistenza delle idee o specie delle cose, nè l' immutabile ed eterna loro natura, ma unicamente l' essere state separate e dissociate dalle cose reali. Ammette quello che avea trovato Socrate, ma rifiuta quello che vi aggiunse Platone, come si vede da questo luogo: [...OMISSIS...] . Riserva la parola idea alle specie, in quanto s' ammisero separate, e non combatte la stabilità ed eternità loro, che anche egli riconosce necessaria, acciocchè si possa avere scienza, e un fermo ragionamento, ma solo il loro essere separato da' reali. Socrate, dice in un altro luogo, cercò l' universale e la definizione, pel bisogno che avea di dare una base ferma alla morale: Platone, [...OMISSIS...] . Sinonime chiama Aristotele quelle cose che si chiamano collo stesso nome, e la ragione della loro essenza è la stessa, [...OMISSIS...] equivoche ossia omonime quelle che si chiamano solo collo stesso nome, ma hanno un' altra ragione d' essenza, [...OMISSIS...] . Appone dunque a Platone, che le idee e le cose sensibili si chiamassero collo stesso nome, ma avessero un' altra ragione d' essenza, laddove i sensibili fossero tra loro uguali secondo la stessa ragione d' essenza: e questo solo biasimava nel suo maestro. Quello dunque che Aristotele non voleva, era la scissura tra il mondo ideale e il mondo reale, che attribuiva al sistema del suo maestro. [...OMISSIS...] . Voleva tutto connesso; ma è difficile assai ritrarre dalle opere d' Aristotele una chiara teoria di questa connessione di tutte le cose, e che abbia coerenza. Poichè è molteplice da per tutto il significato degli stessi vocaboli da lui usati, e le cose che dice sembrano parimente variare, secondo il bisogno del momento e dell' argomento di cui scrive, onde una grande apparenza almeno di contraddizione. Tuttavia tentiamo il guado. Aristotele divide tutto ciò che può cadere nel pensiero in sostanza e accidenti (1), riducendo alla prima, come vedremo, gli elementi della sostanza, e ai secondi le privazioni (2). Ora divide la sostanza in tre classi: gl' individui reali , la specie e il genere . I caratteri distintivi e definitivi di queste tre classi di sostanze li trae dalla dialettica, secondo il suo solito metodo, cioè dall' analisi del discorso: poichè da questa Aristotele deduce quasi sempre l' Ideologia e l' Ontologia. Assegna dunque per primo carattere della sostanza individuale che [...OMISSIS...] . Questa è una eccellente nota caratteristica, e la parola subietto qui indica il subietto del discorso, e però ha un senso generalissimo, che abbraccia tanto il subietto reale, quanto il dialettico. In fatti un individuo reale di null' altro si può predicare, e nè pure esiste in altro che in se stesso, cioè, per concepirlo non ha punto bisogno di essere concepito in altro, il pensiero di lui sta da sè, è finito in lui «( Ideol. 613 not.) ». Le altre due classi di sostanze, cioè le specie e i generi, hanno per carattere comune che si predicano « delle sostanze della prima classe come di loro subietti », di maniera che si attribuisce alle sostanze della prima classe il loro nome e la loro definizione. Così l' uomo e l' animale che è specie e genere si predica del subietto, cioè di quest' uomo singolare e reale, e si dà a questo tanto il nome di uomo quanto la definizione. Le specie e i generi dunque sono cose che « si dicono del subietto, ma non sono nel subietto », perchè l' uomo non è in un uomo particolare, il che verrebbe a significare una distinzione reale tra l' uomo particolare e la natura umana, ma è egli stesso questa natura umana. Ora, Aristotele dice, che le « sostanze individuali e reali »sono le prime, [...OMISSIS...] , e che si chiamano sostanze propriamente e nel più vero significato, [...OMISSIS...] , e che dopo quelle prime [...OMISSIS...] . E quest' è appunto la dottrina che Aristotele sembra voler contrapporre a quella di Platone. Poichè questi per trovare un punto fermo cercava l' universale, e d' universale in universale volea giungere all' universalissimo. Infatti ne' meno universali riconosceva una deficienza ed una limitazione (3), una moltiplicità, e non una perfetta unità (4): l' individuo reale poi come cosa cieca e indefinita, [...OMISSIS...] , era abbandonato a' sensi ed escluso dalla speculazione della mente. Come dunque Platone cercava nel comunissimo (5) l' unità sostanziale, assoluta, non ipotetica (6); così Aristotele per lo contrario disse, che anzi prima di tutto è la sostanza completa, individuale e reale. Consideriamo le ragioni più immediate che adduce Aristotele a sostegno d' un sistema che sembra a prima giunta direttamente opposto a quello di Platone, ma la cui opposizione s' andrà scemando di mano in mano, che si vedrà svolto, e talora racconciato da Aristotele stesso. La prima ragione è tratta dalla relazione logica tra quelle idee che si dicono generi e specie, e la sostanza individuale e reale. Poichè quelle idee si predicano di questa, e n' esprimono l' essenza, come, dicendosi d' un uomo particolare, che è uomo o che è animale, si dice che la sua essenza o natura è quella d' esser uomo o animale. Se dunque quegli universali, che si dicono specie e generi, involgono nel loro concetto una relazione alle sostanze individuali e reali di cui si predicano, quelli non possono essere prima di queste, onde « « tolte queste, è impossibile », dice Aristotele, «che rimanga nulla di quelli »(1) ». La seconda ragione d' Aristotele è ontologica e la trae da questo, che le idee universali, che si dicono specie e generi, non sono a pieno determinate, e però non hanno l' ultimo atto; ora ciò che è in atto deve, assolutamente parlando, precedere ciò che è in potenza: altrimenti non si potrebbe spiegare come questa si riducesse all' atto. Quest' argomento è svolto in questi termini nei Metafisici, e si conchiude così: [...OMISSIS...] . E perciò anche nell' uomo non si contenta di ammettere innato lo scibile, [...OMISSIS...] , ma un che sciente, [...OMISSIS...] , affinchè ci sia l' atto compiuto, poichè [...OMISSIS...] . Conviene che noi esaminiamo il valore di queste due ragioni, e che determiniamo precisamente ciò che hanno virtù di provare. Se noi prendiamo la prima, dividendola dalla seconda, e cerchiamo a che s' estenda, ci accorgeremo ch' ella è atta solamente a dimostrare, che le sostanze individue precedono logicamente quelle idee universali, che si chiamano generi e specie , e che perciò queste non si potrebbero concepire senza quelle prime, di cui si predicano; ma non prova punto, che avanti questi generi e specie devano esistere sostanze individue attualmente reali . Poichè vi hanno sostanze individue , che non sono reali attualmente, ma unicamente possibili, il che sembra sfuggire frequentissimamente a' filosofi. Conviene dunque riflettere che l' intendimento umano ha due facoltà nel campo dei possibili: 1 La facoltà d' intuire le idee fino alle loro ultime determinazioni, colle quali si ha la specie piena , per esempio, la specie piena di una data sostanza «( Ideol. 5.9 7 594) »; 2 la facoltà di affermare un individuo come possibile, coll' aiuto della immaginazione intellettiva, che in qualche modo lo segna e distingue dalla specie piena, il qual individuo è un reale possibile . Ora essendo la ragione aristotelica di cui parliamo, puramente dialettica, ella non ha virtù d' uscire dal circolo delle idee e dei reali possibili , che non hanno ancora attualità reale (2). Perocchè data un' idea specifica piena di sostanza, io posso dire di questa quello appunto ch' egli dice delle sue sostanze prime, cioè posso dire che d' un' idea piena di sostanza si predicano i generi e le specie «( Ideol. 591) », con che non si dice altro, se non che c' è quest' ordine tra l' idea specifica piena, e i generi e le specie (astratte) che di essa si predicano, e che questi sono posteriori a quella nell' ordine del pensiero totale, e però quella deve preesistere. Si dirà non di meno che un' idea specifica piena di sostanza non ha il carattere che Aristotele assegna alle sue prime sostanze, cioè, che non si possano predicare d' alcun' altra cosa, perchè quell' idea si predica pure degli individui reali. Vero; ma questo non implica ancora, che quest' individui reali sussistano attualmente, bastando che siano affermati ipoteticamente per mezzo dell' immaginazione, come reali possibili. Questa prima ragione dunque d' Aristotele vale bensì a favore delle sostanze individuali, ma non a favore delle sostanze attualmente sussistenti. La seconda ragione ontologica a favore della preesistenza della sostanza singolare e attualmente reale alle universali è di maggior peso. Ma se si considera a che precisamente si riduca la sua efficacia, qui appunto si vedrà, che non oppugna il sistema di Platone, se non in apparenza. Poichè la precedenza dell' atto alla potenza non riguarda punto ogni ente particolare, secondo Aristotele, ma accade che la potenza sia in uno anteriore all' altro, come il seme anteriore all' albero; ma questo non è possibile in tutta la serie, che dee cominciare dall' atto. Onde dice che ogni principio di moto e di quiete dev' essere anteriore [...OMISSIS...] . E` dunque necessario un primo atto, acciocchè sia ridotto in atto quello che è in potenza. Questo principio è evidente, ma questo non prova altro che la necessità d' una prima causa, d' un primo motore. Ora è lontanissimo Platone dal negare la verità di questo principio, e di questa conclusione, che unica procede dal principio, e che non si deve estendere al di là di ciò che dà l' illazione. E` una aperta calunnia l' attribuire a Platone ch' egli si fermi alle idee, ai generi ed alle specie (poichè Aristotele a queste due classi le riduce); egli n' esce senza equivoco. Sebbene riconosca nelle idee l' eterno, e il necessario, come ve lo riconosce pure Aristotele, tuttavia ei riconosce pure la limitazione: [...OMISSIS...] , e applicando questo principio alle specie, dice che [...OMISSIS...] , e vuol dire che in ciascuna specie si può distinguere più cose col pensiero e però c' è delle entità molteplici, ma nello stesso tempo si può negare di ciascuna tutte le altre cose, che non son essa, e perciò è indefinito il numero di quelle entità ch' essa non è punto. Ora Platone estende questa limitazione, o, come egli dice, mescolanza di non7ente, a tutte affatto le specie, anche alla prima, a quella dell' ente, che costituisce il primo de' cinque sommi generi platonici, il che è osservabilissimo. Poichè l' ente puro è lo stesso che l' idea dell' essere , astrazion fatta da ogni altra cosa. Se dunque il sommo genere delle idee secondo Platone è limitato, e limitato più d' ogni altra specie, appunto perchè di lui si negano tutte le altre cose, che non sieno puramente essere; di molto s' ingannano quelli che attribuiscono a Platone il ridurre tutto ai generi più universali, e credono che a questo solo conduca quella disciplina da lui tanto magnificata come la prima di tutte e chiamata Dialettica, quasichè l' unica operazione di questa sia l' ascendere alle ultime astrazioni (3). Che anzi secondo Platone le idee non sono l' una dall' altra divise e indipendenti, ma si copulano tra loro con certe leggi, e il principale ufficio della Dialettica platonica è il determinare [...OMISSIS...] . E per questo fine di dimostrare come si connettano tra loro le idee e vengano formando insieme un certo organismo, deve la Dialettica dividere le cose per generi [...OMISSIS...] , e non confondere una specie coll' altra [...OMISSIS...] . La Dialettica platonica adunque non ha solamente per ufficio di dividere le cose in generi, ma di mostrarne la loro connessione e la loro unità senza pregiudicare alla loro distinzione. E quando Aristotele nelle Categorie distinse le cose, che si dicono del subietto, e non sono in esso, quelle che si dicono del subietto, e ci sono, quelle che non si dicono del subietto, e ci sono, e quelle che nè sono nel subietto, nè si dicono di lui, altro non fece che far uso appunto della Dialettica platonica, che discopre il nesso tra le idee. Riconosciuta dunque da Platone la limitazione di ciascuna idea, presa in separato, egli riconobbe ancora che per varŒ nessi comunicavano e si connettevano tra loro, e connettendosi non a caso, s' organavano e completavano nel tutto ideale, che ne risultava, senza che perciò si confondessero le parti moltiplici contenute nell' unità. Ma è da rimovere oltrecciò il pensiero da un altro comune pregiudizio circa la teoria platonica, credendosi comunemente ch' essa s' esaurisca tutta nelle idee. Anzi sotto la parola «polla», i molti , egli non comprende solo le idee, ma anche le singole cose reali, che, come abbiamo veduto, nel Filebo chiamò «apeira», gl' indeterminati , perchè venuto il pensiero ad essi, non si può più oltre recare l' analisi e distinguerci nuove specie (2). Univa dunque Platone stesso tutte le cose in un grande organismo, nel quale si allogavano, connesse insieme gerarchicamente, ma distinte le idee e i reali, ultimi questi, ma non divisi dal tutto. E` bensì vero che non dava fede ai sensibili, come sensibili, perchè di continuo mutabili, e però inetti ad essere scienza. Ma questo l' accorda anche Aristotele. Se però Platone diceva che i sensibili per se stessi non hanno consistenza e sono apparenze, non negava per questo la realità dell' essere, checchè possa parere considerando alla sfuggita i suoi discorsi intorno alle idee. Chè altro è l' idea come semplice conoscibilità separata dalla cosa, o mezzo di conoscere; altro è l' essenza che nell' idea s' apprende «( Ideol. 646) ». Nell' idea Platone vedeva ciò che esiste per sè, assolutamente. Diceva dunque che acciocchè una cosa qualunque veramente esistesse, dovea partecipare di questa cosa per sè esistente. E non dice Aristotele lo stesso in altre parole? [...OMISSIS...] . Non dice che il nome e la definizione, cioè l' essenza delle specie e dei generi si predicano delle sostanze singolari, esprimendosi così la natura di queste, onde forz' è che questi siano appunto quell' essenza stessa che è nel genere e nella specie, altrimenti sarebbero un bel nulla? (2). Non dice, che così appunto e non altrimenti si conoscono i singolari, cioè riconoscendo in essi quell' essenza appunto che si vede nelle specie e nei generi, dove solo quell' essenza è conoscibile? (3). E non sono queste specie o idee dette da Aristotele ciò che è eterno, [...OMISSIS...] , fondamento d' ogni scienza, e della dimostrazione, che non è di cose caduche, [...OMISSIS...] ? (4). Se dunque, secondo Aristotele, l' essenza che si vede nelle idee è quella stessa de' singolari, in modo che a questi si deve attribuire la definizione di quelle, nè si può altramente conoscerli, non viene egli a confessare con ciò che i singolari partecipano, come diceva Platone, di quell' essenza appunto, che è veduta nelle idee? E dico partecipano , perchè nessuno de' singolari esaurisce in sè l' universale, egualmente partecipato da altri. Rimarrà tuttavia una differenza d' opinione circa la questione dell' origine dell' universale eterno. E Aristotele infatti non perde mai l' occasione di dire che [...OMISSIS...] . Ma tutto questo è vero certamente rispetto al conoscere consapevole dell' uomo, ed è da notare che il nostro filosofo non dice necessaria l' induzione per formare gli universali, quand' anzi egli li dichiara sempre eterni, ma per contemplarli, [...OMISSIS...] , la qual maniera di dire li suppone preesistenti e dimostra che si parla d' una cognizione relativa all' uomo. Il che ancor più si conferma se si considera che Aristotele distingue il contemplare dal conoscere semplicemente, quello significando il pensiero attuale, questo l' abituale, e quello suppone questo (2). Ma lasciando questa questione dell' origine e conchiudendo ciò che stavamo dicendo, Platone non separa punto l' esistenza reale dal discorso delle idee, ma anzi in queste vuole che si veda l' essenza che è per sè ed assolutamente, e vuole che le cose mutabili partecipino di questa per essere e che in queste noi conosciamo quella; e del pari Aristotele riconosce che l' essenza stessa, che è nelle idee, è quella che s' attribuisce veramente e si predica delle cose reali e singolari, e per quella queste si conoscono, perchè quella è la propria natura e causa formale di queste (3). Rimane tuttavia un' altra profonda differenza tra Aristotele e Platone, che abbiamo già toccata e che ci conviene ora meglio sviluppare. L' argomento che fa Aristotele, ridotto ad espressioni più chiare per noi, è il seguente: « Io osservo, viene egli a dire, che le specie e i generi si predicano d' un subietto che è la sostanza individuale, e che gli accidenti (idee degli accidenti) non si predicano, è vero, d' un subietto sostanza individuale, ma sono in un tale subietto ». Dunque questo subietto è necessario che preesista nell' ordine logico alle idee, e che esista realmente insieme con queste, informato da queste, perchè queste essendo relative a lui, non esistono realmente se non come di lui o in lui. Non dico già che sia necessario, che esistano tanti e tanti subietti, ma almeno qualcuno, di cui si dicano le idee specifiche e generiche, e in cui sieno quelle degli accidenti [...OMISSIS...] . E` dunque necessario, che quelle idee che si dicono specie e generi, non sieno propriamente sostanze, ma piuttosto « « qualità circa la sostanza » » [...OMISSIS...] , e si distinguano dagli accidenti, perchè questi sono « « qualità semplicemente » » [...OMISSIS...] (2); non c' è dunque veramente altra sostanza che l' individuale, perchè questo è un subietto che non si predica d' altro subietto, ma è subietto assolutamente. Ciò posto, se si vuole tenerla con quelli che tentano di spiegare l' esistenza delle cose reali per la partecipazione delle idee, converrà dire che la partecipazione di ciascuna d' esse sia in quanto non si dice del subietto, dovendo in tal caso ella stessa, l' idea partecipata, costituire il subietto individuale, che non s' ammette prima, e il quale non si dice d' altro subietto: dunque le idee saranno sostanze individuali. Ma in tal caso le idee saranno sostanze individuali doppie, cioè non partecipate ed eterne, e partecipate. Se questo è così, ci sarà ancora qualche cosa di comune tra le idee eterne e le idee cose, e così s' andrà all' infinito. Che se non c' è nulla di comune, il chiamare collo stesso nome la sostanza idea non partecipata, e la sostanza partecipata non sarà più che un equivoco, come il chiamar uomo, un uomo vero, e una statua di legno. La partecipazione dunque delle idee non può spiegare l' esistenza de' subietti individuali, ma questi rimangono sempre presupposti (1). Alle quali difficoltà un accorto difensore di Platone potrebbe con tutta verità rispondere in questo modo: « Voi tormentate la dottrina di Platone, contraffacendola per confutarla. E` verissimo, che Platone nega ai sensibili, e a tutto ciò che apparisce come in un continuo moto e trascorrimento, una vera esistenza, concedendogli un' esistenza solamente fenomenale, ma Aristotele, dove gli bisogna e dimentica Platone, dice il medesimo (2). Poichè qual vi può essere sentenza più consentanea a quella di Platone quanto il distinguere che fa Aristotele tra la carne , il sensibile, e l' essere della carne , che attribuisce al solo intelletto? (3). Negare dunque al sensibile e al continuo mutabile l' essere per sè, e dire che questo l' ha bensì, ma non è lui, non significa punto, che Platone neghi la realità degli enti o la loro individuale sussistenza, e riduca ogni cosa a generi, cioè a idee. Di poi, Aristotele pretende che l' essenza de' generi e delle specie consista unicamente in questo che sieno atte ad essere predicate d' un subietto; dal che deduce, che dunque avanti ad esse ci dee essere il subietto. Platone nega, che le idee sieno puri predicabili, e però cade l' argomento d' Aristotele. Dice, che se le idee possono esser predicate , è perchè prima sono partecipate ; e veramente non sarebbero predicate con verità, se la natura che si predica non fosse veramente partecipata dal subietto di cui si predica. Esser partecipate vuol dire che il subietto non ha in sè l' idea così totalmente, che questa non possa essere e non sia in altri subietti. Ora accordando Aristotele che tali idee sono universali, egli accorda che ogni individuo singolare non è quell' idea, ma la partecipa, perchè quell' idea è una e la stessa in ciascuno, onde lo stesso Aristotele la chiama «autoekaston» od «auto en ekaston», od «en kata pollon» (1), e con altri simili nomi. Se dunque non si vuol questionare di parole, la partecipazione dell' idea è innegabile e accordata da Aristotele. Se l' esser predicata e partecipata , benchè sia cosa propria dell' idea e conseguente dalla sua stessa essenza, pure non è la sua essenza, l' idea dunque si concepisce ed è anteriormente alla sua partecipazione. Ora ella acquista il titolo d' universale unicamente per la sua partecipabilità a molti individui, il che è ammesso da Aristotele; dunque se l' idea è universale in relazione agli individui a cui può essere partecipata, ella per sè, nella sua essenza anteriore al concetto della sua partecipazione, è ella stessa un singolare, e questo appunto significa la denominazione d' «autoekaston» che gli dà lo stesso Aristotele «( Ideol. 1020 not.) » (2). Con questa sola osservazione cade il secondo argomento d' Aristotele contro le idee platoniche, che abbiam detto ontologico, perchè niente ripugna l' ammettere che le idee sieno essenze singolari, che possono stare senza la partecipazione loro agli individui reali e irrazionali, di cui si compone il mondo materiale e sensibile. Ma di mano in mano che si seguita Platone nella perscrutazione delle idee, la sua dottrina diventa più consistente in ragione che si fa più completa. Platone distingue due cose nelle idee: 1 l' essenza; 2 l' intelligibilità; l' una e l' altra immutabile ed eterna. Tutti gli enti dell' universo, anche i sensibili, benchè in quanto sono sensibili sieno fenomenali, partecipano, concepiti come sensibili dalla mente, l' essenza , che è nelle idee, e così anch' essi acquistano qualche cosa di stabile, di consistente; la loro esistenza reale. Le menti poi godono della intelligibilità intrinseca a tali essenze, e per questa loro intelligibilità le essenze si chiamano propriamente idee , e su questa intelligibilità si fonda la stabilità e certezza e necessità delle definizioni e della scienza dimostrativa, onde la verità ne' ragionamenti della mente e nelle orazioni. Se l' essenza dunque è quella che si partecipa da' sensibili, e questa è veramente, non convien dire, che Platone sia un puro idealista, come hanno detto i moderni, giacchè Aristotele si guardò bene di fargli una tale censura; quando anzi pone sotto l' apparenze sensibili qualche cosa di così permanente come sono le loro essenze, che si intuiscono nelle idee. Confessa Aristotele che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, ma dà loro una natura anteriore alla predicazione, e dice che quelli che fanno le idee essenze, di conseguenza le devono porre separate, [...OMISSIS...] : confessa ancora che le pongono ne' molti, per modo che ciascuna, rimanendo una, sia ne' molti, [...OMISSIS...] . Se dunque Aristotele stesso riconosce che Platone non fa delle idee de' meri predicabili, a che vale il suo argomento che le idee non sieno separate, perchè i predicabili suppongono il subietto, di cui si predichino? D' altra parte si contraddice anche in questo, che qui confessa, che le essenze nelle idee e nelle cose sensibili sono le medesime di specie, perchè l' essenza che è nella specie, è quella medesima che è ne' corruttibili; mentre altrove pretende che Platone coll' ammettere le idee raddoppi le sostanze, senza spiegar meglio l' esistenza delle sostanze sensibili. E quando dice che i sensibili tra loro univoci, nel sistema di Platone sono equivoci colle specie (2), abusa manifestamente di sottigliezza; poichè sono equivoci colle specie presi da queste in separato per astrazione in quanto così presi non sono che fenomeni; ma non sono equivoci presi come già partecipanti alla specie, se è vero che alla specie dia Platone la medesima essenza che ai corruttibili, [...OMISSIS...] . Ma ora di questo appunto Aristotele riprende Platone, di far cioè le stesse identiche nature ad un tempo universali e particolari, [...OMISSIS...] . Questo è quello che non intende Aristotele, e in cui sta tutto il nodo della questione. Egli reputa contraddittorio che la stessa essenza sia universale ad un tempo e particolare. Pure la chiave di tutta la filosofia è questa, che « l' essere, l' essenza, abbia due modi, ne' quali rimane identico, sotto l' uno è essere od essenza reale, sotto l' altro è essere od essenza ideale: e che il secondo di questi due modi, cioè il reale, per tutte le cose finite sia contingente e mutabile, e il primo, cioè l' ideale ed universale, sia necessario ed immutabile; per l' infinito poi ed assoluto essere, entrambi quei modi sieno necessarŒ e immutabili ». Ciò che impedisce di vedere, che qui la contraddizione non è che apparente, è prima di tutto lo spazio che coll' immaginazione s' intromette in una cosa semplice e immune affatto di spazio com' è il mondo metafisico. Pare dunque per un gioco d' immaginazione, che se s' ammette « un' essenza ideale »e poi questa stessa essenza ideale s' ammette in certo numero d' individui reali, la si ponga in diversi luoghi e così si moltiplichi. Ma nè ella è in alcun luogo nè si moltiplica veramente, ma sono i sensibili, che, essendo in diversi luoghi, quando sono percepiti dall' anima, la quale è semplice e senza luogo, s' uniscono a quell' unica essenza che è nell' anima cioè presente all' anima, e quivi hanno quell' essere o essenza che l' anima pensa, sempre identica in ciascuno di essi. Nasce qui subito la voglia di domandare: « che cosa dunque sono i sensibili prima di ricevere una tale essenza presente all' anima, nella quale essenza l' anima intellettiva li vede? ». Si risponde che, se si parla d' un' anima intellettiva singolare, essi non sono più a quest' anima, perchè per questa non è ciò che non è intelligibile. Che se si suppone che nessuna intelligenza gl' intenda, essi non sono punto a niuna intelligenza. - Ma il sensibile, non è qualche cosa di diverso dall' intelligibile? e se è qualche cosa di diverso, non rimane anche tolto via l' intelligibile? - Alla prima di queste due questioni si risponde di sì, alla seconda si risponde di no, se per « toglier via l' intelligibile », s' intenda non già astrarre ipoteticamente dall' intelligibile o dall' intelligente; ma toglierne via anche la possibilità, astrarre anche da questa: in tal caso il sensibile rimane privato di ciò che gli è essenziale, cioè di « poter essere intelligibile », e così diviene assurdo, egli è dunque nulla (2). Il sensibile adunque nè esiste solo, nè può esister solo; ma è in una relazione essenziale coll' intelligenza, e non si può pensare se non si suppone ch' egli sia in relazione almeno con una intelligenza possibile, e quindi che abbia il suo essere intelligibile. Considerato il sensibile in questa relazione, egli è diverso dall' intelligibile, ossia dall' essenza, come un termine è diverso dal principio , benchè il termine, quello che è essenzialmente termine, non possa stare senza il suo principio. Per la difficoltà d' intendere questa dottrina, si perpetuano i dissidŒ delle scuole filosofiche e sembrano inconciliabili. Aristotele dice: [...OMISSIS...] . L' argomento non ha forza, se non nell' erronea supposizione che qui fa Aristotele, e che poi, come vedremo, smentisce egli stesso, che le essenze che s' intuiscono nelle idee non abbiano altra natura che quella d' essere precisamente « universali o comuni ». Ma Platone risponde che la qualità d' essere universali e comuni è una relazione che consegue alla natura delle essenze quando queste si considerano come il fondamento de' reali; ma che anteriormente a questa relazione, esse esistono come singolari, anzi ciascuna è perfettamente una e causa d' unità all' altre cose; il che Aristotele stesso confessa senz' accorgersi della contraddizione ogni qualvolta le chiama «autoekaston». Nè ripugna punto che de' molti sensibili reali che a ciascuna corrisponde, ognuno di essi abbia per suo fondamento la stessa essenza e la mente veda il detto sensibile in questa essenza, onde si dica giustamente che essa s' estenda a ciascuno di essi, [...OMISSIS...] ; come nè pure non ripugna che tutt' insieme que' sensibili si vedano nella stessa idea, e per questo ella si chiami comune o universale, [...OMISSIS...] . Poichè essendo la idea semplice e fuori di luogo, la mente, spirituale anch' essa, può considerare in essa quello che è in luogo: e ciò con verità, perchè l' esteso ha un modo d' esistere nell' inesteso «( Antropol. 94 7 97; 12., 129) », ed anzi non può esistere altrove. La qualità dell' estensione in fatti è una relazione al principio senziente, a cui non appartiene, come confessa Aristotele, l' esistenza vera della cosa, ma l' apparente e fenomenale; all' incontro l' essere vero delle cose appartiene alla mente, e l' essere vero è uno essenzialmente e semplice (1). Se dunque, come dice lo stesso Aristotele, la sostanza esiste in se stessa, e in ciò di cui è sostanza, [...OMISSIS...] , niente più domanda Platone, secondo cui l' essenza esiste in se stessa non comunicata a' sensibili, ed esiste in questi di cui è sostanza, ossia essenza. Una obbiezione più speciosa, ma non meno vana, fa Aristotele all' idee di Platone. Egli viene a dire così: [...OMISSIS...] . Ma quello stesso che con queste parole si rimprovera a Platone, è quello stesso che lo giustifica. Poichè qual è il rimprovero? Che Platone faccia due sostanze separate. E se questo fosse, certo che dovrebbe dire, quale sia quest' altra essenza separata diversa da quella de' sensibili. Ma se fa un' essenza sola, e dice che questa è in sè, indipendentemente dai sensibili, se non che ella stessa è anche l' essenza de' sensibili, perchè ha l' attitudine d' essere partecipata, cade la censura, e non c' è più bisogno di dire che cosa sia quest' altra sostanza o essenza diversa da quella de' sensibili, che Aristotele rimprovera di continuo a Platone. Ora che questa duplicità di essenza o sostanza sia un puro equivoco d' Aristotele (proveniente forse dalle scuole platoniche, contro cui sembra combattere), si riconosce dallo stesso discorso d' Aristotele. Poichè non è egli stesso che dice, che fanno identiche e non già diverse le essenze de' corruttibili e de' sensibili? [...OMISSIS...] . E non è egli stesso che riprende Platone, perchè faccia le stesse essenze universali e particolari? [...OMISSIS...] . Ora questo è appunto un confessare essere vero il contrario di ciò che con incoerenza si rimprovera a Platone, cioè ch' egli faccia due serie di essenze, l' una sensibile e l' altra intelligibile. Che se ne fa una sola, non c' è più ragione di apporgli a colpa, ch' egli non sappia dire quali sieno coteste essenze separate da' sensibili (4), perchè non ne ha bisogno, non essendo esse altro che le essenze de' sensibili stessi, e la mente umana da questi ascende a contemplarle. Gli stessi sensibili e corruttibili dunque hanno bisogno secondo Platone d' una loro essenza immutabile, senza la quale non sarebbero, perchè l' essere, per confessione d' Aristotele stesso, non è sensibile ma intelligibile, e non mutabile, ma eterno. Se dunque i sensibili sono, se si predica di essi con verità l' esistenza, se per questo si conoscono, e si conoscono quali sono in verità: è dunque da dire che partecipino dell' essenza , e non senza questa, ma solo con questa e per questa, e in questa siano. Ma posto che sono in questa, niente poi vieta che la mente coll' astrazione ne faccia la separazione e li consideri privi di questa: allora restano non pure incogniti, ma assurdi, perchè privi di stabilità e d' unità, e del tutto annullati perchè privi dell' essere. Quando dunque Platone parla della continua mutabilità de' sensibili e della loro fenomenalità, egli parla de' sensibili così astratti e divisi dall' essenza, parla d' un astratto che non ha alcuna reale esistenza, non parla de' sensibili che sono; poichè i sensibili che sono, sono già uniti e inseparabili dalla loro unica essenza. E questo io credo in parte una delle cause, che condussero Aristotele in errore: vide che i sensibili non possono separarsi dall' essenza senza distruggersi: disse dunque, che queste due cose, il sensibile e l' essenza, erano inseparabili. Ma sono due proposizioni totalmente diverse, che il sensibile non si possa separare dall' essenza, e che l' essenza non si possa separare dal sensibile. Questa può stare da sè, perchè è indipendente da quelli: quelli non possono separarsi da questa, perchè da questa dipendono e hanno l' essere: quest' è necessaria, quelli contingenti. E qui s' osservi, che non può applicarsi, come vorrebbe Aristotele, la distinzione tra ciò che è separabile di concetto, [...OMISSIS...] , e ciò che è separabile di sostanza, [...OMISSIS...] , o come dice altrove, di grandezza, [...OMISSIS...] . Poichè che cosa significa separabile di sostanza, o di grandezza, e separabile di concetto? Non altro che separabile realmente, e separabile idealmente. Questa separazione ideale suppone già le idee, e sono appunto queste di cui si disputa: onde la distinzione applicata al caso nostro ci rimanda alla dottrina delle idee, e non vale a chiarirla. Consideriamo l' esempio con cui Aristotele stesso illustra questa distinzione (1). Un corpo si può dividere in più parti: questa è una separazione reale. In una figura rotonda, si può distinguere la superficie convessa dalla concava (2): questa è una separazione ideale, perchè il convesso non si può dividere realmente dal concavo, non essendo che due relazioni ideali. La separazione reale adunque importa che un reale si divida da un altro reale, la separazione ideale importa che un' idea si separi da un' altra idea: la prima separazione divide i reali, la seconda separazione (che è propriamente una distinzione) separa le idee ossia i concetti: l' una di queste due separazioni passa dunque tra reale e reale, l' altra tra idea e idea, benchè queste si possano riferire ad un reale. All' incontro tutt' altra è la questione delle idee separate di Platone; poichè non si cerca più se un reale è separato da un altro, o un' idea da un' altra idea; ma si cerca se l' idea stessa è separata dal reale. Questa non può essere separazione nè di reale da reale, nè d' idea da idea: ma un terzo modo di separazione, cioè separazione di reale e d' idea. Questo modo dunque di separazione non è tale su cui si possa istituire la questione se egli sia uno de' due primi modi, come pur fa Aristotele: anzi convien dire che questo terzo modo è il fondamento degli altri due. Poichè non si separerebbe e distinguerebbe la separazione reale dalla separazione ideale , se non si supponesse prima che fossero cose separate la realità e l' idea. La separazione dunque dell' idea e della realità è il primo e il massimo di tutti i modi di separazione e di distinzione possibili, e la causa degli altri: non è una separazione nè reale, nè ideale, ma è una separazione precedente, che dee avere un nome suo proprio, e che noi appunto chiamiamo categorica . Aristotele stesso, come ancora vedemmo, è ricacciato dalla necessità e dall' evidenza a questa separazione, che si studia in tanti luoghi di eliminare, e che pure è costretto in tanti altri luoghi di riconoscere. Poichè distingue l' essere della cosa, dalla cosa sensibile (3), e in quello, che attribuisce all' intelletto, ripone il vero (1), in questa, che attribuisce al senso, ripone il fenomenale ; sia pure il vero rispetto a noi mescolato col fenomenale, ma l' uno non è certamente l' altro, ed è separato d' essenza dall' altro, e non di nome o di concetto. In un luogo (perchè crediamo in cosa così contrastata non dover risparmiare le citazioni) stabilisce Aristotele che [...OMISSIS...] che è quanto dire delle prime e più universali idee. Distingue poi le scienze in attive, fattive, e speculative, e le speculative in matematica, fisica, e teologia , e chiama quest' ultima anche filosofia prima (3). Dice che in tutte queste scienze è sempre necessario che si conosca l' essenza della cosa di cui si tratta. [...OMISSIS...] . Ma quest' essenza o si definisce separata dalla materia o unita, e di queste essenze non separate dalla materia trattano la fisica e la matematica; dell' essenza poi separata e universale la teologia . [...OMISSIS...] . E qui dopo aver detto che la fisica tratta di cose che non sono senza materia, [...OMISSIS...] , benchè deva anche la fisica cercare e definire la stessa quiddità, [...OMISSIS...] , ma colla materia; e dopo d' aver detto che la matematica specula d' alcune cose in quanto sono immobili e separabili, [...OMISSIS...] , prosegue venendo alla teologia o filosofia prima e dice così: Da questo luogo si vede chiaramente: 1 Che Aristotele ammette una sostanza separata non per semplice concetto, ma di essere proprio, dalle sostanze fisiche e sensibili: questa sostanza è immateriale, immobile, perpetua, causa del movimento degli astri. Infatti un' una e medesima cosa non può essere col moto e senza moto ad un tempo; questi dunque non sono due concetti che si possano distinguere nella stessa cosa: non può essere soggetta alla mutazione, ossia generabile insieme e perpetua, perchè ciò che si genera e si corrompe principia e finisce, onde non si può distinguere la stessa identica cosa in generabile e non generabile. In una parola ogni distinzione di concetto suppone che i concetti, secondo cui si distingue la cosa, sieno bensì diversi, ma non contradditorŒ tra loro: dove dunque la separazione è di concetti contraddittorŒ, trattasi di separazione di esseri e non di concetti. 2 Ora questa cosa separata dagli enti fisici generabili e corruttibili, de' quali tratta la Fisica, è l' oggetto della Teologia detta anche Prima Filosofia, ed è Dio stesso. Ma che cosa è questo Dio d' Aristotele? Primieramente è la causa immediata de' movimenti e de' fenomeni celesti, perchè i Cieli, secondo Aristotele, sono quelli, come si dirà, che ricevono l' immediato impulso dalla prima causa. Ma questo stesso oggetto poi si dice « «genere onorabilissimo », [...OMISSIS...] », e la scienza che lo riguarda, « «universale, comune a tutti i generi », [...OMISSIS...] », e di nuovo l' oggetto di questa si definisce: « « l' ente come ente, e quegli universali che esistono nell' ente in quanto ente » », [...OMISSIS...] . 3 E qui l' oggetto di questa scienza che ha due nomi, cioè Teologia e Filosofia prima, apparisce pur esso duplice, cioè: 1 l' ente come ente, 2 quegli universali che esistono nell' ente come ente. Se dunque l' ente, come ente, è Dio, secondo il contesto, che cosa poi sono quelle cose che in lui inesistono, [...OMISSIS...] ? Certamente le idee o almeno quei primi, [...OMISSIS...] , che si distinguono da' fantasmi, e non si generano nè corrompono, ma unicamente si conoscono toccandoli immediatamente (2), e che sono il fondamento di tutto l' umano sapere: perocchè si parla di cose prive al tutto di materia, di cose immobili e separate, [...OMISSIS...] . E` dunque obbligato Aristotele stesso ad ammettere le prime nozioni separate, non separate dall' ente per sè, da Dio, ma separate dalle cose reali e finite. Come dunque insegna egli in tanti altri luoghi, contro Platone, che sono inseparabili, e che separate sono posteriori? Il pensiero d' Aristotele parmi che riceva luce, e in qualche modo si concili seco medesimo col confronto d' un altro luogo. « « C' è una scienza, dice, che specula l' ente com' ente e quelle cose che in esso inesistono per sè » ». Ecco di novo i due oggetti della Teologia e della Filosofia prima: ecco le cose che inesistono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Che cosa sono queste cose che inesistono nell' ente per sè? Certo quelle che nel passo precedentemente citato disse esistere come ente, [...OMISSIS...] : i primi intelligibili. Sembra evidente che da questi Aristotele distingua le specie de' sensibili, perchè queste non appartengono all' ente come puramente ente, ma come ente sensibile. [...OMISSIS...] . Le scienze dunque che trattano di qualche genere esclusivo di ente, si dicono in parte , e specolatrici dell' accidente: la Teologia o Filosofia prima non è di quelle che si dicono in parte, perchè trattano dell' ente nella sua interezza come uno e tutto. Di novo dunque qui si chiarisce, che Aristotele distingue due classi d' intelligibili: 1 quelli che appartengono all' ente come puro ente; 2 quelli che appartengono ai parziali generi dell' ente, che noi chiameremo i primi e i secondi intelligibili . Questi secondi poi li considera come accidentali all' ente, onde dice che le scienze di questi specolano l' accidente circa l' ente, [...OMISSIS...] , laddove la prima tratta delle cose che sono nell' ente per sè, [...OMISSIS...] . Ma i principŒ e le supreme cause appartengono, all' ente per sè, o sono accidentali? [...OMISSIS...] . Ammette dunque una natura per sè, di cui siano i principŒ e le cause supreme, [...OMISSIS...] . Ora questa natura è indubitabilmente di quelle che egli chiama prime sostanze, anzi veramente di tutte la prima, [...OMISSIS...] , perchè l' altre tutte, di cui tratta la Fisica e le scienze inferiori, sono parziali, [...OMISSIS...] , e minori di quella prima natura a cui nulla aggiungono, ma da cui rescindono una parte, [...OMISSIS...] : quella natura dunque è più completa d' ogni altra sostanza. Questa natura o sostanza è per sè ente e non per accidente, e di essa sono i principŒ e le cause supreme, che sono immobili, perpetue, e separabili da ogni materia. Questi sono, come dicevamo, i primi intelligibili, i principŒ della ragione e le prime cause formali. Ora Aristotele è pure costretto di convenire che la scienza che tratta dell' ente in questo modo, e di quelle cose, che in esso inesistono, e che, essendo prive di materia, sono per sè intelligibili (1), è « «comune a tutti i generi e a tutte l' altre », [...OMISSIS...] », poichè tutte le cose che esistono essendo in qualche modo enti, possono essere considerate come enti, cioè come aventi quelle proprietà che sono dell' ente come ente. Quindi egli viene di novo a considerare l' universale in un doppio aspetto: 1 come separato, proprio dell' ente per sè, inesistente in questo, senza materia, [...OMISSIS...] ; e 2 come comune a tutti gli enti anche sensibili e materiali. Dal che ne viene che il comune può esistere, come diceva Platone, per sè indipendentemente dalle sostanze sensibili, non precisamente nella sua condizione di comune , ma in quella d' appartenenza d' un primo ente per sè, cioè di Dio. A questo dunque ricadeva Aristotele stesso argomentando da quel principio ontologico, che abbiamo innanzi accennato, cioè che « ciò che è in atto, dee assolutamente precedere ciò che è in potenza ». Il qual principio per la sua stessa confessione non vale per ciascun ente singolo, rispetto al quale può preesistere la potenza all' atto, ma per l' università delle cose, e però basta a soddisfarvi che ci abbia un atto primo anteriore a tutte le entità potenziali, e questo è Dio. Ora non è fin qui identica la dottrina di Platone? Lasciava forse Platone le idee disunite, vaganti a caso, per così dire, senza una singolare e compiuta sostanza in cui fossero? No, certamente; ma la sede delle sue idee era Dio stesso, al che vedemmo riuscire lo stesso Aristotele. L' argomento dunque d' Aristotele che le idee, essendo universali, sono enti in potenza (2), e che perciò deve esserci quella sostanza singolare che non si predichi d' altro, in cui sieno, non ha forza per due ragioni: l' una , che le idee non sono universali se non in quanto possono esser partecipate, ma in sè stesse sono singolari, che anzi ciascuna rimane una e identica anche partecipata da molti, secondo Platone (1); l' altra , che è soddisfatto al bisogno d' un subietto in cui le idee si trovino, nella dottrina di Platone, che le ammette in Dio. Poichè l' argomento d' Aristotele si deve accomodare così, acciocchè abbia valore: « Le idee non dimostrano che un' esistenza obiettiva. Ma un' esistenza puramente obiettiva, cioè priva della subiettiva, non fa che la cosa sia a se stessa, ma ad un' altra cioè alla mente, di cui è obietto. Dunque le idee non sarebbero a se stesse, se non fossero in un subietto, che desse loro anche l' esistenza subiettiva ». Quest' argomento è come traveduto da Aristotele, ma non espresso. Ora Platone soddisfa a questa condizione dando per subietto delle idee Dio stesso. E questo non è già un fuor d' opera nel sistema di Platone, come è sembrato a qualche scrittore moderno, ma è coerentissimo a tutta la sua filosofia, ed un risultato di quella sua dialettica, con cui egli l' ha lavorata, e che egli chiama perciò appunto la scienza massima (2). Alla dialettica appartiene, secondo Platone, di conciliare i contrarŒ, e per mezzo di questa egli non solo non si ferma ai numeri e alle astrazioni geometriche (3), che riguarda come altrettante supposizioni, ma nè pur si ferma alle idee che, come vedemmo, trova bensì eterne, ma limitata ciascuna, e da sè sola insufficiente ad esistere, onde le vuol tutte connesse ed organate in un gran corpo o mondo intelligibile (1). Che anzi dice chiaramente essersi appigliato allo studio delle ragioni, ossia delle idee, per poter sollevarsi da queste più alto, cioè a Dio, che rassomiglia sempre al sole. [...OMISSIS...] . Fra il contemplare adunque le cose nello stesso ente cioè nel sole, e il considerarle ne' sensibili, ripone il considerarle nelle ragioni o idee, che sono da più che non sieno le immagini sensibili degli enti, ma non sono ancora l' ente assoluto in cui risiede come in prima fonte l' assoluta verità delle cose. Laonde giustamente avverte Goffredo Stallbaum non doversi già credere, che Platone faccia di Dio un' idea, o il complesso delle idee (3); il che ben avvertano quelli, a' quali in Italia piace la maniera di parlare, che l' eloquentissimo Vincenzo Gioberti tentò introdurre nella filosofia. Invano dunque Aristotele oppone a Platone, che le idee non possono stare separate dalle cose, poichè essendo universali sono enti in potenza e l' atto deve precedere, poichè anche Platone fa che preceda l' atto (1), riponendole in Dio, a cui ascende appunto per un simile argomento, ricopiato poi da Aristotele, il quale pure ascende dalle idee ad un primo intelligibile separato al tutto dalla materia sensibile. E` del pari falso, come vedemmo, che le idee di Platone costituiscano delle essenze diverse da quelle de' sensibili, perchè questi senza quelle nè sono nè hanno alcuna essenza, ma l' essenza loro è quella stessa che sta e si conosce nelle idee di cui partecipano. E benchè Aristotele sparli di questa partecipazione che i sensibili fanno delle idee, tuttavia egli stesso attesta, che secondo Platone « « i sensibili sono enti per la partecipazione delle specie, come i Pitagorici dicevano esser enti per la imitazione di esse »(2) »: non ci sono dunque due serie di enti, ma una sola, che ha due modi, in sè, e partecipata, rimanendo identica. Si consideri oltracciò che Aristotele ritiene la denominazione che Platone diede alle idee di cause delle cose (3): onde la prima delle sue quattro cause « « l' essenza e la quiddità separata dalla materia, che definisce anche il primo o prossimo perchè, l' ultima ragione della cosa »(4) ». Questa denominazione di causa data alle essenze ideali, implica la distinzione di queste dalle cose reali, singolari e sensibili. Nello stesso tempo Aristotele insegna, che l' essere sta in queste cause delle cose, per modo che la loro definizione e quiddità si predica delle sostanze reali, singolari e sensibili, sicchè ciò che di queste si conosce non è altro, che quelle essenze appunto che nelle idee s' intuiscono (1): c' è dunque identità secondo Aristotele tra l' essere intuito nelle idee universali, e l' essere conosciuto nelle cose reali sensibili. E questo è quello che fa Platone per confessione dello stesso Aristotele, dicendo che quelli che introdussero le specie, fanno le specie quiddità a ciascuna delle altre cose, e alle specie l' uno (2). Avendo dunque riconosciuto così Aristotele, che le essenze insensibili e immateriali non sono le cose, in quanto sensibili, ma loro cause prossime, non poteva farle derivare da queste, e dirle posteriori a queste, e però quando le dice posteriori, conviene intendere posteriori unicamente rispetto alla mente umana. Ma nello stesso tempo riman fermo il suo principio « che la sostanza reale e singolare, come quella che è perfettamente attuata, dee essere anteriore a quelle che, essendo universali, hanno della potenza ». Quando dunque considera quelle cause o principŒ prossimi e formali delle cose in se stesse, non potendo negare che preesistano, nè potendo ammettere che esistano come primi, per la loro universalità e potenzialità, dice che si devono ridurre in qualche natura diversa affatto dalle sensibili e materiali, [...OMISSIS...] . Come poi Platone connetta i sensibili, a cui appartiene il moto, coll' idee o essenze, che sono immobili, è detto nel Sofista e in altri dialoghi. Poichè avendo ivi distinti cinque sommi generi [...OMISSIS...] , cioè l' ente (4), lo stato , il moto , il medesimo e il diverso , dimostra, che l' ente si copula cogli altri quattro generi, e che se non si copulasse con essi, non sarebbero, nè si potrebbero pensare (5): e tuttavia non si confonde con essi. Gli altri quattro generi dunque, a cui tutti i generi inferiori si riducono, sono per la partecipazione dell' ente, e pure nessuno di essi è l' ente. Platone viene a dire così: noi dobbiamo considerare com' è fatta la natura delle cose, quale noi la conosciamo e la esprimiamo nel ragionamento interno ed esterno, e questo fedele rilievo dell' ordine della natura delle cose, qualunque sia, purchè non involga contraddizione, non ci deve turbare, nè dobbiamo, uscendo di senno per la maraviglia di un risultato che non aspettavamo, impugnarlo, o negarlo, o contraffarlo coll' immaginazione nostra e coll' arbitrio. Ora che cosa ci risulta da questa attenta osservazione delle cose tutte da noi conosciute? Ci risultano queste conclusioni: 1 Che niuna cosa può essere se non ha l' atto dell' essere (1); 2 Che questo atto dell' essere comune a tutte le cose, condizione necessaria acciocchè siano, di maniera che rimarrebbero annullate senz' esso, non è nulla di tutto ciò che costituisce le loro differenze, e pur le fa essere in quel modo che sono, l' una dall' altra distinte, e molte. Le qualità dunque delle cose (chiamando qualità non i soli loro accidenti, ma anche quello che costituisce la loro natura o essenza speciale, che è quello che Aristotele dice «peri usian to poion») (2), queste qualità che noi diremmo « essenze speciali », non sono l' essere, perchè questo è comunissimo ed uno, e quelle sono speciali (specie e generi). 3 L' atto dunque dell' essere che è in ciascuna e in tutte si può acconciamente chiamare l' ente, «to on», e tutto il resto che costituisce le cose «me on», il non ente. 4 Che se le essenze speciali che prese da sè sono il non ente, hanno bisogno per esistere dell' ente: dunque consegue che l' ente si copuli col non ente, cioè con tutte le essenze e nature, che non sono lui. Questa copulazione del non ente coll' ente è quello, che Platone chiama partecipazione, «methexin» (3), la quale è triplice, come è triplice la materia platonica, cioè l' ideale (4), la matematica e la sensibile. Laonde dice, che « « il non ente sembra implicato coll' ente in mirabili modi »(5) ». 5 Ma l' ente stesso, il «to on», ha bisogno d' essere unito col non ente per sussistere, perchè s' egli pure non avesse alcun' altra proprietà, rimarrebbe indeterminato e però assurdo, sarebbe e non sarebbe essere, come dimostra nel Parmenide. 6 Ora l' ente, il «to on», puro, è uno; il non7ente, il «to me on», è molti, perchè abbraccia i quattro generi (1) e tutti gli altri e l' altre cose anche reali, gerarchicamente subordinate: l' uno dunque e i molti sono sempre, nella verità del fatto, copulati insieme, onde la formola «hen kai polla», che è la tessera del sistema platonico, distinto ugualmente da quello di Parmenide, che solo ammetteva il «to hen», e da quello d' Eraclito, e de' fisici che solo ammettevano «ta polla». Qui converrebbe inserire un' altra dottrina di Platone, per la quale questo filosofo dal concetto dell' essere, fornendolo di tutto ciò di cui abbisogna affinchè sussista come essere compiuto, perviene al concetto di Dio, ma di questo in appresso. Continuando dunque nell' esposizione dei cinque supremi generi, egli mostra che nè lo stato, nè il moto, nè il medesimo, nè il diverso non sarebbero se non partecipassero dell' essere , e che perciò sono per la partecipazione di questo: ma che tuttavia non sono questo; copulandosi bensì, ma non confondendosi mai le nature. Di qui vengono le antinomie , e di qui pure si sciolgono, cioè si dimostra che esse non sono punto vere contraddizioni, ma solo apparenti. Poichè accade che una cosa si possa dire in due modi: per sè, e per quello di cui partecipa. Quindi una prima antinomia nasce da questo che si dica la cosa essere la medesima e non essere la medesima. Prendiamo a ragion d' esempio il moto. Si dice tanto che « il moto è », quanto che « il moto non è »: con verità l' un e l' altro. Poichè è vero che il moto è, intendendosi che è per partecipazione dell' essere; ed è vero che il moto non è, intendendosi per sè solo, come moto, astraendo dalla partecipazione dell' essere. Allo stesso modo dicesi che « l' essere si move », e che « l' essere non si move »: vero di nuovo l' un e l' altro, ma sotto un diverso aspetto, perchè l' essere si move per la partecipazione del moto, ma non si move per sè come puro essere. Dunque, dice Platone, non c' è contraddizione a predicare l' ente del non ente, e il non ente dell' ente, come ci rimproverano gli avversari, quasi cadessimo in contraddizione. [...OMISSIS...] . Viene dunque a dire che tutte le nature che veramente esistono, sono mirabilmente organate d' ente, che è il fondo di tutte, col quale tutte si copulano, acciocchè sieno (onde lo chiama il massimo, il principale, il primo) (2), e di non ente, cioè d' altre qualità, che da sè sole prese differiscono dalla natura dell' ente, ma per partecipazione di questa sono. Ed osserva, come dicevamo, che ogni discorso interno ed esterno dell' uomo attesta questo sintesismo della natura. [...OMISSIS...] . Stabilita dunque questa comunione e copulazione delle diverse cose, che unite senza confondersi organano gli enti esistenti, vedesi come Platone ne concepiva la loro costituzione di cose opposte e non punto contradditorie. Ed è da considerare attentamente che quando qui parla di generi e di specie, intende sotto queste parole parlare delle essenze che ne' generi e nelle specie si contemplano dalla mente, cioè di cosa che è anteriore alle forme categoriche. Non parla dunque di esse in quanto sono ideali, o in quanto sono reali, o morali, ma puramente in quanto sono, e perciò in quanto il loro essere è poi suscettivo d' una di quelle tre forme. Onde la teoria universale, che dà qui Platone circa il mutuo abbracciarsi e copularsi delle essenze, vale egualmente sia che si parli d' una copulazione che si consideri nell' ordine ideale o nell' ordine reale, ovvero di una copulazione che si consideri tra l' ordine ideale e il reale. E in quanto a quest' ultima, dove sta il nodo della difficoltà, e a cui si rivolgono le obbiezioni d' Aristotele, è prima di tutto da osservare che Platone non dice mica, che tutto ciò che appartiene all' ordine reale sia apparente, e non ci sia di vero che l' ordine ideale, come falsamente gli viene imputato, a cagione che talora dà alle essenze il nome d' idee, perchè quelle nelle idee solo si vedono e si contemplano dalla mente; ma tra i reali distingue i sensibili e corporei dagl' incorporei e spirituali (dottrina ricopiata poi da Aristotele) (2), e a quelli lascia un essere fenomenale, a questi attribuisce una vera e non fenomenale esistenza. Posto dunque che le nature esistenti sieno così organate di elementi non contraddittorŒ, ma diversi, non c' è alcuna ripugnanza che gli enti stessi fenomenali della natura, cioè i sensibili, sieno copulati nel concetto della nostra mente, secondo il quale parliamo di essi, d' una essenza immobile ed eterna, e d' un elemento scorrevole ed apparente come fenomeno alla nostra facoltà di sentire, giacchè queste due cose, quantunque copulate insieme e così costituenti una natura, non si confondono tra loro, nè l' una non diventa l' altra, ma sintetizzano, avendo il sensibile bisogno dell' insensibile essenza per essere concepito e per essere. Così se si separa il sensibile dalla sua essenza, diviene un incognito e anche un assurdo; se lo si lascia unito, s' intende, ed è come s' intende: per sè solo adunque non ha la essenza, ma partecipata questa, è anch' egli per questa partecipazione: non già che egli sia avanti di questa partecipazione, ma l' esser suo è il parteciparla, [...OMISSIS...] , per usare una frase d' Aristotele. Platone dunque non deduce, e non intende spiegare questa partecipazione, ma v' invita a osservarla coll' attenzione della mente nel fatto della natura delle cose, rispetto alle quali la chiama più spesso comunione , e nel fatto degli oggetti del pensiero, rispetto al quale la chiama presenza (2), parola acconcissima e forse unica, perchè le essenze sono là presenti al pensiero senza punto confondersi con esso e nè pur co' sensibili, benchè con questi abbiano una cotal comunione. Non è dunque vero nè che Platone faccia due ordini di essenze, le eterne e incorruttibili, e le sensibili; nè che egli ammetta gli universali per sè esistenti, l' uno separato dall' altro, e separati tutti da ogni singolare sussistente, che sono le imputazioni che gli fa Aristotele con tant' evidente ingiustizia, che farebbero credere non poter esser d' uomo che ascoltò per vent' anni le lezioni di Platone. Platone ammette un solo ordine d' essenze e queste incorruttibili, le quali sono in due modi, per sè, e partecipate. Ma nè nell' uno nè nell' altro de' due modi esistono o divisi fra loro o divise dalla realità. In quanto sono partecipate sono le stesse che esistono per sè, e i sensibili sono in esse, frase ripetuta da Aristotele e appropriatasi quando disse: [...OMISSIS...] in quanto sono per sè (il che altro non significa se non che per essere non hanno bisogno de' sensibili, e che possono esser concepite separate da questi, come ammette pure Aristotele) esistono congiunte e tutte organate in Dio. Nè vale il dire, che l' uomo se le forma colla percezione de' sensibili, di modo che Aristotele imputa a Platone di formare le sue idee col prendere i sensibili e aggiunger loro il vocabolo «auto» (2), questo non provando menomamente, che le essenze sieno lo stesso che i sensibili, o da questi indivisibili, ma solo che la mente vede questi colle essenze copulati, in modo che ogni sensibile ha per fondamento suo la essenza colla quale è copulato; e il moto stesso, e il sensibile , ha un' essenza immobile ed insensibile per la quale e nella quale è, e si conosce (3). Poichè l' essenza del moto non è mobile, e l' essenza del corruttibile non è corruttibile: e tutte queste essenze sono per l' essenza prima (che si chiama semplicemente essenza), cioè per l' essere, che sotto di sè le contiene, senza confondersi punto con questi suoi termini, come noi li chiamiamo. Le idee in Platone dunque non rimangono divise fra loro e ciascuna come un ente da sè sussistente, senza appoggio d' altra cosa reale, ma, sia in Dio, sia nell' uomo, si trovano in un subietto sostanziale e reale; al quale non appartiene ciò che Platone dice dei sensibili e corruttibili, che sieno in perpetuo moto, senza aver nulla di consistente: quasichè dal negare che fa Platone la stabilità e verità di questi si deva dire, con Aristotele, che Platone in universale parlando ponga prime le idee, e posteriori i reali. Anzi i reali sono in Platone il sostegno delle idee, sono quelli a cui esse appartengono, e ne' quali si copulano e congiungono tra loro e diventano operative e quasi mobili, non perchè esse sieno tali, ma perchè i subietti reali in cui sono operano secondo esse, come secondo altrettante norme e misure e regole e forme. Ma di nuovo, questi reali veramente sussistenti non sono i sensibili, ma gli esseri intelligenti ed incorporei. Laonde quando distingue il genere del moto e dello stato da quello dell' essere, Platone dice, che si fa questa distinzione nell' anima , certamente intellettiva, [...OMISSIS...] e in generale descrive le essenze come quelle che colla sola intelligenza e sapienza si apprendono, [...OMISSIS...] (1), che anzi egli impugna risolutamente i Megarici (poichè pare indubitato, che a quelli alluda nel Sofista), che dividevano le idee dalle cose reali per modo che non ponevano tra le une e le altre una vera comunicazione, e dicevano, che « « la generazione (i sensibili) è partecipe della potenza d' agire e di patire, ma all' essenza non convenisse alcuna potenza di simil fatta » ». Onde l' ospite eleate nel Sofista domanda: « « se concedano che l' anima conosca, e l' essenza sia conosciuta » ». A cui Teeteto: « « L' asseriscono certo » ». Ottenuta questa risposta, dimostra l' ospite, che se conoscere è un agire, come non si può negare, dunque essere conosciuto conviene che sia patire, e però « « che l' essenza in questo modo, conoscendosi, patisca dalla cognizione, e in quanto patisce, anche si mova, il che circa una cosa stabile abbiam detto non potersi fare » » (2). La conseguenza che Platone vuol qui derivare dal conoscersi le essenze, non è certamente del tutto esatta, poichè veramente le essenze nulla patiscono dall' esser conosciute, benchè la mente agisca in conoscerle «( Rinnovam. 497 e segg.) ». Il fatto si è che l' operare dell' anima conoscente non produce altro effetto che nell' anima stessa, la quale si può dire in qualche modo che sia attiva e passiva ad un tempo, nel qual senso si potrebbe distinguere un intendimento attivo ed uno passivo, ma non in questo senso glie li dà Aristotele. Non c' è bisogno di cercare il termine passivo della sua azione fuori dell' anima. Oltre questo agire poi e patire dell' anima, c' è anche, rispetto all' oggetto conoscibile, il predicamento del ricevere «( Logic. 431) » e dopo essersi ricevuto c' è il predicamento dell' avere «( Ivi e segg.) », i quali non importano nessuna passione nell' oggetto. I Megarici dunque esageravano o mal applicavano una verità luminosa, e così cadevano nell' errore, cioè la verità dell' « impassibilità delle essenze ». Platone più forse per dimostrare quanto quella questione fosse implicata, e più per confonderli che per convincerli e dare la vera soluzione delle difficoltà, li tirava ad accordare, che l' essere conosciuto fosse patire, e quindi che patisse l' essenza conosciuta [...OMISSIS...] , e di conseguente che anche si movesse [...OMISSIS...] . Dal che deduceva non essere assurda la comunicazione delle essenze. Ma sebbene quest' ultima, cioè la comunicazione o comunione delle essenze, fosse indubitatamente opinione di Platone, tuttavia credo, che il raziocinio che qui trae dal patire non fosse che un argomento ad hominem , che poteva valere bensì co' Megarici e co' Sofisti, ma che Platone non facesse veramente patire le essenze (1). Poichè egli non insegna mai altrove che le idee o le essenze eterne patiscano o si movano, ma il contrario; e le parole che usa di comunione ( «koinonia»), di presenza ( «parusia»), e simili, non inchiudono propriamente il patire , ma solo il modo reciproco di essere , e in questo senso, secondo noi, cioè come esprimenti in qual modo sieno reciprocamente e co' reali, vanno intese l' altre espressioni, «metalambanein allelon, epikoinonein allelois, metechein», e simili, colle quali significa in più modi lo stesso concetto. La vera discrepanza dunque tra Platone ed Aristotele non consiste in questo che Aristotele faccia anteriori i reali e posteriori le idee, e Platone faccia il contrario; e Aristotele dissimula il vero e va cavillando tanto spesso, quanto spesso di questo calunnia il suo maestro. Se i successori e discepoli di Platone in questo peccassero per non aver abbracciata colla mente la dottrina del maestro in tutta la sua integrità, non mi è ben chiaro, nè forse sarà mai del tutto. Ma è chiarissimo, e la confessione stessa d' Aristotele n' è la riprova, che Platone antepone assolutamente l' atto alla potenza, e i singolari e i reali alle idee che sono il termine della loro intelligenza, ma non punto i reali corporei o i sensibili, che egli fa posteriori. E tuttavia rimane ancora una vera discrepanza tra Aristotele e Platone, e un dissidio profondo. In che dunque questo consiste? - Qui siamo obbligati di uscire, per rinvenirlo, dalla sfera della Ideologia, e questo prenderemo a fare nel libro seguente. Una diversa ideologia conduce di necessità le menti dei filosofi a una diversa Teologia e a una diversa Cosmologia, giacchè non si può speculare sui principŒ di queste ultime scienze se non traendone i primi fili da quella che dà il loro naturale iniziamento a tutte le scienze filosofiche «( Logic. 1 e segg.) ». Il che si avvera ogni qualvolta la mente ne' suoi ragionari va pel cammino naturale, e non s' accinge al filosofare colla mente imbevuta di preconcette e volgari opinioni, e queste false. Quando all' incontro, invece di cominciare dal principio della scienza, che è il lume ideale, sbalzando in mezzo ad essa quasi a caso, e più secondo le secrete propensioni del cuore umano e l' educazione ricevuta, che per via d' un limpido ragionare, l' uomo si è venuto formando cotali anticipate opinioni intorno alla divinità e alla natura del mondo: egli è condotto da questa sua Teologia e Cosmologia precoce a comporsi un' Ideologia in loro servigio. Perocchè ad ogni modo questa e quelle devono consonare e non possono rimanere nella mente umana a lungo discorsi: sia che questa preceda e somministri l' ordito di quelle, sia che precedano queste e a lor servigio co' proprŒ fili ordiscano e tessano quella. E questa diversità di metodo in procedere speculando, parmi aver data origine, chi ben considera, alla differenza delle due grandi filosofie dell' antichità, l' Aristotelica e la Platonica. Perocchè Platone incomincia dalle idee e da queste trae i primi dati ed elementi, su' quali viene argomentando e congetturando con somma sagacità ed elevatezza, quello che si deve reputare vero o verosimile intorno alla prima Causa e all' Universo; laddove Aristotele viene già provveduto d' opinioni intorno alla natura delle cose mondiali, dalle quali ascende al primo Motore; e così, fornito d' una qualunque sia dottrina cosmologica e teologica, chiama le idee a riscontro di queste, e quanto più può s' affatica per ridurle a tale condizione e natura, che a quelle sue opinioni non contraddicano, anzi ad esse umilmente servendo, via più le confermino. Da questo lato dunque considerata la questione, non dubito punto asserire che la ragione del dissidio tra i due filosofi giace nell' opinione diversa intorno l' origine del Mondo, facendolo Platone creato da Dio, e Aristotele volendolo eterno. Esponiamo dunque i due sistemi intorno a questo punto colle loro conseguenze. Platone, come abbiamo detto prima, non pone la materia eterna, ma la fa veniente da Dio, da cui pure fa venire le idee (1). Nel decimo libro della « Politeia » introduce il legnaiuolo che fa letti e mense, e osserva che egli li fa secondo una specie , e che in questa è l' essenza e la natura propria del letto o della mensa che fa, ma non fa la stessa specie e però non fa « il letto »ma « un letto ». Quello che è veramente il letto, cioè l' essenza stessa del letto, chi la fa dunque? E risponde: indubitatamente Dio (2); dimostra anche di più, che il letto che serve d' esemplare al fabbro per farne molti, non può essere che uno, col principio degl' indiscernibili (1), richiamato in vita da Leibnizio. Come poi il legnaiuolo imita e ricopia il letto fatto da Dio (l' essenza del letto), così il pittore imita e ricopia il letto fatto dal legnaiuolo: onde distingue tre letti: quello fatto da Dio, l' idea, quello del legnaiuolo, e quello del pittore (2). Se adunque Platone fa che le idee stesse, in cui ripone la natura delle cose, sieno generate o prodotte da Dio, molto più la materia. Poichè questa senza la forma, e però indefinita, non può sussistere e non è che una pura astrazione della mente (3), cosa ripetuta da Aristotele (4), giacchè, secondo Platone, non può sussistere niente d' indefinito, onde le idee stesse, sebben ciascuna inconfusibile coll' altre, non esistono se non copulate ed organate insieme, il che mostrò a lungo nel Parmenide per riguardo alla idea dell' uno , che svanisce ove si separi da tutte le altre, e di più ivi dimostra che l' uno in quanto è partecipato da ciascuna parte d' un tutto è contenuto dal tutto, ma in quanto è partecipato dal tutto insieme, pure non è solo in sè stesso, ma in altro, [...OMISSIS...] (5). Il che è detto in un modo dialettico e formale, così che si può applicare il principio a più casi. Se dunque si prende per tutto il mondo intero delle idee, certamente allude alla loro contenenza in Dio, come abbiamo detto altrove (1). E veramente nel Timeo egli pone anteriori alla formazione del cielo tre elementi, l' idea, la materia corporea non inerte ma dotata di forze, onde la chiama generazione [...OMISSIS...] , e lo spazio, nell' immensità del quale quella materia da' suoi proprŒ pesi disquilibrata era portata a caso e qua e là sbalzata (1), i quali tre elementi egli fa comparire come contemporanei, e aventi una stessa origine, cioè quella che assegna al più eccellente di questi tre elementi nel X della « Politeia », Iddio. E il dice anche a questo luogo del Timeo indirettamente e con certa riverenza, riguardando come un religioso mistero l' ultima origine delle cose. [...OMISSIS...] . Il che non direbbe se non considerasse Iddio come l' autore del tutto, e accennando all' amico di Dio, pare che alluda alle tradizioni conservate dai sacerdoti, le quali tutto facevano venire da Dio, arcano superiore all' intelligenza, e alla fede comune degli uomini. E qui s' osservi tutto l' andamento del discorso di Platone, che mi pare non bene distinto dai commentatori. Egli prima parla di tre principŒ elementari delle cose: 1 la specie; 2 la materia corporea; 3 il corpo, che è l' unione dei due primi. Questo lo chiama: « « ciò che si genera », [...OMISSIS...] ». La materia corporea: « »ciò in cui si genera » [...OMISSIS...] ». La specie: « « ciò da cui nasce assimilato quello che si genera », [...OMISSIS...] ». E paragona alla madre la materia corporea che riceve; al padre la specie da cui riceve; e alla prole la natura che ne risulta media ossia mediatrice tra esse, [...OMISSIS...] (3). Dice d' assumere questi tre soli principŒ per ora (1), dando così ad intendere che n' aggiungerà loro poscia qualche altro. Dopo aver dunque distinti questi tre principŒ elementari li riassume in due, l' uno immutabile e immobile, che sono le specie, l' altro mutabile e mobile che è la materia corporea e i corpi, che col ricevere successivamente varie forme, il che è generarsi, di essa si vanno formando. Ora l' uno e l' altro di questi due generi elementari, li dice prodotti e generati, cioè tanto le specie quanto la materia corporea, ma prodotti distinti, e in qualche modo separati, perchè dissimili, [...OMISSIS...] . Riassunti così que' tre principŒ elementari in questi due, cioè nella specie , e nella generazione (che comprende la materia e i corpi mutabili), vi aggiunge ora il terzo (che viene ad essere il quarto, se la generazione si sparte in due), cioè lo spazio , onde le entità matematiche che, secondo lui, erano immobili come le specie, ma moltiplici come i corpi (3). Con ragione dunque Goffredo Stallbaum [...OMISSIS...] sostiene, che questa appunto della Creazione fu la sentenza professata da Platone (5). E nel vero se le idee del mondo che pure contengono l' essere delle cose, sono « veri enti », o enti semplicemente (6), pure hanno per autore Iddio, come potrà ammettersi per increata quella natura, che non ha verità in se stessa, ma è mutabile apparenza, e che tende a imitare la specie, sempre da un altro, cioè dalla specie stessa, sorretta e portata, [...OMISSIS...] , e che perciò ha un' esistenza reale di necessità relativa alla specie? (7). Poichè, come dicemmo, Platone parla della materia separata solo per astrazione dalla forma; ma come esistente, egli la fa vestita di qualche forma; però cangiabile, e in questa facoltà di rimutare la forma, pone la natura della materia finita, cioè in quanto giace sotto la forma, onde dice, che « « tutte queste cose (il fuoco, l' aria e gli altri elementi) si danno reciprocamente, come appare, la generazione », «ten genesin», » che il Ficino traduce « vires fomentaque generationis ». Quest' è la materia esistente sotto la forma, ma non divisa della forma. Quando si concepisce poi divisa per astrazione dice, che « « sembra che si veda onniforme », [...OMISSIS...] », perchè non si vede veramente senza forme, essendo impossibile; onde l' immaginazione le aggiunge quasi di furto tutte le forme, di cui l' avea spogliata l' astrazione, e così si concepisce. La materia indefinita non essendo dunque, che solo concepita dalla mente, è ideale, e così può dirsi eterna e immobile, essendo le idee nate dal pensiero divino ab aeterno (1). Ma la materia definita è reale, e come quella si chiama immobile al par delle idee, così questa si move, chiamandola Platone « « simulacro che soggiace a ogni natura, agitata e figurata dalle (specie) ingredienti »(2) ». Avendo dunque Platone concepita la materia corporea indefinita come un' idea o essenza generica, ne parlò come fosse una (benchè virtualmente avesse il numero ne' suoi visceri), il che diede occasione ad Aristotele di redarguirlo. Poichè non ammettendo Aristotele idee separate dalle cose corporee (benchè poi ammettesse egli stesso le prime idee, [...OMISSIS...] , nella mente separate dai corporei e dai fantasmi), considerò la materia come definita, e quindi sostenne che tante erano le materie quanti i corpi, cosa che Platone non gli avrebbe negato; mostrandogli in quella vece che quelle materie, non differendo nè di specie, nè di genere, non potevano avere che natura di parti d' una sola materia specifica. Il nome dunque, che Platone dà a Dio di «phyturgos», piantatore, o autore della natura, ha virtù d' esprimere la creazione, così appunto spiegandolo Platone, come indicante che Iddio « « fa in natura e questo » » (il letto per essenza) « « e tutte l' altre cose » » dove «alla panta» abbraccia tutta la materia informata (1). Laonde prima avea detto chiaramente, che « « dal Bene (cioè da Dio) a quelle cose che si conoscono, non solo avviene il poter essere conosciute, ma di più da quello prendono l' essere e l' essenza, quand' egli non è l' essenza, ma è più su dell' essenza, superando questa in dignità e potenza » » (2). Dove chiaramente è distinta la conoscibilità delle cose, «to gignoskesthai» dall' essere, «to einai», e dall' essenza, «ten usian», delle cose, e tutti e tre questi elementi si dicono provenire da Dio che è il bene stesso, a tutte le cose superiore. Ora da questi tre elementi nulla si può escludere, nè pure certamente la materia, che ad ogni natura soggiace, foggiandosi a modo di simulacro, [...OMISSIS...] . Poichè se ogni natura risulta da que' tre elementi: 1 la conoscibilità; 2 l' essenza; 3 l' essere; e se ad ogni natura soggiace la materia, e la sua propria condizione è questa di soggiacere, per fermo essa da que' tre elementi non si può in alcun modo dividere. Convien dunque dire che, secondo Platone, Iddio creò la materia corporea coll' idea e nell' idea, e che, se ne parlò prima come d' un elemento da sè indefinito, ciò non facesse che per un processo dialettico, pel quale distinguendosi le cose per considerarle meglio nelle loro distinzioni, non si lasciano però divise, ma poi si riuniscono. Ed è da considerare i vestigi che sono nell' animo umano d' una doppia potenza, l' una che si riferisce alle idee, l' altra alla materia; dalla quale doppia potenza, che in noi stessi osserviamo, possiamo salire per analogia a Dio, e vedere come l' atto suo può abbracciare le idee e la corporea materia, e in generale ogni realità. Poichè l' uomo ha: 1 il potere d' intuire le idee, poniamo l' idea della casa, anzi la specie piena (facoltà d' intuire le idee); 2 il potere altresì di porla e affermarla sussistente, mediante una certa virtù imaginativa della mente (facoltà di pensare individui reali possibili; la quale s' inchiude nella facoltà del verbo) «( Ideol. 531 7 554) ». Ora questo secondo potere è il vestigio appunto di quel potere che ha Dio di creare. Poichè come l' uomo imaginando e affermando si pone avanti un simulacro d' individuo reale possibile, così Iddio con un atto analogo lo fa essere (1). Ma come l' uomo non potrebbe pensare un individuo sussistente possibile, se non ne intuisse la specie, così Iddio creando, pone colla materia la specie nella materia che crea, o per meglio dire figura la materia sul tipo della specie e ne fa un simulacro di questa. L' atto dunque col quale Iddio crea la natura sussistente, le cui parti poscia coordina e armonicamente dispone, non è già una semplice intuizione, ma, quasi direi, un atto efficace d' immaginazione ed affermazione divina: non è come nell' uomo l' intuizione delle specie, un ricevere, ma un fare collo stesso esser suo. Ora a quest' altezza non giunge Aristotele. Quantunque egli sia costretto dalla forza del suo ingegno a riconoscere, che l' essere delle cose non è punto sensibile, tuttavia non sa punto slegarsi da' sensi, che sono pania alle sue ali, onde contraddizioni per tutto e, diviso in due, ora sembra innalzarsi alle cose più spirituali e immateriali, ora nella materia ricade. E` sempre il sensibile da cui parte, e la prima ragione su cui fonda il raziocinio è il testimonio de' sensi anche dove questi, secondo la sua stessa dottrina dialettica, non possono avere alcuna autorità. Così a impugnare la Creazione del Mondo ricorrendo al testimonio della vista, induce che il movimento circolare de' cieli sia naturale in essi ed eterno, perchè si vedono mover sempre (2). L' argomento è manifestamente indegno di un tanto filosofo. Con simili ragioni toglie a provare contro Platone (3), che il moto e il tempo non ha mai cominciato (4) e sembra che non sappia concepire nè pure la stessa divinità fuori di luogo (5) e del tutto inestesa, non perchè non s' accorga che la mente non può ammettere estensione di sorta, chè questo bene il vede (1), ma perchè pare che la mente stessa deva risiedere in qualche corpo e non possa pura e sola sussistere. Onde recando i diversi significati della parola «usia» pone per primo che significhi « « i corpi semplici, come la terra, il fuoco, ecc.. »(2) ». Indi molte dottrine rimangono in Aristotele sospese quasi in aria, senza alcuna ragion sufficiente, come ad esempio, quella dell' unità del Mondo argomentata dall' esser egli composto di tutta quanta è la materia (1). Nella dottrina di Platone, ricevendo la materia da Dio l' esistenza, si trova la ragion sufficiente, per la quale sia tanta e non più: chè la volontà del Creatore le assegnò una misura proporzionata a quell' ideale organico del mondo da lui concepito secondo la perfezione che dovea in sè realizzare; ma ad una materia esistente per sè ed eterna chi può assegnare una misura? Onde non rimane più un perchè essa deva essere piuttosto tanta che tanta, o perchè al bisogno di questo mondo non ne sopravanzi una porzione, sia che altri mondi se ne compongano, o sia che disordinata si rimuova in un caos a guisa di materia nebulosa. Ma torniamo a Platone. L' idea suprema pel gran filosofo è « l' idea del bene ». Non si creda che quest' idea sia per Platone interamente diversa da quella dell' ente, che è da lui chiamato « « il massimo e precipuo e primo »(2) ». Ma poichè l' ente si può prendere secondo un concetto indeterminato e formale, secondo il quale tutti gli altri concetti a lui si copulano (3), non essendo egli che l' essere possibile, o potenziale, come Platone stesso lo definisce (4), e si può prendere nel suo atto da ogni parte compiuto, perciò Platone a quest' ultimo riserva il nome di bene (5). Ma il bene stesso, attesa la limitazione della nostra mente e i diversi modi dell' umano pensare, duplica il suo concetto. E però Platone distingue il Bene [...OMISSIS...] dal Figlio del Bene [...OMISSIS...] . Questo Figlio del Bene lo chiama « «similissimo al Bene » [...OMISSIS...] , ed è il lume dell' umana intelligenza, il lume di Dio segnato nell' anima umana, il qual lume perciò Platone lo distingue sapientemente da Dio stesso, e nol confonde punto con lui; come faceva, e in vano l' attribuiva a Platone, un recente scrittore di gran nome in Italia, che a noi s' oppose da principio con grand' impeto per quest' appunto, ma finì poi coll' esserci non concorde, ma benevolo (1). Platone dunque paragona il Bene, cioè Dio, al Sole, il lume della ragione umana al lume appunto del Sole, che s' imprime nell' occhio e si sparge ad un tempo su tutti i corpi, che, riflettendolo (2) all' occhio, si rendono per esso visibili. [...OMISSIS...] Il lume dunque, che viene da Dio al mondo, è ciò che Platone chiama il Figliuolo del Bene, cioè di Dio, e dice, che è generato analogo a Dio stesso [...OMISSIS...] , cioè simile per via di proporzione, e spiega questa proporzione così. Il Bene è in luogo intelligibile [...OMISSIS...] , il Figliuolo del Bene è in luogo visibile [...OMISSIS...] : quello nel luogo intelligibile sta alla mente e alle cose intelligibili [...OMISSIS...] , come questo nel visibile sta al vedere e alle cose visibili [...OMISSIS...] , il che viene a dire, che come dal Bene, cioè da Dio, viene il lume alla mente, e quindi la virtù intellettiva, e vengono le idee che sono le cose intelligibili; così da questo lume ricevuto dalla mente, accompagnato dalle idee, viene al senso (1) e alle cose sensibili l' essere conosciute e conoscibili. Le cose dunque che cadono sotto i sensi corporei ricevono la loro conoscibilità dal lume della ragione e dalle idee, ossia dall' essere indeterminato presente alla mente e avente in sè tutte le altre idee: ma questo lume e queste idee vengono, secondo Platone, da Dio stesso, salvo che egli non conobbe, come sembra, in che modo tutte le idee si riducano a quella prima, che è il lume, e in essa s' acchiudano virtualmente, e da essa escano all' occasione delle sensazioni, e altre operazioni dello spirito «( Ideol. 229, 230) ». Conviene di più che osserviamo come Platone pei sensibili che rimangono illuminati dal Figlio del Bene, cioè dal lume della mente, non intende solamente i corpi, ma tutto ciò che è sensibile, come le azioni, alle quali pure attribuisce la sua essenza e natura immobile, e la partecipazione d' altre essenze, come della giustizia e della bellezza (2). Onde definendo ciò che intende per intelligibile e per visibile così s' esprime: [...OMISSIS...] . Le azioni singole adunque appartengono alle cose visibili; ma l' idea del giusto e del bello alle intelligibili. Ma quest' idee, che costituiscono il Figlio del Bene, sono quelle che rendono intelligibili le singole azioni visibili, e che le fanno conoscere come buone e belle. Quando dunque Platone nomina « « molti belli e molti buoni » » [...OMISSIS...] , devonsi intendere quest' espressioni in senso diviso «( Logic. 373) », cioè per azioni, che poi dalla mente, che aggiunge loro l' idea del buono e del bello, ricevono la denominazione di buone e di belle (4); e quest' è la funzione, che il Figlio del Bene, cioè il lume della mente, esercita rispetto alle cose visibili in un modo proporzionale a quello che il Bene esercita colla mente, alla quale dà il lume e le idee, ossia gl' intelligibili puri. C' è dunque nell' uomo la virtù intellettiva, intendendosi anche questo in senso diviso, cioè come un principio subiettivo capace d' acquistare la detta virtù (1); ci sono le cose reali atte a divenire intelligibili: c' è il Bene, che come Sole manda il suo lume (suo Figliuolo) nelle menti, e con esso gl' intelligibili , cioè le idee pure (come «auto kalon auto agathon» ecc..): questo Figliuolo (lume7idee) produce ad un tempo due effetti: 1 dà al principio subiettivo la virtù e l' atto d' intendere; 2 e dà ai reali la facoltà d' essere intesi, li rende attualmente intelligibili. Con acconcissima similitudine adunque si può paragonare questo lume naturale delle menti ad un giogo che aggioga la mente e le cose reali, cose senza di lui disunite, e aggiogandole le fa essere. Onde Platone usando della similitudine del Sole materiale e delle cose visibili agli occhi, dice appunto: [...OMISSIS...] . E la parola idea che qui ad arte usa Platone, parlando del lume sensibile, si riferisce all' intelligibile, onde, senza dubbio il lume delle menti per Platone è una prima idea, quella che egli chiama massima, e precipua, e prima di tutte, l' idea dell' ente. Ma è necessario che noi vediamo come, secondo la mente di Platone, tutte le cose si derivano dal Bene. Il Bene dunque è l' essere assoluto, la cui più alta denominazione è quella di Bene (3). Questo colla sua propria energia produce in sè le idee del Mondo: in queste idee si contiene l' essere del Mondo. Tra queste idee ci sono quelle dell' anime finite. Il Bene che colla facoltà intuitiva vede l' anima nel suo essere ideale, ad un tempo, colla facoltà che chiameremo, benchè impropriamente, dell' immaginazione e affermazione divina, la realizza, la pone a se stessa, fa che l' essere dell' anima, che è nell' idea, acquisti una relazione a sè stesso, sia a sè stesso (4). Ora l' anima è vita, sentimento. Questo sentimento è suscettivo come di due impronte, l' una è quella del Bene stesso, e quest' impronta del Bene è il lume intellettivo, la cognizione e la verità, che da Platone si dicono non essere il Bene, ma suo Figlio, e boniforme , [...OMISSIS...] (1), ossia una specie impressa del Bene. L' altra impronta è quella del sensibile corporeo; perocchè i corpi sensibili sono, secondo Platone, de' fenomeni, che appariscono al sentimento dell' anima, e che imitano e si conformano alle idee, che trovano nell' anima stessa, onde come l' anima riceve le idee da Dio, e così s' informa ella stessa, così essa dà le idee al proprio sentimento inferiore, quasi in esso improntandole. E come il Bene improntato nell' anima non è il Bene, ma una sua partecipazione e similitudine, così l' impressione delle idee nel sentimento inferiore dell' anima non sono le idee stesse, ma un cotal simulacro delle idee, ed è perciò che i corpi formati dice che sono «homonyma» (2) alle idee, cioè riceventi lo stesso nome, ma differenti di natura, di che Aristotele lo riprende (3), come se con ciò facesse dell' idea e della cosa due sostanze. Così dunque nel sistema di Platone tutto ciò che è nel mondo viene da Dio e tutto è connesso. Che se in descrivendo la produzione delle cose mondiali le divide, e prima descrive la formazione dell' anima, poi quella dei corpi, questo fa per ragione di metodo e per la priorità logica, ovvero di eccellenza, non perchè ammetta veramente una separazione tra i mondiali principŒ. Le quali cose conviene che noi confortiamo di qualche autorità. E prima è necessario dire una parola sulla questione più sopra toccata e tant' agitata tra' più recenti eruditi della Germania « Se il Dio di Platone sia il Bene o l' Idea del Bene ». La quale noi crediamo potersi agevolmente comporre, purchè si chiarisca il senso della idea platonica. Due proprietà ha quest' idea: 1 che è l' essere delle cose; 2 che quest' essere è oggettivo, cioè per sè intelligibile; e talora, usando il vocabolo Idea, Platone abbraccia in esso le due proprietà, talora lo prende a significare una sola di esse, e specialmente la seconda, cioè « l' essere della cosa in quanto è intelligibile ». Ora le cose si distinguono in due classi. Alcune non sono altro che l' essere stesso [...OMISSIS...] ; altre sono un' immagine o simulacro dell' essere [...OMISSIS...] . Queste ultime sono i corpi, e, almeno in parte, tutti i reali finiti. Ora le cose che non sono essere, ma simulacri di essere, non possono stare da sè sole, perchè hanno una esistenza relativa all' essere, ma sono per l' essere, e pure per l' essere, di fronte al quale sempre si pongono, sono conoscibili; onde dall' essere hanno la conoscibilità, [...OMISSIS...] , l' esistenza, [...OMISSIS...] , e l' essenza [...OMISSIS...] . Quindi avviene che le prime cose che sono essere, abbiano una unicità d' esistenza, l' altre che sono simulacri, abbiano una duplicità nella loro esistenza: nelle prime adunque non si può distinguere un' esistenza diversa dall' Idea, perchè l' idea è l' essere, e questo per sè intelligibile; ma nelle seconde altro è l' esistenza, che hanno come idea o essere, altro quella che hanno come simulacri o fenomeni, la quale può anche cessare, ed anzi cessa di continuo ne' sensibili, che mai non sono, sempre si fanno, perchè continuamente fluiscono. Di tutti adunque i noumeni , cioè di tutte le cose che sono essere e per sè intelligibili, il primo e massimo è Dio, ossia il Bene. L' Idea dunque del bene non è nè può essere nel pieno suo significato cosa diversa dal Bene stesso, e però ogni qualvolta si prende da Platone l' Idea in questo senso, distinta dalla specie partecipata , che è diversa dal Bene, ed è la scienza e la verità «agathoeide», egli usa indifferentemente Bene e Idea del Bene, a significare veramente la stessa cosa, cioè il Bene essenziale (1). Onde facilmente quella discrepanza d' opinioni così si compone. Vediamo ora qual sia la dottrina platonica intorno all' Essere assoluto, che egli chiama massima: riconosce in prima che essa eccede l' umana intelligenza, e non vi si accosta che con gran riverenza, toccandola sempre alla sfuggita, e protestando di riconoscerla d' una sublimità inarrivabile. Parla Socrate nel Fedone di quelli che nè investigano quella potenza per la quale l' Universo è così ottimamente disposto, nè reputano aver essa una cotal forza divina, ma si contentano meglio d' immaginare Atlante che porta il mondo, e « « non reputano punto che veramente il Bene e il Decente congiunga e contenga » » tutte le cose (1). [...OMISSIS...] . Non trovando dunque Platone alcun maestro tra gli uomini che gl' insegnasse a conoscere Iddio, ragione del Mondo; e non sapendo in che modo contemplarlo direttamente, perchè chiuso in un abisso di luce, tentò la seconda navigazione, [...OMISSIS...] secondo il greco proverbio. Ed ecco la vera ragione dello aver Platone ridotta la filosofia alla Dialettica (4). Nella quale vide che si potevano stabilire delle ferme basi su cui ragionare, e spiega tosto la via che tiene in tutto il suo filosofare. Suppone a tutti i ragionamenti una ragione che giudica validissima [...OMISSIS...] , e poi quelle cose che ad essa consonano ha per cose vere, quelle che ad essa ripugnano per cose false. Ora qual è questa ragione? Ella è la causa formale e finale, perchè questa seconda viene dalla prima nella filosofia di Platone. Il quale ragiona così: Se si domanda perchè una data cosa abbia una data qualità, per esempio perchè sia bella, si può rispondere in due modi, l' uno semplice ed innegabile, così: « perchè ha la bellezza »; l' altro soggetto a investigazioni difficili e controverse, così: « perchè ha un colore florido, una figura o altra tal cosa ». Ora, dice, benchè la prima risposta paia forse rozza (1), pure mi attengo per intanto a quella. Poichè il resto non oserei affermarlo così subito; ma « « che tutte le cose belle si fanno tali pel bello, il risponder questo e a me stesso e agli altri, mi sembra sicurissimo, e, fermo su di questo fondamento, stimo di non poter mai cadere » ». Non potendosi questo negar da nessuno, perchè evidente, questa è la ragione validissima [...OMISSIS...] su cui, come sopra un fondamento inconcusso, toglie a edificare la sua filosofia. Poichè dimostra, che il bello, pel quale sono belle le cose che così si dicono, non è le cose stesse: oltre le cose dunque, c' è qualche altro elemento, di cui le cose partecipano per esser quello che sono, ed esser così denominate come si denominano, e questo elemento, nell' esempio addotto, è il bello stesso, pel quale le cose si dicono e sono belle. Quest' è quello che Platone chiama l' idea. Non rimane dunque che a considerare la natura delle idee, e vedere ciò che alle idee si confà, o che ad esse ripugna, per trovare ciò che è vero, o non è. Ora lo studio della natura delle idee, causa prossima, per la quale le cose sono quello che sono, conduce a conoscere: 1 che tra le idee non cade e non può cadere alcuna contraddizione; 2 che quindi alcune di esse si collegano ad unità, altre non si possono collegare, quando s' incontrerebbe, collegandole, una contraddizione (2). E questo studio del collegamento e della opposizione delle idee è appunto quello che il filosofo chiama dialettica , a cui di conseguente tutta si richiama la filosofia. Essendo dunque le idee tra loro per natura aggruppate (e la dialettica è quella che cerca di conoscere questi gruppi e li analizza), non è maraviglia, che anche nelle cose sensibili e corporee, che ne sono il simulacro, si vedano aggruppate, e però non si sa intendere, come alla presenza d' una tale dottrina Aristotele potesse credere, che fosse un' obbiezione contro le idee del suo maestro, che « « una cosa stessa partecipasse di più idee, quasi di più esemplari » » (3). Se non che egli abusa della parola esemplare, «paradeigma», giacchè, a propriamente parlare, d' una cosa reale non c' è che un esemplare solo, e questo non è un' idea separata, ma il gruppo di quelle idee che la rappresenta e per il quale s' intende, che noi chiamiamo specie piena, avendo quel gruppo una perfetta unità per l' unico subietto, che è l' idea fondamentale, a cui sono congiunte organicamente le altre. Che anzi, a propriamente parlare, Platone non ammette che un Esemplare unico risultante dal perfetto organismo di tutte le idee, l' Esemplare voglio dire dell' Universo, di cui gli altri sono parti, e non diversi esemplari (1). E non è egli strano al sommo che Aristotele dissimuli tutto questo? Veduta dunque la via per la quale procede Platone, cioè per ragioni ed idee, e tenuto conto della sua dichiarazione, che non intende con ciò di dare la scienza compiuta della prima divina causa, che immediatamente non si percepisce, ma di parlare intorno ad essa secondo buone ragioni, e vere singolarmente prese, ma che conducono a conoscerla piuttosto per analogia , che per la propria essenza: vediamo come si venga componendo per idee e ragioni la dottrina del sommo essere. Primieramente egli pone che l' Essere sia la massima e precipua e prima idea, e che tutti gli altri generi privi di lui non sarebbero: l' essere stesso dunque è per sè essere, perchè questa è la sua essenza, ma l' altre cose hanno l' esistenza da lui (2). Ma egli stesso l' Essere per sè non potrebbe concepirsi se non avesse in sè altro che essere, cioè essere indeterminato, uno puramente senz' alcuna pluralità (3). E` da notarsi che la pluralità di concetti, che Platone vuol distinguere nell' uno esistente nasce dall' indicato metodo di procedere per via di ragioni , le quali danno necessariamente una pluralità, anche dove non ci potrebbe essere, e però una cognizione imperfetta, ma l' unica che possa aver l' uomo, secondo Platone (4). Conviene però osservare, che se l' essere è essere per sè perchè è l' idea, l' essenza dell' essere; anche quelle cose che noi, discorrendo per via di ragioni , come l' unica che ci resti, troviamo necessarie perchè esso sia, sono per la stessa necessità dell' essere, essendo a lui essenziali costitutivi, di che s' induce che sono puro essere esse stesse, e però che non pongono in lui che una pluralità apparente, nascente dal nostro modo di concepire per via di ragioni. Il che non so se espressamente dica in alcun luogo Platone, ma è logicamente coerente al principio. Vediamo dunque che cosa deva avere l' essere per sè, ossia l' idea dell' essere, acciocchè esista, cioè sia veramente essere. Egli è chiaro, che deve avere in sè tutto ciò che è veramente essere, perchè all' essere non può mancare, essendo perfettamente uno e semplice, nessuna porzione dell' essere: dee dunque aver tutte le idee, poichè, come abbiamo veduto, sotto il nome d' idee Platone intende l' essere stesso delle cose, non le loro similitudini, imagini ed ombre. Il che intende quando nel « Fedro » dice, che « « Dio è divino, perchè è colle idee » » (1). Infatti contenendo le idee lo stesso essere obbiettivo, Iddio non sarebbe Dio, se non avesse, in qualche modo, tutte le idee, cioè ogni porzione dell' essere; e dico in qualche modo, perchè niente vieta che egli le abbia non già in un modo confuso e indeterminato, ma indistinte tra loro, onde poi distinguendole all' occasione di creare il mondo, si dicono da lui create, come nel X della « Politeia », benchè io intenda questo delle sole idee del mondo, e non delle prime idee, che non sono tipi del mondo, come verrà forse altrove occasione di dire. Il che stabilito, s' intenderà come Platone ponga come sentenza indubitata e di verità universale, che « « la mente non possa concepirsi esistere senza un' anima » » (2). Il che non intende già affermare delle menti create, ma assolutamente, con questa avvertenza però che l' anima che egli attribuisce alla mente essenziale, cioè a Dio, è l' idea dell' anima, ossia l' essenza, l' essere stesso dell' anima, non una sua partecipazione o similitudine. Onde dice nel « Sofista »: [...OMISSIS...] ; dove è d' avvertire che il moto, secondo l' uso di Platone, si prende per azione in genere, senza che involga di necessità il concetto di passaggio o di successione. Ora qual è questo moto, questa vita, quest' anima, questa prudenza, che si dee manifestamente trovare appo l' Ente completo e assoluto? Certo le idee di tutte queste cose, non già le loro immagini o le loro ombre, ma lo stesso loro essere, lo stesso moto, vita, anima, prudenza essenziale. Onde in appresso dimostra che l' essere dello stato e del moto non è nè stato nè moto, ma cosa ad essi superiore, sotto il quale tuttavia il moto e lo stato si contengono (1). Così Platone ascende a riconoscere colla gran forza del suo ingegno eminentemente speculativo, che tutte le cose hanno un primitivo e originale loro essere, un essere oggettivo eterno, necessario all' essere stesso, senza la qual ricchezza interiore l' essere stesso non potrebbe essere. Questa dottrina è costante in Platone. Nel « Filebo » pronuncia pure la sentenza che « « la sapienza e la mente non sono mai senza l' anima » » (2). E quindi trae che « « nella natura dello stesso Giove alberga un' anima regia ed una regia mente, a cagione della potenza della causa » » che è in lui, parole che sembrano fatte a posta per ribattere l' obbiezione che Aristotele fa a Platone, quando gli rimprovera così spesso che colle sue idee non può spiegare il movimento; quand' anzi Platone appunto per ispiegare come Dio possa essere causa delle cose, [...OMISSIS...] , gli dà un' anima, cioè un sentimento sostanziale, principio d' ogni energia. Nè conviene intendere che quest' anima sia un' anima partecipata, ma lo stesso essere dell' anima, il genere sussistente, non già il genere in sè stesso indeterminato, come quello che noi concepiamo raccogliendolo per astrazione dalle diverse specie di anime, ma per sè determinato intrinsecamente. Laonde io stimo che quest' anima di Dio sia diversa da quella creata e partecipata che Platone dà al mondo. Poichè di questa descrive la generazione nel « Timeo », laddove Iddio è la causa generante, e acciocchè possa esser causa deve avere già l' anima, come leggiamo nel « Filebo ». Si distingue oltre a ciò nel « Timeo » l' esemplare del mondo dal mondo : quello è formato dalle idee che Iddio produsse in se stesso organate a maravigliosa unità come richiedeva la bontà del Creatore. Ora dovendo il mondo essere la copia di quest' ottimo esemplare, conveniva che in questo esemplare ci fosse l' idea non meno dell' anima che del corpo del mondo, e che quindi il mondo fosse costituito d' anima e di corpo perchè nell' esemplare c' era l' una e l' altra idea connessa insieme. L' anima del mondo dunque non è l' anima che c' è nell' esemplare, ma una copia o imitazione di essa: [...OMISSIS...] . L' anima adunque dell' esemplare non è l' anima del mondo, ma quella da cui fu ricopiata. Ma Iddio che fece e l' esemplare e il mondo dovea avere l' anima sua propria, acciocchè potesse esser causa. Nondimeno la difficoltà della materia e l' oscurità o piuttosto la sublimità del linguaggio fece credere il contrario a molti dotti, e ciò perchè fa Iddio presente a tutto il mondo e dappertutto inesistente. Ma ecco come questo si spiega. Stabilito che l' esemplare, essendo quel complesso d' idee, che pensò Iddio per formare il mondo, è in Dio ed appartiene a Dio, benchè da Dio si distingua «kata logus», e distinto così l' esemplare dal mondo ricopiato su di esso; questo esemplare stesso si vede tuttavia nel mondo, poichè la mente dai vestigŒ o similitudini di esso, raccolte pe' sensi, ascende al mondo eterno, come Platone ha spiegato nel « Fedro », attesa la reminiscenza delle cose colà vedute dalle nostre anime (2). Così deve intendersi quello che dice nel « Filebo » che la causa [...OMISSIS...] inesiste in tutte le cose (3) pe' suoi effetti e vestigi, perchè ella presta a noi, e ad alcune altre cose che sono quaggiù in terra presso di noi, l' anima e la via d' esercitare il corpo sano e, infermo, restituirlo alla salute, e in altre cose pone e ristaura altri pregi, dal che acquista il nome d' « « universale e omnimoda sapienza » », [...OMISSIS...] , che è appunto quella che contiene l' Esemplare; di che argomenta che la sapienza della Causa molto più si dee essere avvisata di dare anche alle maggiori parti del mondo, che sono le celesti, e al mondo tutto l' anima, « « la bellissima e venerabilissima delle nature » », [...OMISSIS...] (4). E l' anima si chiama appunto la bellissima e venerabilissima natura, perchè è suscettiva d' avere le idee, e così la sapienza. Ma altro è l' anima, altro la sapienza, e altro le idee; poichè queste ultime non possono essere senza l' anima, cioè senza il principio subiettivo che avendole diventa sapiente. Laonde dice che soprastando la Causa ai due elementi del mondo, l' indefinito e il fine, li congiunge e congiungendoli li adorna e dispone, e per questi effetti si chiama giustamente mente e sapienza, [...OMISSIS...] . Di che deduce che anche Giove come causa suprema, [...OMISSIS...] , dee aver un' anima e una mente regale e che proporzionatamente sia da dirsi lo stesso dell' altre cause che a quella somma s' avvicinano, cioè degli astri (2). Il che, dice, conferma l' antica sentenza (alludendo principalmente ad Anassagora), che a tutto l' universo impera mai sempre la Mente, [...OMISSIS...] . Di che conchiude che « « la mente è prole della Causa di tutte le cose » » (3) e ciò certamente per quella ragione appunto, che è nel X della « Repubblica », che Iddio produce di sè le idee e così la sapienza. Conviene dunque distinguere l' anima e la sapienza dalla causa, e in questa sapienza l' Esemplare dall' effetto che è l' Universo, nel quale ci sono i vestigi dell' esemplare e c' è l' anima somministrata dalla Causa, e però diversa da quella propria della causa. Questa non può esser causa se non ha l' anima in cui sta la forza causale e le idee, cioè l' Esemplare, e la sapienza che da quest' idee risulta all' anima: e questa causa sta sopra all' altre cose, [...OMISSIS...] , e le adorna e dispone, [...OMISSIS...] , e sempre impera al tutto, [...OMISSIS...] ed è quella che presta l' anima alle cose animate di quaggiù [...OMISSIS...] , e ugualmente alle cose che sono in tutto il cielo, [...OMISSIS...] : onde rimane sempre distinta la causa dall' effetto; e se le anime nostre raccolgono i vestigi della sapienza sparsi nel mondo, non è che questi vestigi sieno le stesse idee che stanno nella sapienza e nell' anima della causa, ma è perchè le anime nostre prima di venire nel corpo hanno riguardato nell' Esemplare del Mondo qual è nella prima causa, e ora si ricordano di quello che hanno veduto a cagione delle similitudini di cui è abbellito l' Universo. Anche nel Cratilo Giove è detto « « il principe e il re di tutte le cose »; e « ch' esso sia la causa del vivere a noi e a tutte l' altre cose » » (1). Questa causa è l' Esemplare del Mondo vivente e operante, come avente la sua sede in una regia anima e mente. Ora si dice questo Giove dirsi figliuolo di Saturno per indicare che « « egli è prole d' un qualche gran pensiero » » (2), che è certamente quello con cui il Bene ossia Iddio produsse l' idee del Mondo quando s' accinse a crearlo (3). Attribuisce al padre di Giove « « la purità e la sincera integrità della mente » » (4), perchè nell' Esemplare non ci sono che pure idee scevre da ogni concrezione e realità. Iddio adunque è l' Essere, e questo perfetto, [...OMISSIS...] , e perciò è il Bene. Nelle idee c' è l' essenza, l' essere. Ma si devono distinguere due classi d' idee, appunto perchè l' essere si concepisce in due modi. Si concepisce un essere assoluto e un essere relativo. L' essere assoluto è in sè ultimato e non ne richiama alcun altro: quest' è a ragion d' esempio « l' idea del Bene »e tutte quelle idee che contengono le qualità di Dio, come la sapienza, la giustizia, la potenza, la vita, ecc., queste non possono mai mancare all' Essere, al Bene, a Dio, perchè lo costituiscono (5), e in parte corrispondono ai «ta prota noemata» d' Aristotele (6). Per questo mostra nel « Parmenide », che l' uno puro d' ogni altra cosa non può stare, e nel « Filebo » dice la Mente cognata colla Causa e dello stesso genere (7), e nel « Sofista » che al compiuto ente, [...OMISSIS...] , non può mai mancare l' attività, la vita, l' anima, la sapienza; ma per distinguere queste cose, quali sono nell' Ente assoluto, a diversità del modo in cui sono nel mondo, usa delle parole «alethos kinesin k. t. l.», e appresso dice che sono «os onta» (.). L' atto poi con cui è l' essere, e queste idee a lui essenziali, sembra un atto d' intelligenza, quella «megale dianoia» di cui nel Cratilo dice che Giove sia figlio, «ekgonos» (9). Così Iddio è tutto idea , ma non come prendiamo noi questa parola, cioè come la notizia della cosa separata dalla cosa, ma come avente valore di « essere », e di « essere per sè intelligibile », onde Iddio è puro essere e medesimamente è puro intelligibile e quindi di necessità intelligente, la «nus» stessa d' Aristotele (1); ma essendo Essere perfetto, ossia Bene, e non potendolo noi conoscere immediatamente, nè trovando Platone, come avrebbe desiderato, qualche maestro che avendolo veduto gliel' avesse rivelato, se ne compose il concetto per via di ragioni (2) e così fu obbligato a comporre questo concetto d' un certo numero d' idee organate, a quella prima dell' essere congiunte, benchè Iddio in sè sia semplicissimo e superiore alla verità ed alla cognizione umana ed all' essenza delle cose mondiali (3). Ma oltre queste idee che compongono, secondo le ragioni della mente umana, Dio, ci sono delle altre idee relative alle cose mondiali, che contengono l' essere e l' essenza di queste, non essendo le cose mondiali che un' imitazione dell' essere, una similitudine, un cotal simulacro, e non l' essere stesso. Il proprio essere oggettivo e vero l' hanno in Dio. Tutte queste idee dunque relative al Mondo sono quelle che costituiscono l' Esemplare del mondo, da Dio in se stesso col suo pensiero prodotto, quando volle creare il Mondo, ma non quelle che contengono l' essere stesso di Dio, il quale perciò è chiamato da Platone « « l' ottimo di tutti gli intelligibili che sempre sono » » (4), distinguendo così tra gl' intelligibili quelli che contengono l' essenza divina, da quelli che contengono l' essenza mondiale, ossia l' Esemplare. Nè pure è da credere che questo Esemplare, benchè sempiterno, sia stato prodotto con un atto di pensiero divino diverso da quello con cui creò il Mondo, ma con lo stesso atto fece essere l' uno in sè e creò l' altro fuori di sè, non essendo un tal atto del pensiero divino una semplice intuizione de' possibili, ma ad un tempo un atto di quella immaginazione e affermazione divina con cui Iddio pensando gli esistenti, li pone. Onde Platone descrive Iddio creante, dicendo, che « « facendo egli uso dell' esemplare effettua l' idea e la forza » » cioè ad un tempo fa uscire in opera la forma e la materia o natura reale della cosa, [...OMISSIS...] . La ragione della creazione del mondo è, dice Platone, l' essenziale bontà di Dio. Laonde volle che il mondo fosse, per quanto esser potesse, a sè similissimo. L' Esemplare dunque dovea essere sempiterno e contenere un contemperamento armonico di tutte le nature, dalle più eccellenti alle inferiori. L' ultima possibile delle nature, la materia corporea, non è di natura sua ordinata. Conveniva dunque che ricevesse un ordine. Ma se non ci fosse un' intelligenza che intendesse quest' ordine, era inutile ordinar la materia; un tutto in tal caso, comunque ordinato, non sarebbe stato migliore di un altro tutto. Era dunque necessaria un' intelligenza, e questa non potendo stare da sè, dovea avere un' anima in cui fosse. Il mondo dunque dovea risultare d' intelligenza, d' anima e di sentimento e di corpi ordinati; queste tre cose o piuttosto due (perchè l' anima è quella che ha l' intelligenza) congiunte insieme lo formavano « « un animale intelligente costituito dalla divina provvidenza »(1) ». L' Esemplare dunque è quest' animale nel suo essere oggettivo e sempiterno [...OMISSIS...] , il Mondo in verità, [...OMISSIS...] , l' essere, l' essenza stessa del mondo. Il mondo reale poi è quest' animale stesso nella sua copia od effigie [...OMISSIS...] . Dal che si vede che il mondo reale, anima e corpo, e noi stessi, anima e corpo, siamo, secondo Platone, al tutto distinti dall' eterno divino esemplare, e molto più da Dio stesso che lo vide. Secondo l' ordine logico, l' ordine di eccellenza, e anche, secondo Platone, cronologico, l' Anima del Mondo dovette esser creata prima. Essa è una specie di sostanza, media tra quella che è sempre la medesima e quella che è sempre un' altra , e lega in sè stessa queste due specie. [...OMISSIS...] . Questa descrizione dell' anima risultante da tre elementi ha una singolare analogia con quello che noi, non pensando a Platone, ma riguardando la stessa natura dell' anima, n' abbiamo detto negli « Antropologici » o sussistente avente due termini, semplice l' uno, esteso l' altro, di maniera che abbracciandosi essa quindi a ciò che è eterno, quinci a ciò che è temporaneo, mediatrice degli estremi, congiunge in sè le opposte nature. La sostanza dunque media di Platone, su cui tanto fu disputato, altro non è che il subietto stesso dell' anima, cioè quell' ente principio , chiamato anima, che finisce, col suo atto di essere, ne' due termini che dicevamo. Noi abbiamo osservato che, rimossi affatto i termini, il principio non è più, ed osserva una cosa simile lo Stallbaum, quando scrive che quell' essenza media di Platone, tolte le due nature che in sè medesima unisce, rimane un mero astratto, non è più cosa reale (1). Più difficile è il determinare che cosa intenda Platone per quel componente dell' anima che chiama il diverso «to thateron». Poichè non può con questo significare i corpi, parlando qui della formazione dell' anima anteriore all' esistenza de' corpi e d' ogni corporeo. Che anzi dopo aver descritta la formazione dell' anima del Mondo, venendo ai corpi, dice così: [...OMISSIS...] . Non si può intendere neppur la materia corporea, perchè è assurdo a pensare che l' anima si componga di ciò che è disordinato e qua e là a caso agitato e sbattuto (3), e informe, quando una tale materia informe, secondo Platone stesso, non può sussistere senza le sue forme, ma è un' astrazione della mente. Che anzi dicendo non che Dio facesse nell' anima già compiuta i corpi, ma tutto ciò che fosse corporeo, parlò vigilantemente, escludendo non meno i corpi dalla natura dell' anima che ogni corporea materia. Parmi dunque di non andare lontano dal vero dicendo che la «thateru physis» posta da Platone come uno dei due estremi elementi dell' anima, deva significare lo spazio puro. E benchè prima d' ora non mi fosse mai occorso alla mente una tale interpretazione di questa sentenza di Platone, tuttavia meditando la natura dell' anima umana, già da buon tempo mi ero convinto che lo spazio immensurato dovesse essere uno de' due termini essenziali all' anima, di che ho anche addotte le prove «( Antrop. 165 7 174; Psicol. 554 7 559, 703, 709) ». Ho dimostrato di più, che tale è la natura dell' estensione che ella non si può concepire se non essente in un semplice, e dal semplice, cioè dall' anima, contenuta «( Antrop. 94 7 97) ». Ora posto che lo spazio puro sia uno degli elementi dell' anima, non ha più difficoltà la sentenza di Filolao (1), seguita poi da Platone, che il corpo sia stato da Dio formato nell' anima. Poichè, come dice Platone stesso, lo spazio « « presta la sede a tutto ciò che si genera », [...OMISSIS...] », cioè alla materia corporea che generandosi diventa corpi (2). La materia è la nutrice della generazione, [...OMISSIS...] , laddove lo spazio n' è la sede, [...OMISSIS...] , cose che fa meraviglia essersi confuse in una da tutti forse i commentatori. Ma egli è difficile a dirsi come Platone concepisca questo spazio nell' anima scevra ancora dal corpo, se, come l' abbiamo descritto noi ne' « Psicologici », come una pura estensione immisurata ed immobile, o con aggiunta di qualche altra cosa. E a questa seconda sentenza ci atteniamo: giacchè crediamo difficile a provare che gli antichi avessero il concetto della pura estensione. Abbiamo veduto che Aristotele aggiungeva allo spazio, o piuttosto al luogo (chè egli confonde queste due cose), una forza attraente: e dice esser materia lo spazio preso come intervallo tra le grandezze. E quantunque al puro spazio, come noi lo concepiamo, possa convenire la denominazione di altro (altro cioè dall' idea), tuttavia non gli può convenire quella di diverso , di contrapposto a ciò che è sempre il medesimo , poichè lo spazio puro non mutandosi, non è diverso da sè stesso. Conviene dunque dire che quell' elemento dell' anima, che Platone chiama «thateron», non sia lo spazio puro, ma con qualche aggiunta. Ponendo egli dunque la vita e il principio d' ogni movimento nell' anima, convien dire che insieme collo spazio egli desse all' anima un sentimento soggettivo proprio bensì dell' essenza media, ma stendentesi anch' esso quanto lo spazio. Il che s' intenderà da tutti quelli, che conoscono la distinzione da noi esposta tra la sensazione soggettiva e la percezione intimamente a quella unita «( Ideol. 701 7 707; 722 7 747; .7. 7 900; 9.3 segg.) ». Come dunque noi, parlando del sentimento de' corpi, abbiamo distinto dal sentimento nostro proprio il diverso da noi percepito, e quello unito e conformato a questo per modo che dove c' è il diverso corporeo percepito, ivi sia anche la sensazione: così crediamo che si possa concepire il diverso di Platone; lo spazio percepito come un termine diverso dall' anima, consociato a un sentimento in questa che s' estende a tutto quello, il quale sentimento è vita e forza, proprietà innegabili ad ogni sentimento che ha natura di realità, come tante volte abbiamo detto. Ora a questo sentimento conviene certamente la qualità di diverso , avendo egli la virtù d' essere di continuo modificabile, date le condizioni che sono gli stimoli materiali, e anche in virtù dell' attività intellettiva e volontaria. Trovato questo principio sentimentale ed efficiente nell' anima, ivi ripose Platone un' intima azione vitale o moto continuo, e l' origine del moto all' altre cose (1), onde è a stupire, che Aristotele cercasse la causa del moto nelle idee, e non trovandocela ne biasimasse Platone, quasi a questi fosse impossibile render ragione dei movimenti mondiali. Andava in collera perchè non trovava la causa del moto dove non era, e dove non poteva essere in alcun modo. Trovato questo sentimento soggettivo, finiente nell' immensurato spazio, questo stesso spazio viene in certo modo ad essere tutto animato, e nella mutabilità del sentimento si trovava la natura del diverso , elemento dell' anima mondiale non ancora fornita di corpo. Ora questo sentimento soggettivo di natura sua mutabile, doveva contenere virtualmente tutte le potenze sentimentali dell' anima. Con questo si può facilmente illustrare il magnifico mito del Fedro, nel quale l' anima è assomigliata « « alla natura risultante da una biga subalata e da un auriga » » (2), dove il carro è la sostanza media che lega gli estremi, l' auriga rappresenta il medesimo , e i cavalli simboleggiano il diverso , cioè il sentimento e gli affetti che danno all' anima il movimento. E parimente supponendo che la natura del diverso , che Platone vuole uno degl' ingredienti dell' Anima del Mondo, sia il sentimento soggettivo, che s' estende a tutto lo spazio immensurato, s' intende, come Dio poteva, anche prima di creare il corpo, assegnare delle leggi armoniche a questo sentimento, quasi screziandolo di diversi istinti relativi allo spazio in cui finiva, e con questi disegnare nello spazio stesso de' luoghi diversi, con proporzioni tra loro di numeri e di figure geometriche e di movimenti (1), e come i discepoli di Platone, tanto minori del maestro, potessero poi definire l' anima « « un numero che si move da sè medesimo » » (2), o in altre maniere in cui si vede ritenuta qualche particella della dottrina, non tutta abbracciata la teoria del maestro. L' aver poi assegnato all' anima sola, senza il corpo, tutto ciò che spetta all' armonia e all' ordine di più cose connesse insieme, come il numero, la proporzione e somiglianti, dando al corpo l' esser sensibile, ma l' anima dicendo « « partecipe del raziocinio e dell' armonia degl' intelligibili sempre esistenti » » (3), prova da una parte l' alta mente di Platone che ben vide solo una sostanza semplice e vivente potere contenere in sè il numero e l' ordine, laddove l' esistenza del corpo bruto è solitaria, e di più per la continua divisione irreperibile, dall' altra conferma quanto dicevamo, che lo spazio, materia alle diverse figure geometriche, anch' egli poteva esistere solo nell' anima e da questa esser contenuto, non essendoci parte assegnabile in esso che non sia straniera a tutte le altre, e però incapace d' unire le altre ad unità, senza la quale unità niente esiste, poichè l' ente è per sua essenza uno. La pluralità dunque delle parti assegnabili nello spazio non esiste se non nell' anima, e neppure ciascuna di esse esiste, perchè ogni suo punto essendo fuori d' ogni altro, non può aver cogli altri unità. Ora, prima di proceder oltre vediamo che cosa sia l' altro elemento estremo dell' anima, il medesimo , ossia [...OMISSIS...] . Certamente quest' elemento è la materia ideale, come l' altro vedemmo essere la materia matematica , e medio tra loro sta il sentimento , che all' una e all' altra materia s' estende, di che egli dice esser l' altre con questa commiste [...OMISSIS...] : la materia ideale poi per Platone è indubitatamente l' ente (indeterminato) «to on» (1). Ora come dal sentimento unito collo spazio, Platone deriva la facoltà di sentire i corpi quando si presentano all' anima, così dal sentimento unito all' idea dell' essere cioè a quello, che è sempre identico, deriva la facoltà di conoscere, cioè d' intuire le idee determinate, e di ragionare. Questo ragionamento poi lo distingue in due, secondo l' oggetto intorno al quale si esercita; se si esercita intorno all' idee contenenti l' essere che è sempre il medesimo, e alle ragioni, nasce nell' uomo l' intuizione ( «nus») e la scienza ; se si esercita intorno alle cose mutabili, come i corpi od i sentimenti, e si esercita nel debito modo, nasce l' opinione vera e la fede vera . Dove si vede che Platone qui non parla più del suo mito della reminiscenza , ma, seriamente ragionando, in vece di dare all' anima le idee e notizie preconosciute, di cui all' occasione delle sensazioni non faccia che ricordarsi, le dà una vera potenza di procacciarsi nuove cognizioni e di ragionare. Costituisce poi questa potenza come noi appunto l' abbiamo costituita, ponendo cioè che l' anima per sua natura sia partecipe d' un primo identico , «tautu» (2), cioè di ciò che non è questo o quello tra le cose identiche, ma è l' identico stesso, «tautu genos», senz' altra determinazione, il che è quanto dire l' idea indeterminata (3), e che con questo primo identico ella conosca tutte l' altre cose identiche, cioè l' altre idee; e ponendo altresì che l' anima partecipi d' un primo diverso , cioè d' un sentimento terminante nell' estensione, col quale possa apprendere sensibilmente tutti i diversi, cioè i corpi, e in tal modo attingere la materia di altre cognizioni. E così col simile fa che si conosca e si apprenda il simile, secondo l' antico effato de' Pitagorici (4). Dalle quali parole e da tutta insieme la dottrina del Filosofo, si rileva: 1 Che l' anima conosce sempre per quel suo elemento che Platone chiama il Medesimo, e che vedemmo esser l' idea prima e universalissima. 2 Che nondimeno, se il mezzo del conoscere è un solo, gli oggetti del conoscere sono due, il sensibile, [...OMISSIS...] e il razionale, [...OMISSIS...] e la cognizione di quest' ultimo è intelligenza e scienza , [...OMISSIS...] la cognizione dell' altro è opinioni e persuasioni ferme e vere, [...OMISSIS...] . Laonde l' atto conoscitivo non è mai sensazione, benchè anche la sensazione possa divenire oggetto di cognizione, ma è sempre «logos alethes» e «kata tauton» (1); ma quando oltre essere «ho logos» l' operazione della mente, è anche «to logistikon» il suo oggetto, allora c' è intelligenza e scienza. 3 E` sempre tutta l' anima quella che conosce con un interno movimento, [...OMISSIS...] : onde non separa mai Platone le parti dell' anima, come a torto gli rimprovera Aristotele, e non ne fa più anime. 4 Essendo l' anima composta dell' identico e del diverso , ella di conseguenza ha due operazioni o movimenti che egli chiama cicli o giri, perchè con queste operazioni essa si rivolge intorno a se stessa, [...OMISSIS...] . Distingue dunque nell' anima il ciclo del Medesimo, [...OMISSIS...] , che produce l' intelligenza e la scienza, e lo chiama «eutrochos», e il ciclo del Diverso che vuol che sia retto, [...OMISSIS...] : il primo è il movimento dell' intelligenza, il secondo il movimento del sentimento. E con ragione Platone assomiglia questi movimenti spirituali a circoli; perchè qualunque cosa faccia il sentimento, egli lo fa in se stesso; il movimento parte dal sentimento e finisce nel sentimento; e così pure il ragionamento non esce e non può uscire di sè colla sua azione, ma partendo dall' idea e dalla cognizione ritorna e finisce sempre all' idea e alla cognizione, poichè la prima intuizione nella quale il soggetto parte per così dire da sè e va nell' idea, non è ancora movimento razionale, ma è l' atto costitutivo della razionalità. Questo poi costituito opera, per una certa riflessione, su di ciò che è in sè, cioè o sul sentimento o sulle idee, e come dice Dante « « sè in sè rigira » », soltanto che convien badare che quando si dice: « in sè »si dee intendere su di ciò che ha in se stesso. Veduto che cosa sia la natura del Diverso e la natura del Medesimo, di cui Platone compone l' anima, e come essi rispondano ai due termini dell' anima, cioè lo spazio sentito per natura, e l' idea universalissima; rimane a vedere di quella terza sostanza che li congiunge quasi nel mezzo di essi, [...OMISSIS...] , la quale certamente è il principio di essi due termini. Ma come il principio è indivisibile da' suoi termini, perciò dice Platone, che risulta da entrambi [...OMISSIS...] . Essendo dunque questa media sostanza che termina nelle due estreme e ad esse essenzialmente s' appoggia senziente secondo l' uno e l' altro termine, ossia unendo in sè il sentimento dell' uno e dell' altro termine, non può avere il sentimento dello spazio senza che lo percepisca anche coll' intendimento; onde in questa composizione dell' anima, ancorchè separata dal corpo, Platone pone una percezione intellettiva fondamentale, cioè la percezione intellettiva dello spazio, ad un tempo sentito ed inteso , e questa percezione è quella che dà all' anima, per così dire, una figura circolare, perchè essendo una per l' unità del principio che è la terza sostanza, si fa una anche per la riunione de' termini; giacchè ella col suo atto primo e costitutivo, dopo essersi divisa da una parte estendendo il suo atto all' idea, dall' altra allo spazio, continua il suo moto costitutivo ripiegando questi due in uno, e riunendo lo spazio e l' idea, fa che quello sia abbracciato da questa, il che noi chiamiamo percezione intellettiva fondamentale dell' anima separata. Descritto a questo modo l' interno ordine e costituzione dell' anima, niente vieta di concepire che il sentimento di quest' anima possa essere da certe leggi quasi screziato e variato, dotato di varie forze d' istinti relative a certe parti dello spazio, a certi conati, a certa successione di movimenti. Si consideri ciò che noi abbiamo esposto sulla legge cosmologica dell' armonia «( Psicol. 1537 7 159.) », e sull' altra che le corrisponde nell' anima umana «( Psicol. 1726 7 1779) », le quale due leggi del Mondo e dell' Anima corrispondendosi e sintetizzando, non ne formano, a dir vero, che una sola con due faccie o rispetti. Questa nobilissima verità, che l' anima abbia l' armonia in sè stessa, vide ed espose Platone nel « Timeo ». Solamente che noi considerammo l' anima già dotata di corpo, e in relazione col mondo corporeo; egli trova certe leggi d' armonica costituzione nell' anima prima ancora che questa sia immessa nel corpo. Il che gli è suggerito dall' opinione da lui professata, che l' anima abbia preesistito al corpo: opinione per vero erronea, ma che nel ragionamento di Platone annunzia, aver egli conosciute alcune verità nobilissime e profonde. Poichè da questo siamo assicurati, che egli vide doversi riporre il principio dell' armonia nel semplice, nel sensitivo ed intelligente, e non in qualsivoglia cosa corporea, onde dice dell' anima; [...OMISSIS...] , e dopo aver descritto com' ella armonicamente movendosi intenda i sensibili e gli intelligibili, aggiunge che in essa sola possono accadere tali cose (2). Egli vide ancora come per questa forza di sentimento armonico, di cui l' anima è per sè stessa dotata da Dio, ella era e dovea essere la dominatrice del corpo (1), e così mirabilmente spiega la virtù formatrice propria dell' anima «( Psicol. 17.7 7 1794) ». Certo che le leggi speciali dell' armonia nell' anima racchiuse sono d' una tanta grandezza, moltitudine e profondità che nè Platone le potè raggiungere, nè sono nè saranno esaurite dalle meditazioni di molti filosofi nel corso di molti secoli futuri. Ma una gran cosa è questo solo che da tempo così antico sia stato veduto, che esse si giacciono nell' intima costituzione dell' anima. Il primo pensiero sembra dovuto a Pitagora; il quale però, quando dal generale venne a specificare una tale armonia, si restrinse a considerare quella specie particolarissima di legge armonica che governa i suoni «( Psicol. 1565, 1566) ». Egli prese dunque la legge dell' armonia che si trova in un solo sensorio, cioè in una particolarissima facoltà dell' anima sensitiva e la universalizzò, prendendola per tipo, o tema d' ogni armonia non solo di tutta l' anima umana, ma anche de' corpi celesti e in una parola dell' universo. Questa maniera soverchiamente ristretta di concepire l' armonia che governa il creato, conteneva però come supposizione e base una gran verità, che « « l' anima e l' universo sono coordinati insieme da una mano sapientissima, quasi due corde unissone in due istrumenti » ». Che se questo principio è vero, come è indubitatamente, le principali leggi dell' armonia universale e di quella dell' anima devono essere le stesse. Se non che piuttosto che due armonie identiche, c' è tra l' anima e l' universo sintetizzante un' armonia unica e sola. Essendo dunque pervenuta a Platone per mezzo di Filolao la dottrina pittagorica dell' armonia, il suo pensiero rimase chiuso nelle angustie di questa tradizione (2). Non rimanendogli tempo, nella vastità delle ricerche in cui era occupato, di meditare una teoria più ampia per compiere la lacuna del suo sistema filosofico, accettò, come una vaga ipotesi, quella dottrina dell' armonia sonora , e ornandola di novi concetti e di elegantissimo linguaggio, l' applicò a dichiarare la costituzione dell' anima che dovea dar poi vita ed ordine alla macchina corporea dell' universo (1). Si fa adunque ad esporre gli istinti armonici che Iddio pose nell' anima in questo modo. Dice che dopo aver mescolati insieme i tre principŒ, cioè il Medesimo, il Diverso e l' Essenza, e di questi tre fatta una cosa sola, come spiegammo di sopra, distribuì in questo tutto le membra, dandogli il decoro d' un cotale spirituale organismo, e ciascuna delle dette membra riuscìa così composta di quei tre primi elementi (2). Con questo viene a dire, che la percezione intellettiva abbraccia lo spazio sentito e la sostanza media (3), giacchè solo per questa percezione può avverarsi, che in tutti gli istinti e modi d' operare dell' anima appariscano i tre elementi, da cui essa risulta. Le quali membra spirituali dell' anima vengono distinte secondo i numeri della doppia tetrade pittagorica formata dai sette numeri 1, 2, 3, 4, ., 9, 27 distribuiti nella serie de' pari e nella serie degli impari, avente ciascuna a capo l' unità: 1, 2, 4, . e 1, 3, 9, 27; le quali due tetradi rappresentano il sistema diatonico, composto di quattro ottave, più un intervallo di quinta e un tono intero (4). Per trovare poi le consonanze in queste quattro ottave, Iddio riempì d' altre porzioni della stessa sostanza trina ed una, gli intervalli tra i numeri della prima e della seconda tetrade, con due numeri medii, cioè col medio aritmetico e col medio armonico (5); onde ne risultano due serie di dieci numeri ciascuna, ossia una serie di venti numeri. Finalmente per trovare e distinguere i singoli toni e mezzi toni, da per tutto dove c' era l' intervallo di quarta, lo riempì con divisioni per toni interi, avanzandone il mezzo tono minore, la cui ragione è computata 256 .diviso . 243, e lo stesso, benchè nol dica Platone, convien supporre dell' intervallo di quinta, avanzandone il mezzo tono maggiore, la ragione del quale si computava 273 3 .fratto . . .diviso . 256. Così la sostanza trina ed una dell' anima fu distinta in membra rispondenti alle ragioni, in cui è compartito a consonanze, a toni e mezzi toni il Diagramma; e Platone per dimostrare meglio la grandezza di quest' armonica distribuzione dell' anima mondiale, a cui dovea rispondere il mondo visibile, prese ad esempio un Diagramma di tanta estensione, quale i Greci non usarono giammai nelle loro musiche, come già fu osservato da Adrasto presso Teone Smirneo (1). Così la sostanza una e trina, distribuita in altrettante membra per una serie di numeri rappresentanti ragioni armoniche, fu divisa da Dio tutta per lungo, di che si ebbero due serie, ciascuna dotata delle stesse proporzioni numeriche: delle quali due liste fece una croce decussata, e piegata, ciascuna lista a circolo, se n' ebbero due circoli intersecantisi ne' due punti opposti, i quali circoli rappresentano e rispondono al circolo equinoziale ed al zodiaco. Al primo, esteriore e molto più alto del secondo, attribuì la costanza e l' equabilità e lo fece movere verso la destra, cioè dall' occidente all' oriente, chiamando questo movimento « della natura del Medesimo »; all' altro, interiore e più basso e che fece movere verso sinistra, cioè dall' oriente all' occidente, attribuì la varietà e l' incostanza, chiamando il suo movimento « della natura del Diverso ». Al giro del Medesimo concesse il principato, poichè lo lasciò uno ed indiviso. Ma riguardo al circolo interiore, prima di ripiegare in circolo la lista numerica, ne tagliò via sei pezzi alle giunture de' numeri della doppia tetrade, e n' ebbe sette parti rispondenti ai sette numeri della medesima, ciascuna delle quali movendosi in giro, ne riuscirono le orbite dei sette pianeti, i tre primi e inferiori moventisi con eguale celerità, i quattro ultimi e superiori con celerità disuguali e da quelle de' primi e tra esse, ma pure secondo opportune ragioni. Ora di tutti questi sette orbicolari movimenti risulta quello che si dice il circolo del Diverso. Non è necessario a noi addentrarci in maggiori particolari circa questi armonici compartimenti, non consistendo in questi la parte solida della dottrina: questa sta nel principio generale, che l' anima è la dominatrice del corpo, e quindi che ella stessa lo adatta a sè stessa, l' informa, l' organizza, e il corpo in tutto le ubbidisce, di maniera che ogni movimento di questo all' anima è dovuto (1). Vediamo come ciò avvenga secondo la mente di Platone. Primieramente essendo nella sostanza dell' anima lo spazio immensurato, c' è il luogo dove Iddio poteva collocare il corpo. Di poi essendoci un primo sentimento, che s' estende a tutto lo spazio, c' è per così dire la morsa a cui attaccare il corporeo. Poichè il corporeo non è che il sensibile, e il sensibile non è che uno stimolo applicato con certe leggi fisse al sentimento primo, che eccitandolo lo modifica, così producendo in lui le sensazioni. Ora dato che un primo sentimento, qual è quello dell' anima, 1 soffra una violenza e così senta un altro principio diverso da sè che esercita su di lui la propria potenza; 2 e questa violenza non abbracci tutto lo spazio, ma essendo limitata disegni in esso co' suoi confini una figura; 3 ne nascano di conseguenza modificazioni o sensazioni nello stesso primo sentimento; 4 e tutto questo con quella stabilità di fisse leggi colle quali sogliamo avere le sensazioni esterne: dato questo, egli è evidente, che esistono quelle sostanze sensibili che noi chiamiamo corpi, e che n' è spiegata la creazione. Dice dunque Platone che [...OMISSIS...] . Nel qual luogo s' osservi che: 1 Dice che il corpo fu fatto da Dio tosto dopo ultimata la costituzione dell' anima, «meta tuto», onde qui non lascia che l' anima dell' universo viva gran tempo separata dal corpo, secondo l' ipotesi che altrove introduce delle anime viventi immuni da ogni concrezione materiale. 2 Dando a tutto l' universo corporeo un' anima sola, cade rispetto all' anima mondiale la censura che Aristotele fa ai Pitagorici e a Platone, cioè che questi credesse, ogni anima poter convenire ad ogni corpo. 3 Dicendo che l' anima del mondo si volse in se medesima quand' ebbe il corpo e diede principio alla durata della vita, ben dimostra che tutte le membra e i movimenti prima distinti nell' anima esprimevano non atti, ma potenzialità instintive. 4 Che tosto che l' anima mondiale ebbe il corpo, i suoi due movimenti spirituali cioè quello dell' intelligenza ossia del medesimo , e quello del sentimento ossia del diverso , rapirono colla loro potenza dominante il corpo, e in questo si rappresentarono coi due movimenti opposti del cielo delle stelle fisse che si move equabilmente, prendendo la legge dal moto dell' intelligenza, e del cielo solare7planetario, che si move con variati e molteplici modi, prendendo la legge dal moto del sentimento: onde nel mondo materiale comparve un simulacro sensibile del mondo spirituale e invisibile, un simulacro cioè del ciclo del medesimo e del ciclo del diverso , i due elementi di cui l' anima si compone. 5 Che quindi la causa efficiente e movente del mondo sensibile e fenomenico è il mondo invisibile e spirituale, e quello non è che una cotale copia e imitazione di questo. 6 Che all' anima dell' universo, dopo aver data la vita a tutto il mondo corporeo, compresi gli ultimi cieli, rimane ancora una parte sopramondana, circonfusa al mondo [...OMISSIS...] contenente il mondo (1), quella parte certamente che nel Fedro chiama sopraurania . Così il mondo corporeo non può rappresentare l' anima compiutamente; perchè quantunque ci vengano rappresentati sensibilmente i movimenti dei due elementi dell' anima, il diverso e il medesimo , quello del diverso col volgersi del cielo planetario, e quello del medesimo col volgersi del sommo cielo: tuttavia rimane ancora, al di là di tutto il cielo visibile, uno spazio infinito occupato dall' anima, dove non dice Platone se ci sia moto o quiete, e vuol forse significare ciò che non ha moto nè quiete, cioè l' essere puro, a cui nel Sofista nega ogni quiete ad un tempo ed ogni moto, d' entrambi de' quali generi esso è il contenente; cioè è genere maggiore di essi. E certo che ivi, fuori del mondo corporeo, nulla più v' ha di sensibile, come avea detto avanti (2), laonde a quel luogo si riferisce indubitatamente l' anima, in quant' è partecipe de' puri e primi intelligibili (3). Agli intelligibili appartiene l' esemplare del mondo chiamato da Platone «zoon aidion» (4). L' eternità che a questo solo divino esemplare conviene, non può appartenere all' animale generato, cioè al mondo (1). Ma acciocchè questo imitasse, per quanto era possibile, quell' eterno, fece « « una mobile imagine dell' eternità » »; fece, adornando ad una il cielo, un' eterna imagine « « fluente secondo il numero dell' eterno manente nell' uno »(2) ». L' eterno manente nell' uno è Dio; e della stessa permanenza è dotato anche l' esemplare del mondo in se stesso considerato. Ma poichè questo esemplare era da Dio pensato, affinchè a sua norma si potesse produrre il mondo reale, esso non dovea rappresentare l' eternità di Dio, ma il tempo, per solo il quale può il mondo imitare la divina eternità. Laonde nell' esemplare del mondo Iddio pensò l' imagine a cui doveva crearsi il tempo , e questa imagine che forma parte dell' esemplare dicesi imagine della eternità, [...OMISSIS...] ; cioè dell' uno eternamente immanente che è Dio, e dicesi eterna , appunto perchè appartiene all' esemplare [...OMISSIS...] ma dicesi nello stesso tempo mobile, [...OMISSIS...] , e progrediente secondo il numero, [...OMISSIS...] , perchè rappresenta la mutabilità e quasi scorrevolezza del mondo reale. Dove apparisce in che modo Platone dica ora immobili , ed ora mobili certi intelligibili: sono immobili in se stessi, ma nel loro seno hanno la mobilità esemplare della mobilità reale, copia di quella (3). Distingue dunque Platone anche qui quelle due specie d' intelligibili di cui abbiamo parlato di sopra: 1 il primo intelligibile, che è Dio, e tutto ciò, che in proprio appartiene a Dio; 2 il secondo intelligibile che è l' esemplare del mondo. Il mondo è l' imitazione di questo esemplare, come l' esemplare è l' imitazione o la similitudine di Dio, la più fedele, che fosse possibile, data la condizione che dovesse esser creato. Questa condizione importava che il mondo non potesse esser necessario, nè eterno, nè immutabile, ma volendo tuttavia Iddio renderlo simile per quanto esser potesse alla propria eternità e consistenza, gli diede la durata del tempo. Pose dunque nell' esemplare la contingenza, il numero, la successione, la mutabilità, ma tutte queste cose ve le pose in un modo eterno: di maniera che l' esemplare non fosse il subietto della mutazione, ma il disegno e il decreto di tutto ciò che dovea esser nel mondo, vero subietto di tali vicissitudini. La natura di Dio dunque nulla avendo di tali cose, non potea nè pure prestare di tali cose l' esempio, e però convenne che il pensiero divino imaginasse un esemplare a posta a cui similitudine creare il mondo, che a lui somigliasse, di maniera che non gli somigliava pienamente, ma quant' era possibile che gli somigliasse l' esemplare. L' esemplare dunque sebbene eterno in se stesso, perchè ab aeterno da Dio pensato, riceve dall' atto della divina volontà, che si determina a creare, una condizione che lo limita, e una natura relativa al creabile, oggetto di quell' atto di volontà; di che apparisce che l' esemplare e il mondo, appunto per questa natura relativa, si chiamano e sintesizzano, ma quello è subiettivamente immutabile, avendo solo in se la mutazione obiettiva (e tutto ciò che è obiettivo è immutabile), questo è subiettivamente mutabile, realizzando in sè quella obiettiva mutazione. A Dio dunque, dice Platone, e all' esemplare, come oggetto, non ispetta il fu, o il sarà, ma solamente l' E`. [...OMISSIS...] . Descritta così la formazione dell' anima e del corpo mondiale, narra la formazione delle specie d' animali minori, le quali sono tante quante ne vede Iddio nell' idea d' animale (2), e tutte comprese nell' esemplare del mondo, poichè non sarebbe perfetto se alcuna ne mancasse. E però ci doveva essere anche la generazione degli animali mortali, i quali non potevano essere formati immediatamente da Dio, perocchè in tal caso sarebbero stati immortalati anch' essi (3). Ma di quello tra tutti questi animali, al quale conviene in comune cogli immortali l' appellazione di divino (4), Iddio stesso somministrò il seme ed il cominciamento [...OMISSIS...] formando, delle reliquie di quella stessa sostanza, di cui aveva elaborata l' anima del mondo, un certo numero d' altre anime che distribuì ai grandi e per divina virtù immortali animali, cioè agli astri, un' anima seminale per ciascuno di essi, lasciando a cotesti divini il carico di generare con questo seme di divina provenienza gli animali razionali, formando i loro corpi, e alimentandoli; e quando si consumassero, ricevendo di novo in sè la materia (1). Poichè le anime per una certa necessità, e non per colpe precedenti devono essere copulate ai corpi (2). Non appartiene allo scopo del nostro discorso esporre qui più ampiamente per quali ragioni Platone volle distribuite da Dio le anime seminali ai corpi celesti, l' affinità o convenienza di ciascuna a ciascuno de' detti corpi, nè ci giova entrare a discutere se e come Platone ammettesse i pianeticoli. Allo scopo del nostro discorso basta d' indicare che il nostro filosofo seco stesso faceva ragione, che Iddio, creato il mondo, avesse in esso collocato la virtù generativa; per modo che l' astro avendo una soprabbondanza di vita, cioè non solo la vita mondiale sua propria, ma l' anima seminale che il rende atto alla generazione, nè mancandogli la corporea materia dalla sua anima e mente e virtù generativa dominata, abbia forniti e organizzati di sè gli animali, e tra essi l' uomo ragionevole da Platone chiamato «theosebestaton» (3), il quale poi, come pure gli altri, per una sua propria generazione, atteso il continuo aiuto della natura mondiale, si moltiplica (4). L' anima dunque dell' uomo, formata colla stessa sostanza dell' anima del mondo, e quindi de' tre elementi del medesimo , del diverso e della sostanza media, e ordinata colle stesse proporzioni armoniche (5), ha in sè medesima di continuo il doppio movimento ciclico del medesimo e del diverso che si fa senza strepito e suono, [...OMISSIS...] , ed è l' azione dell' interna sua vita di sentimento e d' intelligenza [...OMISSIS...] . Nè quest' intelligenza è priva di idee, poichè ancor prima che per la virtù organizzatrice degli astri a cui appartengono le anime seminali, queste ricevessero i loro corpi speciali e si moltiplicassero, Iddio mostrò ad esse anime seminali « « la natura dell' universo e le leggi fatali » », [...OMISSIS...] (2), e in queste l' equità con cui furono a principio create tutte allo stesso modo, rimanendo a ciascuna affidata la futura sua sorte, e come di esse si sarebbe formato quell' animale umano di tutti religiosissimo. Ma quando l' astro, poniamo la terra, mette in movimento una moltitudine di particelle di fuoco e d' aria e d' acqua e di terra per provvedere all' anima seminale dei corpi, allora quelle particelle rapite in turbine con movimenti molteplici per apprendersi ed accozzarsi assaliscono in folla ed in tumulto l' anima; di maniera che dalle percosse disordinate di questo fiume d' atomi rimangono in essa impediti e sconcertati nel loro corso i due circuiti del medesimo e del diverso , che costituiscono la sua vita sapiente, ed essa rimane allora del tutto stupida e smemorata, ond' è che l' uomo nasce in apparenza così ignorante. Poichè il circuito della natura del medesimo sopraffatto da un tal fiume entrante ed uscente di continuo dal corpo che si organizza, viene impedito e sospeso, l' altro poi del diverso perde la sua armonia, e quantunque nè l' uno nè l' altro possano esser distrutti perchè posti da Dio, tuttavia contrastati, l' uno s' arresta, l' altro, quello del sentimento, va come senza ragione, [...OMISSIS...] (3), finchè non si rimettano nel pristino stato. Così le cose tutte finite e nella loro materia e nella loro forma si creano; e non solo la forma dà il suo finimento [...OMISSIS...] ai singoli enti, ma dà un altro finimento alle cose tutte insieme, cioè un ordine sapiente, [...OMISSIS...] . Conviene dunque distinguere tre cose, secondo Platone, le idee eternamente da Dio pensate, intelligibili, le anime spirituali ed insensibili composte de' tre elementi, del medesimo , del diverso e della sostanza media, e finalmente i sensibili , i quali nascono quando le anime s' uniscono ai corpi e acquistano i sensorŒ, nascimento che in più luoghi descrive Platone (5). E` dunque singolare a vedere come Aristotele quando si fa a combattere le idee di Platone, non riferisce mai ad esse altro che i sensibili, tacendosi interamente dell' anima nel cui seno sono creati i corpi, onde dalla congiunzione di essa con questi poscia i sensi ed i sensibili fenomeni traggono l' origine. E qui conviene osservare come il diverso , secondo la mente di Platone, sia un genere più esteso di quello de' sensibili, perchè vien posto da Dio nell' anima avanti della produzione di questi. Vi ha dunque nell' anima qualche cosa di mutabile e molteplice che non è il sensibile corporeo; ma la materia appunto del diverso , che è nella natura dell' anima, riceve la sua continua rimutabilità, cioè la rimutabilità della sua forma, che esce dalla materia e vi entra di continuo, come dice Platone in altro luogo. Il che si intenderà facilmente, se si considererà la materia corporea tutta per la sua stessa essenza esser dentro all' anima contenuta (dove Iddio l' ha creata, inseparabile da questa, e però da questa ricevente l' unità, senza la quale dissipandosi s' annullerebbe, cioè diverrebbe un essere assurdo), e altresì dall' anima pienamente dominata. La ragione dunque, per la quale le diverse particelle di materia hanno di necessità un' estensione, si è perchè dall' anima la ricevono; ogni estensione essendo nell' anima, e non potendo esistere, fuori del semplice ed uno, estensione alcuna, di sua natura continua e non moltiplice, chè il continuo e il moltiplice involgono contraddizione. Ora, come la estensione, che è nell' anima, è quella stessa in cui è diffusa la materia e la forza corporea (1) ai cui elementi però è determinata dal Creatore la quantità e la figura: così anche l' anima dominando e movendo questa materia e questa forza corporea secondo i suoi proprŒ istinti, le dà, secondo Platone, quella configurazione che mostra d' avere, sia come corpo dell' animale massimo, che è l' universo, e degli animali maggiori in esso contenuti, che sono gli astri: sia altresì come corpo degli animali minori, e in tutte le generazioni di cose; e produce tutti i grandi e i minimi movimenti, fino a quelli delle coesioni e delle chimiche affinità. Così la materia riceve dall' anima non già propriamente la forma ideale, che non può essere un abito della materia, ma una copia e un' imitazione apparente ai sensi di quella forma ideale. E che le forme e la distribuzione dalla materia corporea e sensibile siano una copia, imitazione e partecipazione dell' idee ad esse relative, vedesi da questo che le forme s' intendono nelle idee, quando sono nel senso ricevute, e nelle idee si vede il loro essere eterno; ma nei corpi, all' incontro, essendo forme periture, non si vedono eterne, e però non sono l' essere immutabile, ma una sensibile espressione e rappresentazione dell' essere immutabile. E poichè quando le sensibili forme son vedute e così intellettivamente apprese nell' idea, nell' anima nostra intellettiva si fa una cotale soprapposizione e immedesimazione della copia sensibile coll' originale intelligibile: perciò anche le forme sensibili si dicono giustamente partecipare le idee nella mente nostra, e nell' atto della nostra percezione intellettiva di esse, e nella memoria, secondo la quale ne' discorsi intorno a tali cose ci esprimiamo. Le forme adunque e la distribuzione delle cose sensibili, essendo determinate dall' anima secondo le ragioni armoniche della sua interna costituzione, e l' anima essendo con una così perfetta sapienza ordinata da Dio secondo l' eterno esemplare, procede che noi dai sensibili andiamo alla cognizione dell' anima, e da questa all' esemplare, e da questo alla mente eterna, e da questa al Bene, cioè a Dio, e che affermiamo « « ch' ei v' abbia molto infinito nell' universo e fine sufficiente; ed una non ispregevole causa, ad essi soprastante, ordinatrice e temperatrice degli anni, delle stagioni e de' mesi, la quale a troppo buon diritto sapienza ed intelletto potrebbesi addimandare (1) » ». Le idee dunque sono partecipate in un modo dall' anima, e in un altro dai corporei sensibili, ed è per questo che da Platone, come dicemmo, sono assomigliate ad un giogo imposto da Dio all' anima ed alle cose, dal quale, insieme connesse, insieme comunicano. Ma all' anima, come a me pare, specialmente si dee riferire la presenza delle idee, «parusia», ai corporei sensibili la comunione , «koinonia» 2). Giacchè i sensibili colle loro forme imitano, come dicevamo, le idee loro corrispondenti, e le loro imagini nell' anima nostra colle idee, quasi direi, combaciandosi, diventano con esse una cosa, rispetto all' atto del nostro vedere, cioè un solo oggetto della nostra percezione (3). L' anima poi, avendole presenti senza che con esse si confonda, le intuisce. Ma poichè di certe idee, come di quelle della bellezza e della giustizia, essa sola partecipa in modo che in sè le realizza, perciò Platone esprime l' unione di tali idee coll' anima non solo col vocabolo di presenza , ma ancora con quello di abito , come nel Sofista, ove dice che l' anima diventa giusta e sapiente per la presenza e per l' abito di tali idee, [...OMISSIS...] (4). Pure la giustizia e la sapienza e simili entità come abito , sono accidentali all' anima, e quindi nasce la questione se la giustizia e la bellezza, come abito dell' anima, siano una similitudine e copia della giustizia e della bellezza, come le forme de' sensibili sono una copia di ciò che è nelle idee. La qual questione non oserei dire che si sia presentata chiaramente ed esplicitamente alla mente di Platone: ma dicendo che sono di quelle cose che possono essere presenti od assenti (1) all' anima, non c' impedisce di credere che la stessa essenza della giustizia possa divenire un abito dell' anima, non potendo la giustizia essere imitata senza che sia distrutta, giacchè l' imitazione della giustizia, se non è giustizia, non può essere che una simulazione di giustizia e però tutt' altro che giustizia. Le idee dunque, secondo Platone, non possono essere ricevute dalle cose inanimate e sensibili, perchè la loro essenza è di essere intelligibili . Non essendo dunque intese, non sono per sè stesse ricevute da' corpi, ma questi partecipano solo di alcune loro similitudini . Similitudini poi si dicono, perchè, ove per mezzo del senso sieno date all' anima, essa vede le immagini sensibili nelle idee corrispondenti; quelle dunque conducono l' anima a queste, e però si dicono similitudini di queste. E così l' anima è descritta da Platone come la mediatrice e il vincolo del mondo sensibile coll' intelligibile, con quello comunicando per mezzo del suo elemento del diverso , e con questo mezzo del suo elemento del medesimo . E quindi nel « Sofista » dice che [...OMISSIS...] (2). Ma secondo Platone questa comunicazione dell' anima intellettiva coll' essenza involge un' azione reciproca, perchè dice che il conoscere , che appartiene all' anima, è agire, e l' essere conosciuto , che appartiene all' essenza, è patire (3). E che conoscere sia agire, non ci può esser dubbio; ma noi neghiamo che all' agire corrisponda sempre il patire (4). Ma il patire che adopera qui Platone deve intendersi piuttosto del copulativo esser avuto (5), perchè sarebbe contrario a tutta la dottrina di Platone che l' essenza sofferisse qualche vera modificazione dall' anima, quand' ella è anzi «aei kata tauta hosautos»; quella che si modifica è l' anima, ricevendo l' atto del conoscere e una luce che diventa anche subiettiva per l' appropriazione naturale dell' intelligibile essenza, luce resa così indivisibile dall' anima stessa. Si consideri che, sotto la parola conoscere Platone comprende non meno il conoscere speculativo che il pratico , onde la virtù stessa è concepita da Platone come una scienza . Quindi il praticare, a ragion d' esempio, la giustizia, non è che un conoscere la giustizia, appropriarsi questa idea , che diviene così abito dell' anima e parte della sua propria natura. Conoscendo dunque l' anima le idee, parte in modo speculativo e parte in modo pratico, s' intende come il medesimo , che abbraccia appunto le idee, sia posto da Platone come elemento mesciuto e rimestato da Dio nella sostanza dell' anima. Onde nel Fedone dice che all' anima appartiene quell' essenza che si denomina « « ciò che è »(1) », il che è quanto dire l' essere che sta nell' idee. E questo è il germe dell' immortalità dell' anima. Laonde nel Fedone il nostro filosofo è tutto intento a dimostrare questo: che le cose sensibili e corporee non hanno alcuna stabilità, alcun vero essere, che il vero essere è sempre il medesimo, ma che col raziocinio all' anima si manifesta qualche cosa di ciò che veramente è, e perciò non può perire. Più dunque le riesce di sottrarsi alle illusioni e distrazioni sensibili, e di raccogliersi in se stessa, lasciato il corpo, più altresì ella comunica coll' ente, e quasi con mano l' apprende [...OMISSIS...] ; onde quando poi ella del tutto priva del peso corporeo sarà con ciò che mai non muore, si troverà continua, ricevendo dalla intima e non più impedita sua unione con quella eterna natura, la perenne immortale e stabile vita. E questo astrarsi dell' anima dal sensibile e vivere d' intelletto, dice Platone, che è uno stare con sè stessa [...OMISSIS...] , un raccogliersi in sè stessa [...OMISSIS...] , appunto perchè egli considera le idee così unite all' anima, che ne informino la natura. Onde distingue il considerare che fa l' anima gli esistenti per mezzo del corpo [...OMISSIS...] , dal considerarli per sè stessa [...OMISSIS...] , recandole il primo modo inscizia, e scienza il secondo. Onde la filosofia insegna all' anima « « di non creder nulla fuorchè a sè medesima, in quant' ella per sè stessa intende ciascuna di quelle cose che sono per se stesse »(1) », il che è quanto dire che le essenze devono essere conosciute immediatamente dall' anima e non per alcuna effigie o copia che gliele presenti. A malgrado di questo, non confonde Platone l' anima intellettiva coll' idee, onde si contenta di dire che ad essa è simile ciò che è divino, immortale, sapiente, cioè l' idee; [...OMISSIS...] ; e che l' anima virtuosa, la quale in questa vita si divide colla contemplazione e coll' amore dell' eterno dal corporeo, e segue la ragione e quel vero e divino, superiore all' opinione che in essa si trova, quando lascia per la morte il corpo, spera di migrare in quello a sè cognato [...OMISSIS...] ; laddove all' opposto quell' anima che parte da questa vita infetta del sudiciume corporeo, ricade in un altro corpo, acciocchè, quasi ivi seminata, rinasca, e rimane priva del consorzio della divina, pura e uniforme essenza: Accenna poi che Iddio pose gli astri, animali divini, col corpo di puro fuoco nella sapienza del potentissimo, cioè del medesimo (5): laddove dice che all' anime seminali « « mostrò la natura dell' universo e insegnò loro le leggi fatali »(6) »; di che si può dedurre, che la scienza innata, da Platone conceduta all' anime umane, sia la cognizione dell' esemplare del mondo o d' alcuna parte di esso. Non diede dunque Iddio, secondo Platone, a queste anime la visione di sè stesso, causa dell' esemplare; ma l' esemplare imitandolo imperfettamente, per questi vestigi sono condotte sempre con un' inclinazione veementissima al Bene stesso, che è appunto la causa delle idee che compongono l' esemplare, e quella che in sè contemplandole, le contiene e le rende vive ed efficaci creatrici del mondo. Così spiega Platone il tendere di tutti gli esseri umani al Bene, come una tendenza a Dio, oscuramente e quasi per enimma conosciuto, e pur incessantemente desiderato. [...OMISSIS...] . Quella insufficienza con cui l' uomo conosce il Bene, quell' augurarsi che sia veramente qualche cosa e pur dubitarne, quel tendere tuttavia in questo oggetto, così oscuramente e incertamente conosciuto, con tutta l' anima, con tutti gli atti della vita [...OMISSIS...] , questo facile ingannarsi del giudicare intorno all' utilità dell' altre cose, benchè più conosciute, a cagione della insufficiente cognizione che s' ha del Bene, essendo la misura e la norma secondo la quale devonsi giudicare, sono tratti sublimi d' una mente straordinaria. E quantunque l' idea del Bene rimanga così all' umana mente involta in una certa misteriosa caligine, pure a preferenza d' ogni altra si dee pregiare e cercare siccome la massima delle discipline [...OMISSIS...] . Niun' altra cognizione giova senz' essa, come niente pur vale il possedere tutte l' altre cose senza il Bene (2). E Platone parla di quel puro e perfetto Bene, che dee essere misura di tutti i beni e le cose, di cui si pervertirebbe il concetto se d' alcuna sua minima parte si diminuisse, poichè « « di niuna cosa può esser misura ciò che è imperfetto »(3) ». Ma per quali vie può dunque l' uomo pervenire a quella, se non compiuta (mentre si trova in questa vita e circondato da questo corpo) almeno sufficiente notizia del Bene a cui aspira? Partendo dai più eccellenti intelligibili dati all' anima umana, dall' idee più eccellenti di cui ella sia stata fatta partecipe. Noi dicemmo che l' oggetto proposto da Dio all' intuizione naturale dell' anima non è, secondo Platone, Dio stesso, ma il divino esemplare del mondo, che alcun' anima intuisce più perfettamente, alcun' altra meno. Da questa intuizione naturale l' anima per mezzo del raziocinio può innalzarsi ad una sufficiente cognizione del Bene, che è la causa del mondo, Iddio, atteso che in quest' esemplare ci sono i vestigi del divino suo autore ed è con esso intimamente connesso come effetto ottimo, per quanto può essere, d' una causa assolutamente ottima. Ma a tanto non perviene se non con vari passi del raziocinio, i quali addimandano quel continuo esercizio di meditazione e continuo sforzo della mente per astrarsi dal corporeo ed ascendere all' invisibile e all' ottimo, a cui Platone riserva il nome di filosofia. Primieramente conviene ben distinguere quattro gradi di cognizione, due appartenenti all' ordine delle cose visibili, e due a quello delle cose invisibili. Perchè le cose visibili si dividono in due classi: 1 le imagini; 2 le cose reali di natura o d' arte (4). Di qui due affezioni dell' animo [...OMISSIS...] , cioè l' affigurazione , «eikasia», che si riferisce all' imagini visibili delle cose, come quelle che si vedono riflettute da uno specchio d' acqua o nell' ombre, e la persuasione , «pistis», che si riferisce ai reali stessi corporei, e dicesi da Platone fede o persuasione, poichè intorno ad essi noi prestiamo fede alle passioni de' nostri sensorŒ e ce ne persuadiamo senz' altra ragione. Le cose invisibili ed incorporee del pari si dividono in due classi: 1 le cose conosciute mediante un raziocinio che parte da altre cose conosciute, come da supposizioni ammesse gratuitamente per vere, senza ascendere colla mente al primo principio ed evidente della cognizione; 2 il principio stesso conosciuto mediante un raziocinio che movendo da supposizioni, non ammette queste per vere, ma da queste ascende a trovare il principio evidente, dal quale poi, discendendo, si conoscono poi indubitatamente per vere le cose dedotte. L' affezione che nell' anima corrisponde al primo di questi due generi è chiamata da Platone cogitazione , «dianoia», quella che corrisponde al secondo è chiamata mente o intelligenza , «noesis» (1). Tutte queste quattro affezioni e funzioni dell' anima suppongono l' intuizione dell' essere. Quando conosciamo la cosa sensibile per mezzo di qualche suo ritratto esterno, come, per servirci dell' esempio che usa Platone stesso nel X della « Politeia », d' una dipintura, allora noi abbiamo prima la percezione sensibile di quella imagine, poi la percezione intellettiva ; da questa, l' idea della dipintura, e da quest' idea passiamo all' idea della cosa reale: tutte queste operazioni e l' affezione dell' animo conseguente sono comprese da Platone sotto la parola «eikasia». Quando conosciamo la cosa sensibile per se stessa, dopo la percezione sensitiva e la percezione intellettiva e l' idea della cosa , noi prestiamo fede alla sua esistenza, e tutte queste operazioni e la fede o persuasione conseguente sono comprese sotto la parola «pistis». Fin qui non c' è ancora il raziocinio, ma solo la percezione intellettiva sia del ritratto sensibile della cosa sensibile, che dicemmo l' affigurazione , sia della cosa stessa, e la conseguente persuasione o fede. Nel primo caso la notizia della cosa è più imperfetta perchè si fonda sulla percezione del ritratto; nel secondo è meno imperfetta, perchè si fonda sulla percezione della cosa: ma l' uno e l' altro fondamento non eccede l' ordine sensibile. Il raziocinio invece di cominciare dalla percezione sensitiva arrivando fino all' affigurazione e alla persuasione , parte dalla idea pura , e qui comincia il raziocinio, e percorre pure due stadii. Poichè primieramente l' idea da cui parte, suol esser cavata dalle percezioni precedenti, e però il primo stadio di questo nuovo lavoro s' incatena co' precedenti e anche fa uso de' sensibili, non come fondamento al raziocinio, ma come fanno i matematici, che in aiuto della mente tengono sott' occhio de' triangoli ed altre guise di figure sensibili, benchè ad esse non dirigano il pensiero, ma al triangolo stesso e all' altre figure ideali, delle quali le sensibili sono imperfetti simulacri. In questo stadio adunque il raziocinio partendo da tali notizie e supponendole vere, ne trae le conseguenze come appunto fa il matematico che suppone il pari e il dispari e le figure e le tre specie d' angoli ed altre cose simili, di cui, supponendo tali cose note a tutti, non domanda altre ragioni, ma da esse discende a cercar altre cose, quelle che vuol rinvenire; e questo è quel primo stadio del raziocinio che Platone chiama «dianoia». Alla formazione di questa specie d' intelligibile [...OMISSIS...] , secondo Platone « « l' anima è costretta a far uso di supposti [...OMISSIS...] non rivolgendosi verso il principio [...OMISSIS...] , perchè non può ascendere più su dei supposti » » e questo si fa nella geometria e nelle altre arti affini [...OMISSIS...] . Ma la Filosofia sta più su e ad essa appartiene l' altra divisione d' intelligibile [...OMISSIS...] . Questa porzione o specie d' intelligibili sono le ragioni ultime, e la ricerca di queste è così descritta da Platone: [...OMISSIS...] . Così distingue Platone la filosofia da tutte le scienze e le arti, avendo queste de' principŒ supposti , la sola filosofia il principio non supposto, evidente per sè, necessario, [...OMISSIS...] . Platone, con tutto il meglio dell' antichità, s' affida sempre al raziocinio, e distribuisce sempre il sapere umano entro l' ordine della riflessione : manca del tutto nell' antichità la teoria dell' intuizione primitiva, non riflessa e inconsapevole. In luogo di questa, di cui pure sentiva il bisogno, Platone introdusse a colmar la lacuna, il tipo ingegnoso della riminiscenza . Questa però non s' operava per via d' un semplice ricordarsi, ma imperfettamente per mezzo della percezione, perfettamente per mezzo del raziocinio riflesso . A questo dunque Platone assegna due gradi: l' uno, quello delle matematiche e dell' altre scienze, che non ascendono al sommo ed evidente principio; l' altro, quello della filosofia che vi ascende. La distinzione di questi due gradi ha per fondamento la distinzione tra due classi d' idee, ossia d' intelligibili, l' una più eccellente dell' altra. La classe inferiore delle idee è di quelle che si riferiscono immediatamente al mondo sensibile , e che l' uomo ha mediante la percezione ( specie piene, specie astratte ). L' acquisto di queste idee non importa ancora il raziocinare, ma l' affigurazione e la persuasione. Da queste idee inferiori prossime ai sensibili, di cui sono l' intelligibilità, move il raziocinio per due vie a diverso intento. Poichè o si parte da esse per arrivare ad altre idee parimenti inferiori, per arrivare alle idee ultime: queste sono le idee superiori . Come le idee inferiori sono quelle che manifestano il mondo sensibile e corporeo, così l' idee superiori sono quelle che manifestano il principio dell' universo, e le cose tutte che ad esso sono inerenti, e che l' anima, per questa via d' alto raziocinio, può arrivare, in qualche modo, a toccare: [...OMISSIS...] . Queste idee o intelligibili superiori sono lontanissimi da ogni sensibile, e la mente va ad esse senza fare alcun uso del sensibile, [...OMISSIS...] , laddove il sensibile avea luogo nell' ordine delle percezioni, ed anche nel primo grado del raziocinio, servendo i sensibili come di simulacri a quelle idee a cui la mente si rivolge, atteso che queste idee ai sensibili appunto si riferiscono, come accade a' matematici. Le idee superiori dunque sono quelle che manifestano nature spirituali e doti e qualità di queste, e che perciò non si riferiscono punto ai corpi. Vediamo quali queste sieno, e come la mente giunga per esse al principio dell' universo, procedendo sempre nei campi del mondo puro, scevra d' ogni concrezione sensibile, d' idea in idea; [...OMISSIS...] . Sono indubitatamente tali idee quelle del giusto , dell' onesto , del sapiente e simiglianti, le quali tutte insieme s' unificano in un modo occulto nell' essenza divina, ossia nel principio del tutto e non possono esser partecipate da alcun corporeo e sensibile, ma solo dall' anima per l' intelligenza. Da queste idee dunque vuole Platone, che il filosofo dialettizzando pervenga a quella qualunque notizia che l' uomo può acquistarsi della divinità. Poichè il lume pel quale l' anima intuisce quelle idee e per esse è scorta alla cognizione di Dio, è ciò appunto che Platone chiama il Figliuolo del Bene, come chiama Iddio il Bene, cosa più augusta di quelle singole idee e del lume stesso che all' uomo le dimostra. Descrive dunque il filosofo come colui che [...OMISSIS...] . Dove Platone distingue il divino , «to theion», da Dio, attribuendo la qualità di divino alle idee veramente essenti, «alethos onta», e massimamente ad alcune più eccellenti ordinate con ordine immutabile, [...OMISSIS...] , le quali sono indubitatamente quelle della giustizia, della virtù, della sapienza e simiglianti, poichè a queste conviene, a preferenza dell' altre, l' essere tutte ornate e secondo ragione, [...OMISSIS...] , essendo il raziocinio [...OMISSIS...] , quello che ritrova il giusto e l' onesto e altre tali idee. In secondo luogo poi attribuisce Platone l' attributo divino a tutti quegli enti che partecipano di tali idee contemplandole ed imitandole, cioè all' anima del mondo, poi agli astri che ne sono avvivati, finalmente al filosofo che mettendo tutta la sua mente e il suo cuore in esse, si rende ad esse simile. Poichè secondo Platone è la contemplazione pratica della giustizia, dell' onestà, della virtù e di somiglianti essenze, la causa per la quale l' uomo si rende giusto, onesto, virtuoso e in ogni maniera ornato: come noi pure abbiamo affermato, che il principio della morale non si può trovare altrove che in un primo atto volontario d' intendimento, pel quale l' uomo aderisce col suo principio, e con tutto se stesso alla verità delle cose, e che abbiamo chiamato ricognizione dell' essere (3). Questa è dunque la maniera nella quale Platone insegna che l' uomo imita tali essenze: la contemplazione di esse incessante, ma affettuosa, pratica, assoluta; [...OMISSIS...] . E perciò appunto che Platone vuole che il fine della filosofia sia pratico ed effettivo, e non di astratta speculazione, dà per ultima e suprema essenza, non questa del nudo essere ma quella del Bene; poichè quella del puro e indeterminato essere non presta che il principio della filosofia, ma l' essenza del Bene ne è lo stesso termine e finimento. Onde s' affatica Platone a rimovere la falsa opinione che la filosofia sia una speculazione sterile, e a dimostrare che il vero filosofo, posto al reggimento della cosa pubblica, è il solo atto, non pure a informare alla virtù sè stesso, ma anche tutto il popolo (1). Dal quale prima rimove gli impedimenti, come il pittore che ripulisce prima la tavola su cui deve dipingere, e poi lo istituisce alle virtù per modo che lo conduce fino a Dio, rendendolo teofilo. [...OMISSIS...] . Così dalla contemplazione e dall' amore di quelle supreme idee del giusto, dell' onesto, del prudente e simili, l' uomo va, secondo Platone, alla cognizione, alla contemplazione, all' amore di Dio stesso. Pure Iddio è tal cosa che sta ancora più su di quelle singole essenze (3). Avendo distinte tre specie d' anima (4), in rapporto a quel che è giusto per natura, quel che è per natura bello e onesto, quel che è per natura saggio e temperato [...OMISSIS...] (5), Platone mostra che l' idea del Bene è superiore a tali eccellentissime essenze. Poichè dice, che « « la giustizia stessa e l' altre cose tutte devono avvalersi dell' idea del Bene, affine di rendersi utili e convenevoli »(6) »: di maniera che l' idea del Bene è la stessa regola suprema e la misura della giustizia e dell' altre essenze tutte, di quella dell' onesto, del temperato, del sapiente, dell' utile; le quali perciò da quella dipendono e ne ricevono la legge e l' ordine, e tutto ciò che hanno di bene. Dimostra lo stesso contro coloro che riponendo il Bene nella sapienza [...OMISSIS...] fanno di quelle due cose una sola. Poichè acutissimamente dice che se costoro s' interrogano di qual sapienza parlino, qual oggetto le assegnino, sono costretti in ultimo di rispondere, che intendono « « della sapienza del Bene » ». In tal modo ricorrono al Bene per determinare quella sapienza nella quale dicevano di riporre il Bene. Suppongono dunque di conoscere il Bene prima della sapienza, e per mezzo di quello definiscono questa, non viceversa (1). Dall' idea dunque del Bene anche la sapienza procede, e egli n' è la ragione, onde senza la cognizione del Bene non giova, o piuttosto non esiste, nè la cognizione della giustizia, nè d' altra cosa, quantunque eccellente ella sia (2). Con un altro carattere nobilissimo distingue Platone il Bene da tutte le altre cose più eccellenti, ed è che il Bene è sempre amato per se stesso, onde non è possibile che nessuno intorno a lui voglia ingannarsi: [...OMISSIS...] . L' essenza del Bene, dunque, è l' altissimo Iddio superiore a tutte le cose più eccellenti e causa di tutte. Ma qual è l' essenza più vicina a lui? Quella che Platone chiama il Figliuolo del Bene che è la luce , per la quale l' umano intendimento conosce tutte queste cose; ed è d' idea in idea diretto ad argomentare qualche cosa al di là di tutte le idee, la prima ed ottima causa, in una parola, il Bene stesso, che perciò non è immediatamente intelligibile, ma dal lume e col lume suo figliuolo s' argomenta: poichè col lume s' ha il vedere, e col vedere si vede il lume e nel lume come nell' effetto si vede la causa, [...OMISSIS...] . Come tra tutti gli organi sensori la vista è quella che è sommamente partecipe del sole e del lume, così tra tutte le facoltà umane quella che riceve più il lume intelligibile è la mente «nus» (4), che intuisce le idee e il loro ordine. Ora che cosa è questo lume delle menti, effetto, ossia prole del Bene, che per mezzo di questo lume, ascendendo dall' effetto alla causa, si conosce? Platone risponde la verità e l' ente , [...OMISSIS...] (1). Il che noi abbiamo ripetuto nell' ideologia. E la verità e l' ente è il medesimo lume, che considerato in relazione alla mente dicesi verità, considerato in relazione all' oggetto stesso, dicesi ente. Il Bene, adunque è al di là del lume della mente umana, essendone la causa. [...OMISSIS...] . Il figliuolo del Buono, adunque, da Platone è chiamato ente, verità, cognizione, scienza , vocaboli che significano sempre il lume e la forma oggettiva della natura umana. Poichè l' ente [...OMISSIS...] o, come altrove lo chiama, l' essenza semplicemente detta, è la prima specie che illumina la mente umana; la verità [...OMISSIS...] è lo stesso ente, in quanto è esemplare delle cose reali e definite e queste lo imitano e così partecipandone diventano vere; la cognizione [...OMISSIS...] è l' effetto che consegue nell' anima che ha presente l' essere o la verità; la scienza [...OMISSIS...] è la cognizione più ferma ridotta alle ragioni ultime (3). Il Bene dunque è il sovraintelligibile per Platone, perchè sta più su dell' ente indeterminato e comune, più su della verità, più su della cognizione e della stessa scienza; pure se ne può avere una cognizione per analogia , perchè queste cose tutte date alla mente umana sono boniformi , ed hanno un' analogia ed un' intima relazione colla sua causa, il Bene essenziale, Iddio; e nell' uomo stesso che le partecipa colla mente e che, conformandosi ad esse con tutto sè, si rende giusto, onesto e temperato, rimane come dipinta e formata una certa imagine di Dio [...OMISSIS...] (1). Questa certa cognizione poi, quantunque analogica, negativa e raziocinativa, del Bene, è tuttavia così preziosa e importante, « « la massima disciplina o istituzione » » che possa avere l' uomo [...OMISSIS...] (2): poichè da questa notizia del Bene, come da regola suprema, si può giudicare del giusto e dell' onesto e d' ogni altra cosa pregevole. Il Bene poi non è solamente causa del suo Figliuolo, la luce delle menti umane, ma, senza cessar d' esser luce inaccessibile in sè stesso, è causa effettrice di tutte le cose, ond' anche per questo Platone lo rassomiglia al sole: [...OMISSIS...] . Dove parla manifestamente dell' essenza delle cose finite, di quelle essenze che tutte unite insieme costituiscono, come vedemmo, l' eterno esemplare del mondo, del quale si dice Iddio più antico (perchè da Dio, sebben ab aeterno , fu formato), e perciò stesso più potente [...OMISSIS...] . All' essenza infatti di Dio, che è quella della bontà, Platone attribuisce nel Timeo la causa della creazione del mondo [...OMISSIS...] . Affine dunque di rendere il mondo similissimo a sè stesso, Iddio creò delle intelligenze, e in servigio e gloria di queste, altre cose sensibili da dominarsi, ordinarsi ed effigiarsi, per quanto esser potesse, alla stessa similitudine. Le intelligenze poi le creò a sua imagine e somiglianza, ponendo davanti ad esse le idee a contemplare. Ora contemplando in queste ed ascendendo la mente dalle une alle altre fino alle somme, fino a quella della stessa virtù, cioè a quello che è « « per sua natura giusto, per sua natura bello, per sua natura sapiente » » e da queste finalmente ascendendo col raziocinio dell' analogia alla cognizione della Causa, ossia del Bene stesso; se con tutti se stessi, con tutte le azioni gli uomini a questo ineriscano, di maniera che riescano i costumi informati dall' amor di Dio, [...OMISSIS...] : in essi finalmente s' impronta e rifulge una cotale specie e squisita dipintura della divinità. Tale è l' ideale dell' uomo appieno educato e istituito alla virtù; ciò che Platone chiama «andreikelon» (1). Nel Filebo dove Platone espone la stessa dottrina, accenna quanto la natura divina sia superiore alle idee che noi contempliamo e che costituiscono la nostra mente e la nostra sapienza. Vede infatti il Figliuolo della Causa suprema in queste, onde dice: [...OMISSIS...] . E poco appresso chiama la mente cognata alla Causa e quasi dello stesso genere: [...OMISSIS...] . Ma quanto la mente e la sapienza umana ossia il complesso delle idee accessibili all' uomo sia inferiore del Bene stesso, causa del tutto, lo dimostra in questo modo. Pone per caratteri del Bene primo che sia perfetto (4), quindi sufficiente a se stesso , [...OMISSIS...] . E questa sua piena perfezione e sufficienza è un carattere così proprio di lui, che per esso si distingue da tutti gli esistenti (5), niun altro di questi potendo essere a sè medesimo sufficiente. Un altro carattere nobilissimo del Bene è ch' egli non può essere da niuno conosciuto senza che ad un tempo sia ed amato e cercato, e così fattamente che niun' altra cosa si ama e si cerca, se non per lui (6). Dopo stabiliti questi distintivi del Bene, mostra che nè il piacere nè la sapienza umana sono in separato sufficienti a sè stessi. Poichè niuno vorrebbe godere tutti i piaceri del mondo senza avere alcuna conoscenza nè memoria de' medesimi, che non sarebbe la vita dell' uomo ma del polmone o spugna marina, o della conchiglia. Niuno del pari s' appagherebbe d' aver sapienza e mente e scienza e memoria di tutte le cose, privo di ogni qualsiasi godimento, benchè anche insensibile alla molestia (7). All' incontro tutti, senz' eccezione alcuna, eleggerebbero ugualmente la vita del piacere [...OMISSIS...] unita e mista colla vita della sapienza [...OMISSIS...] che Platone chiama anche indifferentemente la vita della mente [...OMISSIS...] (1). Così della sapienza e della mente dell' uomo, la quale essendo insufficiente non è lo stesso Bene. [...OMISSIS...] . Distingue dunque la mente divina dalla mente creata , quella perfetta e sufficiente a se stessa, questa imperfetta e insufficiente a rendere beato l' essere finito. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione. L' ente creato (secondo Platone, che a servigio del suo pensiero trae i concetti e il linguaggio dei Pitagorici) tutto ciò insomma che è creato, è il composto [...OMISSIS...] di due elementi, l' indefinito [...OMISSIS...] e il fine o finiente [...OMISSIS...] . All' indefinito appartiene la materia corporea, al fine l' anima, e però d' anima e di corpo il mondo si compone (3), animale razionale, che contiene altri animali in se, gli astri e l' uomo. Essendo dunque due gli elementi accoppiati insieme, la felicità dell' essere finito non può consistere nella vita della sola mente che appartiene alla sola anima, ma deve concorrere a render pago un tale essere anche la vita del piacere che appartiene al misto in quanto è fornito di corpo. Ma come il misto risulta da due elementi bensì, ma armonicamente tuttavia uniti e compaginati, così il pieno bene dell' ente creato deve risultare da un' armonica unione e contemperamento delle due vite, cioè della sapienza e del piacere, e di questo contemperamento armonico lungamente e sapientemente ragiona nel « Filebo ». Questo dunque è il solo bene di cui noi uomini e ogni altro ente creato abbiamo esperienza, un bene misto di sapienza e di piacere. Ma sebbene non abbiamo esperienza d' altro bene, non possiamo noi formarci in qualche modo il concetto d' un bene ancor più perfetto? Sì, risponde Platone, ma non per alcuna positiva esperienza; bensì per via delle ragioni , cioè raziocinando da quel bene che sperimentiamo; e così per analogia arriviamo ad una cognizione ideale e negativa dell' essenza stessa del Bene, che è quanto dire di Dio, il Bene stesso, ed ecco come. Poichè l' ente creato è composto d' infinitezza e di fine , ma questi, congiunti armonicamente, e così pure il bene di quest' ente è un accozzamento armonico di sapienza e di piacere , è manifesto che ci deve essere una causa che abbia così opportunamente collegati que' due elementi, e fattane uscire una sola essenza (4). Questa causa è cosa anteriore all' effetto, cioè all' accoppiamento de' due elementi (1) e per natura di entrambi più eccellente. Essendo dunque quella che dà l' essere e l' essenza e il bene a tutte le altre cose, conviene che ella sia il Bene stesso ed assoluto (1). Così dal bene imperfetto e partecipato, che si percepisce nel mondo e più o meno si esperimenta, vuole Platone che la mente ragionando, per una certa scala d' idee, ascenda al Bene stesso impercettibile e al di là di questo universo. Il primo lavoro adunque è quello di formarsi un concetto del Bene, di cui è suscettibile quest' universo, nel modo più perfetto. Questo concetto che risulta dal più perfetto contemperamento della sapienza e del piacere, conduce la mente nostra all' esemplare del mondo in cui, essendo opera perfettissima, è disegnato quel Bene. Onde, dopo aver lungamente mostrato per quali vincoli opportuni il piacere dee collegarsi alla sapienza, acciocchè ne esca la miglior vita, Socrate nel « Filebo » soggiunge: [...OMISSIS...] . Ma dopo di tutto ciò rimane il secondo lavoro della mente raziocinatrice. Poichè rinvenuto « « l' ideale del bene mondiale » », questo, dice Platone, non è che come un atrio della casa del Bene stesso. [...OMISSIS...] . Dal bene creato dunque vuole che s' ascenda alla notizia del bene increato, dall' effetto alla causa che non si può esperimentare quaggiù, ma argomentare, ed ecco per qual via. Primieramente questa causa deve essere una Mente, essendo composto con tant' ordine, convenienza e perfezione il Mondo e commiste in esso con tant' arte le due vite della sapienza e del piacere. Distingue dunque due menti: quella partecipata dall' ente creato e quella che è per sè Mente. Chiama questa « «vera e divina Mente », [...OMISSIS...] (1), Mente regia, [...OMISSIS...] (2), e questa, dice egli, è la Causa certo non ispregevole che adorna e dispone, [...OMISSIS...] . Quest' intelligenza, causa del mondo, non è composta de' due elementi dell' infinitezza e del finiente , essendo essa anzi la Causa e l' accoppiatrice di essi. Non avendo in sè alcuna cosa che sia di natura sua indefinita, per questo stesso è immutabile . Poichè l' indefinito è quello che riceve il più e il meno, [...OMISSIS...] , e però che ha la natura del variabile. La variabilità, ossia l' ammettere più e meno, è il fonte, secondo Platone, delle imperfezioni a cui soggiacciono le nature finite e composte, ed essa stessa è il primo difetto e il genere de' difetti. La Mente causa dunque non ha difetto, e quindi ha le due qualità del Bene, la perfezione e la sufficienza . Il piacere e il dolore della vita animale nasce dall' elemento dell' infinitezza che è massimamente il corporeo, e perciò tali affezioni sconvengono del tutto alla Divinità: non possono dunque entrare nell' essenza del Bene, la quale non è, nè può essere come il Bene del mondo, composta d' indefinito e di definito: il che fa ben intendere che la vita della pura contemplazione sia in sè la divinissima, [...OMISSIS...] . Ma quantunque il Bene perciò stesso sia al tutto semplice, tuttavia noi dovendone raccogliere la cognizione per via di raziocinio induttivo e analogico dal bene partecipato del mondo, che è composto, non possiamo concepirlo mediante una sola idea (5). L' idea stessa dunque del Bene, cioè, ciò che è per sè il Bene quaggiù ci manca. Possiamo in quella vece esprimerlo con una cotal formola razionale composta e quasi organata di più idee: e sono quelle idee eminenti che si vedono nel mondo partecipate, ciascuna delle quali dà una tale essenza che dee essere necessariamente compresa in quella del Bene nè può essere altrove, benchè non sappiamo come si fondano in quell' unica somma ed a noi inescogitabile essenza. Si ferma Platone nel « Filebo » a tre di queste idee che ci servono a conoscere, come possiamo, il Bene stesso. [...OMISSIS...] . Trattasi qui di quella mistione da cui risulta il bene dell' animale intelligente (non essendo altro il creato che questo), il quale è misto di piacere, che si riferisce al corpo animato, e di sapienza, che si riferisce all' anima pura. Ora dice Platone che in questo stesso bene misto si scorge la partecipazione di quelle tre essenze, cioè della verità, della commisurazione e della bellezza; e per sì fatto modo che, tolte via queste, non resta più nello stesso animale, ossia nel creato, nulla che abbia ragione di Bene. La ragione dunque perchè l' ente creato animato è buono, ossia ha il bene, consiste unicamente nella partecipazione di quelle tre essenze. Se noi dunque prendiamo queste tre essenze e separandole colla mente da ogni altro elemento, le consideriamo come fuse in uno, [...OMISSIS...] (e in questa fusione e unificazione com' ella sia, sta il mistero impenetrabile alla mente umana, onde Platone dice l' idea del Bene appena visibile, [...OMISSIS...] ) (1), noi così ci formiamo la cognizione del Bene puro . Dimostra adunque prima che acciocchè il bene del creato sia bene, è necessaria la verità . E quanto al primo elemento di quel bene, cioè alla sapienza, è facile vederlo, non dandosi nè sapienza nè scienza senza la verità, ma questa è necessaria anche ai piaceri che sono il secondo elemento, chè se non sono veri piaceri nè pur sono piaceri. [...OMISSIS...] . E dimostra che ci sono de' piaceri veri e dei falsi: i primi ordinati e moderati che si possono di conseguente comporre e mescere colla sapienza; gli altri disordinati che non potendosi mescere con essa nè sono veri, nè possono convenire in quel misto nel quale sta il bene della creatura. E prende Socrate a interrogare la stessa sapienza e mente, se loro bisognino, per formare il compiuto bene dell' ente creato, oltre i veri piaceri, anche i più veementi e grandissimi; le quali rispondono: [...OMISSIS...] . Dimostra poi, e da questo stesso deduce, che al bene creato è necessaria in secondo luogo la commisurazione o simmetria, senza la quale non può riuscire la concorde e pacifica mistione dei due elementi [...OMISSIS...] . La misura dunque e il commisurato [...OMISSIS...] è la seconda idea che si scorge nel bene finito: il commisurato è lui stesso il bene finito ricevuto che abbia la misura, e la misura , che è quell' idea che noi caviamo per astrazione da questo commisurato, e che si deve attribuire in proprio alla causa, cioè al Bene puro ed essenziale, misura di tutti i beni, e perciò stesso da sè essenzialmente misurato, [...OMISSIS...] chè, come già disse nella « Politeia », [...OMISSIS...] . Quindi la terza idea partecipata dal Bene, quella della bellezza. [...OMISSIS...] . Il bene dunque nell' ente creato si mostra sotto tre aspetti, ora di verità, ora di misura e commisurato, ora di bellezza: e nessuna di queste tre idee può abbandonar l' altra, chè c' è tra esse un naturale sintesismo; nè tuttavia si possono da noi unificare come si converrebbe a comporre l' unica e semplicissima idea del Bene stesso assoluto. A queste tre idee si riducono quelle tre altre di cui fa uso nella « Politeia » di ciò che è giusto, bello, prudente o temperato [...OMISSIS...] , poichè, come apparisce dall' ultimo luogo citato, riduce allo stesso il bello e la virtù [...OMISSIS...] , e perciò la giustizia e l' altre tre virtù cardinali (2); nè si dà il giusto e il prudente o temperato senza verità, misura e bellezza. Il Bene dunque è la verità, la misura e il misurato e il bello. e ciascuna di queste tre essenze è il Bene, che prende diverse forme ed aspetti (3), e nel mondo risplendono. Venendo dunque Platone in sulla fine del « Filebo » a classificare i diversi ordini di bene che sono nel mondo, li distribuisce nella scala seguente. Il primo luogo, dice, dee darsi alla misura [...OMISSIS...] e al misurato e ammodato [...OMISSIS...] e a qualunque altre cose tali, di cui convenga credere aver sortito una sempiterna natura [...OMISSIS...] ; e quest' altre cose sempiterne sono appunto quelle indicate, la verità, la bellezza, la giustizia, la prudenza ed ogni virtù. Tutte queste cose per sè stesse non appartengono al mondo o all' uomo, ma sono di spettanza alla causa, [...OMISSIS...] , e tutte insieme formano l' idea del Bene, [...OMISSIS...] , il quale nel mondo e nell' uomo, siccome in uno specchio, si riflette con diversi raggi in tutte quelle diverse idee supreme, l' una reciprocamente inserta nell' altra, che dicevamo. Tutto questo lume riflesso poi non è lo stesso Bene, ma il figliuolo del Bene, [...OMISSIS...] , nel quale e pel quale noi divinando [...OMISSIS...] acquistiamo una cognizione oscura bensì «( per speculum et in aenigmate ) », ma preziosissima e la più necessaria di tutte, del Bene stesso, colla quale sola misuriamo e giudichiamo tutto ciò che del Bene partecipa, e quelle stesse idee eterne, che al Bene ci conducono, e a questo di nuovo, come ad ultimo principio, riferiamo, e vediamo che senza quest' ultima idea non sarebbero. [...OMISSIS...] . Le quali sublimi parole non pronunzia Platone senza dar segno di quella sua solita riverenza e modestia, con cui parla delle cose divine e che s' addice tanto ad un uomo, specialmente privo della divina rivelazione. [...OMISSIS...] . Nel qual luogo è da notarsi come Platone riconosca chiaramente l' idea del Bene, non solo esser causa delle cose intelligibili, ma anche delle visibili; il che dimostra due cose: 1 che per « idea del Bene »intende l' essenza stessa del Bene, il Bene assoluto, Dio; 2 che nulla ammette fuori di Dio, che non abbia per causa Iddio. Questo dunque ha il primo luogo nell' ordine de' beni: il secondo è occupato dal tutto insieme, perfettamente ordinato, sia nel mondo, sia nell' uomo, cioè in quella perfetta composizione tra la sapienza e il piacere, onde risulta la felicità e la perfezione di tali animali intelligenti: è dunque «to xymmisgomenon». E di questo bene si deve intendere il passo che segue: « « Il secondo (bene) è circa il commisurato, e il bello, e il perfetto, e il sufficiente, e quante v' abbiano cose di questa generazione » » (2). Poichè il mondo e l' uomo a pieno virtuoso ha appunto queste qualità di commisurazione, bellezza, perfezione e sufficienza relativamente alla sua natura; e bene è del pari ogni altra cosa che le abbia in sè. Dipoi vengono i beni elementari, di cui questo bene composto, proprio dell' ente creato, si compone, e anche tra questi Platone cerca qual sia l' ordine di preminenza. Avea già detto che questi elementi buoni sono primieramente due, l' uno appartenente all' ordine intelligibile, e l' altro all' ordine sensibile, e che quello va di lunga mano preferito a questo, stante che abbia una stretta parentela col bene supremo. Ma non contento di ciò, spezza l' intelligibile in due, e all' uno dà le idee più sublimi, come appunto quelle dal cui complesso si arriva all' idea del Bene; e questo pone il primo bene degli elementari e il terzo della serie totale. Dice dunque « « se tu dunque porrai per terzo bene la mente e la sapienza [...OMISSIS...] , non andrai lontano dal vero, come io vaticino » ». Avea detto poco prima della mente che ella « « o è un medesimo colla verità, o certo di tutte le cose è la più simile e la più vera » » (3). Delle quali parole, le prime, cioè che la mente sia il medesimo colla verità, appartengono alla mente divina, alla Causa, al Bene: l' altre, cioè che la mente sia di tutte le cose la più simile alla verità e la più vera, appartengono alla mente creata o partecipata dagli animali divini e dall' animale umano. E questa è quella mente che pone terza nell' ordine de' beni, perchè sola non è sufficiente all' animale, benchè per essa comunichi colle cose divine, perchè egli non è pura mente, ma oltre a ciò ha per sua natura l' elemento dell' indefinito, [...OMISSIS...] , che deve essere dalla mente governato. Appunto per questo, oltre alla prima e più sublime delle facoltà intellettive, cioè alla mente che intuisce le più sublimi idee, s' aggiungono le scienze e le arti; e queste stesse talune sono pure e proprie della sola anima senza mescolanza d' alcun elemento attualmente sensibile, opere della mente e della ragione. A questo secondo genere d' intelligibili dà dunque il secondo luogo tra i beni elementari del creato; e il quarto nella classificazione totale: [...OMISSIS...] . E chiama scienze dell' anima, benchè alle sensazioni congiunte, anche questi piaceri (3): poichè non ammette punto per beni i piaceri sensibili, in quanto sieno scompagnati dalla cognizione e dalla verità, ma dall' essere a queste uniti e loro pedissequi ed inservienti [...OMISSIS...] deriva loro la qualità d' essere bene. Essi, dice, devono esser veri , [...OMISSIS...] . Il piacere dunque animale separato dalla cognizione è escluso da Platone dal novero de' beni, come quello che è indefinito, ma dall' idea, quando ne partecipa, riceve il suo finimento e da un' idea ancor superiore e finalmente dall' ultima che è misura suprema il finimento stesso è misurato (5), poichè le idee inferiori cioè più prossime ai reali sensibili, e il loro ordine dalle superiori e finalmente dall' ultima, che è quella del bene, ricevono la commisurazione. Conchiude dunque colla solita piacevolezza. [...OMISSIS...] . Se noi dunque vogliamo per conclusione e ricapitolazione di questo discorso segnare il principio ed il fine della filosofia platonica, e il corso di quell' arte del raziocinio che Platone chiama dialettica, e che conduce l' umana mente da quel principio passo passo finchè abbia raggiunto quel fine, diremo, con persuasione di non andare errati, che l' idea in universale, e propriamente l' essere ideale, [...OMISSIS...] è il principio, da cui vuole che si muova la filosofica disciplina, e il Bene, [...OMISSIS...] è il termine, a cui deve pervenire. Così descrive il filosofo dal principio e dal termine, quando lo dice « « amatore dell' ente e della verità » », [...OMISSIS...] . Ma torniamo oggimai ad Aristotele. Questo magnifico monumento filosofico non si trova nelle opere d' Aristotele, che mutilo a scarsi frammenti, insufficienti a ricomporlo, e guasti anche questi da un' esposizione infedele, sofisticamente tormentati piuttosto che discussi. Si direbbe, paragonando certi luoghi d' Aristotele, in cui parla delle dottrine di Platone, con altri che ancor si leggono nelle immortali opere di questo, che o gli scritti attribuiti ad Aristotele non fossero del discepolo di Platone, o avessero subite profonde alterazioni . Ad ogni modo ecco in che consistono le cardinali differenze tra i due sistemi, dalle quali dipendono tutte l' altre. 1 Secondo Platone, il mondo, e con esso il moto e il tempo, è cominciato per opera di Dio: secondo Aristotele è eterno, e Dio non fa che imprimergli ab aeterno di continuo il primo movimento; 2 Secondo Platone, il mondo è fatto nel tempo, secondo un eterno esemplare, il quale comprende tutte le idee, che si riferiscono al mondo; esemplare formato dalla mente divina per creare il mondo; secondo Aristotele, il mondo, essendo di sua natura eterno, non ha bisogno d' alcun esemplare, e però non ci sono le idee , che lo compongono, separate e indipendenti dal mondo; 3 Secondo Platone, le idee che si riferiscono al mondo come esemplari, sono intuite dalle menti create, che così ne partecipano; ma gli enti privi d' intelligenza, cioè i sensibili, non partecipano di esse, ma soltanto esprimono le loro similitudini , dalle quali, ricevute dall' uomo col senso, la mente trapassa alle idee , di cui quelle sono similitudini, ossia alle essenze de' medesimi sensibili, e per queste essi si conoscono. Aristotele nega, che gli enti reali e sensibili sieno similitudini, ma dà a loro stessi le specie o forme, che diventano intelligibili, tosto che l' anima che n' abbia il potere, le consideri in separato dalla materia, e così è, che ella conosce gli enti reali. Quindi Aristotele stabilisce, che tutte le cose mondiali sono composte di due elementi: 1 materia, [...OMISSIS...] ; 2 specie, [...OMISSIS...] (a cui si riduce anche il terzo elemento, la privazione ). Ma tutto questo complesso di enti, ciascuno composto di materia e di forma, che dicesi mondo, si muove in molte guise (1). Sebbene dunque nella sua supposizione d' un' eternità del mondo, egli non avesse bisogno di ammettere un ente creatore e ordinatore, tuttavia gli fu necessario di stabilire un principio , ed un fine del movimento del mondo e degli enti in esso contenuti: e quel principio non doveva essere mosso, altramente non sarebbe stato principio; doveva essere un primo motore immobile, [...OMISSIS...] , quel fine non potea essere che il Bene, [...OMISSIS...] , come aveva appreso da Platone. Ora i due elementi, di cui si compongono gli enti, e il principio e il fine del loro movimento, sono chiamati cause da Aristotele, e alla dottrina di queste quattro cause egli riduce tutta la metafisica (3). La prima causa dunque, ossia elemento, è la specie, o forma o essenza, [...OMISSIS...] . La seconda causa o elemento è la materia o il subietto , [...OMISSIS...] . La terza causa è il principio del movimento, [...OMISSIS...] , chiamata ancora causa efficiente, [...OMISSIS...] . La quarta causa è la finale, il fine del movimento, il Bene, [...OMISSIS...] . La materia è la realità in potenza, indeterminata, la forma è la sua determinazione, il suo termine, e però è un che determinato (9). Quantunque non possa esistere il solo indeterminato, tuttavia un ente determinato da una forma è in potenza ad altre forme, e così può passare da una forma all' altra; questo passaggio dallo stato di potenza a quello di atto è il movimento , la formola che esprime tutto ciò che si fa e si patisce nell' Universo. Ora questo passaggio, ossia questo movimento (1) dee avere la sua causa, e questa è il principio del moto ; dee avere anche un termine , e questo è il fine. Queste quattro e, colla privazione, cinque cause, sono considerate da Aristotele come i generi più estesi possibili. Ma ciascuna di queste cause generiche, quando si vuol determinare maggiormente e distribuire in generi minori e in ispecie e in individui, si può considerare sotto due aspetti che danno una diversa base d' eseguire una tale determinazione. Poichè: 1 ciascuna si può considerare nel suo effetto , in quanto può concorrere diversamente a produrlo, spezzandosi così quel genere unico in più classi e individui di cause; 2 e dopo ciò si può prendere ciascuna di queste cause, la più prossima all' effetto prodotto, e ascendendo ad una causa anteriore, e da questa ad un' altra pervenire a trovare la prima, la più remota di tutte l' altre. Si può dunque considerare ciascuno di quei generi di cause relativamente all' ultimo termine della sua azione in basso, e viceversa relativamente al suo primo principio in alto: distribuendosi in una serie dalla prima causa sino all' ultima. Consideriamo ciascuna di queste cinque cause, la materia, la forma, la privazione, la causa motrice e la finale sotto il primo aspetto, in quanto concorre in diverso modo a mettere in essere l' effetto. La materia , secondo Aristotele, non è mai priva della forma (2), ma esiste con questa formando l' ente singolare (3). Ora poichè questi sono diversi (4), perciò, secondo Aristotele, ci devon essere altrettante materie diverse che li moltiplicano. E poichè gli enti reali, oltre dividersi in individui, si classificano secondo le specie e i generi, così anche le materie (5). Le materie della stessa specie producono gli individui (è ciò che gli Scolastici chiamarono principio dell' individuazione), le materie di varia specie o genere appartengono ad individui di varia specie e genere. Così la materia degli astri è specificamente o genericamente diversa, secondo Aristotele, da quella, di cui si compone il mondo sublunare (1). Questa dottrina d' Aristotele intorno alla materia, non regge alla prova; poichè se le materie si distinguono tra di loro, hanno delle differenze, qualunque sieno: se hanno differenze, hanno delle forme, onde non trattasi più d' una materia prima, d' una pura potenza, che come tale, è indifferente a tutto. Se poi le materie si dividono anche specificamente o genericamente, partecipano dunque di forme specifiche e generiche. Aristotele dunque non giunse al concetto d' una prima materia e d' una pura potenza; ma il suo pensiero si fermò ad una materia non del tutto, ma solo in parte informata, e così potè trovare molteplice la materia. Se questa non fosse in parte informata non potrebbe avere il numero, che già è forma. Si fermò ad una potenzialità determinata a una certa classe di forme; ma questa determinazione della potenza è ella stessa una forma (2), quantunque non ultimata. Se la materia, secondo Aristotele, non può esistere nè concepirsi, senza la specie, e si parla di lei per via d' astrazione; della specie non osa dire il medesimo. In fatti riconosce una essenza immobile che appunto per questo dee essere pura specie secondo il suo principio; [...OMISSIS...] . E però anche alla sola specie dà la denominazione di «usia» (3) e di «to ti en einai» (4) come alla sostanza composta, denominazioni che nega interamente alla materia. Ma le forme degli enti singolari e composti non esistono se non in questi (5), e si classificano in dieci supremi generi che sono le categorie. Ci hanno dunque due generi di specie , secondo Aristotele: 1 Quelle che possono sussistere da sè stesse anche senza materia come il motore immobile e la mente; 2 Quelle che non possono sussistere che nella materia, come le specie di tutte le cose sensibili, sieno celesti o sublunari. Esamineremo forse in appresso qual sorta di purità Aristotele accordi al primo genere di queste specie, e se possano anche esse o no mescolarsi colla materia. Le categorie poi sono i generi formali che abbracciano le une e le altre; per esempio: sotto il genere di sostanza si comprendono tutte le sostanze singolari, siano pure forme o composte di materia e di forma. Poichè le categorie hanno per base della classificazione la nostra maniera di concepire per via di predicazione, sono una classificazione di predicati generalissimi; laddove la classificazione delle specie in pure e composte ha per sua base la natura delle forme stesse, è una classificazione di subietti . Venendo alle cause motrici e considerandole rispetto all' effetto che producono, queste si dividono da Aristotele primieramente in due: una causa interna alle cose che chiama natura , e una causa esterna che chiama arte (1). A queste ne aggiunge due altre, il caso e la fortuna , che nascono dalla privazione delle due prime, [...OMISSIS...] , e però presuppongono le due prime (3). Poichè quando la natura fallisce a produrre il suo effetto ordinario, si dice caso ; e quando all' uomo fuori della sua intenzione e aspettazione incontra per accidente qualche cosa, dicesi fortuna (1). Ma queste sono piuttosto cause rispetto al concepire dell' uomo che non conosce tutte le leggi della natura, che non vere cause. Quando poi l' uomo, volendo fare una cosa gliene riesce un' altra, il che dicesi fortuna, è caso anche questo, perchè è la natura che produsse quell' effetto inaspettato in vece dell' arte, onde il caso è un concetto più esteso della fortuna. La natura è dunque considerata da Aristotele come una causa motrice insita nelle sostanze composte di materia e di specie. Dalla materia in tal caso deve venire la forza del movimento, dalla forma la direzione del movimento: onde attribuisce il principio movente che dicesi natura , non meno alla materia ed alla forma che al composto. « « In un modo così si dice natura la prima subietta materia di ciascuna di quelle cose, che hanno in sè il principio del moto e della mutazione: in un altro modo la stessa forma e specie » »: ma questo per astrazione in quanto colla mente si considera la specie come altra cosa separata dalla materia (2). [...OMISSIS...] . Da questo apparisce, che i due principŒ d' ogni mutazione, la natura e l' arte , non sono entità diverse, secondo Aristotele, dai due elementi materia e specie , di cui risulta il mondo, ma sono virtù efficaci inerenti ai medesimi nell' ente composto (natura), e che oltracciò vi sono forme pure di materia, che danno origine all' arte , la quale è una causa fuori del composto (4). Del pari, la causa finale non differisce dalla forma . [...OMISSIS...] . La natura dunque, cioè il principio interno movente d' un ente naturale composto di materia e di forma, si muove verso un' altra forma ; e se niente osta, sempre verso la forma stessa: se non la consegue, dicesi caso . [...OMISSIS...] . Se poi c' è qualche impedimento, allora dicesi avvenire l' effetto per caso o per fortuna. E Aristotele per assegnare un fine agli agenti naturali dice non esser necessario che il movente deliberi, chè anzi l' arte stessa non delibera, operando abitualmente (1): [...OMISSIS...] . E veramente essendo il fine la forma , e questa, secondo Aristotele, essendo la medesima nell' arte e nella natura , nell' arte, cioè nella mente, separata dalla materia, nella natura unita colla materia, ma tuttavia dello stesso genere l' una e l' altra, conviene che tanto la natura quanto l' arte operino ugualmente pel fine. Dove si vede la profonda differenza, che passa da questa dottrina a quella di Platone; poichè questi nella natura sensibile non ammetteva la forma, ma la similitudine della forma riservata alla sola mente. Onde veniva la conseguenza che la natura sensibile non si poteva spiegare senza la mente , che le desse l' ordine e il fine, e a questo la dirigesse. Nel sistema d' Aristotele all' incontro la natura fa da sè, avendo la stessa forma in se stessa. Che la forma nella mente e ne' reali sia presa da Aristotele per la medesima, è chiaro da queste sue parole: [...OMISSIS...] (1). Il qual discorso nulla varrebbe o sarebbe sofistico, se la sanità e la casa senza materia non fossero identiche di numero colla sanità e colla casa reale e materiata. E veramente se fossero numericamente diverse, di maniera che ci fossero due forme, la reale e l' ideale (come in cert' altri luoghi sembra che dica Aristotele), s' incapperebbe nel sofisma del terzo uomo , di cui lo stesso Aristotele accusa ingiustamente Platone (2). Poichè se ci sono due specie della casa, devono aver qualche cosa di comune, e però ce n' abbisogna una terza che rappresenti la similitudine loro: e potendosi su questa fare lo stesso ragionamento che sulle due prime, si va all' infinito, nè si troverebbe mai l' ultima specie. Il che s' evita nel sistema di Platone, in cui la specie è una sola, e ne' sensibili c' è soltanto l' imitazione, la quale nella mente di chi conosce s' aduna insieme colla specie, su cui è stata esemplata. Onde la similitudine, che ha il sensibile colla specie, è la specie stessa imitata: di che anche a noi venne detto, che le idee sono la stessa similitudine (3). S' evita il sofisma del terzo uomo anche facendo, che la stessa numerica specie sia nella mente e nelle cose; ma questo sistema, nel quale ricaddero spesso i filosofi, tra i quali il fondatore della scuola tedesca (1), e appresso di noi il Gioberti conduce ad altri e gravissimi inconvenienti. Aristotele ad ogni modo prese questa via non giungendo a discernere la vera distinzione tra la specie , che solo alla mente appartiene, e il reale, come apparisce dal luogo citato, e come è necessario che sia, se deve mantenersi il suo ragionamento. Perocchè questo tende a dimostrare, che la natura ha in sè una virtù d' operare da sè convenevolmente ed ordinatamente, senza bisogno di ricorrere ad una mente che sia fuori di lei (bastando un primo Motore) per questo appunto che ha in sè la specie , come opera appunto l' arte, perchè ha la specie , sebben quella congiunta colla materia, e questa da ogni materia disgiunta. Alla materia dunque congiunta colla specie nell' ente composto, che è la sostanza perfetta, è inerente un principio di moto che tende a passare o a far passare un altro ente da una forma all' altra; quello che move, è il principio motore (natura), ossia la causa efficiente ; quella a cui arriva, è il fine ossia la causa finale . Aristotele dunque prende a spiegare l' operare della natura così. Alcune cose, dice, sono determinate dalla necessità , e la ragione di questa necessità è la materia (2); altre si fanno per un fine e la ragione dell' operare con un fine utile e buono è la forma o specie. Quando poi la natura pecca o se n' hanno effetti insoliti, questi s' attribuiscono al caso . Poichè l' operare secondo la forma può peccare, cioè non ottenere il fine, secondo Aristotele: e come la forma è nella natura ed è nell' arte , così si danno ugualmente peccati di natura e peccati di arte (3). La natura dunque, benchè legata in parte alla necessità che le impone la materia, ha in sè tutto ciò che le bisogna per operare ad un fine, il che Aristotele crede di dimostrare a questo modo: [...OMISSIS...] . Avendo dunque dato la forma alle cose materiali e sensibili e la medesima anche alla mente, trova Aristotele un problema importante, quello di rendere ragione perchè « « le cose naturali non abbiano intelligenza, e l' abbia l' anima » » (2), e risponde, che nella natura la materia è quella che acceca, per così dire, la forma, e le toglie l' intelligibilità, e di conseguenza al subietto che la possiede, l' intelligenza. Sono da osservare nel passo citato quelle parole: [...OMISSIS...] , poichè in questo sta il nerbo del suo discorso, su cui torna spesso in altri luoghi (3): suppone che le cause remote e prossime nella natura sieno già incatenate da sè, come sarebbero se fossero poste dall' arte . Onde deduce, che non è necessario preporre quest' ultima alla natura (4), e di conseguente non è vero quello che volea Platone, che fossero necessarie le idee, per ispiegare la natura ed il suo operare sapiente, e la sua tendenza a fini migliori. [...OMISSIS...] (1). Ma l' argomento di Aristotele pecca di circolo. Poichè si riduce a questo: « le forze della natura sono connesse e concatenate per modo che conducono un ente da uno stato o da una natura all' altra per una serie di azioni ed effetti di queste, e quindi di gradi determinati. Questa serie rimane la stessa, tanto se la prima forza riceve l' impulso da una mente, che vedendo tutta quella serie di cause e di effetti dà quell' impulso col fine d' ottenere l' ultimo effetto; quanto se quell' impulso è dato dalla natura stessa, dal caso, da una causa cieca insomma, che non delibera e non conosce il fine: questo fine s' ottiene dunque egualmente e nello stesso modo. Non è dunque necessario ricorrere ad una mente e ad un' arte precedente, perchè le forze e l' ordine loro esistono indipendenti dalla mente e dall' arte che si supponga dare ad esse, con un fine preveduto, l' impulso ». Dico che quest' argomento pecca di circolo, perchè considera l' arte o la mente unicamente come causa motrice e suppone che la natura esista da sè, così fatta come noi la vediamo, e che quando produce qualche cosa, non abbia bisogno d' altro che di un primo impulso. Ma è appunto questa la questione platonica: « se la mente eterna ossia il bene sia puramente un principio motore , e non anzi sia causa piena della natura stessa, e vero creatore ». S' egli è dunque vero, come sostiene Platone, che l' universo non esistesse, ma Iddio mosso dalla sola sua bontà l' abbia prodotto, egli accingendosi a quest' opera doveva indubitatamente concepire prima, secondo le regole d' un' assoluta sapienza, l' opera a cui volea por mano, e questo è l' Esemplare eterno composto tutto d' idee, conforme al quale ogni cosa fu fatta e si fa di continuo. In tale supposizione adunque le idee esemplari sono tutt' altro che « vaniloquii e poetiche metafore »: sono anzi sì alte cose a cui il volo d' Aristotele non pervenne. Ma di questo meglio in appresso. Ora veniamo al secondo aspetto in cui dicemmo (1) considerate da Aristotele le sue quattro o sei cause, cioè nel loro ordine, dalla più prossima all' effetto all' ultima più remota, ed è su questo che ci dobbiamo estendere. Tutte queste cause, come vedemmo, si riducono finalmente alle due elementari, materia e specie , perchè la causa motrice è inerente nel composto alla materia e alla specie, e dicesi natura , alla specie separata dalla materia, e dicesi arte . La privazione (2) poi nella natura e nell' arte dicesi caso e fortuna . Essendo dunque tutto per Aristotele materia e forma (subietto e predicato nell' ordine dialettico), quello che si dice dell' ultima materia e dell' ultima specie, vale anche per le ultime delle altre cause. Dice dunque che sussiste in natura il composto di materia e di specie , e che l' ultima materia, come l' ultima forma [...OMISSIS...] non sono prodotte (3). Dagli argomenti che adopera Aristotele a provare questa proposizione si potrà rilevare meglio che cosa intenda per materia ultima ed estrema. Egli argomenta dall' osservazione di ciò che nasce nei cangiamenti naturali: poichè il pensiero del nostro filosofo è così legato alla natura sensibile, che non può concepire un operare diverso da quello che cade sotto la sua esperienza, onde il suo ragionamento ha sempre come supposto il pregiudizio che « le leggi dell' operare naturale siano universali e assolutamente ontologiche ». Osserva dunque, che ogni cangiamento suppone tre cose: 1 il subietto del cangiamento, la materia [...OMISSIS...] ; 2 la causa movente [...OMISSIS...] ; 3 il fine o specie a cui tende il moto [...OMISSIS...] . Da questo deduce che il cangiamento suppone sempre il composto di materia e di forma, e che è sempre il composto quello che si cangia in un altro composto. Poichè se ciò che si cangia o diviene, non fosse il composto, ma ciascuno de' suoi elementi, cioè la materia a parte e la forma a parte, s' andrebbe all' infinito, poichè nella materia, o nella forma si dovrebbero di nuovo trovare quei tre elementi e condizioni necessarie del cangiamento, cioè si dovrebbe di nuovo distinguere in ciascuna di esse: 1 una materia subietto; 2 una forma termine del moto; 3 una causa movente; e in ciascuno di questi ugualmente. Convien dunque fermarsi a quella materia e a quella forma che costituisce da prima il composto, e in quest' unione soltanto rinvenire il cangiamento. Si produce, dunque, per esempio « la sfera di bronzo », ma non si produce a parte il bronzo, la materia, e a parte la sfera, la forma (1). Così avviene in fatti in tutti i cangiamenti e le produzioni della natura; e certo nella natura non si produce mai la forma in separato dalla materia, nè la materia in separato dalla forma: questo lo sapeva anche Platone, nè è prova d' ingegno maggiore averlo osservato. Laonde la conclusione che ne vuole cavare Aristotele contro le idee di Platone, non coglie punto questa sublime dottrina: [...OMISSIS...] . Vuole insomma Aristotele che tanto la causa efficiente , quanto la causa della cognizione delle cose reali sieno nelle stesse cose reali, perchè dice, se ci fossero specie fuori delle cose reali, queste nè potrebbero produrre o informare le cose reali, nè potrebbero farle conoscere (3), perchè sarebbero da esse dissociate, e cosa al tutto diversa da esse. Quindi spiega la produzione collocando un principio produttivo nelle cose reali, che produce non la materia sola, o la forma sola, ma altre cose reali composte di materia e di forma, e lo chiama natura , e spiega la cognizione delle cose collocando del pari in queste un principio conoscibile , cioè la forma, conoscibile cioè tostochè sia ricevuto in un' anima che sia atta a riceverlo scevro dalla materia. Dove osserveremo, di passaggio, aversi qui una nuova prova, che Aristotele ragiona come se la forma , che è nelle cose sensibili, fosse la stessa identica di numero con quella che, ricevuta nella mente, dicesi idea (a differenza di Platone che, ne' sensibili, non riconosce che un' effigie dell' idea) reputando che se fosse diversa e fuori di esse, non potrebbe far conoscere le cose stesse sensibili (4). In questa conclusione dunque e in tutta questa dottrina ontologica giace sempre nel fondo lo stesso vizio di circolo. Si suppone cioè quello che si vuol provare, che il mondo sia eterno, un' eterna successione di generazioni e corruzioni. Questo è quello che si deve provare. In quella vece, Aristotele lo suppone. Supposto questo, è chiaro che la maniera colla quale gli enti reali si cangiano e trasformano è l' unica maniera di produzione che ci sia nell' universalità delle cose. Se questa è l' unica maniera, dunque la forma e la materia stanno sempre unite, e così unite e formanti le sostanze composte, si vanno insieme permutando. Non è dunque più possibile che la forma o la specie abbia preesistito alla materia, e sia concorsa alla produzione del mondo. Non ci sono dunque le idee separate di Platone. Il mondo dunque è eterno e non creato da Dio, come vuole Platone: dunque di separato dalla natura non ci può essere una causa efficiente , ma solo una causa motrice che eternamente il mova. Legato dunque ai sensi e all' esperienza materiale, Aristotele suppose gratuitamente che stesse tutto qui, e che bastasse osservare come son fatti gli enti specialmente sensibili e materiali, per foggiare su di essi e sul loro operare una perfetta ontologia : le leggi dell' ente reale e finito divennero dunque nel pensiero di Aristotele, con un salto immenso, leggi dell' essere in tutta la sua estensione. Ma Platone non gli accorda il supposto, e così il sistema Aristotelico rimane senza alcuna solida base. Prima però di notarne più particolarmente i difetti, conviene che ne ultimiamo l' esposizione, accompagnandolo degli argomenti, dei quali Aristotele lo munisce e fiancheggia. Aristotele osserva, che « « tutto ciò che si produce, si produce di qualche cosa e da qualche cosa, ed è di specie il medesimo » » col producente (1): dal che deduce che il composto di materia e di forma produce altri composti della stessa specie, come l' uomo genera l' uomo. Deduce ancora che quella specie, che non si trova per anco in ciò che è in via di prodursi, deve preesistere nel producente (1). In questa sfera di cose naturali Aristotele non riconosce che una perpetua trasmutazione d' un composto in un altro della stessa specie, senza che mai sia possibile rinvenire l' origine del composto stesso, l' origine dico della materia, o l' origine della forma separata dalla materia. Questa specie è inseparabile dalla materia che informa, ma si separa di ragione, [...OMISSIS...] ; e però esiste nella mente pura da materia. Questo gli fa la via a riconoscere e spiegare un altro genere di produzioni, quelle dell' arte , a cui riduce quelle che vengono da una potenza d' operare e dal pensiero, [...OMISSIS...] . Chiama geniture , [...OMISSIS...] , le produzioni naturali, l' altre fatture, [...OMISSIS...] . Le produzioni dell' arte, dice, sono quelle « « di cui la specie è nell' anima » ». [...OMISSIS...] (5). L' anima che vuol produrre un effetto, per esempio la salute, trascorre col pensiero la serie dei mezzi fino che arriva ad uno, che è in suo potere di produrre, per esempio la frizione per produrre il calore. Allora colla sua potenza d' operare produce questo mezzo, il quale per una serie di effetti produce quello che cercava, la sanità, fine che era presente all' anima sin da principio. Il movimento dunque dell' anima, che dalla prima specie perviene a trovare l' ultima, la specie cioè di quel mezzo che è in suo potere di produrre, dicesi, secondo Aristotele, [...OMISSIS...] , e risponde a ciò che prima aveva detto [...OMISSIS...] : l' operazione poi che comincia da quest' ultima specie, producendo effettivamente il detto mezzo, dicesi [...OMISSIS...] , e corrisponde a quello che prima aveva detto [...OMISSIS...] (6). Da questo deduce che quantunque la sanità che vuol produrre coll' arte, sia nell' anima, sia cioè la stessa specie finale dell' anima (1), tuttavia essa sola non è la causa efficiente della sanità; produce solo il movimento del pensiero, [...OMISSIS...] , trova la specie ultima a cui si rattacca l' azione, per esempio la frizione; allora eseguendosi questa, comincia la vera produzione della sanità, [...OMISSIS...] . Ora se questa causa, cioè la frizione, fosse posta anche dalla natura o dal caso, s' avrebbe ugualmente la sanità, benchè non ci fosse la specie pura nella mente. Di più, quando trovata dalla mente l' ultima specie, la frizione nell' esempio addotto, questa si produce e con questa la sanità, non si produce la sola specie, ma la specie nella materia, cioè nell' uomo: la specie dunque non si genera sola, ma si genera il composto di specie e di materia. L' arte sola dunque nulla produce, ma abbisogna di materia. Ma basta forse la materia, per modo che a questa sovrapponga la specie, senza che quella non l' abbia in nessun modo? No, perchè se la frizione nel corpo umano produce il calore, e questo la specie della sanità, convien dire che questa specie era già in potenza nella materia, nè la materia era svestita al tutto di specie, ma n' avea una; e quel composto, prodotto il primo moto, la frizione, si trasmutava, per diverse trasformazioni, in modo da acquistar l' ultima, cioè la sanità. Dunque le specie non si producono sole; nè separate dalla materia, quali sono nella mente, sono cause efficienti delle cose di cui il mondo sensibile risulta (2). Stabilisce dunque Aristotele questa dottrina: « ciò che si trasmuta è sempre il composto de' due elementi, la materia e la specie ». Ma il primo movimento di questa trasmutazione può venire da tre principŒ; cioè o dal composto stesso, o dall' uno, o dall' altro de' due suoi elementi. Se il primo movimento viene dal composto, si hanno le produzioni della natura; se viene dall' elemento della specie sola, si hanno le produzioni dell' arte; se viene dall' elemento della materia, si hanno le produzioni del caso (1). [...OMISSIS...] . Tale è il sistema aristotelico. Ma di quante difficoltà non è egli circondato? - Molte n' abbiamo indicate: affrettiamoci ad esporre quelle che ci restano, e a rinforzare di nuovi ragionamenti quelle che sono già state sottoposte alla meditazione del lettore.

Introduzione alla filosofia

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Rosmini, Antonio 1 occorrenze

Così fu il Cristianesimo, che con tutti gli altri beni, dopo aver abbattuta la falsa, salvò anche la vera filosofia, la quale avrebbe sicuramente trovato la sua tomba nell' ecletismo alessandrino, o questo stesso, per dir meglio, senza di lui, non avrebbe avuto il tempo di farne balenare agli occhi degli uomini l' ultimo raggio. E però noi consideriamo come nostro dovere il mantenere alla filosofia quella dignità che le ha dato il Cristianesimo, e che tutta consiste nella nobilissima obbligazione, o se si vuole, nella felicissima necessità, di dover essere d' allora in poi, maestra di verità, e non punto altro; non già perchè l' uomo che filosofa sia divenuto infallibile, ma perchè tutto ciò ch' egli pensa o dice di contrario al vero non può più usurparsi, senza contrasto, il nome di Filosofia. [...OMISSIS...] Di che necessariamente consegue, che i pensatori e gli scrittori si debbano giudicar tanto filosofi, quanto hanno pensato o scritto di filosofica verità; e per aver essi pensato o scritto altre cose erronee, quante se ne vogliano, non si dee attribuir loro il nome di filosofi (chi pur voglia provvedere all' onore, alla conservazione, e al progresso della stessa filosofia); ma conviene che si denominino sofisti, nemici della Filosofia, o, secondo i loro speciali costumi, filosomati, filocremati, filomachi , o in generale, come volea Platone, « filodossi (2). » Poichè colui che si stanca e si lima l' ingegno non per arrivare al conoscimento della verità, ma per riuscire a distruggerne, se gli fosse possibile, o negarne alcuna parte, e con ardue, ma indottissime cavillazioni, annuvolare il sereno degli umani intelletti; questi fa appunto l' officio contrario a quello che è assegnato al filosofo; e quindi è manifestamente improprio e barbaro l' uso d' applicare lo stesso nome a chi professa due uffici non pur diversi, ma così contrari, quasi che il fare e il distruggere fosse una sol' arte. Ed è cosa ben singolare a vedere, che mentre gli uomini non usano così quando danno i nomi ad altre cose (chè nè s' intenderebbero più tra loro, nè canserebbero il morso del ridicolo); in questa sola materia della Filosofia, cadono in tanta confusione e inversione di linguaggio senza che se ne avvedano. Chi vorrebbe chiamare scultore egualmente il Canova, e colui che prendesse diletto nel graffiare e bucherare le finitissime sue statue? Chi accomunerebbe la denominazione di pittore a Raffaello ed a quell' insensato, che per mostrare il valor suo nell' arte, s' occupasse con grande assiduità, e mettendoci tutta la diligenza, a suggellare con qualche bel colore le pupille degli occhi, ed impastare i nasi, imbellettar le gote de' volti divini, che s' ammirano nelle tavole dell' Urbinate? A niuno potrebbe venire in mente, che un parlare così stravolto si giustificasse colla ragione, che tanto il Canova quanto il guastatore delle sue statue v' adoperi gli stessi ferri, gli stessi scalpelli, le scuffine, le raspe; e che tratti pure gli stessi pennelli, e gli tinga alla tavolozza de' colori altrettanto, quanto faceva il Sanzio, quel disennato che ne deforma le inapprezzabili dipinture. Ma che cosa è il sistema della verità, se non un cotale augusto simulacro, o una figura nobilissima di Dio stesso? E quanto questo altissimo lavoro col quale si scolpisce e colora in anime immortali la viva imagine d' un' eterna sapienza, non ha egli più di pregio, non merita più di riverenza, di quello, col quale gli eccellentissimi artefici danno forme eleganti al marmo e le avvivano sulle tele? Or poi quell' artista, che ad una tant' opera si consacra, chiamasi Filosofo; e l' arte che egli professa, chiamasi Filosofia. Laonde se questo è l' intento, questo lo scopo assegnato alla professione del filosofo; come se ne profanerà, e abuserà il nome accomunandolo anche a coloro, che maneggiano bensì lo stesso stromento del pensiero, ma con sì vituperevole imperizia, che ad altro non riescono che a demolire o sformare l' opera del filosofo? ad offuscare cioè co' sofismi quel lume di verità, che l' arte filosofica mette in aperto, a disformare, troncare, imbrattare colle macchie degli errori quelle membra decentissime del corpo della sapienza, che ritrae in carte il filosofo? E pure questa biasimevolissima improprietà passò quasi universalmente in costume, e nel secolo scorso l' ateismo stesso fu detto il segno d' una mente filosofica! E noi non istupiamo punto, che si vedesse qualche cosa di mostruosamente grande in una sì grande negazione, chè certo non ve n' ha un' altra che cancelli una porzione maggiore e più importante di verità, quand' anzi l' ateismo veramente la cancella tutta. Chi mai non sa che si dà anche un' ignoranza grande, un errore grande, una grande demenza? Ma ci maravigliamo, che si confondesse questa grandezza colla grandezza del sapere e della Filosofia. E a confondere grandezze di cose così opposte, s' usava questo argomento: « « Non v' ha gente così barbara e inospitale, che non ammetta qualche divinità, e con qualche culto non la onori: dunque per lo contrario non può essere che opinione di uomini dottissimi l' ateismo (1). » Quasi che la dottrina giunga al suo colmo, allorquando si dimostra potente a rimuovere dalle menti degli uomini quelle stesse verità, che nè anco la più efferata barbarie, e la salvatichezza medesima non vi ha potuto scancellare. Non ignoriamo quanto sia, e sia sempre stata cosa odiosa, lo scacciare dalla compagnia de' filosofi i maestri dell' errore: ma coloro che amano la verità devono esser disposti a subire l' applicazione dell' antico proverbio: « La verità partorisce odio », come Socrate, che negò coraggiosamente il nome di filosofi ai sofisti del suo tempo (2). Noi dunque non ci terremo, ma continueremo a dire, che è un' ignobile adulazione, perchè è una falsità di parlare, quella d' onorare col titolo di sistema filosofico, qualunque viluppo di proposizioni vere o false, che l' aberrazione della ragione umana o il delirio d' una imaginazione inferma, vi presenti siccome un trattato di filosofia. Può essere una debolezza d' animo e di mente il ricever la legge da' titoli de' libri, e da nomi de' loro autori: che se vi piace mantenere questa improprietà di parlare per qualche vantaggio reciproco che n' aspettate, ell' è una colpevole connivenza. Or come l' accogliere nel novero de' sistemi filosofici anche quelli che hanno per principio l' errore, col pretesto che racchiudono tuttavia qualche particella di verità (quasichè quel che hanno di vero non sia un elemento a loro eterogeneo da sceverarsi per raggiungerlo a quel sistema della verità di cui è proprietà inalienabile), pare un largheggiare d' onori, con manifesta ingiustizia, a cosa che non li merita; così è del pari un negare o scemare l' onore dovuto alla verità, con un' altra ingiustizia, il parlar di sistemi senza distinzione, mettendoli tutti in un fascio, partano essi da un principio vero o da un falso: questo umilia la verità fino al grado ignominiosissimo dell' errore; questo umilia ancora lo spirito umano. E poi, come sapete, che tutti i sistemi sono egualmente un miscuglio di vero e di falso? Pretendete, voi filosofo, che vi si creda sulla parola, che basti l' autorità del vostro giudizio? E come dunque avete poi tanta paura della teocrazia? ne sareste forse geloso? E pure non ci avea bisogno d' una grande penetrazione a capire, che se il principio supremo d' un sistema è vero, tutto il sistema dee riceversi siccome vero e rettificarne soltanto le conseguenze se mai non fossero derivate logicamente, cavarne dell' altre e così svolgerlo e completarlo: se poi il principio supremo d' un sistema è falso, tutto il sistema si dee avere per falso, e se vi s' incontrassero per accidente delle cose vere, queste che non son sue, nol rendono vero. Onde l' accoglierli tutti senz' altra distinzione, è un voler esser filosofo alla guisa d' Omero, che avendo, come osserva Seneca, ne' suoi poemi tutte le filosofie, non ne ha veramente nessuna (1). Convien dunque dire, che niun sistema, propriamente parlando, è misto di vero e di falso (benchè il vero ed il falso possa esser misto ne' libri in cui i sistemi si contengono), ma i sistemi sono tutti o semplicemente veri o semplicemente falsi; ed i sistemi veri (1) si allontanano più che il cielo dalla terra da' falsi, e però non si possono confondere nella medesima categoria, nè pronunciar di tutti in monte una sentenza; e di più, i sistemi falsi, son sistemi d' errori, e quindi a rigore non meritano il titolo di filosofici, ma sì d' antifilosofici. Convien dunque onorare lo spirito umano, diciamo anche noi col signor Cousin, ma intendendo l' onore dello spirito umano in altro modo. Chè per noi tale onore non consiste punto nel calore e nella ostinazione con cui esso spirito umano contraddice e discerpe se stesso, nè si procaccia il richiamare indietro il mondo a' costumi gentileschi, cioè a un tempo passato per sempre. Allora framezzo alle scandalose e impotenti mischie de' filosofi s' udì una voce nuova e potente che diceva: « « La Filosofia non si può ottenere da coloro che consumano l' opera loro in pugne e contrasti di parole »(2), » voce ascoltata da' migliori tra gli stessi filosofi (3), ma più ascoltata da tutto il mondo, a cui parve manifesta la vanità di que' dottori, che faceano la filosofia, come i condottieri del medio evo faceano la guerra. L' onore dello spirito umano, ripetiamolo ancora, per noi sta unicamente nella verità di cui egli può esser partecipe, e n' è veramente, la cui conseguenza è la pace e la concordia; siccome il suo disonore sta nell' errore e nella perpetua incertezza della dissensione. Laonde il disonorare quella verità che lo spirito umano non crea, ma vede, e, vedendola, se ne illumina ed incorona, e l' onorare per l' opposto quell' errore, pur troppo sua creatura, che acceca e scorona il suo creatore; sono due modi di fare ugualmente allo spirito umano vitupero e atrocissima ingiuria. E questo si fa appunto nell' uno e nell' altro modo ad un tempo col sommettere alla stessa sentenza del signor Cousin, benchè sentenza più di grazia che di giustizia, i sistemi veri ed i falsi, e in volerli tutti conservati e affortificati egualmente. Ora se di questa sentenza si possono chiamar contenti tutti gli autori e seguaci de' sistemi falsi; per l' opposto il nostro paciere s' avrà sollevati contro con essa tutti gli autori e seguaci de' sistemi veri, i quali appellano e fanno valere davanti ad un tribunale più autorevole, qual è il senso e la coscienza del genere umano, benchè a dir vero tribunale teocratico, i loro gravami. Come dunque l' ecletismo promette la conciliazione di tutti i sistemi tanto filosofici, quanto antifilosofici, senza distinzione? che conciliazione è possibile in questo modo? Quanto a noi, intendiamo di gratificare agli autori de' sistemi veri; e se il signor Cousin riesca a metter pace, almeno tra' suoi, forte ne dubitiamo (1): all' opposto confidiamo di poter noi aver pace co' nostri, noi che consideriamo il sistema della verità come il fondamento dell' unica pace possibile fra le intelligenze, e causa d' ogni altra pace. E come si può ottenere la pace, quando la pace stessa si pone nella guerra, cioè nel conflitto de' sistemi? Come si può parlare di conciliazione, mostrarne l' importanza, declamare contro quelli che la ricusano da uno, che mette per condizione alla medesima il conservare tutti gli opposti sistemi, e anzi di più l' affortificarli tutti? e che nello stesso tempo vi dice, v' assicura sulla sua parola, che in tutti, niuno eccettuato, v' ha qualche cosa di falso? Non è proprio degli errori, che hanno una natura così moltiplice, d' escludersi e di combattersi a vicenda? e di combattere sopra tutto la verità? Onde, se tutti i sistemi racchiudono nel proprio seno errore e verità (2) (che è il postulato su cui si fabbrica l' ecletismo, e non è altro certo che un postulato, e per buona sorte non come quelli de' matematici che non si possono rifiutare), non solo avremo molti sistemi discordi, ma in ciascuno avremo i semi della discordia! E notate, che si confessa, che l' indole di tali sistemi è l' esclusività, per modo che ciascuno vuole esser solo, ed è questa esclusività che li rende sistemi distinti, cessata la quale, non rimarrebbero più molti sistemi, ma si fonderebbero in uno. Il che si riconosce anche per un difetto, ed un difetto, che a ciascun sistema è così essenziale, che senz' esso non si può conservare, molto meno fortificare. Tuttavia ogni sistema si vuol conservare ed affortificare, a condizione che niuno domini in su gli altri, cioè che non sia esclusivo! Mi dispiace che la contraddizione qui spicchi a tal segno, che mi taglia quasi a mezzo il ragionamento che stavo facendo; perocchè non si può più nè pur domandare come una contraddizione sia possibile, chè una tale domanda equivarrebbe a quest' altra: come sia possibile l' impossibilità. Ricopriamo dunque per un poco questa contraddizione col velo di quelle parole vaghe ed indeterminate, colle quali la copre l' autore dell' Ecletismo, e sostituendo la parola di conciliazione a quella di contraddizione, dimandiamo come la conciliazione promessa sia possibile? Ci si risponde: colla tolleranza (1). Bellissima parola, e gratissima agli orecchi degli uomini che ci vivono. Ma si è mai pensato seriamente al significato di questa parola: tolleranza ? Certo se per tolleranza s' intende - diffidare della propria opinione e rispettare l' altrui dentro i confini che la prudenza assegna, compatire gli altrui errori anche evidenti e le altrui debolezze anche viziose, non prenderne pretesto d' invadere gli altrui diritti, astenersi da ogni giudizio temerario, esser benigno e benevolo a tutti, - questa è una virtù preziosa, ma una virtù che s' esercita verso le persone, non verso i sistemi, e, appunto perchè è una virtù, è un abito della volontà umana, non una scienza. Ora noi non eravamo nel campo della volontà, eravamo in quello della mente, parlavamo di filosofia, di sistemi filosofici, di errori e di verità: bisogna che ce lo ricordiamo. Non è egli un grande scambio cotesto, di trasportare all' intelletto le leggi della volontà, e pretendere ch' egli ubbidisca ad altre leggi diverse dalle sue proprie? Chi non sa che la tolleranza è una legge impossibile a praticarsi dalla mente? chè la mente è sempre per sua natura intollerante (se mi si permette di così parlare), e se potesse tollerare la contraddizione e l' errore da lei conosciuto, compirebbe con ciò una tale annegazione di sè stessa che si annullerebbe. Il costringere dunque la mente ad essere tollerante è un costringerla ad annullarsi: e questo per fermo non è filosofico: anzi a buon diritto si può chiamare un' intolleranza, e un' intolleranza così enorme, che l' uomo per essa non tollera più l' esistenza sua propria della sua mente, e di conseguente molto meno quella della Filosofia. E la colpa per certo non è della mente, se non si presta a leggi che non son fatte per lei: la colpa, se qui c' è colpa, è tutta dell' intollerantissima verità, dell' inesorabile logica: le idee non le fa l' uomo, le riceve bell' e fatte, nè si rifanno, ed oltracciò esse non sono persone, in verso a cui si possa usare la virtù della tolleranza, della compiacenza, e somiglianti. La conciliazione dunque de' varŒ sistemi fatta per via di tolleranza, quale ci viene proposta dall' Ecletismo francese, somiglia perfettamente all' unione delle sette protestanti incominciata nel ducato di Nassau nel 1.17, ed estesa poscia in altri Stati, e specialmente in Prussia per opera del defunto Re, unione singolare, nella quale ciascuna setta mantiene la sua credenza, e tuttavia con credenze diverse e contraddittorie, ciascuna delle quali condanna l' altra, vogliono tutte formare una sola Chiesa, che chiamarono evangelica , come se il Vangelo fosse il complesso di mille contraddizioni, il sincretismo mostruoso di tutte le sette protestanti! Questi fedeli, che per formare una sola Chiesa si contentano d' un nome comune e d' alcune esterne forme, indifferenti poi alle cose , ai dogmi dagl' individui professati, v' assicurano di rappresentare colla più fedele somiglianza la Chiesa Cristiana de' primi secoli! A tale esemplare si modella l' ecletismo francese: egli propone a' filosofi una unione, o conciliazione d' egual taglia, in cui un nome comune, alcune frasi indeterminate, qualche botta contro la teocrazia scusano e ricoprono la sostanziale differenza d' opinioni, che divide gli ecletici, i quali protestano di mantenere, d' affortificare, per onore dello spirito umano, tutti gli opposti sistemi. Solo che a questa proposta di conciliazione, n' aggiungono un' altra speciale, ed è, che i sistemi esclusivi si facciano alcune reciproche concessioni (1), quasichè sistemi su principŒ diversi fondati, potessero esser tanto compiacenti, o far concessioni senza distruggersi, anzichè conservarsi ed affortificarsi. Per fermo che unioni e conciliazioni di tal natura non sono filosofiche, nè da filosofi possono esser proposte, nè ricevute: lasciamole dunque fare a' politici, a' ceremonieri, a' protestanti. Noi distinguiamo la legge dell' intelletto da quella della volontà: non imponiamo questa a quello, che sarebbe una confusione troppo madornale: nè con tali scambŒ potremmo mai condurre avanti la filosofia, nè scorgere quali sieno le cose, che, nell' ordine dell' intelletto, ammettano una conciliazione, quali quelle che non l' ammettano. La verità si concilia sempre colla verità, l' errore si concilia rare volte con se stesso, mai colla verità. L' assumersi un' autorità così grande, com' è quella d' imporre a proprio arbitrio un' altra legge all' intendimento, è un vincere in assurdo que' demagogi, che sotto il nome di libertà insinuano la più ributtante tirannia, è un darsi a credere di poter estendere a man salva il proprio dispotismo intellettuale sull' umana natura, e su quella verità che n' è la legislatrice e l' unica regina legittima. La verità dunque, ecco il solo punto possibile della conciliazione, e questa conciliazione (non ne riconosciamo alcun' altra) è quella che noi abbiamo sempre tenuto davanti agli occhi nelle filosofiche discussioni. Ci permettano anche qui gli amici nostri di rammemorare il cominciamento de' nostri studŒ e come nacque in noi il desiderio e il tentativo di una tale conciliazione. Nell' adolescenza la nostra mente ignara di ciò che era stato pensato e scritto, entrò con ardire, non insolito a' giovani, nelle questioni filosofiche: ve l' introdusse un uomo quasi sconosciuto al mondo, indimenticabile a noi, Pietro Orsi. Colla gioia che il primo aspetto scientifico della verità infonde nell' anima, con una sicurezza quasi baldanzosa, con delle speranze indefinite proprie di quella età che per la prima volta si volge con una riflessione elevata e consapevole, all' universo ed al suo autore, e gli par assorbir l' uno e l' altro colla facilità con cui respira, noi ci ravvolgevamo giorno e notte, quasi pei sentieri d' un giardino, nel vasto campo delle filosofiche questioni, non ci arretravamo dinanzi ad alcuna difficultà, anzi la difficultà ci rendeva più animosi, chè in ogni difficultà vedevamo un secreto atto ad eccitare la nostra curiosità, un tesoro a scoprire, e consegnavamo alla carta il frutto giornaliero di quell' ingenua e ancora inesperta libertà di filosofare, conscŒ di affidarvi i semi che ci doveano preparare il lavoro di tutta quella vita, che Iddio ci avesse poi conceduta. E per vero tutti gli scritti che poscia, in età più matura, comunicammo al pubblico, furono lo svolgimento di que' semi. Dopo quella prima fatica, noi confrontammo di mano in mano a quegli spontanei e imperfetti pensamenti, tutte le dottrine de' filosofi; ed ogni qualvolta le riscontrammo ad essi consentanei, ci tornò caro come può esser caro l' incontro d' un amico, e il trionfare in sua compagnia. Eravamo troppo persuasi della fallacità della mente di un solo e della nostra particolarmente, e intendevamo, che, per assicurarsi a pieno del vero, non solo è necessaria un' autorità in quelle cose divine, a cui non giunge il raziocinio della mente, ma di più, che un' autorità, o, se si vuol meglio, l' assenso d' altre menti è mestieri soppravvenga a confermare la dirittura degli stessi naturali raziocinŒ. I quali certo sono quelli che costituiscono la scienza, chè la Filosofia, come abbiam detto più sopra, di raziocinŒ si compone, e non di autorità; ma l' autorità sopraggiunge sempre a tempo ed utilissima a rivedere ed a suggellare colla sua testimonianza, i medesimi raziocinŒ, di cui quella s' intesse. Allora intendemmo via meglio e apprezzammo la maniera di sentire di Seneca, dove dice: [...OMISSIS...] Non apparisce in questo filosofo, che è de' più sensati, alcun timore, che, stabilendosi nelle menti l' unico sistema vero, la Filosofia vi trovasse la sua tomba. Quando il capo dell' ecletismo francese si dimostra sollecito e in gran pensiero di questo che gli pare troppo sinistro avvenimento, mi comparisce del tutto simile ad Alessandro Magno, che piangeva d' una vittoria riportata da suo padre, per timore che non gli restasse più paese da conquistare. Noi crediamo, che in questo vecchio mondo, ricco di così varie e lunghe esperienze e di tanti disinganni, il diritto di conquista sia oggimai screditato, e che come nell' ordine delle cose politiche difficilmente può evitare la taccia di prepotenza, così nell' ordine delle cose filosofiche difficilmente possa evitar quella d' impostura. E ad ogni modo crediamo che alla contenzione degli spiriti che ambiscono con nobile gara di scoprire la verità, sia da preferirsi la verità già scoperta: crediamo che anche dopo essersi questa scoperta, non possa giammai mancar il lavoro a quelle intelligenze che vogliono assumersi la fatica d' accrescerne la luce e di renderla evidente agli occhi degli uomini, persuasi siccome siamo, che la luce della verità possa sempre aumentarsi all' intelligenze umane: crediamo che come ogni sistema riposa in un principio, onde anche emana; così il principio di quello che noi chiamiamo il sistema della verità abbia una natura tanto feconda, che affaticandosi intorno ad esso tutti gli uomini, non possano finir mai di derivarne nuove conseguenze, nuove, inaspettate e importantissime applicazioni, e che l' opera dell' annodare a quel principio tutte le scienze e tutti i fatti della natura e della storia che ci si riferiscono, e di farne riuscire così, congiunto in un corpo bellissimo, tutto lo scibile umano, sia inesauribile e per poco infinita: crediamo che quand' anco questo smisurato lavoro potesse quando che sia compirsi dagli umani ingegni, ne rimarrebbe loro un altro, sempre nuovo, sempre rinascente, non meno pregevole che non concederebbe alcun ozio, quello di conservare tanta copia di ordinata dottrina, di propagarla a tutti gli uomini, di vestirla di tutte le forme, di tramandarla intatta alle generazioni che si rinnovano, di difenderla e di proteggerla contro all' attivissimo, inquietissimo, cavillosissimo principio che mai non muore e sempre s' agita, del male e dell' errore: finalmente crediamo, che gl' intelletti esercitino un' azione grande e compiuta, anche col solo riposarsi nella verità, col fruirne, col comunicarne in se stessi la fruizione alla volontà, che sola l' attua, la realizza, e, rapendola al cielo della mente dove si mostra quasi pendula, la reca veramente in mano dell' uomo. Il perchè niun filosofo si spaventi, come le femmine della versiera, al pensiero della morte della filosofia predetta dall' ecletismo, nè perciò desista o si rallenti nella ricerca di quell' unico sistema, nel quale, come nella sua più alta idea, dee riguardare e fissamente intendere la filosofica investigazione. Chè niuna cosa muore col giungere alla sua perfezione, e non è verosimile che quest' accidente succeda alla sola filosofia giungendo al suo sistema perfetto. Piuttosto l' arduità e la vastità dell' impresa consiglia ad affrettarsi al lavoro; e prima a rimuovere gli ostacoli della discordia, i quali impediscono che le menti s' uniscano veramente nella verità. Laonde egli è un avvicinarsi a sì desiderabile effetto lo svelare i sistemi erronei, e, colla luce del vero, senza alcuna compassione, dileguar quelle ombre, lasciandoli soltanto segnati nella storia, come gli scogli e le arene nelle carte de' navigatori. Fra i sistemi veri, noi dicevamo, la conciliazione è possibile e desiderabilissima. E prima di tutto è mestieri vegliare attentamente per non cadere nell' ingiustizia, per non escluderne alcuno, e rilegarlo a torto nella classe de' falsi. Che se si riscontra qualche particella di falsità nelle conseguenze mal dedotte da un vero principio, questa si vuol correggere, non il sistema stesso rigettare. Di poi è necessario misurare l' altezza di ciascuno di que' principŒ che costituiscono la base de' sistemi, e a quelli che sono più elevati subordinare i principŒ meno elevati, e tutti all' altissimo, dal quale gli altri derivano siccome conseguenze. Con questa prima industria un sistema s' inserisce opportunamente nell' altro al debito luogo, come ramo al suo tronco, onde di molti parziali ne riesce un solo o completo, o certo meno parziale. Di poi, è da distinguersi la verità dalle varie forme di cui ella si veste, dai varŒ modi di concepirla, dagli aspetti o lati differenti, da' quali ella si mostra visibile alle menti. Questi non sono che altrettante parti della stessa verità, niuna delle quali esclude l' altra, niuna contraddice l' altra, ciascuna le aggiunge un nuovo raggio di luce. Quel savio che sarà animato dallo spirito della conciliazione, troverà sotto tante espressioni diverse, entro molteplici pensamenti, l' unità bellissima del vero, moltiplice senza misura nelle sue apparizioni, ma sempre concorde e consentaneo con se medesimo: questa è la seconda industria colla quale si può addurre una giusta conciliazione fra tutti quelli che rettamente filosofeggiano. Una forza che aiuta grandemente la conclusione di questa pace filosofica, vuol essere la benigna interpretazione delle altrui sentenze. Perocchè non è meno difficile il retto favellare del retto pensare. E però non di rado accade che l' uomo non esprima convenientemente tutto il proprio pensiero, ed allora l' equità esige, che chi ascolta o legge, lo interpreti, e quasi l' indovini sotto l' enimma dell' imperfetta espressione, quasi nobile simulacro coperto dà un velo. Conviene in tal caso cogliere lo spirito dello scrittore piuttosto d' attenersi alla lettera: considerare ciò che risulta da tutto il contesto de' vocaboli, delle sentenze e de' ragionamenti, ma soprattutto porre l' attenzione nella coerenza che aver devono le conseguenze dubbiose co' principŒ certi e colle intenzioni chiaramente manifestate dal pensatore. Un lietissimo e oltremisura desiderato risultamento mi trovai in mano dall' applicazione di queste regole, e si fu aver io acquistato la persuasione; che tutti i grandi filosofi, rispetto alle cose principali e più necessarie all' uomo, differiscono fra di loro più in apparenza che in sostanza, e sebbene di varie forme, non sempre convenienti e adeguate, rivestano la verità, pure nella verità stessa, senza talora avvedersi d' esser concordi, s' abbattono. Laonde lasciando da parte coloro che Cicerone chiamava « minuti filosofi (1) » alla qual distinzione del romano oratore tra i filosofi minuti e i grandi risponde quella che noi trovammo necessaria tra gli autori de' falsi, e gli autori de' veri sistemi; mirabil cosa è a vedere, come le sentenze coincidano nelle medesime capitali e supreme verità, e concordino colla fede e colla coscienza del genere umano, dalla quale que' minuti, non filosofi ma sofisti, dipartendosi, pensano, con insensatissima vanità, di parere dottissimi. E tuttavia questi stessi, qualunque abuso facciano del loro ingegno, qualunque sieno le illusioni di cui si circondano, quasi d' uno steccato che tenga da loro lontana la verità, in qualunque abisso d' errori si sprofondino per non esserne raggiunti, non arrivano mai a radere del tutto dall' anime loro quello che v' ha impresso con caratteri indelebili la natura, nè a soffocare del tutto quella inestinguibile fiammella, ond' hanno accesa l' intelligenza, nè ad imporre un intero e perpetuo silenzio in sè al sentimento umano, che cerca pur quella luce, che con sì grand' arte gli si toglie, come fanno le pupille del moribondo. Laonde da costoro medesimi, non perchè filosofi, ma perchè uomini, si possono raccogliere efficacissime testimonianze rese alle medesime verità, sia in quelle confessioni che scappano loro di bocca in alcuni istanti ne' quali vigilano meno la propria natura, sia nelle contraddizioni colle quali da se stessi tradiscono e distruggono i proprŒ errori, sia in que' temperamenti, che nell' esitazione aggiungono alle proprie dottrine, le quali con una aperta e nuda assurdità offenderebbero soverchiamente, e provocherebbero alla difesa il comun senso degli uomini. Chè sentono anch' essi, e non possono non sentire, la felice necessità d' aggiungere all' errore qualche brano di vero. Poichè come l' essere è necessario al nulla acciocchè questo si possa concepire, così la verità è necessaria all' errore, acciocchè questo si possa ricevere nelle menti, dalle quali sarebbe ripulso se non facesse valer come sua l' amabilità ch' egli usurpa al vero con cui astutamente si mescola, e si confonde. E anche in un' altra maniera tutti coloro che trattano le questioni appartenenti alla filosofia, ragionino in buona o in mala fede, rendono indirettamente testimonianza alla verità, e n' aiutan la causa; cioè col dare a vedere, pur cogli sforzi de' loro ingegni, dove abbian trovato il forte della questione, cioè il nodo difficile che tentarono, quantunque invano, di sciogliere, e che non potendo e pur volendolo ad ogni patto, diede a molti di loro occasione d' errare. Perocchè il sapere dove giaccia precisamente la difficultà, è già un passo, e grande, verso la stessa verità; chè, quando questa è recondita e munita d' ostacoli, non si può espugnare, se prima non s' esplori da tutti i lati la fortezza che la difende. Di che possiamo recare in esempio le disputazioni molte e i sistemi de' filosofi intorno alla quistion principale dell' origine delle idee, che tutti coll' aver urtato nella medesima difficultà, presentatasi loro in varie forme, concorsero a renderla più manifesta e da molti aspetti visibile, e così ne facilitarono gli approcci, e n' apparecchiarono l' espugnazione. Laonde a me pare non inutile l' autenticare i raziocinŒ, che son venuto esponendo, quasi di continuo colle altrui autorità, e colle sentenze de' grandi filosofi precipuamente, interpretate con equità, collazionare e confermare le nostre; non già per surrogare nella filosofia l' autorità al ragionamento, ma perchè è una guarentigia della mente, un gran conforto dell' animo, di cui la stessa filosofia nell' arduo suo viaggio tanto abbisogna, l' udire quel quasi concento delle umane intelligenze. Come dunque la conciliazione e la concordia non può trovarsi che nell' unità, così ci parve assurdissimo il cercarla nella moltiplicità de' filosofici sistemi, voluta mantenere ad ogni costo dall' ecletismo colla fiducia di piacere in tal modo a tutti i loro seguaci; il che, siccome abbiamo già prima osservato, è un cercar la pacificazione della filosofia, dove non è punto la filosofia, cioè fuor della mente, lasciando frattanto in questa ardere, anzi attizzandovi, il dissidio delle opinioni e delle idee. E se nell' unità del sistema può solamente trovarsi la conciliazione degl' ingegni e la perfezione e la pace della filosofia: dunque nella verità, perchè la verità sola è una, e l' errore molteplice. Certo per coloro che, avvezzi alla scuola, all' animoso fervor della disputa, al grato spettacolo che dà l' attrito e la percossione delle menti giovanili ond' escono inaspettate scintille di luce, alla gioia della vittoria nelle superate tenzoni, non distendono i loro pensieri fuori delle mura dell' Università, può parere di poca importanza quella conciliazione e quell' unità, a cui, secondo noi, è uopo d' indirizzare seriamente i filosofici studi. Ma se traendo fuori l' animo e con esso l' attenzione della mente dallo steccato filosofico, si riguarderanno le conseguenze della proposta concordia, queste si ravviseranno così importanti all' umanità, che il voler tuttavia conservata, nella moltiplicità de' sistemi, la materia e il fomento alle questioni scolastiche, incomincierà ad apparire più ancora colpevole che puerile. E il timore stesso, che possano mai mancare a quelle questioni argomenti, è vano come vedemmo. Che la conciliazione sia desiderabile, il dimostrano, a troppa evidenza, i dissentimenti, onde noi, cogli occhi nostri, vediamo il mondo diviso, e turbato: scissure, odŒ, guerre, minaccie di guerre, partiti che, a guisa di tori, dirò con un antico, traggettano in v“to le corna. E perchè tanta divisione di animi, tante sette che s' insidiano a morte, tanto incendio di passioni, dove più fiorente è la coltura, più avanzata la scienza, in questa Europa, con iscandalo de' popoli ancora incolti? Forse, che dove più sono le idee, ivi ancora si debbano accendere più numerose le discordie? Ovvero avvien questo, non pel numero maggiore delle idee e delle opinioni, ma per la loro discrepanza? Certo il verace fondamento della concordia nella convivenza umana, come pur quello della discordia, nelle idee e nelle opinioni o concordi o discordi, si dee ricercare. Perocchè ell' è sempre un' idea, quella che presiede, guida e s' imprime, per così dire, in tutte le operazioni degli uomini. E non solo le singole operazioni hanno per base un' idea; ma fra le idee stesse, ve n' ha di sì generali che costituiscono il tipo e danno il carattere a quella lunga serie d' azioni onde s' intesse l' intera vita degl' individui, e medesimamente da una di quelle primarie idee, come da una secreta norma, prende un' unica sua forma tutta quella mole d' operazioni, dal complesso delle quali risulta in ogni tempo la condizione morale e civile e politica delle nazioni. Che anzi nel fondo stesso della storia, come fu già osservato, nel fondo di tutte le varie vicende per le quali procede, svolgendosi e trapassando su questo globo, l' umana specie, si rinvengono alcune idee, divenute altrettante leggi di quella complicatissima successione d' avvenimenti, in apparenza casuale, e la compartono regolarmente in determinati periodi, ciascun de' quali non è già governato dalla dominazione e dall' influsso d' un astro; ma sì bene dal dominio d' una idea prevalente a quel tempo nelle menti umane, la quale poscia dà luogo di mano in mano al dominio d' un' altra. Laonde se le idee e le opinioni sono discordi nelle umane menti, forz' è che gli affetti altresì dell' animo e le operazioni della vita esteriore riescano discordanti; e per lo contrario, se le umane menti si mettan d' accordo nelle idee e nelle opinioni, incontanente questo mentale consenso influisce nel vivere, e comparisce la benevolenza fra tutti, e quell' unione, in cui sta la pace e la forza sociale. E tu il sai troppo bene, povera Italia, che più lungamente e più atrocemente d' ogni altra regione esperimentasti i funesti effetti della discordia, e ne fosti la vittima! Perocchè io mi credo che il genio stesso del male, temendo forse più da te, che da ogni altra nazione, per ogni tuo angolo agitasse più che altrove la face della discordia, e ve l' accendesse, acciocchè discorde, tu fossi altresì divisa, e divisa, tu rimanessi debole, e debole, tu divenissi pusillanime ed infingarda, e prostesa nella tua infingardaggine, tu non sapessi più nè manco conoscere la vera cagione della discordia. Eccoti questa qual è: il non aver tu un' opinione ben ferma, e l' averne molte deboli e discrepanti. Nella tua mollezza, ne' tuoi studŒ superficiali, in recitando, vecchia fanciulla, le lezioni apprese alle scuole altrui, tu non ti potesti formare giammai una filosofia, una dottrina che fosse tua, e però nè pure avesti una nazionale opinione: sorgi, tendi all' unità intellettiva, che, se tu vuoi, non ti può esser contesa, e diverrà allora fortissima la tua sciagurata bellezza. Or poi sieno qui rese grazie a que' generosi, che all' intento d' ordinare una filosofia che conduca a raggiungere quegli scopi, che ho indicati nella prima parte di questo discorso, e le utilità che conseguono alla conciliazione delle opinioni, mi porsero amicamente la mano. Molti n' ho trovati fra' miei concittadini, e sarebbe impossibile il nominarli tutti, benchè a tutti sia v“lta la mia riconoscenza. Non posso però passarmi in silenzio primieramente i professori dell' Università Torinese Giuseppe Andrea Sciolla, Pietro Corte, e Michele Tarditi, che i primi dettarono de' trattati, difesero, portarono in sulle cattedre, con rara concordia d' intendimento, quella dottrina stessa che noi proponevamo. Ed ahi che due di questi egregi, i quali l' amore d' uno stesso vero e la consuetudine delle stesse fatiche filosofiche, avea resi con noi quasi fratelli, ci furono così in breve rapiti dalla morte con non lieve danno della scienza e della patria; l' uno quello specchio di probità, quell' esempio d' amicizia, lo Sciolla, già inclinato a vecchiezza, ma l' altro, il Tarditi, nel pieno vigor dell' età, e nel fiore delle speranze! Ma essi, lasciando dopo di sè una bella accolta di valorosi discepoli, or sono là « « dove vegliano con perpetua vista nel sacro amore (1) » » e questo sia al dolor nostro lenimento e conforto. Gustavo di Cavour, a cui siamo avvinti con tutti que' legami d' antico affetto e di stima che s' intessono di cose eterne, fu forse il primo che, scrivendo in lingua francese, facesse conoscere la stessa dottrina alla Francia. Di poi Alessandro Pestalozza, professore di Filosofia nel Seminario Arcivescovile di Monza, ne pubblicò, il primo nella patria lingua, un intero e più copioso corso, e con più scritti validamente la difese contro alle obbiezioni mosse e svolte con eloquenza, da un celebre ingegno. Finalmente colui che avea rapito tutta l' Italia coi numeri d' una nuova lirica divina, che vi avea iniziati gli studŒ storici coll' esempio d' una diligenza non comune presso di noi, e con un acume di critica raro per tutto, che in una sagacissima pittura dello spirito umano, sotto forma di romanzo, avea date lezioni di severa e delicata morale, che con nuovi principŒ sulla lingua e sulla letteratura avea saputo additar la via da render quella più omogenea e più certa, questa più virile e più sincera, l' una e l' altra stromento più acconcio all' italiana concordia; questi, riposandosi quasi, dopo aver percorso sì varŒ e sì felici studi, nella filosofia, occupazione convenientissima alla sua età ed alla sua erudizione, fece pur ora dono all' Italia di un dialogo intitolato « « Dell' invenzione » », nel quale resta in dubbio se vinca la finezza dell' ingegno perspicacissimo, o l' urbanità dello stile, e non sai a quale delle due egregie doti, tu conceda più la tua maraviglia. Finalmente noi professiamo la nostra riconoscenza anche ai nostri leali avversari. Abbiamo narrato nelle due parti precedenti quello che abbiamo fatto, o che abbiamo avuto intenzione di fare. A compimento del discorso rimane ora da dire quello che non abbiamo fatto, e che non si può fare con letterarie fatiche e studŒ. Di questi studŒ, de' quali rendemmo conto ai nostri amici e a tutti quelli la cui benevolenza c' impose la dolce obbligazione della gratitudine, furono effetto gli opuscoli che abbiamo pubblicato e che or si raccolgono. Ma quello che si contiene ne' libri, ne' quali non si può trovare altro che scienza, non è nè il tutto, nè il meglio dell' uomo, o i libri trattino di quelle cose di cui, non essendo autor l' uomo, solamente da lui si contemplano, o di quelle le quali, essendo nella potestà dell' uomo, da lui non solo si contemplano, ma ancora si fanno. Chè la potestà che ha l' uomo di farle e le stesse azioni con cui egli le fa, come pure tutte l' altre realità da lui percepite, nè sono scienza, nè possono ne' libri racchiudersi: la stessa natura le esclude dalle scritture, e le colloca al di fuori della scienza, alla quale le scritture richiamano e dirigono, siccome altrettanti segni, il pensiero. Il che non è negato da persona, ma pochi tuttavia intendono quanto importi che questo si consideri. Perocchè v' ha qui una di quelle verità d' indole singolare, che sono nel tempo stesso e facilissime a concedersi, e difficilissime a comprendersi. E di ciò non è dispregevole prova il vedere che così sovente gli uomini, anche dotti, ripongono ogni importanza nella scienza e mostran di credere che con essa sola altri diventi sapientissimo uomo e perfetto, onde colla scienza che appartiene all' ordine delle idee, tornano a confondere la bontà della vita che appartiene all' ordine delle azioni e delle cose reali, la quale alla scienza è bensì confinante, ma al di là per gran tratto si stende. E a conferma di questo posson giovare le sentenze di quegl' ingegni che a perscrutare la natura delle cose morali più particolarmente si applicarono, le quali di rado sono consentanee a se medesime, ma per lo più, senza alcuna costanza, asseriscono l' una cosa e l' altra: ora dalla filosofia distinguersi la virtù, ora queste due cose farne una sola, ora finalmente distinguersi, ma andarsene sempre di conserva indivisibili. Vedasi una tale incoerenza nelle lettere di Seneca. In più luoghi questo moralista ripone la Filosofia nell' insegnamento della virtù, e, come più sopra noi abbiamo escluso dalla classe de' filosofi quelli che non professano la verità, così egli ricusa tal nome a coloro che non danno la dottrina della virtù: « Videndum, utrum doceant isti virtutem an non: si docent, philosophi sunt (1) ». Nella quale sentenza, non guari lontana dalla nostra, e che ugualmente mira a ristabilire la proprietà del parlare riserbando i vocaboli alle cose per le quali furono istituiti, si distingue la virtù, e l' insegnamento della virtù , e non in quella, ma in questo si ripone l' ufficio della filosofia. Ma in un' altra lettera, dimentico d' aver detto che la filosofia è una scienza (e la scienza giace nelle mere idee), un insegnamento (e l' insegnamento si compone di parole), benchè l' una e l' altro possa avere la virtù per oggetto, egli colloca la filosofia non più nelle idee, non più nelle parole che le significano, ma nelle cose, cui quelle rendono note all' uomo, e queste insegnano all' altr' uomo, e vi dice che: « Philosophia - non in verbis, sed in rebus est (2). » Così colui, che avea prima chiaramente distinta la scienza dall' azione , la prima delle quali non può uscir mai dall' ordine delle notizie senza perdere il suo carattere di scienza, la seconda entra nell' ordine delle cose reali; di poi, perduta di vista questa massima differenza, vuole che la scienza della filosofia nelle stesse cose si trovi, in quelle cose che ad essa non ispetta altro che insegnare o additare co' vocaboli all' altrui intendimento. Ma in un terzo luogo egli poi torna a riconoscere che quelle cose che qui confonde in una, sono due, e due a segno, che hanno fra loro una cotale opposizione, come il passivo e l' attivo; onde esponendo l' altrui sentenza, alla quale egli non nega l' assenso, le vuol distinte, ma però indivisibili. [...OMISSIS...] Nelle quali parole quantunque si distinguano la filosofia che è lo studio, e la virtù che n' è l' oggetto, tuttavia non si riconoscono per due forme categoricamente diverse, ma piuttosto per due gradi della cosa medesima, perocchè non pare che si possa intendere il concetto espresso nel testo allegato, se non così: che la Filosofia sia una virtù incipiente, la quale accresca e perfezioni se medesima coll' esercizio; ovvero che la filosofia sia una virtù speciale, la quale conduca l' uomo all' acquisto delle altre virtù, alla virtù universale; e nell' uno e nell' altro modo la filosofia ha perduto il carattere di pura scienza. Quello che professavano que' due sofisti di Chio, Eutidemo e Dionisiodoro, che Platone introduce a disputare nel dialogo che egli inscrisse col nome del primo di essi, cioè « di aver trovata l' arte di rendere gli uomini da malvagi buoni », e questo in un modo facile ed ottimo, unicamente con alcune loro argomentazioni, è quello nella sostanza che promisero agli uomini tutti i filosofi gentili prima di Cristo, e che promettono, se non così esplicitamente chè non potrebbero più esser creduti, pure implicitamente, anche molti de' moderni. I quali tutti non possono evitare l' uno di questi due errori, o che la bontà e la virtù morale consistano unicamente nella scienza, confondendo cose disparatissime, o che basti all' uomo di sapere il bene, perchè incontanente egli riceva col sapere anche la volontà e la forza d' operarlo in modo consentaneo a quel che la scienza gli addimostra. Delle quali due cose, l' una e l' altra è ugualmente smentita dall' esperienza, e da un' accurata osservazione dell' umana natura. Così è frequentissimo trovare negli scrittori confusa l' arte , che è un abito, il quale si riduce al genere dell' azione (1), colla scienza che spetta al genere di contemplazione ; e già notai altre volte la poca proprietà della parola pratico applicata a ciò che non è altro che notizia speculativa, come si dice filosofia pratica per dire la filosofia che specula sulle cose pratiche, cioè sulle azioni umane, e come si definisce la coscienza morale: un giudizio pratico , quando pure la coscienza non è che un giudizio speculativo sull' onestà, o inonestà delle proprie azioni particolari, ossia sulla pratica (2). Egli è facilissimo dunque rispondere a chi propone la questione netta ed immediata: « Se sia lo stesso la conoscenza d' una cosa reale o d' un' azione, o altrui, o anche propria, e quella cosa , quell' azione »nè v' ha alcuno (se lasciamo da parte alcuni filosofi che si perdono nella stessa speculazione) che tostamente non ne senta la differenza, e non risponda, esser quelle due cose, anzi non asserisca, distare infinitamente il conoscere dal fare. Ma perchè dunque una differenza così evidente, negata da nessuno, confessata da tutti, quand' è riguardata in faccia scappa poi dalla mente di molti allorquando essa entra nel discorso in un modo indiretto, e voi vi abbattete da per tutto, anche per mezzo alle più eccellenti scritture di uomini grandissimi, in quelle due cose ridotte ad una, o l' una confusa, o convertita nell' altra? Questa contraddizione in cui cadono senza avvedersi, deve avere la sua ragione, e merita d' essere ricercata: all' intento poi del nostro ragionamento, che è di porgere l' idea della sapienza, l' investigarla è necessario. Ed ella si trova in questo, che ci sono due sorti di notizie, nelle une si ferma il solo intelletto, nelle altre si spiega l' attività del soggetto, e in virtù dell' adesione di quest' attività soggettiva, esse stesse diventano operative, di maniera che si può dire ugualmente che esse operano per virtù della volontà, o che la volontà opera per virtù di esse. E nel vero tutti consentono che la volontà è il principio delle azioni umane. Ma cos' è la volontà? Esisterebbe questa potenza senza notizie? No: chè a' principŒ attivi i quali operano senza alcun lume di cognizione non s' addice il nome di volontà , che è un principio razionale onde la sentenza comune, che la volontà non si muove mai verso l' incognito. Una notizia dunque è necessaria ed essenziale alla costituzione della volontà, od è la forma oggettiva della volontà stessa. Poichè come l' attività del soggetto, astraendo da ogni notizia, non è più che, quasi direi, la materia costitutiva della volontà, così quando quell' attività è informata dalla notizia del bene, allora essa è divenuta volontà; non è più un semplice rudimento materiale della volontà, è la volontà a pieno formata; non è la volontà ancora in via ad essere, nel quale stato si vuol chiamare con una maniera antichissima della scuola italica non7ente , ma è la volontà pervenuta al compiuto suo essere. Questo è dunque l' ordine intrinseco, nel quale la volontà si natura: c' è prima la notizia oggettiva nell' intelletto, poi l' attività soggettiva a quella si congiunge, assentendo: l' attività soggettiva così congiunta all' oggetto è divenuta un principio attivo, che si chiama volontà: questo congiunto, questa potenza di volere è il principio delle umane operazioni: ed ha un grado di forza proporzionato al grado della sua adesione all' oggetto intellettivo: laonde si può dire che la notizia dell' intelletto diventi operativa per l' adesione ad essa del soggetto e quindi che ella operi per la volontà di cui è divenuta la parte formale, e si può dire altresì, che la volontà operi per la notizia che è la sua forma. Ci sono dunque, per ricapitolare, due generi di notizie, le une speculative, le altre pratiche ossia operative; quelle costituiscono la scienza , queste costituiscono il principio reale delle azioni umane. E qui si avverta bene (perocchè l' equivoco e la confusione che vogliamo spiegare sta qui), si avverta, che la scienza può speculare su tutto, anche sul principio delle azioni, la volontà, sulle notizie pratiche, come fin anco sopra se stessa; ma lo speculare sopra una cosa non è già un convertir la cosa in ispeculazione, un' assorbirla con essa speculazione: chè tanto è lungi che la speculazione cangi ed assimili le cose reali, e le azioni a se stessa, che anzi ella è quella che ci fa conoscere queste cose e queste azioni avere e mantenere una natura diversa ed opposta a quella della scienza, a cui diventano oggetto. Laonde le notizie pratiche di cui parlavamo non sono scienza, nè si possono scrivere ne' libri, perchè cesserebbero dall' esser pratiche , e quando si pretende di scriverle (ecco l' illusione), quando si crede di averle scritte, allora altro non s' è fatto, altro non s' è scritto, che la dottrina che versa intorno a quelle notizie pratiche , non le stesse notizie, in quanto sono pratiche, cioè in quanto sono le radici delle reali operazioni, non potendo stare immobili dentro un libro le operazioni dell' uomo che passano, benchè dentro ad esso possa stare un trattato scientifico sulle medesime; chè le idee non passano, ancorchè le cose di cui sono idee, passino. Ma onde poi quest' allucinazione, per la quale si confondono insieme due ordini così distinti quali sono l' ordine delle cose ideali , e l' ordine delle cose reali ? due ordini che gli uomini hanno un bisogno frequentissimo di distinguere, e che in fatti frequentissimamente distinguono nel comune linguaggio? La prima ragione che si presenta alla mente è quella de' vocaboli. Chè gli stessi vocaboli si usano veramente così a significare le idee delle cose come le cose, così a significare le cose possibili, come le cose reali. Quando si dice a ragion d' esempio: « l' uomo è un essere ragionevole », la parola uomo non significa alcun uomo reale, ma l' uomo nella sua essenza e possibilità. Quando poi si dice: « l' uomo che tu vedi chiamasi Pietro », la stessa parola uomo è usata a significare non più la sola idea dell' uomo, ma con essa l' uomo reale. Ora vocaboli che s' applicano a significare più entità differenti, fanno sì che alcune volte le entità stesse, confuse nel discorso, si confondano nella mente, e si parli dell' una come se fosse l' altra. La qual ragione tuttavia non è l' ultima: chè ci resta a cercare: perchè poi gli uomini impongano gli stessi vocaboli alle idee ed alle cose, agli esseri meramente ideali, ed agli esseri reali corrispondenti a quelli. E la dottrina intorno all' umana conoscenza, ci discopre questa ragione ulteriore. E` indubitato, che l' uomo non può applicare un segno vocale, un nome, se non a quello che egli conosce. Ora l' uomo non potrebbe conoscere ciò che cade nel suo sentimento, se non riferisse il sensibile all' idea , rendendolo così intelligibile . All' incontro l' idea non ha bisogno per essere intesa della presenza della realità sensibile; di che questa è una prova evidente, che l' idea rimane nella mente senza la realità, per modo che l' idea è intelligibile per se sola, quando il sensibile non è intelligibile se non per mezzo dell' idea, e colla continua presenza dell' idea. L' idea dunque è l' ente in quanto è conoscibile per se stesso ed è la conoscibilità delle altre cose o entità che non sono idee, cioè degli enti in quanto sono reali e sensibili. Come dunque c' è un ordine logico fra le notizie, di manierachè le prime a conoscersi sono le idee, le seconde poi sono quelle cose che si conoscono per mezzo delle idee, così conviene, che anche l' invenzione de' vocaboli proceda con lo stesso ordine, di manierachè anche ne' vocaboli si distinguano due classi, e la prima sia quella de' vocaboli, che significano idee, la seconda sia quella de' vocaboli che conducono la mente alla realità delle cose. Ora alla prima di queste due classi appartengono i nomi comuni (e comuni sono quasi tutti), alla seconda poi appartengono i nomi proprŒ , e tutte quelle particelle, sieno pronomi, o avverbi, od altro, che si adoperano a trasferire la mente dall' idea comune ed universale, al proprio ed al reale. Così quando io voglio far servire il nome comune di uomo a significare non più la sola idea, ma un uomo particolare e reale, io non posso adoperare quel nome tutto solo, nel qual caso altro non additerebbe alla mente altrui che l' uomo universale, cioè l' idea, e però ho bisogno d' aggiugnergli qualche altro vocabolo, che lo determini a significare l' uomo particolare, per esempio il nome proprio Pietro , o « che tu vedi »o delle particelle che ne indichino la presenza ai sensi, come « che è qui », od altri modi che richiamino alla memoria o all' attenzione l' uomo che fu presente ai sensi nostri altre volte, o ai sensi altrui, o un uomo insomma particolare in qualsivoglia modo determinato. Colle quali aggiunte si restringe il significato di quel nome comune, e si dà a intendere a coloro, co' quali si parla, che quell' idea fa conoscere, in quel caso e per quella volta, una data realità sensibile , e non altro: e così la si prende come fosse la conoscibilità di questa sola, sebbene per sè significhi una conoscibilità universale. Laonde i nomi comuni (a cui si riducono pure gl' infinitivi de' verbi, i participŒ, e gli addiettivi d' ogni maniera), non son essi che significhino il reale, ma l' aggiunte che ad essi si fanno nel favellare; ma essi sono necessarŒ, perchè son necessarie le idee a far conoscere il reale, che separato dalle idee è oscuro, ed essenzialmente ignoto. Or se l' ideale, e il reale sono differentissimi, come in quello e per quello si può conoscer questo? (1) La risposta si trova nell' intima osservazione della cognizione, e del modo di conoscere. La quale osservazione ci attesta, che il fatto è così; e tanto dee bastare a qualunque uomo ragionevole: chè non è mai ragionevole il negare un fatto ben accertato. Ma la stessa osservazione, ove sia penetrante, non solo ci attesta il fatto, ma anche ce lo spiega, perchè è uno di que' fatti, che nel suo seno contiene la sua propria ragione. Noi dunque entrando coll' attenzion della mente negl' intimi penetrali di quel fatto, troviamo che quantunque l' ideale e il reale sieno differentissimi, tuttavia hanno un elemento identico, e questo è l' ente: lo stesso ente identico trovasi nell' uno, e nell' altro, ma a diverse condizioni, e sotto una forma diversa: una forma sotto cui si trova l' ente è l' idealità, o la conoscibilità, o l' oggettività (espressioni che vengono tutte a dire, sostanzialmente, il medesimo), un' altra forma sotto cui si trova il medesimo ente è la realità, la sensibilità, l' attività, che anche queste sono espressioni, che dicono in sostanza il medesimo. Così una massima differenza sta nella forma, un' identità sta nel suo contenuto, che è l' ente stesso: questo in quanto è puramente conoscibile, in tanto è ideale, in quanto è sensibile in tanto è reale: il sensibile reso conoscibile, cioè l' accoppiamento di quelle due forme, è ciò che ci dà la percezione intellettiva, e la cognizione del reale. Dopo di ciò non possiamo più maravigliarci, che i filosofi confondano talora quelle due forme; perchè questo accade loro ogni qualvolta, non accorgendosi che il loro ragionamento si volge intorno alle forme , e riputando in quella vece di parlare dell' ente , accade loro di prendere quelle due forme per una sola, o di prender l' una per l' altra, appunto perchè l' ente, di cui credono ragionare, è uno solo sotto le due forme. All' incontro quando s' accorgono apertamente, che il loro ragionamento s' aggira circa le forme, e che non è dell' ente, come quando si propongono direttamente la questione che batte sulle forme, « se l' idea, e la cosa sia il medesimo », allora non avviene mai che le confondano. Rimane nondimeno a dare un passo più oltre, cioè a investigare perchè accada sovente, che quando il ragionamento tratta delle forme, i filosofi, non avvedendosene, lo dirigano a dir quello che dovrebber dire se si trattasse dell' ente: perchè questa difficoltà a distinguere quando l' oggetto di cui si parla è l' ente, e quando l' oggetto di cui si parla sono le forme? Si osservi, che l' uomo comune, alieno dalle scientifiche astrazioni, non fa riposare mai la sua attenzione intellettiva nè sul solo reale scompagnato dall' idea, che senza questa non si può conoscere; nè sulla mera idea, che sa bensì usare a conoscere il reale, ma d' essa sola non sa che farne: di manierachè ciò, in cui si ferma l' attenzione naturale dell' uomo, è sempre il reale unito all' ideale, colla quale unione si forma il termine della percezione. Ma quando l' uomo si solleva alle astrazioni scientifiche, allora s' accorge di questa duplicità che è negli enti da lui percepiti, onde distingue (in qualunque maniera chiami questi due elementi) la materia e la forma della cognizione. E allora l' idea acquista una nuova relazione colla mente umana, non è più solo oggetto dell' intuito, e mezzo di conoscere le realità, ma è divenuta ancora oggetto della riflessione , e quindi mano mano della scienza. Ma il reale scompagnato dall' idea, privo della sua luce, rimane del tutto incognito, e il rimanere incognito equivale a un dire, che, rispetto alla mente, è caduto nel nulla. La mente però che prima lo conosceva, non vuol perderlo; e per non perderlo, ella, senza pure avvedersene, lo riveste di nuovo dell' idea: quell' idea che gli ha tolto consapevolmente, quella stessa gliela restituisce inconsapevolmente. E quindi ella cade in una prima allucinazione, e poi traendo seco quest' allucinazione (quasi una penna con un peluzzo nel taglio che scrivendo imbratta tutte le eleganti lettere che va formando) fonda la filosofia sopra due elementi, cioè sull' idea staccata dal reale, e sul reale unito di nuovo all' idea; prendendo così l' idea due volte, invece di prenderla una volta sola. Con un' altra riflessione spontanea su questo prodotto erroneo della riflession precedente, il filosofante incappa necessariamente in un altro errore; chè egli oggimai trova da per tutto l' idea da cui è inseguito, o accompagnato nella stessa fuga, la trova anche in quell' elemento che egli crede aver sceverato da ogni idea, perchè questa, alla sua insaputa come dicevamo, c' è ritornata, anzi c' è l' ha rimessa egli stesso per un istinto intellettivo, non per alcuna riflessione, e quindi senza coscienza. Trovando dunque l' idea anche là dove pensa che ci sia sola la realità, è natural conseguenza, che confonda l' idea con essa realtà: e questo io stimo essere il vero principio, e il processo dell' errore d' un illustre italiano, che di quest' errore fece un sistema sull' esempio de' Tedeschi. Ma i filosofi tedeschi caduti in quest' errore, in cui ci cadono tanti altri, il raccolsero con quella gioia, con cui si trova un tesoro, e colla loro diligenza, colla maraviglia loro famigliare, vi edificarono sopra un gigantesco, o piuttosto grottesco sistema; all' incontro gli altri, che pure confondono la scienza coll' azione reale, il fanno senza badarci, e senza darvi alcuna importanza. Non è men vero per questo, che anch' essi vengano in tal maniera a riporre tutta l' umana natura che è reale, nella scienza, e a ridurre l' uomo allo scienziato: e quindi oggimai non può fare maraviglia se facilmente si persuadano, che quando un uomo ha la scienza, abbia ancora con essa la virtù, e che essi soli diano questa agli uomini nelle loro scuole, perchè in esse comunicano loro le proprie teorie. L' impossibilità dunque in cui è l' uomo di pensare direttamente, e più ancora d' immaginare il reale scompagnato affatto dall' idea, conduce lo scienziato, che non istà sommamente guardingo, per questa serie d' allucinazioni, onde perviene a ridurre ogni cosa alla scienza (nulla più vedendo fuori di questa) o almeno a pigliare la scienza per la stessa virtù morale, che all' opposto nel reale dell' operazione consiste; tanto più che l' operazione, per esser virtuosa, è necessario che si riferisca e conformi all' idea, ossia a quella Filosofia, che Seneca, quando non confonde le due cose, definisce (ancor troppo parzialmente) « lex vitae (1) ». Al di là dunque della scienza vi ha un mondo reale, che sfugge non di rado agli occhi degli scienziati e de' filosofi; e in questo mondo vive in gran parte l' uomo, il quale non vive di sola scienza. Se si cerca quello che è perfetto nell' uomo, e che acconciamente può esser denominato sapienza , non convien fermarsi al primo elemento cioè alla scienza, o più generalmente alla cognizione , ma a questa è necessario unire il secondo, che è l' azione reale , in cui la bontà morale consiste. In certi lucidi intervalli della mente sentirono questa verità assai bene gli stessi filosofi gentili, e parlarono della sapienza come di qualche cosa di completo, di qualche cosa, che dovea comprendere tutta la perfezione dell' uomo , la quale nella mente s' inizia, ma si continua poi a ordinare gli affetti, e a rendere onestissime e piene d' armonia tutte, anche le menome sue azioni. Onde qui opportunamente scrivea il filosofo morale che abbiamo citato: « Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut et ipse ubique par sibi idemque sit (2). » E non preterisce a questo luogo la distinzione fra la filosofia come scienza, che può annunziarsi colle parole, o consegnarsi alle scritture, da quella sapienza la quale non concede che per intero o si dica, o si scriva, e che s' ottiene allorquando la scienza trapassa nell' attività umana, e ne riforma le passioni, gli affetti, le operazioni. [...OMISSIS...] Dove si scorge distinta la filosofia dall' uso della filosofia, da quell' uso , dico, pel quale l' uomo non già co' ragionamenti e colle lettere, ma co' fatti e colle operazioni, che son fuori di tutta la scienza e di tutti i libri, realizza quello che la filosofia insegna nelle parole e ne' libri, e converte le massime di lei in sentimenti, che è quasi un farle penetrare dentro i precordŒ, sede dagli antichi assegnata alle passioni. E in una maniera somigliante viene descritta la sapienza da Platone in quel dialogo che nominò dal giovanetto Teeteto, dove cercasi la definizione della scienza, senza mai rinvenirla, o almeno senza che la si profferisca espressamente, al che forse era un ostacolo, che rendea quella disputa anche lunga ed intrigata, il non distinguersi bastevolmente dal concetto della scienza , quello dell' arte e della vita . Ma la sapienza si ripone senza esitare « « nella perfetta congiunzione della giustizia e della santità colla prudenza »(2). » Chè Socrate dopo aver detto essere impossibile che tutti i mali s' estirpino nelle cose umane e soggiunto « « che tuttavia quelli non possono avere alcun luogo presso gli Dei », » continua così: [...OMISSIS...] Laonde, secondo il senno più compiuto e più purgato degli antichi, la sapienza ha due parti, le quali però in essa si trovano individuamente congiunte, la prima che nella mente, e questa se si separa, e col mezzo della riflessione ordinatamente si dispone, acquista il nome di scienza , che s' insegna, e si scrive; l' altra poi è tale, che nè s' insegna dalle cattedre, nè si può scrivere ne' libri, ed ha la sua propria ed unica sede nell' animo e nella volontà, e in tutte le affezioni, e le operazioni; e tuttavia ella è quasi la stessa scienza, discesa dalla mente, trasfusa nella realità del sentimento, penetrata nella vita, dove con pieno e beneficentissimo imperio governa. E veramente si può mai scrivere l' azione? l' azione umana dico in qualunque de' suoi tre o quattro gradi che sono la cognizione pratica, il sentimento, il decreto, l' operazione esteriore? Ponete mente, che non è mai abbastanza avvertita la distinzione: quando voi avete scritta la parola azione , avete scritto altro che un' idea? Non altro: e l' idea di un' azione sarà ella l' azione nella sua realità? Se voi invece di scrivere azione solamente scrivete di più: « quest' azione reale » ovvero « questa cognizione pratica, questo sentimento che proviamo, questo decreto della mia volontà, onde venne il movimento alle mie mani che or maneggian la spada », allora voi avete scritto delle azioni reali, ma cosa vuol dire scrivere delle azioni reali? Forse prendere le azioni medesime, e incarteggiarle, inserirle nello scritto? Nulla affatto, nulla di questo; vuol dire solamente tracciare in sulla carta de' segni che richiamano tali azioni all' intendimento. Quando poi l' intendimento riceve questi segni, che operazione fa egli per trasportare la sua attenzione da essi alle azioni significate? Forse un' operazione di tal natura che con essa intruda in sè, nel suo pensiero, come in un astuccio, le operazioni stesse reali, per forma che la cognizione che n' acquista diventi essa stessa quelle operazioni? Certo no: che, se fosse, come potrebbe pensare, il che pur pensa, che quelle azioni erano prima che fossero da lui conosciute, e saranno dopo che egli avrà cessato di pensarvi, e che hanno una causa, che egli fors' anco ignora, o conosce esser diversa dal suo pensiero, nè mai gli accade di credere fino che è sano di mente, che il solo pensarle sia un produrle? Dunque nè lo scritto, nè il pensiero delle azioni sono le azioni scritte e pensate, si pensino esse nel loro essere ideale per via di semplice intuizione, o nel loro esser reale per via di apprensione, e di affermazione: fuori della cognizione teoretica, della scienza, rimane sempre qualche cosa, rimane l' azione reale; fuori delle idee, rimane tutto il soggetto. Ma pur questa è una legge dell' anima, che quando agisce esclusivamente con uno de' suoi principŒ operativi, allora ella è questo stesso principio, nel quale ha trasfusa tutta la sua attualità, o certo non le pare di esser altro, perchè gli altri suoi principŒ non sono in quell' istante attuati. Ora lo scienziato, o diremo meglio il pensatore, vive di pensiero, e però egli è attualmente il pensiero, e quindi facilmente cade nell' illusione di riputarsi solo pensiero. Ma le cose che attualmente non cadono nel pensiero, come abbiamo detto di sopra, sono nulla al pensiero, perciò il pensiero immediato le dichiara nulla . Ecco qua di nuovo l' origine del nichilismo hegeliano, la quale in fondo è la medesima di quella che abbiamo indicata più sopra, ma qui vestita d' altre parole. Il nulla onde Hegel fa uscire tutte le cose dell' universo, e nel quale le fa poscia rientrare, non è altro, preso alla sua origine, se non quello che non è divenuto ancora oggetto del pensiero, e che però è nulla al pensiero dell' uomo, e ritorna nel suo primitivo nulla, quando il pensiero cessa dall' atto consapevole. Il qual fenomeno che nasce al pensatore ingannò quel filosofo (ed è lo stesso inganno che subirono gli antichi dell' India) che pose per principio delle cose il nulla (chè gli enti sono prima non pensati, e però nulla al pensiero, e poi pensati, e però relativamente al pensiero esistenti). Quello adunque che era un' apparenza relativa al pensiero immediato e percettivo o anche al pensiero consapevole, e che dipendeva da una legge soggettiva del medesimo pensiero, il filosofo di Stuttgarda, chiuso così in quella sfera del suo pensiero, lo diede per cosa assoluta. Per fermo l' anima che trova la scienza non è, e non può essere, in quell' atto, che solo pensiero, essendo soltanto in questo attuata, e quand' anco ella fosse attuata in altro, quest' altro atto che ella avesse in quell' ora, non sarebbe quello che le produrrebbe la scienza, e però la scienza non lo rappresenterebbe. Ora poi se s' aggiunga, che il primo fondamento su cui s' eresse la filosofia tedesca fu un pregiudizio introdottosi universalmente dopo Locke, cioè che « le cognizioni sieno un mero prodotto dell' intendimento », e però del soggetto umano, ell' è ovvia la spiegazione del sistema hegeliano, e, nel suo traviamento, mostra la forte dialettica dell' inventore, chè tutto si deriva per diritto da queste due proposizioni, entrambi erronee: 1 Il pensatore come tale non riconosce per esistente quello che non è ancor oggetto del suo pensiero, e però lo dichiara NULLA; 2 le cognizioni sono mere produzioni dell' intendimento, e però anche gli oggetti del pensiero sono da questo prodotti e quindi creati, chè il pensiero dal NULLA li fa passare all' ESSERE. E dissi che anche la prima di queste due proposizioni è un errore (l' errore contenuto nella seconda fu da noi lungamente esposto nell' Ideologia), perchè ella non è una proposizione che proceda dal pensiero preso nella sua totalità, ma da un atto particolare di esso, dall' atto della percezione , a cui i tedeschi diedero un' estensione maggiore che non abbia (1): giacchè il ragionamento che sussegue alla percezione, e che certamente è pensiero anch' esso anzi pensiero più innoltrato, conduce l' uomo ad ammettere l' esistenza attuale anche di enti che non cadono nel pensiero percettivo, o nel pensiero consapevole, purchè abbiano relazione con cose che cadano in quel pensiero. Per altro questa illusione non è un fatto isolato: è dello stesso genere di quella che accade agli uomini dati sfrenatamente ai piaceri de' sensi, i quali si mostrano sempre inclinati a credere che quel genere di piaceri sia tutto, e che l' anima umana sia unicamente sensitiva, com' è quella delle bestie, appunto perchè l' anima loro è tanto attuata nella sensazione, e quasi in essa assorbita, che non si conosce più se non come anima senziente, o non ha d' altro coscienza. Pure l' illusione della filosofia Prussiana ha un carattere che la distingue dall' illusione dell' uomo sensuale, e la rende più superba, e quel carattere deriva da questo, che la filosofia è effettivamente opera del solo pensiero, non del senso, e però al filosofo, ridotto quasi ad essere un pensiero puro, accade facilissimamente di non conoscere e di non ammettere che il pensiero, e di prendere i fatti del pensiero per fatti ontologici, come è già avvenuto alle scuole Indiane e alla stessa scuola d' Elea; laddove se il sensualista prende a filosofare, egli è necessitato a salire al pensiero, e, non potendolo disconoscere, si contenta d' attribuirlo al senso dove trova pure il sostegno d' una realità. Ridotto poi l' uomo da' nominati filosofi al solo pensiero, e le idee ridotte pure a non esser altro che produzioni, e modi del pensiero, e confuse necessariamente colle cose (che fuori del pensiero nulla più si riconosce), l' uomo dovea acquistare nelle mani di tali filosofi un cotale stato d' oggettività, e d' impassibilità, che lo divideva necessariamente dagli umani sentimenti, e dai doveri morali. Perocchè io lascio qui da parte le altre gravissime conseguenze, che discendono da' principŒ della scuola hegeliana, quali sono il panteismo, con tutte le dottrine inauditamente mostruose dell' empietà germanica, e voglio solamente osservare, come l' uomo divinizzato in quella filosofia si trovi ad un tempo dissecato ed inaridito riguardo a tutti i più nobili umani affetti, i quali non sono nobili se non sono dai doveri morali nobilitati. Chè allorquando l' uomo si ferma ai sentimenti e ai doveri, sieno religiosi, o di padre e figlio, o di sposo e sposa, o altri quali si vogliano, egli non è ancora divenuto Dio secondo tali maestri, perchè egli non è ancor consumato nell' oggettività del suo pensiero, e per usare una frase famigliare a tali sofisti la « sua coscienza è ancora involta nel travaglio della sua propria creazione. »Quando poi ella emerge da questa sua « immediatità creativa, »del tutto sviluppata, a guisa della farfalla dal bozzolo, allora, divenuta pensiero oggettivo, ella contempla tutte l' altre cose che appartengono agli uomini, cioè i sentimenti e i doveri, dall' alto del suo trono dell' astrazione, siccome cose a sè inferiori, che non più a sè appartengono, ma le stanno davanti a modo d' uno spettacolo artistico, nel quale lo spettatore non ha a fare alcuna parte attiva. L' IO allora è libero, dicono, perchè la morale stessa è sotto di lui: egli la contempla con una perfetta indipendenza e separazione, siccome un pittore che fattosi ricco, e divenuto per la virtù dell' oro più che pittore, sdegna oggimai il dipingere, e si contenta di riguardare con signorile alterezza i quadri dagli altri pittori dipinti. Questa mostruosa dottrina dovea riflettere sulla politica, sulla famiglia, sulla letteratura germanica, e per non parlare che di quest' ultima il Goethe ne fu il rappresentante più ammirato. Il carattere della letteratura del Goethe è appunto l' oggettività nel senso della filosofia germanica: non l' oggettività che l' uomo riconosce per qualche cosa di superiore a sè, a cui si sommette con umile riverenza, ma l' oggettività che l' uomo espugna ed invade, mettendo in essa se stesso e di là regna (cioè s' immagina di regnare), senza aver bisogno di riconoscere più nulla sopra di sè, ma tutto sotto di sè: in una parola è la scalata data al cielo. Tutti gli affetti, tutti i doveri stanno sotto i piedi di quest' uomo [...OMISSIS...] Il Faust è il carattere d' un uomo che non può sofferire di sentirsi chiuso dentro i confini dell' umanità, vuol romperli, tenta ogni cosa per uscirne: si profonda nella scienza della natura, in vano: fa ricorso alla magia, in vano: s' immerge in tutta la voluttà de' sensi di cui l' uomo è capace, si sdegna col Creatore che l' ha rinserrato in que' cancelli dell' essere umano, si vende al demonio, tutt' in vano; infine dopo avere tanto sperato inutilmente di trovare il TUTTO nel NULLA di Mifistofele (2), raggiunto dalla morte, in presenza di questa esclama: « « O natura ch' io non sia null' altro che un uomo davanti a te! porterebbe in tal caso la pena d' essere un uomo! » » E` un' imitazione del Prometeo d' Eschilo, se non che la figura del Semideo è d' un disegno grandioso e puro: il Faust è un piccolo titano del secolo XVIII, un vero professore delle università tedesche, senza un solido sapere, d' immensa ma sregolata immaginazione, credulo, voluttuoso, ambizioso, visionario, pazzo: e per fermo che sotto a questo aspetto il Faust di Goethe è la più acre derisione di quella filosofia ond' egli attinge la vita. Tale è il capo d' opera del poeta prodotto dal panteismo germanico. Non sarà inutile soggiungere il giudizio dell' Herder sopra il Goethe; eccolo: [...OMISSIS...] Non ci parve inutile distenderci alquanto dimostrando le conseguenze d' un errore, nel quale, ove la questione si ponga direttamente, l' uomo non cade mai, ed anzi pare allora impossibile che uomo alcuno ci cada; vogliam dire l' errore che confonde l' idea colla realità, e assorbe tutte le cose nella scienza e nel pensiero che la produce. Dall' aver obliato questa distinzione, che forse a molti può sembrare una sottigliezza metafisica senza utilità alcuna, vennero tutte le conseguenze di cui abbiam parlato: quell' oblivione fu la fucina a cui fabbricaronsi l' armi, di cui alcuni professori tedeschi, quasi gelosi della gloria de' giganti che gemono sotto l' acque, s' armarono. L' uomo della vita comune, a cui non manca mai una logica naturale, bastevole dentro la sfera onde non escono le sue azioni, non va soggetto a sì strana allucinazione; chè il termine de' suoi pensieri, su cui posa la riflessione, è sempre il congiunto dell' idea e del reale, che cade nelle sue percezioni: egli non divide i due elementi; non si ferma a considerar l' idea in separato dalla cosa, molto meno la cosa in separato dall' idea. Distingue bensì questa da quella, ma non la separa: vede l' una in faccia all' altra. Laonde non trova nella cosa reale alcun mistero che lo sorprenda; quando la cosa conserva i suoi rapporti coll' idea, ella trovasi illuminata da questa, è conoscibile; laddove se la cosa si separa dall' idea per un' astrazione costante, come fa il filosofo, subitamente ella gli diviene in mano un enimma: un non so che, che d' una parte non può negare perchè gli rimane nella mente la memoria della notizia che n' ebbe quando la considerò congiunta all' idea, e che dall' altra non può ammettere, perchè non sa più affatto che sia, astratta a quel modo, o come sia, priva dell' idea, ed anzi ne vede l' impossibilità: antinomia singolare e trascendente, per isnodare la quale il pensatore s' ingolfa in quelle ipotesi che sono altrettante mostruose aberrazioni. Conviene dunque che lo scienziato così aberrante ritorni uomo, e non può ritornarvi se non per lo stesso cammino della scienza pel quale s' è traviato; chè la scienza, o ciò che si usa di chiamar scienza, è quella maga che ha virtù di convertire gli uomini in bestie, e in vari generi di mostri, ed anche in demoni, e di farli poi ritornare uomini, ma d' una statura maggiore di quella di prima. E queste due contrarie operazioni quell' antica incantatrice le compie l' una per mezzo de' sofisti, e l' altra per mezzo de' filosofi che loro succedono, come abbiam veduto di sopra; chè i sofisti rompono audacemente le sfere del cielo della mente, quasi fossero di cristallo, entrando in ordini superiori di riflessioni, e colassù tiranneggiano per un po' di tempo la scienza; ma i filosofi che ivi sopravvengono, gli spossessano poi del campo con violenza usurpato. Così la filosofia tedesca s' innalzò per vero ad una riflessione più elevata di quella a cui trovavasi la filosofia del tempo quando considerò il reale diviso intieramente dall' idea, e s' accorse che in questa separazione, egli si rimaneva un incognito, e di più diventava un impossibile. Allora ella conchiuse frettolosamente, secondo il costume della sofistica, e coll' entusiasmo proprio delle vane creazioni, che il reale, e quindi il soggettivo, si dovea ad ogni patto ricacciare dentro ne' visceri dell' idea cioè dell' oggettivo, e ne comparve immantinente la teoria dell' identità assoluta , e la logica hegeliana che si divora la metafisica, come Saturno i suoi figliuoli. Indi le rovine della filosofia e di tutto ciò che è vero e santo. Ma come i diversi ordini della riflessione non determinano nè la verità nè l' errore, ma sono indifferenti all' una e all' altra; onde in ciascuno tanto l' errore, quanto la verità trova un amplissimo spazio in cui collocarsi, e tanto più ampio, quanto l' ordine è più elevato; così rimaneva che, entrando i veri filosofi, per la porta aperta, nella medesima sfera, vi combattessero l' errore arrivato il primo, conquistando quella nuova zona celeste alla verità. E la filosofia fa questo, ragionando così: Vero, che il reale diviso totalmente dall' idea è un incognito, e, se volete, in tale stato, anche un impossibile: ma da questa premessa non deriva la conseguenza che dunque egli appartenga all' idea, che questa se l' abbia in sè, di sè lo emetta e in sè di nuovo lo assorba: cose tutte che si possono anche direttamente mostrare contrarie al fatto, ed assurde; ma deriva soltanto quest' altra conseguenza, che il reale non è mai senza l' idea, dalla quale per un' astrazione arbitraria della mente si divide, è coll' idea, non nell' idea come un suo momento, sicchè reale e idea sono indivisibili, ma non identici: il primo non può stare senza la seconda, ma non si confonde mai colla seconda e d' altra parte l' idea può stare, fino a un certo segno, senza il reale. Altro è dunque il dire che il reale abbia una relazione essenziale coll' idea, un sintesismo ontologico; altro è il dire, che da que' due elementi si deva, si possa rimovere la dualità, concentrandoli in uno solo. Come abbiamo già detto innanzi, il reale è indivisibile dall' idea e insieme distintissimo; perchè quell' essere che è nell' uno, è identicamente nell' altra, ma non sotto la stessa forma, nè alle stesse condizioni: tale essendo l' immutabile natura ed eterna dell' essere, che, nella sua perfettissima unità, in due forme distintissime ed affatto inconfusibili si ritrovi. Di qui la dualità dello stesso sapiente, tanto diverso dallo scienziato. Chè il sapiente nasce dalla piena conformazione dell' uomo reale colle idee, e per mezzo delle idee con tutto l' ordine delle cose reali: conformazione che niuno gli può dare se egli non la dà a se medesimo colla propria attività, cioè colla libera potenza di volere, la quale sola rende pratico, cioè operativo, lo stesso pensiero. E tutta quest' azione della volontà, benchè sia comunicata al pensiero, è però distinta dal pensiero teoretico che si ferma nelle idee e nelle notizie; è un' azione unita al pensiero, ma non confusa con lui, un' azione del soggetto sopra il soggetto, a cui il pensiero diventa mezzo e stromento, dalla quale, il diremo di nuovo, il soggetto reale - persona umana - rimane modificato e nobilitato, partecipando della divina eccellenza delle stesse idee, senza poter giammai trasformarsi in esse. Quando l' umanità era ancora, quasi direi, nella sua culla, e non s' era molto inoltrata nella scoperta delle regioni astratte, regioni vastissime e piene di pericoli, come pe' viaggiatori sono gl' immensi deserti, a lei si affacciava quest' imagine della sapienza in tutta la sua nativa semplicità e verità, ed ella tendeva a raggiungerla. Questa tendenza, questi sforzi, in cui s' esperimentava sempre più la difficoltà dello scopo, più lontana apparendo la sapienza, più che progredendosi verso di lei se ne scopriva meglio la divina natura, (come l' areonauta quanto più s' innalza nell' atmosfera, tanto più intende quanto lontane stieno le stelle, o come incontra a colui che ascende un' altissima montagna, che la vetta, che gli parea da principio toccare, gli si dilunga e gli par più inaccessa): questa tendenza, dico, e questi sforzi furono chiamati convenevolmente filosofia , significando appunto la parola « amore e studio di sapienza ». Ma non è ancor quì la filosofia come scienza , nel quale significato, a cui fu più tardi ristretto il vocabolo, noi la prendiamo: quell' antica filosofia è più ed è diversa dalla scienza. E` più della scienza, perchè questa non ha e non può avere a scopo se non d' illuminare l' intendimento, grandissimo aiuto alla buona volontà, a cui spetta di compir l' opera rendendo, l' uomo sapiente; ma aiuto prestato alla volontà senza violentarla o necessitarla lasciandola libera, rinforzando anzi la sua libertà, sia di dirigere e modificare l' umano soggetto e tutte le sue potenze a quel modo che la scienza dimostra, sia nel modo contrario, qualora riponga, con un falso giudizio, la sua grandezza e la sua felicità in altra cosa, e fors' anco in una lotta d' orgoglio contro la vera scienza e la verità in quella racchiusa, e cerchi una gloria più grande, anche non isperando vittoria, quant' è più grande ed augusto il nemico col quale combatte, da cui si lascia uccidere, senza arrendersi. La filosofia dunque, noi dicevamo, nel senso, « d' una tendenza pratica alla sapienza »è più della filosofia come scienza, che al cospetto di quella rimane umiliata. E questa giusta umiliazione, rivelata al mondo dal Vangelo che dell' umiltà fece la più alta e la più ragionevole delle virtù, è causa d' un' irritazione, che talora giunge al furore, nell' uomo dedito alla sola scienza che si crede divenuto puro pensiero, e come tale vuol esser tutto. Le sue potenze inferiori vanno disordinate: egli le lascia andare quasi non appartenessero a lui, ed arrivano a trascinar seco, lui medesimo: disordinano il suo stesso pensiero traviandolo dalla verità, ma egli non cura, chè non pone l' eccellenza nel modo , ma nella forza del pensiero. E allora appunto, il suo proprio pensiero gli par forte, perchè lotta colla verità, e la violenza della lotta mette in gioco anche le poche forze delle costituzioni deboli. Pure il pensiero che in quel furore sembra a sè stesso così potente, in verità è reso schiavo della volontà pervertita: questa gl' impone di giustificare il proprio disordine, dandogli una base scientifica: egli cancella le leggi della morale, ne inventa dell' altre: pronuncia che qui consiste la libertà: finalmente si presenta come l' uomo7oggetto, nuovo Dio Pan, che assorbe in sè la morale, il mondo: e l' antropolatria è il nuovo culto, che comparisce sopra la terra. Or la filosofia nel senso « d' una tendenza pratica alla sapienza » non solo è più, ma è anche cosa diversa dalla scienza: il che, se noi prendiamo a cercar come sia, ne rimarrà non mediocremente illustrato il primo de' due elementi, di cui abbiam detto comporsi la sapienza. Osserva Seneca, che la Filosofia, a differenza della Matematica, della Fisica, e somiglianti, che mutuano i loro principŒ da altre scienze superiori, « « non prende nulla altronde, ma innanlza tutto l' edificio dal suolo »(1). » Della qual sentenza si trova la ragione nella definizione che noi abbiam dato, dicendo la Filosofia essere la scienza delle ragioni ultime, ultime cioè a rinvenirsi dall' uomo, ma prime rispetto all' albero dello scibile, che da esse incomincia e germina come da radici, onde anche furono dette madri da qualche antico. Laonde la Filosofia sola è quella, fra le scienze, che, in un senso a sè appropriato, può dire, « Sed summa sequar fastigia rerum (2). » Ma la Filosofia nel nostro senso, è una scienza, e benchè sia la prima fra le scienze, sicchè non prenda nulla de' suoi principŒ dall' altre, quando l' altre tutte prendono i loro da lei; tuttavia, appunto perchè è scienza, non può esser prima di tempo in tutto l' ordine intellettuale, chè ogni scienza è opera della riflessione, e la riflessione non è il primo modo, che abbia l' uomo di conoscere, ma egli n' ha e n' adopera degli altri prima di cominciare a filosofare. Noi abbiam detto in qualche luogo, che la filosofia non potrebbe esistere se non a condizione di prendere altronde non de' principŒ, ma de' postulati: e questi postulati dati alla filosofia dalla natura umana come condizione del suo nascimento, sono due, la notizia naturale e immediata dell' essere, e il sentimento (1); l' ideale e il reale primitivo , che diventano in appresso oggetti della riflessione, la quale con tali materiali, e non mai col nulla, edifica l' edificio della dottrina filosofica. L' atto che dà la notizia dell' essere si chiama da noi intuizione , e questo è il primo modo di conoscere anteriore di molto alla riflessione filosofica, la facoltà dell' intuizione è l' intelletto in senso proprio. Il sentimento, come tale, non appartiene all' ordine intellettivo (benchè ci sieno de' sentimenti intellettuali, razionali, e morali che l' accompagnano o prossimamente lo seguono), ma egli presta materia all' intelligenza. Il primo sentimento è quello che costituisce il soggetto uomo, perchè l' uomo (intuente l' essere e percipiente il proprio corpo con quell' immanente percezione che il rende ad un tempo animale e razionale (2)), è un sentimento sostanziale e individuale, che riceve modificazioni accidentali, e in varŒ modi attivo. La percezione primitiva , nella quale sta l' unione dell' anima col corpo, è un modo di conoscere contemporaneo alla prima intuizione , e solo logicamente posteriore; ed è quell' atto primo, che costituisce la facoltà della ragione. L' intuizione e la percezione primitiva appartengono alla cognizione diretta , a cui si riducono molti altri atti di conoscere, come, a ragion d' esempio, tutte le percezioni accidentali che susseguono (3); e la cognizion diretta non è la riflessione, e di molto precede la riflessione filosofica. La riflessione che sopravviene è un secondo modo di conoscere; e molte riflessioni precedono quella d' un ordine alquanto elevato, che genera la Filosofia. Il complesso di queste riflessioni, o, a più vero dire, una parte di queste riflessioni costituiscono quella che abbiamo chiamata cognizione popolare (1). Tutti questi modi di cognizione precedono la cognizione filosofica. E per determinare con maggior accuratezza quel punto nella serie delle varie riflessioni, che divide la cognizione umana in due gran parti, o stadŒ, quella che precede la filosofia, e quella colla quale l' uomo ha incominciato a filosofare; basterà che noi ricorriamo alla preaccennata definizione della filosofia come scienza. Se la filosofia tratta delle ragioni ultime, egli è evidente, ch' essa incomincia precisamente a formarsi con quella riflessione, colla quale l' uomo o implicitamente o esplicitamente, rivolge a se medesimo la domanda: « Quali sono le ragioni ultime di tutto lo scibile? »Con questa domanda, non prima, incomincia dunque il lavoro filosofico dello spirito umano. Vero è che con essa non c' è ancora la filosofia, non c' è la scienza delle ragioni ultime; ma c' è la questione, a cui tien dietro la ricerca, e questo è quanto dire la strada che conduce all' invenzione della filosofia, e però si può dire che l' uomo da quell' istante filosofeggi. Ora di certo non è a credere, che prima che sia venuto quest' istante, nel quale il bisogno d' una filosofia si fa sentire all' uomo, lo spirito umano si trovi interamente vuoto di cognizioni: anzi n' ha molte, che non solo dispongono le sue facoltà, esercitandole; ma offrono alla riflessione copiosi materiali pel nuovo edifizio filosofico ch' ella a suo tempo porrà mano a costruire. E in questa costruzione della scienza, che fa la riflessione? A dir vero, non altro se non vestire la verità precedentemente conosciuta di nuove forme, le quali prestano questo nobilissimo vantaggio, che l' uomo per esse la vede da più lati, e da lati più lucenti, e può usarne in nuove utilissime maniere. Poichè conviene distinguere con diligenza la verità, e le forme di lei che la rendono più accessibile, più visibile, e più maneggevole all' uomo: convien distinguere le idee dalle forme che prendono nell' umana mente e poi nell' umano linguaggio s' esprimono. Le idee e le notizie tutte variamente spezzate coll' analisi, raggiunte colla sintesi, ordinate colle loro intrinseche relazioni, diventano acconce a innumerevoli ragionamenti, si lasciano aggruppare e distribuire in formole secondo i bisogni della mente, e danno a questa quelle nette conclusioni, colle quali, avendole a mano, ella opera speditamente, e lo spirito se ne sente confortato, arricchito, di nuova potenza accresciuto. Fino che voi avete dell' oro in verghe, poco uso far ne potete: mandatelo alla zecca che ve lo restituisce coniato in monete, e ammodato in tal forma voi lo cangiate assai facilmente in tutto quello che vi piace. La zecca è la mente filosofica. Questa svolge le idee e ne trae ciò che hanno ne' visceri: sembrano altrettante nuove verità, quantunque alla fin fine, per dirlo ancora, non v' ha dato che nuove forme; chè le idee, su cui avete esercitato il vostro pensiero, c' erano innanzi, e contenevano quello che voi ci avete cavato, c' era implicito e voi l' avete reso esplicito. Così un principio si pronuncia in una breve proposizione: e pure se voi ne deducete le conseguenze, una scienza intera v' è nata in mano: infinito vantaggio: ma dovete confessare che non avete creato nulla, chè tutta quella scienza già si conteneva nel principio, d' onde voi non l' avreste potuta cavare se non ci fosse stata. Un gran numero di notizie che la mente vedeva ad una ad una, il pensiero filosofico le considera tutt' insieme, ne ferma le relazioni, e con queste le integra, e secondo queste le dispone in un ammirabile sistema: bellissimo lavoro; ma le notizie c' erano, avevano le loro relazioni, forse erano complesse ed intere, e fu bisogno d' astrazione e d' analisi, come le pietre hanno bisogno d' essere rotte dal martello, e riquadrate, acciocchè s' aggiustino al luogo dell' edificio, ove devono essere collocate, ma in fine, checchè faccia il pensiero filosofico, lavora sempre su quello che gli è dato innanzi, nol può creare, cioè non può trovar nulla che sia per intero nuovo, poichè la funzione stessa dell' integrazione non fa che passare dal termine dato d' una relazione essenziale all' altro termine trascendente in virtù d' una legge nota (1). La differenza dunque tra l' uomo comune e colui che filosofa, non istà in questo, che al primo manchino le cognizioni, e n' abbia il secondo; ma in questo, che il primo dà l' attenzione della sua mente ora a questa ed or a quella cognizione delle tante che il tesoro dell' anima sua racchiude, non per vero dire a caso, ma secondo il bisogno che gliene viene di farne uso, siccome un padre di famiglia che trae dall' armadio que' soli vasi di cui abbisogna al momento; il secondo, che filosofeggia, prende per assunto di riguardare tutto il complesso delle medesime cognizioni, non perchè egli abbia bisogno d' usar di tutte in una volta, ma per diletto di contemplare quel ricco tesoro, ed altresì per conoscerne meglio il valore e ben ordinarle, alla guisa d' un vigilante ed operoso amministratore, che ripassa e inventaria tutti i vasi preziosi, le ricche masserizie, e gli arnesi della casa, e li classifica, ed altri ne dispone in altrettanti armadŒ, non solo ripulendoli dalla polvere, ma inserendoli ancora in astucci e in guaine eleganti, altri poi d' argento e d' oro, come troppo antiquati e pressochè inutili, li fa rifondere, e cavarne altri collo stesso metallo di miglior gusto, più conformi agli usi ed alla moda del tempo. Ma il valsente con tutto ciò rimane il medesimo, benchè un grandissimo vantaggio riceva la famiglia da queste diligenze. Ora posciachè il primo elemento della sapienza è LA VERITA`, sotto qualunque forma ella sia; perciò noi dicemmo, che la sapienza, e conseguentemente la filosofia definita all' antica siccome uno studio pratico della sapienza, contiene un primo elemento, l' elemento conoscitivo diverso dalla scienza. E la differenza sta qui, che l' elemento della sapienza è la verità, prescindendo dalle forme, e però sotto tutte le forme, sieno queste quelle di cui ella si riveste prima che l' uomo si risolva a filosofare, o sieno le forme filosofiche; laddove la filosofia come scienza riguarda un genere speciale di forme, di cui il pensiero riflesso veste la verità. Di che si trae questa conseguenza, che la Sapienza può ugualmente precedere, ed anche succedere alla Filosofia: e che quantunque questa giovi non poco a quella, rendendo la verità accessibile all' uomo da più punti e da punti più cospicui, tuttavia non è a quella del tutto indispensabile e necessaria. Non vorrei, che l' aver detto questo, m' attirasse l' indegnazione de' filosofi (che per quanto è a' sofisti, mi ci conviene ad ogni modo rassegnare). Ma quella io spero o d' evitarla, o di poterla comechessia calmare. Perocchè niuno dee conoscere qual sia il nobile e vero amore degli uomini meglio de' filosofi; ai quali perciò conviene che riesca lieta una dottrina, che dimostra, esser tutti gli uomini capaci della sapienza, non esser questo bene riserbato ad una sola classe, eziandio che fosse quella de' filosofi. Perocchè se tutti gli uomini hanno ricevuto la stessa verità, sebbene implicita fin da principio della loro esistenza nel lume della ragione, e se tutti quelli che vissero ad una certa età, hanno più o meno svolta la verità ricevuta in germe, secondo lo stimolo de' bisogni e le occasioni; e se oltracciò portano l' animo ben disposto verso a quella verità che conoscono, riconoscendone liberamente l' autorità suprema e l' immutabil bellezza; onde la loro volontà unita e quasi conglutinata alla verità coll' affetto, a questa, come a norma guida l' altre facoltà; tutti cotesti uomini, i quali hanno saputo mettere in sè stessi tant' ordine e fra le proprie potenze tanta concordia, ed ancora con ciò stesso saputo rendere il mortale e finito consonante all' infinito ed all' eterno, cioè alla verità, di cui riscuotono l' approvazione, tutti costoro dico, si meritano il nome di sapienti. Essendo dunque la verità il primo elemento e la base della sapienza, è da conchiudere che come la verità è variamente sviluppata negli uomini, e sebbene una e sempre uguale in se stessa, è oltre ogni misura feconda e moltiplice nelle sue attuazioni, onde molte sono le forme, più o meno magnifiche, più o meno ornate e quasi a mano trapunte, nelle quali agl' intendimenti diversi ella si dona; così pure sieno molte, e propriamente altrettante, e di consimile ricchezza ed eleganza di lavoro, le forme della sapienza . Di che, principiando da un qualche savio sconosciuto agli uomini, e che deva esser chiamato abnormis sapiens crassaque minerva , fino a un Agostino o ad un Tommaso d' Aquino, o ad altro qualsivoglia dottissimo tra' sapienti, noi avremo innanzi una lunghissima serie non solo d' uomini illustri, ma ben anco d' ignoti a' loro simili, anco dispregiati, benchè non dispregevoli, a cui il nome di sapiente si conviene giustissimamente accordare. E questa conclusione è tale, che non solo può confortare l' animo di colui, che allo spettacolo delle umane ignoranze, e alla somma arduità della scienza , accessibile a pochi, (confondendola egli per errore colla sapienza , o credendola l' unica via per la quale a questa s' arrivi), diffida soverchiamente dell' umana natura, e diffidandone, quasi di troppo inetta al bene, la disama; ma devono e desiderar che sia vera, e goderne, quando per vera la riconoscono, tutti quelli, filosofi o no, che dell' onore, della dignità, e della felicità dell' umana specie si curano. Poichè una tale notizia è la buona novella data ai piccoli: e coincide con quella, che nell' ordine perfetto e soprannaturale, la stessa Sapienza di Dio diede di sua bocca alla umana stirpe, dicendo: « « Colui che viene a me, non lo caccerò fuori »(1) ». Il che non riesce di alcun disdoro alla filosofia; chè comunque questa si prenda, ha sempre la verità a suo proprio oggetto e scopo, e però è affine alla sapienza. Se si prende come scienza, ella insegna le più elevate verità, ed abbiam detto non esser filosofo colui che in vece della verità, insegni l' errore; se come studio di sapienza, ella non solo cerca la verità, ma la rende operativa. Laonde Platone, descrivendo il filosofo, in modo che all' uno e all' altro senso di questa parola risponda: « « Trovasi forse qualche cosa, dice, che sia più famigliare alla sapienza della verità? - Nessuna - E` dunque possibile che la medesima natura sia filosofica (amatrice di sapienza) ad un tempo, e mendace? - In niuna maniera - Dunque colui che è cupido d' apparare, forz' è che tosto dalla puerizia sia soprammodo affezionato ad ogni verità »(2). » Tale deve essere la disposizione del filosofo, anche se si prende questa parola solamente per indicare quello che alla scienza è applicato. Dove si disvela la relazione, e l' intimo nesso che passa fra que' due elementi che abbiamo trovati esser parti integrali, ed anzi essenziali, della sapienza, cioè la verità , e la vita alla verità conforme , nel che consiste la virtù. Il primo de' quali è sempre posseduto dal sapiente, sotto qualsivoglia forma; ed è l' oggetto della filosofia non sotto qualsivoglia forma, ma sotto una forma scientifica, universale, complessiva, splendida all' umana consapevolezza. Ora il filosofo perverrà egli al possesso, e alla sublime cognizione della verità, se non l' ami? o se l' ama solo splendiente, ma la teme redarguente (3)? Il che è quanto dimandare: Se la volontà dell' uomo è alla verità contraria, se lotta con essa, se la rifiuta per maestra della vita, se ne riceve continui rimproveri, potrà poi l' intendimento ne' suoi assensi e dissensi, guidato dalla volontà a cui il vero non piace, riconoscere e confessare pienamente, e prontamente il vero stesso, dovunque gli si presenti, qualunque egli sia, con una perfetta imparzialità e giustizia? quando è appunto perchè alla sua volontà manca la giustizia, che il vero gli si rende molesto, ed odioso, e ripugnante all' assenso? « « Ogniqualvolta, diceva un celebre sofista del secolo scorso, la ragione sarà contraria all' uomo, l' uomo sarà contrario alla ragione » (1) » Ma quand' è che la ragione sarà contraria all' uomo? sempre, quando l' uomo colla sua libera volontà, avrà reso se stesso contrario alla ragione; di certo, questa non è mai la prima ad esser contraria all' uomo. Leibnizio diceva, che le stesse verità matematiche, diverrebbero argomento di grandi disputazioni fra i dotti, qualora comandassero agli uomini de' sacrificŒ e ne regolassero i costumi. La virtù dunque o la disposizione alla virtù conduce alla verità non meno gli uomini tutti, che quelli che vogliono filosofare: tanto è intimo il nesso fra i due elementi costitutivi della Sapienza. E nello stesso tempo nasce di quì l' onore e la dignità della filosofia, rendendosi manifesto, che questa scienza, a differenza di tutte l' altre, benchè nè sia da sè sola la sapienza, nè tampoco sia una forma speciale della sapienza; tuttavia è involta nella felicissima necessità di non poter essere a pieno professata, se non da un sapiente. Laonde Socrate appresso Platone in commendazione di questa disciplina domanda a Glaucone: « « Puoi tu dunque, in qualunque modo, condannare questo studio » (della Filosofia), «che niuno può compire con sufficienza, se di natura non sia perspicace, memore, magnifico, grazioso, amico e famigliare della verità, della giustizia e della temperanza? »(2). » E con ragione questa sentenza è temperata da quella parola « con sufficienza ». Poichè anco di quelli, i quali non hanno la volontà, in cui sta tutto l' uomo come persona, nè di conseguente la vita conformata al vero, possono pronunciare una parte della verità, e con questa apparire filosofi, ma tutta la verità non mai. Altramente non avrebbe potuto aver luogo quella comune, e così giustificata querela mossa a' filosofi del paganesimo, ed ad altri che li prendono ad imitare, cioè che « magna loquuntur, sed modica faciunt (1) ». Se non che era cosa avventurosa e degna di qualche lode anche questa, ch' essi non facessero tutto quello che dicevano ed insegnavano, poichè, come osserva uno di loro stessi, molte cose assai strane, erronee, e riprovevoli uscirono di loro bocca, delle quali, dopo rammentate alcune, quello scrittore continua: « « E moltissime altre cose simili a queste dicono i filosofi, le quali essi non oserebbero mai di farle, se non si trovassero nella repubblica dei Ciclopi e de' Lestrigoni »(2). » Non fanno dunque, ma nè pur dicono, nè possono dire il vero nella sua integrità, nella quale solamente egli costituisce quell' elemento della sapienza , e quell' oggetto della filosofica scienza , che noi dicevamo. E a' nostri lettori, che si rammentano dove noi abbiamo collocata questa integrità, non potrà mai sembrare, che noi con un favellare troppo vago ed indeterminato facciamo contumelia a molti che, a loro possa, s' applicano lodevolmente agli studŒ della filosofia. Essi sanno troppo bene quanto sia lungi da noi l' intenzione di pretendere, che il filosofo, per meritar questo nome, deva conoscere tutte le singole verità: il che se fosse, non solo alcuni cultori di questa scienza rimarrebbero esclusi dal novero de' filosofi, ma non si potrebbe trovarne un solo sopra la terra: chè ogni uomo, di qualunque ingegno, qualunque età abbia speso nel meditare, ignora di molte cose, e per fermo molte più di quelle, ch' egli ne sappia. Non è dunque l' integrità materiale della verità, quella di cui parliamo, ma un' integrità formale, di cui noi dicevamo più sopra la filosofia essere il sistema, come anche Aristotele l' avea definita « « la scienza della verità »(3). » Conviene aver presente quel modo, in cui piacque all' autore dell' umana natura, che questa fosse partecipe della luce della verità. Perocchè, l' abbiamo veduto, volendo Iddio che questa natura fosse intelligente, egli ordinò che fin dal primo suo esistere, le si rendesse visibile la verità, non una parte, ma tutta, come quella che è una e semplicissima, e per conseguente, non capace di divisione. Il perchè non può esser veduta col primo intuito una sola parte di lei recisa dall' intero suo corpo, che anzi questa parte non c' è; benchè quando la mente vede il tutto, allora essa nel tutto stesso, possa poi limitare la sua riflessione e quasi concentrarla in una parte, ch' ella stessa si circoscrive. Ma questa verità, che è l' essere per sè intelligibile , e che, senza che le manchi cos' alcuna (giacchè se mancasse qualche cosa all' essere, non sarebbe più l' essere), sta di continuo presente allo spirito, contiene sì in se stessa tutte le cose vere, ma in un modo implicito e virtuale; e però queste a principio non si vedono in lei le une dalle altre nè separate nè distinte, e nell' atto loro proprio, ma tali vi si scoprono, quando lo stesso spirito umano, aiutato da' sentimenti corporali, coll' uso di diverse attività conoscitive, attua quello che vede in potenza, e quello che già possiede implicito, se lo rende esplicito, quello che è indistinto, distinto; quello poi che sommerso e nascosto nella virtù dell' essere come in un mare senza limiti, lo fa venire a galla, e quasi, direbbe Socrate, esercitando l' arte pescatoria, lo prende e lo ripone nella dispensa della sua memoria. Che se l' uomo non avesse alcun bisogno di far tutto ciò, e le notizie particolari gli fossero date belle e formate dalla natura, non ci sarebbe più cagione della sua propria razionale attività, e rimarrebbe un essere maraviglioso per le preziose cose che conterrebbe, come gl' Iddii d' oro inseriti nel petto de' Sileni, ma privo di quell' onorevolissima azione, per la quale egli si fa quasi maestro a se medesimo. L' essere dunque oggetto dell' intuizione conceduto all' umana natura è la verità nella sua integrità formale. E questa integrità è quella che si dee trasportare dall' attività stessa dell' uomo a cui Iddio l' ha consegnata, nell' opera scientifica della Filosofia: il che si fa, come abbiamo detto, coll' uso di una riflessione elevata. Laonde il primo oggetto, e però il principio della filosofia, non può esser altro che quello che è il primo lume nella natura, e che è il primo principio di tutte le indefinite cognizioni, di cui può arricchirsi l' umanità, le quali tutte, da quello, siccome da un cotal fuoco eterno e sacro, custodito nel tempio della natura, s' accendono. Imperocchè se quello è il primo lume, conviene che in quel solo si trovino le prime ed ultime ragioni delle cose di cui va in cerca, o, trovate, professa d' insegnare la Filosofia. E però è indubitato che intorno a questa scienza, da tempi remotissimi sino a noi, si sono fatte molte, ingegnosissime, e sublimi ricerche, ma, a veramente parlare, non si può dire ch' ella sia stata trovata od abbia esistito, se non allora che si rinvenne quel principio, intorno a cui si facevano quelle investigazioni, il qual solo è la base, su cui regolarmente e a modo di vera scienza, si edifica. Che se quell' essere intelligibile , che è come il sigillo della natura umana, onde questa è intelligente, e che quando poi dalla riflessione è colto e trasportato nel campo della scienza, diviene la prima pietra dell' edificio, contiene la verità nella sua integrità formale, quantunque in modo ancora implicito; questa integrità non si perde più co' lavori che si vanno facendo dalla mente di chi filosofeggia sopra di quel fondamento, se ne innalzino poco o molto al di sopra del suolo le muraglie; e, ancorchè non si arrivi colla fabbrica fino al tetto, si può dire oggimai con verità, che la filosofia è fondata, sebbene non condotta al suo colmo. Ma in questa edificazione è in primo luogo necessario, che l' architetto ponga mente alla perfetta commettitura delle pietre, sicchè non resti fra loro vacuo o fessura, ma ciascuna, squadrata e spianata a giusta misura, si continui all' altra: con che vogliam dire, che le verità speciali che si vogliono ordinare e costruire a forma di scienza, procedano, senza alcun salto, quasi una continuazione della stessa idea che l' uomo per natura intuisce, il primo ordine di esse a questa s' appoggi, i successivi l' uno sull' altro, per modo che in su quel solo e primo fondamento si regga e solidi tutta quanta la fabbrica. Dipoi, non tutte le qualità di pietre sono acconcie a tanto edificio; ma solo quelle che, traendosi dalla prima idea, come da' visceri di ricchissima miniera, ritengono della stessa natura e condizione di pietra durissima, non fragile od arenosa. Il che ha bisogno di qualche dichiarazione, e non vedo di poterne rinvenire altra migliore di quella che ne dà Platone sulla fine del quinto dialogo della Repubblica, là dove Socrate vuole che Gluacone avverta, che non si direbbe con verità che taluno amasse una cosa, se non l' amasse tutta, ma una parte n' amasse, e un' altra parte della cosa medesima odiasse. Di che egli deduce, che quando si dice, che il filosofo è l' amatore della sapienza, allora si asserisce ch' egli è avido d' ogni sapienza, non d' una specie o d' una parte: con che il filosofo ateniese tocca incidentemente quell' integrità formale della verità di cui noi parlavamo, siccome d' una condizione necessaria dell' oggetto della filosofica scienza. Onde in appresso soggiunge, i veri filosofi, cioè gli amatori della sapienza, doversi chiamar quelli, che sono cupidi di vedere la verità; coloro all' incontro che vogliono veder altre cose, non senza il suo solito attico sale, egli dice, che non filosofi, ma si devono chiamare simili a' filosofi , perchè almeno assomigliano a questi nella voglia di vedere. Ma tosto appresso quando cerca che cosa sia quella verità in cui arde di affissare lo sguardo il vero filosofo, allora parla in modo che noi intendiamo quanto vogliano esser salde e durissime quelle pietre, di cui dicemmo, potersi con esse sole costruire l' edificio della scienza filosofica. Perocchè quella verità, di cui parla il grand' uomo, è l' essere : onde risulta che la filosofia dee riputarsi non altro che la scienza dell' essere . Ma Platone qui distingue tre cose, cioè quello che è, quello che non è, e quello che ora e in parte è, ed ora ed in parte non è. Quello che è, è l' essere; quello che non è, è il nulla; e quello che ora e in parte è, ora e in parte non è, e, qualche cosa di mezzo fra l' essere e il nulla, di maniera che non si può dire di lui, semplicemente ed assolutamente, nè che è, nè che non è; ma conviene aggiungere all' assertiva qualche distinzione, o condizione, o limitazione. Ora l' essere è l' oggetto della scienza e della cognizione: col nulla, con quello che in tutt' i sensi è nulla, non prestando alcun oggetto alla mente, rimane l' ignoranza: ma quello che in parte è, e in parte non è, si presta ad una maniera di sapere che cammina medio tra la scienza e l' ignoranza, e non può dirsi nè assolutamente scienza «(episteme)», nè assolutamente ignoranza, onde Platone lo chiama opinione ( «doxa»). la filosofia dunque contempla quello che semplicemente ed assolutamente è, l' essere senza più, e le relazioni di questo col non essere, o con tutto ciò che è solo in parte; e così ella si distingue dall' ignoranza, e dall' opinione. Ora quello che semplicemente è, non accade mai che non sia, e perciò è eterno: è sempre nello stesso modo, e perciò è immutabile: è per essenza, cioè in questo sta la sua essenza, nell' essere, e perciò è necessario: dunque è solidissimo, costantissimo, insuperabile, ugualissimo a se medesimo: tale è la saldezza e la durezza di quelle pietre, di cui, lasciate da banda tutte l' altre meno consistenti, noi dicevamo doversi murare il filosofico palagio. Platone per fare intendere la differenza fra la cognizione di queste cose eterne, e l' opinione che s' aggira intorno le cose contingenti e mutabili, fa uso di un esempio: distingue le cose belle dal bello veduto nella sua idea. Quelle sono molte e varie, e possono divenire, od essere state, brutte, ma il bello stesso, quale l' idea lo fa conoscere alla mente, è perfettamente uno, e non può mai essere stato, o in futuro divenir brutto, perchè è appunto questa la sua essenza, d' essere il bello, e nessuna essenza si può pensare diversa da quello che è, e che appare immutabilmente all' intelligenza. Le cose che possono ora esser belle, e ora esser brutte, non sono assolutamente e semplicemente il bello, ma ora e in parte sono tali, ora e in parte tali non sono: partecipano del bello; e per questa partecipazione Platone le chiama similitudini del bello. Ora, dice, colui che prende le similitudini delle cose, per le cose stesse , fa come chi sogna, che prende le cose sognate per altrettante cose reali. E la massima parte degli uomini sognano a questo modo; poichè si fermano col pensiero alle cose che sono per partecipazione, e si persuadono che al di là di esse nulla ci stia, o non ci pensano: pochissimi giungono a cogliere colla riflessione quell' immutabili essenze, in cui la cosa è veramente in un modo semplice ed assoluto, e questi soli vegliano. Questa facoltà dunque di veder le cose nella veglia della mente, come veramente sono, appartiene a' filosofi. Quello poi che Platone dice della bellezza, vuole che si dica egualmente della giustizia e dell' altre essenze (1); le quali in ultimo sono i soli materiali accomodati a costruire la fabbrica della Filosofia. E veramente noi dicevamo che la Filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Ora le ultime ragioni di tutte le cose contingenti e mutabili, le quali sono e non sono, si trovano appunto in quelle loro essenze che nelle idee appariscono, necessarie ed immutabili, che non già sono e non sono, ma semplicemente sono. Tali pietre ci abbisognano, e per trovarle conviene che l' uomo, dice Platone, si stacchi dalle cose corporee e corruttibili, e si rivolga tutto alle eterne e divine, onde chiama questa scienza, «periagogen,» cioè rivolgimento (1), e una specie di morte, solutio atque avulsio animi a corpore, cum ad intelligibilia et ad ea quae vere sunt, convertimur (2): così intimo è il nesso della virtù, che abbiam detto essere il secondo elemento della sapienza, colla scienza filosofica, che nessuno è acconcio a questa, se non è reso generoso e sublime da quella. Ma trovate le pietre, conviene unirle, non a caso, ma secondo il disegno del tempio, che si medita edificare. E come quelle pietre sono eterne e assai più dure del diamante, così eterno ed unico è pure il disegno. Ma questo è sufficientemente indicato alla mente umana dalle stesse pietre, chè ciascuna di esse, tosto che sia estratta dalla miniera, staccata e rinettata da tutto ciò che le aderisce, ma non le appartiene, chi attentamente l' osserva, trova essere numerizzata, e sopra di sè porta scritto il luogo della fabbrica, in cui vuol essere inserita, di maniera che il muratore non ha a far altro, che locarla con ogni fedeltà e con somma esattezza in quello stesso ordine e in quello stesso luogo, che dice la scritta, e con questo il disegno nell' eseguir l' opera si manifesta da sè, e risulta perfettissimo, senza averlo pur veduto su qualche carta delineato. Ora noi stimiamo, che Platone (giacchè non sappiamo facilmente staccarci da un così grand' uomo, poichè l' abbiamo nominato), il quale seppe indicarci le vere pietre colle quali costruire la Filosofia, non abbia poi nè veduto tutto l' edificio, nè conosciutone l' intero disegno; ma certo a lui torna di somma ed immortale onoranza, l' aver conosciuto quale ne dovesse essere il fastigio e, quasi dicevo, il comignolo, benchè ne tocchi con un modesto timore (che parmi il più certo argomento della grandezza di quella mente) di non parlarne in modo degno, quindi anco con una soverchia brevità. Il qual fastigio egli l' addita nell' idea del bene. La quale idea è chiamata da lui disciplina massima , e vuole, che i custodi della città ne sieno, più che di qualunque altra scienza, imbevuti. Perocchè, « come non ci gioverebbe, dice, il possedere qualunque cosa senza il bene, così, se ci è ignota quell' idea, e, senza di essa, pur conosciamo ottimamente l' altre cose, di nessuna utilità ci possono essere tutte queste cognizioni. »Soggiunge poi, che « l' anima intera desidera il bene, e per esso fa tutto quello che fa, augurandosi che il bene sia pur qualche cosa; e tuttavia ella dubita, e non può sufficientemente comprendere che cosa sia, nè sa trovarne una persuasione ferma, qual è quella che usa circa il resto: e quindi anche nell' altre cose s' inganna, quando si continua a giudicare che cosa sia utile. »Dalle quali parole, aguzzata negli uditori la voglia di conoscere una così magnifica e misteriosa verità, che cosa sia il bene, Glaucone ne pressa Socrate di caldissime istanze, che ne voglia ragionare; ma Socrate: « temo, dice, che mi manchin le forze, e che io mi paia più inetto, e muova gli uditori a riso, osando sopra il potere »; onde, scusandosi dall' entrare per allora nella questione dell' essenza del bene, promette di dire in quella vece, quale ne sia il figliuolo a lui somigliantissimo, ma prega gli uditori, anche così restringendo il discorso, di stare bene avvertiti, non forse in un argomento di sì gran rilievo egli inscientemente gli inganni, recando loro di quel figliuolo un vano concetto. E questo, che Socrate chiama il figliuolo del bene è il lume della ragione umana come prole a lui somigliante. Qual mai pensatore in tutta l' antichità gentile vide tant' alto, pronunciò una sentenza più stupenda di questa? Perocchè, egli dice, come nell' ordine delle cose corporee, oltre la forza visiva, e oltre le stesse cose visibili, per aversi la visione, è necessario che ci sia il lume , il quale informi la virtù dell' occhio traendola all' atto, e nelle cose produca i colori, senza i quali non sarebber visibili, così del pari accade nell' ordine delle cose intelligibili. E come il lume del visibile mondo emana dal sole, così quel lume che informa l' intelligenza e rende le cose intelligibili, è immediato figlio del bene essenziale , che Platone chiama spesso l' idea del bene, perchè nell' idea è l' essenza (1). Ora questo lume è la causa della scienza, dice, e della verità, che l' intelletto apprende, e dall' eccellenza di queste cose vuole che la mente ascenda ancora più su, a conoscere cioè l' eccellenza e la prestanza di lunga mano maggiore di quel Sole, da cui, aggiunge egli, non solo è figliato il lume, ma sono altresì causate tutte le cose mutabili, alle quali, causandole, dà il generarsi, l' accrescersi, il nutrirsi, quando pure quel Sole non è niuna di queste cose. Il che noi dichiariamo così, secondo la mente di quel gran filosofo: le cose reali mutabili e contingenti (che Platone chiama con parola tecnica della sua filosofia generabili , ossia soggette alla generazione) non si conoscono da noi, nè sono conoscibili, se non nelle loro essenze, le quali sono eterne e per sè intelligibili, e si chiamano idee, quando sono comunicate alla mente: ora queste essenze si riducono tutte ad un primo lume, che dicesi il lume della ragione, e non è altro che l' essere manifesto alla mente fino dalla prima costituzione di essa: ossia, che è il medesimo, l' essenza dell' essere intuìta da noi senza confine, nè determinazione alcuna, è l' idea prima che produce l' altre, come il lume corporeo, i colori; perchè l' altre idee ed essenze in esse vedute, non sono che la stessa idea dell' essere variamente determinata e limitata, siccome appunto i colori sono la luce, non tutta unita, ma rifratta, separata in fascicoli luminosi, in una parola, anch' essa limitata. Ora il vero, il permanente essere delle cose, quell' essere che è sempre e in uno stesso modo, nè tentenna fra l' essere e il non essere, ma semplicemente è, trovasi nelle loro essenze, di cui le cose contingenti e mutabili non sono propriamente che espressioni imperfette, e, come Platone le chiama, similitudini . Come dunque la similitudine ha per sua cagione l' originale di cui è un' imitazione, così le essenze sono cagioni delle realità, e il lume delle essenze, nelle quali sta il vero essere delle realità, e il Sole che è il bene per essenza, di tutte queste cose insieme. La qual dottrina è per avventura così magnifica e santa, massimamente nella bocca di un gentile, ch' io mi credo non poter dispiacere al lettore, se io qui soggiunga una porzione delle parole stesse, con cui ne parla quell' uomo straordinario: [...OMISSIS...] Nessuna mente prima di cristo fra i gentili salì mai più alto. Il fastigio dell' edificio filosofico qui è chiaramente mostrato in Dio, autore del lume dell' umana ragione, sede delle essenze, autore delle cose. E Dio è indicato, con sommo accorgimento, come l' essenza del bene ; giacchè la sola natura del bene ha in sè la ragion del diffondersi, e, per questo suo istinto diffusivo, Iddio dà sussistenza all' universo. Ma noi dicevamo, che avendo Platone così sagacemente quasi a dito mostrato il colmo della mole filosofica, non potè però disegnarne con accuratezza e distinzion sufficiente l' intera architettura. Chè certo nella sola idea del bene si rinviene il principio intenzionale ed il fine reale del mondo. Ma l' idea della causa finale non è la sola ragione ultima : conviene ad essa aggiungere la causa esemplare , che è per sè idea, o a dir meglio quello di cui l' idea è l' analogo, come pure la causa efficiente . Queste tre cause offeriscono alla meditazione filosofica le tre ragioni ultime di tutte le cose, delle quali l' una non è superiore all' altra, nè l' una si rifonde nell' altra, come sembra supporre Platone, che alla natura del bene subordina l' altre due o con essa le confonde. E anche qui impedì a quella gran mente di conservarle sufficientemente distinte, l' avere ignorata la legge, di cui noi parliamo di continuo, del sintesismo , per la quale accade, che più cose devano essere insieme, e ciascuna si possa annullare col ragionamento, fatta solo la supposizione che manchino le sue compagne, e tuttavia l' una non è l' altra, anzi dall' altra distintissima. Onde essendosi accorto Platone, che l' idea del bene non potea essere senza che si collocasse nello stesso bene l' intelligibilità e la potenza , prese queste come elementi di quella, non come idee da quella distinte. Che se egli avesse considerato altresì, che nè pure l' idea della potenza si regge, se in essa non si collochi l' intelligibilità e il bene; nè l' esemplare, che, come dicevamo, è per sè idea, o verbo di cui l' idea è l' analogo, senza l' esemplato potente e buono; si sarebbe facilmente accorto, che nessuno di questi tre si può ridurre all' altro, benchè ciascuno reciprocamente si chiami e si supponga. Sarebbe stato necessario altresì, a tracciare un disegno perspicuo della filosofica scienza, l' osservare che l' idea della causa efficiente deriva e s' inchiude in quella d' essere reale e soggetto, la causa esemplare poi è l' essere ideale (che si riduce al Verbo divino a cui è analogo), l' essere per sè manifesto , o per sè oggetto; in ultimo l' idea della causa finale scaturisce dall' idea del bene, che è l' essere morale , quasi talamo dell' essere soggetto e dell' essere oggetto. Le quali sono tre forme, ciascuna delle quali in se stessa contiene il medesimo essere e tutto intero, per guisa che quella trinità si consuma nell' unità semplicissima dell' essere stesso. Nè con questo vogliam dire che a torto Platone derivi dal bene essenziale come da causa immediata il lume dell' umana ragione, e l' essenza delle cose mutabili, e queste stesse cose, perocchè veramente quello che è ultimo in Dio, secondo l' ordine logico della mente nostra, è primo rispetto al mondo, è la ragion prima del movimento creativo; ma il grand' uomo, non avendo altro lume che il naturale, corse troppo frettoloso al mondo considerando le cose divine nell' ordine che hanno con questo, senza prima meditare, com' era mestieri, quell' altr' ordine precedente ed assoluto, che quelle hanno tra sè. Onde sebbene ne faccia giustamente stupire l' altezza di quella mente, che chiamò il lume della ragione figliuolo del bene essenziale, similissimo al padre ; tuttavia in un tanto e sì nobilissimo sforzo di sollevarsi alla somma altezza, ci rimane una prova manifesta della limitazione dell' ingegno dell' uomo, il quale per quantunque levasse verso al cielo una mano di gigante, per verità non si potea credere che lo toccasse, ma pure per l' analogia del natural lume, seppe additare dalla lunga un Verbo, ossia un lume eterno, figliuolo del bene essenziale, e anche questo non senza essersi probabilmente aiutato d' antiche tradizioni. La sola parola di Dio stesso vale a guidare per le celesti ragioni l' umana intelligenza, senza smarrirsi, e renderla idonea alla più sublime filosofia. Il punto dunque ove termina la filosofia e onde pure incomincia è l' essere , e il suo ordine intrinseco , cioè le sue tre forme, che si riflettono nel mondo, e costituiscono la base delle categorie a cui tutte le cose si riducono, e diventano le ragioni ultime, intorno alle quali la meditazione filosofica si rivolge. Perocchè nell' essere sotto una prima forma reale è necessario investigare la prima ragione di tutte le realità che costituiscono il mondo reale, nell' essere sotto una prima forma oggettiva è neccessario investigare la prima ragione di tutte le idee e cognizioni che costituiscono il mondo ideale ed intelligibile; nell' essere sotto una prima forma del bene, è necessario investigare la prima ragione di tutte le esigenze e le leggi, di tutte le morali attività co' loro effetti, che costituiscono il mondo morale. Chè l' intrecciamento di questi tre mondi è il creato, e pende dal suo Creatore, a cui somiglia, quasi siccome un frutto dall' albero. E che nella natura delle cose e nella composizione di questo universo si possano facilmente ravvisare calcate queste tre impronte, e quasi solchi di altrettante vie, per le quali il pensatore si conduce a trovare le ultime ragioni delle cose, nel che sta il filosofico esercizio, lo dimostra anche la partizione dell' antica filosofia, da' migliori filosofi distribuita in tre parti, che nominarono « naturale, razionale, e morale (1). » E quantunque lo sviluppo immenso di queste tre membra primitive abbia introdotto in appresso tali e tante suddivisioni, che fecero dimenticare que' tre principali tronchi, aventi la comune radice dell' essere, onde uscirono gli altri rami; tuttavia chi si fa a riandare il cammino percorso, e torna a sintesizzare quello che l' analisi ha moltiplicato e, quasi dicea, sparpagliato, si trova restituito di nuovo a quelle tre parti primitive, a cui noi pure riconducemmo i nostri lavori (1). S. Agostino ci fa riflettere, che quella divisione non fu instituita da' filosofi, ma da essi trovata esistente nella natura delle cose (2), e vi riconosce un cotale vestigio della divina trinità, vi scorge i tre problemi dall' umana scienza non mai sciolti, a dir vero, da' gentili filosofi, ma tuttavia proposti, la cui ultima soluzione s' annoda alla cristiana dottrina delle tre divine persone. Perocchè dice « « avendovi in ciascuna di quelle (tre grandi e generali questioni) una discrepanza moltiplice d' opinioni, tuttavia niuno esita in affermare, che v' ha qualche causa della natura, qualche forma della scienza, qualche somma della vita »(3). » Ecco come la cima più alta della filosofia, quasi vetta d' altissimo monte che si perde nella maestà delle nubi, si continua col lume superno custodito nella cristiana credenza, e questa mette in sul capo a quella un' augusta e celeste corona. Egli è dunque manifesto, che quello che abbiamo detto il secondo elemento della sapienza, LA VIRTU`, e la religione che n' è la perfezione, fa la strada al primo che è LA VERITA`, di cui la Filosofia, come esercizio, è l' investigazione, e la Filosofia, come scienza, è il sistema. Ma la scienza poi dà una nuova forma e più sublime alla stessa sapienza . Perocchè se la sapienza ha per sua base la cognizione della verità, e se questa si può conoscere nella sua integrità formale in due maniere, l' una delle quali è comune a tutti gli uomini, l' altra, riflessa e consapevole, propria sol de' filosofi; convien dire che v' abbiano del pari due maniere di sapienza: una sapienza comune a tutti, che s' edifica sulla cognizione comune, diretta e popolare, quando l' attività libera dell' uomo, senza lasciarsi anneghittire da alcuna tenebra d' affetto, nè sommovere da alcun impulso di cieca passione, cammina nella luce di quella verità che conosce ed ama su tutte le cose, onde il soggetto uomo, che nella volontà dimora, è conformato ed accordato all' oggetto, come due corde d' una stessa cetera; e una sapienza propria del filosofo, che s' edifica, non sulla sola scienza, a dir vero, che rade volte è perfetta ed intera, ma sulla scienza e ad un tempo su quel fondo di cognizioni che in lui rimane, di cui la scienza è come un ricamo a rilievo; quando amando tutto quello che sa di vero, lo sappia in una forma o nell' altra, cerca di realizzarlo tutto, e di rendere quasi sussistente e vivente in se medesimo quella verità che conosce. E quantunque nel viaggio all' alta regione della scienza l' ingegno incontri nuovi pericoli e strane lotte da sostenere con nuove forme d' errori (chè trasportato l' umano ragionamento, spesso ambiguo, ad una riflessione superiore in un campo senza pari più ampio, gode provar le sue forze a scoprire egualmente ed a coprire il vero, e seco stesso combattere, come in vasto mare i venti si sbrigliano con più di libertà e di furore che in un lago angusto); tuttavia e può l' uomo trionfare di tali procelle, se il guida un illimitato amore della verità, e giunto in fine alla scienza, può rendere a quella verità che come scienza possiede e vede perspicua e da molti lati, un più profondo ossequio, e una testimonianza più illustre; e ad essa dare quasi in dono, una porzione più eccellente di se medesimo, qual è la volontà riflessa e consapevole che sorge come nuova potenza in seno alla scienza, e che nel vero, di cui fruisce, rinviene una gioia sua propria, che anch' essa è cognizione, e amore, e nuovo ossequio del vero. E` dunque somministrata dalla Filosofia nuova materia alla Sapienza, che per essa aggrandisce, e nuovo stimolo all' amore della Sapienza. Laonde se la Sapienza che precede, guida l' uomo alla Filosofia, e con questa dimora; la Filosofia da sua parte restituisce l' uomo alla Sapienza che sussegue, e che è maggior della prima. Tali sono le intime e preziose relazioni fra la scienza filosofica e la Sapienza. Invano s' è tentato di sciogliere vincoli così naturali e sì sacri. Ogni qual volta si è voluto separare la scienza dalla virtù morale , e si è preteso che quella dovesse andarsene sola e bastare a se stessa; ella s' è trovata languire e morire nelle mani temerarie che le hanno fatto subire quest' esperimento, come il corpo d' un uomo, a cui si estragga il proprio sangue, per rifondervi forse quello d' un caprone. Chè per verità egli è più facile comporre un essere vivente ed intelligente accozzando insieme elementi materiali per via di chimiche operazioni, che, senza l' amore della verità e della virtù, comporre la Filosofia. Quella è l' illusione del materialista, questo il perpetuo sogno del razionalista. Tanto più che non essendo la Filosofia che una rappresentatrice fedele e quasi una disegnatrice dell' essere (giacchè tutto il resto non è Filosofia, ma sofistica), e l' essere, ordinato nella sua essenza, avendo principio, mezzo e fine, cioè sussistenza, intelligibilità, e amabilità, onde risulta la virtù, e, come sua appendice, la felicità; così essa, la Filosofia, dopo aver ritratto l' ente come principio, e l' ente come mezzo, dee terminare e riposarsi nella scienza della virtù e della felicità, dove pur l' ente, come in termine di sua perfezione, si riposa e si compie; nè la scienza della virtù si rivela a chi le è nemico. Chè, come accade delle sensazioni, le quali niuno potrebbe inventare o immaginare, qualora non ne avesse avuto esperienza, così del pari la sola osservazione ed esperienza è finalmente quella che in un modo positivo ed intimo fa conoscere i fenomeni morali che la natura e l' eccellenza della virtù spiegano e manifestano: il che non può dirsi, almeno in grado eguale, del vizio, il quale ha natura di negativo e di privativo, e però colla notizia del positivo, che è il suo contrario, sufficientemente s' intende. Di che di nuovo si raccoglie, che la disposizione più necessaria allo studio della filosofia consiste in questo, che l' uomo pratichi la virtù, come, nell' ordine d' una scienza e d' una sapienza più elevata, sta scritto: « « Figliuolo che desideri la sapienza, conserva la giustizia, e Iddio te la darà »(1). » E` dunque un distruggere l' uomo il separarne, come vuol fare la scuola tedesca, la parte intellettiva dalla parte attiva e morale, e in quella, cioè nella scienza pura, assorbire anche questa. I primi che fondarono questa scuola, il Kant ed il Fichte, non sapendo spiegare, a cagione del soggettivismo ingozzato a modo di pregiudizio dal loro secolo e non mai digerito, come l' intelligenza potesse conoscere cose diverse dall' uomo; su questa loro ignoranza fondarono il nuovo sistema, e sentenziarono, la ragione esser del tutto incapace di percepire il mondo esterno, e così la dichiararono incapace di fare quello che ella continuamente fa. Ma temendo che gli uomini si spaventassero di soverchio agli assurdi d' una dottrina che, come una Dea irata colla ragione , criticandola, la castigava e riduceva all' impotenza; ricorsero per temperamento all' azione , e in questa riconobbero una cotale comunicazione reale dell' uomo col mondo esterno: di che sotto il nome di ragione pratica restituirono allo spirito umano (però entro una sfera soggettiva) quello che avevano tolto al medesimo sotto il nome di ragione teoretica . Il ripiego non potea durare, chè le incoerenze non durano. Laonde il Schelling, l' Hegel e i loro discepoli abolirono quel dualismo che restava nell' uomo, e più fedeli al principio, che l' uomo non può uscire di sè (del che era prova concludentissima questa che la loro mente ne ignorava il modo, e il decoro d' un professore d' Università voleva ch' egli non ignorasse cosa alcuna, e che piuttosto di confessare la propria ignoranza, negasse imperterrito i fatti più comuni e più evidenti della natura), dissero, che l' azione durava fenomenalmente nell' uomo fino che questi non fosse giunto alla scienza , e propriamente all' idea che sola esiste e diventa uomo, azione, oggetto, soggetto, concetto, natura, Dio, ogni cosa. L' uomo non arriva a conoscere questa gran verità, che l' idea è tutto, fino che la coscienza di lui è ancora immersa e approfondita nel travaglio di pervenirvi, che è successivamente creazione ed annullazione (perocchè non vi ha requie, ma soltanto, come diceva Eraclito, continuo moto); pel qual travaglio l' uomo mai non è, ma sempre diventa , e diventa or pura idea, or nulla, ora dal nulla sorte novellamente uomo, [...OMISSIS...] per rientrare poi tosto nella natura materiale, o indiarsi, o idealizzarsi, o ripiombare di bel nuovo nel gran nulla. Così in questa scienza ogni azione, e con essa ogni moralità, non è più che una passaggera metamorfosi dell' idea, e l' Uomo7idea è a tutte cose superiore, anzi è tutte le cose, nè egli, il tutto, può più ricevere altronde alcuna legge. Sebbene poi disparisca nel nulla anche la coscienza di sè , tuttavia questa sola, appunto perchè non esce di sè, è verace, e la cognizione dell' altre cose, che in Germania si chiama coscienza senza più, deve esser vinta da quella. Perocchè la coscienza di sè , e la coscienza (cognizione dell' altre cose) lottano insieme, secondo la filosofia germanica, al modo degli antropofagi, e colla vittoria che spetta alla prima, questa si mangia saporitamente la seconda. Laonde la coscienza , ossia la cognizione di Dio e de' proprŒ simili, essendo divorata dalla rabbiosa fame della coscienza di sè stesso , che sola rimane soprastante, i doveri morali verso Dio e verso gli uomini sono divorati con essa, e di queste vecchie cose è sparita pur la notizia. Allora l' uomo, coscienza pura di sè stesso, nel che sta l' apice di sua grandezza, è liberato d' ogni obbligazione, salvo che gli resta, non il dovere certamente, ma il piacere di adorare se medesimo; come anche quel nulla , in cui poco stante farà un capitombolo, per riuscirne di nuovo, come dall' ovo primordiale. Le quali non sono conseguenze che noi caviamo: anzi il merito d' averle dedotte appartiene parte allo stesso Hegel, parte poi a' suoi discepoli, che non hanno ancora acquistato alcun merito di essere nominati. E così sotto il nome di scienza e di filosofia, la sofistica in Germania tolse a schernir l' uomo, palleggiandolo fra il nulla e il tutto , senza riposo: coll' uomo poi rimase uno scherno la scienza, la filosofia, la sapienza: tutte cose che di continuo escono dal gran mare del nulla, in cui rifluiscono. Niuna maraviglia, che la voce della filosofia ora in quel paese sembri ammutolita e confusa. Pure la dualità della cognizione e dell' azione che quei sofisti cotanto abborrono, non toglie l' unità dell' essere identico nell' idea e nell' atto, nè impedisce l' unità della sapienza, che dall' intima congiunzione, organata ed armonica, di que' due elementi risulta, vivente non morta, come è inevitabile che si rimanga l' uno, se si spoglia di qualunque pluralità. Nè fra la contemplazione e l' azione v' ha contrarietà di sorte, quasichè questa impedisca la pienezza di quella, come si suppone, chè la mente contempla ugualmente sì nell' uomo che opera, come nell' uomo che non fa nulla: nel primo contempla anche quello che egli stesso fa: niuna cosa rimane esclusa dalla contemplazione, benchè le cose contemplate abbiano poi un' altra forma d' essere che le pone fuori di essa; e questo stesso è la contemplazione che ce lo dice e ce l' accerta. Riassumendo dunque, noi dicevamo, che nella cogniziione della Verità, di cui la scienza è soltanto una forma riflessa, giace il primo elemento della Sapienza; ma questa stessa cognizione non principia ad essere elemento di Sapienza fino che è puramente speculativa, e non ancora assentita ed amata fino che l' uomo, non v' ha aggiunto del suo, fino che la cognizione non è divenuta azione libera; chè la stessa visione del vero è doppia, l' una necessaria, l' altra volontaria e amorosa, alla qual ultima spetta più propriamente il nome ora di contemplazione , ora di cognizione pratica . Laonde c' è una cognizione ed una scienza psicologicamente anteriore a quel punto in cui la Sapienza incomincia. Ora per non lasciare questo discorso imperfetto e l' immagine della sapienza senza capo, conviene che noi facciam passaggio dall' ordine naturale a quell' altro senza pari più sublime, cioè al soprannaturale. Prendiamo il ragionamento del suo principio. L' uomo arriva in due modi all' acquisto delle cognizioni: l' uno, difficile e lento, quand' egli abbandonato a se stesso, senza alcuna educazione ed istruzione, senza poter far uso d' alcun maestro, col proprio ingegno s' avanza, fin dove può, alla scoperta del vero: l' altro facile e spedito, quando sotto la disciplina di maestri apprende dalla loro parola non solo quelle poche verità ch' egli avrebbe potuto scoprire da se medesimo, ma per ordine una copia smisurata di notizie raccolte colle fatiche d' innumerevoli studiosi, e quasi ammassate e trasmesse di secolo in secolo alle successive generazioni, siccome eredità o patrimonio comune dell' umana famiglia. Tutti unanimamente convengono, che l' efficacia di questo secondo modo d' erudirsi sia infinitamente maggiore del primo: e però in tutti i tempi dopo i primissimi v' ebbero maestri e scuole, ne' tempi poi più civili, dove, essendo già maggiore lo sviluppo degl' ingegni individuali, sarebbero parute men necessarie, si riconobbero in quella vece più importanti; e crebbe fuor di misura la sollecitudine d' istituire Università e Licei ed ogni altra maniera di scuole, nelle quali dalla voce di sceltissimi precettori venissero a moltissimi quelle notizie comunicate e propagate. Chè la comunicazione della verità da una mente ad un' altra per mezzo della parola è la via di tutte e più fruttuosa e più spedita, per la quale, con leggera fatica, gli uomini trapassano dall' ignoranza al possesso del sapere. L' autorità dunque è il natural pedagogo, che incammina più direttamente e più pienamente alla scienza: ella inizia, eccita, dirige, arricchisce, rinforza, e quasi moltiplica l' umana intelligenza. Ma egli è evidente, che il maestro non può insegnare quello che non sa: quindi l' importanza che sia dotto. Nè ella è legger cosa al profitto la stima e la fiducia de' discepoli nel proprio istitutore. Che anzi in molti problemi difficili e di sommo momento, gli uomini il vorrebbero avere del tutto infallibile, e lo si augurano onnisciente. Il quale natural desiderio di sapere il vero e saperlo con certezza, che conduce le menti a comporsi l' ideale del maestro a cui appartengano le due doti, dell' infallibilità e dell' onniscienza, suol muovere l' affetto de' discepoli a celebrare con ogni esagerazione la dottrina e l' autorità de' loro precettori; e vediamo non pochi di questi avere in vari tempi conseguita l' appellazione di divini, od altra di pari eccesso: i discepoli poi aver sovente giurato nelle parole de' maestri ed essersi compiaciuti di risolvere le questioni tutte colla solennissima formola dell' ipse dixit . Ma Platone, a cui pure fu dato l' epiteto di divino, ogni qual volta ne' suoi ragionamenti s' abbatte in alcuno di que' rilevantissimi e misteriosi problemi, di cui tutti desiderano sapere la soluzione, perchè da essi dipende l' umana destinazione di que' problemi, pe' quali si coltiva la filosofia non altrimenti che si coltivi l' albero pel suo frutto non s' arrogò mai alcun divino sapere, ed anzi confessò la propria ignoranza, facendo voti che lo stesso Dio s' avvicinasse e rivelasse agli uomini, come quelle cose si stessero, e colla sua autorità infallibile ne desse loro una piena sicurezza (1); chè di queste due cose ad un tempo hanno gli uomini sommo bisogno, e di conoscere la verità di tali questioni, e di conoscerla senza titubanza bastando la sola titubanza a rendergli infelici. Che se Alessandro Magno ringraziava gli Dei dell' averlo fatto nascere in un tempo, in cui viveva Aristotile, quanto non si sarebb' egli tenuto più fortunato, se gli fosse toccato un Dio per maestro? E tutti quelli che conobbero tra i gentili a che caro prezzo di fatiche e di studŒ si prevenga alla verità, tutti quelli che per arrivarvi logorarono la propria vita in lunghi viaggi, in veglie, in privazioni d' ogni maniera, e dopo di tutto non riuscirono che ad opinioni contrastate, a congetture più o meno probabili, e mai alla sicurezza di possederla, tutti questi dico, qual contento, qual giubilo non avrebber provato, se avessero potuto anche un solo istante abboccarsi con Dio medesimo, e dalla sua propria bocca intendere quelle risposte infallibili, e quegli indubitabili ammaestramenti che desideravano! Ed anzi ell' è comune, naturale all' umanità, non declinabile a nessun uomo, ardentissima, inquietissima la brama di pur sapere quali sieno gli esiti finali della virtù e del vizio, e che cosa sarà dell' uomo dopo questa breve vita se sopravviverà l' anima alla dissoluzione del corpo, se sopravvivendo si rimarrà sempre dal corpo divisa; e che farà, che patirà in una eterna esistenza, se sarà felice, o infelice: questioni tutte sulle quali gli uomini nè possono vivere incerti, nè da se stessi con positiva sentenza, e d' alcuna titubanza non indebolita, pronunciare, onde quelle qualunque opinioni, che i filosofi intorno ad esse immaginarono, si rimasero vaghe nella forma, congetturali nella sostanza, molteplici, contraddittorie, prive poi d' autorità, e di stabilità di consenso: e sopra tutto ciò in dominio de' poeti, che favoleggiandole, vie più incredibili le resero, onde i più potenti ingegni per aver pure qualche cosa di positivo e di meno indeterminato s' appigliavano, siccome il naufrago che s' apprende ad ogni fuscello ad ogni foglia che nuota nell' onde, a certe voci antiche, di cui per una popolare tradizione giungea fino ad essi il lontano rumore (1). Qual cosa dunque più conforme al bisogno instante e al voto di tutti gli uomini, che il rinvenire un maestro così eccellente che tutte queste cose sappia egli stesso per iscienza indubitabile, e possa narrare altrui con piena autorità d' esser creduto e facoltà di persuadere? E quale può essere un maestro così fatto, se non Dio stesso? O chi potrebbe avere a dispetto un maestro di tal condizione, o provare rincrescimento, ch' egli discendesse in sulla terra per ammaestrare gli uomini? Chi arrossirebbe di farsene discepolo, chi si chiuderebbe gli orecchi per non udirlo? Certo nessuno, se non fosse venuto a tanta dissennatezza da odiare la luce, e a tanto pervertimento da soffocare in se medesimo il più vivo, l' immortale istinto della natura umana. E` dunque desiderabile a tutti quelli che amano la verità, e cercano la sapienza, che Iddio stesso si renda maestro degli uomini; ed è anco probabile, che, essendo Iddio ottimo e conoscitore de' bisogni e di tutte le tendenze di questa natura umana che è opera sua, l' abbia voluto; nè solo è probabile che l' abbia voluto, ma questo è oggimai il fatto più di tutti i fatti luminosissimo, il quale è risonato in tutti i secoli, ed ha empito della sua virtù tutta la terra. V' ha dunque una scienza soprannaturale e divina, conforme al desiderio dell' umana creatura, e all' esigenza della ragion vacillante, che, dopo aver tentato di scoprire e d' indicare all' uomo la via della felicità, confessava di non rinvenirne alcuna che fosse sicura tra i non prevedibili e fatali avvenimenti della presente vita, d' una vita di cui ella non potea penetrare il mistero, simile ad una catena di sogni, che certamente si dovea rompere, e in breve e in un istante sconosciuto: al quale istante condotta la ragione si vedeva fermata davanti alla ferrea porta della morte senza poterla aprire, e dentro traguardare che v' avesse al di là, quali sedi, quali dimore aspettassero l' anime intellettive, che si sentivano pure immortali. Che se la sapienza fu definita, non a torto, « « la scienza della felicità »(1) » conviene per fermo conchiudere, che quella cognizione soprannaturale, che fu insegnata agli uomini dallo stesso Iddio, fattosi loro maestro, questa cognizione, dico, che sola aperse ai mortali il segreto della morte, e della nuova ed eterna vita, a cui la stessa morte è varco, si meriti ella sola il titolo di sapienza. E via più, che da un tanto maestro l' uomo non impara solamente a conoscere quali beni gli stieno preparati oltre al confine del tempo, ma a quali condizioni egli possa venirne in possessione, e ne apprende l' arte, e ne acquista gli stromenti. E così in questa scuola soprannaturale fu sciolto col fatto un altro altissimo problema, che, nell' ordine naturale, venia proposto e discusso dai più sagaci intelletti, cioè « se la virtù si potesse insegnare. » Del qual problema Platone in più luoghi diede una risoluzione negativa, affermando che la virtù non è cosa che insegnar si possa, come s' insegna la scienza , nè si possano trovare fra gli uomini i maestri di essa, e di conseguente neppure i discepoli, e finalmente che il solo Iddio ne poteva essere e il maestro ad un tempo, e il donatore (1). Nuova potentissima ragione riconosciuta dalla naturale filosofia, per la quale era non pur desiderabile, ma necessario un maestro divino. E a Dio veramente è dato di comunicare ad un tempo e la verità alla mente, e la virtù all' umana volontà. Sapendo ora dunque l' umanità di possedere questo maestro, la scuola del quale non si racchiude in alcun' aula magnifica, o in uno spazioso portico, o in qualche ameno bosco o villa, nè in alcuna città, ma risuona per tutti i luoghi dove risplende il sole, e dove l' aria fa anelare il petto dell' uomo, noi dobbiamo, volendo in qualche modo abbozzare l' immagine della sapienza, accennare più distintamente, che cosa s' insegni, che cosa s' impari in questa scuola, dove entrambi que' due elementi di cui dicevamo risultar la sapienza, si danno gratis a tutti quelli che li desiderano, e così compiuti, come a un Dio che insegna è possibile e condecente. Consideriamo la nuova scienza , a cui in appresso si continuerà spontaneo il discorso della nuova virtù . Noi abbiamo distinto la verità dalle diverse forme , nelle quali ella si presenta alla vista degli uomini. Queste cangiano nelle varie età, e nel vario svolgimento delle facoltà intellettive, di modo che la verità prende delle forme infantili, dell' altre proprie della puerizia, e così dell' adolescenza, della virilità, della vecchiaia, altre nel comune degli uomini, altre ne' soli scienziati. Ma prima di tutte queste forme v' ha la stessa verità, ed ella è quell' essere ideale nel quale tutte le entità sono conoscibili. La verità anteriore alle forme comunica immediatamente coll' uomo, e lo costituisce intelligente. Ora anche qui domanderemo qual è il maestro che insegna all' uomo la verità pura, anteriore alle forme e di tutte poi suscettiva? Qual è il maestro che gli dice questa prima parola, colla quale l' uomo interpreta, ed intende tutte le altre? Nessuno de' mortali insegna a questo modo la verità e se un tale ci fosse, da chi l' avrebbe egli apparata? E come potrebbe comunicarla? colle parole? Ma queste non sono che suoni, che diventano poi segni, non tanto per la virtù e per l' opera di chi le pronuncia, ma assai più per l' opera di chi le ascolta, e le interpreta a se medesimo, e che non potrebbe interpretare ed intendere, se non potesse trasportare la sua mente da' suoni esteriori alla verità significata, che non è ne' suoni, ma che egli si trova dentro nell' anima. Ogni magistero umano dunque suppone prima di sè un magistero divino, il magistero di colui che fu chiamato « « luce vera, che illumina ogni uomo veniente in questo mondo »(1). » Al qual magistero l' uomo crede per natura e non per raziocinio, di manierachè anche nell' ordine naturale, non solo nel soprannaturale, la fede precede la ragione , e s' avvera la sentenza « « se non avrete creduto, non intenderete » ». Ecco il maestro primo, ecco il solo, a cui veramente s' appartenga un tal nome, perchè il solo che comunica la verità, quando gli altri non fanno che ammonire ed eccitare coloro, a cui la verità è già comunicata, a pensarvi, a riflettervi, a considerarla sotto forme speciali. E però a tutta ragione questo maestro represse la boria de' sapienti della terra, dicendo a' suoi discepoli: « « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro Maestro, e voi tutti siete fratelli »(2). » Il qual precetto fu dato quando Iddio, mostrandosi in forma di maestro visibile, alla prima parola colla quale illuminava l' umana specie nel giorno che la creò col darle ad intuire la verità, aggiunse una seconda parola più sublime assai della prima, ma interna come la prima, verità come la prima, anteriore anch' essa alle forme, come la prima efficace, come la prima ed insieme colla prima luce non bisognevole d' altra luce per vedersi, visibile per se stessa. E a quel modo che la prima parola fu porta che intromise l' uomo nel mondo dell' intelligenza naturale , la seconda è porta che lo introduce in un altro mondo più ampio dell' intelligenza soprannaturale . E quanto si rispondano questi due lumi, e come il metodo col quale viene illuminato l' uomo nell' ordine delle cose soprannaturali proceda identico a quello col quale egli viene illuminato nell' ordine delle cose naturali, ond' apparisce la scuola esser la stessa, lo stesso il maestro, fu da noi prima accennato e sarebbe lungo a pienamente descrivere. Ma osserveremo solamente, che quando Iddio, creando l' uomo, lo ammaestra col lume della ragione, allora in pari tempo egli lo rende atto e ad apprendere da sè più cose che sotto molte forme gli danno a vedere la stessa verità, che senza forme già vede, e a ricevere altresì ammaestramento dalla voce degli altri uomini, e ad ammaestrare altri egli stesso, loro comunicando le cose e le forme da lui conosciute; di che seguita, che la scuola del maestro divino che il primo e il solo comunica la luce del vero, è quella che rende possibili tutte l' altre scuole, o che l' uomo coll' aiuto di quella luce investighi da sè la verità ed ammaestri se stesso, o che sia ammaestrato da altri. Il primo maestro dunque forma tutti gli altri maestri, come pure forma gli stessi discepoli; chè e quelli e questi esistono soltanto in virtù di quel primo tacito, ma potentissimo magistero. Ora il somigliante accade nell' ordine soprannaturale, dove il magistero divino che dà il lume all' anima rende questa idonea ad investigare, apprendere ed insegnare le cose che a quell' ordine appartengono, e così rende possibile anche in quest' ordine un magistero esterno ed umano. E a quegli uomini appunto che furono incaricati d' esercitare quest' umano magistero nell' ordine superiore a quello della natura, a quegli uomini che furono istituiti da Dio stesso maestri delle cose più eccellenti, a tutte le nazioni, e a tutti i secoli, fu detto: « Voi non vogliate chiamarvi maestri, perchè uno solo è il vostro maestro, e voi tutti siete fratelli. »Quest' ammonizione non poteva uscire dalla bocca d' alcuno, che non fosse Dio, e a quelli a cui era data, essa rammentava di continuo, onde derivasse la chiarezza e la potenza della loro parola, che sarebbe pur sempre echeggiata, e sempre intesa di generazione in generazione sino alla dissoluzione del globo: il tuono della quale al di sopra d' ogni vociolina, o ronzio terreno, già per lo spazio di diciannove secoli senz' alcuna interruzione, si propaga. Chè la rivelazione esterna e la predicazione nè sarebbe a sufficienza intesa, nè assentita dagli uomini, nè resa operativa dalla cooperazione della volontà umana, se non fosse a ciascuno di essi interpretata, illustrata ed avvalorata dalla luce interiore del carattere e della grazia . Laonde un dottore che colla mente penetrò più addentro di moltissimi in questo vero, venutegli a mano quelle parole in cui Cristo si chiama « principio che anche parla a voi », così ne scrisse: [...OMISSIS...] Laonde questo stesso uomo sapientissimo dalla cattedra dove sedeva maestro di altissimi veri co' suoi uditori usava un linguaggio nuovo e per umiltà inaudito nelle scuole dei filosofi, dicendo a tutto il suo popolo, ai dotti, e agl' indotti ugualmente: « « Egli è più sicuro, che e noi che parliamo, e voi che ascoltate riconosciamo di essere condiscepoli sotto un solo maestro. Al tutto ella è questa cosa più sicura e giovevole, che voi ascoltiate noi non come maestri, ma come condiscepoli »(2). » Di due parti dunque si compone l' insegnamento soprannaturale del lume interiore e della rivelazione esteriore che la predicazione e il magistero ecclesiastico perpetua nel mondo. E il divino Maestro entrambi le accennò quelle parti, quando interrogato chi fosse, rispose: «PRINCIPIUM, QUI » (ovvero propterea ) «ET LOQUOR VOBIS (1). » Dicendo principium egli espresse il lume interno, che è appunto il principio di ogni verità e cognizione, non potendo la voce corporea esser principio, o comunicare altrui il principio dell' intelligenza, come quella che ha bisogno per essere intesa di trovar già nell' uomo quel primo lume che è chiave ad aprire ed interpretare il significato d' ogni segno sensibile: dicendo poi, qui et loquor vobis , espresse quell' esteriore e sonoro ammaestramento, che all' interno risponde lo svolge, e che egli medesimo, Iddio fatto uomo, volle pure esercitare infra gli uomini, e commettere poi a' suoi Apostoli di tramandare le cose udite da lui, ed intese per lui, agli altri, a cui egli avrebbe continuato il lume, col quale avessero potuto intenderle. Laonde nella parola « principio »è indicata chiaramente la natura divina e il divino magistero: in quel che segue « e perciò parlo a voi », è indicata la natura umana e il magistero umano che dal primo dipende: l' una e l' altra natura nella identica divina persona, l' uno e l' altro magistero dalla stessa persona esercitato, e il secondo veniente come conseguenza dal primo: « « e perciò anche vi parlo; «oti kai lalo umin» (2) »: quasi dicesse: « Io ho la facoltà e il diritto di parlarvi, perchè sono il principio, che v' illumina: non vi potrei parlare esternamente queste cose, se io non fossi quello che ve le fa intendere internamente. » La Filosofia che è l' opera della riflessione , corre il pericolo d' impiccolirsi, come abbiam già osservato, restringendosi dentro la sfera del pensiero riflesso, e negando tutto ciò che è, e vive fuori di esso. Quindi a molti di quelli che la professano, chiusi nell' angustia di quel pensiero speciale col quale filosofeggiano, che essi scambiano col pensiero generale , riesce difficilissimo a riconoscere, che avanti alla stessa riflessione esiste un lume che tocca immediatamente l' anima, un lume comune a tutti gli uomini, non bisognevole di filosofia per risplendere, quando la filosofia ha pur bisogno di lui, siccome la lampada del fuoco, al quale s' accende. Una filosofia, così rannicchiata in se medesima, non può intendere quel magistero soprannaturale di cui parliamo, chè non intende nè manco qual sia la natura del magistero naturale della verità. Ma la scuola germanica impossessatasi, come abbiam detto, di questa cotale ignoranza filosofica, vi fabbricò sopra con tutta la forza e la profondità possibile all' ingegno che lavora sul falso, un compiuto sistema. I discepoli di Hegel intimarono esplicitamente la guerra più accanita a tutto ciò che essi denominarono l' immediato , intendendo sotto questo vocabolo qualche cosa di divino che elevi la mente dell' uomo più su della coscienza scientifica e determinata. Negarono Dio stesso per questa curiosa ragione che « l' idea di Dio non si riflette su di se stessa »; quasichè l' idea di Dio porgesse alla mente un Dio inconsapevole: tanto era loro divenuto invisibile tutto quello che rimanea fuori della riflessione, o che esiste senza di essa! Dicevamo dunque, che l' ordine in cui procede la cognizione delle cose soprannaturali è analogo, e, per così dire, dello stesso stile, all' ordine in cui procede la cognizione delle cose naturali. Nella notizia delle cose naturali c' è un primo lume interiore, e un primo lume interiore c' è pure nella notizia delle cose soprannaturali; quel primo lume è la verità che veste poi varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni che non eccedono la natura, scientifiche o no, comprese le ultime speculazioni della Filosofia; quest' altro primo lume è ancora la verità che veste varie forme, le quali costituiscono tutte le cognizioni soprannaturali, comprese le più alte contemplazioni della Teologia: quel primo lume è il criterio della naturale certezza, lui si consulta dall' uomo in ogni dubitazione (1); quest' altro primo lume è il criterio prossimo della certezza soprannaturale, lui pure s' interroga da chi vuol conoscere d' una dottrina annunziata in nome di Dio, il vero ed il falso (1); quel primo lume si svolge e per le proprie meditazioni e per la parola altrui; quell' altro primo lume del pari si svolge e si moltiplica o col meditare che l' uomo faccia da sè, o ascoltando l' altrui parola: onde lo spirito di Dio come ancora la sua legge è detta molteplice (2). Nell' uno e nell' altro ordine dunque si riconosce lo stesso disegno, la stessa mano, lo stesso autore, lo stesso maestro, e questo divino. Ma ora in che sta poi la differenza fra le due verità primitive, fra i due ordini di cognizioni? Il primo lume che rende l' anima intelligente è l' essere ideale e indeterminato: l' altro primo lume è ancora l' essere , ma non puramente ideale, ma ben anco sussistente e vivente. L' essere sussistente è Iddio: egli stesso disse « « Io sono l' ESSERE »(3) » Avendo usato il pronome personale IO, egli si manifestò come persona , l' essere come oggetto è il Verbo, e quest' essere oggetto è persona, di cui pure è scritto: « « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo »(4). » E` quello stesso che altrove chiamò se stesso principio (5): principio d' ogni intelligenza, e d' ogni cognizione: perchè il principio della cognizione è l' oggetto primo, e il primo ed essenziale oggetto che contiene tutti gli oggetti è l' essere: gli altri oggetti del pensiero sono oggetti per l' essere, l' essere è oggetto per se stesso. L' idea dunque è l' essere intuito dall' uomo; ma non è il VERBO; chè non quella, ma questo è sussistenza; quella è l' essere che occulta la sua personalità , e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente, che intuisce l' idea non cade la personalità dell' essere, nè la sussistenza, e perciò ella non vede Iddio: ma chi vede il Verbo, ancorchè per ispecchio e in enimma, vede Iddio. Laonde se la naturale scienza termina, in qualche modo, in quella che Boezio chiama: « sola rerum PRIMAEVA RATIO; » la scienza soprannaturale giunge a quella che è ad un tempo stesso « nullius indigens VIVAX MENS (1). » L' uomo è un soggetto reale : quindi non può fermarsi all' idea, egli aspira a congiungersi col reale. Il reale dato all' uomo nella natura è finito, e l' idea conduce l' uomo a conoscere e ad amare questo reale finito, ma nello stesso tempo glielo mostra finito, ed essendo infinita l' idea gli mostra la possibilità, la necessità d' un altro reale infinito, che non è dato all' uomo. L' uomo a ciò che conosce, estende anche il suo desiderio: questo dunque va all' infinito, a quell' infinito che l' idea gl' indica dover essere, senza il quale nè la potenza dell' idea sarebbe esaurita, nè il conoscimento possibile all' uomo compito, nè il suo desiderio di conoscere, di congiungersi e di godere appagato. Ora questo infinito reale è dato inizialmente all' uomo nel lume soprannaturale, che Iddio gratuitamente gli aggiunge: la percezione di questo lume sostanziale e sussistente è la percezione del divino Verbo; quivi il desiderio riposa, quivi l' uomo, in un cotal modo, anche nella vita presente, si sazia. Il maestro dunque, di cui noi teniamo discorso, ha, fra le altre, questa singolarità che lo distingue da tutti gli altri maestri, che mentre a questi nel trasmettere che fanno a' loro discepoli le varie scienze e discipline ch' essi professano d' insegnare, non cade mai nella mente d' insegnar loro se stessi: e s' alcun d' essi, foss' anco un professore di qualche Università del Settentrione, invasato dal Demonio della vanità, prendesse seriamente ad annunziare dalla cattedra la materia del suo insegnamento in questo modo: « O giovani, io in quest' anno vi darò lezioni sopra me stesso, la scienza che v' insegnerò sarà la scienza della mia propria persona. »Probabilmente quegli uditori, benchè così generosi, così entusiasti de' loro professori, vinti questa volta non dall' ammirazione, ma dalla compassione, andrebbero mestamente ad avvisare il Rettor Magnifico della disgrazia accaduta a quel gran cervello. All' incontro il maestro unico, di cui noi parlavamo, non destò nè compassione, nè riso, dicendo espressamente agli uomini, che la scienza che insegnava, era quella che faceva loro conoscere lui stesso. Invano qualche professore tedesco mostrò dell' invidia di questo parlare divino (1). Gli uomini riconoscono, che quel maestro che loro così s' annunzia è anche il proprio e il massimo oggetto della cognizione e della scienza, un oggetto che nel momento che si comunica, è noto, come quello che per essenza è intelligibile. Quel maestro non ha che a dire: eccomi, vedetemi: e l' uomo è istruito: questa è la vera arte notoria. Chè essendo il maestro di cui parliamo, Iddio, e in Dio contenendosi tutte le cose, anche quelle che non sono Dio, ma create da Dio, poichè anche queste hanno una maniera d' essere in colui che « « porta tutte le cose colla parola della sua virtù »(2), » e tutte le cose essendo in Dio intelligibili, perchè Iddio è intelligibile per essenza, e, in quant' è così intelligibile, si chiama il Verbo; consegue che chi conosce Iddio, il Verbo di Dio, conosce il tutto, perchè il tutto in esso si trova. E niun altro può ascendere ad una scienza compiuta delle cose, se non ascende a colui, nel quale tutte s' accolgono, s' impernano, si collegano, si unificano: nè v' ebbe mai filosofo d' alta mente che non intendesse a sintesizzare le sue cognizioni, riferendo le cose conosciute all' Essere divino, o che credesse di dover aspettar altronde il compimento dello scibile umano, o questo riputasse ultimato e assoluto, finchè, speculando, non fosse siccome rigagnolo ricondotto nel mare dell' essere e della sapienza, ond' era quasi direi evaporato, e poscia condensato in acqua di scienza. L' idea è una forma v“ta, come dicevamo, non contiene l' essere completo , ma una cotal sua delineazione: indica all' uomo, soltanto l' enimma dell' essere completo, non glielo porge perchè non l' ha in se stessa: il Verbo all' opposto, che è il lume soprannaturale, è l' essere completo: ha il compimento di quell' essere, di cui nell' idea vedesi un languido abozzo. Il senso, cioè la facoltà di sentire le cose corporee ed altre incorporee, come l' anima, ma finite, nell' ordine naturale, viene in soccorso dell' intelletto, ossia della facoltà d' intuire l' idea. Ma quanto è povero questo soccorso! Come dice il poeta: [...OMISSIS...] E di vero non v' ha alcun organo o altra facoltà sensoria nella natura dell' uomo che senta Iddio, e perciò rispetto alle cose divine, che sole possono adempire l' idea, questa si riman vota ed impotente. Acciocchè l' opera della creazione acquistasse tutta la sua possibile perfezione, era uopo che nell' essere umano, fornito d' intelligenza per mezzo dell' idea, fosse aggiunto graziosamente un sentimento, il quale s' estendesse altrettanto, quanto l' idea; e come questa si stende al finito ugualmente e all' infinito, ella non poteva essere pienamente soccorsa, e quasi direi, contrabilanciata, se non da un sentimento di pari ampiezza. Ma non poteva Iddio esser contato fra gli enti della natura, di cui egli è il Creatore, e perciò egli rimane sempre distinto da essa, che ha per condizione il limite per la sua qualità di creata. Non potea dunque la natura dell' uomo avere un sentimento di Dio: ma neppure potea rimanere imperfetta l' opera di Dio. Quello dunque che non è racchiuso nella natura, nè alla natura è dovuto, Iddio l' aggiunse all' opera sua mosso unicamente dalla sua propria liberalità e infinita santità. La rivelazione fa conoscere, che Iddio costituì i primi padri del genere umano in istato soprannaturale di grazia. Se non si sapesse che questa rivelazione è vera, quanta sapienza si dovrebbe pure scorgere in essa! quant' armonia e convenienza colle divine perfezioni! Chi avrebbe potuto inventare, una notizia così profondamente ragionevole, così filosofica, che pur fu data agli uomini prima che filosofassero, prima che la scienza fosse trovata! Or poi ancora in questo tardo secolo, che si dice civile e filosofico, v' hanno di quelli, che non sono ancora arrivati ad intendere come sia stato conveniente, e conformissimo ai divini attributi, che il Creatore aggiungesse al natural lume, un altro lume soprannaturale, di quelli che ancora non comprendono come il primo non basti a tutti, perchè non vedono il rapporto tra l' idea e il naturale sentimento, e la sproporzione e insufficienza di questo a quella. E se nè pure adesso, colla natural sapienza, gli uomini giungono a tanto, chi mai in secoli meno colti avrebbe potuto inventare quella rivelazione? Troppo più ci voleva che l' umano ingegno. Ma chi o vede da sè, o gli è fatta vedere quella sproporzione che dicevamo, ben intende, siccome l' uomo, quest' opera sublime dell' essere perfettissimo, se Iddio l' avesse lasciato privo d' un senso soprannaturale, sarebbe riuscito, quasi direi, simile ad un figliuolo nato con una gamba assai lunga, e l' altra corta. La natura umana non aveva di più, non c' era di più nell' essenza di questa natura. Ma questo, che bastava alla natura umana, non bastava a colui, di cui è scritto: « « Tu facesti tutte le cose nella sapienza »(1). » E` dunque la natura dell' uomo quella che, non sapendolo e non pensandoci l' umano individuo, quasi direi, chiede per grazia il soprannaturale, come l' indigente dimanda colla sua sola indigenza: è la ragione, che, avendo un lume, questo le vale a conoscere la mancanza di qualche altro lume che le completi quel primo (benchè non sappia dire a se stessa che cosa quest' altro lume sarà), è il cuore umano che esige di possedere tanto di realità, quanta ne concepisce, e, avendo l' idea, ne concepisce un' infinità confusa, e si slancia nel v“to, con isforzo d' infrangere i termini della natura che gli sembrano angusti. Colui che così fece la natura umana, ne conoscea il voto misterioso, e inesplicabile a lei stessa, già fin da quando l' ebbe formata, e le spiegò egli stesso quel voto, e vi soddisfece: nè permise che l' avversario di questa natura che volea distruggerla, lusingandone l' amor proprio col persuaderla, che potea divenire simile a Dio da se stessa, rendesse inutile l' opera del Creatore. Permise sì che cadesse; ma caduta per la disubbidienza, spogliatasi colle sue mani de' soprannaturali ornamenti, resa di questi incapace ed indegna, vulnerata in tutte le sue potenze, egli la ristorò, e la ripose in una condizione assai più magnifica, e più sublime di prima. E questa fu l' opera non del primo lume della ragion naturale, non dell' idea, ma dell' altro primo lume della ragione soprannaturale, fu l' opera del VERBO di Dio. Quel maestro, che Platone desiderava venisse sopra la terra, per isvelare agli uomini le cose più necessarie e per arrecarne loro la certezza; quel maestro, Iddio, che è ad un tempo lume, oggetto unico ed essenziale dello scibile, persona, Verbo divino, si fece carne ed apparve in mezzo degli uomini, vero uomo anch' egli senza cessare d' esser vero Dio: GESU` Cristo ebbe nome, Salvatore, Unto di Dio. Egli insegnò a conoscere il Padre, avendo detto a chi prestava a lui fede: « « Niuno mai vide Iddio, l' Unigenito che è nel seno del Padre, egli l' enarrò »(1). » E ancora ad uno de' suoi discepoli: « « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre »(2). » Ancora, mandò lo Spirito della verità, secondo quello che avea promesso: « « E quando sarà venuto quello Spirito della verità, egli v' insegnerà ogni verità, poichè non parlerà da se stesso, ma parlerà tutte quelle cose che udirà e vi annunzierà le cose avvenire. Egli mi chiarificherà, perocchè riceverà del mio, e lo annunzierà a voi »(3). » Così l' Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e compì lo scibile nell' umanità. La natura e la scienza aveano incamminato l' uomo all' essere infinito per una triplice via, ma così lunga, che per viaggiare che egli facesse non potea fornirla: si trovò improvvisamente trasportato a quel punto infinitamente distante, a cui implicitamente voleva andare: si trovò in quell' essere infinito che cercava: si trovò quivi per miracolo, non in virtù d' alcun suo ragionamento, ma in virtù della fede. Ei credette quell' Essere [...OMISSIS...] Credette lui ed in lui, ed a lui: e tutto ciò, senz' ancora avvertire qual relazione s' avesse il punto elevato in cui egli già era, colla triplice via per la quale s' era messo col suo ragionamento; ma di poi, lo stesso ragionamento si ripiegò sulla fede, e riconobbe che quel termine, che andava cercando, a cui le tre vie dell' intelligenza convergevano, quel punto unico per infinita distanza inarrivabile, era quello appunto in cui la fede, quasi di sbalzo, l' avea collocato. Per verità l' essere si fa presente all' uomo in una triplice forma, come reale , come idea , come virtù . Ciascuna di queste forme siccome in suo ultimo termine d' attuazione, si riduce nell' infinito essere. L' uomo quasi in un cotal sogno divino, cerca la realità infinita , che non trova in natura; ma ben intende, che se una realità fosse veramente infinita, con tutte le sue condizioni, ella dovrebbe essere lo stesso essere infinito; cerca uno scibile infinito , che nell' idea non ha se non in potenza, ma ancora intende del pari, che se un oggetto per se intelligibile fosse veramente ed attualmente infinito, con tutte le sue condizioni, di nuovo, non potrebbe esser altro che l' essere infinito; cerca finalmente quell' infinito amore , che in lui non è che una capacità d' amare delusa sempre, sempre tradita dalle lusinghe e dall' infedeltà di tutte le cose naturali; ma finalmente, a mente sana, vede quello non esser possibile, se non v' abbia un reale infinito, infinitamente conosciuto, che ne sia l' oggetto amabilissimo, ed intende, che un tale termine dell' amore qualora ci fosse, non potrebbe essere ancora che l' essere stesso infinito, che tutto l' essere, tutto il bene. Ciascuna delle tre forme conduce il pensiero allo stesso termine, all' identico essere infinito. E queste tre vie erano indicate dalle tre summentovate parti della filosofia. Platone sembra aver veduto, che ciascuna di esse dovea terminare in Dio, nel quale riconosceva la « « causa del sussistere delle cose, la ragion dell' intendere, l' ordine del vivere »(1). » Ma chi gliene dava l' accerto? O chi prestava fede alla parola vacillante d' un uomo, che confessava d' aspettar un maestro divino, il quale gli rivelasse di tai cose la verità? E chi, anche credendo o intendendo l' alto concetto di Platone, poteva appagarsi d' un bene di cui gli si rendeva ad un tempo e nota l' esistenza e sentita la privazione? Poichè quello non era più che un modo negativo e indicativo di conoscere Iddio, non un conoscerlo colla percezione, col sentimento, colla fruizione. E poi, sciolto un nodo, un altro ancora più difficile ne usciva: « Se quelle tre cose sono tanto differenti, come si riducono ad una? e se si riducono ad una, come appaiono tanto differenti? »La dottrina dunque della TRINITA`, la dottrina cioè dell' essere uno e trino profondamente, interamente scioglie quel problema dallo spirito umano sempre proposto come un enimma a se stesso, vinto non mai: comunica all' uomo la dottrina dell' essere in tutte le sue forme. La dottrina dunque dell' augustissimo de' misteri discende dal cielo come una cupola d' oro che si colloca in sull' edificio dello scibile naturale, il quale senz' essa resterebbesi discoperto e patente alle piogge ed ai venti, e l' uomo, anche il filosofo, sarebbe condannato a vivere mal pago di sè, siccome colui che cerca continuo quello che non trova giammai. Ecco il soprannaturale della scienza necessario altrettanto che il soprannaturale della vita . Come l' umana vita non è perpetua e felice, ma divien tale in virtù d' un dono soprannaturale, così la scienza umana non è finita ed assoluta, ma divien tale in grazia anch' essa d' un' illustrazione, d' una credenza soprannaturale. Abbiamo detto, che la sapienza ha per sua base una cognizione della verità. Dunque una cognizione nuova della verità porge la base ad una nuova sapienza, una cognizione maggiore ad una sapienza maggiore. La cognizione naturale, qualunque sia la sua forma, rimane imperfetta, unita colla soprannaturale riceve perfezione. Dunque la sapienza umana non può che riuscire imperfetta, un abozzo, una ricerca di sapienza come gli stessi filosofi confessarono (tra i quali il fondatore della scuola italica rifiutò quasi arrogantissimo il nome di sapiente, chiamandosi studioso della sapienza (1)): solo colla cognizione soprannaturale è stato posto il fondamento d' una sapienza nuova, perfetta, che non cerca la verità, ma la possiede e la gode. Veniamo al secondo e formale elemento della sapienza; il quale risiede nella volontà, quando questa, con tutte le sue forze, si volge, assente, aderisce, si conforma, e conforma tutte le potenze, su cui ha impero, alla verità conosciuta, nel che sta il concetto della virtù. Allora l' uomo è virtuoso e bene ordinato, quando distribuisce il suo volontario affetto e l' attività che ne deriva secondo l' ordine oggettivo degli enti, o, come dice S. Agostino: « Haec est perfecta iustitia quae potius potiora, minus minora diligimus (2). » Ora coll' ordine oggettivo , che è la verità, viene talora in contrasto l' ordine soggettivo e limitato della natura umana: in questa collisione l' uomo non può conservarsi giusto senza sacrificio: deve sacrificare ciò che è, o che pare il suo proprio bene all' ordine assoluto, buono e venerando in se medesimo, senza alcuna relazione precisamente soggettiva. Ma se noi esploriamo l' uomo racchiuso dentro i confini della natura, vediamo che l' ordine oggettivo nella sua integrità gli è presente nell' idea; ma non gli è dato nella realità. Chè della realità l' uomo della natura, non percepisce, come dicemmo di sopra, che una parte, la realità finita del Mondo (e neppur tutta, nè pur la maggior parte di questo), laddove nell' idea egli intuisce tutto l' essere ideale. Questo squilibrio fra l' ideale e il reale che rende incompleta la scienza, è quello altresì, che rende impossibile all' uomo la perfetta virtù. Poichè se d' una parte l' idea gli mostra l' ordine intero, universale, assoluto, come una necessità morale, onde non può dissentire senza rendersi ingiusto e colpevole, dall' altra non gli dà la forza operativa, colla quale effettivamente compirlo. Donde mai viene all' uomo la forza? Questa appartiene all' ordine delle cose reali, non a quello delle ideali: alla realità appartiene il fare, all' idealità solamente il mostrare come si convenga fare. Dunque è uopo, che l' uomo trovi la forza in se stesso, o nelle realità esteriori; in una parola in quella sfera di cose reali, che a lui è conceduta. Ma questa sfera di realità è limitatissima, da essa trovasi esclusa la realità infinita, e la maggior parte delle realità finite. La forza dunque, che può attignere l' uomo dalle entità reali a lui concedute per natura, non è proporzionata alla grandezza dell' ordine ideale, che gli sta davanti come legge inesorabile. Che anzi le cose finite percepite dall' uomo, cospirano talora, come dicevamo, contro quella legge, e invece d' aiutarlo a compirla, il tentano a violarla; appunto perchè l' ordine finito che esse presentano, riesce diverso, e perciò assai spesso contrario all' ordine infinito dell' idea. Per sopperire in qualche modo a questa deplorabile mancanza di forze reali, che rendono l' uomo deficiente a realizzare il grand' ordine morale, a cui esser chiamato forma l' alta sua dignità, che cosa fecero i filosofi più eccellenti? Perocchè non parlo di quelli, i quali disperati di poter mettere un accordo fra l' ordine reale e l' ideale, nè volendo, nè potendo rinunziare al primo, cancellarono il secondo, e decretarono che l' uomo si dovesse contentare d' esser materia o senso, e così contro la sua natura s' abbandonasse tranquillamente al piacere dell' oggi, stimolandovi se stesso col pensiero della morte dell' indomani. Non ragionando dunque di questi, domandavamo, come i filosofi più eccellenti s' ingegnassero d' aiutar l' uomo a trovar quelle forze, che a lui negava la natura reale, e che pur gli bisognavano per adempire alla legge dell' ordine ideale. Veramente questi savŒ amatori del bene fecero tutto ciò che potevano fare: accorti che l' uomo domandava in vano la forza morale, di cui abbisognava, a quella porzione d' essere reale, che gli era conceduta, e che questa in vece di somministrargli forze pel bene entrava spesso in contrasto coll' ordine oggettivo, ed accresceva le forze del limitato e cieco istinto soggettivo; s' industriarono d' allontanar l' uomo dalle stesse cose reali e di concentrarlo nell' idea: e questa essi celebrarono come cosa d' infinita bellezza, ed esortarono con tutta la loro eloquenza gli uomini a restringersi nella contemplazione di sì divino lume, e a contentarsi della maravigliosa sua vista, e chiamarsene felici. Acciocchè poi l' uomo non s' impaurisse dell' alto precetto, e non gli paresse, che in vece d' accrescergli le forze per adempire al dovere gli s' imponesse un dovere ancor maggiore; que' filosofi magnificarono le forze dell' umano arbitrio (di cui, con poca coerenza a dir vero, aveano prima temuta la debolezza, e promesso di rinfrancarla) asserendo, che niuna delle altre cose era in potere dell' uomo, ma quella virtù che essi gli prescrivevano, sì: Gli esseri, e i beni reali dunque, onde solo può venire la forza efficacemente pratica al soggetto umano, furono da' migliori filosofi giudicati insufficienti a dare all' uomo quel vigore morale che gli bisognava, anzi reputati causa della morale sua debolezza e degli ostacoli alla virtù; e non restò loro altro scampo, che di chiedere a quella stessa idea, che imponeva il dovere, anche la forza d' adempirlo. Socrate nel «Fedone » di Platone si dilunga a provare la necessità, che ha l' uomo che ama e cerca la sapienza, di ritirarsi del tutto dal reale sensibile , e ricoverarsi nelle idee , come in porto di salvezza, cioè di dividersi coll' astrazione filosofica dal corpo e dalle cose corporee, aspettando il felice momento d' esserne al tutto diviso colla morte. [...OMISSIS...] Tanto era il timore, che le menti più grandi, prive della luce cristiana, prendevano della sinistra influenza che esercitava sull' uomo quella porzione di ente reale, che alla sua percezione è conceduta dalla natura; chè non solo da essa non aspettavano aiuto alcuno all' esercizio della virtù ed all' acquisto della sapienza; ma fino che una tale porzione di ente reale non fosse sottratta all' uomo interamente colla morte, trovavano impossibile per lui l' acquistare quella sapienza che pur tanto desiderava; e quest' era la sapienza naturale , chè altra non ne conoscevano. Laonde lasciavano all' uomo in questa vita la sola speranza d' avvicinarvisi, e questa speranza, a qual condizione? A quella di rinunziare alla realità, quasi avvelenata, di comunicare il meno possibile, e soltanto per estrema necessità, con essa, cercando nelle sole idee un rifugio, un' abitazione segreta, dove vivere occulto, alienato e quasi già morto. E pure quest' era lo sforzo più ammirabile della ragione umana! Essa non poteva salire più in su nè poteva dir cosa nè più vera, nè più ardua; era l' unica soluzione possibile del gran problema. Certo le idee sono cose divine, il solo elemento divino che si rinvenga nella natura, quand' anco si percorra, cercando palmo a palmo, tutto l' universo: e le cose divine non si lasciano posporre a nulla, anzi nulla è ad esse comparabile, tutto vale per esse, tutto diventa spregevole ciò che è contrario ad esse. Questo legge l' intendimento nelle idee, ammira in esse l' autorità, ne contempla l' incomparabil bellezza. E che non hanno osato, che non hanno sofferto alcuni amatori delle idee? Lo abbiamo di sopra avvertito. Archimede non sente l' entrata de' Romani in Siracusa e dà l' esempio di quella forza della mente, che si toglie momentaneamente a tutte le cose presenti ai sensi: i viaggi e la povertà d' Anacarsi; le veglie e le fatiche di Aristotile (1); la dimenticanza del cibo di Carneade (2); le privazioni, le sofferenze di tant' altri, se provano che l' amore al sapere può acquistare al pari d' ogni altra passione una forza presso che infinita nell' uomo, non provano tuttavia che l' uomo abbia mai trovato una piena soddisfazione nè nell' altre ignobili, nè in questa passione del sapere nobilissima. Non può l' uomo mantenersi del continuo attuato nella contemplazione della mente: anzi quanto breve non è il tempo in cui egli valga a sostenersi così assorto? Quanto pochi poi sono coloro che vogliono o possono, postergate le cose sensibili, vivere innamorati unicamente delle idee impalpabili, e quasi in esse sospesi; od abbiano l' agio di cercare e di coltivare questo faticoso diletto della mente? Ed anche questi pochissimi, che con lodevole sforzo s' innalzano alla regione delle idee pure, e vi si mantengono qualche istante per ricader poscia nella regione naturale e ordinaria della realità (3), consegue forse, che, perchè contemplano le idee, secondo quelle regolino e dispongano tutte le azioni reali di cui ordiscono la loro vita? La realità sensibile finita gli aspetta per dar loro battaglia: ella li lascia viaggiare liberamente al mondo ideale, sicura che non gli scappano per questo, e che, dopo una breve lontananza, fanno ad essa ritorno. Come un pescatore che ha preso all' amo un enorme pesce, gli allenta ed allunga il filo, sì che esso può alquanto allargarsi dentro le acque; ma poi più sicuramente sel tira a sè quando è sfinito dalla ferita e dalla fuga; così accade troppo sovente che adoperi coll' uomo la lusinga della sensibile realità; coll' uomo, dico, il quale già fino dal suo nascimento porta seco il seme e il fomite della concupiscenza. Pare a costui di salvarsi dalla seduzione del mondo quando gli riesce di sollevare da esso la propria mente colle più pure astrazioni, e ne vaneggia e ne insuperbisce: ma gli altri uomini intanto ricevono da lui medesimo autorevoli esempi di molte azioni viziose e riprovevoli, e dalle verità, da lui speculate, pare loro che egli non abbia riportato se non quell' orgoglio che lo fa peccare più arditamente. Aveva dunque ragione Platone di confessare che nella presente vita si concepisce bensì una naturale sapienza, ma non si consegue appieno giammai; onde voleva che gli uomini migliori l' aspettassero dopo la morte. E gli stoici stessi, che cotanto esagerarono le forze del libero arbitrio, dubitarono poi o negarono al tutto, che fra gli uomini in alcun luogo, o in alcun tempo, si rinvenisse quel sapiente, che essi concepivano, e magnificamente descrivevano (1). La naturale filosofia rimane dunque convinta e confessa della sua impotenza a rendere l' uomo sapiente, anche di quella sola sapienza, che nel lume della natura si scorge ideata. Iddio maestro degli uomini fece l' una e l' altra cosa ad un tempo, cioè ampliò senza fine il concetto della sapienza, e diede agli uomini il vigore di attuarlo in se medesimi. Onde a buona ragione un Padre della Chiesa osserva, che quelli che furono aiutati dalla fede, poterono fare coll' opera assai più, che non potessero concepire e desiderare i filosofi, o insegnare colle parole (2). E questo, Iddio lo fece col produrre quell' equilibrio che manca nella natura dell' uomo, fra l' idea, e la realità. Perocchè abbiamo detto, che l' idea spazia all' infinito, dando a vedere l' essere universale, e così ancora indicando qual sia l' ordine compiuto dell' essere, al quale deve congiungersi la volontà potenza, che di natura sua segue quella dell' intelletto; e che all' incontro la realità naturale non porge all' uomo che una cotal briciola dell' essere stesso, dove non si trova più l' ordine compiuto ed assoluto, mostrato dall' idea, ma un ordine angusto, quale può racchiudersi in una così piccola parte dell' essere; abbiamo detto ancora che, essendo l' uomo un ente reale, non può esser mosso ad operare che da un reale, quindi non dall' idea, ma o dalla propria sua intima attività e da' suoi proprŒ istinti, o dall' eccitamento del reale esteriore; e che colla forza che ha in sè dell' arbitrio, può, fino a certo termine, attuare la sua mente nell' idea e invaghirsene, ma per breve tempo può stare così attuato, lasciando inerti l' altre potenze, e per uno sforzo difficile, quasi contro natura e di pochissimi; onde tantosto l' altre potenze inferiori rientrano in azione, e vi rientrano spesso irritate dallo stesso ozio in cui giacquero e quasi vogliose di ricattarsene, e allora il reale sensibile pare divenuto più acre stimolatore al disordine che prima non fosse. Se dunque potesse avvenire, che come l' uomo intuisce tutto l' essere ideale in un modo implicito e semplice, il quale in appresso si può esplicare indefinitamente, così pure gli fosse dato a percepire immediatamente tutto l' essere reale in un modo del pari implicito e semplice, atto poi ad esser pure esplicato e svolto all' indefinito, chiaro è che quella grande, immensa esigenza dell' idea, che impone il dovere morale, troverebbe nell' uomo un suo corrispondente, cioè troverebbe un fonte di potenza ugualmente grande ed immensa, idonea ad eseguire l' imposto dovere. Perocchè se ciò avesse luogo, tutte le realità finite si conoscerebbero, o potrebbero conoscersi e considerarsi come parti, ed anzi minime ed evanescenti particelle di tutto l' essere reale, nel quale, come gocce nel mare, si perdono, e allora nel reale dall' uomo posseduto vi avrebbe quell' identico ordine, che nell' idea; e quest' ordine reale darebbe all' uomo eccitamento e valore sufficiente a compiere quell' ideale coll' efficacia della volontà: fra i due ordini, l' ideale e il reale, non sarebbe più alcuna discrepanza, alcuno invincibile contrasto, ma l' uno chiamerebbe l' altro, l' uno coll' altro, quasi direi, si combacierebbe; e la volontà non più divisa infra due che la si contendono, potrebbe darsi tutta con un solo atto ad entrambi, i quali s' unificano nell' identità dell' essere , e quindi la giustizia perfetta, e la sapienza nella pace. Ora il Vangelo è stato pubblicato per far sapere agli uomini, che questa che noi indichiamo, non è una supposizione, non è quello che sarebbe stato solamente desiderabile che Dio facesse, nè tampoco quello, che, essendo conformissimo a' divini attributi, è presumibile che Dio abbia fatto; ma per far loro sapere, che è quello, che Iddio Creatore ed ottimo provvisore del genere umano ha positivamente fatto, e quello che il Vangelo fa in tutti coloro che liberamente lo ricevono: « « E diede loro la potestà di divenire figliuoli di Dio »(1). » Perocchè il Verbo « « è il carattere della sostanza del Padre »(2); » vale a dire è quello pel quale Iddio si rende percettibile, tale essendo la forza della parola greca carattere . Insegnò dunque il Cristianesimo, che il Verbo carattere o faccia di Dio, come vien anco sovente chiamato nelle scritture, s' imprime nelle anime di quelli, che colla fede ricevono il Battesimo di Cristo, a cui volgendosi la volontà e aderendovi, rimane e santificata e giustificata. Onde all' uomo, nel quale è impresso il Verbo e però n' ha la percezione, è con ciò comunicato l' essere nella sua realità totale ed infinita, quantunque in un modo implicito e semplicissimo; come ancor piccolo, ma fertilissimo seme consegnato all' anima da coltivare e da svolgere colla propria sua attività e cooperazione. E così l' uomo non solo ha la completa cognizione, ma ben anco la virtù necessaria per conformare se stesso alla medesima; e quindi non gli mancano più i due elementi della perfetta sapienza. Laonde coerentemente a questa sublime dottrina si trova scritto ne' libri divini: «FONS SAPIENTIAE, VERBUM DEI IN EXCELSIS (1) ». Vero è che nella vita presente, essendo data all' uomo questa realità totale assoluta ed infinita in un modo così implicito e potenziale, ed all' incontro la realità finita del mondo operando sull' uomo in un modo esplicito ed attuale; questa riceve dal modo d' agire un' efficienza maggiore di quella; onde rimane all' uomo la necessità di lottare contro le angustie e le limitazioni della realità finita, che vorrebbe captivarlo esclusivamente a se stessa, impedendolo di darsi al tutto: ma allora il contrasto e la lotta non è più immediatamente fra la realità e l' idea, ma fra la realità finita e la realità infinita, quella premendo l' uomo con un' urgenza maggiore, e questa avvalorandolo e allettandolo a sè con una maggiore dignità e grandezza. Nè senza ragione colui che provvede dall' alto al maggior vantaggio degli uomini, lasciò loro questa difficoltà da superare, acciocchè la virtù e la sapienza sieno un acquisto de' loro generosi sforzi, e non cosa apposta loro, senza loro consenso e cooperazione; consistendo appunto in questo l' apice dell' eccellenza e della gloria dell' uomo, l' essere egli medesimo, in quel modo che può essere, l' autore della propria sapienza e della propria virtù. Iddio dunque rese questo all' uomo, seco congiunto, possibile: lasciò poi a quest' uomo il dovere di ridurre all' atto quella potenza che gli ebbe conferita. Chè la percezione di quella realità infinita, cioè del Verbo divino, può ridursi per la grazia che ne emana; ad un' attualità sempre maggiore, esplicarsi senza misura, e prestare all' uomo tutta la forza morale che gli bisogna, anzi una forza senza alcun paragone superiore a tutto il dolore, a tutto il piacere, con cui la realità finita, ma vivace dell' universo, tenta sedurlo. E tutto ciò è posto in pienissimo potere dell' uomo unito a Dio e assistito da Dio: onde l' apostolo: « « Io posso tutto in quello che mi conforta »(2). » E di questa stessa assistenza di Dio una nuova e profonda dottrina ci recò il Cristianesimo non mai veduta, nè potuta vedere dai filosofi, e tuttavia così consentanea alla natura di Dio ad un tempo e a quella dell' uomo, così coerente a tutte le verità razionali e rivelate, che la ragione stessa non può a meno di approvarla, maravigliata che le sia dato quasi del suo, e pur tale che in se stessa non l' aveva, nè l' avrebbe mai scorto. Poichè, secondo la dottrina di Cristo, quando il Verbo è congiunto coll' uomo, egli vi emette il suo spirito, che santificando la volontà, qualora l' uomo stesso che rimane libero, non vi si opponga, santifica l' uomo. Questa è la prima santificazione, e chiede e rende possibile dopo di sè la cooperazione umana. E` santità , ma non si può ancora dire sapienza ; chè l' uso di questa parola pare riservato a significare un acquisto fatto dall' uomo col suo positivo e manifesto concorso; ma in quella santità sta la sapienza come nel germe. D' allora Iddio e l' uomo operano sempre insieme, qualora l' uomo non isfugga liberamente da così fortunata società. Iddio ha istituito de' mezzi positivi ed esterni che furono denominati sacramenti , ai quali è unita una grazia determinata. L' uomo anch' egli ha la facoltà di porre molti atti di virtù, e, fra questi, quelli del culto interiore ed esteriore, ai quali tutti risponde il frutto d' un accrescimento di grazia interiore. Nell' esercizio di tutta questa attività, in tutto questo lavoro di operazioni divine ed umane, s' aumenta continuamente nell' uomo la comunicazione dello Spirito del Verbo, che è lo spirito della santità e della perfezione. La parola spirito viene acconcissima ad esprimere non solo l' impellente, ma anche l' impulso e quell' istinto operativo d' una natura dotata d' intelletto, quand' ella prende l' impeto del suo operare dalla vivacità e dalla realità della luce che illustra il fondo della sua intelligenza. Nel caso nostro, questa luce è il Verbo, che nell' essenza intellettiva dell' anima dimora, e investe la volontà col suo Spirito, senza bisogno di passare pel mezzo d' alcuna riflessione. Ora questo Spirito del Verbo, abbiamo detto che è anch' egli l' Essere come il Verbo, ma l' Essere sotto un' altra forma, sotto la forma di essere amabile e per sè amato , quindi per se operativo e perfettivo: ha dunque per sua dimora la volontà e per suo effetto e condizione nell' uomo l' azione santa più o meno esplicata. E di più, è rivelato, che egli ha una sussistenza personale , che non si confonde colle altre due persone, onde questa terza procede. I due elementi dunque della sapienza , che abbiamo detto essere cognizione e virtù , quando dall' ordine naturale si trasportano nell' ordine soprannaturale, s' avverano e realizzano in modo così sublime, che l' uno e l' altro si trovano consistere in un cotal contatto e commercio di Dio medesimo: tien luogo della cognizione, il Verbo percepito; tien luogo della virtù lo Spirito Santo vivente ed operante nell' anima umana (1); onde della sapienza, di cui la virtù , come abbiamo detto, è la parte formale, sta scritto: « « Egli stesso » (il Creatore) «la creò nello Spirito Santo »(2); » ed è questo Spirito che combatte a favore dell' uomo e nell' uomo e coll' uomo contro la carne, cioè contro quella porzione di realità finita, che colla sua esclusività minaccia di perturbar l' ordine della realità intera ed infinita (3). Ora lo Spirito divino si esplica nell' uomo co' suoi effetti e doni, ed accompagna l' esplicazione della cognizione, ossia del lume soprannaturale, che ne' battezzati è il divin Verbo. Secondo le quali esplicazioni, i giusti nella Chiesa si dividono in quattro classi. Poichè v' hanno gli uomini manuali ed illetterati, i quali dalla riverenza e dal timore di Dio di cui, per un' intima cognizione, temono e riveriscono la maestà, sono guidati e conservati lontani dal male, e questa prima maniera di sapienza vale più d' ogni scienza di coloro che non ne traggono il frutto dell' onesta vita: onde leggiamo: « « E` migliore quell' uomo che sa meno, ed è men sensato, nel timore (di Dio), di colui che abbonda di senno, e trasgredisce la legge dell' Altissimo »(4). » In costoro non v' ha una cognizione teoretica consapevole e separata dalla pratica, v' ha una sola cognizione, luce ad un tempo ed istinto morale, e, quasi direi, v' ha solo l' arte di fare il bene. Ma quando alcuno di essi, coll' uso della riflessione, s' applica alle lettere, la teoria allora si separa, e comparisce una scienza ideale, che si distingue dalla pietà : quella è pura speculazione, questa azione: e benchè questa pietà derivi da quella scienza e ne riceva la norma, tuttavia non è la scienza che sia la prossima causa dell' azione, ma questa si appoggia immediatamente ad un pratico riconoscimento della verità nella scienza conosciuta. I quali uomini di scienza e di pietà formano una seconda classe di giusti, con una maniera di sapienza più esplicata che non era quella de' primi. Non basta però essere uomo scienziato e pio ad avere la prudenza nel governare spiritualmente gli uomini, ed a compire a loro vantaggio magnanime imprese. Per arrivare a questo più alto grado si esige una perspicacia di consiglio ed un ardire di fortezza : consiglio che consiste nella celerità e nella sicurezza della mente, colla quale si trovano le regole di giudicare ed ordinare le cose (1), e gli spedienti migliori per arrivare al fine, ne' quali spedienti tutte le innumerevoli circostanze di fatto sfuggenti alla vista comune sono già poste nel calcolo e comprese nella risoluzione: fortezza, che giace in una cotal disposizione, per la quale l' uomo si sente maggiore degli impedimenti, non li teme, confida di dominarli coll' altezza del pensiero santo, colla costanza dell' animo, soprattutto colla fiducia in colui che è l' arbitro di tutti i fatti onde colui è mosso ad operare, e onde ripete e il pensiero e la costanza. A questa terza classe di giusti, ne' quali risplende una maniera di sapienza via più esplicata ancora che nelle due precedenti (2), si continua la quarta, che si compone di que' rarissimi, i quali, sollevati su tutte le cose finite, vivono affissati nell' infinità di Dio: e in questa contemplazione della mente riflessamente comunicano con esso Dio, e in lui rifondono se stessi, e le cose dell' universo, e Iddio in essi e per essi nelle cose dell' universo si rifonde; ed indi derivano altresì per la via dell' astrazione, una scienza ideale altissima e nobilissima delle cose divine, ai quali appartiene la più perfetta maniera di sapienza , e alla scienza che ne estraggono, fu riserbato il nome d' intelletto . V' ha qualche cosa di analogo a queste quattro classi di sapienti anche nell' ordine naturale, e non senza ragione, anzi mostrando grande elevatezza d' intendimento, Platone (1), seguito poi nella sostanza da Aristotile (2), volle che cogitazione si chiamasse la scienza delle verità matematiche e delle altre somiglianti, che si deducono, ragionando, da certe supposizioni, ma intelletto la notizia del principio dell' universo, che non si suppone, ma è assolutamente, nel quale hanno il loro essere oggettivo tutte le cose. Tutte queste diverse maniere di Sapienza sono compartite agli uomini da uno stesso ed unico spirito, lo spirito del Verbo. Il qual verbo, essendo l' archetipo eterno dell' infinita sapienza, anzi la sapienza oggettiva ad un tempo e personale, Iddio volle che gli uomini in esso, come in uno individuo della propria specie, vedessero e toccassero, per così dire, sensibilmente l' ideale realizzato di quella sapienza, di cui è capevole l' umanità. Così soddisfece Iddio alla convenienza di aggiungere all' umana natura quel di più che non le poteva appartenere, perchè increato, e di cui tuttavia abbisognava, se doveva raggiungere compiutamente il fine di quella sapienza e di quella soddisfazione che gl' indicava l' idea. Coll' incarnazione del Verbo dunque fu soverchiato il desiderio dell' umana natura, a cui non si poteva affacciare pure il pensiero di tanto mistero: e se era da presumersi che il Creatore dell' uomo avrebbe riempiuto il v“to che restava nella sua idea, cui non empiva il finito; il fatto non solo avverò quella presunzione; ma alla comparsa dell' Uomo7Dio, l' idea stessa divenne la misura buona e pigiata e scossa e traboccante, di cui parla il Vangelo (1). Su quell' uomo dunque, di cui Dio stesso volle costituire la personalità, dovea « « riposare lo spirito del Signore, lo spirito della sapienza e dell' intelletto; lo spirito del consiglio e della fortezza, lo spirito della scienza e della pietà; e riempirlo, lo spirito del timore del Signore »(1). » Nelle quali parole pronunciate più di sette secoli prima della venuta di GESU` Cristo, l' espressione che lo Spirito del Signore si sarebbe riposato in su quell' uomo, trova la sua naturale ragione e compiuta spiegazione nell' unione ipostatica. Chè se il Verbo è la persona divina del Cristo, come il Verbo è divenuto indivisibile dall' assunta umanità, così lo Spirito del Verbo dovea in questa riposare con pienezza; non potendo esso andare e venire, aumentare i doni o diminuirli, siccome è concepibile che avvenga negli altri uomini, i quali rimangono persone umane, o sieno o no congiunte al Verbo, partecipino o no del suo Spirito. E come negli altri uomini, a cui la comunicazione del Verbo è la diffusione dello Spirito, si trova una scala di doni e di perfezioni; la quale principia col timore di Dio, chiamato nelle scritture l' inizio della Sapienza (2), chiamato anche sapienza, perchè n' è la prima maniera (3), e ascende alla scienza e alla pietà, poi al consiglio ed alla fortezza, e finalmente alla sapienza e all' intelletto; così in Cristo (parola che si riferisce appunto all' unzione dello Spirito Santo (4)), in cui tutti questi doni, divisi fra gli uomini, trovavansi uniti, tenevano un ordine logico inverso; per modo che si concepisce in lui prima la più perfetta ed ultimata sapienza, e da questa poi derivarsi l' intelletto, mediante la facoltà della mente umana di Cristo d' intuire in quella sapienza, a sua volontà, l' ordine delle essenze e delle idee; dalla sapienza poi e dall' intelletto derivarsi il consiglio e la fortezza, mediante la facoltà, che aveva pure l' anima di Cristo, di applicare la sapienza e l' intelletto agli ufficŒ del giudicare, dell' ordinare, del governare e dell' operare magnanimamente: da questi quattro doni poi scaturire la scienza e la pietà mediante la facoltà di conoscere le cose generiche e le speciali, e di rivolgerle all' onore ed al culto di Dio; e finalmente risultare da tutte queste cose insieme quell' immenso timore riverenziale della umana natura di Cristo, che, così limitata così angusta, vedevasi accompagnata, empiuta, posseduta, assunta, in una parola, da un ospite di tanta maestà, che, come sua propria persona, la reggeva, la santificava, assolutamente ne disponeva. Tale è il sapiente di Dio! Di quanto non vince egli colla realità il sapiente ideale dell' uomo? Iddio solo poteva esser quello e fu quello che lo ideò ad un tempo, e lo realizzò, lo pose nel mondo sotto gli occhi degli uomini. Il sapiente di Dio fu la sapienza incarnata. A questo sapiente, ossia a questa sapienza incarnata, nove secoli prima che comparisse sulla terra, furono poste in bocca queste parole: [...OMISSIS...] Così Iddio, qual maestro degli uomini parlava alcuni secoli prima che nascesse Platone in Atene ad esprimere il desiderio d' un tal maestro, e a dimostrarne il bisogno in nome della natura umana. E questo maestro, quest' uomo in pari tempo Dio, questo archetipo vivente e palpabile del Savio « « in cui sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza »(2), » quest' incarnata sapienza; questo giusto e santo sin dalla doppia sua eterna e temporale origine, per la stessa sua natura e condizione, da diciannove secoli occupa manifestamente il primo posto fra gli uomini, acquistatolsi, a un nuovo titolo, col merito del suo compiuto sacrifizio. Egli è di necessità il capo dell' umana natura, il principe dell' uman genere, e quantunque principe, servì all' uman genere, e gli ministrò, e ne vinse di più l' ingratitudine col lasciarsi levar la vita, la quale egli depose e riprese da se stesso, per salire appresso a Dio Padre ed essere colassù l' avvocato de' suoi nemici (1). Così l' umanità divisa e sparpagliata dalla morte, effetto del peccato, che la privò del suo padre secondo natura, fu ricondotta all' unità dal vincitore della morte, che le diede per padre il suo proprio unico Padre Iddio, e fu ricostituita sotto il governo d' uno, « « a cui fu data ogni potestà in cielo ed in terra »(2) »: fu riunita ad un capo di tanta eccellenza, a cui non poteva ascendere il suo pensiero, nè estendersi il suo desiderio. Nè questo pensiero, o questo desiderio poteva tampoco ideare o indovinare il modo d' un tale raggiungimento. Chè questo modo (una delle tante invenzioni di Dio a beneficio degli uomini (3)), non fu soltanto un' amicizia, una società, una soggezione, una beneficenza, qual può essere fra uomo ed uomo, di cui l' uomo si forma il concetto; ma di tutt' altra guisa, inescogitabile, divina: fu un raggiungimento di percezione, suggellandosi il Verbo nell' anima, un raggiungimento d' inabitazione, diffondendosi per entro ad essa lo spirito, un raggiungimento fisico per via dell' umanità di Cristo, che con mistero opera ne' sacramenti, e si copre ella stessa d' un sacramento nel cibo eucaristico. Onde gli uomini possono divenire, ove lo vogliano, vere e vive membra di questo corpo, di cui Cristo è capo: e questo capo potè dire colla più rigorosa verità: « « Io sono la vite, voi i tralci: chi si tiene in me ed io in lui, questi porta molto frutto »(4): » su' quali fondamenti, quasi su monti santi innalzò la sua Chiesa. Ma poichè Iddio rispetta la libertà degli uomini, e vuole da essi il consenso e l' accettazione de' suoi benefizŒ, che divengono quasi oggetto d' un contratto gratuito; perciò rimane a loro stessi la scelta fra il nobilissimo posto di figliuoli che è loro offerto nella sua famiglia divina, e la condizione di stranieri o l' ignobilissima di schiavi. La mente dunque (per ricapitolare in parte quello che abbiamo detto) d' ogni cosa o artistica o morale si compone, più o meno perfettamente, un concetto ideale di perfezione; ma poi niun' opera di arte umana compiutamente lo realizza, e quella è molto lodata, che gli s' avvicina. Onde la realizzazione d' ogni ideale rimane sempre per l' uomo un desiderio penoso perchè non è mai soddisfatto: nuova prova che l' idea stende in lui troppo maggior ala, che non la potenza. Ma l' ideale più di tutti all' uomo desiderabile è quello di se stesso, e l' arte massima , quella che intende a realizzarlo. Se non che l' uomo si trova più insufficiente a quest' arte, che a tutte l' altre. L' autore di lui soccorse alla sua creatura così bisognosa per causa della sua stessa grandezza. Tenendo ad esemplare di tutte l' opere sue un ideale senza pari più perfetto di quello che possa cadere in mente umana, non fallisce mai, che non lo adempia. L' uomo ideale è l' ideale sapiente : questo, concepito dagli stoici e da altri filosofi, da nessuno fu realizzato; e secondo la celebre interpretazione data da Socrate all' oracolo di Delfo, il sapientissimo dovea esser colui, che questa sola cosa sapeva, « di non sapere ». L' ideale del sapiente nella mente di Dio fu dunque sulla terra effettuazione. In un sapiente7tipo apparve il tipo dell' uomo. L' umanità trovò in GESU` Cristo l' ideale di se medesima, ma divinizzato, e quest' ideale sollevato alla divinizzazione, lo trovò reale. Il Verbo e lo Spirito Santo tennero luogo in questo sapiente de' due elementi della sapienza, la cognizione , e la virtù . D' amendue fu fatta comunicazione agli uomini. GESU` Cristo disse: « « Io a questo son nato » (come uomo) «e a questo sono venuto nel mondo » (come Dio nell' incarnazione) «di prestare testimonianza alla verità »(1); » e la verità era lo stesso Verbo divino che così favellava, avendo anche detto: « « Io sono la via, la verità e la vita: nessuno viene al Padre se non per me »(2). » Come uomo egli prestava testimonianza in faccia degli uomini, al Verbo divino: come Verbo incarnato, ancora gli rendeva testimonianza, perchè le parole esteriori, con cui ammaestrava gli uomini, si riferivano al lume interiore, e lo esplicavano, lo rendevano accessibile alla riflessione: era la voce del Verbo che suonava per render testimonianza al Verbo, il quale senza suono interiormente illuminava (1). Questo Verbo interiore, a cui dovevano essere riscontrate le voci e le parole esteriori dello stesso Verbo, era il paragone, la riprova di tali parole, che ciascuno, a cui fosse dato quel lume, portava in se medesimo: onde Cristo dopo aver detto d' esser venuto a rendere testimonianza alla verità, immediatamente avea soggiunto: « chiunque trae il suo essere dalla verità, ascolta la mia voce. » [...OMISSIS...] (2). Perocchè la percezione, sebbene imperfetta, del Verbo dà un essere nuovo e più sublime all' uomo, di cui ella è una seconda nascita, nella quale gli uomini « « non nascono dai sangui o dalla volontà della carne o dalla volontà dell' uomo, ma da Dio »(3) »; onde quelli che sono rinati a questa guisa « « hanno la potestà di rendersi figliuoli di Dio »(4) » ascoltando la voce di Cristo. Le parole esterne dunque di Cristo testimoniano del Verbo interiore, e il Verbo interiore , per sè luce dimostra e conferma la verità di quelle parole. E poichè il Verbo è mandato dal Padre per tutto dove è mandato, anche nell' anime, perciò anche il Padre, la cui sussistenza si percepisce nel Verbo, coll' aver mandato questo nel mondo e nelle anime, gli rende testimonianza; onde Cristo disse: « « Io sono, che » (esternamente predicando) «rendo testimonianza di me stesso » (che internamente dimoro nelle anime); «e rende testimonianza di me quegli che mi ha mandato, il Padre »(5). » Perchè « « non può il Figliuolo far cosa alcuna da sè, se non quello che vede fare al Padre »(6), » e però le opere esterne ed interne che io fo, non le fo solo, ma col Padre; il che esprime la perfetta corrispondenza ed unità di natura fra l' intelligibile divino ed il reale divino , a cui è analoga quella che concepisce e desidera la mente umana fra l' idea ed il reale: in quella perfetta corrispondenza di forme, e identità di essere, colloca Cristo la testimonianza pienamente soddisfacente, ch' egli rende alla verità (1). Ma una somigliante corrispondenza che Cristo ci chiama a considerare fra le due prime divine persone, in un modo assoluto ed universale; egli l' annunzia altresì in se medesimo entro l' ordine delle cose morali con quest' altre parole: « « Io sono la via, la verità, e la vita. » » Perocchè la via è la cognizione, l' idea, a cui si riduce ogni legge e comando: i doveri morali tracciano all' uomo la via, per la quale egli arriva al suo fine. Ora nel Verbo stanno tutte le idee, le leggi, le morali necessità: queste sono l' intelletto , che, come dicemmo di sopra, giace nella sapienza , e per la riflessione e per la limitazione che gli viene aggiunta, da quella si separa. La verità poi qui si prende per la realizzazione dell' idea morale o della legge, nel qual senso pure è detto, che « « per Mosè fu data la legge , - per GESU` Cristo è stata fatta la verità »(2) » cioè il pieno adempimento di quella. Poichè GESU` Cristo non essendo venuto a sciogliere la legge, ma ad adempirla (1), fece quello che non avean saputo far gli uomini, pareggiò e superò, colla santità delle sue operazioni, l' ideale della virtù, quale nella legge mosaica era stato delineato davanti agli occhi degli Ebrei, acciocchè il realizzassero. Così, rispetto all' ordine morale, si vide in Cristo restituito l' equilibrio fra l' idea, non l' idea mosaica, ma la sua propria; onde non disse: « la legge mosaica è la via », ma: « Io sono la via », e sono pure la verità delle operazioni a quell' idea pienamente corrispondenti. E quest' equilibrio videsi del pari restituito in tutti quelli che credettero in lui ed a lui, poichè, avendo questi in sè il VERBO IMMANENTE, secondo l' espressione dello stesso Cristo (2) si trasformano, per così dire, in altrettanti Cristi: chè il Verbo anche in essi è via , manifestando ciò che si deve operare, ed è verità , dando loro valore di operarlo. Ed è poi anche vita: poichè consistendo la vita nella produzione d' un sentimento sostanziale o nell' atto di un tal sentimento il Verbo, coll' emettere il suo Spirito, produce un sentimento efficace nell' anima, che innalza questa ad una vita deiforme, la quale le fa riconoscere lo stesso Verbo e fruirne, e poi, di sua natura eterna, cresce e si perfeziona nel tempo e si rivela in beatitudine nell' eternità. Non v' ebbe certo alcun altro maestro fra gli uomini che esercitasse un magistero di tal fatta: tutto quello che insegna il cristianesimo intorno ad esso, è degno di Dio, e talmente n' è degno, che la mente umana, qualunque ideale del sapiente studiasse di comporsi, non potea nè pur da lontano pensarlo: pure se alcuno l' avesse pensato o proposto, sarebbe parso una stravaganza, e non inteso: l' uomo non conosceva a sufficienza Dio e se stesso per potere immaginare ciò che conveniva all' uno in relazione coll' altro: ma quando GESU` Cristo esercitò quel magistero, gli uomini credettero il fatto prima d' averne veduta, e creduta la possibilità (3); era cosa più facile a credersi esistente che possibile. Quando si cangiano profondamente le cose e di conseguente si cangiano profondamente i pensieri degli uomini, e fin anco la maniera del pensare, allora gli stessi vocaboli ammettono nuovi usi, e nuovi significati: si cangiano le lingue, ed anche a questo alluse forse GESU` Cristo, quando promise, che i credenti avrebbero parlato « « nuove lingue »(1), » espressione che pare dire ancora di più, che le lingue diverse dalla propria. Così mentre noi, parlando fin qui secondo l' uso degli uomini, dicevamo che la verità teoreticamente conosciuta, è un elemento di quella qualunque naturale sapienza che è accessibile all' uomo: secondo la nuova lingua, dobbiam dire che quella verità non è più un elemento della sapienza soprannaturale, ma la via che vi conduce, riserbando la parola Verità ad un nuovo e più sublime significato, al significato dell' idea , se si può dir così, realizzata , pienamente compiuta, vivente, non più impersonale, ma una divina persona, nella quale tuttavia si conserva sempre il suo carattere di oggetto, d' intelligibile, in cui si fonda l' analogia che passa fra l' idea , e il Verbo divino . Quindi nella Sapienza di Dio comunicata agli uomini dallo stesso Dio, fatto maestro dell' umanità, non si può più separare il primo elemento, la verità, dal secondo, cioè dalla virtù, benchè si possa mentalmente distinguere; perchè, separato, cambia natura, non è più quel di prima, non è più elemento di quella sapienza; chè separata la verità dalla sua realizzazione, rimane l' idea, e ciò che appartiene alla sapienza soprannaturale dell' uomo non è l' idea, ma il Verbo divino, nel quale però colla sola mente si distingue la via dalla verità . Pure, quantunque questa nuova sapienza sia così una ed indivisibile, ella presenta un doppio aspetto, essendo nella sua unità perfettissima biforme (e potremmo eziandio dire triniforme, se il dichiarare come ciò s' intenda, non ci menasse a lungo, senza che la necessità del ragionamento lo esiga), perocchè, guardata da un lato, ella s' assolve tutta nel nuovo significato che ha ricevuto la parola verità; guardato poi dall' altro lato pure si assolve e comprende tutta sotto il significato della nuova parola carità . Così sono indivisibili ed une nell' essere e nella natura le due persone distinte del Verbo e del suo Spirito. Laonde se la Verità nel nuovo significato esprime Dio nella persona del Verbo, come disse il Verbo stesso; la nuova parola Carità esprime il medesimo Dio nella persona dello Spirito, come è scritto: « « Dio è carità, e chi rimane nella carità rimane in Dio, e Dio in lui »(1) ». E la Verità e la Carità in questo sublime significato si rendono reciprocamente testimonianza, perchè l' una è nell' altra, e niuna delle due fuori dell' altra si trova. Laonde chi ha questa Verità ha con essa la Carità che l' adempie, e chi ha questa Carità ha la Verità adempita. E come non si dà questa Verità alla persona umana, senza l' adempimento dell' opere, così, senza un tale adempimento, non si dà la carità. [...OMISSIS...] Onde quegli che opera il bene, ha la carità, e questi anche conosce la verità; poichè non può conoscerla appieno colui, che non la opera, e però non la sente, e però non ne ha lo spirito che solo fa conoscere una tale sostanziale e soprasostanziale verità; poichè « « lo Spirito è quegli che testifica che Cristo è la VERITA` »(3). » Nella verità dunque è la carità, che l' adempie; onde Cristo pregò il Padre: « « Santificali nella verità; il tuo sermone è la verità »(4) » nella carità poi è la verità adempita: « « Non amiamo colla parola e colla lingua, ma coll' opera e colla verità: da questo conosciamo, di trarre l' essere nostro dalla VERITA` »(5). » Sono dunque due le parole in cui si compendia la scuola di Dio, reso maestro degli uomini, VERITA` e CARITA`; e queste due parole significano cose diverse, ma ciascuna di esse comprende l' altra: in ciascuna è il tutto; ma nella verità è la carità come un' altra, e nella carità è la verità come un' altra: se ciascuna non avesse seco l' altra, non sarebbe più dessa. Come poi la Verità è lo stesso maestro GESU` Cristo, che si comunica all' essenza intellettiva dell' anima, e in pari tempo s' esplica tanto esternamente quanto internamente, cioè tanto al di fuori, nella rivelazione e nella predicazione evangelica che si continua coll' umanità sulla terra, e nella divisione de' ministerŒ; quanto al di dentro, in tutte quelle cognizioni divine che producon la scienza; così del pari la Carità, che è lo Spirito Santo, s' esplica ne' doni che abbiamo enumerati, ne' soprammodo molteplici affetti dell' amore, ne' frutti, nelle grazie, e nelle sante operazioni: di manierachè non è parte dell' attività del discepolo, non potenza, non atto, che non sia accompagnato dal Verbo e dal suo Spirito, e in cui quello e questo non si trovi. E qui si vede non solo il perchè la sapienza cristiana si riduca all' imitazione di Cristo, ma di più come questa imitazione sia possibile agli uomini, e possibile in un modo del tutto singolare e maraviglioso. Se il Maestro di cui si tratta, è di una natura così diversa dall' umana, che egli ha la potestà di entrare e quasi assidersi nell' anima stessa del discepolo , e quinci, come un auriga dal cocchio, guidarne tutte le potenze, ed anzi di più, del suo proprio spirito animarle, e di conseguente, se la sapienza de' discepoli non è che la stessa sapienza divina partecipata, lo stesso maestro, che, entrato in essi, ivi col loro consenso e colla loro adesione, inabita e li fa vivere di sè; quelle tre cose che noi toccavamo non hanno più alcuna difficultà ad essere intese; cioè diventa chiarissimo, come all' imitazione di Cristo si riduca la sapienza soprannaturale degli altri uomini, e come questa imitazione sia possibile, e possibile in una maravigliosa guisa, riscontrandosi una cotale identità di sapienza. Quale umano intelletto potea mai concepire una maniera così stupenda e così sublime d' effettuare quel precetto, che pur giunse a indicare la stessa filosofia: « « Imita Dio? »(1). » Che se l' eterna sapienza, una, semplicissima, sussistente e vivente, Dio e Verbo di Dio, è quella che, sempre identica, realmente è in tutti gli uomini che vi aderiscono (al che son tutti chiamati), e in essi ella vive e regna, volendolo essi medesimi; due conseguenti soprammodo lieti per l' umanità se ne raccolgono: il primo che con ciò questa umanità veramente s' organizza in un solo corpo, con un solo capo divino, e così rimane soddisfatto il profondo e misterioso desiderio col quale da noi s' aspira ad ottenere, senza sapersi poi come, che la moltitudine degl' individui umani imiti ed emuli, colla loro unificazione, la perfetta unità della specie: l' altro, che ogni individuo, essendo in lui Cristo, riceve la dignità di un cotal fine dell' universo, costituisce quasi un centro suo proprio, a cui tutte l' altre cose si riferiscono, reso simile ad un astro, che esercita su tutti gli altri, disseminati nell' immensità dello spazio celeste, come credono gli astronomi, la sua attrazione. Dal che procede ancora la stabilità e il continuo incremento della scuola di Cristo sopra la terra, il quale disse a' suoi discepoli, prima di dipartirsi da loro colla sua esterna presenza: « « Ecco io sono con voi tutti i giorni - fino alla consumazione del secolo »(1) » La propagazione della scuola, ossia della Chiesa di Cristo, di secolo in secolo, di nazione in nazione è l' opera del suo Spirito, l' opera della carità. Questa carità cominciò da Dio Padre: [...OMISSIS...] Il Verbo mandato nell' umanità che assunse, adempì la carità del Padre: [...OMISSIS...] Gli uomini che si fecero discepoli al Verbo incarnato, ricevendolo in se medesimi, ricevettero con esso il principio della stessa carità, e ciascuno, il Verbo in essi ed essi nel Verbo, la esercitano del continuo sopra la terra: [...OMISSIS...] E il discepolo dell' amore: « « Se ci amiamo reciprocamente, Iddio dimora in noi, e la carità di lui in noi è perfetta. Da questo conosciamo di dimorare in lui, ed egli in noi, che egli ci ha dato del suo spirito »(2). » Dimorando dunque il Verbo divino, sebbene invisibile, in terra, nell' anime de' suoi discepoli, e imprimendosi in esse di generazione in generazione, e diffondendovi il suo Spirito, l' opera della sua Chiesa è in ogni tempo nuova e fresca, non può mai invecchiare, ricominciando essa in ogni uomo reso in un cotal modo Cristo, e perciò giustamente questa dottrina non dismette mai il nome di novella buona , ossia d' Evangelio, datole la prima volta che fu annunziata. E se nella lotta che sostiene contro lo spirito del male e la debolezza degli uomini, sembra in alcuni tempi che ne soffra la Chiesa, ed a periodi di splendore succedono periodi di amarezze e d' umiliazioni, questi non sono che momentanei, e passaggeri; ch' ella è una società di tal natura che porta in se medesima la potenza di ristorarsi e di ringiovanirsi, mediante il governo de' pastori co' quali Cristo promise di essere per tutti i secoli, e mediante quella carità ch' egli esercita nell' anime de' suoi, colla quale la fondò da principio; e quindi ancora la potenza d' un incessante progresso. Onde tutti i discepoli di Cristo sono de' sapienti, che fanno di continuo quello che ha fatto Cristo, e che Cristo fa continuamente in essi, cioè proseguono l' opera della Chiesa, e in essa dell' unificazione del genere umano, e, secondo l' espressione di S. Giovanni, sono « « cooperatori della Verità »(3). » In questa carità esercitata nella verità consiste veramente l' opera della sapienza cristiana . Tutti vi sono chiamati: a quelli che rispondono alla chiamata son divisi i ministeri: a taluno è affidata una parte maggiore, ad altri una parte minore dell' opera comune. Presiedono a tutto il lavoro quelli, a cui Cristo ebbe detto: « « Pace a voi: Come il Padre ha mandato me, così anch' io mando voi »(4). » Questi sono i sapienti de' sapienti, i maestri di coloro che sanno. Perocchè tutti i cristiani interiormente sanno; onde un Apostolo scrivea loro: « « Ma quant' è a voi, l' unzione, che avete ricevuta da lui, dimora in voi, e non avete mestieri ch' alcuno v' insegni. Ma come l' unzione di lui v' ammaestra di tutte le cose, e quel di che v' ammaestra è vero, e non menzogna, rimanete in esso, com' ella v' ha insegnato »(1). » E nulladimeno questo stesso Apostolo insegnava ed ammoniva, perocchè non tutti, eziandio che sappiano internamente, sanno anche esternamente, e il Verbo interiore ha bisogno d' essere esplicato dall' esteriore, ed oltracciò anche quegli che sa, può esser sedotto dall' errore, dal quale è difeso, attenendosi a coloro che Cristo mandò appunto, acciocchè insegnino e ministrino esternamente agli uomini lui medesimo. Quanto poi s' estenda questa carità della cristiana sapienza è maraviglioso a pensare. Perocchè ella s' estende appunto altrettanto, quanto la verità. La verità di questa sapienza non ha limiti, come abbiamo veduto: il Maestro dice a' suoi discepoli: « « Oggimai io non chiamerò voi servi, poichè il servo non sa che cosa faccia il suo padrone; ho chiamato voi amici, perchè io feci note a voi tutte quelle cose che io ho udito dal Padre mio »(2), » e di più promette loro il suo Spirito, che tutte queste cose, dette prima da lui, raccenderà loro in mente, e di nuovo insegnerà loro « « ogni verità »(3). » Come poi l' uomo così limitato possa portare tanta mole di verità, l' abbiamo detto, dove abbiamo avvertito, che tutta la verità gli è data in un modo implicito e potenziale, il che S. Giovanni esprime, dicendo che nel cristiano dimora « « il seme del Verbo »(4), » quel seme onde l' uomo è rinato. L' esplicazione poi di questo seme ne' diversi uomini è più o meno, sempre tuttavia, limitata, e si fa in ordine a tutto ciò che è necessario alla natura umana e da questa voluto, cioè alla perfezione morale ed alla felicità dell' uomo. Ora lo stesso ragionamento conviene applicarsi alla carità . Questa di natura sua è in ciascuno de' discepoli universale ed infinita, benchè limitata nella sua esplicazione ed attuazione. E così deve essere, se deve rispondere perfettamente a quella verità, di cui è il nostro discorso, dalla quale, come dicevamo, la carità è indisgiungibile. Poichè la carità non è altro che l' esecuzione e la sostanziazione della verità, onde nelle Scritture si nomina « « la carità della verità »(1), » e si esorta a « « fare la verità nella carità » (2) »: è una verità che si fa, non si conosce solo, come la verità naturale; e si fa colla carità. Or come abbiamo distinta dalla verità naturale e incompleta la verità soprannaturale e sussistente, così anche la carità che a questa corrisponde si distingue dal naturale amore . E non parlo dell' amore naturale soggettivo , vario di genere, e di forma e di costume, il quale non appartiene per sè solo all' ordine morale; ma dell' amore naturale oggettivo che costituisce la naturale virtù. Questo riceve tutte quelle limitazioni e imperfezioni che nella verità naturale e meramente ideale si trovano, ed è oltracciò combattuto e distrutto spesso dall' amore soggettivo che si fa reo con questo stesso combattimento. In fine, quand' anco l' amore naturale oggettivo potesse reggersi così debole e quasi aereo, com' egli è, di fronte a tale avversario violento e disordinato; nè soddisfarebbe al bisogno d' amare che sente il cuore umano, e che tanto si stende quanto l' idea, cioè all' infinito, perchè non v' ha nella natura alcun oggetto infinitamente amabile, nè un tale amore potrebbe esser principio di quell' infinita beneficenza, a cui di nuovo tende l' animo umano. Chè l' amare è voler bene, e non si può volere un bene infinito all' amato, se chi ama non conosce o non ha alcun bene infinito da comunicare. Non potendosi dunque la mente e il cuore umano fermare se non in ciò che è infinito, e perciò il suo fine compiuto potendosi trovar solo in un infinito reale, che l' amor naturale non trova; in questo come in suo fine compiuto non può essere esaurita compiutamente e tranquillamente quella capacità di affetto che il Creatore ha posta nella natura umana. La carità all' incontro trova e possiede il fine assoluto dell' amore che è Dio Uno e Trino. E come l' ama in sè stesso, positivamente e immediatamente conosciuto, così l' ama negli uomini ne' quali egli dimora, e, in un diverso modo, in quelli altresì, ne' quali egli può dimorare, e sono tutti quanti vivono in terra. Laonde la carità di Cristo prende le due forme, della fraternità e dell' umanità . La prima è quella « carità della fraternità »che venia tanto raccomandata a' primi fedeli dagli Apostoli (1), per la quale tutti quelli ne' quali già vive Cristo, si amano d' un amore indicibile, e quasi beatificante, e si prevengono in ogni onore ed aiuto con ogni sacrificio, perchè Cristo, che in essi abita, cresca ne' fratelli e in tutta la comunità. L' umanità poi è quella forma di carità, colla quale si amano gli uomini, non perchè abbiano in sè Cristo, ma perchè, non avendolo ancora, lo possono avere: e questa è il fonte di quello zelo infaticabile della salute delle anime, onde l' uomo desidera e fa quant' è da lui, che tutti quelli che sono fuori ancora della Chiesa di Cristo, vi si aggreghino, e si convertano i peccatori in modo; che, giustificati, Cristo possa di nuovo in essi diffondere il suo spirito, a cui hanno fatto contumelia. E questa è la filantropia cristiana, che tende a giovare in tutti i modi agli uomini, acciocchè vengano a possedere il bene vero, finale, assoluto, infinito, nel cui possesso solamente la natura umana chiama sè stessa soprammodo contenta, priva del quale, non è mai pienamente contenta per qualunque altro bene. Laonde è questa una filantropia ragionevole, non ingannatrice, chè per essa si vuole agli uomini il bene vero, desiderato confusamente per natura, e gli altri beni solo in ordine a questo, contro al qual ordine sarebber mali, eziandio che ritenessero le apparenze ingannevoli di beni: è appunto la filantropia o umanità di Cristo, di cui parla S. Paolo, ove dice: che « « quando apparve la benignità e l' umanità » [...OMISSIS...] «di Dio Salvator nostro, egli ci fece salvi, non per opere di giustizia fatte da noi, ma secondo la sua misericordia »(2) » e di cui parla S. Giovanni, ove pure dice: « « In questo è la carità, non quasi che noi abbiamo amato Dio, ma perchè egli stesso il primo amò noi, e mandò il Figliuol suo, propiziazione de' nostri peccati »(1) » I discepoli dunque che sanno d' essere stati amati da Cristo prima d' esserne degni e acciocchè degni ne divenissero, anch' essi amano gli uomini che non sono ancor degni d' essere cotanto amati, acciocchè diventino degni del soprannaturale amore com' essi, con acquistare la dignità di membra del corpo di Cristo viventi dello stesso spirito di Cristo. La carità dunque ha in sè necessariamente lo spirito di proselitismo, e, in altre parole, il principio d' associazione. S. Giovanni scriveva ai fedeli: « « Noi vi annunziamo quello che abbiamo veduto ed udito, acciocchè anche voi abbiate società con noi, e la nostra società sia col Padre e col Figliuolo di lui GESU` Cristo »(2) » Ed ancora: « « Che se noi camminiamo nella luce, come anch' esso è nella luce, abbiamo fra noi società, e il sangue di GESU` Cristo figliuolo di lui, ci monda da ogni peccato » (3) » La carità è sempre nella luce , perchè la luce è la verità, e la carità è la verità adempita. Abbiamo detto di sopra che la verità sussistente, cioè il Verbo divino, di natura sua associava gli uomini, essendo un identico principio reale e vitale da tutti quelli, che sono in lui, partecipato, e perciò gli uomini congiunti col Verbo rassomigliano quasi ad un grappolo d' uva, in cui tutti gli acini uniti, allo stesso racemo s' attengono, succhiandone coll' umore la vita. Ora la stessa cosa è a dirsi della carità . La quale per sua natura è unione, e unione la più perfetta e sublime, che può in qualche modo dirsi unificazione. Niuna maraviglia dunque, che tosto introdotta nel mondo la carità, l' umanità sentisse un insolito bisogno d' associarsi e incominciasse in essa un movimento, un lavoro tendente a produrre sempre nuove, ora meno, ora più perfette, associazioni. La società grande era stata costituita dallo stesso Maestro, che n' avea posto i due principŒ, della verità e della carità: quest' è la Chiesa cattolica, cioè universale. Come rispetto alla verità ella si compone di maestri e di discepoli in quel modo che abbiamo detto, così rispetto alla carità ella si compone di ministri che comunicano il Verbo e il suo Spirito, per certi mezzi instituiti dal Salvatore e avvalorati dalla sua onnipotenza, e che governano esteriormente tutto il corpo, e di quelli a cui amministrano , di quelli che tale grazia e tal governo ricevono. E poichè la verità e la carità è l' identico bene divino sotto due forme, così gli stessi che come Maestri viarŒ conservano e tramandano la verità, sono quelli altresì che come Vescovi e sacerdoti sacrificano, amministrano i sacramenti e governano: sono gli stessi con due potestà. Ma, come abbiamo detto, in ogni discepolo dimora il Verbo e vi effonde il suo Spirito, di maniera che ciascuno è un cotal centro e fine del tutto, benchè sia anche membro, maggiore o minore, esercente una funzione più o meno importante, del corpo di cui Cristo è il capo. Ciascuno dunque ha il suo lume di verità, e ciascuno ha il suo fuoco di carità: non v' ha pure il minimo cristiano che si tenga nella grazia, il quale non l' abbia. Quindi ciascuno e s' attiene più che mai stretto all' associazione grande essenziale e fondamentale della Chiesa, e ha in sè il principio e l' inclinazione ad altre associazioni benefiche: e più o meno v' inclina, secondo che più o meno egli coopera alla carità, e più o meno questa, per le cognizioni esteriori e pe' doni, in lui s' esplica. Di qui tutte quelle religiose associazioni , le quali si propongono d' esercitare, con più d' attività e d' estensione e di ordine, la carità e la beneficenza verso il prossimo: le quali non sono, come manifestamente apparisce, che propaggini della verità e della carità, radici sempre feconde, e conseguenti naturali e necessari della Scuola, di Dio fatto maestro, e redentore degli uomini, che è la sua Chiesa. Perocchè la carità può essere esercitata da ogni individuo, ma con più frutto da una collezione d' individui associati, cospiranti tutti d' accordo, come un cotale esercito pacifico ben ordinato, istrutto, e disciplinato, nello stesso esercizio. E veramente chi ama una cosa, la ama tutta e non una parte; e come la verità di cui parliamo non ha confini, così la carità pure è di natura sua infinita, nè può mai dire: basta, senza ripugnare a sè medesima: tende dunque al sommo, a fare tutto il bene che ella può. I confini di lei non sono che soggettivi: poichè s' ella si trova nell' uomo ancora implicata ed involta, non può spandersi nell' opere esteriori, e rimane così implicata quanto nell' uomo stesso rimane implicata la verità. Quell' ignoranza dunque, che può trovarsi anche nel cristiano in ordine a quel sapere che appartiene alla riflessione, e la scarsa cooperazione della libera volontà all' esplicazione della verità stessa, sono i due limiti che riceve ne' diversi uomini l' operosità della carità di Cristo. Ma questi limiti possono essere sempre più in là sospinti ed allontanati: e quindi l' indefinito e sempre nuovo svolgimento della carità nel Cristianesimo. Perocchè la carità giugne a far tutto, e con ogni sacrificio. Or tutti i beni, eziandio che temporali, possono inservire al fine de' beni , che è il fine stesso dell' uomo, sul quale, per conghietture o argomentazioni non autorevoli, fu tanto disputato da' filosofi prima di Cristo, senza che mai ne vedessero il chiaro, o convenisser fra loro; ma dopo Cristo a niuno può essere oscuro o dubbioso quale, quel fine, egli sia. Laonde la carità è uno amore, pel quale l' uomo, dimenticando se stesso pe' suoi simili, altro diletto non cerca a se medesimo che quello di procacciar loro ogni bene, con ogni suo studio, fatica e patimento, sia questo bene corporale, intellettuale, o morale: ordinando i due primi all' ultimo, che è il fine degli altri. I quali tre sommi generi di carità, se si considerano attentamente, ritornano alle tre forme dell' essere, la reale, l' ideale, e la morale: e spettano a quelle tre categorie supreme, in cui si riassumono tutte le cose concepibili dalla mente, le quali nelle tre forme primordiali dell' essere si fondano. Onde si vede, che l' ultimo intento della carità è di fare che gli uomini tutti partecipino dell' essere al maggior grado, e in tutt' e tre le sue forme. E come in quest' essere appunto uno e trino si assolve la verità, così nuovamente si raccoglie in che modo la carità termini nella verità, e come pure questa in quella si trasfonda. Ora la compiuta verità è ordinata, perchè l' essere è ordinato; di maniera chè, secondo l' ordine di generazione, precede l' essere reale all' ideale, ed entrambi al morale, che tutto l' essere seco congiunge e perfeziona. Così, allo stesso modo appunto, è ordinata altresì la carità. Di che, ogn' altro amore, che si diparta da quest' ordine, s' oppone all' ordine della verità , e di conseguente convien dire che è falso, ed anzi che benefico, dannoso. Cristo dunque portò il vero amore in terra, il quale non potè essere del tutto vero se non a condizione d' essere altresì sublimissimo e divino, come vi portò la vera sapienza, pure sublimissima e divina; ed a buon diritto egli potè dire, che questo precetto era il suo (1). Come poi la carità s' esercita dai discepoli o separati, o uniti in società; così ella s' esercita del pari a favore d' individui, e a favore di società, quantunque il termine umano della carità sia sempre l' individuo; che le società stesse hanno condizione di mezzi e non di fini, non potendo esse aver altro fine che o il bene degl' individui associati, o d' altri. Quindi nella carità v' ha il principio immortale della ristorazione e della riforma non solo della Chiesa, come abbiam detto parlando della verità, ma ancora della società domestica, essendo principalmente l' educazione opera gratissima alla carità, e della società civile, procacciando la carità, ove ne sieno animati i membri di lei, che essa si fondi sulla giustizia, di cui tempera il rigore, conciliando le opinioni e gl' interessi colla reciproca stima e colle vicendevoli concessioni e ragionevoli transazioni de' cittadini, e soprattutto spuntando l' orgoglio e il dispotismo tanto famigliare e quasi inseparabile da questa potente società, coll' insegnarle che cosa ella sia, cioè unicamente l' ancella, non punto la signora nè della Chiesa, nè della Famiglia, l' una e l' altra delle quali società pel loro concetto a lei precedenti, ella dee riverire come suo proprio fine, e rispettare e servire. Laonde anche la famiglia, e la nazione partecipano di quella immortalità, che la cristiana sapienza comunica a tutte le cose che ella tocca od affetta, e che prima di null' altro ella assicurò di sua propria bocca alla grande scuola da lei aperta, cioè alla Chiesa universale. Ma la carità non si ferma, come dicevamo, nell' uomo, ma termina in Dio; chè ella ama gli uomini o perchè partecipano della divina natura, o perchè ne possono partecipare. Onde come Iddio, maestro del mondo, è la Verità, e questa, nel suo movimento comunicativo agli uomini, termina alla Verità, di maniera che ella è il principio e ad un tempo il termine del divino insegnamento, che in un circolo non già vizioso, ma potente e vitale incessantemente si volge e dimora; così Iddio, Spirito di verità, è la Carità, la quale comunicandosi agli uomini ritorna continuamente in sè stessa, di maniera che, secondo l' osservazione di S. Agostino, si ama in fine lo stesso amore (1), e tutt' è amore, Dio Amore il principio, e Dio Amore il fine. E così disvelato, ed anzi comunicato all' uomo il fine de' beni , furono all' umanità assicurate quelle due cose supreme, ch' ella da sè va sempre, a tastone e nelle tenebre, ricercando, cioè la compiuta virtù e la beata vita . Perocchè quella maniera di vivere e d' operare che si limita, che si ferma per via, che non intende nel fine assoluto di tutte le cose, Iddio, può bene dimostrare in sè stessa qualche similitudine o piuttosto analogia colla virtù, a cui è avviata, e questa similitudine o analogia o avviamento, può esser preso dagli uomini in fallo per la virtù, ma essere la virtù, egli non può, « « nè, siccome dice S. Agostino, è vera sapienza quella, che nelle stesse cose da lei vedute con prudenza, operate con fortezza, raffrenate con temperanza, distribuite con giustizia, non indirizza la sua intenzione a quel fine, nel quale Iddio sarà tutto in tutti, con eternità certa, e con pace perfetta »(2). » Nella quale virtù completa l' uomo trova già su questa terra, in cui tutto è incipiente, nulla consumato, in cui la verità sussistente è percepita come un enigma, in cui la carità è operosa come un esercizio e uno sforzo, trova, dico, su questa terra la vita beata , ravvolta certo in fra quei veli della verità, e in fra quei patimenti della carità, ma pure verissima; chè l' uomo posto in tale condizione dichiara sè a se medesimo contento, e lo dichiara con ogni sincerità. Egli sa di possedere l' infinito, e nella volontà di lui, di cui sente l' infinita amabilità e maestà, come in luogo sicurissimo riposa, e confida d' una speranza, che non può confonderlo: chè anzi egli, educato da Dio medesimo alla generosità de' sentimenti, non si risolve tampoco di preferire l' eterno godere al temporaneo meritare, e o contrabilancia il valore di questi due egualmente infiniti tesori, come una femminella diceva: « o patire o morire », e lo stesso Apostolo mostra esitar nel dubbio, quale de' due gli deva esser più caro (3); ovvero antepone il merito alla stessa visione, come dicea un' altra femminella: « non morire, ma patire », e come il medesimo Apostolo Paolo in un altro luogo: « « Io desideravo di essere anatema da Cristo » (cioè separato dalla vista di lui) «pel bene de' miei fratelli »(1). » Ma se nel tempo della scuola, della palestra, del merito, basta a rendere felice l' umana vita « « quella speranza, » per usar le parole di S. Agostino, «della contemplazione di Dio, la quale ha pur seco dilettevole e certa intelligenza della verità » (2): » cessato il corso del tempo, la verità sussistente, che or è nell' uomo come principio , manifestandosi anche come termine , apre a lui davanti ed offre tutti i tesori eterni, che nella profondità dell' essere reale si nascondono, e così Cristo, secondo la frase ammirabile della Scrittura, restituisce il Regno al Padre già svelato agli uomini (3); e la Carità che alla Verità, da cui è spirata, s' accompagna e si proporziona, rompendo, per così dire, la fornace che comprimea le sue fiamme, innalza ed espande il corno dell' incendio che non consuma, ed avventandosi a tutto l' Essere discoperto, fa che l' uomo di lui viva, quasi d' una vita di fuoco divino ed immortale. La promessa, come chiaramente apparisce, è degna del Maestro, ella è consentanea alla sublimità della scuola: tutto s' attiene, se il maestro è Dio, dunque egli dovea essere tutt' insieme e l' oggetto della dottrina, la verità, e il fonte e l' oggetto della carità, e finalmente anche l' eterno oggetto della beatitudine: qualunque altra scienza, fuori di questa, sarebbe stata inferiore a un tale maestro e a una tale scuola, come qualunque altro fine del mondo sarebbe stato inferiore alla grandezza del Creatore. S. Agostino osserva che v' ha certe cose, l' aver le quali non è altro che il conoscerle; e queste non possono esser sottratte dagli uomini al nostro amore (1). Ma in pari tempo alcune di esse non possano esser conosciute a pieno, e però nè tampoco avute, da chi non ne fruisce, e la fruizione è un atto d' amore; non possono dunque essere avute se non sono conosciute, nè conosciute se non sono amate e godute. Il bene è appunto in tali condizioni: [...OMISSIS...] Dalla qual dottrina applicata alla beata vita si conferma quello che noi dicevamo, cioè: 1 Che nella cognizione della verità s' acchiude la carità , perchè quella essendo un bene, non può essere a pieno conosciuta, se non s' ami e fruisca, e viceversa nella carità s' acchiude necessariamente la cognizione della verità , perchè avere quell' oggetto amabile è un medesimo che conoscerlo. Il che non involge punto alcun vizio di circolo, ma bensì la necessità che verità e carità inabitino, quasi direi, l' una nell' altra, acciocchè possano reciprocamente comunicarsi e completarsi. 2 Che quelle due parole, a cui si riduce tutta la scuola di Cristo, Verità e Carità , non solo contengono la sapienza dell' uomo nella presente vita, ma altresì la beatitudine della futura: di maniera che questo riceve il discepolo da una tale scuola, d' avere in sè una sapienza, che, dopo averlo appagato in mezzo alle sofferenze presenti, e datogli una somma dignità e una somma pace in mezzo alle lotte che intorno a lui s' agitano o dalla natura in perpetui e fatali attriti, o dall' umanità in incessanti e volontari dissidŒ, si rivela colla morte temporale, e si cangia in eterna beatitudine. Laonde siccome il precetto del divino Maestro: « « Amerai il Signore Dio tuo in tutto il cuor tuo, e in tutta l' anima tua, e in tutta la mente tua »(3) » non è solamente un documento di giustizia, ma ancora un avviso di prudenza dato all' uomo, acciocchè egli conosca dove possa rinvenire quella vita di eterna beatitudine, che è l' ultimo de' suoi voti e la somma de' suoi bisogni, e ciò perchè nella perfetta carità si rinviene la compiuta verità; così, simigliantemente, la stessa vita beata gli è mostrata, e quasi a dito indicata dallo stesso divino Maestro, nella perfetta cognizione della verità, la quale non può esser perfetta, se l' uomo ne ignori quella parte che la sola carità gli rivela, avendo egli favellato così: « « Ora questa è la vita eterna, che conoscano te, solo Dio vero, e colui che tu hai mandato, GESU` Cristo »(1). » Riassumendo dunque quello che per noi fu detto fin qui, noi abbiamo distinto la Filosofia come scienza dalla Sapienza ; abbiamo detto, che quella è puramente cognizione, e cognizione sotto la forma speciale di scienza , la qual forma è l' opera della libera riflessione: questa all' opposto risulta da due elementi, della cognizione e della virtù , che traduce la cognizione in azione reale e morale. Abbiam fatto vedere, che come la Filosofia ha per suo oggetto l' intera cognizione che nell' ultime ragioni delle cose si racchiude, così pure quella cognizione che costituisce il primo elemento della sapienza (qualunque forma ella si abbia) non è l' una o l' altra cognizione particolare, ma la cognizione della verità nella sua interezza ed universalità, benchè ella possa trovarsi nell' uomo più o meno ravvolta e quasi in germe, e più o meno svolta ed esplicata: ma che come all' esercizio della virtù, che è il secondo elemento della sapienza, si richiede l' uso della libertà umana, così alla cognizione a cui essa virtù s' appoggia, si richiede sempre qualche grado di riflessivo sviluppamento. Abbiamo veduto ancora, che la cognizione che serve di base alla sapienza, non essendo legata ad alcuna forma, e avendovi negli uomini una cognizione anteriore alla filosofia, e una cognizione scientifica, che è la filosofia stessa, forz' è che v' abbia una Sapienza anteriore alla Filosofia, che può esser posseduta da tutti gli uomini, quantunque illetterati; ed una Sapienza che accompagna la Filosofia, propria de' filosofi che alla verità conosciuta accordano la maniera del vivere e dell' operare, sapienza della prima più luminosa e più sviluppata. Ma dopo di tutto ciò, abbiamo osservato, quanto la cognizione naturale della verità, specialmente quella parte che riguardando gli ultimi destini dell' uomo ha un' importanza unica e incomparabile, rimangasi limitata, oscura, incerta, fallace, senza autorità di persuadere, e però sempre controversa; e come quindi essa non possa collocare un solido e sufficiente fondamento alla morale virtù: indi la necessaria imperfezione dell' umana sapienza. Abbiamo intese le voci della natura e della filosofia, che prima di Cristo, per bocca di Platone, domandava che venisse Dio stesso a disciogliere gli enimmi, da cui l' uomo, anche il più dotto, vedevasi circondato e confuso, e ad ammaestrare con certezza tutti i mortali sulle più importanti e necessarie questioni, disperati di trovarne mai il vero ed il certo, se non dalla bocca di un tal maestro. E dicemmo che Iddio, il quale avea già troppo innanzi veduto il bisogno, udito il voto della sua creatura, si degnò discendere in forma di maestro nel mezzo degli uomini, uomo anch' egli. Fece assai più di tutto quello che l' uomo avea saputo bramare o concepire: non operò secondo la misura dell' uomo, ma secondo la sublime via a lui tracciata da' suoi infiniti ed ininvestigabili attributi. In tutto quello che fece, vinse l' umana previsione coll' opera, col modo, coll' effetto: non si contentò di comunicare all' uomo la scienza , s' incarnò egli medesimo, eterna sapienza , vinse l' umana perversità e l' umana limitazione, che impediva all' uomo la compiuta sapienza: la vinse con quell' atto appunto di sapienza, col quale si lasciò uccidere, e col quale redense il genere umano, e lo incorporò seco, gli diede per vivere della sua propria vita, e per luce della sua propria luce: invitando gli uomini tutti al gran banchetto da lui loro imbandito di nuova ed inescogitabil sapienza, e pascendo quanti tennero il suo generosissimo invito di se medesimo. Platone, come abbiamo veduto, osservava, che chi ama una data cosa, l' ama tutta e dovunque ella sia, e se n' esclude dal suo amore una parte o l' ama in un luogo e non in un altro, non dice più il vero quando dice d' amarla. Onde anche la sapienza o si ama in ogni sua parte e dovunque si ricerca, o non è vero che s' ami. Che converrà dire di coloro, i quali, senza alcun serio esame, anzi disdegnando d' applicarsi allo studio di quanto insegna il Cristianesimo, in cui milioni d' uomini in tutti i secoli asseriscono contenersi una sapienza perfetta insegnata da Dio, limitano il proprio amore e studio a quella qualsiasi natural scienza o sapienza, la quale tostochè tocca il suo più alto punto e non mentisce, si confessa povera ed impotente? Diranno costoro il vero quando si dicono filosofi nel senso d' amatori e cercatori della sapienza? Chi n' è amatore veramente, l' ama tanto più, quant' ella apre e scuopre una maggiore e più eccellente parte di sè; chi n' è vero cercatore, la cerca per tutto e dove la trova, l' abbraccia; ma chi l' ama solo a condizione d' attignerla ad un torbido rigagnolo, e l' odia poi o non la cura nel limpidissimo e copiosissimo suo fonte, costui nè la cerca veramente, nè l' ama. Che se fu lodata la sentenza di Bione, il quale paragonava coloro che, postergata la Filosofia, s' applicavano all' altre scienze, agl' innamorati di Penelope, i quali repulsi dall' eroina sposavano le sue ancelle (1); dopo che nel mondo s' introdusse la Sapienza insegnata da Dio stesso tanto più eccellente della Filosofia, si dovette mutare la similitudine, e trovarne una nuova, riconoscendosi nella serva egiziana d' Abramo Agar il simbolo della Filosofia, e nella sua padrona Sara quello della cristiana Sapienza (2). Che se la serva insolentisce, Abramo la concede in balìa di Sara, ed anco giustamente la licenzia di casa sua. Ignobile cosa è dunque al contrario, per amor della serva a dimettere la padrona, dalla quale sola può nascere la prole della promessa. Nè dovrà mai dirsi amatore della Sapienza colui, che ama solamente quella disciplina che alla Sapienza è serva, e con questa, che spesso s' erige ed insuperbisce contro la sua padrona, adulterando, questa con gran viltà e bassezza d' animo trascura e dispregia. Questi opuscoli filosoficŒ sono stati scritti in diversi tempi e in diverse circostanze ne' momenti avanzati all' Autore dalle altre sue occupazioni. Non si può dunque esigere fra essi una rigorosa connessione, giacchè non furono lavorati sopra alcun disegno generale. Tuttavia sono essi privi al tutto d' una relazione che dia loro qualche unità? Non già; ella v' è: l' Autore non ve l' ha messa, ma ve l' ha trovata; e crede utile il farla osservare anche a' suoi leggitori. Si può dire che i primi quattro Saggi, i quali formano il primo Volume, riguardano tutti la divina Providenza, sebbene non sia ciò indicato dal loro titolo: questa almeno è l' idea dominante in essi, e quella intorno a cui si raggirano, come intorno a loro centro, tutte le altre. Nel primo Saggio si presenta l' uomo applicato al meditare, che dal vedere afflitti talora i buoni ed i pravi rallegrati, tituba quasi nella fede della divina Providenza circa la distribuzione de' beni e de' mali su questa terra: ma diffidando di se stesso, prima di passare ad una vera dubitazione, si fa ad esaminare le forze della propria intelligenza; a riconoscerne i limiti; e a considerare le strade diritte e sicure che il possono condurre alla verità in una ricerca sì spinosa e sì rilevante: le quali strade egli riconosce esser due; l' una più breve e più certa della Rivelazione; l' altra più lunga ed incerta della Ragione, la qual però rendesi luminosa e certa anch' essa, se dal lume rivelato venga irraggiata. Nel Saggio seguente l' uomo si mette in cammino per queste vie, non meno per quella della Rivelazione, che della Ragione; e discuopre, che la divina Sapienza doveva seguire nella dispensazione de' beni e de' mali terreni certe Leggi sublimi, che sfuggono al corto vedere della maggior parte degli uomini, ma che, dov' elle sono vedute, arrecano la più gran pace alla mente che prima titubava per la propria ignoranza, e temeva non forse mancasse un ordine degno di Dio nell' ampio governo del fisico e del morale universo. La Providenza comparisce nel terzo Saggio come quella che avendo educato l' umanità con un fine costante ed infinitamente sublime, e avendo a quest' unico fine tutti gli avvenimenti del mondo o sieno piccioli o sieno grandi preordinati e diretti, si è fatta esemplare, da cui ricopiar devono i pastori de' popoli, i principi delle nazioni, e tutti quelli che influiscono sull' educazione degli uomini, e che Dio chiama a parte della grande sua impresa di realizzare il sistema da lui disegnato ab eterno, e nella creazione cominciato (1). Dopo aver considerata la Providenza come l' esemplare della educazione umana, trapassa nel quarto Saggio (2) a contemplare l' opera della Providenza, cioè l' università di tutte le cose colle loro leggi e nell' immenso loro corso da quelle regolato, come il subbietto generale delle belle arti , quando queste sieno sollevate da terra mediante genŒ possenti e cristiani, e sieno chiamate a diffondere la virtù e la pace fra gli uomini, e la gloria intorno al trono dell' Altissimo. Queste belle arti riformate e battezzate per così dire anch' esse nelle acque della salute, depongono le ultime loro spoglie idolatre al piè della croce: e mutano la falsità nella verità, le passioni turbolente negli affetti celesti, l' ipocrisia nella virtù, e le favole mitologiche ne' grandi misterŒ della fede, dalla cui profonda oscurità tutte emanano le ragioni delle cose create. Egli è rivolto il quinto Saggio (1), col quale comincia il secondo Volume, e che s' intitola « Della Speranza , » a dimostrare le agitazioni del cuore umano, quando rifuggendo dalla patente luce del Cristianesimo, ritorna solitario indietro sui passi già fatti dall' uman genere, e si costituisce isolato fra nazioni pagane, s' abbandona alle loro illusioni, come alle loro abbominazioni: egli percorre tutta la serie degl' inganni; e finalmente cerca orribilmente la requie non mai trovata nell' inganno stesso, che perpetuamente rinasce e perpetuamente svanisce. Infelice! rinunziando alla verità egli avrebbe distrutto se stesso, se non dovesse sopravvivere per iscontrare un debito infinito che ha contratto colla medesima! Ma le illusioni che cominciano all' uomo quel corso che sempre più accelerando, lo precipita finalmente nel sistema omicida del rinascente inganno della Speranza, si nutrono coll' abuso delle cose esterne, ed il seguente Opuscolo si rivolge appunto ad additare i danni del lusso e della moda (2): di quel lusso nella proscrizione del quale l' Evangelio immutabile, che veniva poco fa contraddetto da una Economia politica poco avanzata, ricevette testimonianza dalla stessa scienza economica tosto che si perfezionò: testimonianza dico che conferma il detto di un uomo non parziale della religione « che il cristianesimo il quale sembra non pensare che alla felicità degli uomini nell' altra vita, fa ancora la loro felicità nella presente ». E giacchè i sofismi sul lusso cercano di sostenersi colla falsa definizione della ricchezza , nell' Opuscolo che succede l' autore parla dell' abuso di questa parola, che può servir d' esempio agli infiniti errori ingenerati dai diversi sensi, che gratuitamente si sogliono alle parole attribuire. Nè meno sono cagione d' errore le false definizioni che le inesatte classificazioni , come appare dall' ultimo Opuscolo rivolto ad additare il modo di distinguere con aggiustatezza i varŒ sistemi filosofici (1), perchè si possa parlare di essi con qualche ragione, e non formare perpetuamente di que' ragionamenti vaghi, che con un gran rombo di parole nulla significano, e riescono solo a partorire vane dispute e interminabili contrasti. E come v' ha qualche relazione naturale fra l' un Saggio e l' altro, così pure non sarà difficile scorgere in tutti uno stesso spirito, e quella formale unità che ricevono gli scritti d' un autore, sebbene d' argomenti varissimi, dall' unità indivisibile della mente, nella quale, quasi in una vasta regione dello spirito, tutte le idee si ritrovano e s' incontrano, e nello incontrarsi o sentono d' amarsi e s' uniscono, o di abborrirsi e si ripellono ed escludono scambievolmente. A me pare che i principŒ che noi abbiamo nello spirito, rassomiglino ad altrettanti centri d' attrazione, intorno a' quali s' aggirano un poco di tempo tutte le idee presentate innanzi alla nostra mente fino che si precipitano in essi e ad essi si rannodano: quelli dunque danno un moto regolare, per così dire, alle idee di qualunque maniera elle sieno, e con ciò queste idee si mettono da se stesse in qualche ordine nella mente fornita di principŒ, talora ben anco senza che l' uomo il voglia o il faccia con deliberazione, se pur esse abbiano il tempo bastevole d' essere attratte da que' centri e di finire il loro moto vorticoso unendosi ne' medesimi. Ma se questo avviene in tutti più o meno gli uomini, senza pure ch' essi se n' accorgano, molto più è necessario che ciò accada in chi non iscrive solo quanto a lui suggerisce l' animo all' istante in cui scrive, ma segue de' principŒ generali precedentemente esaminati, fermati, e resi famigliari. Nè egli sarà difficile che il leggitore scorga per questi Saggi le membra sparse del corpo di una Filosofia dall' autore seguita costantemente. Che se si chiede di che genere ella sia, parmi che si possa descrivere, non già nelle sue parti singole, ma nel suo spirito, con pochi cenni, dicendo ch' essa, in sull' orme di sant' Agostino e di san Tommaso, tutte le sue meditazioni rivolge al gran fine di far tornare indietro lo spirito umano da quella falsa strada, nella quale col peccato si mise, e per la quale, allontanandosi da Dio, centro di tutte le cose ed unità fondamentale onde tutto riceve ordine e perfezione, si divagò nella moltiplicità delle sostanze disordinate, quasi brani di un universo crollato, privi del glutine che tutti univa in un' opera sola maravigliosa. Ma chi volesse avere anche fermato con alcune parole lo stesso spirito e la forma di una simile filosofia, basterà ch' egli ritenga due vocaboli, i quali disegnano i suoi due generali caratteri, atti a farla conoscere e contraddistinguere, e questi sono UNITA`, e TOTALITA`. Nessuna filosofia può giammai pienamente conseguire l' uno di questi due caratteri senza l' altro; chè la piena unità delle cose non si può vedere se non da chi risale al loro gran tutto ; nè si abbraccia giammai il tutto , se non si sono concepiti ancora i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. Ma se pure v' avesse una filosofia a cui convenir paresse uno solo di questi due caratteri, non sarebb' ella ancora tale d' affidarsi al suo lume interamente; giacchè l' unità quando non abbraccia in se stessa le cose tutte, non è che una limitazione arbitraria, un timido ristringimento, una povertà di sapere. Ma dov' anco una filosofia aspiri a comprendere in se stessa tutte le cose, ella non sarà più atta per questo a produrre buon frutto, se le considera staccate dalla unità , ma solo varrà a stancare inutilmente l' umana ragione con un travaglio che la vince senza fortificarla, e che l' annoia senza istruirla. Le cose fisiche si raggiungono alle morali, ed è dall' osservazione di noi stessi , che siamo scorti alla filosofia professata dall' autore. L' uomo non ha che a dare uno sguardo sopra se stesso in un istante di calma dalle passioni, per riconoscere la propria debolezza e la propria naturale dipendenza da un altro essere fuori di lui. Così l' occhio se potesse riflettere sopra di se conoscerebbe d' avere una dipendenza naturale dalla luce, giacchè solo colla luce può fare l' atto pel quale egli fu ottimamente costruito. Come questa dipendenza, che l' uomo può conoscere in sè con tanta facilità, lo conduce a conghietturare almeno l' esistenza di quell' essere da cui essenzialmente dipende; così la propria debolezza ed insufficienza, senza quest' essere, lo conduce a riconoscere, che tutto ciò che di grande e di felice egli può desiderare, si riduce appunto al desiderio che quest' essere esista. Finalmente non saprei meglio accennare la dipendenza dell' uomo da altri esseri, che colle parole d' uno scrittore recente, che così si esprime: [...OMISSIS...] Come tale filosofia è l' interprete della natura, così è pure l' interprete dei voti del cuore umano. Ella medita da una parte di unire gli uomini al Creatore, e da un' altra di unirli fra loro. Se colla prima sua cura si fa ministra di pace e di felicità ad ogni individuo; la seconda sua cura è di spargere l' amore fra gli uomini; un amore pieno e profondo; un amore universale e permanente, perchè ha per guida la verità, e per fine la virtù. L' amore che non nasce dalla verità delle cose non è che parziale, e finisce coll' odio; e quello che non mira di condurre gli uomini alla virtù non è che momentaneo. Solo dunque quella filosofia che abbia per caratteri l' unità e la totalità delle cose è la madre di una vera benevolenza, perchè que' due caratteri sono la virtù e la verità! Parve all' autore che una tale teoria fosse quella dell' Evangelio, e che la pratica della medesima fosse l' opera della divina Providenza tendente a far di tutti gli uomini un cuor solo, ed un' anima sola; e di tutta la terra un solo ovile con un solo pastore. Dopo di ciò non sarà maraviglia se l' autore con quella sincerità e con quella gioia che all' uomo cristiano apporta la coscienza d' appartenere alla Chiesa universale che diverrà sempre più quest' ovile, e d' essere sottomesso al suo capo che diverrà vie più questo pastore, sottoponga quanto ha scritto in quest' opera ed in tutte quelle che ha precedentemente pubblicate, al giudicio supremo della santa romana Chiesa. Egli gode di ripetere ciò che altra volta ha stampato « ch' egli non riconosce altra gloria più bella che di professarsi a questa gran madre figliuolo ubbidiente e devoto; e che non credendo di potersi a pieno assicurare del proprio giudizio individuale, revoca già e condanna precedentemente quanto mai fosse per riprovare nella medesima il Sommo Pontefice, il maestro ed il giudice inappellabile costituito da Gesù Cristo, acciocchè tutti gli uomini sulla terra possano con ogni sicurezza ed in qualunque tempo distinguere nella Fede la verità dall' errore, e nella vita il bene dal male. » Questa egli crede che sia la tessera della grande fratellanza de' battezzati. Guai a coloro che seminando l' odio fra gli uomini, raccolgono la discordia e la distruzione! che ricusano di far parte con quelli, che sentendosi nati all' amore, fabbricano la casa comune in sulla pietra, e vi si riposano nella pace e nella unità! Nel Volume presente si contengono due Opuscoli sopra i promessi. Essi non prendono a trattare direttamente nessun nuovo punto di filosofia, ma sono più tosto indirizzati a sgombrare la via dagli ostacoli che si frappongono agli avanzamenti della vera filosofia. Uno di questi ostacoli, e non certo il meno dannoso, è la disacconcia maniera colla quale gli uomini dedicati allo studio talora comunicano insieme i pensieri e le diverse loro opinioni. Questa maniera vorrebbe pur essere serena e tranquilla, quale è necessario di conservare la mente e l' animo, acciocchè sieno idonei alla verità; ma in quella vece è bene spesso commossa, azzuffata e turbolenta; e in molte scritture che si pubblicano presso di noi di letterarie controversie, egli par di vedere anzi le idee sollevate in tumulto a difesa dello scrittore o a rovina dell' avversario, che lo scrittore stesso sorto alla propugnazione delle idee salutari e della verità. E a tor via un vizio così nocevole ai progressi del vero, a torlo via massimamente dalla italiana letteratura, che dovrebb' essere essenzialmente sincera, e gentile, tende uno dei due Opuscoli aggiunti, intitolato: « Galateo de' Letterati . » L' altro, che ha per titolo: « Breve esposizione della filosofia di Melchiorre Gioja (1), » procaccia di mostrare in tutta la sua nudità ed abbiezione la filosofia di Elvezio riprodotta sgraziatamente in veste italiana da tale, che se avesse, in vece di copiar servilmente il male dagli stranieri, ricercata liberamente col suo ingegno la verità, non avrebbe giammai prescelto d' estinguere, quant' era da lui, nell' uomo l' intelligenza riducendola alla sensazione, e la morale rivocandola tutta al piacere. Come tutto ciò che può render nobile la filosofia teoretica, si è la distinzione dell' idea dalla sensazione; così non v' ha nulla nella filosofia morale di elevato e di sublime, che non discenda dalla distinzione fondamentale fra una legge che obbliga, ed una semplice inclinazione che alletta. Se non v' ha nulla nell' umano intelletto che differisca essenzialmente dalla sensazione, non v' ha nè pur nulla che costituisca una differenza essenziale dell' uomo da' bruti; e se non v' ha altra legge morale che l' inclinazione a ciò che è piacevole, è tolto via con questo ogni diritto , e non esiste che un fatto . Una tale filosofia distrugge dunque l' umanità , e non lascia per oggetto della filosofica investigazione che l' animale: ella è dunque falsa, perchè manca di uno de' due caratteri che distinguono la vera filosofia, cioè di quello della TOTALITA`. Ma il carattere della TOTALITA`, com' abbiamo osservato, è congiunto essenzialmente coll' altro della UNITA`; e non può avervi nè pur questo in una dottrina filosofica che si trovi priva di quello. Perciò una materiale filosofia non può congiungere le sue parti ad unità, appunto perchè ciò che rigetta dello scibile umano, ciò che ella non vede, sono « i più intimi, cioè, gli spirituali legami delle cose, che dall' immenso loro numero ne fanno riuscire mirabilmente una sola. » In fatti, riducendo essa alla sensazione corporea tutto ciò che è nello spirito umano, non le resta ad oggetto del suo sapere (benchè, a parlare con coerenza, questo stesso sarebbe impossibile), che la materia, o, per meglio dire, i puri accidenti della materia: e la materia è subbietto di divisione indefinita, e non può somministrare alla mente alcuna nozione di vera unità: gli accidenti perdono anche quella unità che aver potrebbero, ove vengano divisi dal subbietto nel quale esistono, o, per parlare più accuratamente, del quale formano il modo d' esistere (1). Solo lo spirito è il fonte della unità; e solo le essenze che allo spirito risplendono, sono quei legami intimi e spirituali che unizzano, per così dire, le cose, le essenze ond' aver possiamo un subbietto unico, indivisibile, e onde la materia stessa, che di natura sua indefinitamente si moltiplica e sperde, veste una forma semplice e costante, e rendesi idonea a farsi oggetto de' nostri intellettuali concetti e de' nostri ragionamenti. Quindi nella filosofia della sensazione (1) una contraddizione interna ed una pugna continua con se medesima; poichè mentre l' intelletto non può veder nulla se non semplificato nella unità, il filosofo della sensazione all' incontro fa tutti gli sforzi, col suo intelletto medesimo, a persuadervi che non esiste cosa alcuna che sia veramente semplice ed una, s' assottiglia per dimostrarvi di non veder ciò ch' egli vede, e per riuscire a sciogliervi le idee astratte in altrettante collezioni d' individui , e a spezzarvi le idee d' individui in replicate sensazioni . Nè la parte morale della filosofia che tocchiamo, è meno priva de' due caratteri che contraddistinguono una dottrina vera e accomodata a' bisogni della umanità: perocchè essa non può aver quello della TOTALITA` cominciando da una esclusione , cioè escludendo fino la vera idea della obbligazione, e non può aver quello della UNITA` stabilendo una regola della vita variabile, siccom' è il piacere, a seconda de' tempi, de' luoghi, delle abitudini e di accidenti innumerevoli, in una parola de' capricci e degli appetiti umani. E pur sembrerebbe che una filosofia, acciocchè dovesse essere dichiarata falsa e rigettata, bastasse l' averla dimostrata priva di due caratteri essenziali così patenti; e non rimanesse più dubbio in sul danno di lei, dopo aver conosciuto ch' essa da un lato è parziale , cioè tendente ad escludere una parte dell' umano sapere, e conduce all' idiotismo , e fino alla distruzione delle cose , se l' esistenza di queste fosse all' umana ragione abbandonata; e che dall' altro è priva essenzialmente di unità , giacchè non lascia che il senso e distrugge la mente , ed « « è solo colla mente, » come dice S. Agostino, «che si percepisce l' unità »(2). » Similmente pareva, che io non avessi dovuto trovare contraddizione affermando che una vera filosofia doveva essere imparziale , doveva amar tutto e odiar nulla , doveva abbracciare, quanto era da sè, in se medesima tutti gli enti ch' ella potesse conoscere, e tutte le idee che trovasse vere, senza prevenzioni e senza avversioni; e che quando non avesse rifiutato nulla della verità, allora essa sarebbe penetrata fino ne' più intimi e spirituali vincoli delle cose, e mediante questi sarebbe salita ad una sublime unità, per la quale solo le cose sono possibili, giacchè, per citar di nuovo uno de' due lumi che ho segnato per mia guida, « « essere non è altra cosa che essere uno »(1). » Ma non piacque altrui che io predicassi questa dottrina, che è la dottrina dell' amore ; e che altamente, quanto io sapevo, gridassi, che il bisogno presente ed urgente in questo miserabile stato della umanità, era quello di cooperare perchè « « si conducesse l' uomo ad assomigliare il suo spirito all' ordine delle cose fuori di lui, e non ostinarsi a tentar di conformar le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo »(2) » Nel che io non trovo d' avere peccato, se non forse in una cosa, che in vece di dire la filosofia fornita de' due caratteri summentovati esser quella che io avea tolto a seguire, avrei potuto dire assai meglio, esser quella a cui tende ed anela tutto il secolo nostro, che sembra affaticato e contendente a tornare indietro dalla falsa strada, per la quale correva abbandonato il secolo precedente, e fuggiva, quasi direi, dalla eccellenza della umana natura per rannicchiarsi e racchiudersi tutto nel senso del corpo « « che ignora Iddio »(3). » Perocchè a quelle sentenze che io scriveva nel primo Volume degli Opuscoli, e che provenivano dal desiderio, sebben fornito di poco potere, d' una universale ed immobil sapienza, concordavano i sentimenti di tutti i buoni; tocchi intimamente da tanti mali, e pensosi sui grandi bisogni della umanità. Io predicava TOTALITA` ed UNITA` nell' « Educazione: » e mentre io affermava trovarsi un' educazione fornita di tali caratteri risalendo al modello che Iddio ci presentava nella sua Providenza, la quale non era altro finalmente che una educazione data all' intera umanità (4); altrove assumevasi il concetto medesimo per farlo servire di base appunto ad un' opera rivolta alla riforma della educazione, opera che in Francia si coronava, ed in essa scrivevasi: « « L' opera del perfezionamento consiste per l' uomo nell' imitare il piano della Providenza nel complesso della creazione, e nel compirlo in se medesimo »(1). » Io riprovavo la dottrina de' sofisti, che limitava la coltura umana alle relazioni dell' uomo colla società (2), e lo aggravava d' un fardello di cognizioni positive tanto più pesante, quant' erano staccate fra loro; nè queste si pregiavano nell' armonia che dovea risultare dal lor complesso, ma ciascuna a parte, e per se medesima; e non era io solo che così pensavo, ma altrove pure si riconosceva il medesimo vero; chè forza a conoscerlo l' esperienza di un decadimento precipitoso, sofferto dall' umanità sotto l' educazione materiale de' sofisti, cioè sotto un' educazione parziale e priva di scopo; e così si diceva [...OMISSIS...] Io volevo TOTALITA` ed UNITA` nella enciclopedia delle scienze; e in vece d' un immenso campo sparso di scientifiche ruine, dicevo conforme allo spirito del Cristianesimo il pensiero di Bacone, che mirando nell' opera della divina Providenza, scrivea dell' unione delle scienze: « « Noi meditiamo di fondare nell' intelletto umano un sacro Tempio, il quale rappresenti ed esprima il Mondo »(5). » Questo che io dicevo, e il lamento che io facevo contro a' sofisti de' nostri tempi, i quali ostentando una falsa modestia (1), affermavano che l' uomo non può conoscere quegl' « intimi e spirituali vincoli delle cose », da' quali solo viene alla scienza una certa TOTALITA` ed UNITA`, e senza i quali l' uomo non si appaga della verità, ma cerca di diffondersi nella finzione e fino nella distruzione, è il fatto che si riconosce e si deplora; e anche fuori d' Italia si descrivono gli sforzi de' sofisti per impiccolire la verità. [...OMISSIS...] Come questo fatto non è da me solo veduto, così è veduto parimente quell' altro, che, all' opposto de' sofisti che cercano impoverire il sapere umano e introdurre la guerra delle scienze fisiche a distruzione delle morali, la religione cristiana nel tempo che tutte promuove le scienze, infonde altresì in esse il principio della pace e della UNITA` (2). [...OMISSIS...] Io chiedevo oltre a ciò TOTALITA` ed UNITA` nelle belle arti, e massimamente nella poesia: a tal fine io richiamavo questa a' suoi principŒ, perchè non vagasse più a caso a intrecciar fiori che le appassiscono in mano, ma si rendesse maestra insieme e sollievo di una vita intelligente e affaticata; e trovavo, i principŒ di essa essere stati la meditazione nella divina Providenza, della quale questo universo è un gioco sublime; e questo mio voto, questo mio sentimento si ritrovava poco fa vero, e si ripeteva presso di noi, così favellandosi del padre della greca poesia: [...OMISSIS...] Il poeta e l' artista, che s' innalza alla contemplazione della Providenza nelle opere della natura o ne' fatti degli uomini che egli esprime, in pari tempo ch' egli sublima i suoi concetti, perchè raggiunge la parte col TUTTO (3) e non resta nulla di piccolo o di lieve momento a lui che considera anche ciò che è piccolo per se stesso in una necessaria relazione con ciò che è grande; raccoglie ancora ogni moltiplice varietà in un ordine, in UNA cosa sola; conciossiachè egli ravvisa in checchè avvenga ed in checchè esista, l' opera di un solo autore, un solo disegno, una sola mente immensamente benefica, savia e potente. L' unità trovasi nell' uomo della natura: questi non è ancora diviso e sparso in infiniti oggetti e relazioni parziali; e l' ordine delle sue potenze, che conserva in se medesimo, lo rende atto a sentir l' ordine delle cose esteriori, ed a sollevarsi immediatamente e quasi d' un semplice volo alla prima causa: ma quest' uomo, in uno stato quasi individuale, è abbandonato a se stesso, e soggetto alle illusioni sensibili; dietro a quelle poi si spezza, si moltiplica, si disordina: indi il severo senno ne' primi artisti, e il progresso d' una crescente mollezza ne' posteriori (1). Ma intanto che l' individuo si corrompe, e che la poesia e le arti del bello da un grave carattere e da una elevatezza onde abbracciano l' universalità delle cose, discendono ad affezioni più singolari e arbitrarie, a sensi più minuti e più attenuati (2); i progressi più lenti della società umana (3), ma più costanti, riparano incessantemente alla corruzione individuale, e mentre questa ha percorso forse più volte il suo intero periodo, quella d' un passo uguale procede, senza ritorno, senza che niente valga a metterle intoppo, là dove la guida, sarei per dire, dall' alto cielo un infallibile auriga, cioè ad una meta ch' egli le ha fermato seco medesimo, e che non manifesta ai mortali se non coll' evento (1). Si trovano dunque due contrarŒ andamenti nelle belle arti, rappresentatrici dello stato dell' umanità: l' andamento dell' individuo inclinato a scadere dal totale al parziale, e l' andamento della società che continuamente si estende e si ammigliora per opera della Providenza, e mira a rialzar gl' individui nuovamente dal parziale al totale. Quindi ciò che v' ha di integro e di sapiente in Omero, è dovuto all' individuo della natura: e ciò che v' ha di spirituale e di puro in Virgilio, è dovuto ai progressi della società (2). La spiritualità di Virgilio è l' estremo che toccò giammai la società nel Paganesimo, ma è infinitamente lontana da quella a cui tende la società Cristiana: questa è essenzialmente spirituale e perciò essenzialmente universale, mentre quella non potea che manifestare una tendenza a questa, un desiderio dell' umana natura, un inesplicato bisogno. Perciò quando io dicevo, che le arti e la letteratura dovevano anch' esse ne' nostri tempi vestire quella grandezza e quella spiritualità che rende sì magnifica la società de' credenti (3); io non pronunziava una sentenza mia particolare, non facevo che dichiarare ciò che conviene al mio tempo, che essere l' interprete del mio secolo, il quale anche meglio de' precedenti pare che senta intimamente come il governo del Cristianesimo è una cosa stessa col governo che fa dell' Universo la divina Providenza. E se Virgilio, per esser caro alla maggiore società che fosse fino a quel tempo nel mondo stata, e anche ad una migliore, si partiva, quanto poteva il più, ne' suoi versi, da ciò che è basso e corporeo, e « cercava i più intimi cioè gli spirituali legami delle cose »; noi vediamo che oggidì il sentimento umano via più sublime procede, e dimanda una purezza ed una estensione maggiore: e gli uomini non si appagano più tanto del mondo sensibile, ma esso pare che sia raffreddato al loro senso; e per vagheggiare una felicità, devono uscir co' pensieri dalla terra e dalle sfere degli astri, e cercarla nell' interminabile, nell' eterno, nell' assoluto, in quella UNITA` nella quale la TOTALITA` si contiene. La felicità più spirituale che Virgilio potè descrivere sollevandosi su tutte le ignoranze e le cupidigie umane, fu una quiete sicura, un' abbondanza di sostanze, una fuga dalla vita cittadina per riposare fra i greggi e in mezzo ai campi, ove egli diceva avere Giustizia impresso i suoi estremi vestigi quando abbandonava la terra: [...OMISSIS...] Ma inefficaci a soddisfare l' animo dei presenti uomini sono tali beni, e tali amenità della natura fisica: che dico l' animo? la fantasia medesima di questi non ne è saziata: ella stessa aspira a qualche cosa di morale, che la raggiunga ad un mondo invisibile, il quale contenga la spiegazione e il compimento del visibile. La spiritualità della poesia cristiana, dirò anche della poesia del secolo nostro, può sentirsi in questi versi, paragonandoli a quelli soprarrecati di Virgilio: [...OMISSIS...] Egli è quest' alienazione dalla natura materiale, o almeno questo bisogno di avvivar tutto ciò che è corporeo con legami che lo raggiungano a ciò che è spirituale; è quest' ambizione, direi quasi, di mostrarsi alto da terra, che sembra dover caratterizzare il secolo nel quale già siamo avviati, e che lo diparte dal precedente che ha fatto tutti gli sforzi per rendersi materiale, e non ha potuto. Egli non ha potuto che apparir tale; e perchè ogni apparenza è breve, bastò qualche lustro, acciocchè il mondo materiale ed incredulo, si ritrovasse, maravigliando di se medesimo, e spirituale di nuovo e cristiano. [...OMISSIS...] Quando il poeta o l' artista mira la natura e la storia come opera della Provvidenza, allora gli si dissipano innanzi tutte le irregolarità e le deformità che a primo scontro presenta la realtà delle cose. E` solamente considerando le parti nel tutto , che quelle ricevono un ordine ed una bellezza: indi come io predicavo il bisogno della VERITA` nelle arti cristiane, così additavo la via di trovare in essa una perfetta BELLEZZA: e affermavo, gli uomini non aver bisogno d' inventarne una artificiale e falsa, se non quando non sono ancora atti a vedere la reale e la vera nelle opere del Creatore (2). Ma sono io il solo, il primo a proclamare la verità nelle arti, o non è essa una voce fortissima, universale? non è questo il più manifesto bisogno del tempo così insaziabile di udire fatti, di leggere storie? e nel quale si vuole sommettere fino il Romanzo , opera essenzialmente menzognera, alla verità? e non si finirà forse anche coll' escluderlo dalla letteratura interamente? Non voglio dire che non v' abbia alcuno individuo nel nostro tempo, che a questi veri pur faccia mal viso: tutti quelli che si angustiano nelle cose particolari, senza allargarsi a considerar queste con uno sguardo universale, devono rinvenirle povere, a tale da rendere con esse basso lo stile; non possono che lamentarsi « della trista e fredda realtà delle cose (3), » e correre a racconsolarsi in vane creature della propria fantasia; ed uno di questi, un' anima ardente, che sentiva pure il bisogno di ampiezza, ma non avea trovata la via che il rallargasse nella verità, cercava di associare a questa la finzione, sperando di renderla, con tale giunta, più ampia e più bella; e così, non ha molto, scriveva: [...OMISSIS...] Dico che questa non è voce della presente società, ma voce di un individuo che abbandona i suoi contemporanei per retrogredire fra gli adoratori degl' idoli, senza che abbia però forza di strascinar seco gli uomini del suo tempo. Questi sono v“lti indeclinabilmente all' unità primitiva: l' analisi non parte che da una sintesi precedente; e mentre sembra da questa allontanarsi fino che non è ancora perfetta, a quella si avvicina più che acquista di perfezione, ed in quella ritorna e termina intieramente quando alla sua piena perfezione è pervenuta. Quindi l' arte dell' educazione quanto si farà più adulta, tanto più agognerà di ricondur l' uomo incivilito a que' pochi elementi che pose in esso Iddio con una prima rivelazione, quasi semi di un grande sviluppamento: allora le infinite suddivisioni delle scienze racquisteranno quei vincoli già spezzati con esse, che le ritornino ad una scienza unica, a quella unità di sapere che tanto era cara ai primi sapienti (3): e le arti del bello, queste lingue degli affetti, tenderanno via più ad un amore compiuto, da nessun odio limitato, ad un amore degno dell' uomo perchè figliuolo della verità, e che si sente profondo nei primi poeti (1). Finalmente io dicevo che l' UNITA` delle idee conduce all' UNIONE delle persone, e che la TOTALITA` di quelle può solo congregar queste in una SOCIETA` UNIVERSALE: che se la formazione di tale società travalica le forze degli uomini abbandonati a se stessi, essa non è superiore alle forze di Dio: che onde vien la sapienza, cioè la scienza completa (2), indi viene ancora la CATTOLICA UNITA`: e che quegli potè comandare l' AMORE DEL PROSSIMO, che potè rivelare la VERITA` (3). Ma tutto questo non fui io solo a dirlo; mentre da mille parti si ripetono i veri compresi nelle seguenti non mie parole (1) [...OMISSIS...] La filosofia è la scienza delle ragioni ultime. Le ragioni ultime sono le risposte soddisfacenti che l' uomo dà agli ultimi perchè , coi quali la sua mente interroga se stessa. Vi ha due classi di ragioni ultime: le ragioni di tutto lo scibile, e le ragioni ultime di qualche parte speciale dello scibile. Le ragioni ultime di tutto lo scibile sono le sole veramente ultime, e però costituiscono lo scopo della filosofia generale . Le ragioni ultime di certe determinate parti dello scibile non sono ultime, se non rispetto a tali determinate parti, e costituiscono lo scopo delle filosofie speciali delle singole scienze: la filosofia delle matematiche, la filosofia della fisica, la filosofia della storia, la filosofia della politica, la filosofia dell' arte ecc.. L' uomo che si mette in cammino per investigare le ragioni ultime e soddisfare ai perchè, interrogazioni spontanee della sua mente, non può che cominciare dal riconoscere lo stato delle sue cognizioni e delle sue persuasioni, e quindi muovere all' opera di renderle compiute, a tale che soddisfacciano al bisogno dell' intelligenza, che non si appaga se non rendendosi ragione di tutto ciò che sa; se non rendendosene una ragione così evidente che non abbia bisogno di un' altra, ma ella stessa sia quella, in cui la mente trovi sua quiete. La quiete della mente di cui qui si parla non è che una quiete scientifica , una quiete ottenuta per via di scienza, la quiete che risponde al perchè, col quale interroga se stessa la mente inquisitrice. Ma non è a credersi, che la mente rivolga sempre a se stessa tali interrogazioni: molti uomini non se la fanno; o se ne fanno alcune, ma non tutte quelle che si potrebbero fare. La mente che non interroga se stessa, è quieta, e la mente che interroga se stessa fino a un certo segno e non più in là, è parimenti quieta e tranquilla; tostochè ella ha trovata la risposta a quel limitato numero d' interrogazioni, quantunque non sia pervenuta alle ragioni ultime, delle quali non ha bisogno a conseguire tranquillità. Quindi la scienza delle ragioni ultime, cioè la filosofia, non è necessaria alla quiete delle menti del maggior numero degli uomini, i quali s' appagano mediante una cognizione più limitata. Questa cognizione non ancor filosofica può essere vera e certa e quindi atta a produrre nell' uomo una ragionevolissima persuasione. Ma dato prima un uomo in possesso di persuasioni ferme e certe, senza che egli ancor senta il bisogno d' investigare le ragioni ultime di esse, può in appresso sorgere nella sua mente l' interrogazione degli ultimi perchè. Sarà egli allora inquieto, o in istato d' incertezza, fino che non ha trovate le bramate risposte? Convien qui distinguere fra il riposo della mente e il riposo dell' animo. Alla prima appartiene il ragionamento , alla seconda la persuasione . Queste sono due facoltà diverse grandemente fra loro. Il ragionamento ha qualche cosa di necessario e, per così dire, fatale; la persuasione ha molto del volontario. Laonde possono essere nell' uomo persuasioni fermissime, quantunque l' uomo non sappia darne a se stesso espressa ragione. Di più, fra le persuasioni di cui l' uomo non sa dare a se stesso ragione, ve n' hanno di cieche e di ragionevoli. Le persuasioni cieche sono così arbitrarie, che non s' appoggiano a ragione alcuna, e sono spesso erronee, ma possono anche per accidente esser vere. Le persuasioni ragionevoli, di cui l' uomo non sa dar ragione a se stesso, sono quelle che s' appoggiano ad una ragione solida, dall' uomo direttamente conosciuta e penetrata in modo che gli produce l' assenso, ma di cui egli non ha coscienza, perchè non sa rivolgere la sua riflessione sopra di essa, epperciò non sa esprimerla nè renderla o a se medesimo o agli altri, se ne lo interrogano. Manca dunque qualche cosa alla mente, al ragionamento di quest' uomo; gli manca lo sviluppo della riflessione; ma egli possiede nondimeno la verità e la ferma persuasione della verità, onde l' animo suo è quieto, e può altresì esser quieta la sua mente, se egli non dia alcuna importanza alle interrogazioni interiori di essa, ond' è come se la mente in tal caso non facesse interrogazione alcuna. Ma la mente, come tale, il ragionamento di quest' uomo considerato come ragionamento, e non in ordine alla persuasione e quiete dell' animo nè al possesso della verità e della certezza, non ha tuttavia soddisfatto a pieno a se medesimo, e in questo senso non ha trovato ancora il suo riposo. La filosofia è quella che conduce a ritrovare questo riposo scientifico della mente. Vi ha dunque una cognizione popolare che può essere sufficiente alle esigenze dell' uomo, e vi ha una cognizione filosofica che soddisfa alle esigenze del ragionamento: questa seconda è l' opera della riflessione , sviluppata fino all' invenzione delle ragioni ultime. Per arrivare a questa l' uomo parte dallo stato intellettivo in cui egli si trova. E la prima interrogazione ch' egli fa a se medesimo si è: « Io credo di conoscere molte cose, ma che cosa è questa mia cognizione? non potrei io ingannarmi? perchè mai non potrebb' essere un' illusione tutto ciò che io credo sapere? » Questa domanda lo conduce all' invenzione dell' Ideologia e della Logica , che sono scienze d' intuizione perchè hanno per loro oggetto le idee. IDEOLOGIA. - L' ideologia si propone d' investigare la natura del sapere umano; e la logica si propone di dimostrare che la natura del sapere umano è tale, che non ammette errore: di maniera che ogni errore è da cercarsi fuori della natura del sapere; l' errore non è sapere. Ecco in qual modo procede l' ideologia. Non si può conoscere la natura del sapere umano, se non si osserva tale qual è. L' osservazione adunque interna , quella che affissa l' attenzione nelle cognizioni nostre per rilevare esattamente che cosa sono, è l' istrumento dell' ideologia, è il metodo da tenersi in questa investigazione. A torto direbbesi, che, non essendosi ancor trovata la veracità dell' osservazione, ella non può esserci una scorta fedele; perocchè noi non adoperiamo a principio l' osservazione come mezzo di dimostrare, ma l' adoperiamo provvisoriamente, come mezzo di stabilire ciò che si dovrà poi dimostrare, quando il risultato dell' osservazione, assunto come una mera apparenza, ci si cangerà in vero e certo, perchè in lui stesso troveremo la prova indubitabile della sua verità e certezza, fino a non esser possibile il contrario. Osserviamo adunque attentamente le cognizioni umane. Queste sono innumerevoli. Volendo esaminarle ad una ad una, l' opera sarebbe infinita. D' altra parte noi non cerchiamo quello in cui esse differiscono l' una dall' altra, ma quello in cui esse convengono. Esse convengono nell' esser tutte cognizioni, e ciò che noi vogliamo osservare e meditare si è appunto la natura della cognizione. Egli è dunque uopo, prima di tutto, cercare ciò che abbiano tutte di comune; giacchè questo elemento comune sarà appunto l' essenza della cognizione. Ridotta e concentrata in questo punto la nostra ricerca, io vedo intanto che, per lo meno rispetto ad un numero grandissimo di cognizioni, si avvera che io non le ho se non mediante un atto, col quale io affermo qualche cosa. A ragion d' esempio, io so d' esistere, io so ch' esistono altri esseri simili a me, io so ch' esistono de' corpi estesi, larghi, lunghi e profondi. Non cerco ora se questo mio sapere m' inganni o no; io intanto so tutto questo e cerco di sapere come lo so. Ora io veggo che io non saprei che esiste un solo ente, se io non dicessi, se non avessi mai detto a me stesso, che quell' ente esiste. Sapere dunque che esiste un ente, e dire o pronunciare meco stesso che esiste, è il medesimo. La mia cognizione adunque degli enti reali non è che un' affermazione interna, un giudizio . Conosciuto questo, non mi rimane che ad analizzare un tale giudizio, ad osservarne l' intima sua costituzione: in tal modo avrò forse fatto un passo avanti nella scoperta della natura della stessa cognizione. Quando io dico meco stesso, che esiste un dato ente qualunque particolare e reale, io non intenderei me stesso, non intenderei ciò che dico, se non sapessi già che cosa è ente, che cosa è entità. La notizia dunque dell' entità in universale debb' essere in me, e precedere tutti quei giudizŒ, coi quali dico che qualche ente particolare e reale esiste. Mediante questa prima considerazione, io rilevo che altro è conoscere che cosa sia ente in universale, e altro è conoscere che esiste un ente particolare e reale. Per conoscere che esiste un ente particolare e reale, io ho bisogno di affermarlo a me stesso, come dicevo: ma per sapere semplicemente che cosa è ente, io non ho bisogno di nessuna affermazione , ma d' un altro atto dello spirito che chiamerò intuizione: questa maniera di conoscere per semplice intuizione è al tutto diversa dall' altra maniera di conoscere per affermazione. Sono due maniere di conoscere innegabili, l' una delle quali, cioè quella per intuizione, precede all' altra, cioè a quella per affermazione. Le cognizioni umane adunque si dividono in due grandi classi: cognizioni per affermazione , e cognizioni per intuizione . L' ordine di queste due classi di cognizioni risulta da ciò che è detto; le cognizioni per affermazione non si possono acquistare se non sono precedute da qualche cognizione per intuizione: queste dunque sono anteriori a quelle. Di nuovo dunque, prima di conoscere un ente particolare e reale si deve conoscere l' ente in universale. Esaminiamo la differenza che passa fra l' ente particolare e reale , e l' ente universale . Fin a tanto che io so soltanto che cosa è ente, non so ancora se un ente particolare o reale esista, ma però conosco che cosa è ente. Conoscere che cosa è ente si traduce in questa frase filosofica: conoscere l' essenza dell' ente . Coll' intuizione adunque si conosce l' essenza dell' ente . Ma se io, oltre conoscere l' essenza dell' ente, affermo anche meco stesso, e quindi so che un ente particolare esiste, che cosa so io allora più di prima? Per bene rispondere a questa domanda, debbo meditare sull' atto della mia affermazione, col quale io mi formo questa nuova cognizione, debbo perscrutare la natura e la ragione di essa. Perchè dunque affermo io che un ente esiste? che m' induce a ciò? che cosa è quest' esistere? Egli è certo, che, se non sempre, almeno molte volte, a pronunciare che un ente esiste, io son condotto da un sentimento . Così io son condotto a pronunciare che esistono i corpi esterni mosso dalle sensazioni che mi producono. Son condotto a pronunciare che esiste il mio proprio corpo dai sentimenti speciali che ho di esso. Finalmente son condotto a pronunciare che esisto io stesso pure da un intimo senso. In tutti questi casi adunque, ciò che mi fa dire che esiste un ente particolare e reale, è il sentimento; di maniera che ogni affermazione, ogni giudizio (ne' casi detti), col quale pronunzio e dico a me stesso che esiste un ente particolare e reale, si riduce a questa formola: vi è un sentimento; dunque esiste un ente . Questa formola merita di essere ben meditata ed analizzata. Intanto ella suppone che fra il sentimento e l' esistenza reale v' abbia un nesso necessario, a tal che non si possa dare sentimento senza che vi sia un ente reale: ella suppone dunque che nel sentimento si riscontri in qualche modo realizzata l' essenza dell' ente, che prima si conosceva solo in universale. Dato dunque uno spirito che prima conosca semplicemente l' essenza dell' ente senza sapere se l' ente esiste; e dato poscia che questo spirito riceva, provi, avverta un sentimento, tosto egli afferma che quell' ente di cui prima conosceva l' essenza, anche esiste. Il sentimento dunque è ciò che costituisce la realità degli enti . Ma qui nascono obbiezioni in folla. Primieramente si affaccia al pensiero, che la cognizione dell' ente che precede l' affermazione di un ente reale, riguarda un ente universale, mentre l' ente che si afferma è particolare. A questo si risponde che l' essenza dell' ente che si conosce non è punto universale, ma che la parola universale , che vi si aggiunge, altro non esprime che il modo col quale la si conosce; onde, quando si afferma che quell' essenza è realizzata, non si afferma già che sia realizzato il modo con cui quella essenza si conosce, ma che sia realizzata lei stessa. Insorgono altre difficoltà su ciò che abbiam detto, l' esistenza reale dell' essere trovarsi nel sentimento: primo perchè noi veggiamo che molti sentimenti si cangiano rimanendo identico l' ente subbietto de' medesimi: secondo, perchè i corpi esterni non hanno sentimento, e pure si affermano e si credono esistenti. Ma è da considerarsi quanto alla prima difficoltà, che il subbietto de' sentimenti che si cangiano, è un sentimento egli stesso, altramente non si conoscerebbe; o per evitare ogni discussione su di ciò, è almeno un principio senziente che si riferisce al sentimento, e che perciò da ogni sentimento non si può scompagnare. Quanto poi ai corpi esterni, non per altro si percepiscono, se non perchè agiscono nel nostro sentimento; onde anch' essi si conoscono unicamente per la relazione che hanno col sentimento, in quantochè sono principii attivi modificatori del sentimento, cadono dunque nel sentimento come agenti in esso. Ogni ente reale adunque a noi cognito per esperienza si riduce finalmente al sentimento, o al principio del sentimento, o a certe virtù che agiscono nel sentimento. Per comprendere tutto in una espressione ed evitare ogni lunga discussione, diremo, che ciò che nella percezione degli enti reali si afferma essere un ente, è sempre un' attività sentita . Or proseguiamo l' analisi dell' affermazione degli enti reali. Affermando noi dunque che l' essenza dell' ente è realizzata in un' attività sentita, noi affermiamo che esiste un ente reale. Conoscere adunque l' esistenza di un ente reale, è il medesimo che affermare una specie d' identità fra l' essenza dell' ente e l' attività che nel sentimento si manifesta. Tuttavia quest' identità non è perfetta; conciossiachè in una data attività sentita o senziente non si esaurisce l' essenza dell' ente: quindi innumerabili sentimenti, che ci fanno affermare l' esistenza di altrettanti enti reali, l' uno diverso dall' altro. Di ciascuno affermiamo che esiste, che è un ente: di ciascuno affermiamo la stessa cosa, in ciascuno riconosciamo l' essenza dell' ente. Riconoscere in ciascuno l' essenza dell' ente, è lo stesso che dire che l' essenza di ciascuno di questi enti che affermiamo, è identica coll' essenza dell' ente che conoscevamo prima: eppure sono tutti enti diversi. Dunque convien dire che, sebbene sieno diversi in altro, abbiano però qualche cosa di comune, e questa cosa di comune è l' essenza dell' ente, perocchè sono tutti enti. Si noti che in tutto ciò noi non facciamo che osservare il fatto della cognizione degli enti reali , ed analizzarlo, senza aggiungervi alcun ragionamento. Intanto, dal sapere che in tutta la realità degli enti reali che noi affermiamo, troviamo realizzata l' essenza dell' ente, possiamo meglio intendere in che senso abbiamo detto che l' essenza dell' ente è universale; è universale perchè è atta a realizzarsi in tanti enti particolari; quindi perchè con essa sola noi conosciamo tutti gli enti reali: questa universalità non è in essa, è una sua relazione cogli enti reali. Ma se gli enti che affermiamo, convengono nell' essere enti, ma poi differiscono in altre cose, queste altre cose in cui differiscono, non sono elleno altrettante entità? Certo, se non fossero entità, non sarebbero al tutto. Dunque l' essenza degli enti si realizza anche nelle differenze degli enti. Anche in queste differenze, in quel modo che sono, si scorge l' identica essenza dell' ente. Or come l' identica essenza dell' ente può riscontrarsi realizzata in tanti enti diversi? e non solo in ciò che questi enti hanno di comune, ma anche in ciò che hanno di proprio? Anche a rispondere a ciò altro non ci può aiutare che l' osservazione, la meditazione della cosa: dobbiamo anche qui vedere come la cosa è: non dobbiamo argomentare a priori com' ella possa o debba essere. Ora quest' osservazione filosofica ci dice, che ogni ente reale ed ogni differenza degli enti reali fra loro è sempre una realizzazione dell' essenza a noi conosciuta dell' ente. L' essenza dell' ente è identica, le sue realizzazioni sono molte e varie. Dunque L' essenza dell' ente ha vari gradi e modi di realizzazione; Nessuno di questi gradi e modi finiti di realizzazione esaurisce l' essenza dell' ente, sicchè ella può essere ancora realizzata in altri gradi e modi, non cerco ora se all' infinito. I gradi e modi diversi in cui si realizza l' essenza dell' ente sono limitati, perchè di questi soli parliamo, e queste limitazioni costituiscono la loro differenza. Ora queste limitazioni che cadono negli enti reali non appartengono già all' essenza dell' ente, che anzi sono non7enti. Quindi l' essenza dell' ente si trova realizzata nei vari enti in quanto sono enti, e non in quanto sono non7enti. Questa realizzazione è limitata, e in quanto è limitata cessa l' identità coll' essenza conosciuta dell' ente. L' essenza dunque dell' ente si realizza più o meno, ma in quanto si realizza, vi ha tutta (non totalmente), poichè ella è semplice e indivisibile, allo stesso modo come l' essenza del vino vi è tutta in una goccia di vino, e tutta egualmente in una gran botte. Ciò vuol dire che abbiamo bisogno di tutta l' essenza dell' ente o del vino per conoscere anche una piccola parte dell' ente reale, per esempio del vino. Dalle quali osservazioni si trae la conseguenza, che la quantità è cosa appartenente alla realizzazione dell' ente e non all' essenza dell' ente; ed è da osservarsi, che alla quantità si dee ricorrere per ispiegare le limitazioni, i modi diversi, i gradi, le differenze degli enti, il numero ecc.; cose tutte non appartenenti all' essenza dell' ente, ma alle leggi della sua realizzazione. Si dirà: Se tutte le cose si conoscono mediante l' essenza dell' ente, come poi si conoscono le accennate proprietà negative che non sono nell' essenza dell' ente? e non vi sono forse idee degli enti particolari, delle loro differenze ecc.? Rispondo, che l' essenza dell' ente è quella stessa che fa conoscere tutte le negazioni, perchè la cognizione di esse non consiste in altro, se non nel sapere che sono il contrario, sono negazioni dell' ente, e la negazione di una cosa si sa tostochè si conosce la cosa che si nega. Per altro è da notarsi, che il linguaggio indica con un segno positivo, con una parola tanto l' ente quanto la negazione dell' ente, e l' uomo dice il nulla, il limite, il modo ecc., come dice pure, l' ente. Di che avviene, che quelle cose si rappresentino alla nostra immaginazione come fossero altrettante entità, benchè non siano. Rispondo dunque, che le idee che hanno per oggetto la negazione dell' ente, altro non sono che l' idea dell' ente stesso; più l' atto di negazione che noi facciamo di esso. Quanto poi alle idee di enti particolari composti tutti di positivo e di negativo, cioè di realizzazione e di limitazione, altro esse non sono se non il rapporto fra l' ente reale (o la memoria che abbiamo di esso) e l' essenza dell' ente; di maniera che l' idea di un cavallo, a ragion d' esempio, non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un cavallo, l' idea di un uomo non è altro se non l' essenza dell' ente in quanto può essere realizzata in un uomo ecc.. Così il fondamento della cognizione di tutti questi esseri è sempre l' essenza dell' ente; le idee dunque degli enti particolari sono sempre l' idea dell' ente considerata in rapporto con un certo dato grado e modo di realizzazione, onde a propriamente parlare, non si dà che una idea sola, la quale alla mente nostra fa conoscere più enti particolari, e così si cangia in altrettanti concetti , diventa i concetti speciali di tutti questi enti. Ma oltre a tutto ciò, si debbono fare alcune altre considerazioni per coglier bene in che consista quest' identità imperfetta, che noi dicevamo riscontrarsi fra le entità da noi sentite, e l' essenza dell' ente da noi intuita. Dicevamo che le limitazioni non entrano in quest' identità. Or una di queste limitazioni è la contingenza delle cose finite. Quindi la contingenza non si riscontra nell' essenza dell' ente. Di che v' ha anzi sotto questo aspetto opposizione fra l' ente contingente e l' essenza dell' ente, la quale è da noi intuita come immutabile e necessaria. Di più: allorquando noi osserviamo l' identità dell' ente reale contingente coll' essenza dell' ente, noi osserviamo questa identità nella nostra percezione e cognizione, non già nell' ente diviso da essa cognizione, o percezione. Di vero, è nell' ente reale conosciuto che questa identità si trova, si forma; ed è anzi mediante la formazione di questa identità che l' attività sentita si percepisce e conosce. In fatti, fino a tanto che l' attività sentita non è identificata coll' essenza dell' ente, ella non è conosciuta, nè percepita; non è ancora un ente percettibile, un oggetto. Coll' atto dunque della percezione si aggiunge all' attività sentita qualche cosa, e così la si rende un ente percettibile, e quest' è appunto l' ente, di cui il sentimento o l' attività sentita contingente non è che un modo imperfetto, non percettibile in separato dall' ente, ma solo nell' ente oggettivo, come meglio dichiareremo più sotto parlando della percezione [92 7 94]. E sebbene in tal modo concorra la mente a costituire l' ente percepito , l' oggetto; non è men vero ciò che percepisce la mente, perchè la mente stessa sa ciò che vi aggiunge e ciò che le è dato: onde sa la cosa com' è. Da quest' analisi della cognizione nostra degli enti reali si spiega perchè gli uomini sono generalmente persuasi di non conoscere il fondo delle cose, ciò che le fa essere. La ragione di tale ignoranza si è, che nelle attività sentite questo fondo manca, e viene dato loro, per così dire, ad imprestito dalla stessa mente che le percepisce. La mente cioè suppone una radice delle cose contingenti, perchè senza di essa non le potrebbe percepire, ma non determina che cosa sia questa radice, perchè non la percepisce. Il mezzo adunque con cui noi conosciamo le cose reali è l' essenza dell' ente; e perciò l' essenza dell' ente, in quant' è mezzo di conoscere, è detta da noi essere ideale . Ma si noti bene che la parola ideale non significa l' essenza dell' ente, ma significa la dote che ha quest' essenza di farci conoscere le cose reali. Onde, quando noi affermiamo che esiste un ente reale, non affermiamo già l' idealità , non affermiamo ch' egli sia ideale, ma affermiamo che egli ha l' essenza di ente. Ma se noi conosciamo le cose reali coll' essenza, come poi conosciamo l' essenza stessa dell' ente? L' osservazione del fatto ci attesta, che la notizia dell' essenza dell' ente è data al nostro spirito prima di ogni altra cognizione; e se noi ne meditiamo la natura, troviamo di più che non può essere altrimenti, che una tale notizia non si può acquistare e formare per mezzo di alcun' altra, finalmente ch' ella è conoscibile per se stessa. E veramente il fatto ci dice, che l' uomo non comincia ad usare le facoltà del suo spirito, se non in occasione delle sensazioni esterne, e che il pensiero dell' uomo comincia dall' accorgersi che esistono de' corpi, che esiste egli stesso, che esiste qualche cosa di reale. Ora questo primo pensiero non è, come abbiam detto, se non una affermazione, è affermare un ente; il che suppone che si conosca innanzi l' essenza dell' ente [14]. Dunque l' essenza dell' ente è nota all' uomo prima di tutti gli atti del suo pensiero: dunque ella non è acquistata cogli atti del pensiero: ma è data precedentemente dall' autore della natura. Di più, supponiamo che l' uomo non sapesse che cosa è ente; egli non potrebbe mai, per quanti piaceri o dolori sentisse, dire che c' è un ente. Non potrebbe riconoscere che la sensazione suppone un ente, perocchè appunto non saprebbe che cosa sia ente: dunque non conoscerebbe nulla, e non conoscendo nulla, non avrebbe alcuna cosa nota che gli facesse la via a conoscere l' essenza dell' ente. Dunque l' essenza dell' ente non può essere conosciuta per mezzo di altra notizia, ma per se stessa: l' essenza dell' ente adunque è conoscibile per sè ed è il mezzo che fa conoscere tutte le altre cose ; ella è dunque il lume della ragione . In questo senso si dice che l' idea dell' ente è innata , e che è quella forma che dà l' intelligenza. Ma questa parola forma abbisogna di essere chiarita, perchè riceve diversi significati. La parola forma si prende a significare « ciò per cui un ente ha un atto suo proprio primitivo, che lo fa essere quello che è ». Così l' essenza dell' essere conoscibile per se stesso si dice forma dell' anima intelligente , perchè ella è ciò che dà all' anima quell' atto pel quale ella è intelligente. Ma dopo di ciò è da osservarsi che due specie di forme si possono distinguere. Ciò che dà il suo atto primitivo ed essenziale ad un essere, quanto alla nozione della mente, è cosa diversa dall' atto stesso; ma talora ciò che dà l' atto essenziale ad un essere, è parte dell' essere stesso, o si confonde collo stesso atto, rimanendo diviso dall' atto solo mentalmente e per via di astrazione; altre volte è cosa diversa realmente dall' atto, e dall' essere che viene informato. Così la forma di una cosa tagliente, per esempio di un coltello, non è che lo stesso taglio o filo del coltello, e appartiene al coltello, non è cosa da lui diversa. All' incontro la forma di un ferro rovente è il fuoco, cosa diversa dal ferro, e ogni qualvolta due enti si mettono in comunicazione, l' uno diventa la forma dell' altro, in quanto agisce ed entra nella sfera di essere dell' altro. Ora in quale dei due sensi l' essere ideale dicesi forma dell' intelligenza? Convien anche qui osservare e meditare il fatto della cosa. Attentamente osservando troveremo che l' essere ideale è forma dello spirito intelligente solo nel secondo significato e non nel primo. E veramente, sebbene noi arriviamo ad intendere che non siamo esseri intelligenti se non in virtù dell' essenza dell' essere che ci sta presente; tuttavia è impossibile che crediamo, che l' essenza dell' essere sia noi stessi, o che ella formi una parte di noi stessi. Trattasi dunque di una forma diversa da noi. Ciò che mette nell' atto d' intendere il nostro spirito è cosa grandemente da noi distinta, benchè sia in noi (sia a noi presente). Ma non basta. Anche presa la parola forma in questo significato, ella non si applica all' essere ideale, se non in un modo tutto suo proprio, in un modo tutto diverso da quello, in cui due esseri reali che esercitano fra loro reciproche azioni, come il fuoco e il ferro, si possono dire l' un forma o materia dell' altro. E` dunque ben da notarsi che il modo nel quale l' essenza dell' essere diviene forma del nostro spirito, non è punto nè poco simile a quella onde un essere reale diventa forma di un altro essere reale per via di azioni e di reazioni. L' essenza dell' essere diventa forma del nostro spirito unicamente col farsi conoscere, col rivelare la sua naturale conoscibilità; quindi dalla parte del nostro spirito non v' ha niuna reazione. Questo non fa che ricevere: il lume, la notizia che riceve, è ciò che lo rende intelligente: l' essenza dell' essere è semplice, inalterabile, immodificabile, non si può confondere o mescolare con altro: così si rivela, nè si può rivelare altramente. Lo spirito che la intuisce e l' atto dell' intuizione rimane fuori di lei. Lo spirito, intuendo lei, non intuisce se stesso. Quindi è che l' essenza dell' ente prende il nome di oggetto , che è quanto dire cosa contrapposta allo spirito intuente, al quale è riserbato il nome di soggetto . Dal che si vede che quando noi diciamo che l' essere ideale è forma dello spirito, usiamo la parola forma in un significato intieramente diverso ed opposto alle forme kantiane; perocchè le forme di Kant sono tutte soggettive, e la nostra è una forma oggettiva, e anzi oggetto per essenza. L' essenza dunque dell' essere col solo rendersi conoscibile allo spirito lo informa per modo da renderlo intelligente, ossia produce la facoltà d' intendere , perocchè ogni atto d' intendere ha sempre per oggetto l' entità. Tutto l' intendere si riduce ad intuire le essenze degli enti, e a pensare l' ente di cui si conosce l' essenza, realizzato in un dato modo, con certi limiti. L' essenza dell' ente fu da noi chiamata essere ideale : le sue realizzazioni enti reali . Se l' ente ideale si considera in relazione alle possibili sue realizzazioni, chiamasi anche ente possibile . La parola possibile non si applica all' ente come una sua propria qualità, ma unicamente per esprimere ch' egli può essere realizzato. Il che è da osservare attentamente, acciocchè forse non si creda che l' essenza dell' ente sia ella stessa una mera possibilità e nulla più. No: ella è una vera essenza, non è una possibilità di essenza; ma questa essenza può essere realizzata; se non è realizzata, è possibile la sua realizzazione: ecco ciò che significa ente possibile. Essendo poi molti gli esseri reali, e ciascuno di essi avendo un rapporto coll' ente possibile, l' ente possibile, considerato solo in rapporto coi diversi enti reali o realizzabili, diviene l' idea o per dir meglio il concetto di essi: quindi si dice che i concetti , le idee, gli enti ideali, gli enti possibili sono molti, perchè appunto sono tanti quanti sono i modi nei quali l' essenza dell' ente si può realizzare. Cerchiamo ora qual sia la relazione fra gli enti ideali e gli enti reali . Dato che io mi abbia l' ente ideale, io conosco l' essenza dell' ente, ma nulla più: non so ancora se quell' ente di cui conosco l' essenza, sia realizzato. Ciò viene a dire che io non ho ancora verun sentimento o almeno non vi rifletto, perocchè se riflettessi d' aver un sentimento, tosto conoscerei una realità. Ma rimossa da me ogni cognizione di ente reale, e supposto che io sappia solo che cosa è l' ente, senza sapere se è realizzato, l' oggetto della mia mente è forse il nulla? No certo; perocchè in tal caso la mia mente non conoscerebbe nulla, laddove pur conosce l' essenza dell' ente. Se in quel caso l' oggetto della mia mente non è il nulla, sono forse quest' oggetto io stesso? Neppure; perocchè io sono un ente reale, e la mia mente, nel caso posto, ha per oggetto solo l' ente ideale senza alcuna realizzazione; senza che io so troppo bene di non essere l' essenza dell' ente in universale; come pure so che l' essenza dell' ente è l' oggetto che intuisco , mentre io sono il soggetto intuente , e fra intuito e intuente vi ha opposizione: dunque l' uno non è l' altro. Convien dunque dire che non essendo un nulla l' essere ideale intuito dalla mente, e non essendo un ente reale vi abbia un' altra maniera di essere oltre quella della realità, e quindi è forza stabilire che i modi dell' essere sono due, il modo dell' essere ideale , e il modo dell' essere reale . Or posciachè l' uno e l' altro è un vero modo di essere, si possono applicare ad entrambi le parole esistere ed esistenza ; laonde per comodità di parlare giova riserbare al solo modo dell' essere reale le parole sussistere, sussistenza . Egli è chiaro che l' essere ideale, in relazione coll' essere reale, prende la natura di disegno, modello, esemplare, tipo, tutte le quali parole altro finalmente non significano se non mezzi di conoscere, conoscibilità dell' ente idea. Ora se gli enti reali sono limitati e contingenti, egli è chiaro che la loro realità è distinta dall' idea, la quale è immutabile e inalterabile, mentre gli enti reali possono essere e non essere. Quindi altra è la cognizione della loro essenza, altra la cognizione della loro sussistenza. Quella si ha coll' idea , questa coll' affermazione in occasione del sentimento (o di qualche segno che tenga luogo del sentimento). Ma la cognizione della sussistenza di un tal ente suppone che si conosca l' essenza dell' ente almeno in universale. Dato dunque il sentimento in un essere che non conosce che cosa è ente, il sentimento rimane cieco ed inintelligibile perchè non ha ancora ricevuta l' essenza [2.] che lo fa conoscere; l' essere che lo avesse, non affermerebbe un ente reale, perchè non potrebbe riferire il sentimento all' essenza, non direbbe a se stesso che cosa quel sentimento è. Tale è la condizion delle bestie fornite di sentimento, ma prive dell' intuizione dell' essere; perciò incapaci d' interpretare a se stesse i propri sentimenti, di completarli, di affermare, di dire a se stesse che vi sono enti reali. L' uomo all' incontro avendo la notizia dell' ente, tostochè prova i sentimenti, dice subito, che vi sono enti reali. Ma poichè il sentimento è una realità distinta dall' essere che lo fa conoscere, rimane a vedere come l' uomo possa congiungere questi due elementi dell' ente percepito. Affine d' intender ciò, convien ricorrere all' unità dell' uomo , alla semplicità dello spirito umano . Quell' io, quel principio stesso che sa che cosa è ente, è quello che ne prova in se stesso l' azione, giacchè il sentimento è un' azione dell' ente. Fin a tanto che quest' azione o questo sentimento si tiene separato dalla notizia dell' ente, esso è incognito, ma il principio semplicissimo intelligente7senziente non permette, per la sua semplicità, che il sentimento e la notizia dell' ente rimangano separati; l' uomo dunque vede l' ente operare in sè , il che è quanto dire produrre il sentimento. E` l' ente stesso identico che da una parte si manifesta all' uomo come conoscibile , dall' altra come attivo producente il sentimento. Nel che si osservi bene che tutta l' attività dell' ente si riduce alla sua entità; in questa si trova come nel suo fonte; è l' ente stesso attivo, e come tutto l' ente è conoscibile, così tutta l' attività sua in lui è conoscibile; dunque anche il sentimento, che è questa attività, è conoscibile nell' ente. Prima che l' ente operi, tale attività è conoscibile solo in potenza, perchè essa non esiste che in potenza; prima che l' ente operi in un determinato modo (producendo il sentimento), esiste in potenza il modo di tale attività, e non è determinato piuttosto un modo che un altro di essa, quindi l' attività potenziale che si conosce è indeterminata; per questo l' essere ideale si dice essere indeterminato . Taluno potrebbe qui fare la seguente obbiezione. Quando l' uomo afferma un ente, fa un giudizio. Ora per fare un giudizio si debbono conoscere i due termini del giudizio, il predicato ed il soggetto. Ma l' uno dei due termini cioè il sentimento, la realità, nel caso nostro, non si conosce. Dunque non si può fare il giudizio, che si suppone. La qual obbiezione chi ben la consideri, non può aver altra forza se non quella di negare l' appellazion di giudizio all' affermazione, colla quale si affermano, ed affermando si conoscono gli enti reali. Ora quand' anco si togliesse con ragione l' appellazione di giudizio alla detta affermazione, questo non distruggerebbe punto la teoria sopra esposta, cavata dall' osservazione; quand' anco adunque l' obbiezione si ammettesse, riman sempre fermo che sapere che un ente sussiste è un dire, un affermare dentro di sè che quell' ente sussiste, e quindi rimane egualmente ferma l' analisi fatta di questa affermazione, e le conseguenze dedottene. Tuttavia per soddisfare in tutto all' obbiettatore, esaminiamo altresì la nuova questione; se l' affermazione interiore con cui noi conosciamo la sussistenza di un ente, si possa chiamare un giudizio . Egli è certo che fino a tanto che i due elementi della detta affermazione, cioè l' essenza dell' ente e l' attività sentita , si considerano separati l' uno dall' altro, essi non presentano i due elementi necessarŒ alla formazione del giudizio, perocchè l' uno di essi è ancora incognito; di che procede l' obbiezione. Ma se questa obbiezione valesse, non si potrebbe ella fare contro ogni altro giudizio? In fatti in ogni giudizio si avvera, che il giudizio non vi è, e non vi può essere, fino a tanto che i termini del giudizio rimangono separati; e che egli non comincia ad essere, se non allora che i due termini sono già fra loro congiunti. Dunque basta, che i due termini sieno atti a formare un giudizio quando sono già uniti, e non importa se prima di unirsi non sieno termini idonei al giudizio. Convien dunque esaminare nel caso nostro se quei termini che prima del giudizio non sono idonei, coll' unirsi divengano tali; il che non è possibile a concepirsi. E questo è appunto ciò che avviene. Ma prima di dimostrarlo, facciamo alcune altre considerazioni. Perchè si dice, che il predicato ed il soggetto non si possono unire in giudizio, se prima entrambi non sono conosciuti? Perchè si suppone, che il principio che gli unisce, sia l' intelligenza, ossia la volontà intelligente, come avviene nella massima parte de' giudizŒ: ed è indubitato che l' intelligenza non unisce due termini, se non a condizione di prima conoscerli. Ma non potrebbe egli essere, che quello che unisce i due termini non fosse l' intelligenza, ma fosse la stessa natura? Questo è appunto quello che avviene nel caso di cui si tratta, perocchè l' essenza dell' ente , e l' attività sentita non vengono già unite dalla nostra intelligenza, ma dalla nostra natura, come abbiam detto: quella unione dipende dall' unità del soggetto e dall' identità dell' essere conoscibile e dell' essere attivo (sentito). Ora, se la natura unisce questi due elementi, resta a vedere se coll' averli uniti, ella gli abbia resi idonei ad esser termini del giudizio. Per veder ciò, convien prendere la formola di un tal giudizio, e analizzarla nei suoi termini, e considerare se questi termini abbiano la detta idoneità. La formola possiamo enunciarla così: L' ente (di cui io ho notizia) è realizzato in questo sentimento (in quest' attività sentita). Pronunziata dentro me quell' affermazione, io già conosco l' ente reale, conosco che cosa è il sentimento, l' attività sentita, conosco cioè che è un ente: l' elemento dunque che mi era incognito prima di conchiudere l' affermazione, mi è cognito tostochè l' affermazione è chiusa. Dunque, sebbene il sentimento prima dell' unione coll' ente ideale mi fosse incognito e però non atto ancora a divenire uno dei termini del giudizio; tosto che la natura lo mise insieme e lo congiunse coll' ente ideale mediante l' affermazione spontanea, egli è divenuto cognito e quindi idoneo ad essere uno dei termini del giudizio. Se noi vogliamo chiamar soggetto il sentimento o sia la realità, s' intenderà la ragione per la quale abbiamo più volte detto che questa primitiva affermazione, questo primitivo giudizio produce il suo proprio soggetto. Dunque l' affermazione di un ente reale merita l' appellazione di giudizio quand' ella è formata e non prima. Ora la riflessione distingue il predicato ed il soggetto in un giudizio qualunque, analizzando il giudizio già formato, perocchè se non fosse formato, non potrebbe analizzarlo e scomporlo. Mediante questa analisi o scomposizione, colla quale si distingue il predicato dal soggetto, si giugne altresì a formare la definizione del giudizio, dicendo che il giudizio è l' unione logica di un predicato con un soggetto . Ora questa definizione è analitica, è l' opera della riflessione sopra l' affermazione. Perciò la qualificazione di giudizio che si dà ad una affermazione qualunque, è una qualificazione posteriore ad essa, non esprime la sua primitiva origine, ma esprime la sua natura quale apparisce all' analisi ed alla riflessione: queste concepiscono l' affermazione al loro modo, con certa modificazione che viene dalle leggi del loro operare; e questa modificazione è ciò che fa acquistare all' affermazione l' appellazion di giudizio. Ciò che qui diciamo si renderà ancor più chiaro, se si considera, che quando la riflessione, analizzando un giudizio qualunque, distingue in esso il predicato ed il soggetto, ella non separa veramente questi due termini d' infra loro, non li disunisce; perocchè disuniti che fossero, essi perderebbero la qualità di predicato e di soggetto, non sarebbero più termini del giudizio, il giudizio stesso sarebbe distrutto. La riflessione dunque non fa che distinguere i due termini, distinguerli mentalmente; ma sempre lasciandoli congiunti nel giudizio formato e conchiuso appieno; perocchè, solo restando così congiunti, si possono dire predicato e soggetto . E veramente, pigliamo a considerare un giudizio qualunque: per esempio: quest' essere che io veggo è un uomo . Che cosa questo giudizio mi fa conoscere? Che questo essere che io veggo è un uomo. Prima che io avessi pronunciato dentro di me un tal giudizio, io non sapevo che questo essere ch' io veggo, fosse un uomo, poichè il saperlo e il dirlo a me stesso è perfettamente il medesimo. Ebbene, ora analizziamo colla riflessione questo giudizio. Quest' essere è il soggetto, e un uomo è il predicato. Mi si dica: se io considerassi da una parte quest' essere , dall' altra l' uomo in separato, senza punto nè poco badare alla loro relazione, saprei io che quest' essere è il soggetto e che l' uomo è il predicato? No certamente, io nol saprei: quest' essere e l' uomo cesserebbero dall' essere i termini di un giudizio, cesserebbero affatto dall' esser predicato e soggetto. Come diventano dunque predicato e soggetto? Per mezzo del giudizio stesso. Il predicato e il soggetto adunque non esistono prima del giudizio; è il giudizio che li forma, e, dopo che il giudizio gli ha formati, la riflessione li trova nel giudizio. Applichiamo il medesimo ragionamento all' affermazione nostra: l' ente è realizzato in questo sentimento , ossia l' attività di questo sentimento è un ente . Analizzandola, dico che il sentimento è il soggetto, l' esistenza è il predicato: lo dico perchè nel giudizio vi è compresa tale notizia, è il giudizio stesso che me la dà. Ma certamente che se io prendo il sentimento fuori del giudizio, e così distruggo il giudizio, il sentimento non è più soggetto, perchè mi è del tutto incognito. L' obbiezione dunque che si fa, benchè speciosa in apparenza, è priva di valore, partendo dal falso supposto, che il soggetto come soggetto debba esistere prima che si faccia il giudizio, mentre anzi è il giudizio stesso che sempre lo produce. L' unica differenza che passa tra l' affermazione con cui si conoscono gli enti reali e gli altri giudizŒ tutti, si è che negli altri giudizŒ il predicato ed il soggetto, benchè prima del giudizio non siano conosciuti come predicato e come soggetto, pure sono conosciuti dalla mente in altro modo; laddove il soggetto sentimento prima dell' affermazione dell' ente reale non è conosciuto in modo alcuno. Ma questa differenza non fa che il giudizio primitivo sia di diversa natura da tutti gli altri giudizŒ; perocchè la cognizione che negli altri giudizŒ si ha di ciò che poscia diventa soggetto, non è già quella che produce la cognizione che ci apporta il giudizio, anzi su questa cognizione che ci dà il giudizio, niente affatto influisce. Mi spiegherò coll' esempio. Quando io giudico che l' ente che veggo è un uomo, qual è la cognizione che mi apporta questo giudizio? Ella è, che sia un uomo l' ente che veggo. Prima di giudicare mi è dunque affatto incognito che l' ente che veggo, sia un uomo. L' ente che veggo, non lo conosco affatto come uomo; lo conosco come ente veduto. Ora il conoscerlo semplicemente come ente veduto non ha a far niente col conoscerlo siccome uomo: di maniera che io potrei conoscerlo come ente veduto per migliaia d' anni senza mai conoscerlo come uomo: e così avverrebbe, poniamo, se io non avessi alcuna notizia dell' uomo. L' ente dunque da me veduto, benchè cognito sotto un aspetto, è cosa per me affatto incognita prima del giudizio relativamente al predicato uomo ; e però in ogni giudizio avviene che il soggetto come tale, cioè in relazione al predicato, sia incognito prima della formazion del giudizio: l' effetto di ogni giudizio è sempre quello di rendermi cognito ciò che è incognito: il soggetto dunque del giudizio come tale è sempre un incognito che si dee render cognito. Ma nell' affermazione degli enti reali la cognizione che si vuole acquistare, è la primitiva, innanzi alla quale non ve ne può essere un' altra. Quindi in questo giudizio accade che il soggetto considerato prima di formare il giudizio stesso, sia incognito non solo come soggetto e in relazione al predicato, ma ben anco sotto ogni altro rispetto, sia incognito del tutto; perocchè se in qualche modo si conoscesse, già non sarebbe più vero che la cognizione degli enti reali, che s' acquista coll' affermarli, fosse la prima di tutte le cognizioni reali, giacchè precederebbe ad essa quella certa cognizione di ciò che diviene poscia soggetto. Se dunque è vero che ogni giudizio produce una cognizione che prima in noi non era, e se è vero che le cognizioni discendono l' una dall' altra di maniera, che, riascendendo per la scala di esse, se ne dee trovare una prima, la quale non può essere altro che l' affermazione dell' esistenza, necessariamente consegue: 1 che i soggetti di tutti i giudizŒ sono sempre incogniti come soggetti, cioè in relazione al predicato, prima che sia formato il giudizio: 2 che, sebbene prima che sia formato il giudizio, i detti soggetti sieno incogniti come tali, tuttavia si può conoscere di essi qualche altra cosa: 3 che quest' altra cosa che si conosce di essi, è stata conosciuta anch' essa con un giudizio precedente: 4 che risalendo così al primo di tutti i giudizŒ, egli dee avere necessariamente un soggetto, di cui, prima di esso giudizio, non si conosceva nulla affatto, giacchè mancava un giudizio precedente che ce n' avesse potuto dare qualche notizia: 5 che il primo di tutti i giudizŒ è quello con cui conosciamo che esiste qualche ente reale; giacchè tutto ciò che possiamo mai conoscere di un ente reale, suppone sempre che noi prima conosciamo che egli esista: 6 che dunque l' affermazione prima dee formare un soggetto, che prima di essa sia affatto incognito per una legge comune a tutti i giudizŒ. Attesa questa proprietà dell' affermazione degli enti reali, noi abbiamo dato a questo giudizio il nome di sintesi primitiva , e la facoltà dello spirito umano che la forma, l' abbiamo chiamata ragione , la quale è quella forza unica dello spirito che unisce insieme l' essere e il sentimento, e poscia vi usa sopra la riflessione. Noi abbiamo detto che nella sintesi primitiva si può considerare il sentimento come soggetto e l' esistenza come predicato. Non di meno si potrebbe anche dire il contrario considerandosi l' essenza dell' essere come soggetto e la sua realizzazione come predicato. La ragione di questa convertibilità del soggetto e del predicato nella sintesi primitiva si è, perchè ella è un giudizio d' identità [23 7 2.], nel quale si fa un' equazione fra il sentimento e l' essenza dell' essere, mediante l' idea (la conoscibilità di questa). Da tutte le cose dette rimane spiegato che cosa sia la ragione , che cosa sia il lume della ragione , la forma che rende intelligente lo spirito , la facoltà di conoscere . Rimane dunque sciolta altresì la questione dell' origine delle idee. Vi ha un' idea primitiva, quella dell' essere. Con questa si formano i giudizŒ primitivi, si affermano gli esseri reali sentiti, e così si conoscono. I rapporti dell' idea dell' essere cogli enti reali sono i concetti, ossia le idee specifiche degli enti particolari. Su queste idee si esercita l' analisi, la riflessione, l' astrazione ecc., quindi gli astratti e i diversi enti di ragione. Chi vuol seguire la deduzione più divisata delle idee o concetti speciali e generali e di tutte le cognizioni umane, potrà ricorrere al « Nuovo saggio sull' origine delle idee , » e al « Rinnovamento della filosofia in Italia » ecc.. Nelle quali opere si svolge ed applica la teoria ideologica sovra esposta. LOGICA. - La logica è la scienza dell' arte di ragionare. Lo scopo del ragionamento è la certezza: e la certezza è una persuasione ferma, conforme alla verità conosciuta. La logica dunque ha due uffizŒ: dee difendere l' esistenza della verità in generale, e quindi l' efficacia del ragionamento; dee poscia insegnare ad usar il ragionamento in modo, che metta l' uomo in possesso della verità e gliene dia la persuasione, in una parola che gli produca la certezza. Queste sono le due parti della logica, difesa della verità, mezzi di giungere alla verità ed alla certezza. La verità è una qualità della cognizione. La cognizione è vera quando ciò che si conosce, è. Si consideri bene questa definizione della verità. Se la cosa che si conosce, è, ella è vera; dunque la verità si riduce all' essere della cosa che si conosce. L' essere dunque che si conosce, è la verità della cognizione. Ma la forma dell' intelligenza è l' essere , come c' insegna l' ideologia. Dunque la forma dell' intelligenza è la verità. La prima verità dunque è posseduta dallo spirito umano per natura. Questo argomento semplicissimo abbatte quella classe di scettici che negano ogni verità e quell' altra che, o ammettendo o lasciando in dubbio che esista qualche verità, pure negano all' uomo il possesso di ogni verità. Lo stesso argomento si può esporre in altre parole così: Se ciò che conosco, è, io conosco la verità. Ma per natura io intuisco l' essenza dell' essere. Ora l' essenza dell' essere non è altro che l' essere stesso, giacchè il dire essere esclude il non essere. L' essere dunque che io conosco per natura, è: dunque la mia cognizione prima è vera: possiedo una prima verità, poichè ciò che conosco, è. Qui si fa avanti l' idealista trascendentale, e ci dice: La vostra è un' illusione. A voi pare di sapere che cosa sia essere, ma forse nol sapete . Rispondo: L' obbiezione che mi fate, prova chiaramente, che voi non avete inteso la maniera colla quale io testè dimostrai che l' uomo possiede la prima verità; prova che non avete inteso che cosa sia la prima verità di cui si parla, poichè l' obbiezione che voi fate della possibilità di una illusione non cade affatto sulla prima verità. In fatti che cosa significa essere illuso? Significa parere una cosa che non è, o parere una cosa in un modo diverso da quello che è. Ora nè l' una nè l' altra di queste due illusioni può cadere sulla cognizione prima di cui parliamo; ma tutt' al più potranno cadere tali illusioni sulle cognizioni seconde che si vengono formando, per esempio, sulla affermazione degli esseri reali, il che esamineremo a suo tempo. E certo, in generale parlando, quand' io affermo un certo essere reale, non è impossibile la doppia illusione che si obbietta. Io posso cioè affermare un certo essere reale, e questo pure non essere, non sussistere. Posso affermare che un certo essere reale sia in un dato modo, e il medesimo essere in un altro modo. Ma niente di ciò ha luogo rispetto a quella cognizione per la quale io so che cosa sia essere senza più. Dimostriamolo relativamente alla prima illusione. Il sapere semplicemente che cosa è essere, senza aggiungervi alcuna determinazione, e il credere di saperlo, è la medesima cosa: credere di sapere che cosa è essere, è sapere che cosa è essere; e sapere che cosa è essere, è sapere la verità perchè l' essere essenzialmente è. In fatti, riteniamo che sapere che cosa è essere, è sapere la verità. Ciò posto, l' illusione che si oppone, si fa consistere in questo, che si creda forse di sapere, ma che non si sappia che cosa è essere. Ora si consideri bene che sapere che cosa è essere, è la semplice concezione dell' essere, non è affermazione di alcun essere sussistente. E considerato questo, si può egli mover dubbio, che la concezione dell' essere si abbia o non si abbia, senza averla questa concezione? Dubitare che ci sia la concezione dell' essere suppone per data la concezione dell' essere, di cui si dubita. Medesimamente, credere d' aver la concezione dell' essere suppone la concezione dell' essere che è l' oggetto a cui si riferisce quella credenza. L' illusione adunque che si obbietta non è possibile, giacchè non si può favellare della illusorietà della concezione dell' essere senza ammettere già questa concezione di cui si disputa. Tale è la natura delle semplici concezioni, che si hanno o non si hanno; e se non si hanno, non si può credere d' averle, poichè col credere d' averle già si hanno. Veniamo alla seconda illusione, e dimostriamo che neppur essa può cadere nella notizia prima dell' essere. « Voi » si dice « intuite l' essere, ma sapete voi d' intuirlo com' egli è? L' essere non potrebbe essere in un modo diverso da quello in cui vi apparisce? »Questa obbiezione suppone che l' essere abbia modi diversi. Ma per ciò stesso ella non può attaccare la prima intuizione, perocchè in questa prima intuizione l' essere è senza modi. Di nuovo, l' obbiezione adunque non può valere, se non applicata a quelle cognizioni, per le quali l' uomo conosce l' essere vestito di qualche modo particolare. Può allora darsi che l' uomo s' illuda, e che l' essere gli apparisca in un modo, quando in se stesso esiste in un altro modo. Se ciò sia possibile, e fin dove sia possibile, questo si dee esaminare quando si toglie a parlare della verità delle cognizioni speciali, che hanno per loro oggetto esseri determinati. Ma qui nel discorso presente si tratta dell' essere privo al tutto di modi, si tratta della pura e semplice essenza dell' essere stesso; le illusioni adunque che cader possono sui modi dell' essere qui rimangono del tutto escluse, sono impossibili. Per questo dissi in qualche luogo, che la verità evidente ed essenziale dell' essere luce nella sua universalità . Quest' universalità distrugge affatto lo scetticismo trascendentale, il quale suppone gratuitamente che l' intendimento umano abbia delle forme ristrettive e modali, mentre egli ha una sola forma universale, e priva affatto di modi che hanno la loro esistenza solo nel mondo reale. Risulta parimenti da ciò non solo gratuito, ma evidentemente falso e contradittorio, che l' essere nella sua universalità e semplicità sia una produzione soggettiva, cioè una produzione del soggetto uomo; che anzi l' uomo stesso non è che una ristretta, modale e contingente realizzazione dell' essenza dell' essere. Ed ecco che, dopo aver noi stabilito, che lo spirito umano sa che cosa è essere mediante l' osservazione , ignorando tuttavia che questa osservazione fosse un testimonio certo della verità; ora veniamo a giustificare e riconoscere valida l' osservazione, poichè avendo trovato che il risultato dell' osservazione è l' intuizione dell' ente, noi siamo giunti a tale da convincerci della veracità della stessa osservazione, poichè nell' ente intuito abbiamo trovato la luce evidente della verità che esclude ogni possibilità che in tale osservazione entri inganno, errore od illusione di sorte [11]. Le ragioni, colle quali abbiamo disciolte le obbiezioni scettiche degli idealisti trascendentali, e abbiamo provato, che la semplice concezione dell' essere non ci può al tutto ingannare, valgono medesimamente a provare che non può cadere errore di sorta nè meno nei concetti o idee speciali. Perocchè l' errore non potrebbe cadere che o nell' essere ch' esse ci mostrano o nei modi ne' quali ci mostrano l' essere limitato. Ma già vedemmo che nell' essere, se si prescinda dai modi, non ci ha possibilità alcuna d' errore; resta dunque a vedere se potesse avercene nei modi de' medesimi concetti. Or che cosa vuol dire esserci errore ne' modi dell' essere? Vuol dire apparirci un essere vestito di un modo, mentre in se stesso ne ha un altro. La possibilità dunque dell' errore nasce da questo, che un solo essere non può avere nello stesso tempo che un solo modo; onde se noi giudichiamo che ne abbia un altro, il modo che gli attribuiamo, non è; e perciò il nostro è un giudizio falso, un errore. Questa falsità di giudizio accade spesso negli esseri reali, i quali sono limitati ad un solo modo; per esempio, io posso giudicare falsamente che un dato ente sia un uomo mentre egli è una bestia ovvero un ceppo; erro, perchè gli attribuisco un modo non suo. Ma se non si tratta di esseri reali, ma dell' essere semplicemente ideale, la detta condizion dell' errore manca del tutto. Poichè l' essere ideale non è limitato ad un solo modo; ma egli ha potenzialmente tutti i modi, in tutti i modi può esser realizzato: quindi ogni modo che io concepisca dell' essere ideale, è immune da errore, perchè è un modo suo proprio. Questi modi dell' essere ideale sono i concetti, le idee specifiche e generiche: dunque tutte le idee specifiche e generiche sono affatto immuni da errore. Quindi giustamente gli antichi insegnarono che l' errore non può mai stare nell' idee, ma risiede nei giudizi; e che le notizie così dette di semplice intelligenza , sono scevre affatto da ogni errore. Per questo si dice ancora, che le idee sono le verità esemplari, e che le cose (gli enti reali) ricevono la loro verità dalla conformità che hanno colle idee. Se io giudico, a ragion d' esempio, che un dato ente reale è un cavallo, ed è un cavallo, si dice che è un cavallo vero , per dire che corrisponde a quell' idea di cavallo, a quel modo che io gli attribuisco e col quale lo giudico. Ma dicendo noi che nelle semplici idee non può cadere errore, non intendiamo di estender ciò anche alle relazioni delle idee , nelle quali può cadere certamente errore, perchè si affermano con un giudizio che può esser vero o falso. Così, a ragion d' esempio, io erro se giudico che un' idea è inchiusa in un' altra, quand' ella non è; che il due, poniamo, stia tre volte nette nel cinque, quando non vi sta che due e mezzo. Insomma non vi può essere errore, se non v' è giudizio: l' intuizione semplice non ammette errore. E tuttavia non consegue, che in ogni giudizio vi possa essere errore: v' ha anco de' giudizi, ne' quali l' errore è assolutamente impossibile. In fatti, trovato che nell' intuizione dell' essere, universale o speciale, non cade errore, io posso esprimere ciò in forma di giudizio, dicendo appunto non cade errore nelle idee : ho formato con ciò un giudizio immune da errore appunto perchè ciò che esprimo con esso è immune da errore. Allo stesso modo sono immuni da errore tutti que' giudizŒ che altro non esprimono, se non ciò che la mente intuisce; per esempio questi due: l' oggetto del conoscere è l' ente; l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di cognizione . Queste proposizioni, questi giudizŒ altro non dicono se non ciò che mostra a noi l' intuizione dell' essere. Il primo equivale ad esprimere il fatto che l' essere è l' oggetto essenziale, la forma dell' intelligenza; il secondo altro non significa, se non che se l' essere, oggetto dell' intelligenza, mi è levato via, egli non può ad un tempo esser presente: è ancora la semplice intuizione dell' ente che si dichiara necessaria per conoscere. Quando ciò che si contiene nell' idea si pronunzia in forma di giudizio e s' esprime in una proposizione, allora l' idea, così espressa, prende nome di principio . L' idea è sempre universale in questo senso, che ella può essere realizzata (salve alcune eccezioni che qui si ommettono) più volte. L' idea dell' essere può realizzarsi in tutti i modi; le idee generiche, in molti modi, e così pure le idee specifiche astratte; se l' idea specifica non è astratta, ma piena, di maniera che contenga anche gli accidenti tutti dell' ente, ella può esser realizzata in un modo solo, ma in più individui (salve le dette eccezioni). Perciò le idee si dicono tutte universali . Quindi anche i principii sono giudizi universali, i quali si applicano a molti casi . Per esempio, il principio che dice: l' ente è l' oggetto del conoscere , si applica e si avvera non già in un solo atto del conoscere, ma in tutti affatto gli atti conoscitivi. Il principio di contraddizione: l' essere e il non essere ad un tempo non è oggetto di conoscere , esprime l' assurdo di tutte le proposizioni contradittorie. Assurdo vuol dire inettitudine della proposizione ad essere oggetto di conoscenza. I principii dunque non essendo che le idee intuite, il cui oggetto si pronunzia in forma di giudizio, sono immuni da errore altrettanto quanto le idee stesse. Ma se le idee e i principii dell' umano sapere sono superiori alla sfera dell' errore, che cosa è a dirsi della sintesi primitiva, colla quale si affermano le cose reali che a noi si comunicano nel sentimento? E` ella immune da errore la percezione delle cose reali, per la quale intendiamo appunto un' attività da noi sentita ed affermata come un ente? Nella percezione di un ente reale si debbono distinguere due cose: l' affermazione dell' ente, e l' affermazione del modo dell' ente determinato dal sentimento. Nell' affermazione dell' ente, prescindendo dal suo modo, non può cadere errore, appunto perchè non può cadere errore nell' essenza dell' ente da noi intuita. Affermare l' ente è affermare l' essenza intuita nella sua realizzazione: quest' essenza la conosciamo con evidenza senza possibilità di errore; dunque dobbiamo altresì riconoscerla senza errore, presentandosi ella a noi realizzata. Il modo poi dell' ente è determinato dal sentimento e non dalla nostra intelligenza. Ora è da osservarsi attentamente, che il bambino nelle sue prime percezioni, non afferma già il modo dell' ente, ma si accontenta di affermar l' ente, lasciando che il sentimento lo determini senza occuparsi a misurare questo sentimento, senza dargli un' attenzione intellettiva, senza affermarne i limiti, la forma, le differenze. Non pronunziando dunque nulla sul sentimento che costituisce la realità dell' essere, ma prendendolo solo per una realizzazione modale dell' essere senza più, qualunque ella sia, l' uomo non s' espone a pericolo di alcun errore. Tali percezioni adunque fatte dal bambino o da chicchessia, nelle quali il sentimento non si prende se non come la realizzazione dell' essere senza fermar l' attenzione al suo modo e a' suoi limiti, son tali, che l' errore ne è affatto escluso. Il giudizio adunque che afferma l' esistenza degli esseri reali è immune da errore. Rimane a vedere se sia immune da errore il giudizio che afferma il modo determinato degli esseri reali, cioè che afferma in conseguenza di un dato sentimento che sussista piuttosto un essere che un altro. Si dirà, che l' essenza dell' ente viene da noi aggiunta al sentimento per poterlo affermare e conoscere come ente, e però noi conosciamo nel sentimento ciò che in esso non vi è. Ma si osservi che quest' obbiezione sarebbe assai forte quando fosse vero che noi affermassimo che il sentimento stesso fosse l' essenza dell' ente. Ma noi non facciamo già questo: aggiungiamo bensì l' essenza dell' ente all' attività sentita, per renderla un ente percettibile e conoscibile; ma sappiamo nello stesso tempo, che l' attività sentita da se sola non è l' essenza dell' ente, ma è una sua realizzazione contingente, un suo modo, il termine della sua azione: sicchè l' essenza dell' ente che gli aggiungiamo, non è altro che il mezzo di conoscerla; perocchè l' attività sentita non è conoscibile se non veduta nell' ente. Allo stesso modo, cioè in un modo simile benchè non uguale, noi non possiamo percepire l' accidente senza percepirlo nella sostanza , e tuttavia non c' inganniamo, perchè sappiamo bene che l' accidente non è la sostanza che a lui pure aggiungiamo in percependolo. Dall' istante, che abbiamo detto, che l' attività sentita è l' essere realizzato, egli è chiaro, che in quel modo che è l' attività sentita, in quel modo stesso è realizzato l' essere. Dunque, qualora si verifichi che io, col mio giudizio sul modo dell' essere, altro non fo che pronunciare ed affermare quell' attività che veramente sento nè più nè meno, in tal caso il mio giudizio non può che esser vero. Qui dunque ho trovata la condizione, adempiuta la quale non posso ingannarmi, nè anche nel giudizio che porto circa il modo dell' essere percepito: la condizione si è, che io non affermi altro, se non quello che sento nè più nè meno. Rimane a vedere se questa condizione si avveri sempre necessariamente in tali miei giudizŒ; o per lo contrario non si possa mai avverare; o finalmente se si possa bensì sempre avverare, ma non sempre si avveri. Nel primo caso il mio giudizio sarebbe necessariamente vero: nel secondo sarebbe necessariamente falso: nel terzo potrebbe sempre esser vero se io voglio, se io procedo colle necessarie cautele; ma potrebbe anche esser falso, se io non voglio o procedo incautamente. Ora è manifesto che io non sono necessitato a dir sempre a me stesso precisamente quel che sento. Posso mentire a me stesso; posso dire di sentir più o di sentir meno, di sentire in un modo o di sentire in un altro. Posso prendere un sentimento per un altro, un' immagine, a ragion d' esempio, per una sensione esterna; posso dunque ingannarmi. Ma egli è ancor manifesto che non sono necessitato ad ingannarmi. Chi mi costringe a dire quel che non sento, o a dire di sentir più o di sentir meno o in altro modo da quel che sento? Anzi, se non avessi sperimentato mai che un solo sentimento, mi sarebbe impossibile di fingermene un altro, o di alterarmelo a volontà. Dunque in me vi è la facoltà di affermare il sentimento tale quale lo provo; questa è la facoltà naturale. Se io m' inganno adunque, è perchè non uso della facoltà naturale, ma mi servo anzi di un' altra a turbare e confondere quella. E io posso provare di avere la facoltà naturale di attestare a me stesso nè più nè meno quello che sento, considerando che questa facoltà non è poi ancora che un nuovo uso, un' altra funzione della facoltà che ho detto infallibile, di affermare l' essere senza i suoi modi. Poichè affermare l' essere è riconoscere l' identità fra il sentimento e l' essenza dell' essere: ora, poichè in tutte le attività anche minime del sentimento è realizzato l' essere, dunque posso affermarlo in tutte con infallibil certezza. Ma affermare l' essere in tutte le attività anche minime del sentimento è lo stesso che affermare tutto intero il modo del sentimento nè più nè meno. Dunque non mi manca la facoltà naturale di affermare con sicurezza anche il modo dell' essere, anzi questa facoltà è infallibile, e se m' inganno, il mio errore dee procedere non da questa facoltà, ma da un' altra che ad essa io sostituisco, e che per ora chiamerò semplicemente la facoltà dell' errore . Esclusi dunque i due estremi della verità necessaria e dell' error necessario nel giudizio che io fo intorno al modo dell' essere da me percepito, rimane che qui trattisi di un errore possibile a sfuggirsi, ma possibile anche ad incorrersi. Si può dunque un tale errore evitar sempre? Sì, noi diciamo, purchè vogliamo ed usiamo le cautele a ciò necessarie: ma prima di parlare di queste cautele, facciamo un' osservazione. L' errore di cui qui parliamo, non cade propriamente sulla percezione dell' ente reale. La percezione dell' ente reale è fatta, tostochè noi all' occasione del sentimento l' abbiamo affermato. Sopravviene la riflessione sopra l' ente percepito, che vuol determinare, vuol pronunziare il modo preciso, l' estensione precisa dell' ente percepito: al che fare, oltre portare l' attenzione sul sentimento e su tutte le sue parti, è uopo ricorrere altresì al confronto con altri sentimenti, con altri esseri. La percezione dunque degli enti reali è infallibile; l' errore comincia solo colla riflessione sulla percezione , e s' apre tanto maggior campo all' errore, tanta maggior facilità di errare, quant' è maggiore la riflessione, più elevata, più complicata. Dicevo, che per determinare da noi stessi il modo e la quantità del sentimento, non basta l' osservazione accurata sul medesimo, ma è necessario ricorrere a confronti con altri sentimenti, con esseri altre volte percepiti. La ragione si è, che i giudizŒ che trattano di misura , non cadono mai sulla misura assoluta, ma sempre sulle misure relative. Se l' uomo non percepisse che una data quantità, e non n' avesse un' altra a cui confrontarla, egli non pronuncierebbe su di essa giudizio alcuno, non inventerebbe neppure il vocabolo di quantità per nominarla. Laonde, se si prescinde interamente dalla riflessione che tende a misurare il sentimento mediante confronti, può benissimo concepirsi un' osservazione o attenzione intellettiva portata sul sentimento; ma tale, che non pronunzia niente in separato dalla percezione, e che è tanto infallibile quanto la percezione stessa di cui è parte, onde la percezione può avere due forme che, se vogliamo esprimere con parole, potremo così enunciare: « percezione che pronunzia l' esistenza di un essere reale determinato dal sentimento senza più »; e « percezione che pronunzia la presenza di un essere reale e il sentimento che lo determina senza riferirlo a niun altro sentimento. » L' aver dimostrato, che l' uomo ha una facoltà infallibile della percezione, è bastante contro gli scettici. Quanto poi all' ordine della riflessione, dove l' errore è possibile, posciachè la riflessione è verace o mendace secondo la maniera onde se ne fa uso, perciò appunto fu inventata la Logica, acciocchè ella insegni tal maniera di far uso della riflessione, che ci conduca alla verità, e ci additi come conoscere ed evitare l' errore. Se ben si considera, l' errore è sempre arbitrario, e quindi non è mai il prodotto delle semplici facoltà di conoscere. La riflessione stessa non produce l' errore per sè, ma perchè le si fa dire quello che ella non dice. E veramente la riflessione ha per suo primo oggetto le percezioni, le quali, come vedemmo, non ammettono errore. Questa prima riflessione altro non fa se non dire ciò che si contiene in una o più percezioni; quindi le analizza e le compone: ma se la riflessione dicesse che nella percezione v' è quel che non v' è, in tal caso non sarebbe, propriamente parlando, riflessione, perchè non rifletterebbe sulle percezioni; sarebbe un' altra potenza, che simulerebbe la riflessione; vi avrebbe un mentitore, che direbbe che la riflessione dice quel che non dice. Questo mentitore è certamente l' uomo stesso: egli ha la facoltà di affermare a se stesso ciò che la ragione non gli dice. Questa è la facoltà della persuasione , che si dee distinguere affatto dalla facoltà del ragionamento . Il ragionamento è e debb' essere mezzo di persuasione. Ma la persuasione si forma anche senza ragionamento: si forma una persuasione nel seno dell' uomo che vi sia un ragionamento quando non c' è, che il ragionamento dica una cosa quando non la dice: l' uomo si persuade, dà il suo assenso, giudica non sempre mosso dalla ragione, ma talora dall' istinto, dall' abitudine, dal pregiudizio, dall' affezione, dalla passione. Quindi l' errore s' intromette nell' essere ragionevole, non perchè egli sia ragionevole; chè se fosse solamente ragionevole, non potrebbe mai prendere errore; ma perchè, oltr' essere ragionevole, egli ha altresì la facoltà di giudicare ad arbitrio. Per questo si dice, che la natura dell' errore è di essere volontario. Non avviene tuttavia da questo che l' errore sia sempre peccaminoso o colpevole; ma egli ritiene di quella condizione morale che hanno le cause che lo hanno prodotto. Alla logica appartiene enumerare le cause occasionali ed incentive dell' errore, ed insegnare ad evitarle. Egli è qui chiaro, che per evitare gli errori colpevoli convien ricorrere a rimedŒ morali, convien sanare la volontà disordinata che influisce sulla facoltà della persuasione, traviandola ai suoi colpevoli fini. Le cause fisiche dell' errore, come i morbosi istinti, l' alterazione dell' immaginativa ecc. debbono levarsi con rimedŒ fisici. Se l' errore proviene finalmente da precipitazione ed imprudenza, conviene opporvi de' mezzi prudenziali, delle regole logiche precisamente espresse. La logica non si contenta d' indicare le diverse maniere di rimovere la causa degli errori, ma ella insegna altresì a riconoscerli quando sono già formati e ad emendarli. I sintomi degli errori sono moltissimi. Una specie di questi sintomi si riscontra nella forma verbale dei ragionamenti; e quella parte di logica che addita questa specie di sintomi degli errori, è quella che si chiama sofistica . Ma torniamo alla percezione, che è il solido fondamento di tutto quello scibile che riguarda gli enti reali. Basta qualsivoglia attività sentita acciocchè lo spirito intelligente affermi che sussiste un ente reale. Attività (sentita) e realità è il medesimo: è una forma dell' essere, non è l' essere, il quale vi si aggiunge nella percezione. Le prime attività da noi sentite, dalle quali si suscita la nostra facoltà di giudicare e di affermare la sussistenza di alcuni enti, sono le sensioni corporee. Se noi analizziamo queste sensioni, troviamo in ciascuna di esse tre attività: 1 l' attività che ci modifica senza nostro volere, verso cui noi siamo passivi: 2 la sensione che è l' effetto di quella attività che ci modifica: e 3 noi stessi che siamo modificati. Tuttavia l' attenzione nostra intellettiva non si porta da prima egualmente sopra queste tre attività, ma innanzi tratto su quella che ci modifica, e ad essa si ferma: perciò noi affermiamo prima di tutto i corpi esterni. Quando noi affermiamo i corpi esterni, nella nostra sensione v' ha certamente di più dei corpi esterni, cioè dell' agente che ci modifica; ma noi non ci badiamo. Si deve qui osservare la legge dell' attenzione dello spirito. L' attenzione intellettiva è la forza che dirige ed applica il nostro intendimento, ed ha per suo carattere di poterlo applicare a quell' oggetto che vuole, restringerlo a un solo oggetto, ad una sola parte del sentimento, affermare un oggetto solo alla volta, trascurando tutti gli altri. Non è però a credere, che l' attenzione nell' applicare e concentrare l' intendimento nostro in una sfera più o meno ristretta proceda a caso: ella segue certe leggi costanti, che le vengono imposte in gran parte dalla natura dell' essere; ma non è qui luogo di esporre queste leggi. E` bensì importante ritenere, che per questa proprietà dell' attenzione accade, che la percezione si ristringa ad un solo oggetto, quantunque molti altri possano essere con quello connessi anche necessariamente. Il nesso necessario di due oggetti fra loro non entra nella percezione, e neppure in quel concetto dell' essere che immediatamente si cava dalla percezione. Così quando l' uomo afferma un corpo esterno e quindi lo percepisce, è del tutto falso che colla stessa percezione affermi se stesso, come è falso del pari che la percezione de' corpi esterni debba necessariamente aver seco congiunta la percezione di se stesso. E` dunque un sofisma quello di Fichte che l' uomo percepisca l' io e il non io contemporaneamente e con un solo atto. Onde provenne l' errore di Fichte? Dal non aver egli ben distinto ciò che accade nel sentimento , e ciò che accade nella percezione intellettiva . E` vero verissimo, che nella nostra sensione non vi ha solo l' agente esterno (il mondo esterno), ma ci siamo anche noi stessi che veniamo modificati e limitati: tale è la natura del sentimento corporeo, sempre duplice, risultante dal senziente e dal sentito. Ma altra è la natura del sentimento, ed altra quella della percezione intellettiva. Sebbene nel sentimento concorrano due enti, tuttavia la percezione si restringe ad un solo alla volta, ed è per questo che ella distingue l' uno dall' altro: la percezione termina in ciò che afferma: quando afferma il mondo esterno, termina in esso; se non terminasse in esso, lo confonderebbe con noi stessi, e non lo separerebbe, come lo separa. Dico lo separa , non dico lo distingue : poichè per separarlo basta percepire lui stesso e nulla più; per distinguerlo da noi si dovrebbe negare noi, e quindi aver percepito noi, giacchè non si può negare ciò che non si conosce. E fu appunto l' abuso della parola distinguere che rese specioso il sofisma di Fichte. All' incontro quando si percepisce una cosa sola, ignorando affatto tutte le altre, ella è già separata da tutte le altre senza bisogno che noi positivamente le neghiamo, e da essa le distinguiamo. L' errore di Fichte nacque adunque dall' aver confuso il sentimento colla percezione sensitiva: è ancora un errore dovuto al sensismo. La natura della percezione ben considerata rovescia parimenti il principio di Schelling, che fu rimpastato e riprodotto anche poco fa. Schelling ammise il doppio oggetto della percezione di Fichte, e gliene aggiunse un terzo. L' oggetto della percezione di Fichte, benchè duplice, era finito. Schelling disse che non si potea percepire il finito senza l' infinito , a cui quello si riferiva. Or come Fichte attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del sentimento ; così Schelling attribuì alla percezione intellettiva ciò che è proprio solo del ragionamento : nè l' uno nè l' altro filosofo conobbe la natura della percezione , la quale si è di limitarsi ad un solo oggetto, senza esser necessitata a distendersi agli oggetti connessi con quello. La percezione termina nell' oggetto finito senza pure considerare che egli sia finito, e che quindi addimandi, per esistere, d' un infinito; termina in esso, senza punto nè poco considerare che sia un effetto, e senza conchiudere ch' egli quindi non può esistere senza una causa: lo considera per un ente, vi aggiunge l' essenza dell' ente senza punto considerare che non sarebbe, diviso dall' essenza dell' ente. Tutte queste sono riflessioni posteriori, sono ragionamenti, che hanno per oggetto la percezione, ma che non sono la stessa percezione. Rimane bensì a vedere, perchè, quantunque nella percezione s' apprenda un oggetto in separato da tutti gli altri, tuttavia poscia il ragionamento conosca che quel dato oggetto, quel reale non può sussistere da se solo, e se è finito, è condizionato necessariamente ad un infinito, se è contingente, ad un necessario che gli sia causa ecc.. Questo avviene perchè la riflessione rivolgendosi sull' oggetto percepito , lo paragona all' essenza dell' essere che è il lume della mente, e a questo paragone tosto conosce, che in quell' ente non è realizzata appieno l' essenza dell' essere; quindi conosce altresì, che il suo sussistere è condizionato ad un altro essere maggiore. Risulta da tutto ciò, che l' ultimo filosofo tedesco di cui abbiam parlato, travide qualche cosa di vero senza poterlo significare con precisione. Si acc“rse, che la mente umana dovea aver presente fin da principio di tutti i suoi ragionari qualche cosa di pieno, di completo, di universale, a cui come a tipo riportasse ciò che è modale, incompleto, relativo; perocchè altrimenti sarebbe stato inesplicabile come l' uomo si fosse accorto che il mondo, a ragion d' esempio, sia contingente, e che domandi una causa, che sia finito, cioè discosto immensamente dall' infinito ecc.. Certo, per conoscere tutto ciò, doveva esistere nella mente umana il tipo perfetto dell' essere che presiedesse a tutti questi giudizŒ. Ma il filosofo tedesco non ha poi saputo distinguere l' intuizione dalla percezione , il modo ideale dell' essere dal modo reale , l' essenza dell' essere dalla sua realizzazione , la ragione della sussistenza dalla sussistenza medesima , ciò che ha l' essere perchè la percezione gliel dà, da ciò che è l' essere . Attribuì dunque alla percezione ciò che appartiene all' intuizione , ossia al confronto del percepito coll' intuìto , confronto che è opera del ragionamento. Conchiuse che lo spirito umano percepiva naturalmente l' assoluto , quando solamente intuiva la ragione assoluta , l' essere ideale. E posciachè nella percezione si hanno gli enti distinti, poichè la distinzione limitante appartiene all' ordine delle realità, perciò volle che nella percezione da lui supposta primitiva e naturale si trovassero già distinti l' io il non io , e l' assoluto essere; laddove nell' essere ideale nulla è distinto, non cade alcuna limitazione, alcun modo: egli è l' essere in una sola forma illimitata. Eppure quest' essere ideale basta alla mente, non solo perchè le si renda possibile la percezione delle cose particolari, ma ben anco per dar le ali al ragionamento, col quale conosca i limiti degli oggetti della percezione e la necessità dell' illimitato e dell' assoluto. Ma noi dobbiamo chiarir meglio le leggi della percezione e del ragionamento, e giustificarle in modo che riescano sufficientemente difese contro alle obbiezioni degli scettici. Cominciamo dalla percezione dei corpi esterni. Quando noi proviamo una sensione che non avevamo prima, la nostra attenzione intellettiva si porta sull' agente, sulla forza che ci modifica. Egli è certo in fatti, che sentiamo in noi stessi una forza la quale non siamo noi: anzi ella è opposta a noi. Noi siamo passivi, ella è attiva. Intanto si osservi qui, che questo fatto basta perchè noi possiamo affermare che esiste un ente, senza che perciò diciamo che quest' ente sia noi. Noi siamo ancora incogniti a noi stessi. E se questo non si vuole ammettere, si prenda pure per una mera supposizione. Dico che, anche supposto che l' attenzione nostra intellettiva non si fermi, non si porti punto sopra noi stessi, ma si concentri nell' agente che opera nel nostro sentimento, noi affermeremo che quell' agente è un ente reale e non lo confonderemo perciò con noi, poichè, quantunque abbiamo il sentimento di noi stessi, tuttavia su questo sentimento, secondo la supposizione fatta, non posiamo la nostra attenzione. Dunque supporre il contrario non è necessario. Or questa natura della percezione limitata sempre ad un solo ente, che perciò appunto non resta mai confuso cogli altri perchè è solo, basta a spiegare come noi conosciamo il mondo corporeo. Le difficoltà che mossero gl' idealisti, nascevano tutte dal considerare i corpi fuori della percezione; nascevano dal non conoscere la natura della percezione, e dall' averne trascurata l' analisi. Certo che se si considera il mondo senza relazione alcuna alla percezione, non potremo saper che esista, perchè è tolto via (mi servirò d' una celebre frase) il ponte di comunicazione fra noi e lui. Questo ponte di comunicazione è la percezione. La percezione ben meditata ed analizzata ci somministra altresì una verità ontologica della più alta importanza, affatto sconosciuta ai sensisti; la quale si è, che un ente entra in un altro colla sua azione, che gli enti in quanto sono agenti, possono benissimo inesistere l' uno nell' altro senza mescolarsi e confondersi insieme, rimanendo essi al tutto distinti, mediante i rapporti contrarŒ d' azione e di passione. Nella percezione dei corpi sentiamo un agente che non siamo noi, e verso il quale noi siamo passivi. Quest' è il fondamento della dimostrazione dell' esistenza d' un essere esteso, il quale non è noi, cioè del corpo. Viene poi un tempo, in cui noi percepiamo anche noi stessi. Io sono persuaso che, sebbene il sentimento ci accompagni sempre, tuttavia noi non abbiamo la percezione intellettiva di noi stessi se non dopo la percezione intellettiva dei corpi. Ma checchessia del tempo in cui ci formiamo la percezione intellettiva di noi stessi, ciò che è importante per la filosofia, si è il ben intendere, che la percezione di noi stessi è una percezione diversa da quella de' corpi; appunto perchè noi stessi siamo diversi dai corpi; una percezione non è l' altra, altrettanto quanto un ente non è l' altro; nè la percezione di un ente ha bisogno per esser tale di negare positivamente gli altri enti, ma solo di affermare l' ente che costituisce il suo oggetto, il quale esclude gli altri per natura, cioè perchè egli non è gli altri, senza bisogno che lo spirito umano si affatichi egli con una negazione ad escluderli. Vero è che noi, dopo che abbiamo percepito il mondo corporeo e noi stessi, possiamo riflettere su queste due percezioni, paragonare fra loro i due enti percepiti, e rilevarne i rapporti. Il paragone non si potrebbe fare se noi non avessimo presente allo spirito l' ente universale, che è la misura di tutti gli enti. Riferendo l' ente reale particolare, limitato, all' essenza dell' ente (sua ragione e principio), noi intendiamo ch' esso non è una realizzazione completa di questa; e riferendo alla medesima altri enti reali particolari, limitati, intendiamo se essi siano una realizzazione d' ugual modo e quantità della precedente, o di modo e di quantità diversa. Se un secondo ente che noi riferiamo all' essenza dell' ente, è una realizzazione uguale di modo e di quantità, lo diciamo ente della medesima specie. Quantunque però fosse uguale in tutto al precedente, tuttavia possiamo accorgerci che egli è un individuo diverso, dall' essere egli oggetto d' un' altra percezione contemporanea alla prima, principio della discernibilità degl' individui . Se fosse oggetto della medesima identica percezione, non sarebbero due individui, ma un solo. Noi conosciamo adunque il numero delle percezioni contemporanee, quando in tutto il resto gli enti individuali sieno affatto uguali (supposizione logicamente possibile): e ciò perchè noi in tal caso possiamo riferire all' ente universale i due o più individui contemporaneamente, al qual lume veggiamo che la realizzazione di due è più che la realizzazione di uno. Così si originano le idee de' numeri , riferendo all' essere ideale più enti contemporaneamente; ben inteso che sopravviene poi l' astrazione (attenzione riflessa limitata a certi elementi osservabili dell' ente), la quale cava i numeri puri . Ma se due enti percepiti si riconoscono differenti non solo perchè si percepiscono con diverse percezioni contemporanee, ma ben anco perchè hanno qualche diversità fra loro o nel modo o nella quantità della loro realizzazione, in tal caso si riconoscono differenti di specie, o, se la specie è la medesima, differenti per qualche diversità accidentale. Il modo diverso della realizzazione costituisce la diversità di specie: la quantità o anche l' attualità diversa è cagione di differenze accidentali. Quando adunque noi riferiamo all' essere universale la percezione dei corpi e di noi stessi, e quindi paragoniamo gli oggetti delle due percezioni, allora troviamo i rapporti di limitazione scambievole fra l' uno e l' altro, e il nostro spirito aggiunge le negazioni e le distinzioni. Allora il mondo corporeo si potrà chiamare un non7io (benchè il concetto dell' io è molto più complicato; ma non vogliamo qui entrare a spiegarne minutamente la formazione); allora si potrà dire, che l' io e il non7io si limitano scambievolmente, e insieme colla percezione dell' io negheremo il corpo, insieme colla percezione del corpo negheremo l' io. Sarà poi necessario, che sopravvenga una riflessione, qualora dal finito intenderemo di argomentare all' infinito. Converrà, che l' attenzione della mente non si fermi più a ciò che hanno di proprio l' io e il non7io; ma piuttosto che consideri ciò che hanno di comune, cioè la limitazione, e dal pensiero del limitato, del contingente ecc. ascenda all' illimitato, al necessario ecc.. Dunque per ascendere al pensiero dell' illimitato, del necessario, dell' assoluto, io non ho bisogno delle due percezioni, ma posso ascendervi ugualmente partendo da ciascuna di esse; perchè ciascuna è limitata, ciascuna contingente, ciascuna relativa. Dunque quell' atto della mente con cui ascendo all' infinito, non è la prima percezione; neppure è quella riflessione con cui paragono la percezione dell' io alla percezione del non7io; ma è una riflessione con cui dai limiti dell' io, o dai limiti del non7io mi slancio ugualmente nell' infinito. Le relazioni adunque degli enti percepiti si conoscono colla riflessione , riferendoli all' ente universale, e avvertendo quanto alla sua pienezza s' accostano, e quanto dalla sua pienezza si discostano. Così è discoperto il fonte di tutti i ragionamenti e il principio supremo sul quale essi si fondano. Se noi vogliamo formolare questo principio, esso si ridurrà al seguente: « Conoscendo lo spirito umano l' essenza dell' ente, egli afferma l' ente nel sentimento; e poscia paragonando e riferendo l' ente affermato all' essenza dell' ente, conosce le sue condizioni, i suoi limiti, le sue relazioni: e quindi mediante nuove riflessioni, riferendo medesimamente all' essenza dell' ente le cognizioni avute, ne cava sempre di nuove. » Fermiamoci a considerare le condizioni degli enti percepiti. Le condizioni alle quali sussistono gli enti reali, sono di due maniere: quelle che cadono nella percezione , e quelle che si rilevano col ragionamento . Per condizioni che cadono nella percezione intendo quelle che rendono l' ente reale atto ad essere percepito. A queste condizioni appartiene il principio di sostanza , che ora noi dobbiamo spiegare. Vedemmo, che in ogni sensione corporea da noi acquistata cadono tre attività: 1 l' attività che ci modifica, 2 la modificazione nostra, e 3 noi stessi modificati. La prima attività è l' oggetto della percezione del corpo: la terza attività è l' oggetto della percezione di noi stessi: riman dunque a considerarsi la seconda attività, la modificazione nostra, che è la sensione medesima. La sensione o modificazion di noi stessi è certo quella che stimola la nostra attenzione intellettiva a percepire i corpi e noi stessi. Ma pure la sensione nostra non è il corpo che la produce. Neppure ella è noi stessi. Che cosa è dunque? La percepiamo noi? Se noi ne consideriamo la natura, ben veggiamo che ella è un atto passivo del nostro sentimento; e che noi stessi siamo un sentimento suscettibile di varie modificazioni. Noi veggiamo ancora, che questa modificazione di noi7sentimento è prodotta dall' azione d' un agente esterno. Ma tutte queste cognizioni intorno alla sensione noi le abbiamo ora per via di riflessione : non cade ella dunque nella percezione? Anche qui è da esaminarsi il fatto per non inventare a capriccio, ossia fingerci la natura delle cose. Ora il fatto ci dice, ch' ella non ci cade e non ci può cader sola . E veramente che cosa è la percezione se non l' affermazione di un ente reale? Ora la sensione sola è ella forse un ente? No certo. Ella non è se non una certa attualità passiva o qualità di un ente. Quindi è, che in occasione delle sensioni noi non percepiamo giammai la sensione sola; percepiamo noi stessi che siamo un ente, e solo unitamente a noi percepiamo la sensione come una modificazione di noi stessi. Quindi si può sciogliere la questione non poco difficile che movono i filosofi; se la percezione degli enti si faccia immediatamente, o per via di ragionamento . La risposta che noi diamo si è, che la percezione degli enti si fa immediatamente, cioè mediante un semplice giudizio , senza ragionamento alcuno. Ma dopo di ciò noi diciamo, che la nostra riflessione che sopravviene, scioglie la percezione in un ragionamento che è creato dalla riflessione stessa, e che non entra a dir vero nella percezione, ma che fa sì, che noi ci persuadiamo, essersi operato un secreto ragionamento nell' atto del percepire, benchè veramente ciò non sia. Il ragionamento nel quale la riflessione traduce la percezione di noi stessi, si è il seguente: Quando lo spirito umano riceve una sensione, tosto s' accorge che v' ha una realità. Ma la realità è sempre un' entità che dee appartenere ad un ente. Ora la mera realità della sensione non è ella stessa un ente. Dunque se v' è questa realità che non può appartenere che ad un ente, ed ella stessa non è un ente, necessariamente dee sussistere un ente a cui essa appartenga, di cui sia un' attualità. Dunque sussiste l' ente. Tale è il ragionamento che sembra formarsi in ogni percezione; ma propriamente parlando esso non è che l' opera della riflessione, che vi pone del suo senza accorgersi. In fatti la percezione è affermazione di un ente. Dunque non v' è percezione se non quando lo spirito ha detto a se stesso che v' ha un ente, ha proferita l' ultima delle proposizioni dell' esposto ragionamento: sussiste l' ente. Le precedenti proposizioni sarebbero adunque precedenti alla percezione. Ma avanti la percezione non si dà ragionamento alcuno; poichè il pensare umano intorno alle realità comincia colla percezione. Dunque l' accennato ragionamento non appartiene propriamente alla percezione, ma è l' opera della riflessione. Come adunque accade la percezione? forse alla cieca? No certamente; anzi in piena luce: tostochè l' uomo sente modificato se stesso, pronunzia l' esistenza di se stesso, perchè altro egli non può pronunziare che l' esistenza di un ente: la prima cosa che vede lo spirito umano, data la sensione, è l' ente in cui sta la sensione, l' ente modificato: prima di percepir l' ente, la sensione non è che sentimento: dato questo sentimento, l' uomo afferma direttamente il suo principio del sentimento, inseparabile dal sentimento, e così inseparabile, che il sentimento non può essere conosciuto come non può esistere senza di lui, che è l' ente nel quale è. Il sentimento adunque move lo spirito umano ad affermare, non il sentimento solo, ma l' essere in cui è il sentimento , e a percepire quindi l' ente e il sentimento nell' ente contemporaneamente. Questa necessità di percepire intellettivamente la sensione nell' ente senziente, e non la sensione sola, formolata in un principio generale, dicesi principio di sostanza , e può esprimersi così: Ogniqualvolta il sentimento è una realità che non costituisce da se sola un ente percettibile, la percezione intellettiva non si limita a quella realità, ma afferma l' ente a cui quella realità appartiene . La realità che non costituisce da se sola un ente percepibile, dicesi accidente; l' ente a cui quella realità appartiene, dicesi rispettivamente sostanza , in quanto è il sostegno prossimo dell' accidente, cioè ciò in cui si conosce e si afferma sussistere l' accidente. Prima di proceder oltre, rispondiamo ad una difficoltà accessoria, che qui può nascere ragionevolmente nella mente del lettore. Questi dirà: voi avete supposto che, date le sensioni, l' uomo percepisca se stesso e le sensioni sue come modificazioni di se stesso. Ma il fatto non va così. Il bambino alle prime sensazioni che riceve, percepisce i corpi piuttosto che se stesso; e le sue stesse sensioni egli attribuisce ai corpi, onde crede che i corpi sieno colorati, saporosi, sonori ecc.. Tale è certamente, rispondo io, il fatto del bambino; e questo stesso è riprova che nel bambino la percezione de' corpi, come ho già detto, precede la percezione di se stesso; ma il principio di sostanza rimane inconcusso. Appunto perchè il bambino non ha ancora la percezion di se stesso, egli è condotto dalla legge del suo intendimento, che ubbidisce al principio di sostanza, ad attribuire a' corpi le sue proprie sensioni; poichè in virtù di questo principio, egli non può percepire le sensioni senza attribuirle ad un ente. Non potendo adunque attribuirle a se stesso, perchè non si è ancor percepito, le attribuisce ai corpi, all' agente straniero, a questo agente che opera in lui e di cui percepisce la forza, l' attività, colà appunto dove sente, nelle stesse sue sensioni, le quali perciò difficilissimamente si posson dividere dall' agente che le produce, richiedendosi a ciò la più attenta riflessione. Si replicherà: dunque il principio di sostanza è fallace, inducendo l' uomo ad attribuire ai corpi come loro accidenti le sue proprie sensioni. Ma la cosa non va così: non è il principio di sostanza che induca l' uomo ad attribuire piuttosto ai corpi che a se stesso le sensioni. Questo principio obbliga solamente l' uomo ad affermare una sostanza, quando egli ha il sentimento degli accidenti, ma non ad affermare una sostanza piuttosto che un' altra. Tocca dunque all' uomo a mettersi in guardia, che la sostanza che afferma, sia quella propria degli accidenti. E se l' uomo commette errore, egli può correggerlo, perchè n' ha la facoltà. Così noi con un' attenta riflessione veniamo a conoscere più tardi, che le sensioni sono accidenti nostri e non accidenti de' corpi, benchè queste sensioni siano da noi sentite insieme e nello stesso luogo dei corpi, in quanto questi corpi sono agenti nel nostro sentimento, che è finalmente il solo concetto che di essi abbiamo. Or basta che noi abbiamo la facoltà di correggere gli errori nei quali incappiamo, perchè restino confutati gli scettici e assicurato a noi stessi il possesso del vero. Che cosa è dunque il principio di sostanza? Non altro che l' applicazione dell' idea dell' ente a quelle realità sentite che da se sole non bastano a formare un ente percettibile: è la legge della percezione. Ma la percezione è infallibile: dunque anche il principio di sostanza è infallibile. Noi diciamo che una data realità sentita, per se stessa non costituisce talora un ente percettibile. Per dir questo egli è necessario che noi sappiamo che cosa costituisca un ente percettibile. Il sapere che cosa costituisce un ente percettibile, è lo stesso che sapere che cosa sia l' essenza dell' ente che si afferma nel sentimento, e ciò noi sappiam per natura. Dunque il principio di sostanza non è altro che l' intuizione che abbiamo dell' essenza dell' ente applicata alle realità: noi possiamo affermarla, date certe realità (sostanze); non possiamo affermarla di altre realità (accidenti), se non unite a quelle prime: siamo guidati a ciò dalla stessa essenza dell' ente che non può essere realizzata in queste seconde senza le prime (il che ci dimostra che l' ente ha un ordine intrinseco). Ma l' intuizione dell' essenza dell' ente non ammette errore, è l' intuizione della verità stessa. Dunque il principio di sostanza non ammette errore, è vero essenzialmente. La condizione adunque della percezione si è che ella non può affermare nel sentimento, se non un ente. La riflessione ha troppe altre condizioni che ella tende ad avverare, ed una di queste condizioni si è il principio di causa , di cui pure dobbiam dimostrare la natura e la veracità. Già abbiam detto in che consiste la riflessione. Ella è un atto, col quale la mente considera gli oggetti della percezione o di riflessioni precedenti, in rispetto all' essenza dell' ente. Parliamo della riflessione di primo ordine, cioè di quella che si rivolge sugli oggetti delle percezioni, e non sugli oggetti di riflessioni precedenti. Quando la riflessione riferisce gli enti percepiti all' essenza dell' ente, allora vede quanto sono limitati, quanto poco prendono dell' essenza dell' ente, quanto loro manca ad avere in sè esaurita l' essenza dell' ente, vede che hanno l' essenza dell' ente, ma non sono questa essenza. Così anche discopre la loro mutua dipendenza; poichè la dipendenza che uno ha da un altro, non è che una specie di limitazione. Altro è dunque ciò che fa sì che gli enti contingenti e limitati sieno enti separati , distinti, altro è ciò che li rende indipendenti . Possono esser enti separati e distinti, quantunque sieno poi dipendenti. Quindi ciascuno di essi, come ente separato, può essere oggetto di una speciale percezione. La sua dipendenza non è l' oggetto della percezione, ma della riflessione. Allora quando si vede cominciare un essere che non esisteva prima, allora quando si vede cominciare una realità, un modo, un accidente nuovo, la riflessione del nostro spirito dice incontanente che dee esservi una causa che ha prodotto quell' ente, quella realità, quel modo, quell' accidente; e chiama effetto tale produzione. Considerando questa operazione dello spirito, si vede che il concetto e il nome di effetto è posteriore al nome di causa. E` solamente dopo che si è conosciuto che un dato ente non potrebbe esistere senza una causa, che egli riceve il nome di effetto. Che cosa vuol dire riconoscere che un ente ebbe una causa? Non vuol dir altro se non riconoscere che quell' ente (la sua essenza) non ha in se stesso la propria sussistenza, e però gli viene di altronde. Venire la sussistenza di un ente non dall' ente stesso ma altronde, è lo stesso che avere una causa. Quando dunque si giudica che un ente dee avere una causa, altro non si fa se non riconoscere che l' ente per sua essenza non ha la sussistenza. Riconoscere che un ente (o una realità spettante ad un ente) non ha la sussistenza per sua propria essenza non è altro che confrontare l' ente reale percepito coll' essenza dell' ente, il che è l' opera, come dicevamo, della riflessione. Una delle condizioni adunque, alle quali opera la riflessione, una delle sue regole impreteribili si è il principio di causa. Dal detto risulta ancora che il principio di causa non è che un' applicazione che fa la riflessione dell' idea dell' essere ad un ente percepito, mediante la quale applicazione rileva, che l' essenza dell' ente percepito non ha in sè la sussistenza, la quale gli viene d' altronde. Dunque il principio di causa è per se stesso infallibile, perchè l' oggetto della percezione è immune da errore, e l' essenza dell' ente a cui lo confronta, è la stessa verità; e altro non trattasi se non di riconoscere, se nell' essenza dell' ente percepito sia compresa o no la realità. Dire che l' essenza di un ente non comprende la sua sussistenza, è quanto dire che l' ente percepito non ha la ragione del proprio esistere in se medesimo, e che è contingente . Col principio di causa l' uomo percorre la serie delle cause seconde; ma poichè le trova tutte contingenti, egli non può fermarsi in esse: la sua riflessione non riposa, se non giunge ad una causa prima, nell' essenza della quale sia compreso il sussistere, e questa è Dio. Il principio di causa che così si svolge e giugne all' ultima sua operazione, fu anche detto da noi principio d' integrazione . L' umanità tutta intiera, per un bisogno della riflessione intelligente, usa del principio d' integrazione con gran celerità, percorre le cause seconde in globo, e per un istinto razionale irresistibile giugne alla cognizione di Dio. Perciò l' esistenza di Dio fu ammessa in tutti i tempi, da tutti i popoli del mondo. La riflessione è guidata ancora da altri principii: ma ogni sua operazione finalmente si riduce al confronto che ella fa di un oggetto conosciuto coll' essere ideale, per vedere quanto e in che modo partecipa dell' essenza dell' essere, e quanto ne ha difetto. Quindi ogni riflessione per se stessa è un istrumento idoneo alla verità, perchè ha per misura delle cose tutte e per tipo la verità. Dimostrata così l' efficacia dell' umano ragionamento, la logica dee insegnarne l' arte. L' arte di ragionare fa sì primieramente che si evitino gli errori; e in secondo luogo, che si giunga con ragionamento a quello scopo che si propone. Si evitano gli errori, quando si procede in modo che la mente nulla affermi gratuitamente, ma la facoltà della persuasione sia sempre guidata dalla ragione , di maniera che ciò che l' uomo dice a se stesso sia sempre per via di puro ragionamento , senza che intervenga l' arbitrio. A questo tendono le quattro regole cartesiane del metodo. Lo scopo che s' intende di ottenere col ragionare è triplice, perchè si può ragionare: 1 per dimostrare la verità e difenderla; 2 per ritrovare nuove verità; 3 per insegnare la verità ad altri. Quindi tre metodi, il metodo dimostrativo , il metodo inquisitivo o inventivo, e il metodo didascalico , ciascuno de' quali ha le sue speciali regole. Il metodo dimostrativo usa di varie forme d' argomentare, ma tutte si riducono a quella del sillogismo. L' artifizio del sillogismo consiste in far vedere che la proposizione che si vuol dimostrare, è già contenuta in un' altra proposizione o evidente, o almeno certa. Il sillogismo si compone di tre proposizioni, l' ultima delle quali si chiama la conclusione o la tesi, e si chiamano premesse le due precedenti. L' una delle due premesse contiene implicitamente la tesi, e l' altra prova che veramente la contiene. La proposizione che si vuol dimostrare esser contenuta nell' altra dee avere identico con questa o il subietto o il predicato. Se il subietto è identico nelle due proposizioni, basta dimostrare che il predicato della tesi è contenuto nel predicato della proposizione assunta. Se è identico il predicato, basta dimostrare che il subietto della tesi è contenuto nel subietto della proposizione assunta. A dimostrare che il predicato o il subietto della tesi è contenuto nel predicato o nel subietto della proposizione assunta, si prende un concetto, che si chiama termine medio, e si mostra che questo s' identifica coll' uno e coll' altro predicato, ovvero coll' uno e coll' altro subietto; con che è dimostrato, che i due subietti pure, ovvero i due predicati s' identificano pel principio: « che due o più cose uguali ad una terza sono uguali fra di loro. » A vedere se un sillogismo sia efficace o abbia qualche vizio, si può applicare questa regola universale: « Il termine medio dee essere d' una comprensione almeno pari a quella del predicato, e d' una estensione almeno pari a quella del subietto della tesi. » Quando non si trova un solo termine medio, che si possa identificare coi due subietti o coi due predicati, se ne può prendere due o più, i quali s' identifichino fra di loro, e il primo d' essi s' identifichi con uno de' due predicati o de' due subietti, e l' ultimo di essi s' identifichi coll' altro de' due predicati o de' due subietti. Allora invece della seconda premessa si ha due o più proposizioni; forma che si chiama sorite . Le premesse devono esser certe acciocchè la conclusione sia necessaria e quindi v' abbia dimostrazione. Se sono soltanto probabili, la conclusione è pure probabile; se sono ipotetiche, tale è pure la conclusione. La dottrina della probabilità è importantissima e moltiplice. Il metodo inquisitivo della verità insegna la maniera di attignerla ai diversi fonti che sono in potere dell' uomo e che si riducono sommariamente a tre: 1 l' autorità e la tradizione; 2 l' osservazione e l' esperienza; 3 il raziocinio; ciascuno dei quali fonti si suddivide in molti. La maniera di applicare le diverse facoltà umane a questi fonti di notizie per attignerle pure ed abbondanti, e la maniera d' adoperare certi mezzi esteriori, che dirigono ed aiutano le facoltà, somministrano una abbondantissima materia a questa parte della logica. Il metodo didascalico è generale o particolare, secondo che contiene i principŒ generali che dirigono quelli che vogliono comunicare altrui la verità, o le regole particolari per insegnare le speciali scienze. Ciascuno de' tre metodi ha un principio supremo che lo dirige. Il principio del metodo dimostrativo è: « data una proposizione certa, è certa anche quella che in essa è implicitamente contenuta. » Il principio del metodo inquisitivo è: « l' idea dell' essere che è il lume della ragione applicato a' nuovi sentimenti, e a notizie già ricevute nel debito modo, produce all' uomo nuove cognizioni. » Il principio del metodo didascalico è: « le verità che si vogliono insegnare, si dispongano in una serie ordinata in guisa, che quelle che precedono, non abbiano bisogno per esser intese di quelle che seguono. » L' Ideologia e la Logica furono da noi dette scienze d' intuizione , perchè trattano del mezzo di conoscere, che è l' essere ideale che s' intuisce. L' uomo, venuto in possesso del mezzo di conoscere, rimane che lo applichi agli enti diversi, e ne cerchi le ultime loro ragioni. Ma la prima di tutte le applicazioni che l' uomo possa fare del mezzo di conoscere agli enti, è mediante la percezione. Conciossiachè se l' intelletto ha per unica sua funzione l' intuire , le funzioni della ragione umana si riducono a queste due percepire e riflettere . Ora l' uomo non può riflettere su cosa alcuna che riguardi gli enti reali, se la percezione non gliene somministra la materia. Tutte le scienze astratte non possono adunque esser legittimamente cavate, se non da ragionamenti , che abbiano per materia gli enti percepiti. Ora, quali sono gli enti che si possono percepire dall' uomo? Tutti quelli e quelli soli, che cadono nel suo sentimento, dove egli trova la realità: se stesso, e il mondo esterno. Le scienze filosofiche adunque di percezione, sono la Psicologia e la Cosmologia . La dottrina cristiana c' insegna, che l' uomo per una comunicazione graziosa riceve anche il sentimento di Dio, col quale egli viene levato all' ordine soprannaturale. La scienza che tratta di questa percezione deiforme, è da noi detta Antropologia soprannaturale: ella eccede i confini della semplice filosofia. PSICOLOGIA. - La Psicologia è la dottrina dell' anima umana. Essa fa tre cose: 1 dichiara qual sia l' essenza dell' anima; 2 descrive il suo sviluppo; 3 ragiona dei destini dell' anima. L' essenza dell' anima si conosce per via di percezione. Se l' anima non si sentisse , non si potrebbe percepire: ma questo è un fatto primitivo, da cui muove il ragionamento dell' anima, che ciascuno sente e percepisce l' anima propria. Lo stesso fatto, enunciato in tutta quella estensione in cui lo porge l' esperienza e la ragione della cosa, è, che senza sentimento nulla si percepisce. In fatti i corpi stessi non si percepirebbero dall' intendimento, se prima non fossero sentiti. Ma fra il sentimento de' corpi e quello che ha ciascuno dell' anima propria, v' ha una gran differenza; chè i corpi si sentono come una cosa straniera, e l' anima come una cosa propria, anzi come noi stessi: i corpi si sentono dall' anima e l' anima si sente da se stessa e per se stessa. Da questa osservazione si ricava tosto una prima definizione dell' anima: perocchè se l' anima si sente per se stessa; dunque ella è per essenza sua sentimento, poichè è il solo sentimento che si sente per se stesso, e se i corpi si sentono dall' anima, e l' anima si sente per se stessa, l' anima è il principio di sentire: « l' anima dunque è un principio di sentire insito nel sentimento. » Ma l' anima umana non sente solamente, ma anche percepisce intellettivamente, percepisce i corpi sentiti, e percepisce se stessa. L' anima umana dunque è un principio ad un tempo sensitivo ed intellettivo. Questo principio sensitivo quando pronuncia se stesso, adopera il vocabolo IO. L' IO dunque è un vocabolo, che esprime l' anima, ma la esprime in quanto pronuncia se stessa, e quindi non l' anima pura, ma l' anima vestita di certe relazioni con se stessa, l' anima in uno stato di sviluppo. Volendo dunque formarci il concetto dell' anima pura, conviene meditare ciò che si contiene nell' IO, e separare nello stesso tempo tutta quella parte che si riconosce come sopraggiunta ed acquisita colle operazioni dell' anima stessa. In questo senso l' IO è il principio e il subietto della Psicologia. Procedendo per questa via il Psicologo, trova coll' aiuto dell' Ideologia una definizione più compiuta dell' anima umana, che si può esprimer così: « L' anima umana è un soggetto o principio intellettivo e sensitivo, che ha per sua natura l' intuizione dell' essere, e un sentimento, il cui termine è esteso; e certe attività conseguenti all' intelligenza ed alla sensitività. » Dalla quale definizione, che ne esprime l' essenza, si deducono le sue proprietà, delle quali sono nobilissime le seguenti: 1) La semplicità , la quale si prova da questo appunto, che l' anima è un principio unico e immune dallo spazio, perchè l' identico principio che sente, è anche quello che intende: perchè l' atto del sentire in opposizione all' esteso sentito, esclude l' estensione per la medesima opposizione: finalmente perchè il principio intelligente riceve la forma dall' idea, cosa immune affatto dallo spazio e dal tempo. 2) L' immortalità , la quale si prova: 1 dall' esser l' anima il principio che dà la vita al corpo; ora l' anima essendo quella che dà la vita, è vita ella stessa; perciò non può cessar d' esser vita se non coll' annullamento, onde da se stessa non può morire, è per sè immortale; e 2 perchè la forma dell' anima intelligente è l' idea eterna ed immutabile. E` vero che, essendo l' anima di natura contingente, potrebb' essere annullata, ma ciò non potrebbe fare che Dio, il quale solo ha virtù di creare e quindi anche d' annullare. Ora Dio niente annulla di quanto ha creato, ripugnando ciò a' suoi attributi, come si dimostra nella Teologia naturale . Abbiamo detto che l' anima è un principio intellettivo e sensitivo, che ha per natura l' intuizione dell' essere e un sentimento il cui termine è esteso. L' essere intuito dall' anima è del tutto indeterminato; quindi, qualora ella non avesse che questo solo, non potrebbe avere alcuna cognizione di cosa determinata, e il suo sviluppo intellettivo sarebbe stato impossibile, non per mancanza di potenza, ma per mancanza di materia. Il creatore vi provvide, dando all' anima quel sentimento il cui termine è l' esteso, dandogli lo spazio ed un corpo. Quel sentimento dell' anima, che ha un termine ossia un sentito esteso, termine che subisce diverse modificazioni, somministra dunque all' anima la materia prima di tutte le sue operazioni intellettive, dalle quali ella poi trae tutte le sue cognizioni: quindi lo svolgersi dello scibile umano. E` dunque un errore quella sentenza di Platone, che considerava il corpo come un impedimento al volo dell' anima: egli è anzi, considerato per sè, lo strumento dello sviluppo e del perfezionamento della medesima. Ma la sentenza di Platone ha la sua verità, se, invece di applicarla alla natura del corpo, s' applica alla corruzione entrata nell' animalità colla prima colpa. Consideriamo ora più attentamente questo termine esteso. Egli è duplice, lo spazio ed il corpo , che è una forza che si diffonde in una parte limitata dello spazio. Lo spazio per sè è immobile, semplice, illimitabile, indivisibile. Ma il corpo è mobile, limitato, divisibile e quindi anche composto. Mediante queste varietà, che subisce di continuo il corpo, accade una continua variazione del termine del sentimento, e quindi la moltiplicità immensa delle sensazioni e delle percezioni, e l' abbondanza della materia prima data all' umano conoscimento. Ma qui nasce da sè la questione, come un sentito esteso possa darsi all' anima, la quale è un principio semplice. E prima di risolvere questa questione, conviene osservare, che i due estremi della proposizione, cioè, che l' anima sia un principio semplice e che essa abbia per termine del suo sentire un esteso, sono un fatto indubitabile; onde, quand' anche l' uomo non potesse giungere a intenderne il come, non per questo se ne potrebbe negare la verità, ma converrebbe confessare anche qui uno di que' molti misterŒ, in cui o niuno degli uomini o pochi sanno penetrare. Venendo dunque alla questione del come, e non parlando che de' corpi, egli è manifesto che quel fatto che si deve spiegare, è duplice anch' esso, perchè l' uomo sente due maniere di corpi ben distinte: sente in primo luogo quel corpo, ch' egli chiama suo proprio, e che l' anima accompagna sempre, in qualunque luogo dello spazio esso si trasporti; e sente i corpi diversi dal suo, ma questi li sente appunto come stranieri; e li sente, perchè modificano con violenza il corpo suo proprio, che solo è continuamente sentito. Qualora dunque fosse spiegato, come l' anima sente continuamente il corpo suo proprio, non sarebbe più tanto difficile a spiegare, come senta i corpi esterni, che modificano lo stesso corpo suo proprio. Infatti è da osservarsi la maniera con cui il principio sensitivo sente il corpo suo proprio. Egli nol sente con una semplice passività, ma con una passività mescolata di molta azione, non solo perchè il sentimento è un atto del principio senziente, e un atto continuo rispetto al corpo suo proprio, ma perchè di più è un atto così potente, che per mezzo di esso il principio senziente, cioè l' anima, modifica ed atteggia continuamente il proprio corpo, e produce in esso molti movimenti e cangiamenti; e il corpo suo proprio come inerte, subisce quest' azione del principio sensitivo, nella quale consiste l' intima unione del detto principio con esso corpo. Ciò posto s' intende come, se in quel corpo, che è in podestà dell' anima, nasca un cangiamento indipendente dall' anima, ed anzi opposto alla sua continua azione, ella senta un contrasto, una violenza, e questo è quanto dire sente un corpo straniero. Dal qual fatto si può raccogliere un principio ontologico, ed è, che un principio senziente oltre il sentire suo proprio e spontaneo, sente anche e riceve in sè una forza straniera, che si oppone all' azione sua istintiva e spontanea, e anche l' aiuta, e ciò senza perdere punto della sua semplicità. Quando poi sia stato spiegato come l' anima senta in sè qualche cosa di straniero a se stessa, il che è quanto dire un' attività, che lotta contro la sua propria, ovvero anche, che stimola la sua propria, allora non sono più difficili a spiegarsi le qualità seconde de' corpi esterni, quali sono i colori, i sapori, gli odori ecc.. Perocchè tutte queste cose appartengono al corpo proprio dell' anima in quanto è termine del suo sentire, e non rimane altra difficoltà, che quella dell' estensione de' corpi; rimane cioè la sola questione che abbiamo prima proposto, come l' anima, essendo un principio semplice, possa aver per termine l' estensione. Ora questa questione, quando si consideri intimamente, non presenta più quella ripugnanza che dimostra nell' apparenza, ed anzi si prova che non può esser altro che così; di maniera che se n' ha infine questo risultato, che « l' esteso continuo non può esistere che in un principio semplice, come termine del suo atto. »Perocchè se così non fosse, non ci sarebbe una ragione della continuità delle parti, che si possono assegnare in tale esteso, giacchè l' esistenza di una parte finisce in lei, e non contiene la ragione dell' altra parte che gli sta aderente. La ragione del continuo non istà dunque nelle singole parti, ma in un principio che abbraccia tutte le parti insieme, e questo semplice. Oltrediciò, le parti stesse, delle quali si supponesse formato il continuo, svanirebbero davanti a chi le cercasse, perchè, essendo l' esteso divisibile all' indefinito, non si possono trovar mai le prime parti, anzi al tutto non esistono. Non è dunque possibile considerare il continuo come un aggregato di parti, eppure ciascuna parte in esso assegnabile col pensiero, è fuori dell' altra, e ha un essere indipendente dall' altra. Convien dunque che tutto insieme il continuo esista con un atto solo nel semplice che lo sente. Proseguendo le ricerche su questa via si riesce ai seguenti risultati: 1 Che il principio senziente, ossia l' anima sensitiva, ha per suo primo termine l' estensione pura, ossia lo spazio immisurato . 2 Che ha per suo secondo termine una forza limitata diffusa nello spazio, la quale perciò è una misura limitata dello spazio, che non rimane tuttavia scisso o discontinuo. Questo è il corpo proprio dell' anima, che viene da lei informato, ed è la sede di tutti i suoi sentimenti corporei. 3 Il corpo proprio dell' anima è sentito da lei con un sentimento fondamentale e sempre identico, benchè sia suscettivo di variazioni ne' suoi accidenti. Il corpo proprio sentito con un tal sentimento fondamentale non ha ancora distinti confini, e perciò non ha figura distinta nel sentimento dell' anima. 4 Questo corpo viene modificato dall' azione di altri corpi esteriori e stranieri all' anima, e queste modificazioni in quanto sono sentite si chiamano sensazioni esterne e sono di diverso genere, secondo i varŒ organi del corpo. Ma tutte queste sensazioni presentano un sentimento esteso solamente in superficie, e mediante queste sensazioni superficiali, il corpo proprio acquista dei limiti ed una figura determinata sentita dall' anima. 5 Il corpo proprio, come pure i corpi esteriori, occupano una sola parte dello spazio, e si possono muovere in esso, cioè cangiar di luogo. Questi movimenti diventano la misura di altrettante parti dello spazio e così si presenta al sentimento, date certe condizioni, uno spazio misurato , che può essere sempre più ingrandito indefinitamente, giacchè v' ha un' indefinita possibilità di movimento. Il principio sensitivo, rispetto al primo de' suoi termini, cioè allo spazio immisurato, non esercita alcuna attività, se non quella di semplicemente averlo per termine senza potergli cagionare alcuna modificazione. Ma rispetto al suo secondo termine, cioè al corpo proprio, egli non è soltanto ricettivo o passivo, ma ben anco attivo; e questa passività e questa attività, reciproca e moltiplice, è diretta da mirabilissime leggi. In quanto il principio, ossia l' anima sensitiva è passiva, si suol dire che è dotata della facoltà di sentire, ossia della sensitività ; in quanto poi è attiva, si suol dire che è dotata dell' istinto . Il primo atto dell' istinto è quello che produce il sentimento, e dicesi istinto vitale ; ma ogni sentimento, suscitato nell' anima, vi produce una nuova attività, e questa seconda attività, che succede ai sentimenti, si chiama istinto sensuale . Mediante questi principŒ, cioè, 1 l' istinto vitale, 2 la sensitività, 3 l' istinto sensuale, si spiegano mirabilmente i fenomeni fisiologici, patologici, e terapeutici dell' animale: onde ha origine la medicina. L' unione del principio animale col suo termine corporeo è così intima, che non si concepisce il principio senza il termine, nè il termine senza il principio; e però quantunque l' uno non sia l' altro, l' uno anzi sia opposto all' altro, tuttavia formano un ente solo, un solo animato, e quando del termine si fa un ente a parte e intieramente separato, non si ha per risultato che un prodotto dell' astrazione. Tuttavia conviene nel termine dell' animale distinguere tre cose, che danno luogo a tre specie di sentimenti: 1 il continuo corporeo , termine del sentimento dell' esteso corporeo ; 2 il movimento intestino degli atomi, o delle molecole, o delle parti dell' esteso corporeo, termine del sentimento d' eccitazione ; 3 la continuazione armonica del detto movimento, termine del sentimento organico . Ora il principio sensitivo può esser privo delle due ultime maniere di sentimento, ma non della prima. Se egli ha soltanto la prima e la seconda maniera di sentire può dirsi animato , ma non animale: il carattere distintivo dell' animale è il sentimento organico, al quale è necessaria una congrua organizzazione. Si può dunque dire che l' animale muore, ma l' animato non muore. Nulladimeno questo subisce delle mutazioni essenziali rispetto alla sua individualità. Le quali si riassumono nelle seguenti leggi: 1 Ogni esteso continuo ha un solo principio sensitivo del continuo. - Dal qual principio procede che qualora più atomi vengano al contatto in modo da formare un solo continuo, i principŒ sensitivi s' unificano, riducendosi in un solo, che ha in sè l' attività di tutti i precedenti non distrutta ma accentrata, e quando il continuo si spezza in più continui, il principio si moltiplica in più principŒ sensitivi. Qui non v' ha divisione o composizione , ma unicamente moltiplicazione e unificazione . 2 Che se il movimento intestino in un dato continuo è parziale, il principio del continuo rimane uno, ma i principŒ del sentimento eccitato si moltiplicano quanti sono i sistemi di movimenti continui. 3 Che se il movimento armonico intestino nelle parti d' un continuo, abbraccia tutto il continuo, v' ha un solo principio senziente di quest' unica armonia, ma se i sistemi de' movimenti armonici nello stesso continuo sono più, v' hanno più principŒ senzienti, cioè tanti quanti sono que' diversi sistemi, benchè tutti abbiano per base, ossia per primo atto, il principio, che abbraccia tutto il continuo. Ma l' anima umana non è soltanto sensitiva, ma ancora intellettiva. Ella è un principio intellettivo e sensitivo ad un tempo. In quanto è un principio sensitivo ha per termine il proprio corpo; ma poichè il principio intellettivo è unificato col sensitivo, di maniera che è un principio solo con due attività, perciò l' anima intellettiva e sensitiva, o in una sola parola l' anima razionale , ha per suo termine il corpo. In quanto è sensitiva, l' ha come termine sentito , in quanto è intellettiva, l' ha come termine inteso: il corpo dunque è un termine dell' anima umana sentito7inteso. V' ha dunque una percezione intellettiva del proprio corpo, primigenia ed immanente, e in questa percezione consiste il nesso fra l' anima umana ed il corpo. Così s' intende il reciproco influsso dell' anima e del corpo; perocchè qualunque realità che abbia natura di principio, è di natura sua attiva, e però agisce secondo certe leggi nel suo termine. Ma poichè per agire in esso, conviene che lo abbia per termine, e non lo può avere se non gli è dato, quindi anche il principio è ricettivo e passivo rispetto al termine, e a quella virtù che gli dà il termine e a quell' altra virtù che gli modifica il termine. Egli è dunque chiaro, che fra l' anima umana e il suo corpo vi ha un commercio o fisico influsso. Come poi il principio intellettivo e il sensitivo sieno un solo principio, non sarà del tutto impossibile il concepirlo, ove, per una semplice supposizione, si considerino prima separati, e poi si supponga che il principio sensitivo, indivisibile dal suo termine, sia dato a percepire al principio intellettivo, e si domandi, che cosa ne dovrà avvenire. Converrà rispondere che il principio intellettivo non potrà percepire il principio sensitivo, se non unendosi strettamente con lui, cioè percependo tutto quello che egli sente, chè la stessa natura del principio sensitivo risulta unicamente da quello che sente. Così i due principŒ diventano un principio solo senza che si distruggano le loro attività. Perocchè due principŒ non possono essere termini l' uno dell' altro, senza che l' uno, cioè il percipiente, acquisti l' attività del percepito; chè la percezione è un nesso fisico, e un' attività non può avere un nesso fisico con un' altra attività che sia principio, senza congiungere a sè la detta attività e il detto principio. Infatti un termine rimane separato dal suo principio unicamente per la loro diversa natura, cioè perchè il termine è esteso, e il principio è semplice; perchè il termine è oggetto, e il principio soggetto; ma se la natura è la stessa, e sono entrambi due principŒ soggettivi, non si può intendere altra congiunzione fisica se non questa, che il percipiente riceva o congiunga a sè l' attività dell' altro principio senziente da lui percepito. Nè viene già per questo, che le due attività si confondano in una terza, ma soltanto, che le due attività, restando distinte, acquistino un solo principio da cui incominciano, benchè l' una subordinata all' altra. Che se dal principio intellettivo, che è il percipiente, si distacca l' attività sensitiva, il che suol avvenire quando il corpo, termine di questo, si disorganizza, e quindi il suo principio sensitivo rimane senza il termine organato che gli è proprio, ond' egli vien meno, allora succede la morte dell' uomo. La Psicologia dopo avere così ragionato dell' essenza dell' anima e della costituzione dell' uomo, passa a ragionare del movimento e dello sviluppo dell' essenza medesima, che dirama la sua attività nelle diverse potenze ed operazioni. E venuta su questo argomento ella fa due lavori, l' uno analitico , col quale deriva dall' essenza dell' anima le facoltà, e distinguendole prima dalla stessa essenza, poscia tra loro e sempre più quasi rami d' un albero, che si moltiplicano quanto più si producono, le enumera e le definisce tutte ordinatamente; l' altro sintetico , col quale raccoglie le leggi , ossia i modi costanti di operare delle dette facoltà. Nel derivare le potenze dall' essenza stessa dell' anima si presentano inevitabilmente delle gravissime questioni ontologiche, a ragion d' esempio: « come si concilii l' unità dell' essenza, e la moltiplicità delle potenze »: - « in che modo v' abbia successione nelle potenze, e permanenza o immutabilità nell' essenza »: - « come l' essenza medesima possa sostenere diversi stati accidentali » - ed altre somiglianti. Mirabili poi sono le leggi colle quali opera l' anima, o immediatamente, o col mezzo delle sue varie potenze. E l' anima essendo una, e questa razionale, dal principio razionale in relazione co' suoi termini devono emanare tutte quelle facoltà che si dicono umane, e le leggi altresì del loro operare. Quindi altre di queste leggi sono psicologiche , e son quelle che procedono dalla natura stessa dell' anima come principio attivo; altre sono ontologiche , e sono quelle che vengono imposte all' anima umana dal suo termine superiore intellettivo, il qual termine è l' ente; altre finalmente sono cosmologiche , e son quelle che vengon imposte all' anima dal suo termine inferiore, cioè dal mondo sensibile. La suprema fra le leggi ontologiche è il principio di cognizione, che si esprime così: « il termine del pensiero è l' ente. » E` incredibile quanto sia feconda e meravigliosa questa legge nelle sue applicazioni. Le leggi cosmologiche altre sono quelle che presiedono al movimento, che dà il termine sensibile allo spirito umano, altre in quelle che determinano la qualità di questo movimento. Le prime si chiamano leggi della mozione , le seconde leggi dell' armonia . Le leggi psicologiche finalmente, cioè quelle che nascono dalla stessa forza dell' animo, si dividono in due classi, perchè altre rispondono alle ontologiche, altre rispondono alle cosmologiche. La Psicologia finalmente tenta di scoprire la destinazione dell' anima umana. Ma ella non può compire questa scoperta coll' uso della sola ragione naturale, ovvero col semplice esame della natura umana. Ella può bensì mediante quest' esame rilevare dove tenda questa natura, ma le rimane ignoto quel di più, che le ha destinato la gratuita liberalità e magnificenza dell' infinito Essere che la creò. Quel solo adunque che risulta dall' esame della natura umana è questo: la prima parte di questa natura è l' intelligenza, e l' intelligenza è fatta per la verità. La seconda parte di questa natura è la volontà, e la volontà è fatta per la virtù: con essa l' uomo aderisce alla verità, la ama in tutte le cose, e così ama tutte le cose secondo la loro verità. Ma questo amore che cerca soddisfarsi negli enti, secondo la verità, vorrebbe pienamente possedere quello che ama, e che gli è bene appunto perchè l' ama. Vi è dunque una terza parte nell' uomo, e questo è il sentimento in tutta l' estensione di questa parola. Il sentimento è una tendenza a godere. La volontà dunque che aderisce alla verità, e però che è virtuosa, la volontà che di conseguente ama tutti gli enti secondo la verità, desidera altresì che tutti questi enti le si dieno a godere, giacchè col godimento si compie il suo conoscimento e il suo amore di essi. Questo è quanto dire che cerca la felicità. Di che si raccoglie, che l' anima tende di sua natura ed è destinata alla sua perfezione, e che questa perfezione consiste nella piena vista della verità, nel pieno esercizio della virtù e nel pieno conseguimento della felicità, triplice fine, triplice destinazione, in cui si trova tuttavia una perfetta unità, poichè non ci può essere un solo di questi tre elementi in modo completo, senza che ci sieno gli altri due: la verità non è veduta ne' suoi intimi visceri, se non da chi l' ama e la gode; nessuno ama pienamente la verità negli enti in cui è attuata, senza che ce la veda e ne goda; nessuno ne gode pienamente ed è felice, se pienamente non l' ama, ed è virtuoso, e pienamente non la vede ed è sapiente. L' uno di questi tre beni implica gli altri due: non sono che tre forme d' un solo ed unico bene. Ma se dall' esame della natura umana risulta che questa è la sua destinazione, come l' uomo ci arriva? Qui ammutolisce l' umana ragione, anzi rimane confusa al vedere, che non trova mai nella vita presente uno stato dell' uomo, che corrisponda pienamente a quel fine, a cui aspira. Da una parte la natura delle umane potenze diligentemente investigata, e i voti incessanti del cuore umano, fanno conoscere alla ragione l' altissimo scopo, a cui è rivolta l' umanità: dall' altra la ragione medesima vede l' umanità in sulla terra ravvolta di continuo nell' ignoranza, ludibrio delle passioni e de' vizŒ, guasta dappertutto e da per tutto infelice; la vita fuggevole siccome un lampo, incerta sempre, sempre una lotta, sempre un sacrificio, la morte di tutti quelli che nascono, chiudere tutto questo dramma. A un tale spettacolo la ragione stessa vacilla, crede d' aver sognato, perde la confidenza in sè medesima. Finalmente quasi facendo uno sforzo si ristora con un' ipotesi consolante, quella della vita futura. Ma l' umana ragione non viene da Dio abbandonata nelle sue esitazioni. Ecco, Iddio rivela all' uomo il secreto della sua bontà creatrice: l' assicura che la teoria ispirata dal sentimento, trovata dalla ragione collo studio e la meditazione dell' umana natura, non mentisce e non l' inganna: sarà adempita, ad essa risponderà fedelmente il fatto in un modo ancor più sublime della stessa teoria: tuttociò, che si manifesta sopra la terra, come un ostacolo e come una smentita data alla ragione, rimane spiegato dalla manifestazione dell' intero disegno del Creatore: diventa in questo disegno un mezzo necessario ed una conferma di quanto insegnò la ragione medesima. L' ipotesi d' un' altra vita è convertita in certezza da una testimonianza infallibile. Quest' altra vita che non ha fine, in cui l' uomo più non muore, ha in se stessa tanta copia di beni e di mali da colmare tutte le disuguaglianze e correggere tutte le irregolarità della vita temporale: in questa stessa Iddio pose i segni di quell' ordine futuro ed eterno: consegnò all' uomo de' mezzi eccellenti e al tutto divini, coll' uso dei quali egli può, volendolo, conseguire quella sublime destinazione, che la ragione soltanto da lontano e imperfettamente indicava. Questa parte dunque della destinazione dell' anima e dell' intero uomo non può essere esaurita nella Psicologia, o nell' Antropologia naturale, ma in un' altra Psicologia o Antropologia, che attigne le sue dottrine dalla bocca di Dio medesimo. COSMOLOGIA. - Questa scienza è la dottrina del mondo. L' abbiamo posta fra le scienze di percezione, perchè sono oggetti di percezione lo spirito umano ed i corpi di cui si compone il mondo. Tuttavia nel gran sistema della creazione v' ha degli altri esseri che non cadono sotto l' esperienza sensibile, e s' inducono per ragionamento; tali sono gli spiriti puri, gli angeli. La cosmologia considera il mondo 1 nel suo tutto, 2 nelle sue parti, in quanto si riferiscono al tutto, 3 nel suo ordine. La cosmologia come dottrina del tutto contingente, tratta 1 della natura dell' essere reale contingente, 2 della sua causa. L' essere contingente non ha in se stesso la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa; e poichè niuna parte dell' essere contingente, nè sostanziale nè accidentale, ha in sè la ragione della propria esistenza, quindi esige una causa creatrice: l' essere contingente è dunque tratto ogni istante dal nulla. Altra prova della creazione del mondo si ha dall' analisi della percezione; la quale analisi ci mostra, che tutto ciò che cade nel sentimento (noi stessi e il mondo), non potrebbe esser percepito, il che è quanto dire non sarebbe ente, se la mente stessa non lo vedesse unito all' essenza dell' ente: onde è questa essenza che gli dà l' atto dell' essere quasi a prestito; lo crea. Nella coscienza di noi stessi e di ogni nostra sensione o percezione troviamo una terza prova che l' ente contingente è creato, perchè noi sentiamo di sussistere, ma non sentiamo la forza che ci fa sussistere; perciò sentiamo di non sussistere per noi stessi. La natura dell' essere contingente maggiormente si illustra coll' esposizione delle sue essenziali limitazioni . Dallo studio di queste procedono importantissimi corollarŒ, un de' quali si è la dottrina intorno alla possibilità del male. Dalla dottrina delle limitazioni essenziali dell' universo, la scienza passa a quistioni più elevate. I creabili, ossia i possibili esistono distinti in Dio? e se no, come vengono distinti fuori di Dio? sono essi finiti ovvero infiniti? onde fu mosso Iddio a creare? Egli è impossibile dare una compendiosa esposizione di sì alte questioni colla soluzione delle difficoltà ch' esse ingenerano nella mente. La seconda parte della cosmologia distingue le parti dell' universo, 1 in ispiriti puri, 2 anime, 3 corpi; e tratta di ciascuna di queste parti considerate come parti dell' universo. Finalmente nella terza, in cui si parla dell' ordine dell' universo, si vengono esponendo le leggi cosmiche cioè universali a tutte le cose contingenti; e quindi si compie il discorso, incominciato già nelle parti precedenti, intorno alla bontà del mondo ed a' suoi destini. Ma questi soli cenni bastevolmente dimostrano che la Cosmologia non si può trattare compiutamente, separandola dall' Ontologia e specialmente dalla Teologia. Imperocchè come si può trattare della natura dell' ente in quant' è contingente e limitato, senza trattare ad un tempo o aver trattato dell' ente necessario e illimitato? Come si può trattare della maniera, in cui il mondo cominciò ad esistere, se non si tratta della natura e dell' operare del suo autore? Come si possono intendere le cose in quanto sono temporanee, senza l' intendimento delle cose eterne? Come si può dar ragione degli atti transeunti, senza ricorrere agli atti immanenti? Noi dunque riputiamo impossibile il fare della Cosmologia una scienza compiuta stante da sè; ma crediamo, ch' ella non possa esser altro che una parte d' un' altra scienza superiore, che dà la dottrina dell' ente, sia in astratto ed universale, e sia nel suo atto compiuto ed assoluto. L' intuizione somministra il mezzo del ragionamento; l' intuizione e la percezione somministrano al ragionamento la sua materia . Non si dà ragionamento che non prenda in fine la materia da questi due fonti. Le scienze d' intuizione e di percezione sono scienze di osservazione: osservano ciò che si presenta allo spirito da intuire, ciò che avviene nello stesso spirito, e ciò che avviene nel corpo in quanto egli è un agente nel sentimento. Su queste osservazioni si volge e si rivolge la riflessione, e seguendo la guida di que' principŒ che le somministra il lume dell' essere a cui riferisce ogni cosa, discopre nuove verità, e fin anco argomenta all' esistenza di enti che si sottraggono all' intuizione ed alla percezione. Le scienze filosofiche di ragionamento si dividono in due classi. Le une trattano degli enti come sono, e si dicono ontologiche; le altre trattano degli enti come devono essere, e si dicono deontologiche . SCIENZE ONTOLOGICHE. - Le scienze ontologiche sono due: l' Ontologia propriamente detta, e la Teologia naturale . ONTOLOGIA. - L' ontologia tratta dell' ente considerato in tutta la sua estensione come è all' uomo conosciuto; tratta dell' ente nella sua essenza e nelle tre forme in cui è l' essenza dell' ente, la forma ideale , la forma reale , e la forma morale . L' essenza è identica in tutte e tre queste forme; ma le forme sono distintissime fra loro ed incomunicabili. La forma ideale non può concepirsi senza l' essenza dell' essere, perchè ella è appunto essenza dall' essere, in quant' è conoscibile ; ma la forma reale si concepisce anche priva per sè dell' essenza dell' essere. In tal caso, la forma reale non acquista il nome di ente, nè d' oggetto, e non è concepibile se non perchè vi s' aggiunge l' essenza dell' essere, la quale le dà quell' atto di essere che le mancherebbe. Indi in parte si spiega l' origine dell' essere contingente, la creazione di quest' essere. La forma morale è il rapporto che ha l' essere reale con se stesso mediante l' essere ideale. In quanto l' ente è ideale , in tanto ha la proprietà di esser lume, e di essere oggetto . In quanto l' ente è reale , in tanto ha la proprietà di esser forza e di esser sentimento attivo e individuo, e quindi soggetto . Ma il principio senziente, ossia il soggetto, può avere per suo termine tal cosa che non è lui stesso, come sarebbe l' estensione e il corpo, e questo termine non è oggetto , e non è neppure soggetto , ed è fuori del soggetto, onde si chiama estrasoggetto . Ma questo estrasoggetto, come tale, ha un' esistenza solamente relativa al soggetto, di cui è termine. I modi dunque dell' ente reale sono due, il soggettivo , e l' estrasoggettivo . In quanto l' ente è morale , in tanto ha la proprietà di essere l' atto che mette in armonia il soggetto coll' oggetto, di esser virtù perfezionatrice, compimento del soggetto mediante l' unione e l' adeguamento all' oggetto7beatitudine dell' ente. Qualora gli enti limitati che cadono nella cognizione umana si vogliano classificare nel modo più sommario, tutti si riducono a queste tre ultime classi di enti ideali, enti reali , ed enti morali: di maniera che le tre primordiali forme dell' ente sono anche il fondamento delle categorie . Le categorie sono classi più estese di tutti i generi, e non sono generi e molto meno specie, poichè lo stesso ente che si divide in generi, e in ispecie, appartiene a tutte e tre le categorie. Quando si considera l' ente in tutta la sua estenzione, allora si scorge ch' egli ha un ordine interno , ammirando ed immutabile, di cui l' ontologia copiosamente ragiona. Da quest' ordine si raccoglie, fra le altre, la legge del sintesismo dell' ente ; la quale si manifesta in mille modi; ma principalmente mediante questa verità, che « l' ente non può esistere sotto una sola delle tre forme, se non esiste anche sotto l' altre due, quantunque al pensiero umano l' ente, anche sotto una sola forma, si rappresenti come stante da sè e percettibile in un modo distinto. » L' Ontologia non solo dà la teoria delle tre forme primordiali dell' ente e dell' identità dell' ente in esse, ma distribuisce l' ente medesimo identico sotto le tre forme in generi, specie e individui , e cerca la ragione di questa distribuzione ne' visceri dello stesso ente, colla quale investigazione va trovando in che modo l' ente sia suscettivo di limitazioni, e così spiana la via alla dottrina intorno all' origine dell' ente limitato e contingente, la quale appartiene alla Cosmologia. Ella medesimamente tratta delle proprietà essenziali all' ente, deducendole dal principio di cognizione: « l' ente è l' oggetto del pensiero », applicandolo al ragionamento, mediante quest' altro principio: « quando rimossa una data proprietà, l' ente non si può più pensare, quella proprietà gli è essenziale », che è il principio stesso di cognizione espresso in forma ontologica. Quindi deduce le proprietà ontologiche di cui deve necessariamente partecipare l' ente limitato e contingente, acciocchè sia possibile: dottrina anche questa necessaria alla Cosmologia. TEOLOGIA NATURALE. - Ma il pensiero umano non comprende totalmente l' ente come è in sè: di questo tratta la Teologia. La Teologia dunque è quella scienza che tratta dell' ente come è in sè, in quanto la mente nostra s' accorge che l' ente, oltre quella parte che a noi si manifesta, via più si stende: tratta in somma dell' Essere assoluto, di Dio. L' ente che cade naturalmente sotto l' intuizione dello spirito umano è illimitato, perchè è l' essenza stessa dell' ente, ma non è tuttavia l' ente assoluto, perchè l' intuizione non coglie l' essenza dell' ente, se non sotto una sola delle sue tre forme, sotto la forma ideale. L' ente che cade sotto la percezione dell' uomo non è che la realizzazione parziale dell' ente, realizzazione per sè distinta dall' essenza dell' ente; e il sentimento, materia della percezione, non è che la forma reale dell' ente, di maniera che l' intendimento è costretto, se vuol percepirlo, di comporlo insieme coll' essenza dell' ente, benchè quest' essenza non appartenga propriamente al sentimento contingente, come quella che è eterna. Dunque i materiali che ha l' uomo, su cui appoggiare il suo ragionamento, affine di cavarne una dottrina compiuta dell' ente, sono imperfetti e manchevoli. L' ente dunque nella sua totalità e pienezza non è dato naturalmente all' esperienza dell' uomo, e l' uomo non può sapere come egli sia , benchè egli possa sapere che è in una guisa travalicante l' umana intelligenza. Questa maniera di cognizione dicesi negativa , e tal è la cognizione spettante alla Teologia naturale che tratta dell' ente nella sua assolutezza, dell' ente non come è conosciuto all' uomo, ma come è in se stesso. La Teologia naturale dimostra primieramente l' esistenza di Dio, e ciò per molte vie, fra le quali, le principali si possono ridurre a quattro. La prima dall' essenza dell' ente che si intuisce; dimostrando, ch' ella non è nulla, ma è cosa eterna e necessaria. Ora non potrebbe esser tale s' ella non sussistesse identica anche sotto la forma di realità e di moralità. Ma l' essenza dell' ente è infinita; ed essa esistente sotto le tre forme è l' essere da ogni parte infinito, assoluto, Dio. La seconda dimostrazione dell' esistenza di Dio si trae dalla forma ideale . Questa forma ideale è luce che crea le intelligenze, ed è luce eterna, e oggetto eterno: dunque dev' esserci una mente, un soggetto eterno . Questa luce è illimitata: dunque questo soggetto dee avere una sapienza infinita, e il suo conoscere non dev' essere un atto transeunte, ma in lui tutto deve essere conosciuto per se stesso. Un soggetto che nello stesso tempo esiste come oggetto infinito , ha l' unione massima di lui coll' oggetto, onde è l' atto infinito della bontà o perfezione morale che costituisce la terza forma primordiale dell' essere. Quest' essere è dunque assoluto, è Dio. La terza dimostrazione si trae dall' essere reale percepito dall' uomo, ed è quella che abbiamo accennata, con cui la mente sale dal contingente al necessario, alla prima causa e ragione di tutto [104]. La quarta dimostrazione si deduce dalla forma morale conosciuta all' uomo. Infinita e insuperabile è l' autorità della legge morale, infinito il pregio della virtù e l' ignobilità del vizio. Questa forza obbligante, questa dignità del bene morale, non è nulla, dunque ella è eterna, necessaria, assoluta. Ma nulla sarebbe, se ella non esistesse in un essere assoluto. L' essenza della santità appartiene all' essenza dell' essere, di cui è l' ultimo compimento; come all' essenza dell' essere appartengono l' altre due forme. Vi ha dunque un essere assoluto, Dio. Dimostrata l' esistenza di Dio, la Teologia naturale deve occuparsi a determinare con precisione in che modo l' uomo possa, rimanendo nell' ordine della natura, conoscere Iddio. Ella dimostra che l' uomo non può conoscere Iddio, se non col ragionamento. Non potendo nè intuire nè percepire Iddio naturalmente in questa vita, si rende necessario il ragionamento a discoprirne l' esistenza. Ne discopre l' esistenza, come abbiamo veduto, paragonando l' uomo gli enti che intuisce e che percepisce coll' essenza dell' ente, ed osservando che essi non la esauriscono, e che dall' altra parte ella dev' essere esaurita, realizzata appieno, completata, e ciò per l' esigenza dell' essenza stessa dell' ente che noi intuiamo. Ma di quest' essere assoluto che non intuiamo, che non percepiamo, nulla possiamo sapere di più di quanto ci mostra la stessa esigenza dell' essenza dell' ente, oggetto dell' idea. Questo è il confine della cognizione che possiamo aver di Dio nell' ordine naturale: e perciò la cognizione nostra della divina natura si potrebbe anche chiamare negativa ideale. E una tale esigenza ci dimostra due cose. La prima che non possono appartenere a Dio nè i difetti, nè le limitazioni degli enti che conosciamo. La seconda, che tutti i pregi degli enti che conosciamo devono appartenere a Dio, ma non in quel modo che sono negli enti da noi conosciuti, perchè in tali enti questi pregi sono o contingenti, o limitati, o divisi, e, in una parola, essenzialmente forniti di qualche limitazione o divisione; quando nell' essere supremo devono esistere necessariamente senza divisione e limite, e insomma in tutt' altro modo, o anzi senza modo. Queste due maniere di conoscere la natura dell' ente assoluto si sogliono chiamare via exclusionis , e via eminentiae . Conosciute le maniere per le quali il pensier nostro si forma la dottrina intorno a Dio, convien passare all' esposizione di questa dottrina, la quale considera Iddio in se stesso, e in relazione alle creature come autore del mondo, completando in questa seconda parte ciò che delle operazioni divine ad extra fu detto nella Cosmologia. Iddio considerato in sè è argomento di quella parte della Teologia naturale che tratta dell' essenza divina, della quale prima si espongono gli attributi. Di poi si esamina se l' intelligenza umana, sviluppata e resa potente dalla rivelazione, possa conoscere che l' essenza divina deva essere in tre persone: questione che si risolve affermativamente, come affermativamente fu sciolta da due teologi moderni, il P. Ermenegildo Pini, ed il Mastrofini. Rimane tuttavia ben fermo, che anche la dottrina intorno la Trinità, a cui può giungere la ragione, non è appunto altro che negativa ideale. Trattandosi di Dio come autore delle cose, si ragiona principalmente sulla relazione che ha l' atto creatore coll' atto dell' essenza divina e coll' atto delle stesse creature esistenti. Applicando poi al creatore dell' universo gli attributi dell' infinita potenza, scienza e bontà, di cui s' era parlato, s' entra nell' amplissima dottrina della conservazione e del governo dell' universo, come pure del fine assegnatogli, il cui adempimento non può fallire; e questa parte della Teologia, che contempla nel mondo i vestigi degli attributi di Dio, cioè la Provvidenza che regola gli avvenimenti secondo un eterno disegno, la potenza che li conduce all' adempimento di quel disegno senza vincolare la libertà delle creature intelligenti, e la bontà, la santità e la beatitudine partecipata a queste nature in una misura massima fra le possibili (salvi i divini attributi), che ne è lo scopo finale, forma quello speciale trattato che acconciamente si denomina Teodicea. SCIENZE DEONTOLOGICHE. - Le scienze deontologiche sono tutte quelle che trattano della perfezione dell' ente , e del modo di acquistare o produrre questa perfezione o di perderla. Si può trattare della perfezione degli enti in generale, onde nasce una Deontologia generale , e si può trattare della perfezione propria di ciascuna specie di enti, onde nasce la Deontologia speciale , che in più scienze si divide. DEONTOLOGIA GENERALE. - Gli enti possono considerarsi nella grande unità che formano mediante le loro relazioni scambievoli, di perfezione. Se queste relazioni si classificano secondo le categorie, si avranno tre grandi classi di relazioni: relazioni di perfezione proprie degli enti morali, relazioni di perfezione proprie degli enti intelligenti, relazioni di perfezione proprie degli enti reali, sieno sensitivi, sieno estrasoggettivi . E dissi relazioni proprie degli enti intelligenti, anzichè degli enti ideali, perchè l' ente ideale è propriamente un solo e semplicissimo, onde, quando si prescinde dai soggetti intelligenti e dagli enti reali, egli non ha intrinseche relazioni. Le relazioni di perfezione , disposte nelle accennate tre classi, sono immutabili se si considerano nell' essere supremo, ma, se si considerano nell' essere contingente, possono essere più e meno, e più e meno realizzate. Il loro realizzamento maggiore o minore trae seco altresì la maggiore o minor perfezione degli enti fra cui passano le accennate relazioni. Quindi nell' essere supremo c' è la somma ed immutabile perfezione, perchè le dette relazioni di perfezione sono immutabilmente e compiutamente avverate. L' essere contingente all' opposto è suscettibile d' imperfezione, e di più o men perfezione secondo l' avveramento delle accennate relazioni. Se le relazioni proprie degli enti reali sono appieno avverate, vi ha una perfezione reale: Se sono pienamente avverate le relazioni proprie degli enti intelligenti, vi ha una perfezione intellettuale: Se sono avverate le relazioni proprie degli enti morali, vi ha una perfezione morale. Queste relazioni, nel cui avveramento sta la perfezione dell' essere, hanno dunque un' esigenza sì in se stesse (oggettivamente considerate) che relativamente agli enti che sono i soggetti della perfezione e dell' imperfezione (soggettivamente considerate). Per esigenza oggettiva s' intende quella che concepisce la mente considerando l' essere in se stesso, senza fermarsi alla relazione con un soggetto particolare e reale. L' esigenza soggettiva è quella che concepisce la mente nel soggetto particolare e reale, osservando che la perfezione di questi esige l' avveramento di quella data relazione. La parola esigenza esprime quella necessità che è propria delle condizioni necessarie all' ottenimento di un fine, e che prende natura dal fine stesso. Ora v' ha una necessità reale o fisica, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti reali di essere avverate, acciocchè gli enti reali o fisici ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità intellettuale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti intellettuali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la loro perfezione. V' ha una necessità morale, ed è quella esigenza che hanno le relazioni proprie degli enti morali di essere avverate, acciocchè essi ottengano la propria perfezione. Queste sono le tre necessità deontologiche , diverse dalle necessità ontologiche ; poichè le prime sono necessarie alla perfezione degli enti, le seconde alla loro esistenza. V' ha dunque una necessità fisica ontologica, e una necessità fisica deontologica; una necessità intellettuale ontologica (a cui si riduce anche la necessità logica), ed una necessità intellettuale deontologica; una necessità morale ontologica, ed una necessità morale deontologica. In Dio non cade questa distinzione, perocchè la necessità deontologica è ontologica per l' eccellenza della sua natura. Ma giacchè la perfezione è una forma, e, come abbiam veduto, ci sono forme soggettive e forme oggettive , perciò ci sono pure perfezioni soggettive e perfezioni oggettive . Di più, le forme soggettive, altre hanno una realità distinta dal soggeto informato, altre non sono che un elemento costitutivo dello stesso soggetto informato. Ora la stessa distinzione è da farsi delle perfezioni degli enti. In fatti gli enti reali hanno una perfezione propria, e ne hanno una che ricevono dall' azione scambievole fra loro, conveniente alla loro natura. Da questa scambievole unione ed azione risulta sempre la perfezione degli enti composti. Come la forma che fa esistere le intelligenze è un oggetto, così pure è oggettiva la forma che le perfeziona. Ma la forma che perfeziona gli enti morali, cioè dotati di volontà e di affetto razionale, è soggettiva7oggettiva , poichè la perfezione della volontà sta nel voler bene a tutti gli enti, alla totalità dell' ente, ma distribuendo questo affetto secondo la norma dell' oggetto, ossia, che è il medesimo, secondo il quantitativo di entità misurato negli enti coll' essenza dell' ente, che risplende allo spirito, e che è l' oggetto dello spirito, e la misura universale . L' ente intuito misura i diversi enti; e la volontà sente l' esigenza loro di essere riconosciuti per quel che sono. La volontà non dee opporsi all' intendimento, ma dee compiacersi del vero conosciuto dall' intendimento. Tutti gli enti sono per loro natura beni alla volontà, sono a lei amabili. Ma la volontà, essendo libera, può opporsi a questa legge di natura, e alle entità vere opporre delle entità false, come oggetti del suo amore; può accrescere e diminuire a se stessa le entità, e quindi i beni in opposizione al vero loro essere. Ora così facendo, ella contraddice alla verità, mentisce, fa guerra all' entità, è dunque ingiusta; altera la legge naturale che sta fra lei e gli enti reali, è dunque disordinata, snaturata. La menzogna interna, l' ingiustizia, il disordine volontario è il male morale: il contrario a tutto questo, è il bene. Il male si deve evitare, e il bene seguire. L' obbligazione non è altro che il concetto del male e del bene morale che dimostra all' anima la sua necessità. Fra i beni quello che si presenta più chiaro e più compiuto alla mente è l' ubbidienza all' essere supremo : tra i mali la disubbidienza al medesimo. La verità dunque e l' entità è il primo fonte e il primo nunzio dell' obbligazione; gli enti hanno, rispetto alla volontà, l' esigenza morale. L' esigenza ossia la necessità morale , è dunque diversa grandemente dall' esigenza che traggono seco le relazioni di perfezione degli enti reali e intellettuali; poichè la perfezione degli enti semplicemente reali e degli enti intellettuali non è la perfezione d' una volontà. La perfezione morale all' incontro è la perfezione d' una volontà, e dalla volontà è operata. Ora nella volontà consiste la persona , e la sola persona è vera causa delle azioni, a cui si possono imputare. Sebbene dunque l' ente reale possa essere più o meno perfetto, tuttavia questa perfezione non s' imputa all' ente reale, che n' è il soggetto e non la causa; ma solo si contempla dall' intelletto come una perfezione dell' ente. Lo stesso è a dirsi circa la perfezione dell' essere intellettivo. Sono perfezioni di natura, e non di persona. Quindi, rispetto alla perfezione degli esseri reali ed intellettuali, vi ha una sola esigenza; quella che dice: « acciocchè gli enti reali ed intellettuali siano perfetti, devono essere così e così. » Ma rispetto alla perfezione dell' ente morale concorrono due esigenze, l' una che nasce dall' ente in sè considerato e che dice: « l' entità, la verità dev' essere riconosciuta dalla volontà »: l' altra nasce dalla natura della stessa volontà e dice così: « se la volontà non riconosce l' entità e la verità, essa non ha la perfezione ». La prima è l' obbligazione imposta alla persona dall' esigenza degli enti da lei conosciuti (esigenza oggettiva); la seconda è l' esigenza della volontà stessa considerata come natura suscettibile di perfezione (esigenza soggettiva). La dottrina della perfezione degli enti può dividersi in tre gran parti. La prima descrive l' archetipo di ogni ente, cioè lo stato dell' ente che ha toccato la sua somma perfezione. La seconda descrive le azioni , colle quali si può produrre le perfezioni degli enti. La terza descrive i mezzi , coi quali si può acquistar l' arte delle dette azioni. L' archetipo dell' ente, ossia la perfezione ideale, è l' esemplare e la guida di tutte le arti; le azioni , colle quali si producono le perfezioni degli enti, sono comprese in tutte le arti meccaniche, liberali, intellettuali, morali; i mezzi che conducono a queste arti, costituiscono l' educazione speciale, ossia la scuola delle dette arti. Quindi apparisce l' immensa vastità della Deontologia generale . La Deontologia speciale è più vasta ancora, poichè ce n' è una per ogni specie di enti. E non solo per gli enti naturali , ma ben anco per gli artificiali . E se si parla di quelli di cui è artefice l' uomo, si fanno avanti, tra le arti più nobili, quelle che hanno per iscopo di produrre degli oggetti belli. Ciascuna delle belle arti ha la sua scienza propria; e tutte queste scienze suppongono una scienza del bello in universale, che chiamiamo Callologia, della quale è una parte speciale l' Estetica, che tratta del bello nel sensibile . Ma la Callologia e l' Estetica appartengono prima di tutto alla Deontologia generale, e massimamente a quella parte che descrive gli archetipi degli enti. Noi non ci fermeremo a classificare tutte le scienze deontologiche speciali, ma restringeremo il nostro discorso alla deontologia umana, cioè alla scienza della umana perfezione. L' uomo è un essere reale, intellettuale e morale; quindi partecipa della perfezione propria dei tre modi dell' essere. Ma poichè la perfezione morale è completiva dell' altre, ed ella sola è perfezione personale; perciò la dottrina della perfezione morale è quella che riassume in sè la dottrina dell' umana perfezione. La dottrina dell' umana perfezione presenta alla mente quelle tre stesse parti in cui abbiamo detto dividersi la Deontologia generale, cioè 1 la dottrina dell' archetipo umano , a cui ogni uomo deve procurare di avvicinarsi; 2 la dottrina di quelle azioni, colle quali l' uomo avvicina e conforma se stesso a quell' archetipo; 3 la dottrina de' mezzi ed aiuti, co' quali è stimolato e avvalorato a tali azioni. La prima di queste dottrine dicesi Teletica , la seconda Etica , la terza, cioè la dottrina dei mezzi, si parte in più scienze, perchè l' uomo può acquistare ed applicare questi mezzi a se stesso, e questa scienza dicesi Ascetica; ovvero può applicargli a' suoi simili, eccitandogli e aiutandogli all' acquisto della perfezione umana, e la scienza che insegna ad applicargli all' individuo, dicesi Educazione o Pedagogica; quella che insegna ad applicargli alla società famigliare, acciocchè questa, resa buona, influisca a render buoni gl' individui che la compongono, chiamasi Iconomia; quella che insegna ad applicargli alla società civile, acciocchè anche questa, resa buona, abbonisca i suoi membri, dicesi Politica; quella finalmente che insegna ad applicargli alla società teocratica del genere umano, dicesi Cosmopolitica . TELETICA. - La scienza che descrive l' uomo perfetto come un archetipo, non fu ancora scritta nè tentata, ed ella non potrebbe essere prima che tutte l' altre scienze intorno all' uomo giungano alla loro perfezione; e neppur allora questa scienza sarà mai compiuta. Massimamente che l' uomo al presente è decaduto e la sua natura non fu pura giammai, nè era conveniente che tale fosse lasciata, onde fu sempre mista col divino e col soprannaturale; e ciò che può divenir l' uomo più perfetto in quest' ordine doppio, voglio dire naturale e soprannaturale, è cosa che vince o sfugge il pensiero stesso dell' uomo, e però non può essere compiutamente raggiunto dall' umana filosofia. Ma invece d' avere questo archetipo descritto in parole e consegnato alla morta lettera de' libri, Iddio stesso pose innanzi all' uomo il suo archetipo vivente, e questi è GESU` Cristo, Capo e Signore dell' uman genere. ETICA. - L' uomo dee esser buono e non cattivo: la bontà dell' uomo consiste nella bontà della sua volontà; poichè egli è evidente, che colui che ha una volontà pienamente buona, è uomo buono. Ora la bontà dell' uomo, e non delle cose sue, dicesi bontà morale , e quella qualità della volontà umana, per la quale l' uomo è buono, dicesi bene morale , ovvero bene onesto; e di questo bene tratta l' Etica. L' Etica dunque è la scienza che tratta del bene onesto . Il filosofo morale fa tre cose; 1 analizza il concetto del bene onesto, distinguendone gli elementi, e poi li raccoglie tutti in una definizione scientifica; 2 cerca di conoscere in che modo, cioè con quali atti volontarŒ e liberi e con quali abiti l' uomo il possa conseguire, e per lo contrario in che modo e con quali azioni lo perda, rendendosi malvagio; 3 quanta sia l' eccellenza e la preziosità del bene onesto, senza del quale gli altri non sono veri beni per l' uomo. Quindi l' Etica si divide in tre parti. La prima tratta della natura del bene onesto , e dicesi Etica generale , perchè non discende a nessuno di quegli abiti o atti speciali, ne' quali il bene onesto si trasfonde; ma parla di quella condizione che tutti gli abiti e tutti gli atti devono avere per essere onesti. La seconda tratta de' modi del bene onesto ; e dicesi Etica speciale , perchè lo considera negli abiti ed atti speciali che lo partecipano. La terza tratta dell' eccellenza del bene onesto; e dicesi Eudemonologia dell' Etica , perchè l' eccellenza del bene onesto si scorge singolarmente nel vedere resa da lui perfetta e felice la natura intelligente e volitiva. Etica generale . - Dovendo dunque la prima parte dell' Etica trattare del bene onesto, ella ne investiga gli elementi, i quali sono tre, la volontà e libertà , la legge , e la conformità della volontà e libertà colla legge . Trattando della volontà, l' Etica s' appropria una parte dell' Antropologia o della Psicologia, trattando del potere della volontà sulle altre potenze dell' uomo, de' confini di questo potere e della libertà di cui è fornita, per la quale diventa causa responsabile delle azioni. Parlando della legge (Nomologia), la definisce da principio in un senso larghissimo, come il principio dell' obbligazione . Cerca in appresso quale sia la prima di tutte le leggi, cioè quale il primo principio dell' obbligazione espresso in una formola logicamente anteriore a tutte le altre, di modochè ella esprima l' essenza stessa dell' obbligazione, nel primo atto in cui all' uomo si manifesta, senza che questi abbia bisogno di cercarne una ragione ulteriore. E poichè il lume della ragione e della volontà umana è l' essere ; quindi apparisce, che la prima formola dell' obbligazione evidente per se medesima, si è: « Segui il lume della ragione », ovvero: « Riconosci l' essere »Conoscere è l' atto della ragione, ed appartiene sempre all' ordine teoretico ; riconoscere spesso è l' atto corrispondente della volontà, ed appartiene all' ordine pratico . Ma l' essere ha un ordine in se medesimo, onde avviene che certi esseri sieno maggiori e più eccellenti di altri ed abbiano maggior dignità, e quest' ordine è quello che deve essere riconosciuto dalla volontà, onde la formola dell' obbligazione universale, ossia il principio dell' Etica può anche esprimersi così: « riconosci l' essere qual' è nel suo ordine ». L' atto della ricognizione pratica è quello in cui nasce la stima proporzionata al grado dell' essere, e alla stima tien dietro un' eguale quantità di amore, che si diffonde anch' egli proporzionatamente su tutti gli enti, e all' amore tengon dietro, o per mezzo di decreti della volontà, o senza decreti espressi, le operazioni esteriori ordinate in conformità di quell' amore, le quali rendono decente e armoniosa tutta la vita dell' uomo virtuoso. Ma fra gli esseri, Iddio è assoluto principio e fine di tutti gli altri: egli dunque è il fine ultimo altresì della volontà e de' suoi atti nell' uomo onesto, il fine ultimo in cui tende ogni ricognizione, ogni stima, ogni amore, ogni azione umana: indi la Religione, come morale ultimata e sollevata all' ultimo suo stato di compitezza, nel quale ogni dovere diventa sacro, ogni virtù diventa santità. Come dunque tutti gli esseri procedono da Dio per la creazione e da lui dipendono per la conservazione, così a lui tutti devono riferirsi, e alla volontà divina tutte le volontà conformarsi. E la volontà divina diviene altresì il fonte della legislazione positiva, cioè di quelle leggi che sono positivamente manifestate da Dio agli uomini. L' Etica indica la differenza fra la legge naturale e la positiva , e mostra come il rispetto dovuto a questa procede da quella. Dopo i doveri verso Dio, vengono i doveri verso le create intelligenze, i doveri che ciascun uomo ha verso i suoi simili, quantunque questi sieno subordinati ai doveri verso Dio, come i creati sono subordinati al creante; tuttavia anche gli uomini sono oggetti di doveri morali, come quelli che hanno ragione di fine, ed hanno ragione di fine, perchè sono forniti d' intelligenza e nell' intelligenza c' è l' essere ideale, il quale è un elemento divino. Infatti la volontà che è la facoltà attiva dell' intelligenza, non può avere per suo fine e per suo bene, se non qualche cosa d' infinito e di divino: onde procede quella sentenza che « la morale abbraccia sempre in qualche modo l' essere nel suo tutto. » Svolgendo il secondo elemento del bene morale cioè la legge, l' Etica insegna ancora ad applicarla ai casi speciali, onde la logica speciale sua propria che tratta principalmente della coscienza morale. Quivi si danno le regole per applicare le leggi alle azioni particolari, e specialmente al caso, in cui si dubiti della legge. La regola principale da applicarsi a questo caso è la seguente: « se si dubita dell' esistenza della legge positiva e non si può sciogliere il dubbio, la legge non obbliga, se poi si dubita in una materia appartenente alla legge naturale in modo che il dubbio cada sopra un male intrinseco all' azione, deve evitarsi il pericolo di questo male. » Venendo poi al terzo elemento, cioè alla relazione fra la volontà e la legge, l' Etica espone tutti i modi, in cui questa relazione può variare, e descrive i diversi stati buoni o rei in cui entra la volontà e la libertà umana, e l' uomo stesso mediante tali variazioni. Etica speciale . - Trattando questa seconda parte dell' Etica delle forme speciali del bene e del male morale, comincia dal distinguere l' atto e l' abito , mostrando la varia moralità di cui l' uno e l' altro è suscettivo. Quindi passa ad esporre gli officŒ speciali verso la divinità e verso l' umanità. Riguardo a questi ultimi, l' uomo deve rispettare ed onorare la natura umana in se stesso e ne' suoi simili: deve rispettarla negli individui e nelle diverse società o naturali o artificiali, nelle quali gli uomini si uniscono. Tutte le relazioni sociali prestano occasione all' esistenza di officŒ morali. Tratta in appresso degli abiti , e quindi di tutte le speciali virtù e di tutti i speciali vizŒ . Ragiona ancora de' mezzi co' quali può evitarsi il male e procacciarsi il bene morale, alla qual parte come abbiam veduto, si suol dare il nome d' Ascetica. Eudemonologia dell' Etica . - Questa terza parte finalmente considera l' eccellenza del bene morale e la turpitudine del male morale: mostra che l' una e l' altra è infinita: descrive la dignità e la gioia dell' anima virtuosa, l' ignobilità e la miseria della viziosa: prova che niun uomo veramente virtuoso è infelice, niun malvagio felice: apre quindi la fiducia e l' aspettazione, che giace nel cuor umano, che la virtù abbia premio eterno, il vizio eterno castigo: lo prova co' divini attributi: e dopo aver condotto l' uomo fin qui, quasi pedagogo, il savio filosofo consegna il suo alunno nelle mani d' una maestra più sublime, la Rivelazione. DIRITTO RAZIONALE. - Dall' Etica procede l' amplissima scienza del Diritto razionale: questo nasce dalla protezione, che l' Etica, ossia la legge morale, dà al bene utile , e più generalmente a tutti i beni eudemonologici, di cui possono fruire gli uomini. Infatti uno dei doveri etici è quello che l' uomo non noccia al suo simile: i giureconsulti romani l' espressero colla formola neminem laedere . Nessun uomo dunque può pregiudicare al bene che ha il suo simile. Ora l' uomo che ha questo bene, il quale, in virtù della legge morale non può esser toccato da nissuno, dicesi che ha un diritto . Se l' uomo che ha questo diritto, non avesse la facoltà di cavarne dell' utilità a se stesso, non ci sarebbe più nè il bene, oggetto del diritto, nè il diritto stesso. Il diritto dunque subiettivamente, cioè in rispetto al subietto che lo possiede, è una facoltà eudemonologica, protetta dalla legge morale. E dall' esser questo bene eudemonologico protetto dalla legge morale, egli acquista una certa dignità morale, e colui che lo possiede acquista la potestà di difenderlo contro quelli che glielo volessero rapire, o comechessia deteriorare. La scienza del Diritto quindi si occupa 1 In classificare tutti que' beni che possono esser oggetto o materia di diritto: 2 In determinare qual sia la protezione che la legge morale loro accorda, fin dove s' estenda e a quali condizioni: 3 In decidere i casi dubbŒ, cioè quelli che nascono per la collizione apparente dei diritti: 4 In determinare altresì fin dove sia autorizzata la difesa de' diritti dalla stessa legge morale, e in quali circostanze e condizioni ella sia legittima: 5 Finalmente tratta della soddisfazione e del risarcimento de' diritti violati, e però de' danni e delle ingiurie. Tutti i beni ed i diritti che ha l' uomo in relazione co' suoi simili, ricevono due forme, che diventano la base della suprema classificazione dei diritti medesimi: la libertà , e la proprietà . La libertà è quella potestà che ciascuno ha d' usare di tutte le sue potenze, fino a tanto che non entra nella sfera de' diritti altrui, cioè che non tocca i beni che hanno già i suoi simili. La proprietà è l' unione de' beni coll' uomo: questa unione riposa sopra una legge psicologica, la quale fa sì che l' uomo possa unire a sè delle cose diverse da sè, quasi a somiglianza di quell' unione che ha il suo corpo coll' anima sua. Quest' unione permanente si fa per via di sentimento e per via d' intelligenza; per via di sentimento anche le bestie uniscono a sè delle cose esteriori: così sono uniti i figliuoli alla madre, i cibi che hanno presenti o che raccolgono, i nidi e le abitazioni ed altre cose che talora si contendono tra loro a morte, e così hanno una certa proprietà, ma non morale nè giuridica. L' uomo unisce a sè le cose per vincolo naturale e di sentimento ed anche pel vincolo che vi soprappone l' intelligenza, per mezzo della quale l' uomo fa assegnamento su molte cose esterne e le riserva agli usi futuri. Questa ancora è una certa proprietà, ma non quella proprietà che costituisce il diritto. Ma quando al vincolo del sentimento e a quello dell' intelligenza s' aggiunge il vincolo morale , allora la proprietà è convertita in diritto. Ora questo vincolo consiste, come dicevamo, nella protezione che la legge morale accorda ai due primi vincoli, imponendo agli altri uomini l' obbligazione di rispettarli: la ragion morale poi impone questa obbligazione, quando que' due primi vincoli fra l' uomo e le cose sono stati stretti mediante la libertà giuridica, cioè senza dividere le cose appropriatesi da altri uomini, a cui fossero già unite. E una tale obbligazione nasce da questo: il dividere ciò che l' uomo ha seco unito d' affetto e d' intelligenza, è un cagionarli dolore, un fargli male; ma non si può far male altrui per far bene a se stesso; dunque la ragion morale vieta di offendere l' altrui proprietà. Il subietto dei diritti può essere l' uomo individuo considerato in relazione co' suoi simili, e l' uomo sociale . Quindi la scienza del diritto ha due parti, che sono il diritto individuale e il diritto sociale . Il diritto individuale ragiona di tre cose, cioè: 1 De' diritti connaturali e de' diritti acquisiti, descrivendone la natura e le condizioni, i titoli e i modi d' acquisto: 2 Della trasmissione de' diritti e delle modificazioni che ad essi derivano: 3 Delle alterazioni de' diritti altrui e delle obbligazioni e modificazioni de' diritti scambievoli che ne conseguono. Il diritto sociale nasce dall' individuale , perchè nasce dal fatto dell' associazione, e la facoltà di associarsi onestamente fra loro è un diritto connaturale di tutti gl' individui umani, il quale non viene limitato se non dalla circostanza, che la nuova associazione entri a perturbare un' altra associazione precedente e già in attuale possesso. Il diritto sociale è universale , e particolare . Il diritto sociale universale considera i diritti e i doveri che nascono dal fatto di un' associazione qualunque, e questo è interno fra i membri della società, o esterno tra la società di cui si tratta e le altre società, o anche tra essa e gl' individui che sono fuori della medesima. Il diritto interno si divide naturalmente in tre parti, le quali trattano: 1 Del diritto signorile , in quanto si mescola col diritto governativo. 2 Del diritto politico o governativo, che è quanto dire de' diritti e delle obbligazioni di chi governa e amministra la società. 3 Del diritto comunale , che espone i diritti e le obbligazioni comuni a tutti i membri della società. Questa stessa divisione s' applica al diritto sociale particolare , essendoci in ogni società quelle tre maniere di diritti e di obbligazioni sociali. E ci possono essere innumerevoli società, ciascuna delle quali ha il suo diritto che risulta da un' applicazione de' principŒ esposti nel diritto sociale universale ; ma v' hanno tre società che sono necessarie al genere umano e l' organizzano, la perfezione delle quali dee ricondurre il genere umano alla sua primitiva unità e renderlo come una sola famiglia ordinatissima. Queste tre società sono la Teocratica , che è naturale7divina; la Domestica che è naturale umana, e si biparte nella Coniugale e nella Parentale; e la Civile che è una società artificiale, ma necessaria al bene dell' umana specie. Il diritto particolare di queste tre società dà luogo a tre trattati di altissima rilevanza. La società Teocratica è o iniziale, e avvincola gli uomini per via della morale e della religione naturale; ovvero perfetta, ed è la Chiesa Cattolica che avvincola oltracciò e stringe gli uomini con de' legami positivi d' una religione e d' una morale rivelata e soprannaturale. Anche qui c' è un diritto signorile , un diritto governativo , e un diritto comunale . Il diritto della società domestica è duplice, come dicevamo, quello che riguarda i coniugi , e tratta della natura del matrimonio e delle sue condizioni, della maniera di stringerlo e dei diritti e delle obbligazioni de' coniugi: e quello che riguarda i genitori e i figliuoli , e tratta pure de' diritti reciproci e delle obbligazioni reciproche che vi corrispondono, avuto riguardo altresì alle morali. Il diritto particolare della società civile ne espone la natura e l' origine, e quindi le tre parti della signoria , del governo e della cittadinanza , assegnando i diritti e le obbligazioni di ciascheduna, e, rispetto a questo diritto, potendo la società civile essere costituita a varie forme e provveduta di varŒ organi e funzioni, può darsi una teoria generale di diritto nazionale per tutte le società civili, avuto riguardo solo a ciò che è a queste essenziale e comune, e una teoria di diritto per ogni forma diversa che potesse prendere il corpo civile. Ma a tutto ciò sopravvanza ancora una ricerca più elevata, quando si domanda: « data che fosse una moltitudine, e questa non costituita ancora a società civile, la quale avesse incaricato un filosofo di darle una costituzione, quale sarebbe la costituzione che se le dovesse prescrivere, traendola dai soli principŒ di giustizia e fatta interamente astrazione da ogni riguardo politico ». Perocchè tale e tanta è la virtù e la fecondità dei principŒ della giustizia, che quando si deducono da essi le illazioni che ne procedono (al che si richiede certamente una mente costante), queste sole ci darebbero tutte le leggi anche politiche, colle quali si può organare internamente una nazione, colla massima probabilità di concordia e di prosperità. E sta qui la congiunzione fra le scienze giuridiche e le politiche . Finalmente il diritto esterno , o comune ad ogni società, o particolare di ciascuna di esse, non è che un' applicazione del diritto individuale, considerandosi le società come altrettanti individui. DOTTRINA DE' MEZZI. - Ascetica . - L' Ascetica non può fare una scienza separata dall' Etica, perchè argomento dell' Etica è l' obbligazione morale e la virtù non solo ne' loro concetti universali, ma anche ne' loro atti più speciali; ed è manifesto, che i mezzi e gli aiuti alla virtù sono materia d' obbligazione per l' uomo, e il procacciarsegli e l' usarli convenevolmente sono atti virtuosi, a cui certe virtù si riferiscono. Pedagogica . - Questa scienza tratta dell' arte dell' educazione umana. L' uomo è educato parte da se stesso, parte dalla società domestica, a cui riduciamo ancora l' educazione che riceve da' precettori che suppliscono all' ufficio dei genitori o cooperano con essi, parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società civile in cui nasce e cresce, e parte dall' influenza che esercita sopra di lui la società teocratica. Onde questa scienza s' estende a molti trattati, e tali sono quello dell' educazione di se stesso , dell' educazione domestica , della magistrale , dell' educazione civile , e dell' educazione ecclesiastica . E a tutti questi si dee aggiungere un trattato che ha subietto magnifico, vogliam dire il trattato dell' Educazione provvidenziale , cioè di quella con cui Iddio, ordinando e disponendo gli avvenimenti, educò il genere umano e l' educa di continuo e gl' individui stessi. Ciascuno di questi trattati naturalmente si divide in tre parti, potendo l' uomo ricevere educazione rispetto alla sua parte morale, alla sua parte intellettuale e alla sua parte fisica. Ma l' educazione dell' individuo umano dee avere una perfetta unità, ed è un grand' errore il credere che l' educazione fisica, intellettuale e morale sieno tre cose separate e indipendenti. Quindi la prima regola dell' arte pedagogica, che è quella dell' unità . Uno è il bene umano a cui dee tendere l' educazione, e questo è il morale. Tale è il fine. Non conviene dunque che si dia un' educazione intellettuale o fisica disgiunta dalla morale, ma conviene che si dieno queste come mezzi di quella, per modo che niuna cognizione o dote intellettiva e niuna abilità corporale si promova in colui che s' educa, se in pari tempo non si subordina alla sua morale perfezione. E tutto ciò che fa l' educatore, tutti i mezzi che impiega nell' educare devono con una perfetta coerenza e costanza a questo fine ordinarsi. Tale è il principio della pedagogica. Iconomia - L' Iconomia tratta del governo della famiglia, ne indica la costituzione e le leggi reali e quasi direi meccaniche del suo movimento, sia verso la perfezione, sia a ritroso di questa, leggi che nascono dalla sua naturale costituzione. La famiglia ha dei costitutivi essenziali: oltre di questi ne ha di quelli che sono necessarŒ alla sua prosperità e che fluiscono dalle stesse leggi reali che accennavamo. Uno di questi è il principio seguente: « dee esservi equilibrio fra il numero delle persone che la compongono e i mezzi di sostentamento ». Di poi espone i principŒ dell' arte di governarla in modo che prosperi. E questa stessa prosperità vuol essere ordinata ad avvicinare gl' individui che la compongono, alla perfezione e felicità umana. Il governo della famiglia che si descrive, è quello che nasce dall' uso de' mezzi che presta la società domestica, e principalmente del potere proprio del governo famigliare. Il governatore, cioè il padre di famiglia, dee stendere le sue vedute fuori della famiglia stessa formando tali individui che sappiano mantenere la concordia e l' armonia colle altre società domestiche, colla civile e colla teocratica. Una delle malattie proprie di questa società è l' egoismo famigliare : la malattia opposta è l' individualismo . La famiglia, affetta dal primo di questi due morbi, si rende guerriera e s' espone al rischio delle guerre, onde può esser distrutta per violenza o divenire dominante: la famiglia affetta dal secondo si discioglie, o perisce per interna discordia. L' Iconomia addita i caratteri di tali malattie proprie della famiglia, e insegna il modo di preservarnela. Politica - E` la scienza dell' arte del governo civile. Si devono distinguere le scienze politiche particolari dalla Filosofia della politica . Ciascuna di quelle tratta d' un elemento o d' uno de' mezzi , con cui si governa la società civile; ma questa cerca l' ultime ragioni dell' arte. Le ultime ragioni sono primieramente i criterŒ politici , cioè quelle regole supreme che insegnano a valutare il vero valore di tutti i mezzi ed espedienti a cui ricorre l' uomo di stato nel governo della società civile. I criterŒ politici si dividono in quattro classi, che scaturiscono dal considerare la società civile come un corpo che si dee sospingere verso un termine dato. La teoria di questa operazione risulta: Dal considerarsi il termine , a cui si dee sospingere il detto corpo - Così la Filosofia della Politica dee prima di tutto investigare, qual sia il fine verso al quale dee muoversi incessantemente la civil società; e questo è la prosperità pubblica, che risulta come da cause, dalla giustizia e dalla concordia de' cittadini . Quindi i criterŒ tratti dal fine della società civile, i quali si riducono a questi due: a) Rivolgere il governo a mantenere e convalidare quella forza prevalente, a cui è appoggiata l' esistenza della società; e questa forza prevalente, cangia secondo i diversi periodi di vita che la società civile percorre. Quindi la teoria di questi cangiamenti. In altre parole, questo criterio s' esprime brevemente così: « aver cura della sostanza della società civile e trascurare gli accidenti ». b) Rivolgere il governo a fare che i cittadini ottengano la prosperità temporale nella moralità, ossia a fare che la prosperità temporale produca il bene proprio della natura umana, del quale solo l' uomo s' appaga. I cittadini appagati sono tranquilli e concordi. Dal considerarsi la natura dello stesso corpo. - Così la Filosofia della Politica dee investigare la natura della società civile e la sua natural costruzione e dedurne questa regola: « quella politica che avvicina la società civile alla sua costruzione naturale e regolare, è buona, quella che ne l' allontana, è cattiva ». La natural costruzione della società civile risulta da alcuni equilibrŒ che sono i seguenti: a) Equilibrio fra la popolazione e la ricchezza. b) Equilibrio fra la ricchezza e il potere civile. c) Equilibrio fra il potere civile e la forza materiale. d) Equilibrio fra il potere civile e militare, e la scienza. e) Equilibrio fra la scienza e la virtù. I criterŒ politici di questa classe si riassumono in questa formola: « tutti i mezzi politici che avvicinano la società civile ai cinque equilibrŒ sopra indicati, sono buoni, quelli che ne l' allontanano, sono cattivi ». Dal considerarsi le leggi del movimento . - Così la Filosofia della Politica deve considerare nella storia le leggi, secondo le quali si muovono le società civili; pensiero dovuto a Giovambattista Vico, che potè indicarlo, non isvolgerlo a sufficienza, per la profondità delle meditazioni che si richiede a colorirlo e incarnarlo mediante sagaci osservazioni sulle diverse trasformazioni subìte da ciascun popolo della terra. Quindi de' criterŒ politici che si riducono a questa formola: « i mezzi politici che stanno in armonia colle leggi del movimento naturale delle società civili, sono buoni; gli altri come contrari alla natura, sono cattivi. » Dal considerarsi le forze atte a spingere i corpi. - Così la Filosofia della Politica dee valutare le forze, per le quali la società civile è sospinta verso il bene. Questa valutazione esige molta sagacità e una gran potenza d' astrazione, perchè ci sono delle forze dirette e delle indirette , e queste ultime sfuggono alla attenzione, e sono quelle che producono i maggiori effetti. Da questo fonte si deducono de' criterŒ politici che tutti si riassumono in questa formola: « I mezzi politici, che con minor dispendio e con minor azione ottengono un effetto più grande di bene sociale, sono i migliori. » Scoperti così i sommi criterŒ politici, che sono le ultime ragioni di quest' arte e costituiscono la Filosofia civile , rimane a farne l' applicazione, cioè a valutare con essi il vero valore rispettivo di tutti i mezzi politici somministrati dalle particolari scienze politiche, ricerca che conduce a questo risultato: « La Religione e propriamente il Cattolicismo è il mezzo politico di maggior valore, quello che tempera ed armoneggia tutti gli altri. » Cosmopolitica . - Questa scienza è la teoria del governo della società teocratica, come quella da cui sola può venire l' unità del genere umano e la sua organizzazione compiuta. La filosofia spinge avanti tutte queste ricerche fino a tanto che la mente umana trovi il suo pieno soddisfacimento, il suo riposo. La mente trova questo riposo, quando ella è giunta a discoprire le ultime ragioni a cui ella possa giungere, e s' è persuasa ad evidenza, ch' esse sono veramente le ultime, ch' ella non può in alcun modo andare al di là. Ora poi queste ragioni ultime, rinvenute che siano, rispondono altresì ai supremi bisogni dell' animo umano. E tale è il frutto della filosofia. Se il fine della filosofia è di trovar quiete e riposo alla curiosità della mente, il suo frutto più prezioso ancora è di assicurare l' animo umano della possibilità che egli giunga al compimento di tutti i suoi desiderŒ, di togliergli intorno a ciò ogni incertezza, e di additargli quella sicura via, per la quale egli giunga alla cima a cui tende. La qual via lo conduce a Dio, a cui il consumato filosofo si dà ad ammaestrare come discepolo, ed a perfezionare come creatura. Tale è il fine della filosofia, tale il suo frutto. Ma se invece di considerare la scienza , si vuol considerare la scuola della filosofia , ella in tal caso diventa la vera pedagogia dello spirito umano , della mente cui manoduce alla scienza più compiuta, e dell' animo a' cui affetti svela innanzi il più compiuto bene. Sotto il quale aspetto d' una pedagogica dell' umanità la filosofia è concepita da Platone. Mi parrebbe essere troppo scortese, se non ringraziassi V. S. del dono, che non posso dubitare venirmi da lei, del primo dei suoi discorsi sulla necessità di restaurare nelle scuole italiane la clinica Ippocratica , e del suo « Saggio intorno al fondamento, al progresso ed al sistema dell' umana conoscenza »; ma la sola stima, che m' ha ingenerato della sua persona la lettura di queste sue produzioni scientifiche, è quella che mi muove, non dirò a scriverle il mio giudizio di quest' ultima, com' ella mi chiede nella scritta appostavi, ma piuttosto a sottometterle qualche osservazione su di ciò che tanto gentilmente ella dice del mio sistema filosofico. Prima però non posso tacerle il grato sentimento, che in me cagionò la lettura del suo discorso contro la dottrina eccitabilistica, persuasissimo, come sono, che anche in medicina, del pari che nelle altre scienze tutte, la presunzione de' moderni abbia ingiustamente dispregiata l' antica sapienza, o, a dir meglio, la sapienza tradizionale de' secoli. E riconoscendo l' acutezza delle sue vedute e il suo modo complessivo di pensare, più volte nacque in me il desiderio, che ella, come giudice competente, vedesse ed esaminasse quelle cose, che io dissi nell' « Antropologia » sull' animalità, certo che dal suo giudizio se ne potrebbe vantaggiare la scienza. Io ho sempre avuto in sospetto la teoria browniana, qualunque fosse la foggia ch' ella vestisse dopo il primo suo autore, parendomi che quella teoria supponga troppo men complicata la natura ch' essa non è, e troppo facil cosa l' arte medica. Quanto poi alla sua sentenza sulla natura della vita, penso che ella dovesse riscontrare qualche cosa di analogo al suo concetto in quella mia « Antropologia . » Nella quale tuttavia io proposi due maniere di definire la vita che mi sembrano necessarie indispensabilmente a distinguersi, per trovare l' anello di congiunzione fra la Fisiologia e la Metafisica: l' una delle quali tende a definire la vita da' fenomeni soggettivi (di sentimento), e l' altra da' fenomeni estrasoggettivi (d' osservazione esterna); nè so, che questa doppia maniera di concepire e definire la vita sia stata da altri notata o svolta a quel modo che io ho procurato di fare; e molto mi piacerebbe, se ella si compiacesse di considerarla. Ora eccomi ad esporle le osservazioni che le dicevo sulla maniera, ond' ella, nel suo « Saggio » intorno all' umana conoscenza, concepisce il mio sistema filosofico. Mi permetta che affin di procedere con chiarezza maggiore io richiami le sue parole. Dopo aver ella dichiarato di trovarsi meco d' accordo in « riconoscere nella origine dell' umano sapere la concorrenza di elementi sperimentali ed intellettuali insieme », soggiunge così: « Se non che, rispetto alla teorica da lui esposta, dobbiamo dichiarare, non esserci stato possibile di convincerci che tutto il dato, che vien posto dall' intelligenza nella formazione delle conoscenze, si riduca all' idea dell' ente in universale: siccome egli fermamente mantiene in tutti i suoi trattati. » Da queste parole potrebbe credersi, che nella formazione della conoscenza il soggetto uomo, secondo me, non mettesse del suo, se non l' idea dell' ente in universale, il quale dicesi suo solo perchè lo possiede e ne fa uso, benchè non costituisca alcuna parte del soggetto medesimo. Ma qualora si dovessero intendere a questo modo le sue parole, esse non renderebbero la mia mente, anzi se ne dipartirebbero d' assai. Perocchè, io fo risultare la conoscenza (non però ogni conoscenza) da tre, e non da due sole specie ben distinte di elementi, cioè 1 da elementi esterni, estrasoggettivi ; 2 da elementi soggettivi , che sono le leggi venienti dalla natura del soggetto conoscente; 3 da elementi oggettivi , che si riducono poi all' essere , di cui abbiamo, com' io penso, un' immanente intuizione. Vede ella dunque che alle leggi che emanano dalla natura del soggetto , io fo assai volentieri una buona parte nell' opera della formazione della conoscenza umana; e che da queste leggi soggettive io distinguo al tutto l' oggetto , cioè l' essere , il quale non emana punto dall' uomo, soggetto; nè può ricevere da lui alcuna vera passione, ma vien dato all' uomo dal di fuori, cioè da Dio, viene mostrato all' uomo, e il mostrarglielo è il medesimo che dargli il lume d' intendere tutte le cose, in una parola renderlo un essere intelligente. Per me, niuna mente può intendere mai altro che essere, non può ragionare d' altro che di essere, non può affermare altro che essere, sicchè l' essere è essenzialmente l' oggetto intuibile, e perciò il lume dell' intelligenza, tolto il quale essa non può più nè intendere, nè affermare, nè giudicar cosa alcuna, e però ella stessa non esiste oggimai più. L' intuizione dell' essere dunque non forma solo l' intelligenza umana, ma tutte le intelligenze che sono o sono possibili. All' incontro le leggi soggettive , che procedono dalla nostra natura umana e che costituiscono la seconda specie d' elementi che entrano nella formazione del sapere, sono quelle che determinano la conoscenza umana , ossia che danno alla nostra conoscenza quel carattere distintivo, che la separa da quella di tutti gli altri esseri intelligenti che sussistono o possono sussistere d' altra fatta diversa dall' uomo. Sono queste leggi soggettive, che mettono que' limiti alla conoscenza, di cui io ho parlato nel « Saggio sui confini dell' umana ragione » ecc.; e son pur esse quelle, che danno alla conoscenza dell' uomo una conformazione speciale, configurando, per così dire, e insieme concorrendo a produrre la materia del conoscere, e il contenuto stesso della conoscenza, di che ho parlato nel « Nuovo saggio , » nel « Rinnovamento » e nell' « Antropologia . » Mi sono poi occupato in queste stesse opere a dimostrare, che questa parte soggettiva che entra nella conoscenza dell' uomo, non toglie punto a questa la sua veracità; perchè rimane sempre in fondo d' ogni conoscimento un elemento assoluto che è l' essere, il quale è sincerissima luce, che aiuta l' uomo stesso a distinguere la parte oggettiva dalla soggettiva della sua propria cognizione, e dichiara quella assolutamente vera, e questa vera relativamente. Dalle quali cose, ella può in parte rilevare, com' io la senta di quanto dice in appresso, cioè che l' idea dell' essere in universale non costituisca un elemento positivo della intelligenza: « ma invece ci è sembrato, continua, che la suddetta idea (se pure idea nel nostro senso può essere appellata) si risolva nella legge fondamentale dello spirito, per la quale siamo costretti, indipendentemente da ogni principio logico, di congiungere universalmente all' ideale il reale (sussistente o possibile), come termini correlativi intra loro per modo, che il primo non può essere senza il secondo: talchè l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause e de' loro fini colle idee delle medesime ». Su queste parole, devo primieramente avvertire, ch' io non potrei dividere il reale, come par ch' ella faccia, in sussistente e possibile ; conciossiachè, alla mia maniera di concepire, il reale in se stesso non è altro che il sussistente, e l' ideale non è altro che il possibile, benchè io accordi che nella mente fra questi due modi di essere passi una relazione, per la quale il reale si può considerare nel possibile e viceversa, relazione che io chiamo inesistenza . La possibilità della cosa non è dunque altro agli occhi miei che la cosa stessa intuita dalla mente nella sua essenza , quando la mente non giudica ancora, che la cosa intuìta realmente sussista. Vero è, che quando la mente contempla l' essenza d' una cosa, nè pur vi aggiunge necessariamente un espresso giudizio sulla sua possibilità; e però accordo, che, chiamando io poi la cosa stessa possibile , aggiungo, con questa denominazione posteriore, una relazione all' essenza della cosa: ma questa però è una relazione, che non ha bisogno d' altro che dell' essenza della cosa intuita, è una di quelle relazioni che sono in se stesse negative e che acquistano una forma positiva soltanto dalle leggi soggettive del pensare. Quanto poi al chiamare l' ideale e il reale « termini correlativi intra loro per modo che il primo non può essere senza il secondo », io l' ammetto nel modo che dirò appresso: ma io aggiungo di più, che la correlazione di que' termini è tanto necessaria, che nè pure il secondo può essere senza il primo, cioè il reale non può essere senza l' ideale. Il che è vero ogni qualvolta per reale s' intenda un oggetto e non un mero soggetto; perchè l' esistenza soggettiva non richiede per immediata necessità l' oggettiva, benchè tuttavia si dimostri con un ragionamento ontologico, che finalmente la richiede. Dicevo dunque, che un reale non può esistere come oggetto, se non a condizione che ci sia una mente, la quale lo riferisca all' idea, e così gli dia l' oggettività. Se ella considera, che l' idea e il possibile sono appunto il medesimo, per usare una frase scolastica re sed non ratione , troverà innegabile questa mia proposizione; conciossiachè egli è innegabile che niente può sussistere, se non a condizione che sia possibile. Vengo a dire in che senso io ammetta, che neppure l' essere ideale possa stare senza un reale. L' essere ideale è l' essere possibile in quant' è intuito, o, se si vuol meglio, è l' essenza dell' essere non necessario. Lo stesso concetto dunque dell' essere ideale involge il termine correlativo d' una mente che lo intuisca. Ora la mente è un soggetto reale; dunque l' ideale non può stare senza il reale. Per questo modo, io ho dimostrato nel « Nuovo saggio » l' esistenza di Dio, cioè d' una Mente Eterna, in cui sia l' essere ideale o, più pienamente, l' essere oggettivo , parimente eterno. Ella vede oggimai in qual senso io faccia strettamente correlativi l' essere ideale e l' essere reale , e d' una relazione al tutto scambievole: di più, avrà osservato che nelle mie opere, io ammetto una terza forma primordiale dell' essere, che chiamo essere morale , e che fo correlativa anch' essa alle due prime. Ciascuno di questi tre termini è correlativo reciprocamente agli altri due, di maniera che, se tutti e tre s' ammettono, ciascuno esiste dagli altri distinto; se uno solo si toglie, nè pur gli altri due sono più, cessano tutti a un tratto. In una parola, l' essere non può essere che uno e trino. In qual maniera poi lungamente diversa questa unità e trinità dell' essere s' applichi al Creatore ed alle creature, ella è cosa che io tratto nell' Ontologia e nella Teologia naturale. Che se poi ella mi chieda, se indi forse non ne venga una legge fondamentale dello spirito, per la quale esso spirito sia necessitato di congiungere que' termini correlativi, rispondo di sì; ma questa legge è imposta allo spirito dal sintesismo di que' termini; e non è già, che il sintesismo di que' termini venga da una legge dello spirito, che ad essi preceda: lo spirito riceve le leggi dalla natura dell' ente che intuisce, e non viceversa la natura dell' ente intuìto è determinata dalle leggi dello spirito. A questa sola condizione, secondo quello che a me pare, ci possiamo salvare dallo scetticismo, e perciò appunto tentai di dimostrare rigorosamente quella proposizione in più scritti, fra' quali nel Dialogo intitolato: «il Moschini , » che mi prendo la libertà d' inviarle insieme con due altri opuscoli. Finalmente ella definisce l' essere così: « l' essere è la relazione delle cose, delle loro sostanze, delle loro cause, e de' loro fini colle idee delle medesime. »Ma tutt' all' incontro, io dico, le cose sono essere, le sostanze sono essere, le cause sono essere, i fini delle cose, qualora si parli de' fini interni cioè della perfezion delle cose, sono parimente essere: dunque l' essere non può dirsi la relazione delle cose ec. colle idee; chè ne uscirebbe questo, che l' essere fosse la relazione dell' essere coll' essere, definizione mostruosa, e tuttavia, in tutt' altro senso, vera. V' ha di più: che cosa sono le idee? Ecco la gran questione: sta qui a mio avviso, il problema della filosofia. L' idea per me è lo stesso essere contemplato dalla mente nella sua idealità: ella è dunque di nuovo, l' essere: per me l' essere in quanto luce alla mente umana, prende il nome d' idea , e in quanto opera nel sentimento, prende il nome di realità , o se si vuole di cosa in senso stretto. La definizione dunque dell' essere, che ella dà con benevolo intendimento d' interpetrare in senso plausibile la mia mente, non potrebbe da me accettarsi secondo la mia maniera di concepire e di parlare, giacchè tradotte quelle sue parole nel mio linguaggio verrebbero a suonare che l' essere è la relazione dell' essere coll' essere. E tuttavia io non ricuso di ricever per buono il detto da lei citato degli scolastici, che il vero e l' ente sono tra lor convertibili, purchè un tal detto convenientemente si spieghi. Per me la verità è lo stesso essere ideale in quanto egli rende conoscibili le cose reali, e però in quant' è lume, tipo od esemplare all' artefice che ha virtù di produrle, ed è regola o norma al critico che vuol giudicare, se sono bene prodotte. Il vero adunque si converte coll' ente , perchè il vero non è altro che l' ente stesso ideale assunto agli indicati ufficŒ. Nè si vuol da questo menomamente inferire, che l' essere intuito dalla mente sia un' astrazione: perocchè l' atto dell' astrazione non si può fare che sopra enti già concepiti: e però la concezione degli enti è manifestamente anteriore all' astrazione che si fa su di essi, e la concezione degli enti suppone che l' uomo sappia già che cosa sia essere . Io stabilisco dunque che l' intuizione dell' essere privo di determinazioni generali e speciali preceda alla concezione degli enti, e questa all' astrazione; benchè da principio quell' intuizione sia in noi senza che n' abbiamo coscienza. Conciossiachè io stimo, che di nessuna cosa che passa in noi, abbiamo coscienza, se non per un atto di riflessione che noi facciamo sopra di quella; il qual atto nol facciamo sempre, e però assai cose ci rimangono nell' animo senza che n' abbiamo coscienza alcuna, e in tale stato ci restano o per sempre, o per molto tempo. Laonde, acciocchè io mi renda consapevole d' intuire l' essere, devo certamente riflettere sopra questa intuizione. E perchè i concetti delle cose a me venuti coll' uso delle sensazioni non contengono puramente l' essere, ma il contengono vestito di certe determinazioni, riflettendo sopra di quelli, io non posso trovare l' essere puro, se non astraggo dalle determinazioni che il limitano; e così avviene, che l' astrazione mi sia necessaria, non acciocchè io mi abbia l' intuizione dell' essere puro che precede a tutto, ma acciocchè io mi renda consapevole d' averla. Di che posi per motto del « Nuovo saggio » quelle parole di S. Agostino: « commonebo, si potero, ut videre te videas . » So per altro benissimo qual sia la difficoltà maggiore, che incontra questa teoria. Ella si è il non potersi da molti concepire, che l' oggetto ideale non sia una produzione della mente, ma qualche cos' altro. Che la cosa ideale sia altro dalla cosa reale, questo s' intende; ma che essendo diversa dalla cosa reale, non sia poi una produzione della mente, questo pare a molti inesplicabile. E pure io sostengo, che la cosa ideale non è certamente la cosa reale , e non è neppure una produzione della mente. - Che cosa è dunque? - E` una cosa eterna, dico io, che illumina la mente, è un modo primitivo dell' essere che in Dio stesso ha la sua sede; questo modo primitivo dell' essere intuibile dalle menti è lume essenziale , è ciò che forma l' essenza del conoscere: tutto ciò mi dà il fatto della cosa bene osservato, ed io non mi posso dipartire dal fatto. L' essere in quanto è ideale, esiste in un modo così diverso dall' essere in quant' è reale, che fra l' un modo e l' altro non v' ha nulla di comune , ma tutto è differenza; il che io esprimo dicendo, che sono categoricamente differenti, e tuttavia l' essere è il medesimo. La difficoltà d' entrare in queste sentenze, nasce dall' estrema malagevolezza che si prova in ammettere, che oltre il reale, v' abbia un altro modo di essere; si vorrebbe ridur tutto al reale e a modificazioni o produzioni del reale; e ciò che non si riduce a questo, credesi doversi chiamar nulla; pregiudizio veniente dal trovarsi la mente umana tanto impacciata colle realità corporee. Per altro, voglia ella considerare, mio chiarissimo signor Dottore, quello che le dicevo, che l' essere ideale, solo ammesso in questo modo, spiega l' essenza del conoscere . E` appunto il conoscere, che si suppone sempre per dato, e si crede che questo gran fatto del conoscere non abbia bisogno di spiegazione. All' incontro devo ripetere che il gran problema della filosofia sta tutto in questa domanda: « Che cosa è il conoscere? »La quale si riduce a quest' altra: « Che cosa è l' idea? »; che è appunto ciò che fa conoscere. E avverta bene, che non trattasi di spiegar questo o quell' altro atto di conoscere, ma semplicemente il conoscere. All' incontro i filosofi nostri si occupano a spiegare gli atti particolari del conoscere, senza che essi s' addieno del bisogno di spiegare il conoscere stesso che essi suppongono come cosa naturalissima ed evidente. Suppongono, così facendo, quello che è in questione, quello che contiene tutta la difficoltà della filosofia, e dopo di ciò hanno un bel fare; perocchè si spacciano certo più o meno agevolmente dall' altre difficoltà che non appartengono alla questione principale. Questo schizzar di mano a' filosofi la vera questione apparisce ugualmente, osservando, ch' essi non muovono discorso che non suppongano fino a principio per belli e dati gli oggetti della conoscenza. A chi mai viene in mente di trattenersi a spiegare, come si dieno oggetti di conoscere? E dati oggetti di conoscere, è data certamente la conoscenza, perocchè sono essi che la fanno; ma resta a vedersi, come una cosa può essere oggetto di conoscere. Ci toglie l' intelligenza di questo problema la stessa natura del linguaggio, che suppone sempre il conoscere, essendo esso stesso una conseguenza e una produzione del conoscere, e però quando si formò il linguaggio, gli oggetti di conoscere già esistevano. Il linguaggio dunque parla di oggetti di conoscere già formati, e però col suo aiuto non si può trovar via da spiegare come si formino; e per giungere a questo, è uopo ricorrere alla tacitissima meditazione della mente. Mi spiegherò con un esempio. Di sopra dicevo: il problema della filosofia consistere in ispiegare, come una cosa possa essere oggetto di conoscere. Ora ecco, che l' imperfezion del linguaggio non m' aiutò tampoco ad esprimere ciò che volevo con precisione, perocchè dicendo cosa , ho già detto oggetto; e se una cosa è un oggetto, non v' ha certo più difficoltà a spiegare come un oggetto possa essere un oggetto . Ma io volevo parlare di una cosa in quel modo di essere, ch' ella si ha, prima che sia fatta oggetto di conoscere, ossia prescindendo al tutto dalla sua oggettività. E per esprimere la cosa secondo tal sua maniera d' esistere non oggettiva, niuna lingua fornisce parola alcuna, perocchè tutte le parole sono state imposte alle cose in quanto queste erano già divenute oggetti di conoscere, nè potea farsi altramente. Laonde solo colla mente che medita e trova, dovere aver le cose un modo diverso dall' oggettivo, si può giungere a vedere quanto sia necessario e difficile lo spiegare, come ciò che non è in se stesso oggetto della mente, divenga poi tale. Ben mi persuado, che ella colla perspicacia della sua mente, pensandovi seriamente, conoscerà quanto tutto questo sia vero; e quindi s' accorgerà come la questione primaria non viene affrontata, ma supposta e trapassata anche nelle parole che ella dice al II (del) suo « Saggio . » « Per questa legge primordiale che governa l' attività della intelligenza, lo spirito umano è costretto di ricercare in qualunque oggetto sperimentale, ed in un modo non accidentale, ma preordinato ed immutabile, la sua causa ed il suo fine ». Cominciando così la teoria della conoscenza col dire, che lo spirito umano è costretto di ricercare queste cose, ella suppone che le possa ricercare e conoscere: quando tutto il nodo della questione sta veramente in definire come ciò sia possibile, a quali condizioni lo spirito possa conoscere, e più brevemente, che cosa sia il conoscere. Perocchè se mi si dà già a principio il conoscere, in tal caso certo non mi resterà più altro carico, che quel solo di definire le leggi, che lo spirito segue ne' suoi varŒ conoscimenti, che è un problema secondario, e non mai il primario. - Ancora, quando ella ammette fin da principio oggetti sperimentali , il gran problema è trapassato via; perocchè questo, come dicevo, riducesi tutto a mostrare come il reale diventi oggetto . Poichè il reale non è oggetto per se stesso, ma è solo soggetto o appartenenza del soggetto ; ma a noi sembra oggetto per sè, perchè sogliamo parlare sempre del reale conosciuto , e pensiamo quello che parliamo. E qui le dirò di più, che senza ascendere alla prima questione, che investiga che cosa sia il lume della mente, e che trova e ravvisa un modo d' esister dell' essere, diverso dal reale, un modo essenzialmente oggettivo e che oggettivizza il reale quando a lui mentalmente si congiunge, non si può, a parer mio, difendersi dallo scetticismo. Non è sufficiente il dire, che la legge preordinata e immutabile colla quale la mente in ogni cosa cerca sostanza, causa e fine, non inganna l' uomo, ma il conduce alla verità e a concepir le cose così come sono, essendo ella posta da Dio. Lo scettico risponde: provatemelo; e con questa sola parola atterra l' argomento; perocchè se per provarlo si ricorre al fatto, questo ci dice bene, che la mente opera così, ma non ci può mica dire, se ella, così operando, non sia avvolta forse in un' illusione trascendentale. Nè pure si può ricorrere alla veracità e bontà di Dio; perocchè lo scettico replica tosto: provatemi prima che si possa conoscere che Dio esiste. Egli è dunque necessario di mostrare agli scettici prima di tutto in che consista l' essenza del conoscere , e dimostrare che questa essenza non può essere impugnata, perocchè coll' atto dell' impugnarsi la si pone. E questa è sola proprietà dell' essere possibile ; perocchè se quest' essere si nega, dunque è possibile, conciossiachè non si nega mai l' impossibile, e se si negasse, resterebbe il possibile, in virtù della doppia negazione. Su questo punto fermo a me è paruto di dover piantare la certezza dello scibile umano. Ogni legge soggettiva, se emana dal soggetto, non può avere le proprietà del vero; e se è preordinata da Dio, non può essere il primo vero, giacchè prima di essa si dee provare questa sua preordinazione, la quale non può esser provata per essa, senza cadere in un circolo: si dee dunque ricorrere ad un altro principio più evidente. Finalmente, le osserverò ancora, che la legge da lei ingegnosamente annunziata, onde lo spirito cerca in tutto sostanza, causa e fine, suppone la cognizione dell' essere . Perocchè quando io dico: « dato l' accidente, vi dee essere la sostanza, »traducendo queste parole in altre vengo a dire: « tale è la natura dell' essere che se fosse semplicemente accidente, non sarebbe essere, e perciò: non v' è essere se non a condizione che vi sia sostanza ». Quando dico: « ciò che comincia ha avuto una causa »; io non fo che affermare di nuovo, essere impossibile un ente cominciante senza causa. Affermo che ciò ripugna alla natura dell' essere; nè potrei dir ciò se non conoscessi la natura dell' essere. Quando poi dico: « ogni ente dee avere un fine »; di nuovo la mia asserzione suppone, che io sappia che cosa deva aver l' ente, ossia suppone, che la natura dell' ente mi sia nota a segno, che io possa dire che cosa egli deva avere. La necessità dunque di causa, di sostanza e di fine emana dalla natura dell' ente a me preconosciuta; nè l' uomo potrebbe sentire quella necessità, se egli non conoscesse questa natura, se non conoscesse quello che io chiamo l' ordine intrinseco dell' essere , il quale ci si rileva nell' essere stesso e coll' essere stesso, quando questo si applica alla realità. Se dunque lo spirito è costretto di cercare in ogni cosa sostanza, causa e fine, io conchiudo: dunque conosce l' essere immediatamente, e, conoscendolo, ne sa le esigenze; dunque anteriormente alla legge che costringe lo spirito a cercar quelle cose nell' essere, è l' intuizione dell' essere stesso; dunque la legge dell' intelligenza sagacemente da lei sviluppata è natural conseguenza di quella notizia dell' essere , senza la quale lo spirito umano niente può vedere, niente pronunciare. Le quali mie osservazioni ella vorrà, spero, chiarissimo sig. Dottore, ricevere cortesemente e come un monumento dell' alta stima che le professo e colla quale sono ec.. Una filosofia la quale non tenda al miglioramento dell' uomo, è vana. Ed oseremo anche dire di più, essa è falsa; poichè la verità migliora sempre l' uomo. Vero è, che l' uomo abusa delle stesse verità: egli fa servire la verità all' errore ed alla propria perversione. Ma ciò nasce da questo, che la verità di cui fa sì deplorabile abuso, non è intera; poichè la verità, quando è intera, esclude necessariamente ogni errore; e però si può odiarla, ma non abusare di essa, non farla servire alla distruzione di alcuna altra verità; conciossiachè essa le comprende tutte e le comprende fornite di una cotal luce di evidenza. Egli è dunque necessario che la filosofia presenti una verità intera; cioè un complesso di verità ben ordinate; dappoichè anche l' ordine è una verità. E non si vuol già dire con questo che un tale adunamento di verità comprenda tutti i veri, tratti fuori, l' un dopo l' altro, per singulo; il che ognun vede essere impossibile: ma bensì che i veri singolari sieno virtualmente compresi nella università de' principŒ che tutti li portano in sè; e di sè all' uopo ingenerano le innumerabili conseguenze, ove sieno alla diversità delle cose applicati. Ma s' abbia pure il filosofo messo nell' animo il nobile proponimento di volere abbracciarsi a tutta intera la verità e di essa far subbietto alla sua filosofia; e d' acconciarla in ogni modo migliore che egli possa, al conoscimento ed al miglioramento dell' uomo. Egli deve ancora conoscere le sue forze, affinchè non gli accada di presumere: egli deve sapere che la filosofia non basta a conseguire che l' uomo veramente si ammigliori. La filosofia non può essere che una parte degli aiuti che si prestano all' uomo, perchè egli si ammigliori e perfezioni. Quand' anche la filosofia sia resa una esposizione della verità nella sua universalità e interezza, ancora, come dicevamo, la verità può essere odiata dall' uomo; e l' uomo può trovare in quest' odio, l' estremo del suo corrompimento. Perocchè la verità appartiene alla intelligenza, ma la virtù appartiene alla volontà; ed è a quest' ultima potenza che spetta il vero miglioramento e perfezionamento umano. Ora della volontà è proprio l' operare e dell' intelletto il conoscere. Egli convien dunque che l' educazione nel tempo stesso che illustra l' intelletto, dandogli il pascolo di una sana filosofia, allevi e pieghi altresì al bene la volontà coll' esercizio delle buone azioni, le quali si cangiano in buone abitudini che pigliano nome di virtù. Di qui è che gli antichi, non sofferendo che queste due cose stessero scompagnate, le congiungevano insieme, applicando all' una e all' altra il solo nome di filosofia che poi definivano « lo studio e l' amore della sapienza ». Ma l' uso ha poscia ristretto il significato della parola filosofia alla sola prima di queste due cose, cioè a significare il complesso delle verità generali e supreme che debbono illustrare e annobilire l' umano intendimento. E non basta sola questa riflessione a conoscere ed a definire l' ufficio della filosofia, e la parte che essa può avere nel miglioramento dell' uomo. Conviene di più considerare la scienza filosofica nel sistema cattolico. E diciamo nel sistema cattolico, poichè supponiamo di parlare a' cattolici. Che se dovessimo parlare ad altri, noi dovremmo condurre il discorso assai più dalla lunga; perocchè ci sarebbe necessario a far intendere il nostro concetto, di provar prima la verità della Cattolica Religione, e solo di poi scendere a vedere che parte si abbia la filosofia nel tutto dell' umano perfezionamento. Conciossiachè nel solo vero Cristianesimo l' uomo viene considerato nel suo intero, e non parzialmente. E dove l' uomo non si consideri nella sua integrità; cioè fornito di tutte le sue reali condizioni e relazioni, non è possibile il determinare la ragione di una sua parte al tutto; perocchè egli è sempre uopo conoscere il tutto, onde conoscere la ragione comparativa della parte. Il perchè, in ragione di metodo, noi così avvisiamo, che non si possa assegnare il suo posto e il suo ufficio alla filosofia, se non si considera l' uomo del Cattolicismo; cioè di quel sistema religioso che determina pienamente i rapporti di esso uomo con Dio, che è l' essere assoluto, da cui l' uomo con tutte insieme le cose ha l' esistere; e da una continua provvidenza del quale viene, senza alcuna posa o rallentamento, condotto e governato. Poniamo dunque vero il Cattolicismo: il che tanto più si conviene a noi, che viviamo in una nazione eminentemente cattolica, e che della fede e della pietà ha fatto il suo più nobile vanto. Or, secondo i principŒ di questo sistema, cerchiamo di definire qual parte aver debba la filosofia nel miglioramento e perfezionamento dell' uomo. Fu innanzi detto che la buona filosofia presenta all' intendimento la Verità nel suo modo intera: ma ciò vuolsi intendere con certa limitazione: perocchè anche la Rivelazione parla all' uomo di verità; e la Grazia stessa, secondo la cattolica dottrina, è lume che vien dato alla mente. Il perfezionamento dell' uomo adunque, anche considerato solo dalla parte dell' intelletto, non viene compiuto, secondo i principŒ del Cristianesimo, se non dalla Religione. La filosofia si limita ad illustrare l' intelletto umano nell' ordine naturale; ma la parola del Cristo è quella che trasporta l' uomo in un ordine soprannaturale, in una regione al tutto divina; e che per tal modo consuma la sua perfezione. Egli è dunque a vedere che cosa sia l' ordine naturale e che cosa sia l' ordine soprannaturale ; e quale relazione si abbia l' uno all' altro; e quindi medesimo, di che fatta miglioramento possa aver l' uomo dal sapere, nell' ordine della natura, e di che fatta perfezionamento possa aver dalla Fede, nell' ordine della Grazia. Ora ecco brevemente questo rapporto: noi lo esponiamo come un risultamento datoci dalla propria indole della filosofia e della Religione. Il principio della filosofia, siccome abbiam detto, è la VERITA`, e il principio della Grazia è pure la VERITA`. Ma la filosofia, parlando della verità, non ce ne parla come di un essere reale e sussistente; ce ne parla solo come di un essere mentale, di un' idea, o, vogliasi ancora, di un' astrazione. Vero è che i filosofi che si levarono più alto nella contemplazione, rimasero sommamente maravigliati e stupiti in considerando la forza delle idee, le quali pure al comune degli uomini, occupati delle sensazioni e delle entità materiali, non sembrano che tenuissime forme e non degne di speciale meditazione: e nella forza delle idee videro contenersi le ragioni e i principŒ eterni di tutte le cose, le basi invariabili, per così dire, dell' universo variabile; sicchè giunsero a dire che le idee sole erano cose realissime, e, trapassando ogni confine, le divinizzarono. Ma lasciando da parte questa sciaurata idolatria delle idee, che fu lo scoglio a cui ruppero tutti i più grandi ingegni che navigarono senza la guida del Cristo, non esclusi quelli de' nostri tempi (1), e fermandosi là dove dissero che le idee sono le cose realissime (2), noi osserviamo che essi però non poterono mai negare la diversità fra le idee e le sostanze sussistenti; e non poterono dare a quelle l' efficacia propria di queste; come, a ragion d' esempio, non poteron mai sostenere che l' idea di un cibo tolga la fame siccome fa un cibo reale e sostanziale. Laonde, checchè dicessero e speculassero nobilmente i filosofi sulla natura delle idee, esse rimasero però idee; e non poterono essere sollevate, con tutti i loro sforzi, a stato di cosa reale. Di che avviene che non potendosi concepire la verità de' filosofi se non come un' idea indeterminata, egli è manifesto che il principio della filosofia non è, e non può esser più di un essere ideale . Ma anche la Religione del Cristo parlò alla terra, come dicevamo, di Verità: ed ella anzi si annunzia come quella che sola comprende la pienezza della verità (3): la Verità è finalmente il fonte, il principio immediato, da cui dice scaturire la sua dottrina. Ma la Religione Cristiana ci parla della verità ben in altro modo da quello in che ci parla di lei la filosofia: essa non ci presenta la Verità come un essere meramente ideale; essa ci dice anzi che la Verità, da cui ella nasce come da suo prossimo principio, è una cosa reale, una sostanza, una persona; la quale persona di più si è congiunta in un modo ineffabile, e per non dividersi quindi giammai, colla natura umana. Questa maniera di parlare è certamente misteriosa e arcana alla ragione nostra, che non è avvezza di considerare la Verità, se non come una astrazione, o certo come una idea, e che non trova modo alcuno da vedere come ciò che è un essere ideale possa anche sussistere in se medesimo, essere una sostanziale e reale persona. Ma questo che è superiore al concepimento naturale dell' uomo, è appunto il mistero della Fede ; ed il solido fondamento, in cui l' edificio tutto intero della Cristiana Religione posa e si eleva. Or ecco dunque ciò che hanno di comune e ciò che hanno di diverso i principŒ della filosofia e della Religione di GESU` Cristo: hanno di comune che l' uno e l' altro principio è la Verità; ma hanno di diverso questo, che la Verità, in quanto è lume naturale dell' uomo e serve di principio alla filosofia, non si presenta a noi che sotto una forma puramente ideale; là dove la Verità, in quanto è lume soprannaturale e principio della Religione Cristiana, si presenta sotto una forma anche reale e compiuta. E volendosi da noi cercare quale sia quella prima ed essenziale Verità che si fa principio alle filosofiche cognizioni, che è quanto dire, a tutto il sapere naturale, egli è evidente che questa non può essere nessun vero particolare; poichè nessun vero particolare è il primo vero, ed ha la ragione sua in un altro vero a lui anteriore e più di lui universale. Di che viene che la prima verità esser debba universalissima; che è quanto dire la verità stessa, e questa indeterminata, ossia l' essere ideale il più universale e indeterminato. L' essere stesso adunque intuìto naturalmente dall' anima, è il principio della filosofia, come con più altri ragionamenti si potrebbe chiaramente dimostrare (1). Ed ora l' essere è anche il nome che esprime l' essenza di Dio nelle divine Scritture: « « Io sono l' ENTE, » dice Dio nell' Esodo: «Ego eimi o on» », secondo la traduzione dei Settanta. Si veda coerenza! il principio della filosofia è il lume della ragione; il principio della Fede è Dio stesso; quello è la Verità, ma solo ideale; questo è la Verità, ma sussistente. La Verità della filosofia è l' Essere , e la Scrittura dice che Iddio è appunto l' Essere . L' essere della filosofia è ideale e indeterminato; l' essere della Fede è anche reale e d' ogni lato completo. Considerando la natura dell' essere ideale , si trova che egli è bensì l' essere , ma veduto imperfettamente; veduto senza i suoi termini, e solo nel suo principio. All' incontro Iddio è l' Essere assoluto e d' ogni lato compiuto. Questo ci scorge a vedere la relazione della filosofia colla Dottrina rivelata, deducendola dalla relazione che hanno infra loro il principio dell' una e il principio dell' altra. Tale relazione consiste in ciò che il lume naturale è un cotal cominciamento di quel lume che si ha completo solo nella Rivelazione. Giacchè quell' essere stesso che, come dicemmo, perfetto è il grande Oggetto della Fede, veduto inizialmente e imperfettamente come il vediamo per natura, è ciò che costituisce il lume della ragione. Egli è perciò che le divine Scritture, parlando del Verbo di Dio, Verità sussistente, Essere completo, dicono che è desso: « « Quegli che illumina ogni uomo veniente in questo mondo » » Il che è quanto dire che il lume naturale è una imperfetta partecipazione dello stesso Verbo divino. Questa dottrina si trova da un capo all' altro de' Sacri Libri; e non sarebbe difficile raccogliere una quantità di testimonianze, cavate dagli scrittori ecclesiastici di tutti i secoli, i quali si tramandarono da uno in altro come un vero tradizionale, che « la verità naturalmente veduta dagli uomini, è una parte, un riflesso, un raggio della Verità, che è Dio medesimo »(1). Una filosofia dunque sana e vera la quale possa adempiere l' ufficio di migliorare gli uomini: primo, non potrà mai venire in collisione colla Religione del divino Maestro; secondo, dovrà riguardare la Fede, come quella che compisce ciò che a lei manca, e riverirla, come sua maggiore; terzo, dovrà preparare la via alla Fede, abbozzando, per così dire, nell' uomo quel disegno di perfezione che alla sola Fede e alla sola Grazia è possibile di condurre a finimento. Ora rimane a vedere come possa la filosofia procedere, volendo por mano a tale opra che a lei è commessa. Noi abbiamo detto che la Verità è sempre di sua natura perfezionatrice dell' uomo; ma che solo la Verità intera chiude al tutto le porte all' errore. Una filosofia adunque salutare deve allargarsi, deve esser mossa da un amore, da una tendenza ad abbracciare la Verità tutta quanta ella è ampia. Egli è solo con questo vastissimo ed onestissimo desiderio che la filosofia si rende giusta verso la Verità: perocchè il rendersi esclusiva e il rifiutare l' una o l' altra parte di verità, è già una ingiustizia che si commette contro l' essenza della Verità: e il cominciare da un' ingiustizia non è migliorarsi. Tutta la Verità è tutto l' Essere, in quanto è concepito dalla mente. Ora l' Essere ha tre forme primordiali: perocchè ci si presenta sotto la forma d' idea ; sotto quella di realtà : e finalmente sotto forma di congiunzione fra la realtà e l' idea . A queste tre forme, noi diamo i nomi di Essere ideale, Essere reale ed Essere morale . Ora, l' Essere contemplato in ciascuna di queste sue forme si fa subbietto alle prime tre scienze filosofiche, le quali si possono nominare Ideologia, Dinamilogia (1) e Agatologia . Queste tre scienze debbono formare un' ampia e solida base di tutto l' edificio filosofico. Ma sia che si consideri l' essere prescindendo dalle sue forme, sia che lo si consideri in ciascuna di esse, egli si presenta alla considerazione della mente sotto due rispetti distintissimi. Poichè la mente, o lo riguarda in universale e ne rinviene una teoria, a cui dà il nome di ONTOLOGIA, ovvero cerca l' archetipo dell' essere stesso, ed allora rinviene un' altra teoria, che è quella dell' essere assoluto, a cui dà il nome di TEOLOGIA (1). Tutte due queste grandi teorie trattano dell' essere, tanto nella sua unità, quanto nella sua trinità, cioè in ciascuna delle sue tre forme; ma l' Ontologia considera l' essere a quel modo che può, cercandone la natura unicamente nell' idea o concetto del medesimo; laddove la Teologia, investiga l' essere, quasi direi, concretato e attuato fino all' ultima sua perfezione, onde tratta di Dio. Queste due teorie abbracciano in se stesse le tre scienze nominate, nelle quali come in altrettante loro parti si dividono; laonde c' è una Ideologia, una Dinamilogia ed una Agatologia Ontologica , ed un' altra Ideologia, un' altra Dinamilogia e un' altra Agatologia Teologica . Convien considerare qui l' ordine di queste tre scienze. E` manifesto che non si può ragionare di quella forma che dà all' Essere l' atto suo perfettissimo, di che tratta l' Agatologia , senza che si conosca prima l' Essere in quanto è reale e in quanto è ideale; conciossiachè la perfezione dell' atto dell' Essere nasce dall' individua e perfetta congiunzione di queste due forme della idealità e della realtà: che perciò di queste si deve aver parlato prima che della loro relazione o unione. Ma egli non è difficile ancora a conoscere che dell' Essere reale , del quale tratta la Dinamilogia , non si può tenere alcun ragionamento, se non dopo aver messa fuori la dottrina intorno all' Essere ideale , che è contenuta nella Ideologia; perocchè nessun Essere ideale da noi si conosce se non coll' aiuto delle idee . E perciò il discorso delle idee è indubitatamente quello, da che dee muovere tutta la filosofia, ed, anzi meglio, tutto il sapere umano. E anche, vi ha egli sapere senza idee? e se ogni sapere dipende dalle idee, qual valore avrà egli, ove restasse il dubbio che le idee c' ingannassero? Conviene dunque sapere prima di tutto: « se le idee che sono il mezzo del saper nostro c' ingannano o ci dicono il vero ». E per sapere se le idee non c' ingannino, ma s' abbiano quella autorità che gli uomini sogliono attribuire loro, a cui dover credere sempre, conviene disaminarne la natura; e la natura delle idee non si mette ad esame e non si conosce se non investigandone l' origine, del che principalmente tratta l' Ideologia . La quale scienza nelle sue ricerche giunge ultimamente a conoscere che non avvi, propriamente parlando, nella mente umana, se non un' idea sola, colla quale e nella quale si vedono tutte le cose; e questa è l' idea dell' Essere in universale ; ed è il proprio lume della mente, e in essa si trova l' evidenza e la necessità della cognizione; sicchè ella costituisce finalmente un tal criterio di certezza , che rende impossibile ogni dubitazione. Con che è posta la pietra fondamentale della Logica che distrugge ogni maniera di scetticismo, e insegna l' arte di ragionare, o sia, di applicar l' idea ad ogni maniera di cose; perocchè il ragionare non è che una continua applicazione dell' idea dell' Essere in universale; e così la Logica nasce figlia primogenita alla Ideologia; e occupar deve il secondo posto nell' albero delle scienze. Conciossiachè è tale l' incatenamento del sapere umano, che una scienza ci rimanda a cercare il suo perchè nella scienza ad essa anteriore. Or la ragione di una cognizione non è che un' altra cognizione, un' idea più generale; di che la prima ragione di tutte le cognizioni non è che l' idea più universale di tutte. Per la qual cosa l' Ideologia e la Logica che trattano dell' idea dell' Essere universale, la prima considerandola come il Fonte delle idee, e la seconda, come il Criterio della certezza, sono di loro natura le prime scienze. E per la medesima cagione definendosi da noi la Filosofia per la scienza delle prime ragioni , egli è manifesto che quelle scienze che trattano della primissima ragione, debbono essere quelle, onde la filosofia stessa incominci. Egli è vero che in ogni disciplina c' è quella idea che ne forma la prima ragione, e che per conseguente c' è la filosofia di ogni genere di sapere. Così c' è una filosofia della fisica, una filosofia della matematica, una filosofia della giurisprudenza, una filosofia della politica, e via dicendo. Ma le ragioni prime di queste scienze non sono prime che relativamente ai particolari complessi di cognizioni che costituiscono esse scienze; laddove l' idea dell' Essere in universale che si fa subbietto alla Ideologia ed alla Logica , è la ragione prima relativamente a tutto lo scibile. Il perchè questa parte si potrebbe anche acconciamente chiamare la filosofia della filosofia. Ad essa poi continuar si deve la Dinamilogia e l' Agatologia , perchè la dottrina dell' Essere si spieghi sotto tutte le sue forme primigenie. Egli è evidente che se non si premette la teoria dell' Essere universale, non si può parlare con sicurezza di nessun essere particolare; e che perciò non si può neppur conoscere l' uomo; poichè anch' egli non è più di un essere particolare. E in vero, chi sottilmente considera, vedrà che i principali e più perniciosi errori presi da' filosofi intorno all' umana natura, ebbero origine dal non aver essi considerata prima nell' uomo la natura dell' Essere universale. Perocchè di qui avvenne che non conobbero il rapporto che ha l' uomo con tutto l' Essere; di che il collocarono in posto non suo; come segnatamente accade a coloro che fecero dell' uomo il centro dell' universo. Con che introdussero nella filosofia teoretica il Panteismo e l' Ateismo, e nella pratica il Filantropismo e l' Epicureismo (1). Or la scienza della natura umana si può chiamare acconciamente Antropologia , la quale deve considerare l' uomo non meno nella sua parte animale, che relativamente al suo spirito, e finalmente nel soggetto in cui convengono l' animalità e l' intelligenza. E questa dottrina dell' uomo egli è manifesto che deve essere la prima nell' ordine delle scienze particolari; chè, come dicevamo a principio, tutto ciò che noi cerchiamo colla filosofia non è finalmente che il miglioramento di noi stessi . Sicchè non c' è altra cagione per la quale noi differiamo a parlar dell' uomo fin dopo aver compiuto il discorso dell' Essere in universale, se non questa, che ci era impossibile il parlarne prima convenevolmente; poichè a chi vuole investigare la natura d' un essere particolare, conviene che sia prima venuto in possesso de' principŒ che scaturiscono dalla dottrina dell' Essere in universale per siffatto modo, che si possono considerare quelle scienze nelle quali viene ordinata una tale dottrina, quasi come una cotal grande Prefazione al trattato dell' uomo. Ora dunque venuti noi a parlare dell' uomo, e della sua perfezione, scopo della scienza, la prima cosa conviene sicuramente conoscerne la natura , come detto è, ciò che fa l' Antropologia: ma tosto appresso conviene cavare dalla teoria della sua natura la scienza delle sue tendenze , la quale noi chiamiamo Eudemonologia , che viene a dire « discorso della felicità »; poichè tutte le tendenze umane vanno finalmente a parare nel desiderio d' essere felice; sicchè la teoria della felicità comprende naturalmente quella delle tendenze dell' uomo. Incontro alle quali tendenze, quasi freno, o, a dir meglio, regolamento, stanno i doveri morali scritti nel cuore dell' uomo, e raccolti dall' Etica ; dalla quale noi pensiamo util cosa, che si derivasse e cavasse poi a parte un trattato de' diritti naturali che sia fondamento alla civile legislazione (1). Ma non basta aver veduta la natura umana, le sue tendenze , i doveri , i diritti , e aver considerato tutte queste cose ne' brevi ed angusti fatti dell' individuo; è necessario di più vederli, quasi riportati sopra una scala maggiore, ne' fatti del genere umano: il che dà luogo ad una Storia filosofica della Umanità; nella quale apparisca principalmente quali sieno le leggi immutabili venienti dalle proprietà della natura umana, alle quali è soggetto tutto lo sviluppo e il perfezionamento successivo della umanità (2). La qual cognizione ci lastrica ultimamente la via a poter entrare sicuramente nel trattato de' mezzi pe' quali l' umanità si viene sviluppando e perfezionando, i quali mezzi, ridotti ai sommi ed universali, sono tre (diciamo de' principali, che non si possono del tutto omettere in un corso scolastico), cioè a dire la società domestica , la società civile , e l' educazione , che, sebbene sia anche l' ufficio dell' una e dell' altra società, tuttavia si può anche considerare come un magistero che sta da sè; poichè non è nuovo, che uomini amatori de' loro simili abbiano allevati i fanciulli altrui con amore di padri, e senza averne ricevuto commessione o eccitamento o mercede da nessuna umana potestà. I quali tre sommi mezzi si rendono per tal guisa argomento di tre nobilissimi trattati filosofici che si volgono intorno all' ottimo ordinamento della società domestica, e all' ottimo ordinamento della società civile, e finalmente all' ottima educazione; trattati si possono acconciamente denominare, come furono denominati dagli antichi, Iconomia , o con altro simile nome migliore (1), Politica , e Pedagogica . Or così assolvesi il corso delle principali scienze filosofiche, v“lte all' umano miglioramento le quali dovrebbero entrare nell' istituzione filosofica, da darsi alla nostra gioventù nell' Accademia. Le quali, riassumendole qui brevemente, si compongono di due serie, cioè; La serie di quelle scienze filosofiche che trattano dell' ESSERE stesso; e La serie di quelle scienze che trattano in particolare dell' UOMO. La prima serie ne contiene quattro: primo, l' Ideologia; secondo, la Logica; terzo, l' Ontologia; quarto la Teologia naturale. La seconda ne contiene otto: primo, l' Antropologia; secondo, l' Eudemonologia; terzo, l' Etica; quarto, il Diritto razionale; quinto, la Storia dell' umanità; sesto, l' Iconomia; settimo, la Politica; ottavo, la Pedagogica. La quale distribuzione può essere facilmente variata, nè certo comprende tutto il ciclo delle scienze filosofiche (2); ma solo ci parve sufficiente e ad un tempo necessaria, acciocchè la facoltà filosofica acquisti nelle nostre Università quella dignità e quell' ampiezza, che le è dovuta, e da cui siamo cotanto lontani, dignità ed ampiezza, mancando la quale lo spirito della gioventù studiosa non si può elevare, ne' tempi nostri, ad un alto sentire e ad un generoso pensare, nè trovarsi a sufficienza armata contro il sofisma, nè bene intendere quale ha il cammino pel quale la scienza conduce alla virtù. Fra le molte obbligazioni, che mi legano a Monsignor Ostini, non è picciola questa d' avere eccitato Lei a scrivermi, e così dato a me l' occasione d' entrare in corrispondenza colla sua rispettabile e dotta persona. Se non che in questo stesso non mi manca cagione di muovere qualche lagno coll' egregio Ostini. La gentilezza di Monsignore me le debbe aver dipinto troppo altra cosa da quel ch' io sono, e fors' anco per un qualche gran baccalare in filosofia: il vedo dalla sua lettera troppo cortese e vantaggiata pe' pari miei. E però La prego prima di tutto di smettere sì falsa opinione, venutale dall' altrui amicizia, e dalla sua propria bontà, non solo per ben mio, acciocchè io non m' abbia poi a vergognare d' essere conosciuto molto diverso alle prove; ma ancora per ben suo, acciocchè Ella non s' abbia a trovare ingannato in sul meglio; ciò che a ciascuno dispiace. Ed ora sono con Lei. Le questioni filosofiche che mi propone nella sua lettera, come Ella medesima ben vede, potrebbero essere soggetto non che di una lettera famigliare, ma di un libro, anzi di molti. Ella sa quanto le varie parti della filosofia sieno connesse tra loro, come ciascuna riceva lume da tutte l' altre; ed appena che io mi creda potersi rendere al tutto chiara qualche verità, quand' ella non si mostra a suo luogo, non s' espone insieme con tutto il sistema delle verità, a cui quella appartiene: ciascuna di queste verità, è piccolo membro a un gran tutto; nè s' intende a fondo, se non si concepisce non solo la sua natura, dirò così, ma ben anche le sue relazioni, que' veri che la precedono e quelli che la susseguono, e de' quali essa o è la ragione, o la conseguenza. E tuttavia non posso negarmele a esporle con brevità alcune cose che io penserei sulle questioni proposte, pregandola, non già a ricevere queste mie considerazioni, come quelle che a me soddisfacciano compiutamente, e molto meno come quelle che esauriscano le importantissime risposte da Lei desiderate, ma solamente come quelle, che mi concede una lettera famigliare e la brevità del tempo. La sua prima dimanda riguarda la classificazione dei sistemi filosofici. Mi sembra, a questo proposito, che i sistemi filosofici si possano classificare in due maniere: 1 o col nome de' loro inventori, 2 o colla diversità de' principŒ che pongono. Ella mostra nella sua lettera di seguire il primo metodo. Ma sebbene io al tutto non lo rigetti, tuttavia mi pare ch' esso non potrà mai essere recato a quella esattezza, e fornito di quella distinzione precisa che nelle dottrine filosofiche è desiderabile e necessaria. E` bensì semplice, e, come il primo che viene alla mente, fu comunemente adoperato. Ma questa divisione mi pare che riposi, se le debbo dire il vero, in quel soverchio d' autorità, che in altri tempi fu conceduto ad alcuni maestri, i quali per le loro dottrine essendosi partiti dal comune degli uomini, furono dagli uomini, veggendoli sì alti, venerati quasi altrettante deità. E di questo soverchio d' autorità dubito non forse ancora si ritenga l' effetto nel tempo nostro, senza che noi pure ce ne avvediamo, e bene spesso anche maritando questo difetto col suo opposto, cioè con quello di una franchezza soverchia in portare giudizio d' uomini grandissimi certamente, e delle dottrine loro, giacchè nello spirito umano simili contraddizioni non sono rare. E veramente questo modo di partire e contrassegnare le filosofie co' nomi degli inventori, suppone che i diversi maestri ed inventori di esse sieno sempre coerenti con se medesimi per tal maniera, che l' uno s' abbia un corpo di dottrine al tutto compaginato e perfetto, e diviso da tutti gli altri corpi o sistemi di dottrine. E comunemente quelli che hanno voce di fondatori di cotesti sistemi, procedono così alti nelle loro promesse, almeno in tutta quella parte nella quale confutano le dottrine altrui, che mostrano di non volere aver nulla di comune cogli altri, e presumono di avere cavata tutta intera da sè soli, quasi facendola esister dal nulla, la filosofia. Promesse di presunzione umana! Se noi gli esaminiamo imparzialmente, massimamente là dove, dopo aver distrutti gli altrui sistemi, cominciano a edificare i proprŒ, vediamo che, per quanto procurino di dividersi dagli altri con una nuova disposizione di cose, vengono però sempre (negandolo essi) presso a poco negli stessi sentimenti: e talora ponendo alcun principio diverso, non consentanee al principio deducono le conseguenze, ed entrano, senza pure avvedersene, nel sistema altrui. Per quanto io abbia riflettuto, non mi è occorso giammai di vedere un sistema al tutto compaginato e stretto con se medesimo e perfetto: almeno mi riesce impossibile il credermi in caso di affermare, che questo sistema ci sia: per dir ciò dovrei credere, che ci sia qualche libro, il quale contenga tutti i principŒ necessarŒ per isciogliere qualunque problema di filosofia. Come dunque i nomi di due filosofi sono totalmente diversi l' uno dall' altro; così venendo a classificare i sistemi secondo questi nomi, sembra che si supponga, i sistemi stessi essere interamente l' uno dall' altro diversi, ciò che non si avvera o difficilmente si può verificare, essendo tanto vasta la filosofia. Di vero la filosofia, e anche, se vogliamo, la sola metafisica è un aggregato di più scienze (1); e quando anche due filosofi in alcuna di queste scienze realmente e non di sole parole discordassero, potrebbero concordare in qualche altra: laonde co' nomi degli autori potrò bensì distinguere materialmente i libri delle filosofie, ma non mai formalmente le stesse filosofie. Poichè quando si vogliono dividere le specie, non deve entrare nell' una quello che nell' altra; altrimenti non sono ben divise. Però sono venuto più volte in questo pensiero, che non si possa aver giammai una classificazione perfetta ed una storia della filosofia, fino a che non è stata fermata la perfezione stessa della filosofia. Allora raffrontando alla perfetta filosofia le altre non perfette o false, si potrà determinare in quali parti discordino: e di ciascuna discordanza si potrà formare la base d' un sistema falso, e quasi il germe di tutto il sistema (1). Ma perchè queste cose sieno chiarite di alcuno esempio, prendiamo non già tutta la filosofia, poichè non è stata ancora ridotta ad un semplice principio, e non viene significata con questa parola una scienza sola; ma prendiamo una parte della filosofia, che da un solo principio, o da una sola questione dipenda. E sia quella di cui più si occupa oggidì il mondo, e che Ella mi tocca nella sua lettera, dell' origine delle idee. Questa si riduce ad un solo principio, o per dir meglio ad una sola dimanda: In che modo lo spirito nostro venga in possesso delle idee . Le farò una classificazione di alcune delle principali opinioni tenute sulla questione. Queste opinioni diverse o questi principŒ diversi, riducendosi ad un solo oggetto, diventano naturalmente germi di varŒ sistemi, i quali, sieno o non sieno abbracciati dagli autori, sono però fra di loro totalmente diversi, perchè sono figli di un principio solo, totalmente diverso. E primieramente osservo che alcuni filosofi si sono il più occupati ad esaminare la potenza di produrre o d' avere le cognizioni delle cose e le idee: altri hanno fermata maggiormente la loro attenzione sui mezzi o aiuti esterni di cui quella potenza ha bisogno per operare. I sistemi dunque sull' origine delle idee si possono dividere da questi due capi di divergenti opinioni; A. dalla differenza delle opinioni de' filosofi intorno la potenza di conoscere; B. e dalla differenza delle opinioni intorno gli aiuti esterni dalla potenza di conoscere. - Cominciando dal primo capo. Alcuni pensarono che bastasse dare all' anima una potenza o facoltà, e per oggetto di questa potenza le sensazioni ricevute per gli organi corporei. Così prima delle sensazioni, non posero nello spirito umano nessuna traccia di cognizione. Di questi, Ella vede, è il Locke, il Condillac ecc.. Altri dissero che la facoltà di pensare non bastava concepirla nell' uomo prima del suo sviluppo, come una mera potenza, ma bisognava darle qualche traccia di cognizione non ricevuta da' sensi, lasciando poi d' esaminare se questa cognizione innata formasse parte essenziale e s' immedesimasse colla stessa facoltà di pensare, e si dovesse distinguere fra la facoltà di pensare e questa innata cognizione. Ad ogni modo costoro, non si appagavano di considerare la facoltà di pensare come una potenza in genere e quasi diremo di natura incognita, come i Lockiani; ma volevano protrarre più innanzi la loro investigazione (1), e non sembrava loro di essere ancor giunti a spiegare l' origine delle idee coll' ammettere semplicemente una facoltà di conoscere nell' anima umana; a loro pareva necessario a tal uopo di entrare ancora a determinarne la natura e le leggi, ricercando quale ella doveva essere questa facoltà per poter servire all' ufficio, che le si attribuiva, di pensare alle cose e quindi averne le idee. Ora a taluno parve che in nessuna maniera si poteva spiegare come sì fatta potenza fosse atta al suo fine, se non se la immaginava d' una natura particolare, e tale ch' ella portasse in qualche maniera seco gli oggetti suoi fino dall' istante ch' ella cominciava ad esistere. Ed in questo risultato convenivano moltissimi ingegni di gran valore, i quali avevano profondamente pensato al modo onde questa potenza di conoscere potesse fare le operazioni che fa, e l' avevano seguita col pensiero in tutti i suoi passi. Ma sebbene tutti questi convenissero che non si sapeva intendere in nessun modo come la facoltà di pensare potesse fare le operazioni ch' ella fa, se gli oggetti suoi ella non portasse in qualche maniera già seco fino dal suo esistere; tuttavia questi si dividevano di parere quando si trattava di definire quale fosse questa maniera , ond' essa avea seco uniti i suoi oggetti immobilmente ed originariamente. Quindi altri dicevano necessario ch' ella avesse a dirittura unite, o per sè o per una cotal giunta, le idee medesime delle cose: sia poi che ciò pensassero veramente, o piuttosto che così dicessero parlando impropriamente per non trovare la via d' esprimere con più esattezza ciò che concepivano nell' animo. E qui ella ravvisa Cartesio e molti Cartesiani. Ma ad alcun altro, parendo da una parte necessarie queste idee innate a spiegare i fatti del pensiero, dall' altra non sapendo come ammetterle al modo di Cartesio, perchè la coscienza non ne somministra argomento, sembrò più ragionevole di ridurre queste idee innate a piccolissimi sentimenti non avvertiti dall' anima, che riceve però impulso da essi ad operare secondo quelle forme quasi solo delineate in essa con lievissimi vestigi, e credettero costoro, che intravedesse questo vero Platone in quella sua reminiscenza, e che solamente a lui mancasse di aggiungere alla reminiscenza il presentimento . Spiegavano l' esistenza di queste idee non avvertite nell' anima nostra colla similitudine d' una statua, la quale esiste in un pezzo di marmo ancora rozzo, tracciata in esso dalle vene naturali del medesimo (1): e facevano poi che il pensiero tutto si creasse per una forza dell' anima determinata col presentimento o coll' instinto alle idee. E parmi questo il sistema di Leibnizio. Kant può avere avuto da questi instinti, onde Leibnizio faceva l' anima mossa alle idee (1) (quasi queste idee stesse fossero potenze separate che si riducessero all' atto per una forza loro intrinseca), il primo concetto delle sue forme innate, le quali non sono altro che determinazioni dello spirito venute a lui dalla sua propria natura, per le quali egli è costretto a veder le cose in un determinato modo subbiettivo, vestendo tutti gli oggetti sì del senso esterno che del senso interno, come dell' intelletto e della ragione (secondo la divisione ch' egli fa delle facoltà dell' anima), di queste forme, o per dir meglio considerando tutte le cognizioni come fenomeni dello spirito. A questo viene Kant; e finalmente Ella comprende come abbia chiamato filosofia trascendentale la sua dottrina, giacchè parla della forma di cui tutte le nostre possibili cognizioni necessariamente sono vestite, della quale perciò non le possiamo giammai svestire; sicchè il parlare di esse piglia un oggetto che transcende lo stesso conoscere; e vede ancora perchè la sua principale opera egli la denomini: « Critica della ragione pura; » assumendo a fare la critica alla stessa ragione, e a sciorre la questione, prima di tutto, se questa stessa critica sia possibile. Questi quattro sistemi differiscono, come dicevamo, dal diverso modo onde considerano la facoltà di conoscere: il primo restrigendosi a considerarla come una mera potenza di conoscere, senza esiger più oltre; gli altri tre giudicando necessario di considerare altresì questa potenza nella sua peculiar natura: e fra questi il primo pretendendo che in essa sia necessario di supporre ancora delle idee al tutto formate; il secondo insegnando che bastino certe potenze che si attuano quasi per via di certi instinti primitivi; il terzo finalmente trovando necessario concepire la ragione fornita di modi o forme venienti dalla sua stessa natura; e dicendo questi tre d' accordo, che non può spiegarsi come l' uomo si procuri le cognizioni col solo immaginare una potenza conoscitiva, se anche non se ne disamina la natura. B - L' altra classe d' ideologi si divide non tanto per la diversità nella quale considerano la stessa facoltà di pensare, quanto per la diversità, nella quale considerano la necessità d' oggetti primitivi, su cui operando la facoltà di conoscere, ecciti o formi o crei a se medesima le cognizioni. E di questi alcuno vuole che non bastino le sensazioni ricevute per gli organi corporei; ma gli oggetti da cui viene affetta la facoltà di conoscere, e da' quali colla sua attività crea a se medesima la scienza, sieno, oltre le sensazioni, tutti i sentimenti interni: ed Ella riconoscerà in questo, per nominare alcun recente, il Laromiguiere. Altri esigono, oltre gli esterni sensibili influenti sull' animo, un continuo lume della divinità che a lei risplenda: e qui vede l' italiano cappuccino Giovenale della Valle di Non, il Tomassino e il Malebranche ec.. E Platone aveva certo veduto il sistema di Malebranche, e travalicatolo, aggiungendo i molti lumi delle sue idee eterne sussistenti quasi esseri al di fuori della divinità, emendato in questo da S. Agostino, che fece la via a tre nominati filosofi. Alcuni poi (massimamente tra' moderni) non contenti di questi varŒ pensamenti, giunsero a credere che alla facoltà di conoscere, oltre le sensazioni, ci voleva un altro aiuto anch' esso esteriore fra il sensibile , dirò così, e l' intelligibile , cioè una favella , e dissero che l' uomo non poteva accorgersi del suo pensare giammai, senz' avere l' espression del pensare. Di cui nacque al visconte di Bonald il suo sistema. E si avvicinano a lui alcune sentenze di Platone e di Socrate; e molti altri lo avevano già prima intravveduto. Tra' quali il vide, prima del Bonald, un Italiano che ne fece pur troppo abuso [...OMISSIS...] Tutti e due conoscono l' assoluto bisogno del parlare per dar origine al pensiero: se non che il secondo non vede da questo di necessità assoluta, che il parlare sia venuto all' uomo dalla tradizione; mentre il Bonald crede con ciò stesso definito, che come la facoltà di parlare è in noi nativa, così l' arte di parlare sia in noi acquistata: quantunque poi dica: [...OMISSIS...] Questi altri quattro sistemi dunque differiscono dalla varietà degli oggetti ed aiuti, da cui credono che debba essere assistita la facoltà nostra di pensare, perchè ella giunga all' atto del pensare. Ora essendo questa questione dell' origine delle idee unica e semplice, si possono benissimo, com' Ella vede, classificare con tutta esattezza i diversi sistemi sulla medesima anche per mezzo de' nomi degli autori, senza dare loro una soverchia autorità, e presupporli infallibili nel tirare le conseguenze dai diversi principii. E` dunque necessario, prima di classificare i sistemi della filosofia, o di qualunque altra scienza, di ridur quelli ad un principio solo, o se questo non si può, di ridurli a quel minor numero di principii che è possibile, e poi per ogni principio fare una diversa classificazione. In tal caso poichè da un semplice principio nasce un sistema di conseguenze direi quasi infinite, quando io ho classificati i principii, vengo ad avere ancora classificato accuratamente i sistemi che o sono stati giustamente tirati da tali principii, ovvero si possono tirare da quelli. Non m' allungo con altri esempi per non essere infinito: ma dirò solo, che chi volesse classificare i sistemi secondo i sommi criterii della certezza, allora avrebbe un' altra questione pure semplice onde potrebbe cavare una esatta classificazione. Che se poi dimostrasse, che tanto la questione dell' origine delle idee, come la questione del sommo criterio della certezza dipendono da un solo principio antecedente, allora avrebbe trovato il modo di distinguere con una classificazione i sistemi che vengono dalle due proposte questioni, non formando esse in questo caso se non due parti di un altro sistema maggiore. E facilmente Ella da questo intende, come, se tutta la filosofia potesse ridursi ad un solo principio, allora si potrebbe ben classificare tutta la filosofia con una sola classificazione, bastando distinguere accuratamente le diverse opinioni sul principio da cui dipende. Ma è tempo che io passi a dire una parola sulla seconda richiesta che Ella mi fa, colla quale aspetta la mia opinione sopra i vari sistemi della filosofia. Ella vede, che la risposta che io le posso fare, dipende strettamente dalla prima che le ho fatto. Sarebbe forse possibile rispondere bene o male sopra qualche punto della filosofia particolare; ma sopra i vari sistemi di tutta la filosofia, non mi pare che si possa dir nulla di fermo e senza equivoco, mentre trovo, come dissi, tanta difficoltà solo in convenire in che differiscano questi sistemi. D' altra parte, per mio credere, non si può giudicare con sicurezza e senza presunzione degli altrui sistemi, se non per mezzo di un altro sistema già formato, pel quale sia venuta in animo grandissima persuasione di aver conseguito la verità che è sola giudice dell' errore: e quand' anche alcuno fosse venuto a questo, sarebbe cosa assai ardua esporlo chiaramente nelle angustie di una lettera. Mi conceda dunque che in luogo di risposta io attenda piuttosto l' indicazione di qualche questione particolare, sopra la quale Ella desiderasse sentire quello che mai mi riuscisse dirle: e per questa le faccio una sola osservazione generale. Io credo giovevole e modesta cosa considerare i sistemi de' filosofi coll' occhio più favorevole. Mi è paruto di vedere che quasi sempre essi sieno caduti in errore per imperfezione d' idee, non per isbaglio nel ragionamento: e però che tante volte bastasse aggiungere in luogo di mutare, e ricondurre alla naturale interezza i germi che essi hanno posti in luogo di distruggerli e gettarli di nuovo. Molte volte ancora due filosofi trattano di un argomento diverso e credono di trattare lo stesso argomento, e vengono alle mani come inimici; mentre che l' uno batte una strada e l' altro ne batte un' altra, senza incontrarsi: l' uno chiarisce un punto dell' umano sapere, l' altro ne chiarisce un altro a quello contiguo bensì, ma che non è quello: e perchè sono nello stesso territorio, ma sopra un' altra parte di esso, si avvisano di combattere insieme per lo stesso punto di terra. Li conduce a questo, confessiamolo ingenuamente, mio caro signore ed amico, quella presunzione e quella baldanza che tanto insensatamente entra nell' animo dell' uomo che aspira al conquisto della scienza, senza aver ricevuto e portato il soave giogo della verità. Però mi riesce dolorosa cosa e importevole il vedere come tutti quasi i filosofi si assaliscano e mordano scambievolmente, vogliano che tutto sia nuovo ne' loro libri; e basta che rinvengano nuove vesti ad un antico pensiero, per dichiararsi creatori di un nuovo sistema, e scopritori di una verità non isplenduta giammai agli occhi degli uomini che gli hanno in terra preceduti. E queste male disposizioni sì proprie de' mortali non è a dire quanto impediscano i progressi del vero sapere, e colla discordia delle sette, quante verità venute all' aperto non rimettano forse per secoli novellamente sotterra colla derisione e collo spregio del sistema nel quale erano contenute. Cosa lontanissima dal dolce e concorde spirito che mette in noi sola la Religione della verità! E così non facevano il grande Agostino ed il gran Tommaso, nè alcuno de' sommi splendori della Chiesa, che appunto per questo sono dalla piccolezza infinita degli uomini tenuti meno in pregio di filosofi e men seguìti perchè non hanno spacciato se stessi a fondatori di sistemi, paghi di contemplare l' intero e illimitato corpo bellissimo della verità. Ed Ella vede che con questo stesso io ho cominciato a rispondere alla sua terza interrogazione: Come arrivare alla scoperta del vero. La bella forma dell' animo, mi pare senza alcun dubbio, la migliore di tutte le disposizioni: di poi l' elevatezza della mente: la perpetua coerenza e profonda cognizione della Religione cristiana, che quanto più si studia, più fa crescer l' ali all' ingegno e spiegarle ai metafisici voli: nel medesimo tempo la libertà dai ceppi tutti che mette al progresso dell' ingegno la piccolezza degli uomini: avvezzarsi a contemplare le idee stesse prive dell' involucro delle parole, degli schemi, de' metodi: sapere avvisare la verità sotto qualunque forma e colore; amarla sotto tutti: abborrire la setta e il sistema in quanto limita queste forme della verità, e studiare assai nelle parole. Nelle parole (questo vero discende dalle osservazioni di Bonald, e prima sonava alto nel Vico) nelle parole sono contenute le scienze delle nazioni: però guardarsi dall' alterarne il senso fisso loro dai popoli, dirò di più dalla Provvidenza, da Dio: la proprietà delle parole strettamente conservata è l' unico mezzo alla chiarezza delle idee, a fissarle, a concordarle. Di questa proprietà fu sottilissimo investigatore, e fermissimo mantenitore S. Tommaso. Il volere alterare il valore delle parole fu l' arte di molti antichi e moderni sofisti, e di molti filosofi profani: appena s' inganna il mondo se non con questa alterazione: di quasi tutte le parole filosofiche e politiche si abusò, e a mostramento di ciò furon fatti molti scritti. Chi osservasse gli errori venuti dall' abuso della parola NATURA nella scienza del diritto e della morale, delle parole SENSAZIONE, PIACERE, DOLORE nella metafisica, delle parole UGUAGLIANZA e LIBERTA` nella politica, della parola RICCHEZZA nella economia, e di molte altre consimili, alle quali comunemente non si fece che aggiungere un senso più esteso del senso dato loro dal comune uso, avrebbe raccolto le origini d' incredibili inganni alla mente, e d' incredibili guai alla Umanità. Ella poi non sarà pago a queste generali avvertenze, già troppo a Lei note, per lo conseguimento del vero: vorrà di più, che io le additi qualche grave scrittore da mettersi innanzi quasi scorta ai passi nel malagevole ed inviluppato cammino. E lo farei ben volentieri, ma voglio riservarmi questa cosa dopo che Ella mi avrà appagato sopra i concetti di S. Tommaso intorno all' origine delle idee: perocchè non essendo giusto che un solo sia quello che spende, m' aspetto in cambio di questo povero scritto, questa moneta da Lei. Avrò allora di ciò occasione più opportuna. Hegel è il bisnipote di Kant, patriarca della moderna filosofia tedesca. Il filosofo di Koenisberga dalla meditazione di un principio noto avanti di lui, che lo spirito umano pensa in modo conforme alle sue proprie leggi, ne trasse quella filosofia che egli denomina critica , perchè assume di portar giudizio della stessa ragione umana; e il giudizio riuscì a dichiarare questa ragione impotente a conoscere, se gli oggetti del pensiero sieno tali in sè stessi, quali col pensiero appariscono. Egli sostenne che, se la mente umana li concepisce secondo le proprie leggi soggettive, ella dunque non può pronunciare che sieno quali le appariscono, ma nè pur negarlo. All' incontro Fichte, suo discepolo dallo stesso principio che la mente opera secondo le proprie leggi dedusse, che tutto ciò che conosceva la mente doveva essere produzione della mente stessa; e quindi assolutamente negò, che gli oggetti concepiti fossero in sè stessi quali appariscono. Il qual sistema veniva da lui rappresentato come la genuina interpretazione della dottrina del suo maestro. Ma il suo maestro Kant disdisse l' interpretazione; poichè infatti altra cosa è che le conclusioni della mente, dipendendo dalle leggi della mente stessa, non abbiano valor di conchiudere su quell' essere che gli oggetti possono avere in se stessi, ed altro è l' affermare a dirittura, che in se stessi non abbiano essere alcuno, ma sieno mere produzioni e modificazioni soggettive. Così il sistema di Fichte fu diverso da quello di Kant, come figlio che traligna dal padre. Ma venne Schelling, e allevato alla scuola di Fichte argomentò che se l' oggetto era produzion del soggetto, dovea col soggetto stesso identificarsi; giacchè niuna cosa genera altra natura da sè diversa; e poi facil cosa è conoscere, che nè il soggetto può stare senza l' oggetto, nè l' oggetto senza il soggetto, onde d' entrambi fece una cosa sola: di più, a lui parve impossibile immaginare un soggetto, che non fosse a un tempo stesso oggetto, e immaginare un oggetto che non fosse a un tempo stesso soggetto, onde diede al suo sistema il titolo di Teoria della identità assoluta . Così questo filosofo tedesco, che a Kant quasi è nipote, si trovò pervenuto a quella tesi, colla quale aveva esordito la filosofia eleatica in Italia per mezzo di Parmenide. Ma qui non ristette il movimento filosofico impresso da Kant nella Germania; poichè, ridotte le cose tutte, che posson essere oggetto della mente, all' unità ed alla identità, fu facile ad Hegel dedurre che quest' unica ed identica cosa, a cui tutte le cose riduconsi, altro non poteva essere che l' idea. E l' argomento di Hegel, considerato in suo fondo e ristretto in poco, riducesi a questo: L' uomo non può pensare nè parlare di cosa alcuna che non sia oggetto del pensiero. Ma l' oggetto del pensiero è l' idea: dunque tutte le cose si riducono all' idea. Ma posciacchè le cose sono varie ed opposte ed anche contrarie fra loro; quindi l' idea è quella stessa che prende diverse forme anche opposte e contrarie, e che va trasformandosi con leggi a lei intrinseche, in tutte le cose. Ella diventa soggetto ed oggetto, realità ed idealità, ente e nulla, relativo ed assoluto, tempo ed eternità; e in questo diventare appunto, che è il mezzo fra il nulla e l' essere, consiste la propria sua essenza. Ella ha quindi due movimenti, per l' uno dei quali s' accosta continuamente al nulla, per l' altro de' quali s' accosta continuamente all' infinito ed all' assoluto. Lo sviluppo della virtù intrinseca di quest' idea è ciò che forma l' argomento di tutta la dottrina hegeliana. In questo quarto discendente di Kant ora dorme il suo sonno la germanica filosofia. Approfittando della licenza, ch' Ella mi dà di sottoporle alcune osservazioni sulla storia della Filosofia da Lei trattata ne' Supplementi al Manuale del Tennemann, non mi sta nell' animo nè di rilevare le bellezze del suo lavoro, nè i difetti. Solamente è mio intendimento di toccare qua e colà alcune pochissime cose, quasi a modo di questione o di domanda, le quali quando ben si chiarissero, crederei poter giovare a condurre una storia della Filosofia, se non anco essere alla perfezione di essa indispensabili. E a ciò fare muovemi il desiderio di veder uscire dalla sua penna una storia degli sforzi, che fecero gl' Italiani al nobilissimo fine di fondare una costante, vera e salutare filosofia, di che già Ella mostrò al pubblico un tentativo col quarto de' suoi Supplementi. E questo mio patrio desiderio non toglie, che io non sappia esser la filosofia universale come la verità che contempla: e però dover essere universale, e non circoscritta da monti e da mari, da costumi e da idiomi, anche la storia completa delle filosofiche investigazioni. Ma questa è tal' opera, alla quale fin quì le forze di molti dottissimi si mostrarono inferiori; e credo che allora solo e non prima potrà avvicinare il suo perfezionamento, quando sarà resa perfetta la stessa filosofia. D' altra parte la Storia della Filosofia Italiana, che io desidererei vedere scritta con somma imparzialità e diligenza, vien da me concepita per nulla più, che per una cotale esortazione a' nostri concittadini di coltivare la sana filosofia col lume de' patri esempi. Al qual fine certo dovrebbesi vedere in questa istoria e i pericoli de' viaggi filosofici tentati dall' ingegno umano, e gli ardiri e i naufragi e le felici scoperte. Conciossiachè se alla storia manca questo, e se, senza alcuno discernimento, essa accozza gli uomini grandi ed originali col minuto volgo de' filosofi, se non divide la buon' audacia delle investigazioni dalla temerità, se non insegna chi furono quelli che pervennero al vero, e quelli che perirono sul cammino prima di giungervi, quali altresì ordinarono il regno della filosofia, e quali lo scomposero, quali finalmente con nuove e più savie leggi il riordinarono; non solo riesce essa fredda e inutile, ma perniciosa. Di che Ella vede come la storia della filosofia patria, che da Lei o da' suoi pari desidero, non è lavoro meramente erudito, ma sapiente e morale. E ad aiutare questo lavoro sian volte le poche osservazioni, che io intendo proporle, le quali a un tempo tendono a rettificare alcuni concetti filosofici, senza i quali parrebbe senz' occhi una storia della filosofia. E le dirò che prima posi l' occhio sulla maniera, secondo la quale Ella classifica i sistemi filosofici (1). Qui veramente mi nasce dubbio, se volendosi che tutto il compartimento della storia sia guidato e ordinato secondo una classificazione de' sistemi, non sarebbe stato più spediente di esporre quella classificazione e dichiararla a principio, anzichè nella fine della storia. Perocchè intervenendo di continuo il bisogno nella storica narrazione di richiamarsi a quella classificazione, egli par richiesto dal metodo che il lettore n' abbia ricevuta già da prima la notizia. Ma lasciando io ciò, mi cade di proporle un' altra questione. « Se egli si stia bene ad uno storico della filosofia, volendo distribuire in varie classi i filosofi, il dar loro un nome ch' essi non diedero a sè medesimi. » Io accordo pienamente, che v' abbia luogo a far ciò, ma ad una condizione; ed è, che quando pongo un nome ad un filosofo non datosi da sè stesso, io provi altresì con argomenti irrefragabili, e co' luoghi delle sue opere, che gli appartiene quel nome. Conciossiachè se il nome sistematico che s' impone ad un filosofo, non garbasse per avventura al filosofo stesso, questi avrebbe buona ragione di querelarsi allo storico, vedendosi dato gratuitamente un' appellazione, che non crede convenirsegli. E qui, mio stimatissimo Professore, io stesso debbo far querela con lei, essendole piaciuto di collocarmi nella setta o classe de' Razionalisti , e degl' Idealisti , quand' io non so per avventura di essere nè razionalista, nè idealista: e sarebbe un po' strano il caso, che io stesso ignorassi il mio nome, e che altri lo si sapesse. Il che se fosse, parrebbemi esser divenuto simile a colui, a cui degli solazzevoli uomini diedero a intendere, ch' egli non si chiamava Pietro, com' ei sosteneva, ma si chiamava Paolo, come non s' era fino allora udito mai appellar da veruno. E vedo io bene, ch' Ella mi viene poscia scusando e difendendo dalla mala impressione, che potrebbero dare que' nomi appostimi, attribuendo loro un cotal nuovo significato (1); ma ciò appunto mi dà occasione di proporle una terza quistione. E la questione si è « Se uno storico della filosofia possa mutare il significato ai nomi, che contradistinguono i sistemi nell' uso comune. » A ragion d' esempio: che cosa s' intende di significare oggidì nell' uso comune colla voce Razionalismo , se non quel sistema, che non pure esige una ragion chiara prima di dare l' assenso (il che non eccede il voluto dalla buona logica), ma che esige oltracciò una ragione riflessa? Di più, che esige oltre la prova, che una cosa sia, anche di comprendere la cosa stessa, prima di ammettere semplicemente che ella sia? O se si vuole definirlo in modo più elevato, quel sistema, che non riconosce alcun elemento che s' appareggi in altezza alle idee , di maniera che ad esse sieno inferiori e sottomesse tutte le cose? (2) Sicchè dicesi Razionalismo teologico quello di molti moderni protestanti, che rifiutano ogni misterio superiore alla ragione umana: e dicesi Razionalismo filosofico quello di Hegel, a ragion di esempio, che tutto dà all' elemento razionale. Ma da ciò appunto si vede come il mio sistema non solo differisca dal Razionalismo , ma di più come sia fors' anche il solo che l' abbatte fino dalle radici: perocchè il mio sistema pone ad una stessa altezza colle idee due elementi diversi dalle idee, e altrettanto supremi quanto le idee medesime; avendo io stabilito (nè so chi altri il facesse prima di me esplicitamente) l' Essere aver tre forme, o modi primordiali, l' idealità , la realtà e la moralità , nessun de' quali sottostà all' altro, ma ciascuno è primo, ciascuno incomunicabile, sebbene si leghino tuttavia nell' essere sempre il medesimo e identico in tutti e tre que' modi. I quali sono poi le tre mie somme categorie , a cui richiamo tutte le cose. Laonde tanto è lungi che io riduca tutto alla ragione, che anzi sono forse l' unico che abbia trovato qualche cosa che l' altezza della ragione possa emulare, e con essa per così dire aver comune l' impero. Quanto poi alla parola Idealismo , che Ella applica al mio sistema, e chi non sa, ch' essa fu sempre adoperata a indicare quei sistemi che negano la realità esteriore od anche l' esterior valore de' concetti della ragione? In che guisa adunque può darsi un idealista oggettivo7reale , come le piace chiamar me, quando quella denominazione nell' uso comune equivalerebbe a quest' altra d' Idealista7non7Idealista? La quale mia osservazione, parmi, rendesi degna di maggiore attenzione, quando Ella voglia considerare il pericolo, nel quale facilmente incappa colui, che aggiunge alle parole delle arbitrarie definizioni. E il pericolo che io noto, è quello appunto di contradirsi. Gliene darò, se mi permette, un altro esempio. Qual' è la definizione ch' Ella propone dell' Empirismo? La seguente. « « L' Empirismo è il sistema, che fonda la cognizione filosofica sull' esperienza sì esterna che interna, ovvero sul semplice fenomeno, o sulla sola apparenza delle cose »(1). » Or quì chiaramente Ella stabilisce, che l' Empirismo è quel sistema, che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, di maniera che se vi avesse un sistema, il qual fondasse la conoscenza filosofica sopra qualche altra cosa, oltre la sola apparenza delle cose, questo sistema non sarebbe più Empirismo. Bene stà: e che cosa è, secondo Lei, il Razionalismo ? Ella lo definisce. « « Il Razionalismo nel senso più largo od esteso è il sistema, che pretende la ragione umana capace per sè sola di conoscere l' essenza od i principii delle cose »(1). » Di questa definizione si vede, che il Razionalismo, secondo Lei, usa della sola ragione a conoscere l' essenza od i principii delle cose: di maniera che se vi avesse un sistema che usasse di qualche altra cosa a conoscere l' essenza ed i principii delle cose, non si potrebbe più chiamare Razionalismo. Or bene riteniamo queste sue definizioni, e vediamo come si accordino coll' altra definizione ch' Ella dà dell' Eccletismo in senso esteso ed universale. « « L' Eccletismo, Ella dice, nel senso più esteso ed universale è il sistema che fonda la cognizione filosofica sull' Empirismo e sul Razionalismo »(2). » Ma se l' Empirismo fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza delle cose, e se il Razionalismo non adopera che la sola ragione, che cosa sarà l' Eccletismo? L' Eccletismo sarà in questo caso « il sistema che fonda la cognizione filosofica sulla sola apparenza, e nello stesso tempo che non contento dell' apparenza delle cose, cerca d' investigarne l' essenza e i principii colla sola ragione. » Vede Ella a che si riduce questo suo Eccletismo? Quello poi ch' Ella aggiunge al paragrafo 474, dove pare che voglia conciliare il Razionalismo coll' Empirismo, non fa che intricare maggiormente la matassa. Perocchè Ella dice che nell' Empirismo tagliasi fuori di botto ogni razionalismo, cessando a rigore di termini l' Empirismo dal momento che si trapassa il fenomeno, o s' inoltra nelle speculazioni della ragione. Di che consegue esser giusto il seguente ragionamento. « O nel suo Eccletismo si trapassa il fenomeno o no. Se si trapassa il fenomeno, non c' è più Empirismo; se non si trapassa, rimane l' Empirismo solo senza il Razionalismo. »Dunque il suo Eccletismo è un Sincretismo che raccozza dogmi contradicenti, e il Sincretismo è nulla. Non voglio io attribuire a Lei questi assurdi, ma li attribuisco bensì alle sue definizioni. E io penso che il suo buon giudizio, meditandovi un poco, ne converrà meco pienamente. E perchè Ella vi mediti, non aggiungo di più a queste poche cose, che ho voluto esporle pel desiderio grande che ho, che si chiarisca la verità, e che ci avviciniamo, se possibil fosse, all' unanimità del sentire: al che è mezzo efficace la libera discussione, e dirò anche una censura severa e santa, che per amore e non per odio l' uno all' altro ci facciamo. Laonde Ella voglia ricevere con benignità questi cenni, e voglia liberamente ammonirmi se sono in errore. Voi volete saper da me, che cosa mi paia di quell' articolo intorno al « Saggio sull' origine delle idee , » che fu inserito tempo fa nel « Tiroler7Bothe , » e che ora ricomparisce nel « Messaggiere Tirolese , » tradotto in italiano dal professore Stoffella. E` cosa dilicata, mio caro maestro, il parlare d' un articolo di giornale, che fa la critica ad un proprio libro, chè nella materia de' nostri biasimi, e meno ancora in quella delle nostre lodi, non ci concede l' equità, nè la prudenza, nè la modestia, che noi c' intromettiamo, essendo gli altri i giudici nostri e noi le parti. Vero è, che ove la causa non è personale, ma è quella grave e comune della verità, non dobbiamo nè anco ritirarci dal più oltre agitarla per una falsa dilicatezza o soverchio timore, non forse altri attribuisca all' amor proprio nostro quello che pur ci viene suggerito da zelo buono del santissimo vero. E questa considerazione appunto mi move a contentarvi, e dirvi schiettamente ciò che io penso su alcun tratto di quell' articolo; perocchè, lasciate al tutto da parte le lodi di cui mi è largo il suo autore, e le quali vere o false che sieno, danno però mostra di animo inclinato alla benevolenza, come quelle che sono verso uno incognito (chè da un animo maligno nè anco la verità colla sua infinita bellezza sa riscotere una parola di approvazione, e un cenno gentile), io non vi dirò se non ciò, che mi sia paruto di quella parte, che tocca la questione delle idee, e la scienza filosofica, a cui tale questione appartiene. Sebbene io non dirò forse cosa, che voi non possiate aver detto prima a voi stesso, come quegli che siete entrato assai dentro e fattovi domestico nelle dottrine del « Saggio , » al trovamento delle quali voi stesso mi avviaste in que' begli anni, ne' quali mi aveste a discepolo nelle filosofiche scienze. Ben mi duole, che il dotto estensore dell' articolo non siasi potuto mettere in un esame dell' opera, e gli sia convenuto restringersi a darne solo un cenno, e gittare un solo dubbio sulla sostanza di essa; chè un cenno, un dubbio non mi dà buona presa da poterne io parlare con sicurezza, dovendomi rimanere in forse, se io pur intenda il concetto che l' estensore voleva al pubblico manifestare. Vi dirò bensì, che mi produsse un grato sentimento l' equità dello scrittore tedesco, ove, parendogli riuscire chiara l' elocuzione del « Nuovo Saggio » anche a svolgere questioni difficili e astratte, egli non dubitò di proporre quella chiarezza come un esempio imitabile ai filosofi della Germania. E veramente mi è avviso, che questo sia un punto principalissimo, se si vuole venire mai in accordo e consension di pareri, l' esser chiaro: e quel poco studio che io ho fatto nelle filosofie m' ha pienamente convinto, che il battagliare de' filosofi tra loro nasce le gran volte dal non intendersi; e che non ci può essere cura e diligenza tanto ben posta, quanto nell' usare parole e locuzioni chiarissime; nè si perverrà a trovare questa chiarissima sposizione, senza che ad un tempo non si pervenga a chiarire a se medesimo le proprie idee, o laddove non vi si giunga, varrà ciò a far conoscere, dalla fatica insormontabile che s' incontra a riuscir chiari, che le idee nostre sono sì implicate ed oscure, che non le possiamo a noi medesimi decifrare; il che avventurosamente insegnerebbe a molti scrittori di por giù la penna, e questa loro prudenza libererebbe il mondo d' un gran numero di noie e di errori, che si pescano sempre dove ci ha un fondo più scuro. E` però sfuggita una parola all' autore dell' articolo che contraddice senza ch' egli punto se ne avveda, al desiderio di questa bella chiarezza di stile, voglio dire quella colla quale afferma, che ogni astratto pensatore « dee da se stesso crearsi un peculiar linguaggio »: opinione pur troppo comunemente invalsa nella Germania, ma, ove senza pregiudizio si consideri, al tutto erronea. Che anzi il vezzo, che hanno preso que' filosofi di voler ciascuno riformare il linguaggio della filosofia è, a non dubitarsi, la principale cagione di quella tanta oscurità, che da' loro stessi nazionali è riconosciuta e confessata. Dovremo dunque nella nostra propria terra per essere filosofi farci barbari e forestieri? In questo dividerci dal comune modo di favellare, e farci una lingua o anzi un gergo da noi, più errori, o anche segreti suggerimenti delle nostre passioni, ci covano. Primieramente un errore, un suggerimento, per dirlo aperto, del nostro orgoglio è quello, che ci mette in cuore la lusinga vana di doverci sollevar noi tanto colle nostre speculazioni al di sopra della linea comune degli altri uomini, da potere, anzi da essere in necessità di rinunziare alla comune favella e perciò medesimo alle comuni idee, e di crearci una cotal lingua divina da noi medesimi, fatti simili agli Dei d' Omero, che chiamavano le cose con nomi diversi da quelli, con cui le chiamavano i mortali. Eh! non ci ha questa sì grande differenza da uomo a uomo, se la nostra vanità non ce la pone, che l' uno sia una divinità all' altro; ed è proverbio italiano e bello quello che dice, che tanto sa altri quanto altri . Riflettete ancora, che le idee, che ciascuno di noi ha ricevute per tradizione, dalla società umana in cui è nato e fu educato, col mezzo della comune favella e con essa stanno individuamente congiunte, sono quelle, colle quali, come con istrumenti, ciascuno di noi pensa, sono la materia, oltre alla quale i pensieri nostri finalmente non escono, e quindi sono tutto il fondo della filosofia. Sicchè le grandi e fondamentali verità il filosofo non fa che analizzarle, e trarle in maggior lume; ma esse non compariscono già al mondo la prima volta ne' libri de' filosofi, sì bene stanno depositate nelle tradizioni e nelle lingue, e i filosofi le prendono dal tesoro comune; e sfido qualsiasi de' filosofi tanto tedeschi, quanto italiani o d' altra nazione, a indicarmi d' aver egli il primo fatta comparire ne' suoi libri una sola verità fondamentale veramente nuova, e incognita prima di lui: sicchè altro sono le parole, altro i fatti di que' filosofi, che tutto vogliono innovare; altro ciò che promettono, e altro ciò che mantengono. E voi ben sapete, che io non ispingo però questa dottrina in quell' eccesso, nel quale la spinsero alcuni recenti filosofi francesi, ma che solamente io sostengo, che tanto di verità noi dobbiamo ricevere dalla società, o più in generale parlando, da un maestro al di fuori di noi per poter filosofare, quanto di lingua per poter favellare; e quanto sia questo tanto di lingua l' ho mostrato e definito nel « N. Saggio (1) » come ho mostrato nell' opera stessa in che modo io intenda e ristringa la dottrina del senso comune (2). Ma questo tanto di sapere e di lingua ciascuno di noi il riceviamo, come seme che feconda il nostro intelletto, dalla società degli uomini; e la società umana l' ha ricevuto da Dio, che le ha incumbenza di conservare e di travasare d' una in altra generazione questo deposito preziosissimo delle prime ed elementari verità. Ed acciocchè l' umanità, come debole ch' ella è, non manchi a questo suo ufficio, acciocchè le verità supreme sieno immobilmente fisse nel genere umano, e sieno anche sviluppate incessantemente, e rese fruttifere, la Provvidenza ne ha dato una speciale missione al Cristianesimo, che l' adempie da tanti secoli. Dal che si vede, che non furono bene comprese quelle mie parole, colle quali io ho dichiarato, che l' « Opera sulle idee » non intendevo che appartenesse ad una filosofia « inquisitiva di nuove verità, ma più tosto a quel genere che travaglia d' aggiungere chiarezza e sviluppamento a delle verità già universalmente conosciute. »Volevo io mostrare con quelle parole la poca fede, che io ponevo in una filosofia che fosse nuova e tutta invenzione d' un individuo; e come io non riconoscevo altra dottrina vera, autorevole e salutare, se non quella, che ha le sue radici, cioè le sue prime verità, nel senso comune degli uomini, e nel deposito dell' ereditaria sapienza, di cui l' umanità è e fu sempre in possesso, a cui non si può aggiungere se non ciò, che ci dà l' analisi e la riflessione, un più alto grado di luce, delle nuove conseguenze, delle nuove applicazioni. Il perchè io venivo con quelle parole a dire, che il far altro non era possibile nè a me, nè a chicchessia de' mortali, e il commentario e la prova di questa mia sentenza è sparsa in tutta l' opera (1). Oltre di ciò sulla lingua, che è essenzialmente l' espressione della società e non mai dell' individuo, se pure un individuo non vuol parlare con solo se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de' vocaboli, e perciò il valore d' un vocabolo non sancito dall' uso, quem penes , come fu detto sempre, est arbitrium et ius et norma loquendi , è un valore nullo, come di moneta, che non ha corso. Indi è che anche una menoma deviazione dal valor corrente della parola si reputa a peccato negli scrittori, e che l' usare tutte le parole diligentissimamente in quel significato, che l' uso comune loro stabilisce, forma quell' altissima lode delle scritture, che dicesi della proprietà , colla quale solo si ottiene la chiarezza e si tocca l' eccellenza dello scrivere. Ma quanti mali all' incontro non nascono dall' improprietà nell' uso delle parole? In prima le ambiguità, gli equivoci, un dettato incerto e vago, che non rende l' idea nell' altrui mente, se pure chi scrive in tal modo ebbe egli stesso mai in capo un' idea precisa da potere comunicare altrui. Poichè, come diceva Socrate, e questo il batteva fortemente contro a' Sofisti del suo tempo, chi pensa bene, parla bene, chi ha chiarite a se stesso le cose, sa metterle altresì in parole chiare e proprie: chè il nesso delle parole colle idee è sì stretto, che senza aver le parole, cioè senza averle ricevute dalla società, non si possono a mala pena avere le corrispondenti idee. Di che era divenuto fermissima legge anche appresso gli scolastici il dover conservare la proprietà delle parole, vedendo essi, che da questo dipendeva il potersi ben riuscire a insegnare, e fermare la verità e por termine alle questioni. E quel grande ingegno italiano, cui commenda l' autore dell' articolo, S. Tommaso d' Aquino, in più luoghi insegna e stabilisce come importantissimo principio per venire alla verità, e poterla mantenere e difendere, quello di osservare l' uso corrente delle parole e fedelissimamente seguirlo: « Significatio nominis » dic' egli, « accipienda est ab eo quod intendunt communiter loquentes (1) » Il perchè credo di poter dire, che il vedere uno scrittore che usa delle parole con tutt' altro significato da quello, nel quale le prendono gli uomini (2), e che con queste, come note magiche, vi parla da oracolo, e non consente, che alcuno sia con lui d' accordo, ma tutti hanno avuto torto, nè vi fu alcuno che abbia saputo un acca prima di lui, a cui avvenne il primo di trovar le vere basi della filosofia, e ricostruirla dall' imo al sommo; un tale, dico, ha tutto l' aspetto di essere un prestigiatore, o un cantambanco, o certo un uomo, che scoppia di boria, e che è voto di vero sapere. Veramente a certi volghi, e non però al volgo italiano, fa grande impressione il sentire un ardito pronunziare dal tripode, e spacciarsi per qualchecosa di più che tutti insieme gli altri uomini, per da più dell' intero genere umano, e a cui perciò si convenga anche d' avere lingua nuova, originale, e non imbrattare le sapientissime labbra col parlare comune della mandra umana; ma quest' impressione di stupore che fa in alcuni volghi, come dicevo, e nella parte superficiale de' letterati, la qual si guida non a stima di giudizio, ma di rumore, che si leva appunto per cotali stranezze di filosofi; è però tale, che il tempo la cancella, e la cancella per sempre, e con derisione di chi ne fu il zimbello, e del ventoso filosofante, che da tanto alto mandò fuori i vocaboli misteriosi, e nulla veramente di chiaro significanti a chi ebbe la semplicità di ascoltarlo e stupirsene. Il perchè se un uomo, il quale non si lascia imporre dall' apparenza, e che abbia digerito l' ebbrezza della maraviglia che gli avea cagionato da prima uno stile arcano, e promettitore di secreti inauditi, venga fuor di cerimonia e di contegno a fare metter giù il pallio filosofico e la barba, per così dire, a que' sistemi e snudarli e interrogarli a voler dire in latino chiaro ciò ch' essi si vogliano, ciò che essi s' intendano; riesce questi a cavarne di sotto a quelli enimmi delle verità non già arcane e peregrine, ma anzi volgari e notissime, mescolate pure con dei volgarissimi errori, con infinite inesattezze, e con una buona parte di sentenze senza significato, a tale, che l' autore medesimo non seppe ciò che s' abbia voluto dire con esse. L' affettazione dunque d' usar parole nuove o di nuovo significato il più delle volte è un' arte di coprire la propria ignoranza, e d' eccitare maraviglia in altrui, e trarne nome di originalità con pochissimo di sapere e con una testa oltre modo confusa. E non è quindi difficile a' filosofi di una tal mena inventare sempre de' nuovi e nuovi sistemi, i quali, a sentir essi, ve li danno per cosa, di che non s' ebbe mai al mondo sentore, giacchè basta arzigogolare colle parole per venirne a capo, e dei nuovi arbitrŒ, delle nuove improprietà, in somma un impasto nuovo di linguaggio, e se fa bisogno un nuovo rafel maì amech zabi almi , ed eccovi un sistema. E dopo ciò non vi farà maraviglia, se io oso dirvi, che de' tanti sistemi filosofici, che sono usciti in Germania questi ultimi sessanta o settant' anni, da che questa nazione ha preso un nuovo modo di filosofare, ognun dei quali vuol esser unico; appena che due o tre ve n' abbiano, i quali differiscano realmente fra di sè nelle basi, e non di sole parole (1). Ma v' ha di più ancora: un nuovo linguaggio individuale, arbitrario, non solo è il più sovente l' espressione propria di alcun di coloro, a cui si potrebbe rivolgere quel, o anima confusa , che rivolge Dante a Nembrotte; non solo è lo stromento dell' orgoglio sempre solennissimo ciurmadore degli uomini, il qual coi misterŒ e col prometter d' occultare sotto a' misterŒ de' tesori di peregrina sapienza e non mai trarli all' aperto, tenta di preoccupar gli animi della moltitudine e ingenerare in essi un gran concetto di sè; non solo è l' unico stromento acconcio alla fondazione di sette filosofiche (e di sette a dir vero la stagione dovrebbe esser finita); ma egli è qualche cosa di più pericoloso , e di più sospetto ancora: il debbo io dire? debbo io dire ciò che l' esperienza ci ha insegnato a nostro sì grande costo? il dirò spacciatamente a voi, mio caro amico, ed è questo, che il tramutar senso a' vocaboli e un fraseggiar nuovo fu un' arte di fare smarrire, e rimescolare nelle menti degli uomini le antiche e giuste nozioni delle cose, di alterare i costumi, di turbare le cose pubbliche, di distruggere la religione, quella religione, che antica come il mondo, gode pure di un linguaggio antichissimo, e nella sua sostanza, almeno ne' suoi solenni vocaboli e maniere, inalterabile. E non è egli così? Date uno sguardo alle cose de' nostri tempi, e vedrete, che tutte le sette politiche come tutte le sette religiose adoperarono per farsi largo un linguaggio inaudito, loro proprio, e senza di questo non avrebbero certamente potuto ingannare tanto, e tanto universalmente ed infelicemente gli uomini (1). Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco. E per seguitare della chiarezza necessaria nelle trattazioni filosofiche, una cagione di oscurità e del fraintendersi è ancora l' uso soverchio di maniere metaforiche là dove farebbe bisogno un parlar piano e proprio. E a dirvi il vero, per questo appunto è, che io non posso con sicurezza intendere, che cosa voglia dire l' estensore dell' articolo quando parlando del « Nuovo Saggio » mette dubbio; « se il punto di vista, al quale si leva l' autore trovisi veramente a quell' altezza speculativa, dalla quale soltanto si può aspettare una soluzione del tutto soddisfacente. »Quel punto di vista , quell' altezza speculativa , quel del tutto soddisfacente sono altrettante espressioni, che m' imbarazzano. Se egli mi avesse detto: « questa proposizione è vera, o questa è falsa »: io avrei inteso perfettamente ciò che egli voleva dirmi, ed allora io avrei potuto cavar profitto studiando di verificar meglio quella parte, che mi veniva additata come dubbiosa; ma parlandomi di altezza speculativa , io confesso di non saper più che mi si voglia dire; e perciò non sono in caso di approfittare della censura. Farà maraviglia questa mia osservazione, come quella che va a toccare delle espressioni assai frequentemente usate, ma non è egli da credere, che tanto sieno usate da taluni appunto perchè non contengono nessuno ben certo significato? Esse valgono a far credere ai lettori che si dica molto, perchè presentano un senso ravvolto in una nube, dentro la quale l' amor proprio di ciascuno spera di dovervi trovare qualche cosa di prezioso, e non ha coraggio di confessare a se stesso la propria incapacità di trovarci pur niente di solido. E` però vero, che quel passo sembra ricevere qualche lume dalle parole che seguono, e sono queste: [...OMISSIS...] Ma anche queste parole essendo così sfornite d' ogni prova, e così nudamente dette, non mi lasciano assicurare di bene entrare io nella mente di chi le disse. Tuttavia tenterò d' interpretarle a me stesso, e di farci sopra alcune osservazioni, prese in quel senso, che a me rendono. In primo luogo sembra da queste ultime parole, che l' estensore metta per cosa risoluta, e oggimai così certa da non dubitarsene, che la facoltà di percepire le cose particolari e la facoltà di percepire (com' egli dice) le cose universali non sieno punto due facoltà, ma una facoltà sola. Ma d' altro lato non sembra impossibile, ch' egli voglia torre ogni distinzione e diversità fra la facoltà de' particolari, e quella degli universali? Onde si distinguono le facoltà tra di loro? Fu sempre detto, dai loro oggetti, i quali se sono distinti, conviene che sieno distinte anche le facoltà, che a quegli oggetti si riferiscono. Converrebbe dunque dimostrare, che tra il particolare e l' universale, non v' avesse alcuna distinzione, non passasse alcuna differenza a poter dire, che le loro facoltà non sieno diverse, ma una facoltà sola. E se il particolare e l' universale fossero la medesima cosa, ne verrebbe, che si potrebbe l' uno prendere per l' altro, e dire che il particolare sia l' universale, e che l' universale sia il particolare, cosa mostruosa e contraddittoria ne' termini, perocchè solo a osservar la nozione che rendono alla nostra mente queste due parole, ognun vede, che la voce particolare esprime un concetto che è in opposizione appunto a quello della voce universale, e viceversa; sicchè l' una non è solo diversa, ma ben anche contraria dell' altra. Non posso dunque credere, che l' estensore abbia voluto negarmi ogni qualsiasi distinzione e diversità fra le facoltà dei particolari e degli universali. M' ingegnerò dunque di prendere le sue parole in altro senso, e di temperarle da quella sentenza rigorosa che pure proferiscono, e penserò che egli voglia dire, che il particolare e l' universale, sebbene opposti fra loro, hanno un cotal rapporto, sicchè l' uno viene dall' altro, o tutti due da un terzo elemento. Dove questo sia il suo pensiero, io gli propongo le osservazioni seguenti. Egli in prima non può dedurre l' universale dal particolare; chè così facendo si aggregherebbe alla fazione de' sensisti e de' materialisti; tutto l' errore de' quali consiste nell' imaginarsi di poter dedurre dalle particolari sensazioni gli oggetti essenzialmente universali della mente, giacchè la facoltà prima de' particolari non è che il senso, e la facoltà degli universali non è che l' intelletto: due facoltà che i sensisti confondono in una. Ma di questa fazione mostra già l' estensore di non avere alcuna stima, e però non posso attribuirgli un tal sentimento. Non credo nè pure di potergli attribuire il pensiero, col quale egli voglia dedurre dagli universali i particolari, chè non mi è noto, che nella mente di alcun filosofo sia mai caduta una stranezza simile di affermare, che l' uomo percepisca i particolari, non con un senso che ad essi presieda, ma deducendoli per astratto ragionamento, e quasi indovinandoli dalle idee universali della sua mente. Conciossiachè conviene osservare, che qui parliamo de' particolari e degli universali solo in quanto sono gli oggetti delle percezioni dello spirito umano. Troverò io meglio il suo concetto, se supporrò, che egli voglia dire, che tanto gli universali, quanto i particolari scaturiscano da un terzo elemento, come da una fonte comune? Ma questo terzo elemento, mi si dica, sarà egli un universale, o sarà un particolare? perocchè non so che cosa ci possa avere di mezzo fra il particolare e l' universale, nè posso in alcuna maniera concepire un oggetto, che non sia nè particolare nè universale. S' egli dunque è un particolare che produce l' universale, ricaderemo nel sistema dei sensisti, e s' egli è un universale che produce un particolare, verremo ad abbandonarci ad un sistema così assurdo, che non ha bisogno di confutazione. Ma forse egli voleva dire, che considerando noi in questo ragionamento il particolare e l' universale in quanto sono oggetti, o anzi termini dello spirito umano (1), egli non è però assurdo il supporre, e non è impossibile il pensare, che tutti e due questi termini dello spirito sieno prodotti da un terzo elemento, non oggetto e non termine dello spirito, e perciò non apparente allo spirito. In tal caso noi siamo usciti oggimai dall' ordine logico , e siamo entrati nell' ordine ontologico , cioè a dire, siamo usciti dagli oggetti del pensiere umano, e siamo venuti ad un che incognito, che li produce: ora una cosa incognita, una cosa fuori del nostro spirito, fuori della nostra sensitività e della nostra intelligenza, non può in alcun modo costituire una facoltà dello spirito stesso; e perciò questo terzo elemento, questa entità, quand' anco ci fosse, non potrebbe costituire una facoltà superiore a quelle degli universali e de' particolari, sicchè queste da quella uscissero e in quella si unificassero. Vado bensì meco medesimo indovinando che questo terzo elemento sia per l' estensore dell' Articolo la coscienza (noi diremmo il sentimento), i fatti della quale pare a lui non essersi da me considerati quanto sarebbe bisognato nella loro connessione e nella loro più elevata unità; volendo così dall' ordine logico trasportarci all' ordine psicologico , cioè a cercare la spiegazione delle facoltà nel fondo dell' anima stessa, come molti filosofi, massime della scuola tedesca, vanno dicendo. Ma se a questa schiera egli pensa d' aggiungersi, non mi sarebbe punto difficile il fargli osservare i luoghi del « Nuovo Saggio , » dove si dimostra, che un tale pensamento è insostenibile in se medesimo, e scettico nelle sue conseguenze (1). Ma in luogo di ciò, a me basterà di eccitarlo a fare la seguente riflessione. La coscienza, come si suol prendere da' tedeschi, è un sentimento , appartiene quindi alla facoltà di sentire, o anzi, è ella stessa la grande e universale facoltà di sentire dello spirito umano. Ora, se noi consideriamo il sentire come tale, egli non è nulla più che la facoltà de' particolari, giacchè il soggetto senziente uomo è un particolare, e ogni sensazione è una modificazione di questo soggetto particolare, che a suo tempo si chiama IO, e perciò essa è particolare. Perchè adunque la facoltà di sentire passi agli universali, conviene, che le si sopraggiunga qualche cosa, cioè che gli venga posto un oggetto in contrapposizione di lei, soggetto. In tal caso essa non è oggimai pura e semplice facoltà di sentire , ma è divenuta facoltà intellettiva , ed è questa appunto la maniera, ond' io faccio nascere nell' uomo l' intelligenza, cioè col sopraggiungersi d' un oggetto al soggetto , coll' esser dato alla facoltà di sentire universale dell' uomo un termine diverso dal soggetto stesso e da lui indipendente, e quindi coll' acquistare che fa il principio sensitivo dell' uomo una modificazione essenziale, in virtù della quale estende la sua forza fuori di tutto ciò, che racchiude la nozione d' un sentimento puramente soggettivo. La coscienza dunque, a parlare con proprietà, un sentimento puramente soggettivo, appartiene solo alla facoltà de' particolari, e chi volesse da questo trarne la percezione degli universali ricaderebbe in quel sistema, che trae l' universale dal particolare, che è quanto dire, l' idea dalla sensazione, sistema sensistico e materiale (1). Egli è bensì vero, che alcuni filosofi danno alla forza primitiva dell' anima un atto creatore, col quale il soggetto stesso pone il suo oggetto, lo spinge e, quasi direi, lo slancia fuori di sè senza preciderlo da sè, ma mettendolo in opposizione a sè, come termine della sua contemplazione. Ma, oltre che questo sistema è panteistico , ed io l' ho già confutato a lungo (2), non se ne può dare la minima prova, che abbia pur solo del verisimile, e in qualunque caso, egli non può tener luogo, che di una ipotesi, conciossiachè i fatti appunto della coscienza, sieno esterni, sieno interni, non dicono nulla di questo, ma dicono anzi tutto il contrario, poichè la coscienza ci dice, che nella percezione degli oggetti noi siamo i passivi , e gli oggetti sono gli attivi , noi siamo dipendenti, quelli a cui viene imposta la legge; e gli oggetti sono indipendenti, e quelli che impongono la legge. Nè si dica che il concetto di passività involge una specie sua propria di attività; poichè questa attività non è finalmente che quella, per la quale il soggetto paziente esiste e patisce. Ci perderemmo dunque in una filosofia puramente fantastica, se, abbandonato il filo dell' esperienza interna ed esterna e le deposizioni chiare della coscienza, noi volessimo supporre un' operazione arcana nell' intimo dell' anima senza averne la minima prova, ed il minimo reale indizio. Concludiamo dunque da tutto ciò, che non c' è alcuna via da identificare nell' uomo la facoltà di percepire i particolari e la facoltà di percepire gli universali, e che non si può negare che queste non abbiano una diversità reale fra loro. Ma dopo di ciò, se queste facoltà, cioè il senso e l' intelletto, sono diverse, e non si possono confondere; saranno esse anche prive d' ogni rapporto fra loro? non hanno forse una comune radice? non si rassomigliano in cosa alcuna? A tutte queste domande ho risposto lungamente nell' opera, e voi bene vi ricorderete d' averci trovate le seguenti dottrine. In primo luogo, tutte le facoltà, ove le consideriamo dalla parte del soggetto, si unificano, ed hanno per radice comune, il soggetto, il quale è perfettamente uno e il medesimo (1). Quindi c' è un' attività radicale nel soggetto uomo, la quale è identica in tutte le facoltà, che traggono da lei, come altrettante attuazioni d' una medesima potenza; e quest' attività è l' anima stessa, che, come dice Dante, [...OMISSIS...] In secondo luogo, l' attività d' un soggetto, considerata da sola, è un sentimento , pel quale il soggetto sente se stesso, o a dir più vero, sente il modo del proprio essere, sicchè essendo moltiplici i modi dell' essere d' un soggetto senziente, anche quella facoltà da una si fa più, secondo i diversi termini delle sue operazioni: indi si partono non formalmente, ma per la diversa materia, quelli che si chiamano i cinque sensi del corpo, e queste attuazioni diverse della sensitività radicale si possono considerare bensì come altrettante facoltà, ma non però così distinte, che non abbiano sempre il soggetto per loro termine ne' suoi varŒ modi (3). All' opposto questa attività di sentire riceve una nuova funzione, infinitamente più nobile di tutte queste, quand' ella non termina più, come dicea, nel soggetto ; ma un oggetto le è dato da contemplare. Ella allora è maravigliosamente nobilitata da questo suo termine distinto essenzialmente da lei, e che non si può intuire se non distinto; di che al sentimento accade una preclara trasformazione, cioè quella di rendersi intelligente. Questa intelligenza, che viene aggiunta al soggetto col pur presentarsi e giungersi a lui come termine un oggetto, è tale, che il soggetto non potea mai darla a se stesso, perchè l' intelligenza richiede qualche cosa di essenzialmente diverso dal soggetto: e quindi il soggetto dovea ricevere l' intelligenza da qualche cosa diversa e maggiore di sè, da una cosa, che fosse per la propria essenza intelligibile, la quale perciò non potea esser sentita senza esser ad un tempo intesa, il che facea sì che resa termine dell' attività sensitiva, ella traeva quella attività ad una nuovissima e maravigliosissima operazione. Per tal modo è che io faccio nascere, ed uscire l' intelligenza umana dal senso universale, ma non dal senso solo, bensì da una operazione, che viene fatta dall' esterno del soggetto uomo, da una virtù, a cui l' uomo non può resistere, e che nel rendersi recettivo, nel cedere, nel darsi vinto, forma, e crea in lui ciò che aver ci può di più elevato, e di più sublime (1). Dalla parte dunque del soggetto le facoltà si unificano e radicano tutte nel medesimo, e anzi rimarrebbero una facoltà sola specificamente, se al soggetto null' altro si aggiungesse, e tutto terminasse in lui. Ma se questa universale facoltà di sentire che costituisce il soggetto stesso, esce dal soggetto, e l' abbandona per l' oggetto, qual forza ne la trae fuori? che cosa è questo oggetto, che a lei si presenta? questo termine, che, essendo egli essenzialmente conoscibile, dà l' intelligenza coll' esser sentito, e quindi egli, il primo inteso da questa intelligenza da lui per tal modo creata, rende intelligibile, per partecipazione della sua luce, anche tutte l' altre cose solo sensibili? Questa ricerca ho fatto in tutta l' opera sulle idee, ed il risultato si fu, che questo termine dello spirito umano è l' ENTE; e che prima l' uomo vede quest' ente in universale, e in uno stato puramente ideale. Indi col mezzo suo intende anche le altre cose, perocchè l' intelligibilità di queste non consiste se non nel rapporto che esse hanno appunto coll' ente stesso (1). Il risultato si fu ancora, che quest' azione che soffre dall' esterno lo spirito umano, è irresistibile e superiore a qualunque forza: che l' oggetto, l' ente è la stessa VERITA`, l' unica forma della ragione, il fonte della morale , cioè la legge suprema non solo de' pensieri, ma anche delle azioni umane (2), il criterio della « certezza (3), » il principio della « bellezza (4), » e ciò che il volgo chiama assai propriamente il « lume della ragione (5). » Risultò medesimamente dalle mie ricerche, che quest' ente è la causa esemplare delle cose, è l' universale, il necessario, e quindi il fonte di ogni universalità, e di ogni necessità (6); che egli finalmente è immutabile, eterno, infinito (7); e tutto questo che egli mostra non è apparenza ingannevole, poichè quest' ente non può apparirci diverso da quello che è, ed è essenzialmente ed evidentemente veritiero, appunto perchè è la verità; e per ultimo risultò, che sebbene da noi non si veda l' ente nella sua sussistenza , ma solo nell' idea tuttavia non può non sussistere anche in se medesimo, e in questa sua sussistenza considerato è la causa efficiente del tutto, l' ente degli enti, l' unico assoluto, Iddio (.). Così l' Ideologìa mi condusse a mano fuori della mente, e fece che mi ritrovassi sul limitare dell' Ontologìa, ove il discorso non cade più sulle idee , ma sulle stesse cose . Ed è nell' Ontologìa , non ancora da me pubblicata, che io richiamo alla sua vera ed altissima unità anche il mondo reale, come coll' Ideologìa ho richiamato all' unità sua il mondo ideale, per dover poi nella Teologìa naturale congiungere, cioè, far dipendere i due mondi reale e ideale da un solo e medesimo punto, cioè da quell' ente degli enti, nel quale la verità , ossia l' essere mentale, diventa una persona indivisa dalla divina sostanza. Non so, se forse l' Estensore dell' Articolo alludeva a qualche cosa di simile a questo, quando egli desiderava, che io avessi considerati i fatti della coscienza nella loro più elevata unità ; ma in tal caso, come abbiamo veduto di sopra, questa unità è fuori della coscienza, è fuori dell' ambito della ideologìa , ed appartiene all' ontologìa , e si consuma nella teologìa naturale . Per tornare dunque a quella unità di sentimento, che solo è ragionevole di cercare nel « Saggio sull' origine delle Idee , » voi certamente, che molto addentro siete entrato nello studio di esso, vi sarete avveduto di questa strettissima connessione soggettiva, che io pongo tra la facoltà dell' intelletto , e del senso preso in generale , e non solamente preso per quel ramo del sentire corporeo. Ma oltre di ciò ci avrete ancora trovato di più, che io riduco alla unità medesima anche la terza delle facoltà fondamentali dell' uomo, cioè la ragione , facoltà media fra l' intelletto ed il senso . Non vi sarà sfuggito, che anzi non altrove io fondo la possibilità e la propria natura della ragione , se non nell' identità del sentimento e della coscienza del soggetto sensitivo ad un tempo ed intellettivo , sicchè la funzione della ragione io la riduco ad essere la visione delle relazioni fra le sensazioni e le intellezioni; e l' indole propria di ogni idea, che non sia la suprema, semplicissima di sua natura e tutta forma, in quella d' essere un rapporto veduto fra la sensazione stessa, materia , e l' essere in universale, forma , e lume della mente (1). Tre dunque sono le facoltà specificamente diverse nell' uomo, il senso , l' intelletto , e la ragione ; ma l' uomo non è già una facoltà, ma il soggetto unico di quelle tre facoltà: ecco l' unità , a cui si richiamano tutti i fatti della coscienza. Vi risovverrete, che questa dottrina sparsa per tutta l' opera, viene in fine d' essa riepilogata nel seguente passo: « « Nella coscienza esistono tutte queste potenze avanti le loro operazioni, cioè il sentimento di me col mio corpo (sensitività) e l' intelletto . Questa coscienza, perfettamente una, unisce la sensitività, e l' intelletto. Ella ha altresì un' attività, quasi direi, una vista spirituale, colla quale ne vede il rapporto: quest' attività è ciò che costituisce la sintesi primitiva . Se noi consideriamo più generalmente questa attività nascente dall' unità della coscienza, in quanto cioè ella è atta a vedere i rapporti in generale, ella è la ragione , e la sintesi primitiva diventa la prima operazione della ragione »(1). » Una unità maggiore di coscienza e di sentimento dell' identità non si può dare, e questa è quella semplicità, a cui mi sembra d' aver richiamata con evidenza la scienza del pensiero. Io aggradirò, che voi mi diciate schiettamente il vostro parere su queste mie osservazioni, che vi mando per ubbidirvi. Addio. La ringrazio della pregiata sua piena di sagacità, e di quello spirito conciliatore; che se fosse in tutti gli studianti, tanto gioverebbe ai progressi della filosofia, della sapienza e della stessa virtù. Cercherò di chiarire in breve alcune cose ch' Ella mi propone. Prima di tutto è da porre attenzione al senso, nel quale io uso il vocabolo reale o realità. Io mi accorgo che molti intendono per cosa reale una cosa vera o veramente esistente. Ma non è questo il senso che io aggiungo a quella parola. Il reale per me non è che un modo dell' essere , non è l' essere stesso. Io sostengo che l' essere identico è in tre modi o maniere diverse, che io denomino ideale, reale, morale . Lasciamo da canto il morale a fine di semplificare il discorso; dico che l' essere identico si trova tanto nell' idealità quanto nella realità, ma in altro modo. Sia dunque che l' essere si prenda nella sua forma ideale, o che si prenda nella sua forma reale, egli è verissimamente ed è sempre lo stesso essere. Convien dunque con somma diligenza meditare sulla diversità che ha l' essere in queste due forme, nelle quali si presenta, e nell' una delle quali non è più nè meno che nell' altra. Una delle diversità estrinseche, per così dire, che separa l' essere ideale dal reale , si è che l' essere ideale è sempre necessario , laddove l' essere reale non è sempre necessario, ma ora è contingente, ora è necessario. E` facile il dimostrare che l' essere ideale è sempre necessario, sol che si faccia osservare che anche l' idea del contingente è necessaria ed eterna. Ella vede dunque che, secondo la mia maniera di parlare (dalla quale a dir vero non trovo che si possa prescindere), quantunque l' essere ideale sia verissimamente ed anco necessariamente, non si può inferirne che sia reale; chè sarebbe contraddizione il dire che ciò che è ideale, è reale, o viceversa, essendo queste due forme incomunicabili, o inconfusibili. Ella mi domanderà qual sia il carattere, che distingue queste due forme l' una dall' altra. Rispondo, che queste due forme si distinguono come l' idea si distingue dal sentimento , o sia che il carattere dell' essere ideale è quello di far conoscere semplicemente, senza aver alcun' altra azione di sorte; quando il carattere dell' essere reale è quello di agire , producendo o modificando il sentimento. Ancora: l' essere reale è soggettivo , l' ideale sempre oggettivo: l' oggetto si può unire col soggetto, anzi si deve; ma non si può mai confondere con esso. Avverta che per me un soggetto è sempre un sentimento, e il reale è sempre anch' esso il sentimento, o ciò che agisce nel sentimento: l' idea non è mai un sentimento, e qualora si voglia dire che modifichi il soggetto che la intuisce e produca in essa qualche sentimento, tuttavia questa modificazione, di natura sua propria, distinta da tutte le altre, non è l' idea. Del resto, ripeto, che nell' ideale c' è tutto ciò che nel reale, meno la realtà; e nel reale c' è, o ci può essere tutto ciò che nell' ideale, meno la idealità: le sole forme, i modi soli si escludono: il contenuto di esse è l' essere identico . I filosofi tedeschi, e specialmente Hegel, hanno fatti sforzi maravigliosi per trovare un punto, che congiungesse l' oggettivo col soggettivo, cui chiamarono punto d' indifferenza [...OMISSIS...] di cui quest' ultimo filosofo volle fare il fondamento e l' origine di tutte le cose. Vani sforzi! Non videro que' pensatori, che avanti l' oggettivo e il soggettivo, l' ideale e il reale, non c' è nulla, nulla affatto; che, l' essere è l' essenza identica d' entrambi. Ella avrà forse colto questa teoria nelle mie opere, ed esige, parmi, attentissima meditazione a concepirla sì nettamente da non falsarla con alcun' altra, e da poter trovarvi le conseguenze di cui va gravida. Ora venendo più da vicino alla nostra quistione: se d' innanzi alla mente umana stia sempre Iddio collocato, l' essere assoluto; rispondo facendo primieramente osservare, che stare presente alla mente umana non vuol dir altro se non esser dalla mente intuìto , di maniera che ciò che non fosse dalla mente intuìto si dovrebbe dire che non le è presente. In secondo luogo osservo che la parola Dio nel comune significato non indica solamente un essere necessario, ma indica di più un essere reale, indica l' essere reale infinito; epperò necessario. Ora che stia d' innanzi alla mente nostra di continuo l' essere necessario è quello che io sempre sostengo in tutte le opere mie; ma che stia presente alla mente, cioè che sia intuìto continuamente dalla mente quest' essere necessario nella sua forma di realità, questo è quello che nego non solo per l' assurdo teologico che ne verrebbe, ammettendolo; giacchè in tal guisa noi vedremmo Iddio per natura; ma di più per la semplicissima ragione che l' osservazione interna del fatto del nostro spirito ci dichiara che noi non abbiamo quella percezione della realità divina; la quale d' altra parte non è necessaria a spiegare l' origine delle nostre idee, al che ci bisogna solo l' essere ideale per sè noto, per sè lume: e finalmente per una terza ragione, cioè perchè la realtà divina non appartiene all' ordine delle idee, ma all' ordine de' sentimenti, ne' quali solo comunicandosi a noi, si può da noi percepire e dalla facoltà nostra del giudizio affermare. Nulladimeno dall' essere , che sta innanzi alla mente nostra nella sua forma ideale , possiamo passare per via di argomentazione a conchiudere, che quell' essere identico che a noi si comunica come ideale, dev' essere in se stesso anche reale, e un reale necessario e infinito altrettanto che ideale, benchè questa sua realità a noi sia nascosta nell' ordine della natura; conciossiachè nel semplice ordine naturale noi non possiamo percepire che una realità finita; e la percezione della realità infinita è poi ciò che costituisce l' ordine soprannaturale . Trovando mediante tale argomentazione la necessità d' un reale infinito, noi abbiamo dimostrato l' esistenza di Dio a priori; perocchè gli uomini in tutte le lingue intendono ed hanno sempre inteso di significare colla parola Dio non l' essere ideale, ma l' essere reale infinito. Di che ella vede che il non poter applicarsi il nome di Dio all' essere ideale, che noi naturalmente vediamo, non fa sì ch' egli sia perciò diverso da Dio, in se stesso, ma solo che a noi appaia diverso, attesa la limitazione nostra, e il modo parziale con cui ci viene comunicato. Mi spiegherò con un esempio: io vedo da lungi una piccola macchia nera; questa macchia si muove: mi si avvicina: finalmente scorgo che è uomo. Quando io vedea la macchia nera, ma non distinguevo ancora che fosse un uomo, io non potea dire di vedere un uomo, poichè ciò che a me appariva non era punto un uomo; era una macchia nera; ma in quel punto in cui ho cominciato a distinguere le forme umane in quella macchia, io ho potuto dire: vedo un uomo. L' oggetto in se stesso era sempre il medesimo; ma non così l' oggetto a me apparente; prima era una macchia, poi era un uomo. Applichi la similitudine: l' essere infinito è identico tanto nella sua forma ideale quanto nella sua forma reale; ma fino che io lo vedo nella sua forma ideale solamente, non vedo Iddio: vedo Iddio tosto che lo vedo nella sua forma reale: ma non è tanto l' oggetto che varia, quanto la visione dell' oggetto. Questa similitudine non è adequata da tutti i suoi lati; ma fa intendere bastantemente il mio pensiero....... Ricondottomi a Stresa dopo lunga assenza, vi ho trovato la sua « Introduzione alla Filosofia razionale » da Lei gentilmente speditami, e poco stante ebbi la cortese sua lettera, in cui mi chiede qualche parere sulla medesima. Ho letto con piacere non piccolo quella sua operetta, scorgendovi da per tutto la penetrazione del suo ingegno e i vestigi di una non leggera meditazione. Laonde devo sinceramente congratularmi con essolei d' un lavoro che le dee far grande onore. Non le parlerò delle osservazioni che Ella fa sul sistema ideologico contenuto nel « Nuovo Saggio » e che tutte mostrano la rettitudine dell' animo suo e la persuasione sincera di ciò che dice, ma non posso tacere del tutto del sospetto di Panteismo ch' ella mostra di prenderne e dell' accusa ch' ella gli dà d' impotenza a dimostrare l' esistenza reale de' corpi. L' amor suo sincerissimo alla verità dee liberarla a mio credere da ogni timore, che, nella conseguenza del sistema, possa uscirne un panteismo sol che consideri quanto segue. Niun altro sistema, a me pare, pone più gran divisione fra l' essere ideale e l' essere reale . Ora l' essere ideale è necessario ed eterno, quando all' opposto l' essere reale non è essenzialmente necessario ed eterno, avendovi un mondo contingente e soggetto alla limitazione del tempo. Ora essendo l' essere ideale essenzialmente necessario ed eterno, ne viene ch' egli debba ridursi in Dio, ed essendovi in Dio un' unità perfetta, niuna maraviglia è, che anche nell' essere ideale si trovi un' unità perfettissima, cioè che tutte le idee si riducano ad una sola. Se fra le idee ci fosse una real distinzione, una real distinzione ci sarebbe in Dio, il che pregiudicherebbe alla divina semplicità. All' incontro l' essere reale contingente non potendosi ridurre in Dio, nè pure esige l' unità e la semplicità propria del mondo ideale e divino. E tutto ciò è confermato dall' osservazione interna ed esterna; poichè è l' osservazione interna che ci persuade le molte idee non esser altro, che lo stesso lume applicato a conoscere cose diverse: la moltiplicità delle cose reali moltiplica le idee in questo senso, che moltiplica i rapporti fra essi e l' unica idea; avendo io già dimostrato che tutte l' altre idee, eccetto quella dell' essere, non sono che rapporti delle cose con essa idea unica dell' essere ( « Rinnovam . » L. III c. LII). L' osservazione poi esterna ci dimostra la moltiplicità e la limitazione delle cose esteriori, le quali per ciò stesso non si possono in alcun modo confondere con Dio. Di qui risulta, che dall' unicità, che si trova nelle idee, non si può argomentare all' unicità delle cose esterne contingenti, perocchè l' essere ideale è tanto distinto dall' essere reale e contingente, quanto è distinto Iddio dalle creature. All' incontro il vedersi che quell' unica idea si moltiplica, secondochè fa conoscere ora una cosa ora l' altra, dimostra manifestamente la moltiplicità delle cose reali, moltiplicità e limitazione che si trova così dimostrata nel seno stesso del mio sistema. Venendo ora alla obbiezione, che ella fa alla dimostrazione dell' esistenza reale de' corpi , devo confessare che la riflession sua sarebbe giusta qualora quella dimostrazione si appoggiasse, come Ella suppone, all' erroneo principio che un essere illimitato non possa mai produrre effetti limitati . Ma se ella attentamente considera, vedrà che la dimostrazion mia fondasi anzi interamente sull' analisi del concetto di corpo, per la quale io stabilisco che il corpo è quell' agente sull' anima, che l' anima sente nello spazio : e la sostanza corporea non è nè più nè meno di quest' agente. Ora quest' agente sentito immediatamente dall' anima e nell' anima, e avente il modo della estensione, è una sostanza limitata , e perciò non può essere Dio. Merita nome di sostanza , perocchè si concepisce da sè solo senza che il pensiero nostro per concepirlo debba far ricorso ad altro; e questa sostanza è limitata , perchè in tanto è sostanza, in quanto agisce, e in quanto agisce è limitata ed estesa, onde non è Dio. Conviene formarsi una giusta idea della sostanza, riducendola sempre ad un atto, il quale, qualor si considera sotto l' aspetto di principio , dicesi agente , e qualora si considera come cosa che si lascia concepire da se stessa senza bisogno d' altro, dicesi sostanza . La prego di dare la sua attenzione a tutto ciò, e mi persuado, ch' Ella, cercatore della sola verità, rimarrà soddisfatta. Così pure io credo ch' Ella si persuaderà, che non ci sono nè idee nè cose essenzialmente contrarie fra loro; giacchè tutte le idee convengono nell' essere ideale, e tutte le cose partecipano dell' essere reale, e però in quanto sono, non sono contrarie. Finalmente bramerei ch' ella facesse uso dell' edizione milanese del « Nuovo Saggio , » parendomi dal passo ch' ella cita a faccia 124 7 125, ch' ella adoperi l' edizione romana. Veramente dee essere corso errore di citazione, e però non ho potuto riscontrare il passo citato; ma ritengo che nella edizione milanese sia stampato extrasoggettiva in vece di oggettiva , giacchè sensazione oggettiva , a dir vero, non è una frase propria. Non tardo a ubbidire al suo desiderio d' avere qualche dichiarazione intorno all' opinione da me professata in quel luogo del « Nuovo Saggio , » dove dico, che niuna cosa si predica di Dio univocamente, eccetto l' essere. E prima mi compiaccio che a Lei già non sia sfuggita la ragione di quella sentenza, che privilegia l' essere così fuori di tutti gli altri predicati; poichè, com' Ella dice, qui trattasi dell' essere comunissimo ammesso da tutte le scuole, il quale non sarebbe più comunissimo, se non si applicasse sì bene all' essere necessario, come al contingente. Il che apparisce vieppiù chiaro, se si considera che l' esistenza delle cose non si conosce in alcun altro modo, che con una sola idea, quella dell' esistenza; e quest' idea dell' esistenza è quella nè più nè meno, che chiamiamo anche idea dell' essere, come ci siamo già dichiarati. O sarà egli vero che l' esistenza di Dio non si conosca coll' idea di esistenza, colla quale conosciamo l' esistenza delle cose? Se non conoscessimo l' esistenza di Dio coll' idea d' esistenza, in qual altro modo la potremmo conoscere? O non è egli evidentemente assurdo il dire che senza l' idea di esistenza conosciamo l' esistenza di Dio? Se dunque è per lo contrario manifesto, che conosciamo l' esistenza di Dio coll' idea di esistenza, e coll' idea di esistenza conosciamo pure l' esistenza delle creature; non è egli vero che predichiamo l' esistenza dell' uno e dell' altre, mediante un' identica idea? Dove si noti, che l' idea di esistenza è semplicissima, non acchiudendo alcuno dei modi dell' essere, e però non può avere che un solo e semplicissimo significato la parola che la esprime: ond' è manifestamente assurdo ch' ella possa essere equivocamente predicata di checchessia. Ogni cosa qualsiasi o è o non è, senza mezzo. Rispondere che una cosa può essere in un modo e tal' altra in un altro è non aver intesa la questione; Chè non trattasi del modo dell' essere , ma dell' essere stesso separato da tutti i suoi modi e da tutti i suoi termini; di quell' essere che noi pronunciamo, affermando che una cosa è. Voi dunque siete scotista, mi si dirà - Il dir questo sarebbe un tirare conseguenze a precipizio. Le confesso che entro assai di mala voglia nelle questioni storiche, bramando che queste sieno tenute affatto in disparte dalle filosofiche. Io amo assai più di cercare la verità in filosofia e di studiarmi di attenermi ad essa, di quello che sia d' investigare se il tale o il tal altro autore, la tale o la tal' altra scuola la tiene con me, o contro di me. D' altra parte la quistione filosofica è semplice; e i passi che si fanno in essa, se pur si fanno, possono assicurarsi per via di giusto raziocinio. La questione storica è laboriosissima e può divenire interminabile, se si tratta d' interpretare autori, che hanno scritto un gran numero di volumi nelle diverse età di loro vita, e più ancora se si tratta di sapere che cosa tiene un' intera scuola composta d' un gran numero di scrittori che si esprimono diversamente, e che molte volte fra loro stessi dividonsi. Ed è per questo che io non amo chiamarmi piuttosto scotista che tomista o con altra tale denominazione che agli occhi miei non ha un preciso valore. Tuttavia confesso, che molte ragioni mi traggono talora in quistioni che appartengono alla storia delle opinioni e delle sentenze de' grandi filosofi o teologi. Ma quando sono a ciò fare o condotto o sedotto, allora io procuro d' interpretare la mente de' grandi uomini, che sembrano battagliare fra loro, in modo da conciliarli insieme quant' è mai possibile, standomi soprattutto ferma questa persuasione nell' animo, che difficilmente i sani e sommi intelletti vanno discordi fra loro, in ciò che sicuramente affermano, più che nell' apparenza. E parmi che i tentativi da me fatti in ciò sieno riusciti così, che mi confermarono in quel mio sentire. Adunque io credo che nella questione presente « se l' essere ideale si predichi di Dio e delle creature in un modo univoco od equivoco »ci abbia tra la scuola degli scotisti e de' tomisti una facile concilazione. Io gliela proporrò ed ella ne giudichi. Primieramente è da considerare, che il predicare l' essere di Dio e delle creature è operazione della mente umana, la quale distingue il predicato dal soggetto e quindi gli accoppia insieme. Questo modo di fare viene dalla limitazione della ragione umana: chè certa cosa è, che in Dio non c' è alcuna reale distinzione tra ciò che esprime il nostro predicato e ciò che esprime il nostro soggetto. La questione dunque è tutta racchiusa nella sfera del predicare e del concepire umano. Onde se ne avessimo la soluzione affermativa, cioè se risultasse che l' uomo predica di Dio e della creatura l' essere unicamente, non ne verrebbe mica da questo che l' essere in Dio e nella creatura fosse il medesimo, ma ne verrebbe solo la conseguenza, che l' uomo per la sua limitazione predicherebbe dell' uno e dell' altro il medesimo essere, o per dir meglio, l' essere in un medesimo senso, quantunque lo stesso uomo poi sapesse che una tale predicazione è difettosa, e che la mente umana l' adopera per non averne altra. La questione dunque si riduce tutta a sapere, se quando l' uomo dice: « Esiste Iddio », e quando dice: « Esiste il mondo », egli, l' uomo, intenda di esprimere colla parola esiste la stessa cosa o una cosa diversa. Se dunque egli è certo, come dicevamo, che l' idea di esistenza non determina punto i modi della esistenza stessa, ma è l' esistenza precisa da tutti i suoi modi; è manifesto altresì, che l' uomo in quelle due proposizioni intende di predicare di Dio e delle creature l' istessa cosa, cioè la pura e nuda esistenza. Ora la differenza fra l' essere di Dio e quello delle creature riguarda il modo di essere e non l' essere puramente preso nella sua astratta universalità. L' uomo dunque, legato com' è ad un modo di concepire suo proprio, predica questo essere puro di Dio e delle creature univocamente, appunto perchè, quando dice che Iddio esiste, lascia affatto da parte la questione del modo di sua esistenza. Si opporrà che l' uomo, facendo così, erra, perchè attribuisce a Dio un' esistenza astratta, quando in Dio non c' è distinzione alcuna tra l' essere e la natura. Ma quantunque sia vero, che in Dio non ci sia distinzione alcuna fra l' essere e la natura; tuttavia non è mica vero che l' uomo erri, quando predica di Dio l' esistenza, perchè in tal caso sarebbe falsa la proposizione: « Iddio esiste », o vero « Iddio è », la quale è manifestamente vera. E che l' uomo non erri formando questa proposizione, si vede da questo. Acciocchè l' uomo errasse, egli dovrebbe negare il vero. Ma l' uomo pronunziando che « Iddio è »ovvero « esiste », non nega mica il vero, cioè non nega con questa sua proposizione, che l' essere di Dio sia identico colla sua natura, ma altro non fa, che lasciare al tutto da parte la questione di questa identità, restringendo la sua attenzione all' esistenza senza più. E` dunque quello dell' uomo un modo limitato e imperfetto di concepire le cose divine, ma non erroneo. Poichè se l' uomo stesso, dopo aver detto che « Iddio è », s' inoltra colle sue ricerche e va investigando la maniera nella quale Iddio è, arriva ben presto a trovare quest' altra proposizione: « l' essere di Dio è la stessa sua natura »; e questa proposizione non è punto contraddittoria colla prima; che anzi ne è il compimento ed il perfezionamento: il che dimostra che anche la prima è vera, benchè sia insufficiente ad esprimere la dottrina intorno all' essere divino. Ora Ella ben si accorge, che tutta questa è dottrina bellissima di S. Tommaso, e che perciò è al tutto secondo la mente dell' angelico dottore il dire, che si predica univocamente l' essere di Dio e delle creature, quando per essere s' intenda l' essere comunissimo ossia la pura esistenza, come noi intendiamo. Ella vede che la verità della proposizione « Iddio è »o « Iddio esiste », è da desumersi dal puro fatto del significato che l' uomo aggiunge alla parola è , secondo il principio dello stesso Acquinate che « ad veritatem locutionum non solum oportet considerare res significatas, sed etiam modum significandi (S. I, XXXIX, v.) » Ella vede dunque che la conciliazione fra S. Tommaso e Scoto su questo punto non è difficile. Cerchiamo di metterla ancora più in chiaro. S. Tommaso dà due significati alla parola ente: egli dice che con questa parola talora s' intende l' essenza delle cose , e in tal caso si parte ne' dieci predicamenti d' Aristotele; e talora significa un concetto formato dall' anima stessa (S. I, III, IV, ad 2, XLVIII, II ad 2, in I Sent. D. XIX, q. V a I, ad 1 e in molti altri luoghi). Dice ancora, che l' ente, preso nel primo significato, appartiene alla questione che ricerca; quid est? Ma l' ente preso nel secondo significato appartiene alla questione che ricerca; an est? (in II Sent. D. XXXIV, I, in III D. VI, q. II a II). Dunque l' essere si può predicare di Dio nel primo significato, in quanto l' essere esprime il quid est di Dio, come nella proposizione; Deus est ens; e in questo significato l' essere si predica di Dio e delle creature equivocamente, o, se vuolsi, soltanto analogicamente, onde traducendo la proposizione in italiano riuscirebbe a questa forma: « Iddio è l' ente ». Il che non potrebbe mai dirsi della creatura, della quale potrebbesi dire solamente: « la creatura è un ente ». Ma l' essere si può predicare di Dio anche nel secondo significato, in quanto l' essere esprime; an est , come nella proposizione: Deus est; e in questo significato che esprime un concetto della mente, una maniera umana ma vera di concepire, l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente. E che questa sia la vera dottrina dell' Angelico, Ella potrà rilevarlo altresì dal considerare semplicemente, che l' acutissimo nostro Dottore sostiene, che l' uomo possa benissimo conoscere; an Deus sit , ma che non possa mica conoscere positivamente; quid Deus sit , ovvero quomodo sit . Il che dimostra, che quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di pura esistenza, che è concetto e lume della mente, allora l' uomo conosce benissimo il predicato che egli dà a Dio: laddove quando si predica di Dio l' essere preso nel significato di essenza, l' uomo non sa positivamente, ma solo negativamente ciò che predica di Dio. E perchè questa differenza? Certo perchè quando diciamo semplicemente che Iddio è od esiste , predichiamo di Dio l' essere che non supera l' ordine della natura, nè eccede il lume della ragione; e però è quell' essere che si pronuncia egualmente di Dio e delle cose naturali; laddove quando, predicando di Dio l' essere intendiamo di affermare la sua essenza, e non meramente la sua esistenza, allora parliamo dell' essere proprio di lui, e non comune alle creature; perciò non predicabile di queste nel senso stesso. Ella vede dunque che quando gli Scotisti sostengono che l' essere si predica di Dio e delle creature univocamente, essi hanno ragione, e sono d' accordo con S. Tommaso, purchè intendano dell' essere nel significato di pura esistenza, come l' intendiamo noi. Ed è perciò che nel « Nuovo Saggio , » quando professai questa sentenza, mi sono dato cura di esprimere, che intendevo dell' essere puro senza i suoi termini, acciocchè non nascesse equivoco, o io sembrassi in ciò contraddire all' Angelico Dottore. E certo sarebbe errore gravissimo il dire, che l' essere, in quanto esprime essenza, e non semplice e pura esistenza, si predicasse univocamente di Dio e delle creature; perciocchè in tal modo l' essenza di Dio e l' essenza delle creature sarebbe la stessa, il che è quanto dire, noi cadremmo nel mostruosissimo panteismo. Affine di combattere questo errore, che corrode le moderne filosofie, io scrissi il « Nuovo Saggio »; dove, prendendo il male dalla radice, dimostrai, che il mezzo, col quale l' uomo conosce tutte le cose, è l' essere purissimo e comunissimo, il quale forma il lume della ragione umana. Quest' essere purissimo e comunissimo è appunto l' ente preso nel secondo dei due significati di S. Tommaso, esprimente, come S. Tommaso dice, un concetto della mente. Con quest' idea o concetto l' uomo afferma la semplice esistenza, e non ancora l' essenza propria delle cose. Ora poniamo che invece di stabilire questo vero datomi anche dall' esperienza interna, io avessi stabilito, che il mezzo, con cui l' uomo conosce ed afferma le cose, fosse Iddio stesso, cioè l' essere inteso nel primo significato di S. Tommaso, che esprime la natura divina: in tal caso il panteismo sarebbe stato inevitabile, poichè ogniqualvolta l' uomo avesse predicato delle cose contingenti l' essere, egli avrebbe dato la natura divina alle cose; avrebbe affermato tutte le cose esser Dio, appunto perchè avrebbe predicato univocamente di Dio e delle cose l' essere preso nel primo significato di S. Tommaso. Il che se avesse considerato attentamente il signor Abate Gioberti, non avrebbe sostituito l' intuito di Dio all' intuito dell' essere ideale ed universale, aprendo così la porta amplissima al panteismo, con tutta la buona volontà di combatterlo. Non è facile il dire con brevi parole, in che differisca la filosofia da me proposta da quella del signor Cousin. Tuttavia, lasciando quanto n' ho già detto, e che voi avrete probabilmente letto (1), noterò alcune delle principali differenze, in che le due filosofie grandemente si dispaiono. E, per avere un confine al mio dire, io mi propongo di non uscire dal libro poco fa pubblicato dal Garnier, che contiene il Corso delle Lezioni date dal signor Cousin nel 1.1., e che fu pubblicato coll' approvazione dello stesso chiarissimo professore (2). In questo libro ci sono de' brani, dove il signor Cousin compendia se stesso; i quali, raccogliendo in breve e fedelmente la sua dottrina, potranno servire di solido fondamento alle nostre osservazioni. E appunto in uno di tali sunti, che il professore fa del proprio sistema, io mi scontro alla Lezione VI; e da esso incomincerò; udiamone, senza perder tempo, le prime parole. « Noi siamo partiti dai presenti dati della coscienza umana, e colle indicazioni forniteci da tali dati, noi ci siam provati a raccapezzare l' origine di que' dati, cioè a dire lo stato primitivo dell' intelligenza. » Questo è il vero, anzi l' unico metodo di filosofare sullo spirito umano: egli è quello, a cui io mi sono sempre attenuto, e dove vi ha unanimità nelle due filosofie. La differenza fra noi non principia se non quando si viene ad applicare il metodo; e i risultamenti che se n' hanno, non poco diversano fra di loro. « Noi abbiamo fermato, continua il professore, che il primo fatto della coscienza si compone di due elementi variabili, e d' un terzo reale come gli altri due, ma invariabile, cioè a dire del ME, della natura esteriore (1), e dell' essere universale e assoluto. Noi abbiamo detto, che la filosofia si pone al punto di veduta riflesso, e comincia per conseguente dalla riflessione; ma che la vita intellettuale dell' umanità è tratta in moto dalla spontaneità, e che la spontaneità e la riflessione non contengono nè più nè meno elementi l' una che l' altra. » Ora noi siamo d' accordo in ammettere che la filosofia comincia dalla riflessione, e che alla riflessione precede una vita intellettiva spontanea. Ma già cominciamo a differire circa la natura della spontaneità , e circa il numero e la qualità degli elementi onde si vuol composto il suo oggetto. A sporre con chiarezza queste differenze è uopo che noi riprendiamo quel primo fatto della coscienza, onde il professore muove il suo ragionare. Che cosa è dunque la coscienza pel professor Cousin? Udiamo lui stesso a definircela: [...OMISSIS...] Secondo il professore dunque non si può dare alcun atto intellettivo, senza che esso abbia la coscienza di sè. La mia opinione si allontana grandemente da questa dottrina: io convengo con lui in affermare che la coscienza non è una facoltà speciale, e che ogni coscienza è un prodotto dell' attività intellettiva; ma io nego al tutto, che ciascun atto dell' intelletto involga una veduta inevitabile di se stesso, e però la coscienza di se stesso. Io dico, che la coscienza si produce in noi a due condizioni; cioè 1 a condizione che noi abbiamo un sentimento (chè per me il sentimento è sempre diverso dalla coscienza), 2 a condizione che noi facciamo un atto intellettivo, il quale abbia per oggetto quel sentimento. Se io ho un dolore, e se io penso a questo dolore, tostochè io ci penso, ho coscienza del dolore; ma se io non ci pensassi punto nè poco, avrei bensì il sentimento, non ancora la coscienza del dolore. Ma poichè è sommamente naturale nell' uomo, massime già sviluppato, che il dolore attragga subitamente a sè il pensiero, perciò si confonde assai facilmente il sentimento del dolore colla coscienza del dolore, e si crede che una cosa sia l' altra. Ne' bruti all' incontro, ne' quali non si dà pensiero , ma solo senso , può concedersi il sentimento doloroso, ma in nessuna maniera la coscienza del dolore. Quello che dissi del dolore, dicasi di ogni altra operazione umana. Qualsivoglia operazione umana, o appartenga ella all' ordine sensitivo, o a quello dell' intelligenza, involge un sentimento nell' umano soggetto che la fa; poichè l' uomo è un soggetto essenzialmente sensitivo, e ogni modificazione di un tal soggetto è sensibile. Perciò anche tutti gli atti dell' intelligenza involgono un sentimento, sebbene talora tenuissimo e non avvertibile di leggieri; ma non avviene per questo, che involgano la coscienza di se stessi. La coscienza di un atto nostro intellettivo non è dunque contemporanea all' atto stesso, ma posteriore ad esso: s' acquista, e s' acquista non col medesimo atto intellettivo che è l' oggetto della coscienza, ma con un altro atto pure intellettivo, che si volge sopra il primo. Quando io penso a' miei pensieri, allora io acquisto la coscienza de' miei pensieri; ma io posso avere de' pensieri in me, senza che io punto nè poco ci rifletta, e però senza che io m' abbia di essi coscienza. Egli parrà bene strano a noi questo fatto; ci ha la sua ragione, perchè a noi paia strano. Per altro la natura, per misteriosa che sia, è fatta così, e bisogna pigliarla come è fatta. Egli è vero che molte volte a me torna facilissimo il riflettere a' miei pensieri, e che, riflettendovi, io n' acquisto immantinente coscienza. Acciocchè io faccia ciò, basta la più lieve cagione che mi richiami sopra me stesso. Ma appunto per ciò, che questa coscienza de' proprŒ pensieri s' acquista in un istante impercettibile, s' acquista quando si voglia, purchè si voglia; appunto perciò avviene che si trascuri la distinzione fra un atto dell' intelligenza e la coscienza del medesimo atto, che tien dietro a lui così celere e a lui legasi così stretta, e che vengasi a credere falsamente, che ogni atto dell' intelligenza per sua propria natura conosca se stesso. All' incontro io ho stabilito in molti luoghi delle mie opere la proposizione direttamente contraria, cioè che « ogni atto dell' intelligenza mi fa conoscere il suo oggetto, ma è incognito a se medesimo. » Dissi, che molte volte è facile ed istantaneo l' acquistare la coscienza de' nostri pensieri e de' nostri sentimenti; ma qui devo limitare anche più questa mia affermazione. E certo, molte e molte volte sono in noi de' pensieri, sono de' sentimenti, e fin anco delle sensazioni corporee, di cui ci è difficilissimo aver coscienza. La prova di ciò si è quella sentenza, « Conosci te stesso »; che fu riputato da tutta l' antichità il più importante e il più difficile precetto della morale filosofia. Se la coscienza di tutto ciò che passa in noi, fosse sempre facile ad acquistarsi, se ogni nostro pensamento racchiudesse la coscienza di se stesso, niuno avrebbe bisogno di studiare gran fatto per discoprire a se stesso le proprie propensioni e tutto ciò che passa nella sua mente: non direbbesi che il cuore umano racchiude dei profondi secreti, che l' uomo è un mistero a se stesso: la filosofia, almeno in quella parte che riguarda l' uomo, non sarebbe più una scienza; nè potrebbe cader mai discrepanza nelle opinioni risguardanti le origini de' nostri pensieri e quelle delle nostre affezioni, la qual discrepanza pure è tanta. Ma il fatto si è, che, per aver coscienza di ciò che passa nell' intendimento nostro e nel nostro cuore, c' è bisogno assai sovente di una lunga riflessione, e non ne veniamo tuttavia a capo perfettamente. Pure quelli che acquistarono l' abito di dirigere la propria riflessione sopra di sè, quelli che più costantemente s' applicano all' esame del loro interno, trovano meglio degli altri, e ogni dì s' accorgono di qualche nuovo fenomeno, di qualche nuovo pensiero, di qualche nuova legge del proprio sentire e del proprio pensare, di cui prima non avean preso sentore. Ora, se fa bisogno tanta attenzione e tanta riflessione sopra di noi, a renderci consapevoli di quanto ci passa nella mente e nel cuore, non è dunque vero, che la ragione per la quale la coscienza nostra è spesso vaga e indeterminata, sia, perchè, come vuole il signor Cousin, l' attività stessa intellettuale è indeterminata e vaga; e che ogni qualvolta l' azione dell' intelligenza è chiara e precisa, n' è pure precisa e chiara la coscienza. Questo è un errore, che viene dal precedente. L' uomo, cominciando a ragionare, muove dallo stato in cui si trova. Egli comincia a riflettere sopra di sè. E queste prime riflessioni gli danno una coscienza ancora indeterminata e vaga dei proprŒ pensieri. Da questo egli tosto conchiude, che i suoi pensieri sono vaghi e indeterminati. Ma questa conclusione è sbagliata. Egli prende la coscienza de' suoi pensieri pe' pensieri stessi: egli prende la coscienza dello stato della sua intelligenza, per lo stato medesimo dell' intelligenza. E un tale sbaglio gli è ben naturale; chè l' uomo non conosce i proprŒ pensieri, se non per la coscienza de' medesimi, ottenuta mediante riflessione. Egli parla dunque de' pensieri, solamente in quanto gli sono noti mediante la coscienza ch' egli ne ha. Ora se la riflessione è imperfetta, la coscienza di que' pensieri rimansi imperfetta, vaga, indeterminata; conchiude dunque, che i suoi pensieri realmente sono vaghi e indeterminati. Ma porti quest' uomo più oltre le sue riflessioni: continui a meditare sopra i proprŒ pensieri: egli ci vede quello che prima non ci vedea: ci trova un ordine: ci trova delle leggi: vede che gli uni nascono dagli altri, alcuni esser derivati, altri primitivi: segna le differenze fra loro, le differenze degli oggetti stessi de' pensieri. Tutti questi studŒ sopra qual libro li fece egli un tal uomo? Sopra se stesso, sopra la pagina scritta, per così dire, della propria mente. Se ci ha osservate tante cose, se ci ha trovato un ordine così distinto, così preciso, così luminoso, potea trovarcelo egli, se non ci fosse stato? Dunque c' era già ne' suoi pensieri primitivi tutto ciò che ci ha poscia trovato colla riflessione; c' era certamente; ma tutto ciò era privo di coscienza, appunto perchè non era sopravvenuta la riflessione a formare la coscienza. E bene, quest' uomo, dopo aver tanto riflettuto sopra se stesso, dopo essere stato sì a lungo spettatore di ciò che passa nell' anima sua, che cosa dice? che conchiude? Ora sì, dice egli a se medesimo, io ho chiariti i miei pensieri: la mia intelligenza si è resa determinata e precisa; ed è perciò, che anche la mia coscienza di essa è piena di lume e di precisione. Quest' ultima conclusione ch' egli ne tira, è lo stesso sbaglio ch' egli commise quando giudicò i suoi pensieri oscuri, perchè oscura ne avea la coscienza. La coscienza non si è resa chiara perchè i suoi pensieri si sieno chiariti e distinti: i pensieri anteriori alla coscienza erano già distinti e chiari altrettanto quanto dopo la formazione di essa; ma la loro distinzione, la loro chiarezza non era passata ancora nella coscienza, e però non era avvertita dall' uomo, il quale, non avvertendola, la negava. Dunque, se quest' uomo voglia considerare che tutta quella chiarezza e quella luce, che dice d' aver guadagnato, non è che l' effetto dell' attenzione e della riflession sua posta sui primi suoi pensieri, egli si accorgerà facilmente, che la luce era precedente alla sua coscienza, sebbene egli non se ne potea accorgere prima che la coscienza stessa se ne fosse formata. Così colui che volge gli occhi alla chiarezza del sole, non giudica temerariamente, se dice che il sole esisteva prima che fosse da lui riguardato: e a chi gli dimandasse: « Come potete sapere che il sole sia prima di quell' istante nel quale voi lo vedeste, quando prima di quell' istante voi non l' avete veduto? »: può rispondere ragionevolmente: « Io so che il sole è precedente all' atto con cui io lo vidi, non perchè io prima il vedessi, ma per la natura di quest' atto stesso, che suppone precedente il sole, giacchè non si può vedere ciò che non è ». Concludiamo circa la dottrina intorno alla coscienza: le differenze fra il signor Cousin e me sono due: 1 Egli suppone, ciò che non prova, che l' attività intellettuale involga seco inevitabilmente la coscienza; quando io dico che l' attività intellettuale, come ogni altra attività umana, involge bensì un sentimento , ma non la coscienza . 2 Egli dice che i gradi d' indeterminato e di vago che ha la coscienza de' nostri pensieri, dipendono unicamente dall' indeterminato e dal vago che hanno i nostri pensieri; là dove io dico, che la chiarezza e la determinazione di quelli e di questa dipendono da cagioni al tutto diverse; dico che i pensieri anteriori alla coscienza possono essere chiari e distintissimi, e questa tuttavia esser vaga, indistinta e fin anche nulla; e che la chiarezza e la distinzione della coscienza si vanno aumentando mediante l' opera della riflessione, quando i pensieri primitivi non dipendono dalla riflessione, ma dalla intelligenza spontanea, o diretta. Il signor Cousin sembra venire con noi, là dove definisce la coscienza così « « La vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, costituisce ciò che si chiama coscienza »(1) » Questo è appunto ciò che diciamo noi: da cui ne induciamo la conseguenza, che dunque la coscienza non c' è, prima che la vita intellettuale, raddoppiandosi sopra se stessa, la costituisca. Ma con una contraddizione egli ne deduce in quella vece tutto l' opposto, continuandosi a dire così: « « Come questa vita è doppia, si può dire che ci abbiano due coscienze, la coscienza spontanea e la coscienza volontaria e riflessa »(2). » Ora noi con sua buona pace replichiamo, che se ciò che costituisce la coscienza è il raddoppiamento della vita intellettuale sopra di sè, com' egli stesso afferma; a costituire due coscienze sarebbe bisogno non già solo una doppia vita, ma un doppio raddoppiamento della vita, e perciò una quadruplice vita. Ma io voglio spingere più avanti questa osservazione; voglio mostrare, come questo primo errore intorno la coscienza ne conduca dietro a sè necessariamente degli altri: e tanta è la forza dell' errore, tanta è la violenza che esercita negl' ingegni più conseguenti, che li trascina ove vuole, che li caccia anche là dov' essi meno bramerebbero di pervenire. Quale spettacolo più strano, che il vedere il signor Cousin ritornato Condillachiano? So bene, che al solo annunziare una cosa simigliante, ciascuno esclama al paradosso; ma per dirlo di nuovo, a quali passi un error solo non sa condurre la mente d' un filosofo? Consideriamo bene l' errore del signor Cousin da noi accennato; consiste nel confondere due elementi in uno solo, cioè il sentimento colla coscienza . Il signor Cousin vide che ogni atto intellettivo involge un sentimento; dunque, conchiuse, non si dà un atto intellettivo senza la coscienza di sè; dunque ci sarà una coscienza spontanea e una coscienza riflessa, come ci sono degli atti intellettivi spontanei e degli atti intellettivi riflessi: questo è l' error primo. Ma se il sentimento si confonde colla coscienza , la conseguenza è irrepugnabile: dappertutto dove c' è sentimento, ci sarà coscienza. Dunque anche nella sensazione animale ci sarà coscienza. Ma la coscienza appartiene alla vita intellettiva, anzi è un raddoppiamento della vita intellettiva; dunque anche nella sensazione animale ci sarà vita intellettiva, ci sarà un raddoppiamento di vita intellettiva. Non siamo noi arrivati sul territorio di Condillac? Che cosa è il Condillachismo nel suo fondo, se non il sistema che confonde il sentire coll' intendere ? o che se non li confonde, non li distingue essenzialmente? Che cos' è, se non il sistema che dà allo stesso senso corporeo il potere di giudicare? Abbiamo dunque detto una cosa troppo lontana dal vero, quando abbiamo paragonato Cousin a Condillac? Il professore di Parigi non si fa indietro da tutte le accennate conseguenze, anzi le confessa, le riceve espressamente: udiamo le sue proprie parole: « « La sensazione è ella l' impressione organica? Non contiene ella un elemento intellettivo? »(1). » Ecco fatto entrare nella stessa essenza del sentire un principio, che appartiene all' intelletto: proseguiamo: « « Se non ci fosse stato movimento organico, senza dubbio non ci avrebbe nè piacere nè dolore; ma se il ME non pigliasse cognizione di questo movimento, il piacere e il dolore non esisterebbe »(2). » Ecco come il professor di Parigi, non diversamente dal Condillac, insegna, che non si dà nè piacere nè dolore senza cognizione. Di che viene il conseguente, che anche alle bestie è uopo dare intelletto, quando non voglia adunarsi co' Cartesiani, facendole macchine. Continua ancora: « « Egli è dunque mestieri che il fenomeno passivo dell' irritazione organica faccia giocare l' attività del ME, in altre parole svegli la coscienza , acciocchè si produca la sensazione »(1). » Ecco come coscienza e sensazione o è il medesimo, o almeno sono indivisamente associate, di guisa che la sensazione non si può produrre senza la coscienza, a malgrado che il professore abbia dichiarato, che la coscienza appartiene alla vita intellettiva. Di più ancora (s' oda bene, non è il Condillac che parla, ma il Cousin): « « Conoscere è giudicare; e come sentire è conoscere che si sente, così sentire può dirsi che sia giudicare »(2). » E se vogliasi udire il Cousin divenuto più condillachiano di Condillac medesimo, continuiamo tuttavia: « « Il giudizio è l' elemento intellettuale della sensazione; e non è un giudizio solo, ma molti che figurano nel fenomeno sensibile; io potrei mostrare che non ci ha sensazione senza un giudizio sul tempo, sulla sostanza, sullo spazio, sulla causa, ecc. »(3). » La confusione, cioè l' assorbimento de' due elementi è completo; tutto ciò che si trova nell' intelletto di più sublime, avvi già precedentemente, secondo il professore, nel fenomeno della sensazione. Il Condillac non è mai stato tanto sensista: poichè sebbene attribuisca tutto alla sensazione, tuttavia non seppe riconoscere così espressamente nella sensazione le più nobili parti della intelligenza: il Cousin fece una più piena indagine di questa sublime facoltà, innalzonne i pregi fino alle stelle, ma tutto ciò per farne poi un omaggio, un sacrifizio al fenomeno della sensazione corporea! Dopo di ciò, non ci sarà più difficile a formarci il concetto di quella facoltà che il signor Cousin appella spontaneità . Essa non può esser per lui, se non quell' attività del ME, che viene tratta in movimento dall' irritazione organica, e che così produce la sensazione , quella sensazione che si confonde colla coscienza, e che chiude nel suo seno i giudizŒ intorno al tempo, alla sostanza, allo spazio, alla causa e a tutte l' altre categorie. Sicchè dopo aver parlato della sensazione, dopo aver detto che sentire è giudicare di tutte queste cose, conchiude: [...OMISSIS...] Che cosa dunque è a dirsi? Che tutta la differenza fra quelli che si chiamavano sensisti ed il signor Cousin consisterà in questo, che per quelli la sensazione è un fatto passivo , quando per il signor Cousin è un fatto attivo (2). Se abbiano ragione i primi o il secondo in questa questione, o se forse agli uni e all' altro manchi qualche cosa, io non vo' qui ricercare; ben dico, che i così detti sensisti, sotto le antiche forme, ed il signor Cousin convengono finalmente in questo, di riconoscere la sensazione corporea come il principio di tutta l' umana cognizione e di tutta l' umana intelligenza. Che se questa parola, sensista , segna un filosofo che riduce tutta l' umana conoscenza alla sensazione, non so come questo stesso nome non appartenga al signor Cousin; chè egli non ha già tolto via a questa maniera il principio del sensismo, ma solo modificatolo, vestitolo di nuove forme più ricche e maestose; non ha stabilito un principio del conoscere diverso da quello del sentire; ma riducendo ogni cosa al principio del sentire, s' è contentato di osservare, che il sentire procede dall' attività del ME, e che non è un fenomeno meramente passivo. Coscienza adunque e sensazione, sensazione e intelligenza si confondono nel sistema del signor Cousin, e la spontaneità per lui non è che il principio della sensazione, e perciò della cognizione, principio attivo, che somministra tutti i dati sopra i quali poi si rivolge e lavora la riflessione. Ma qui, dopo che noi abbiamo raffrontato il signor Cousin al Condillac, possiamo medesimamente avvicinarlo al Cartesio. Il Condillac comincia dal sentire , e il Cousin pure comincia dal sentire. Il Cartesio all' incontro comincia dal pensare: « « Io penso; dunque esisto. » » Ma il Cousin non ricusa; si accompagna tosto con Renato Cartesio: e gli è tanto più facile, quanto che se n' è già preparata la strada, dicendo, che nel sentire c' è il pensare , che chi sente giudica, e giudica del tempo, della sostanza, dello spazio, della causa, ec.. Il Cartesio non dimanda pur tanto; ma a fine di non perdere una sì buona compagnia com' è quella del Cartesio, il signor Cousin riterrà anche un poco i suoi passi, e si comporrà con lui. Udiamolo: [...OMISSIS...] Riceve dunque il signor Cousin per buono il principio di partenza cartesiano, cioè il giudizio , senza aver bisogno per questo di rinunziare al principio di partenza de' sensisti, ciò è la sensazione: poichè nel seno della sensazione egli colloca il giudizio, imitando il Condillac. Solamente che a questo giudizio sensitivo trova di dovere attribuire assai più che non facesse il Condillac medesimo, cominciando il movimento dello spirito umano pel Cousin da un giudizio assai più complicato che non fosse quello del Cartesio. L' editore delle sue lezioni, Garnier, così espone il pensiero di lui: « « Il professore mostra che le idee ci vengono simultaneamente e in correlazione le une colle altre, e che così il giudizio trovasi al cominciamento delle operazioni intellettive »(2). » Questo sistema de' correlativi è quello che in Germania si chiama sintetismo; e il professor Cousin cel fa diventare uno sviluppo del principio del Condillac. Dopo di tutto ciò, voi stesso direte quanto da queste sentenze del signor Cousin si allontani la mia maniera di pensare. Io non riconosco nella sensazione corporea alcun elemento intellettivo; e l' anello che unisce i due ordini della sensazione e della intelligenza per me non è che il soggetto unico, e ad un tempo sensitivo ed intellettivo. L' unità del soggetto , cioè l' unità del ME, è il ponte di comunicazione, se volete che così mi esprima, fra il mondo dell' intelligenza e quello de' sensi. Ma sentire ed intendere rimangono sempre nella mia filosofia due essenze separate, com' è separato l' essere reale e l' essere ideale , quantunque la realità e l' idealità siano forme fra loro incomunicabili d' un medesimo essere. Quanto poi alla spontaneità , questa parola per me non esprime una facoltà, ma un modo di operare delle facoltà. Questo modo spontaneo può appartenere tanto alle facoltà sensitive, quanto alle facoltà intellettive, ed è il contrario del violento. Quando noi operiamo senza un motivo preconcepito e predeterminato, diciamo di operare spontaneamente: la nostra natura è quella che opera; l' attività di questa natura o è attuata da una legge intrinseca costitutiva di lei, come avviene in quello che noi sogliamo chiamare sentimento fondamentale e nell' intuizione primitiva dell' essere ; ovvero è invitata all' atto da qualche esteriore cagione, come avviene nelle sensazioni acquisite, e ne' primi pensieri che costituiscono quella che noi chiamiamo cognizione diretta . Nell' uno e nell' altro caso c' è la spontaneità , cioè l' operare spontaneo della natura umana. Distinguiamo dunque due spontaneità; l' una originaria , e costituisce l' atto immanente del soggetto sensitivo e intellettivo, col qual atto questo soggetto è posto; l' altra avventizia , e sempre parziale, che muove i primi passi dell' umano sviluppamento. Di più, tanto la spontaneità originaria, quanto l' avventizia, è sensitiva e intellettiva; chè così il senso, come l' intendimento, hanno spesso un movimento spontaneo, date le condizioni richieste. Pel professore Cousin all' incontro, non c' è che una spontaneità sola, sensitiva per essenza e insieme necessariamente intellettiva, e questa spontaneità non ha alcun atto originario e immanente, ma opera all' occasione dell' irritazione organica, non senza somiglianza all' operare della statua del Condillac. Era necessario di premettersi tutto questo, a spiegare chiaramente che cosa voglia dire il signor Cousin, quando nomina il primo fatto della coscienza . Noi dobbiamo ora parlar di proposito di questo primo fatto della coscienza: dobbiamo vedere come egli lo trova, questo primo fatto, come lo analizza, e se giustifica bene tutte le cose che afferma contenersi in esso. Già l' ho detto: egli arriva al primo fatto della coscienza spontanea, partendo dal punto di vista riflesso. Ma come dalla riflessione discende egli al fatto della coscienza spontanea? Come giustifica questo passaggio? Lo giustifica appoggiandosi al seguente ragionamento: Avanti la riflessione « « c' è la vita umana, la vita non distinta, oscura, spontanea. La riflessione presuppone l' esistenza d' un oggetto sul quale ella cade, e che per conseguente è anteriore. - Così lo stato primitivo dell' intelligenza non contiene niente di più dello stato attuale, ma nè anche contiene niente di meno »(1). » Ed è verissimo, che la riflessione non potrebbe operare se non avesse un oggetto sul quale rivolgersi, e che quest' oggetto dee essere in noi precedente a quell' atto della riflessione; ma ne viene forse, che la riflessione possa cogliere tutto ciò che c' è in noi di precedente ad essa? non possono rimanere in noi delle cose che spesso sfuggono alla nostra riflessione? Se ciò può essere (ed ognuno può attestarlo, per poco che consideri come avvengano le cose in se medesimo), non è dunque vero che nell' ordine della riflessione debba trovarsi tutto ciò che c' è nello stato primitivo, e niente di meno. In secondo luogo, quando io rifletto sopra di me medesimo, cioè sopra i miei pensieri e sopra le mie affezioni, non è mica necessario che gli oggetti, a cui volgo la riflessione, si trovino tutti nello stato primitivo della mia mente; poichè questi oggetti, a cui io rifletto, possono essere essi stessi prodotti da altre riflessioni. Non conviene dunque parlare d' uno stato di riflessione solo; chè ci hanno diversi stati riflessi della nostra mente, come ci hanno diversi ordini di riflessioni. Egli è dunque solamente vero questo, che nel primo ordine di riflessione, prossimo all' ordine della cognizione diretta e spontanea, non ci può esser niente di nuovo, che precedentemente non si trovi in essa cognizione primitiva o diretta; senza però che si possa dire il medesimo degli altri ordini superiori di riflessione; posciachè gli oggetti di queste riflessioni ulteriori sono in gran parte anch' essi delle cognizioni già riflesse. Questa avvertenza dimostra che per conoscere ciò che appartenga allo stato primitivo, non si può partire dal principio, che tutto ciò che abbiamo nello stato presente della mente nostra sia contenuto nello stato primitivo; perchè lo stato nostro presente è il prodotto d' un gran numero di riflessioni. In terzo luogo, a qual condizione si può egli passare dallo stato presente di riflessione allo stato primitivo? Il signor Cousin dice, che noi possiamo passarvi, a condizione di far uso delle induzioni logiche le più legittime. [...OMISSIS...] Ma qui il professore si avvolge manifestamente in un circolo. Poichè a qual fine cerca egli il fatto spontaneo? Al fine di cominciare da esso la filosofia: e però al fine d' indurre da esso anche le regole logiche. L' abbiamo già innanzi udito accordare a Cartesio, che il principio di contraddizione, il primo di tutti i principŒ logici, è posteriore alla percezione dell' IO; e che: l' IO penso, dunque esisto, non suppone prima la proposizione generale: Tutto ciò che pensa, esiste ». Ora come dunque per trovare e raggiungere il fatto spontaneo, ricorre poi alle regole logiche e ne fa uso come fossero già trovate? Da una parte, egli fa partire la filosofia dal fatto spontaneo, perchè, dice, « « non si tratta più oggidì di porre degli assiomi e delle formole logiche, di cui non si verificò ancora la legittimità e di produrre, componendole insieme, una filosofia nominale; bisogna partire dalle realità stesse »(1) » dall' altra parte, per arrivare alle realità, egli non ha più scrupolo di passare per le regole logiche. Egli è bensì vero, che il signor Cousin immediatamente parte dalla realità del pensiero riflesso; ma ciò fa unicamente per arrivare col mezzo di logiche induzioni alla realità del pensiero spontaneo: ed è in questa realità del pensiero spontaneo, che pone il fondamento delle regole logiche e la legittimità delle logiche induzioni! Non è questo un circolo manifesto? All' incontro, voi potrete, esaminando il sistema da me proposto, convincervi, ch' esso non involge mai somiglianti petizioni di principŒ, da cui non so veramente qual altro sistema vada interamente esente. Finalmente, è vero che il signor Cousin nomina spesso fatto spontaneo, stato primitivo, ecc.; ma egli poi non si cura di darcene una descrizione diligente e determinata. Quindi riman difficile il conoscere che cosa intenda precisamente colla espressione di stato primitivo. Se si considera che stato primitivo è per lui lo stato della spontaneità, e che la sua spontaneità è l' opposto della riflessione, conchiuderebbesi che il suo stato primitivo fosse quello in cui la mente umana si trova prima di ogni riflessione. Ma primieramente lo stato della mente anteriore al movimento della riflessione, non è mica uno stato unico e semplice, ma uno stato vario e molteplice; giacchè l' uomo può fare più e meno degli atti diretti colle sue facoltà, prima ancora che sopravvenga nessuna riflessione. Converrebbe dunque sapere, se l' analisi del signor Cousin cada sopra ciascun atto spontaneo, ovvero se cada sopra il complesso degli atti spontanei, che possono precedere la riflessione. In questo secondo caso, l' oggetto da analizzarsi è vago e molteplice, come dicevo; nè ci si può applicare l' analisi, prima di determinarlo. Se poi intende di parlare di ciascun atto spontaneo, ell' è manifesta l' improprietà di chiamare stato primitivo un atto; conciossiachè un atto non è uno stato . Ma via, lasciando l' improprietà della parola, il contesto dimostra bene, che trattasi di analizzare un atto della spontaneità, e non uno stato . Ora a raggiungere questo atto che si dee analizzare, si pretende di pervenire mediante induzioni logiche. Abbiamo notato, che un filosofo che vuol dedurre dall' analisi del fatto spontaneo le stesse regole logiche, non ha diritto a questo passaggio, non potendo usare di quelle regole che ancora non ha dedotto; ma il professore non si contenta d' usurparsi questo diritto, non è pago di passare dalla riflessione all' atto della spontaneità, pretende di più di passare anco dall' atto spontaneo allo stato dell' uomo anteriore a quest' atto. Io credo che molto più difficile gli sarà il legittimare questo secondo passaggio, che non il primo. E in fatto, io non trovo ch' egli in niun luogo s' adoperi a rigorosamente dimostrare, come dovrebbe, la possibilità e la legittimità di un tal passaggio; ma trovo anzi, che colla più grande confidenza mette avanti alcune affermazioni generali, e, com' elle fossero indubitabili e non bisognose di prove, ci fabbrica sopra quello che più gli piace. Una di queste affermazioni gratuite è la definizione della vita intellettiva , tratta dalla definizione della vita organica; dove si vede, per dirlo di nuovo, la base sensistica del sistema di questo filosofo, che tanto si piace delle frasi platoniche. Si oda attentamente tutto il brano, al quale noi facciamo allusione. [...OMISSIS...] In questo brano dunque il signor Cousin non contento di esser passato dallo stato di riflessione allo stato spontaneo, ci assicura di conoscere anche lo stato dell' uomo che ha preceduto lo stato spontaneo. Ci assicura che l' uomo, nello stato in cui fu per lungo tempo innanzi alla spontaneità, era un essere fisiologico e nulla più; la sua vita era per lungo tempo non diversa dalla vita del mondo; i suoi movimenti erano quelli della natura materiale; il mondo non era per lui se non in quel modo che è per la pianta! Ci sia permesso di fare qui un' osservazione su questo sistema eclettico . Il signor Cousin distingue tre stati nell' uomo: 1 lo stato anteriore alla spontaneità, 2 lo stato spontaneo, 3 lo stato riflesso. Se il signor Cousin parla dello stato anteriore alla spontaneità, egli applica all' uomo le frasi stesse che gli applicano i materialisti . Se egli parla dello stato spontaneo, e del principio della vita intellettiva, egli applica all' uomo le frasi colle quali ne parlano i sensisti . Se poi parla dello stato riflesso , o anche se fa l' analisi del fatto spontaneo, egli adopera la lingua di Cartesio e di Platone. Io stimo che sarebbe troppo difficile al signor Cousin evitare la taccia di quel sincretismo , che è certamente diverso dall' eclettismo , sebbene da questo non sia difficile lo sdrucciolo a quello. Ma lasciando ciò, io torno a dire che tutto il ragionamento del signor Cousin intorno allo stato dell' uomo anteriore alla spontaneità e intorno alla natura della vita intellettiva, è interamente gratuito. Questo solo esser gratuito è motivo sufficiente a doversi logicamente rigettare perchè mancano appunto quelle induzioni logiche a cui si appella. Che se bramate di più, lo potete vedere nel « Nuovo Saggio , » e negli altri miei scritti filosofici direttamente combattuto. L' errore principale consiste nella confusione delle due vite sensitiva e intellettiva . Io lascio da parte la vita della natura materiale e quella della pianta, che supponendosi del tutto insensitiva non merita il nome di vita. Ora quanto alla vita sensitiva, egli è vero che in essa trovasi una specie di lotta e di opposizione. Se dunque si confonde con essa la vita intellettiva, cadesi di necessità nell' errore di trovare una lotta anche intellettiva. Il sensismo dunque di Cousin, cioè la confusione della sensitività coll' intelligenza, è la base erronea su cui fabbrica l' ipotesi d' uno stato puramente fisiologico dell' uomo anteriore alla spontaneità, stato privo non solo d' intelligenza, ma ancora di sensazione, come quel della pianta, nel quale il signor Cousin afferma che passi e si agiti lungo tempo l' UOMO! Voi sapete, che, secondo il mio sistema, l' essenza dell' uomo è riposta nel sentimento che chiamo fondamentale, e che come non ci fu mai tempo in cui l' uomo non sentisse, dopo che fu generato, così non ci fu mai tempo in cui non avesse la vita intellettiva, fatta da me consistere nell' intuizione immanente dell' essere. Nel sistema del signor Cousin supponesi (poichè siamo sempre nel regno delle supposizioni ), che dopo essere stato generato l' uomo, ed esser vissuto lungamente della vita della materia (cioè della vita di ciò che non ha vita); dopo essere stato lungamente privo di senso come la pianta, e per ciò stesso privo del ME (che è quanto dire privo di SE` stesso!), finalmente fosse sonata un' ora, un' ora da vero solenne, in cui quest' uomo tolse a muoversi del proprio movimento, a porre se stesso, ad opporsi alla natura. Se questo fatto fosse vero, sarebbe l' avvenimento il più nuovo e il più straordinario che si potesse concepire; e per dare a credere un avvenimento così nuovo, così straordinario, converrebbe (in mancanza di testimonŒ oculari) addurre almeno una ragione del perchè l' uomo, dopo essersi agitato lungamente nel seno dell' universo senza conoscerlo, si sia risoluto a muoversi del proprio movimento, e a porre se stesso. Che almeno di un fatto così portentoso ci sia mostrata la possibilità; che almeno ci sia espresso con maniere di dire sì chiare da poter noi concepirlo. Da vero che questo non s' è fatto. Dicesi che quest' uomo senza senso si è agitato lungamente nell' universo: ma se il senso non c' è, non può intendersi che d' una agitazione di particelle materiali: e se qui si tratta unicamente di un' agitazione di particelle materiali, non trattasi adunque più dell' agitazione di un uomo, quando non vogliasi dire che delle particelle materiali siano un uomo. In tal caso resta a vedere come queste particelle materiali, dopo essersi agitate senza sentirsi e senza conoscersi, finalmente si sieno risolute di moversi del loro proprio movimento; e come commovendosi del loro proprio movimento, sieno diventate ad un tempo senzienti ed intelligenti . Nè pure è chiara ed atta a concepirsi quella frase, che « l' uomo abbia mosso se stesso », quando se stesso ancora non era, poichè il SE` di quest' uomo è pronome personale altrettanto quanto il ME, il qual ME si dice che non era ancora in quell' uomo, ma che cominciò ad esistere col movimento e col combattimento contro la natura. Moversi, combattere , ed altrettali vocaboli metaforici non s' intendono, se non si suppone un ME che si muove e che combatte; e in questo caso la vita sta nel ME e non nel moto, o nel combattimento di un ME che fosse morto. Tutte queste frasi dunque involgono seco assurdi manifesti, e però non sono concepibili. Ora egli è ben evidente, che una dottrina filosofica prima di tutto dee esser atta a concepirsi, e poscia dee esser provata; due condizioni che mancano alla filosofia del signor Cousin. Ma egli è uopo, che, dopo aver noi parlato dello stato dell' uomo supposto dal signor Cousin anteriore alla spontaneità, ci fermiamo a udire la descrizione che egli ci dà dello stato spontaneo, detto da lui anche stato primitivo . « « Da prima, dice, il ME per la sua natural forza compie un atto ch' egli non ha nè preveduto, nè voluto; e in quest' atto il ME non può non appercepire se stesso, ma egli si trova senza cercarsi »(1). » Da queste parole vedesi, che l' atto spontaneo è un atto del ME: il ME agisce per la forza sua naturale (or non si sa come stia tanto tempo senza agire, se la forza gli è naturale), e agendo trova se stesso senza cercarsi. Il ME dunque esisteva prima di agire, poichè non avrebbe potuto agire se non fosse esistito; non avrebbe potuto trovarsi, se non fosse stato. Come dunque farà il signor Cousin a conciliarsi seco stesso, a conciliare queste sue parole con quelle altre, nelle quali insegnò che l' uomo prima di agire sta per lungo tempo nella condizion della pianta, « « e che il ME non esiste che pel combattimento, cioè per l' atto con cui oppone la natura a se stesso? »(1) » Seguita a descrivere l' atto della spontaneità: « « Il ME, trovando se stesso, trova anche la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguente la natura esteriore, ch' egli reputa NON7ME; ed egli appercepisce il ME e il NON7ME come limitantisi mutuamente: in fine travede un essere nel quale il suo pensiero s' affonda, senza trovarvi limite »(2) » Qui il signor Cousin ha bisogno di nuove conciliazioni con se stesso. Dice che il ME trova la sensazione; dunque la sensazione esisteva prima dell' atto spontaneo: come dunque dice altrove, che l' uomo prima di quest' atto non sente, e che fa bisogno « « che si svegli la coscienza (propria dell' ordine intellettuale) acciocchè la sensazione si produca? »(3) » Dice che il ME trova la sensazione, ch' egli non ha fatta: come dunque s' accorda con ciò che dice altrove, che « « la sensazione stessa è un fatto attivo? »(4) » Come l' attribuisce alla forza attiva del ME, dichiarando fin anco, che è uopo che ci abbia cognizione, acciocchè ci abbia sensazione, piacere, dolore? (5) Di più, il ME agisce; il ME si trova; il ME trova la sensazione ch' egli non ha fatta, e per conseguenza trova la natura esteriore. Ma se trova la natura esteriore per conseguenza , dunque la deduce per ragionamento; la trova perchè egli trova la sensazione che non ha fatta; e perchè non l' ha fatta, giudica che la natura esteriore è NON7ME. Ora questo è un ragionamento: qui si dà successione; si danno principŒ, induzioni, conseguenze. Non è dunque vero che quest' atto della spontaneità sia un atto solo, ma egli si compone d' una successione di atti parte sensitivi e parte intellettivi. Questi atti si succederanno rapidamente quanto si voglia; alcuni di essi coesisteranno; ma egli sarà sempre proprio del filosofo il distinguerli accuratamente, il separare i primi dai secondi e dai terzi, e non farne un atto solo, come pretende il signor Cousin. E non è egli medesimo che dice: « « L' idea della causa ME precede l' idea della causa NON7ME; poichè niente precede l' idea del ME: ella è il centro, onde tutte l' altre sono raggi? »(6) » Se dunque le altre idee sono raggi che escono dall' idea del ME come da centro, devono essere a quella posteriori. Di più, io vedo bene, come non vi possano essere i raggi se non vi è il centro; ma io posso concepire, in qualche modo, il centro senza i raggi. Non è dunque vero che l' idea del ME e del NON7ME siano al tutto correlative. Io accordo che una correlazione si trovi, ove si consideri il ME semplicemente come il principio della sensitività animale; ma nego ch' ella si trovi nel ME considerato come un essere intelligente: anche questo errore dunque del signor Cousin nasce a lui dall' aver adunate insieme la sensitività e l' intelligenza , e parlato di questa colle frasi che non convengono che a quella sola. Per altro ripeto, che la mente del signor Cousin non essendo fatta per radere il terreno co' sensisti, se il fa talora, è costretto di espiare il fallo con una felice contraddizione. Tale io stimo esser quella dove, dopo aver analizzato il fatto della spontaneità come fosse un atto solo, avvolgente tre idee correlative, fa poi che queste idee sieno figlie di tre facoltà diverse, quasichè se sono diverse tra loro le facoltà che a quell' atto concorrono, non sia per sè evidente, che non trattasi più d' un atto solo, ma di molti specificamente distinti e aventi un ordine fra essi (1). Egli è appunto quest' ordine che hanno tra loro i fatti primitivi dello sviluppo umano, che gli sarebbe bisognato attentamente considerare, e che l' avrebbe potuto guardare da molti sbagli: ne accennerò uno de' più importanti. Avendo egli confusi questi atti diversi in un atto solo avente un triplice oggetto, cioè il ME, la natura e l' infinito, egli ne trasse per conseguenza, che niuno di questi oggetti potea stare senza gli altri due. Veramente tale conseguenza non sarebbe stata neppure necessaria, quand' anche quei tre oggetti fossero contemporanei, e condizioni all' atto della spontaneità. Ma riprenderemo poscia questo mancamento logico: or ci basti di far osservare l' errore. Consideriamolo nelle sue stesse parole. « « L' appercezione di quest' ultimo termine (cioè dell' infinito) rende sola possibile l' appercezione del finito, come alla sua volta la veduta del finito è la condizione indispensabile della veduta dell' infinito. - Ogni fatto intellettuale riflesso può dunque esporsi sotto questa formola: Non si dà finito senza infinito, e reciprocamente; e nel seno del finito non si dà ME senza il NON7ME, e non si dà il NON7ME senza il ME: tale è il cominciamento e la fine della vita filosofica »(1) » Questi tre elementi trovati nell' atto riflesso, li pone anche nell' atto spontaneo, e dal trovarsi uniti nel pensiero, com' egli crede, passa ad una conclusione ontologica, affermando che sono indivisamente congiunti anche in se stessi. Quindi l' immenso errore che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere, il necessario del contingente, la sostanza dell' accidente, ec.. « « Noi abbiamo veduto, dice, che la causa suppone la sostanza , e che la sostanza non ci è manifestata che per l' accidente. La loro apparizione nella coscienza è dunque simultanea, e la loro simultaneità nella coscienza non è che il riflesso della loro coesistenza reale al di fuori di noi: in effetto, se la causalità suppone l' essere, l' essere alla sua volta non esiste che a condizione d' agire, cioè a dire d' esser causa. Così, tanto in ontologia, quanto in psicologia, l' essere e la causa sono inseparabili, poichè l' accidente o il modo implica l' intervenzion della causa, ed egli è impossibile di concepire o l' accidente senza l' essere, o l' essere senza l' accidente »(2) » Ma qui primieramente ci ha un salto mortale dall' ordine psicologico all' ordine ontologico . Dall' essere due cose nella nostra coscienza simultanee, non si può inferire logicamente, che sieno simultanee anche in fatto. « La loro simultaneità nella coscienza, dice il professore, non è che il riflesso della loro coesistenza reale fuori di noi. »Questa parola riflesso è una metafora e non più: e una metafora non ha valore in filosofia. Perchè l' argomentazione del signor Cousin fosse efficace, essa non dovrebbe essere appoggiata sul semplice fatto della simultaneità di quelle due idee nella nostra coscienza (fatto d' altra parte non provato), ma dovrebbe avere per sostegno la necessità logica, cioè dovrebbe dimostrarsi che il concetto dell' infinito racchiude o più tosto chiama od esige come correlativo il concetto del finito . Ora primieramente il signor Cousin non ha diritto di usare delle regole logiche, pretendendo egli di dedurle da fatti reali. Perciò non può, senza petizione di principio, ammetterle già in principio della sua filosofia. In secondo luogo, egli potrà provare bensì che il finito ha bisogno dell' infinito per essere concepito; ma in niuna maniera potrà logicamente provare che l' infinito abbia bisogno del finito per esistere. Se mi dirà che l' uomo non si forma l' idea dell' infinito che levando i limiti alle cose finite, egli prima di tutto dovrà abbandonare il suo sistema, facendo che l' idea dell' infinito sia un' idea ben posteriore a quella del finito. In secondo luogo, egli non avrà risposto punto nè poco alla questione. Poichè egli mi avrà ben detto come l' uomo, intelligenza limitata com' è, proceda nel formarsi l' idea dell' infinito; ma non mi avrà mica dimostrato con questo, essere assurdo il pensare, che l' infinito sussista senza aver a fronte il finito, quasichè non sia più tosto assurdo il dire, che l' infinito sia condizionato nella sua esistenza dal finito, o quasichè non cessasse d' essere infinito ciò che dipende necessariamente dal finito. Dice il professore, che « l' essere non esiste se non a condizione di agire, cioè di esser causa. »Ma egli confonde due cose ben diverse, l' agire e l' esser causa . L' esser causa è quanto un produrre qualche cosa diverso da sè; ma l' essere può agire , senza produr nulla da sè diverso: lo stesso esistere è un' azione, lo stesso concetto dell' essere è quello di un atto primo; e i teologi assai acconciamente dicono, che Iddio è atto purissimo appunto perchè è purissimo essere; e tuttavia non l' obbligano per questo a produrre nulla fuori di sè, nulla di contingente e di finito. Se il concetto dell' essere involgesse quello di causa, come vuole il signor Cousin, se l' essere non fosse se non a condizione di produrre qualche cosa da sè diverso, niun ente potrebbe esistere nè anche un istante senza produrre, poichè ciò che è assurdo non può aver luogo nè pure per un istante. Il sostenere che fa il nostro professore, che non si può dar l' essere senza che si dia l' accidente, è un errore che lo conduce alle più strane conseguenze: dopo avere reso coeterno all' essere infinito il finito, cosa che conduce a stabilire l' eternità del mondo, egli arriva fino ad ammettere degli accidenti in Dio, proposizione non meno erronea in teologia che in filosofia (1). Tutte queste stranezze, chè con altro nome non saprei chiamarle, sono inevitabili, dopo aversi posto per base della filosofia quell' atto della spontaneità, concepito alla foggia del signor Cousin. Egli è vero, che nel mio sistema s' annunzia un fatto simile; ma questo fatto non è per me primitivo, non è unico e semplice, non involge in se stesso la necessità che vi suppone il signor Cousin. Il fatto di cui parlo, che corrisponde al fatto spontaneo del signor Cousin, e che forse fu quello che, male osservandolo, l' ha traviato, è la percezione . Noi abbiamo analizzata lungamente la percezione intellettiva , e abbiamo mostrato ch' ella si compone delle seguenti parti: 1 della sensazione animale (lasciando ora da parte l' irritazione organica, che non è che una circostanza concomitante fuori del fatto della sensazione); 2 dell' intuizione dell' essere in universale; 3 dell' affermazione , o giudizio di una realità agente in noi. Abbiamo veduto che queste tre parti sono tre atti distinti dello spirito umano appartenenti a tre distinte potenze. Il loro ordine si è, che ciascuno de' due primi è indipendente dagli altri due; ma il terzo non può compirsi senza i due primi, perchè pone una relazione fra i due primi: cioè vi può essere sensazione animale senza intuizione e senza giudizio; vi può essere intuizione senza sensazione e senza giudizio; ma non vi può essere giudizio senza che v' abbia prima sensazione e intuizione, che costituiscono la materia e la forma del giudizio e della percezione stessa. Io ho poi analizzata ciascuna di queste tre parti della percezione intellettiva. Nella sensazione ho trovato qualche cosa di permanente e qualche cosa di variabile . Ciò che è permanente nella sensazione fu appellato da me sentimento fondamentale: le modificazioni del sentimento fondamentale, che è la parte variabile, furono dette sensazioni acquisite , o semplicemente, sensazioni . Di più, tanto nel sentimento fondamentale, quanto nelle sue modificazioni, ho trovato un principio senziente, il quale viene appellato poscia dall' intelletto, che lo concepisce, col monosillabo IO. Ho trovato una passività di questo IO, un agente diverso dall' IO, un NON7IO. Ho dunque riconosciuto nell' ordine della sensazione una opposizione dell' IO e del NON7IO, e, se si vuole, anco una specie di lotta fra loro. La sensazione dunque per noi è duplice; ma non è niente più che duplice. Ma ora si applichi alla sensazione l' intelligenza. Questa giudica tantosto, data la sensazione acquisita, che ci sia una realità, o un agente, che è quanto dire, percepisce la realità esterna. Ma questo giudizio, o sia percezione, non prende già per oggetto il ME, ma il solo NON7ME, di cui così acquista l' idea . Ora a qual condizione può l' intelligenza acquistare quest' idea, formare questo giudizio? Questo giudizio non è se non l' affermazione che esiste una realità. Esso non può dunque farsi se non a condizione che l' intelligenza abbia l' intuizione dell' essere , ossia dell' esistenza; a condizione cioè ch' ella riconosca un essere in quel principio che agisce nella sensazione. Ora io provai che quest' essere che ella intuisce antecedentemente alle sensazioni acquisite, è universale, e perciò infinito , sebbene non gli appartenga propriamente il titolo di essere assoluto (1). La percezione dunque della realità esterna non si ha se non a condizione dell' IO e del NON7IO, del finito e dell' infinito. Ma l' IO non è in questa percezione un' idea , ma un sentimento: il NON7IO è prima un sentimento, di cui poscia l' uomo si forma l' idea compiendo il giudizio, e con esso la percezione. L' intuizione dell' essere è idea , ma non più; non è idea dell' essere assoluto. Di più, questo fatto complesso della percezione spontanea, oltre non esser semplice, non prova in alcun modo, che il finito e l' infinito siano condizioni uno dell' altro; e se un fatto potesse essere fondamento d' una necessità, proverebbe unicamente, che il finito non si può concepire senza l' infinito, non viceversa. Finalmente io ho mostrato che questo fatto della percezione, sebbene sia quello onde comincia a svolgersi l' umano intendimento, e perciò corrisponda al fatto spontaneo del Cousin, tuttavia non è primitivo assolutamente. Antecedentemente alla percezione , l' uomo non è un essere fisiologico come la pianta, non vive della sola vita della materia: anche allora egli ha una doppia vita, una vita sensitiva e una vita intellettiva. Questa doppia vita è ciò che lo costituisce, ciò che forma la sua propria essenza. L' uomo è sentimento ed intelligenza; egli dunque sempre sente e sempre intende; ma nel suo primo stato il suo sentire è equabile e senza variazione. Un tal sentire non può tirare a sè l' attenzione intellettiva: egli dunque non ha coscienza del suo sentire. Questa maniera di sentire la chiamo sentimento fondamentale . L' uomo anche intende tosto che è; che anzi questo intendere è il suo essere; ma questo intendere non ha oggetti finiti, non ha moltiplicità, non ha differenze: ha solo un oggetto equabile e senza limiti. Un tale oggetto, che non subisce variazione, non può eccitare la curiosità, nè muovere la riflessione. Non può che costituire una contemplazione immobile, uniforme, senza gradi e senza moto. Questo intendere dunque dee essere privo di coscienza , e non può cagionare nell' uomo niuna attività parziale. Il pensiero, equabilmente e immobilmente sparso nell' infinito, non può concentrarsi in cosa alcuna distinta. L' intelligenza insomma essenziale all' uomo è formata dall' intuizione dell' essere in universale . Da tutto ciò voi potete vedere in che differisca il mio sistema filosofico da quello dell' eloquente professore di Parigi, il signor Cousin.

CHI VUOL FIABE, CHI VUOLE?

660466
Capuana, Luigi 1 occorrenze

La Principessa chinò il capo, abbattuta. - Padella preparata, è evidente, significa la figlia del ramaio. - E frittata e non frittata che vorrà significare? - Significa, credo, che tutto anderà pel suo meglio. Ci ha lasciato il nido d'oro e le uova d'argento; è il buon augurio agli sposi. Come il principe Pettirosso sposasse Cingallegra voi lo sapete da un pezzo e sapete anche che il ramaio e Reginotta furono accolti nel castello e beneficati da loro. Apprenderete oggi il resto, e le due fiabe saranno compiute. Quando il principe Pettirosso rispondeva, ridendo, al padre: - É più Principessa di me, che ora sono pettirosso - sapeva bene quel che diceva. In uno di quei giorni che volava attorno da mattina a sera in cerca di una sposa, Principessa come voleva sua madre, o più buona che bella come gli suggeriva suo padre, il Principino aveva incontrata la Fata Cicogna. - Dove vai, piccolo pettirosso? - Cerco la mia fortuna, una moglie. - Vieni con me, te la trovo io. - Principessa? - Principessa. - Più buona che bella? - Più buona che bella! Eccola là. E gli mostrò Cingallegra che cantava, sciorinando i panni nell'orto. - Più buona che bella può darsi, ma Principessa ... - Principessa quanto te e più di te. - Come mai? - L'hanno scambiata a balia: e i parenti non se ne sono accorti. La figlia del ramaio aveva una voglia di fragola sotto l'ascella, e Cingallegra non l'ha. Cingallegra è figlia di Principi. Ti basti di saper questo. Infatti un giorno, a tavola, il principe Pettirosso disse al ramaio: - Vostra figlia dovrebbe avere una voglia di fragola sotto l'ascella. - Certamente; sembrava una fragoletta davvero. - Ma Cingallegra non l'ha. - Non l'ha? E così fu confermato quel che aveva detto Fata Cicogna. Ma ora alla Principessa non importava più che Cingallegra fosse o non fosse figliola di ramaio. Non vedeva lume che per gli occhi di lei. Accade spesso così. Frittata e non frittata, La fiaba è terminata.

EH!La vita...(Novelle)

662294
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbattuta la muratura, e fatto osservare al marito che i sigilli erano intatti, Dora aveva aperto l'uscio ed era entrata nella stanza maritale per spalancare la finestra e far dissipare il tanfo di rinchiuso. Gabriele rimaneva fuori, torcendosi le mani, m'ordendosi le labbra davanti allo spettacolo di quella camera un po' in disordine, con una seggiola ancora rovesciata, i cocci della boccetta e dei vasetti del lavamano sparsi sul tappeto, una tenda dell'uscio strappata e pendente a metà dal l'asta che la reggeva. Tutto gli faceva rivivere il terribile momento in cui, perduta la testa alla vista di quell'uomo che, datogli uno spintone, tentava di scappare, lo aveva rincorso pel corridoio e per le scale, sparandogli dietro parecchi colpi di rivoltella, uno dei quali gli aveva fracassato il cranio, giù al portone, dove lo aveva raggiunto. E di fuori, quasi un ostacolo gli impedisse di entrare, egli guardava, con occhi stralunati, Dora che apriva le cassette interne di un armadio e ne traeva alcuni pacchetti di lettere, depositandoli sul letto là vicino, assieme con tre scatolini di pelle scura. Balzò dentro con un salto, mise il paletto all'uscio e si precipitò sur uno dei pacchi di lettere, sciogliendone il nastro con mani convulse. - Senti - gli disse Dora. - Tu stai per apprendere un segreto che non ci appartiene e che noi dobbiamo conservare religiosamente. Giurami!... Io l'ho conservato a costo del mio onore... Giurami!... Giura! Egli non l'ascoltava; apriva febbrilmente quelle lettere, dava ad esse un'occhiata, fissava Dora un istante, e riprendeva a leggere, mandando fuori, di tratto in tratto, ringhi e ghigni sarcastici, gettando per aria i fogli quasi provasse un' amara delusione o vi scorgesse un puerile tentativo d'inganno. - Giura! - ella insisteva. - Non vuol dire che ora sia morta: anzi! - Morta! Morta! - ringhiava lui, lanciando alla moglie terribili occhiate. - Prima della loro penosissima rottura - riprese Dora - io era stata fida depositaria di queste lettere compromettenti. Quell'uomo voleva riaverle, chi sa perché, e quel giorno osò di trascinarmi per un braccio qui dove egli sapeva che fossero gelosamente conservate, cercando di riaverle con la violenza.... Leggi, leggi le ultime, queste qui... Egli non osava di credere suoi occhi. Quel nome di donna ripetuto tante volte in ogni lettera, appassionatamente, non era di sua moglie. - Chi, chi scriveva? - egli urlò. Io veggo! Io indovino! Io sento!... E fiutava le lettere brancicandole. - C'è il profumo del tuo corpo! C'è il fluido del tuo spirito, sì, sì, non m'inganno.... Non mi sono addestrato sette anni inutilmente per acquistare la veggenza che non inganna! Dora indietreggiava, indietreggiava a quel lento avanzarsi di belva che sta per slanciarsi. Con gli occhi sbarrati, le braccia protese, le mani aperte e le dita curve come grinfie, pareva ch'egli provasse la feroce voluttà di atterrire la vittima al punto di assalirla. - Gabriele! Gabriele! A così acutissimo grido di angoscia, nella turbata intelligenza di lui accadde dunque una scossa, una sosta, quasi nella tenebra che la occupava in quel momento scoppiasse tutt'a un tratto un lampo di luce? Egli si fermò, portò le mani alla fronte, stiè pochi istanti come in ascolto; la tensione di tutti i nervi che gli aveva alterata l'espressione della fisonomia e concitata tutta la persona, si rilassava lentamente, e l'infelice cascava bocconi da quella parte sul letto, gorgogliando inintelligibili parole. Dora stava per precipitarsi verso l'uscio e gridare al soccorso, ma quelle lettere sparse là aperte, brancicate, non avrebbero, in quella circostanza, fatto conoscere un segreto custodito finora con tanti sacrifici? E si diè frettolosamente a raccoglierle, a calcarle alla rinfusa, nelle cassette assieme coi tre scatolini contenenti tre piccoli gioielli.... Poi, invece di gridare: soccorso! si chinò su lui con gesto materno, di immensa pietà, e, chiamandolo sommessamente a nome, lo baciava sui capelli umidi di sudorino ghiaccio. Egli si lasciò prendere per una mano e condurre verso il canapè all'angolo della camera. Guardava attorno, trasognato, quasi non riconoscesse il luogo dove si trovava nè la persona che gli stava davanti, in piedi, un po' china verso di lui, e sorridente con visibile sforzo tra le lacrime che cominciavano a rigarle le gote. - Qui!.. Qui! - balbettò. - Sette anni.... fisso qui!... Un terribile chiodo!... Notte e giorno! - Zitto! Sii tranquillo! Non t'agitare! Sì.... - egli riprese. - Era dunque quella... Marina Falchi colei che tradiva? È morta? - È morta, sì, la mia amica. Per ciò il suo segreto dev'esserci maggiormente sacro! Ora distruggeremo ogni cosa. Ho voluto conservarle per te quelle lettere; per giustificarmi soltanto davanti a te.... - Può essere? Può essere? Ed hai aspettato sette anni - Ho sofferto quanto te!... Oh Dio! Dubiti ancora? - Non si strappa facilmente un chiodo infisso qui.... da sette anni!... Notte e giorno! Girava attorno lo sguardo smarrito, parlava quasi rivolgesse le parole a se stesso. Poi si raccolse in cupo silenzio, chiuse gli occhi, recimò il capo sul petto, e Dora, sedendoglisi cautamente a lato, ascoltava con ansia il profondo respiro di lui già vinto dal sonno. Nessuno in famiglia, neppure la madre di lei, seppe quel che era accaduto in quella appartata camera maritale. Dora passò due terribili giorni, dissimulando a tutti l'angoscia del dubbio che la straziava. Suo marito, a intervalli, ricadeva in uno stato di eccitazione mentale molto vicino alla pazzia. Poi, quasi destandosi da una specie di dormiveglia, di stupore, ripeteva desolatamente: - Sto male!... Sto male! Non guarirò più!... Povera Dora! - Se tu permettessi di consultare il nostro dottore!... - No!... Non voglio la compassione di nessuno, neppure di un dottore! - Ma già tu ti allarmi per una lieve depressione nervosa. - Stavo meglio... colà... in carcere. Colà... avevo almeno la certezza! - Quale certezza? - Vedi?... Ancora non so abbracciarti... nè baciarti come una volta.... Ho paura di trovare su le tue labbra le traccie.... Perché ho ucciso dunque? Perché sono stato condannato? - Gabriele! Bastava questo dolce richiamo per farlo rientrare sùbito in sé, per calmarlo in quell'angolo di canapè dove egli, da due giorni, passava le ore fumando continuamente, con un mucchio di libri nuovi sur una seggiola, dei quali scorreva soltanto qualche pagina con paurosa ripugnanza. Aveva trovato in uno di essi: - Noi non sappiamo niente della realtà delle cose. Siamo vittime dell'apparenza. E n'era rimasto sconcertato. Il terzo giorno Dora lo trovò sdraiato sul canapè con le mani strette alla fronte, quasi per comprimere un gran dolor di testa. Teneva chiusi gli occhi. - Sei tu, Dora? - Che hai? - Dora! Dora! Quel segreto mi uccide.... Che m'importa di colei?... Tanto peggio per la morta! - Perché dici così, Gabriele? - Perché tu ed io siamo vittime dell'apparenza. Non dev'essere! Non voglio che sia così! - Ormai!... - Non dev'essere così!... Non voglio che sia così!... Quel segreto mi uccide! Si era fermato ad ascoltare. Dalla via saliva un rumore confuso di evviva misto al suono della banda cittadina che soffiava quasi rabbiosamente l'inno reale. - Tanto peggio per la morta! E prima ch'ella potesse impedirglielo, Gabriele era corso all'armadio, aveva afferrato il mucchio delle lettere ancora aperte e sgualcite come vi erano state calcate in fretta e furia quella mattina, e, stringendosele al petto con tutte e due le mani, le versava sul marmo della finestra, di lato, per poter spalancare metà della vetrata e buttar giù tra la folla che passava, plaudente, per la via, il segreto che lo uccideva. - Non devo saperlo io solo che tu sei innocente! Devono saperlo anche gli altri.... E si opponeva agli sforzi di Dora; le strappava di mano quei fogli ch'ella tentava di sottrarre, e li sparpagliava fuori, per l'aria, ripetendo: - Tanto peggio per la morta! Tanto peggio per la morta! E aveva negli occhi la feroce gioia di un folle.

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GIACINTA

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Capuana, Luigi 1 occorrenze

Anche la signora Teresa si mostrava abbattuta. - Sfido io! - disse Ratti al Villa in un orecchio. - La Banca era una bella poppa! L'ingegnere scoppiò a ridere: l'idea della poppa gli parve buffa. Molti si voltarono a guardarlo. - Che c'era da ridere in quel frangente? Quel Villa era un cretino! Che ne capiva del credito e degli affari che andavano giú a rotta di collo? - Vi confondete? L'importante è che la Banca paga, da tre ore. Duri un'altra oretta, e sarà salva. - Pare lo facciano apposta! La maggior parte dei libretti di depositi presentati alla riscossione sono con cifre grosse. - Meglio. Infatti, vedendo che si continua a pagare, l'effervescenza è scemata. Entrò il giovane Porati, che andò difilato da suo padre e cominciò a parlargli sotto voce. Il signor Ottavio scrollava la testa, passandosi il fazzoletto sulle labbra asciutte, rianimandosi un pochino. E quando Ernesto ebbe finito, tutti lo circondarono fra una tempesta di domande. - Le cose andavano bene. Quel povero diavolo del cassiere si batteva come un eroe, freddo, imperterrito, tirando le operazioni in lungo, più che poteva, con gli occhi all'orologio. La Banca nazionale aveva mandato dei soccorsi. Giú c'era un contabile di essa e il Gerace in conferenza col commendatore. S'aspettava il direttore della Banca popolare. Bella questa solidarietà dei diversi istituti di credito! Marietta trasse in disparte la signora Marulli per avvisarla che il signor commendatore l'attendeva nel salotto della signora contessa. - Vengo subito. Ma continuò altri cinque minuti a ragionare col cavalier Mochi e con due azionisti della Banca, per non insospettir questi; poi uscí. Giacinta, in piedi, appoggiata alla spalliera di una seggiola, seguiva con lo sguardo il commendatore che andava su e giú pel salotto, tirandosi nervosamente le fedine grigie, lanciando delle torve occhiate di traverso. - Pover'uomo! Le faceva compassione. Senza la compra della palazzina ... Ma già, forse, avrebbe fatto una grossa corbelleria. All'arrivo della mamma, Giacinta si accostò alla finestra dove il conte Giulio stava a guardare la folla, dietro la persiana, divertendosi come un ragazzo. - Teresa, - disse Savani concitato, andandole incontro e prendendola familiarmente per una mano; - Teresa, quelle trenta mila lire? Ricorro a voi proprio all'ultimo. - Quali? - rispose la Marulli. Savani capí il vero significato di quell'accento di sorpresa, e disse subito: - Oh, non le perderete! ... Uno, due giorni soltanto ... Ve lo giuro. - Ma, ecco ... - Non le perderete! Manca un quarto d'ora alla chiusura. Venticinque, trenta mila lire possono salvar la banca da un disastro. Abbiamo fatto miracoli. Ho buttato tutto il mio nell'abisso; lo ripescherò piú tardi. Se oggi si chiudesse la cassa senza arrestare i pagamenti ... Teresa, quelle trenta mila lire! Ve ne prego! - Non le ho piú, da tre giorni. - Non le avete piú? Il commendatore la guardò fisso, incredulo. Ma quella alzò fieramente la testa, mostrandosi offesa dal sospetto: - Domandatene al Porati. Ho fatto un'operazione con lui. Volevo anzi consultarvi. Ma in questi giorni siete stato così occupato! ... Savani sentì mancarsi il terreno sotto i piedi. - Non le avreste perdute! - mormorò, lasciandosi cadere sopra una poltrona. La signora Teresa si guardava le punte delle dita, impassibile: - Ha buttato il suo nell'abisso? - pensava. - Una ragione di piú per non buttarvi anche il mio. - E cosí? - domandò Savani, affannosamente, al Gerace comparso sull'uscio. - Si è chiuso pagando. Il commendatore, levatosi in piedi, diè una occhiata di rimprovero alla Marulli, e uscí come un lampo dal salotto. - Il pericolo è dunque scongiurato? - domandò la signora Teresa. - Tutt'altro - rispose Andrea. - Domani è domenica. Un giorno, in questi casi, è un enorme guadagno. Ma, che amministrazione! Un vero caos. Temo che il marcio sia troppo. - Ah! - ella esclamò dandosi ragione. Giacinta e Andrea s'erano scambiata una stretta di mano. - Ha chiesto del denaro anche a te? - domandò la Marulli alla figlia. - Povero commendatore! Mi fa pietà. Se non avessi comprata la palazzina ... - Ma è il fallimento! - le diè sulla voce la madre. Entrava dalla finestra il confuso rumore della folla che cominciava a disperdersi. - Verrai domani? - disse Andrea, appena la signora Teresa fu andata via. - Sí. - C'è qualcosa per aria. - Che mai? - Oh! finora, dei sospetti soltanto. - Sospettino pure! - Ti fidi troppo. - Eh, via! Giacinta sorrideva. Quelle paure di Andrea solleticavano, eccitavano il suo orgoglio di donna. - Bravo! Benone! - esclamò il conte all'improvviso. I due amanti trasalirono. Egli applaudiva una guardia di questura che dava, a diritta e a manca, scappellotti ai ragazzi. - Oh! tu? - disse, scorgendo Andrea. - Che congiurate costí? Vorreste spartirvi i milioni della Banca ... fallita? E rideva.

IL BENEFATTORE

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Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Di cima al Muraglione, i galantuomini del Casino andavano ad osservare, due, tre volte al giorno, i lavori delle squadre di uomini che laggiù abbattevano siepi di fichi d'India, ammonticchiavano sassi per costruire il gran muro di cinta lungo lo stradone, appianavano rialzi di terreno, sgombravano la linea, tracciata dall'ingegnere, che dal posto dove dovea sorgere il cancello saliva a zigzag fino alla casetta rurale dei Laureano già abbattuta dalle fondamenta per far luogo al Cottèg , come avevano sentito dire che sarebbe chiamata la villa. E di lassù si distingueva benissimo l' inglese che andava qua e là, dando ordini, sotto l'ombrello cenericcio sempre aperto contro il sole, e sollecitava e dirigeva, instancabile. Poi, verso sera, gli vedevano riprendere la via del paese, cavalcando alla testa dei suoi uomini, al pari di un generale, com'era partito la mattina, all'alba, dopo averli rassegnati (erano quasi un centinaio) e averli disposti in squadre, secondo i diversi lavori a cui venivano addetti. Gli uomini partivano cantando in coro, con gli strumenti del lavoro in ispalla, marciando alla soldatesca. E come i soldati pel loro capitano, si sarebbero fatti ammazzare per quel padrone che li pagava bene, puntualmente; che li ristorava con buone minestre, con ottimo vino; che li faceva riposare un paio d'ore, quando il sole saettava dal meriggio; non rifiutando mai una persona che gli si fosse presentata per chiedere lavoro; pagando il medico e le medicine, se qualcuno di loro si ammalava. Nei primi mesi, i galantuomini sorridevano di compassione, crollavano la testa, pensando che la cosa era troppo bella da poter durare. Convenivano però che l' inglese si rivelava più furbo di quel che non sembrasse. Facendo a quel modo, otteneva che i contadini e gli operai lavorassero il doppio quasi senza accorgersi di lavorare. Infatti in meno di due mesi, le grillaie di Tirantello e del Cucchiaio erano quasi irriconoscibili; il muro di cinta, terminato; lo stradone serpeggiava fino a piè della collina; e si vedevano già i fossati delle fondamenta che tracciavano lo scheletro del Cottage . - E poi? - domandava il canonico Medulla. - Dice che vuol piantare un vigneto da una parte - rispondeva il sindaco - e un giardino di agrumi dall'altra. - E l'acqua? D'onde la caverà l'acqua per inaffiare il giardino? - Ha già fatto cominciare gli scavi. Intanto ha quella del mulino dal Cucchiaio . - Due gocce! È pazzo da catena costui. Un giorno, abbandonerà baracca e burattini e scapperà coi debiti che ha fatto nelle Banche di Catania; lasciatevelo dire da me! - Ma sono quattrini suoi quelli che prende dalle banche, quattrini depositati, messi a frutto. - Fandonie! - Costui ci darà una bella lezione, signor canonico! - La lezione la riceverà lui, e di che sorta! Andare ad affacciarsi dal Muraglione per osservare i lavori dell' inglese , laggiù, era diventato l'occupazione giornaliera dei galantuomini che ordinariamente ozieggiavano in Casino, dicendo male di questo e di quello, ammazzando il tempo con interminabili partite a tarocchi o al bigliardo, o sbadigliando seduti in circolo, su la terrazza che dominava il Largo della Matrice e quasi segregava il Casino dal contatto della gente radunata davanti a la chiesa, le domeniche; contadini la più parte. Le gite al Muraglione formavano un diversivo, davano pretesto a discussioni, a malignità anche; perchè quando noi vediamo fatto da altri quel che, con nostro profitto, avremmo potuto fare e non abbiamo voluto o saputo fare, l'attività altrui ci insinua nell'animo un rancore chiuso; ci sentiamo quasi frodati di quel che ci sarebbe stato facile possedere e che scorgiamo intanto in mano di uno che ci apparisce ora un intruso e fino a ieri compiangevamo o disprezzavamo come illuso o pazzo da legare. Chi di quei galantuomini si sarebbe mai immaginato che Tirantello , Cucchiaio , Pennino e Santa Barbara , avessero potuto divenire un gran podere modello, trasformati dall'attività di un sol uomo; e coprirsi di vigneti, di giardini di agrumi, con polle di acqua fatte scaturire quasi miracolosamente dalle viscere della terra; con un vasto casamento, con stalle, comode abitazioni pei contadini; con una vita rigogliosa, fiorentissima, regolata come un orologio dall'intelligenza direttrice che aveva saputo operare tale trasformazione, da rendere impossibile a qualunque immaginazione il ricostruirsi la visione di quell'aggregato di grillaie dove poco addietro le capre, i buoi trovavano a stento un po' di erba da brucare? E c'era voluto meno di tre anni, perchè i viaggiatori che passavano con la vettura postale per lo stradone, mentre davanti la rimessa avveniva il ricambio dei cavalli, si accostassero al cancello meravigliati di scorgere una scena così ridente colà, dove prima non si vedeva altro che miseria e desolazione!

PROFUMO

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Capuana, Luigi 3 occorrenze

Così anche l'irri- tazione prodottale fin dalle cose più insignificanti, ella se la sentiva svaporare da tutto il corpo con quel profumo di za- gara, che appunto allora diventava più acuto e che la lasciava spossata e abbattuta poco meno che non potesse fare un accesso compiuto. Non ne diceva niente a Patrizio, nè al dottor Mola; sentiva vergogna. Da ragazza le avevano fatto capire che quei di- sturbi femminili bisognava dissimularli, per pudore; ed ella, senza intenderne bene la ragione, si conformava anche ora a quel consiglio. Interrogata dal dottore, aveva negato di averne mai avuti prima di quel giorno. E teneva nascosti i fe- nomeni interni: l'ansia, il terrore, la sovraeccitazione, se fosse stato possibile, avrebbe nascosto fin il profumo. Infatti tentava ogni mezzo per attenuarlo, lavandosi continuamente le mani e le braccia, facendo inutile sciupio di sapone, che all'ultimo produceva un resultato contrario, rendendo più libera e più facile la traspirazione voluta impedire. Perciò ella avea smesso, attendendo che il fenomeno, un giorno o l'altro, sparisse da sè com'era venuto. Intanto diventava più sospettosa, più diffidente. Le pareva di sentirsi circondata da un'atmosfera maligna. La tregua apparente nel contegno della suocera, le affettuose sollecitudini di Patrizio assumevano stranissimi significati per lei. La vecchia - come la chiamava - doveva essere troppo soddisfatta di saperla malata di quella inesplicabile malattia; per ciò sembrava acchetata. Chi sa che cosa s'attendeva la vecchia cattiva? Ah, ella avrebbe voluto interrogare a quattr'occhi il dottore, se fosse stata sicura di strappargli di bocca la verità! Ma il dottor Mola si divertiva a sgusciarle di mano ogni volta che ella tentava di afferrarlo e indurlo a parlare. Non la pren- deva sul serio. "Dottore, e questo profumo?" "Siete diventata una pianta d'arancio in fiore. Di che vi lagnate, signora mia?" Il dottore non aveva torto. Perché si ostinava a nascondergli i sintomi interni che ella andava notando e che il pove- r'uomo non poteva indovinare? E, irragionevolmente, s'indispettiva di sentirsi osservata, compatita. Le blande carezze di Patrizio la irritavano, con grande meraviglia di lui. "Ma che hai?" "Niente" rispondeva, brusca, senza accorgersene. E siccome nessuno dei due ardiva di provocare una spiegazione che avrebbe tolto di mezzo facilmente l'equivoco, lo stato dell'animo di lei peggiorava; ed egli ricorreva invano al dottore, che si stringeva nelle spalle dicendo: "Stiamo a vedere." Il dottore aveva replicatamente insistito: "Uscite da questa prigione volontaria. Abbiamo nei dintorni molti punti deliziosissimi da poter farvi belle e lunghe passeggiate. Gioverebbero immensamente alla signora." Patrizio ne aveva parlato più volte a Eugenia, quasi fosse stata un'idea propria, un capriccio che avrebbe fatto molto piacere anche a lui. "No" ella aveva sempre risposto. "Qui si sta tanto bene! Se volessi passeggiare, c'è la selva, ci sono i corridoi, c'è la terrazza!" E lo fissava, e lo costringeva ad abbassare gli occhi. Un giorno però, tutt'a un colpo, Eugenia si era decisa a chiedere una franca dichiarazione al dottor Mola. Stata alla vedetta, all'arrivo di lui gli uscì incontro nel corridoio, e lo prese per una mano: "Venga, venga qui." Il gesto, l'espressione insolita della voce lo fecero mettere in guardia. Quella celletta dell'antica infermeria, col vano della finestra ingombro dai fitti rami d'una pianta di loto che dalla selva sottostante si elevava presso il muro della facciata a sormontare il tetto del convento, pareva fatta a posta per col- loqui misteriosi. La penombra, che i riflessi verdognoli delle foglie illuminate dal sole vi spandevano dentro, lasciava appena distin- guere i mucchi di mattoni rotti, i vecchi telai di imposte, i tavolini e i legni sporchi di gesso e di calcina che ingombra- vano gli angoli. Le due seggiole, poste una di fronte all'altra presso la finestra, indicavano chiaramente un interrogatorio premeditato. "Scusi se l'ho condotto in questa stanzaccia." "Ai vostri comandi, cara signora." "Dottore, mi dica la verità!" "Indovino senza che parliate" egli rispose sorridendo. "Nausea, eh? ... Languori, eh? ... Appetiti bizzarri, eh? ... In questo caso sarebbe stato più pratico consultare la suocera. Avreste evitato di arrossire ..." "No, no, s'inganna! ... Mi fa arrossire lei!" rispose Eugenia con voce turbata. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via? ... Non capiscono, lei e Patrizio, che tacendo mi spaventano di più e mi fanno sospettare tante bruttissime cose?" Il dottore, con le mani aperte, le accennava di calmarsi, di calmarsi: "Avete ragione, signora mia. Noi medici siamo nell'obbligo di saper tutto; ma spesso (parlo di me e dei miei pari) sappiamo poco o niente. Non potendo confessarlo ai clienti - se no, addio professione! - in certi casi facciamo come i bastimenti quando c'è tempesta; prendiamo il largo. E se non siamo presuntuosi o senza coscienza, ci mettiamo a con- sultare i nostri autori ... Così, con l'aiuto di Dio, evitiamo, qualche volta, le corbellerie più madornali." Quantunque il dottor Mola, occorrendo, adoperasse facilmente coi malati le pietose bugie, pure allo scintillio di quegli occhi pieni di diffidenza e intenti a scrutare le parole che gli uscivano di bocca, aveva provato tale impaccio da sentir bisogno di una pausa. "Questo maledetto profumo che non vuole andarsene via!" riprese, imitando scherzevolmente l'intonazione di Euge- nia. "Si tranquilli. Già sappiamo che cosa è, e possiamo ridergli in faccia!" "Ah!" esclamò Eugenia, incredula. "Non avete mai inteso parlare di donne che, in uno stato simile al vostro, prendono in abborrenza gli alimenti ordi- nari, e divorano cenere, terra, segatura di legname, carbone, ne si nutrono d'altro? ... Noi chiamiamo pica questa malattia. Chi poteva sospettare che tra i sintomi della pica ci fosse anche la emissione di un profumo? ... Sissigno- ra, è così ... Avreste forse preferito mangiar cenere o carbone?" Ella lo guardava con tanto d'occhi, senza poter dire una sola parola; e il cuore le batteva così rapido, e un nodo le stringeva così fortemente la gola, che per un istante temette di essere sul punto di svenirsi ... "È ... proprio ... questo?" balbettò. "Ah, Signore! ..." E si levò da sedere, passandosi le mani sul viso, facendosi di mille colori, ripetendo soltanto: "Ah, Signore! ..." Il dottor Mola già sentiva rimorso di quella pietosa bugia, e osservava commosso la giovane che, affacciatasi alla fi- nestra, pareva provasse una deliziosa sensazione stropicciando la faccia tra le lunghe e fini foglie del loto, quasi calmas- se con tale espediente l'eccitazione cagionata dalla inattesa notizia. "Ora" egli disse "dovreste confessarvi con questo vecchio confessore che è qui. Che cosa vi sentite? Fatevi animo; non abbiate ritegno. Commettereste un sacrilegio tacendo, come nella confessione; non si tratta soltanto della vostra sa- lute, ma di quella di un'altra creatura di Dio. Parlate, parlate!" Ed ella parlò, abbandonatamente, chiedendo scusa, di tratto in tratto, del suo sciagurato silenzio: "Non tacevo io; c'era qualcuno che mi metteva una mano su la bocca, allorché volevo parlare ..." "Intendo. Via, rispondete alle mie domande; faremo più presto." Al dottore non pareva vero che la sua pietosa bugia avesse potuto produrre quell'effetto. "Donne! Donne!" pensava fra una domanda e l'altra ... "Vedete?" egli concluse all'ultimo. "Se aveste parlato prima, non avremmo perduto un tempo preziosissimo. Da og- gi in poi però, cara signora, sarete docile, ubbidiente, è vero? Dio vi ha consolata; dovreste eseguire tutte le prescrizioni del medico, anche per non essere ingrata verso Dio! ..." "Sì, sì" ella rispondeva, asciugandosi le lagrime. Si sentiva più leggera, quasi le fosse stata tolta una macina di sul petto. "È questo? ... Oh Vergine benedetta! ..." "Se i sintomi non ci ingannano" soggiunse il dottore. "Non lo sospettavo neppure! ... Niente che me n'avvertisse! Può mai darsi?" "Tutto può darsi, se vuole Iddio. Come siamo egoisti! Dimentichiamo una persona che non è in pensiero meno di noi." "Vada da Patrizio, vada, dottore!"

Davanti al- la giacente, abbattuta dalla crisi che l'aveva scossa come vento furioso i rami di un alberetto, Patrizio si sentì risalire dal fondo del cuore la viva indignazione prodottagli dalle dure parole di sua madre. Che? Alla vista di quella povera creatura, le viscere non le si erano mosse a pietà, se non per lei, almeno per lui che le gridava soccorso? Dunque, la odiava davvero! E perché mai? Se lo domandava, come la povera creatura che poc'anzi ne aveva pianto. Che terribile crollo! E assieme con la sua pace, sentiva già crollare quella ch'era stata la colonna maestra della sua vita: la gran riverenza per la madre! Quando sua madre gli aveva fatto sorda opposizione perché non prendesse moglie; quando si era mostrata prima fredda, poi ostile alla persona che pure avrebbe dovuto esserle cara perché carissima a lui, egli aveva trovato una ragione: la cecità dell'amor materno! Ma questa volta l'istinto materno gli pareva proprio brutale; ben più che brutale, spietato. Al cospetto di una creatura che soffre, al cospetto del proprio figlio che invoca soccorso per lei, arrestarsi e poter dire freddamente: "Vedi! Non m'ingannavo!" passava il segno. Il suo cuore si ribellava. Occor- reva intendersi, e subito; stabilire un modus vivendi da rendere possibile la loro esistenza. Egli avrebbe avuto il coraggio di provocare una spiegazione, e affrontarla, rispettosamente, sì, ma con forza, senza mezzi termini. Era suo dovere di figlio e di marito. Se si fosse risoluto prima, forse quel che accadeva sarebbe stato evitato. Debole, per rispet- to filiale, ora non voleva essere più tale. "Forse è bene che le cose siano state spinte all'estremo. Si eviteranno nuovi equivoci." Passeggiava affrettatamente per la camera, volgendosi spesso dalla parte del letto, passandosi la mano tra i capelli, tirandosi la punta della barba, arrestandosi a un tratto, quasi per domandarsi se tutto quell'orrore non fosse poi maligno prodotto della sua immaginazione alterata. Era realtà! Guardava attorno per la cella bianca, semplicemente arredata; e il silenzio, nella penombra, gli faceva sinistra im- pressione. A intervalli gli arrivavano, a traverso gli usci non ben chiusi, gli scoppi di risa dei commessi, o il rumore d'una lor breve disputa, che lo respingeva, quasi con un urto, alla coscienza della propria condizione di funzionario, ai minuti par- ticolari delle cose di ufficio: un lavoro da sollecitare, la Commissione per la ricchezza mobile da convocare, un'ispezio- ne da intraprendere; lampi che gli guizzavano nel cervello e si estinguevano subito, per abbandonarlo alla ruota di tortu- ra che forse non si sarebbe arrestata più mai! Già ripensava alla madre, che frattanto se ne stava di là, in camera sua, so- la sola, ruminando livore contro la nuora; probabilmente anche irritata contro di lui per quel: "Mamma!" strappatogli dalla indignazione nel terribile momento. "Ha torto. Glielo dirò in viso!" esclamò, accompagnando allo scatto della voce un vigoroso gesto della mano. Avea preso una risoluzione. E picchiò all'uscio. Al cospetto della madre, emaciata, più che dagli anni, dalle sventure patite; che era stata bella, ma che della bellezza serbava traccia soltanto nella severità dei lineamenti, accresciuta dallo squallore della carnagione e dalle rughe, tristi impronte lasciatevi dalla cattiva sorte, Patrizio comprese d'un tratto che avrebbe avuto torto lui, se avesse parlato come si era proposto. La signora Geltrude, che non aveva mai smesso il lutto, raggrinzita in quel punto su la vecchia poltrona testimone di tutti i suoi dolori e di tutti i suoi pianti inconsolati, aveva appena voltato la testa e appena appena levato verso di lui gli occhi socchiusi, con mossa interrogativa, diffidente; e questo gli spense ogni sdegno, gli aggelò la parola nelle fauci, gli fece abbassare la fronte come a un colpevole. "Mamma!" egli disse, accostandosele a mani giunte. "Perdonami!" Ella brontolò a mezza voce parole inintelligibili, aprendo gli occhi per guardarlo in viso. Parve si attendesse qualcos'altro. Vedendo che suo figlio continuava a tacere, abbandonò di nuovo il capo su la spal- liera e tornò a socchiudere gli occhi. Patrizio era meravigliato e deluso di non sentirsi domandare: Come sta Eugenia? o tua moglie, colei, in qualunque modo ella avesse voluto chiamarla! "Non mi hai perdonato! Non vuoi perdonarmi!" scoppiò a dire. "Oh, mamma! E non ti accorgi che così mi fai patire pene d'inferno?" Ella si rizzò lentamente su la vita, appoggiò le mani alle ginocchia, inarcando le braccia, e, con labbra tremanti, ri- spose: "E le mie sono forse pene da nulla? Ti sei lasciato stregare! ... Sei tutto suo! Io non conto più niente per te!" "Come puoi immaginarlo, mamma?" "Non lo immagino, lo vedo. Avete dei segreti, ve li andate susurrando all'orecchio qua e là, evitando la mia presen- za, cogliendo ogni più lieve pretesto per evitarla. Sono di troppo - l'ho capito - non per te, no, per colei. Ma non posso andarmene via, per farle largo. Il Signore non mi vuole; mi lascia qui, in castigo de' miei peccati, forse; forse, pe' suoi disegni che non possiamo sapere. Dovrete sopportarmi ancora un po'. Poi sarete liberi; sarete pur liberati di questa in- cresciosa!" "Che mai dici, cara mamma!" "La verità, l'evangelo. E non me ne curerei, se si trattasse di me soltanto. Sono cosa inutile oramai, spazzatura da buttare in un canto!" "Che mai dici, mamma! Che mai dici!" replicava Patrizio, cacciandosi le mani tra i capelli, inorridito di sentirla par- lare a quel modo. "Ma penso a te! Penso a te!" ella continuava imperterrita, scrollando il capo. "Tu non ti guardi allo specchio, o ti guardi così di sfuggita da non poter accorgerti quanto sei mutato e invecchiato da sei mesi! Non potresti riconoscerti. Lei se lo beve il tuo sangue! Lei se l'assorbisce la tua carne, il midollo delle tue ossa, la tua vita! ... Io sono impo- tente a lottare con lei. È giovane, è bella, è amata. Ti ha stregato! Che posso più fare io? Ti avvertii in tempo; ti ho av- vertito dopo; ti ho sempre ripetuto: "Bada! Bada!". Non mi hai dato mai retta; hai fatto sempre a modo suo. Che preten- de, più di quel che ha ottenuto? Vorrebbe forse che io le dicessi: "Mi hai tolto il figliuolo; grazie! Mi divori il figliuolo; grazie! grazie!". Tu intanto, non che essermi grato, mi credi esaltata - l'hai detto una volta! - e prendi parte in favore del vampiro che ti succhia il sangue! E vieni qui ..." "Zitta! Zitta, mamma, per carità!" gridò Patrizio. "Mi sento impazzire." Si teneva strette le tempie tra le mani, quasi a impedire che gli scoppiassero. Aveva avuto in vita sua molte tremende giornate. Si era visto più volte l'abisso della miseria spalancato sotto i piedi, pronto a inghiottire sua madre, lui, la sua giovinezza, il suo avvenire, e quando più gli era parso che una buona speran- za, dopo mille sacrifizi e mille stenti, fosse sul punto di realizzarsi. Il dolore del disinganno e il terrore del presente gli avevano atterrata ogni forza vitale, quasi spezzata la intelligenza; e gliene sovveniva spesso il ricordo, dopo che la pro- tezione d'un vecchio amico del padre, fedele anche nella sventura, gli aveva inaspettatamente tesa quella tavola di sal- vezza del posto di Agente delle tasse, traendolo fuori della tempesta, fuori d'ogni angustia giornaliera. Ma cercava inva- no nei ricordi una terribile giornata come quella, uno scoppio così improvviso di circostanze da nulla, da cui veniva prodotta tale rovina, che egli si sentiva soccombere sotto le macerie, senza speranza di aiuto. E tornava a premersi le tempie, ripetendo: "Mi sento impazzire!" Stette così qualche istante, poi lasciò cadere le braccia, desolatamente; e buttandosi ginocchioni davanti a la mam- ma, le prese le mani e cominciò a baciargliele, dicendo con voce interrotta: "Abbiamo torto tutti e tre! Non c'intendiamo! Non ci siamo mai spiegati! Ne riparleremo più tardi. Intanto, lasciamo che gli animi si calmino. E allora tu, mamma, vecchierella mia, santa mia, ti avvedrai che non solo non hai quasi perdu- to il figlio, come ti figuri, ma ne possiedi due, che ti vogliono bene egualmente ... due, due! Te ne avvedrai! ..." Nè si voltò indietro, per non veder il crollar continuo di quella grigia testa, che gli rispondeva ostinatamente: No! Noi No! Eugenia riposava ancora. Dorata, la vecchia serva, era venuta a sedersi a piè del letto, con le mani incrociate sul seno, la testa moresca, coi ca- pelli arruffati, un po' abbandonata su la spalla, con le labbra aggrinzite ancora dallo stupore di quel che aveva visto e che non sapeva spiegarsi. Vedendo entrare il padrone non si mosse. Si era già abituata a non parlare senza essere interrogata; e al cenno di Pa- trizio si levò dalla seggiola e uscì nel corridoio. Patrizio, per non far rumore, prese il posto di lei, accavalciò una gamba su l'altra, stese un braccio lungo la sponda del letto, e stette ad attendere che Eugenia si destasse. Il terrore di quel risveglio gli faceva strizzare gli occhi di tanto in tanto. "Che cosa dirle? Come farle intendere la strana gelosia della mamma? ... Ah, mamma! Ah, mamma!" E poc'anzi gli era sembrato di essere tanto forte da poter ribellarsi a quel giogo che lo avea domato e lo riduceva un fanciullo. Si era rallegrato innanzi tempo. Un senso di compassione e d'intenerimento per lei già gli s'insinuava nel cuo- re. "Povera mamma! È vissuta tutta per me! Non sa rassegnarsi a spartire con un'altra l'affetto dell'unico figlio! ... Fissazione! Debolezza! Come fargliene una colpa?" E si accusava: "Sono stato egoista! Avrei dovuto sacrificarmi a lei, far tacere ogni mio sentimento; ubbidire a occhi chiusi. Avrei sofferto io soltanto. A quest'ora, probabilmente, non soffrirei più ... Signore Iddio! È così difficile la vita?" Cominciava a comprendere che l'isolamento, le sventure, fin gli studi, fuori d'ogni personale esperienza, eran serviti a falsargli la prospettiva della realtà, a renderlo impotente a qualsiasi lotta. La fragile creatura stesa là, prostrata dalla crisi nervosa, ne sapeva più di lui; vedeva chiaro, vedeva giusto; possedeva il senso pratico della vita, che a lui mancava affatto. E perciò s'era rivoltata, proclamando il suo diritto: "Ora sei mio! Ora sei mio!". Si ingannava però, rimprove- randogli: "Picchio, e non mi senti! Chiamo, e non mi rispondi!". Se la sentiva! Se gli affluivano pronte alle labbra le af- fettuose risposte a quegli appelli! Forse egli aveva preso troppo alla lettera le parole del medico, consultato avanti il ma- trimonio, intorno al temperamento di lei, allorché la mamma gli aveva detto: "Cieco! Cieco! Non t'accorgi ch'ella è un viluppo di nervi?". Il medico aveva sorriso, alzando le spalle: "Chi non è nervoso a questi lumi di luna? Le donne poi, caro signore, son diventate oggetti fragilissimi, da maneggiare con cautela, se non vogliamo vederceli rompere fra le dita!". Egli s'era contenuto e si conteneva per questo! Ed ecco le belle conseguenze! Ogni istante che passava accresceva il suo turbamento. I tocchi delle ore, che la soneria guasta dell'orologio del campanile ripeteva affrettatamente, due, tre volte di seguito, lo facevano sobbalzare, quasi gli martellassero dentro il cervello. "E se la crisi nervosa si rinnova? Se è segnale di terribile malattia! ... Se la mamma ha ragione? ... No: il male non avrebbe atteso sei mesi prima di manifestarsi." E si consolava osservando che il volto di Eugenia aveva ripreso l'aspetto ordinario. La respirazione era placidissima; il sonno le coloriva i pomelli delle guance con lieve tinta incarnatina; le labbra sembrava sorridessero a qualche dolce fantasia che le appariva in sogno. La mano posata sull'orlo del guanciale, presso la faccia, era un atto di carezza. "Buona creatura! Le devo tanto! Mi son sentito così felice nel legarmi a lei per tutta la vita! Bisognerà però affrettar- si a consultare il dottor Mola, e dirgli tutto, tutto! senza sciocchi ritegni." Eugenia aperse gli occhi. Pareva stupita di trovarsi mezza discinta sul letto; e, rizzàtasi sopra un gomito, guardava attorno confusa e vergo- gnosa, cercando di raccapezzarsi, di rammentare. "Che è stato? Mi è venuto male?" "Oh, cosa da niente!" s'affrettò a dire Patrizio. Le accarezzava il viso, le ravviava i capelli, domandandole: "Come ti senti?" "Fiaccata, con le ossa rotte! ... Apri gli scuri ... Ah!" Ricordava. Patrizio, tornando presso il letto, la trovò col viso nascosto fra le mani, singhiozzante. "Eugenia!" "Lasciami! ... Lasciami stare!" "Vuoi proprio ammalarti?" "Che cosa posso farci? Non so resistere!" ella rispose, asciugandosi gli occhi e ricacciando indietro le ciocche dei capelli in disordine. "Non pensarci, divagati!" cercava di persuaderla Patrizio. "Ne ragioneremo dopo, quando sarai tranquilla. Allora soltanto potrai comprendere ... Riderai di te stessa, come ne rido io, vedi? Ne rideremo insieme." "La mamma?" ella domandò, esitante, avendola cercata invano con lo sguardo. "È in camera sua. Non sta bene, al solito ... Manderò a chiamare il dottor Mola ... Sentendo che t'era ve- nuto male, ella accorse qui ... subito! ... Fu tutt'a un tratto. Non hai dovuto avvedertene. La commozione, l'agitazione ... E sei caduta fuori di sensi tra le mie braccia! ... Anche per debolezza, dice il dottore ... Che? ... Non ti sei neppure avveduta del dottore un'ora fa? Sai? ... Egli sospetta ... Fosse vero! ... Non alzarti da letto, riposati ancora un pochino. Dovresti prendere una buona tazza di brodo. È pronto. Ti farà bene. Più tardi? ... Quando tu vorrai." Parlava affrettatamente, per sviare il discorso e non darle tempo di scorgere l'imbarazzo prodottogli dalla sua con- traddizione a proposito del dottore. "Temo" egli continuava "che tu non soffra, sopra tutto, per la solitudine in cui viviamo." Eugenia fece un cenno negativo con la testa: "Ero abituata così a casa mia. Uscivamo raramente; la domenica soltanto, per la messa. Tu lo sai: visite poche, pas- seggiate pochissime, appena tre o quattro, d'estate, nelle sere più calde." "Avevi però le tue sorelle, così allegre e chiassone!" "Non mi divertivo a quel chiasso loro." "E qui sei sola affatto." "Se la mamma si mostrasse un po' più buona!" rispose Eugenia dopo breve pausa. "Non badare a lei, te ne prego! È buona a modo suo. Prendila com'è." "Questo volevo fare! È stato impossibile. Anche tu ..." Al gesto d'impazienza sfuggito a Patrizio, che alzò gli occhi alla volta reale della cella, Eugenia si levò rapidamente, si mise a sedere sul letto; e posate le mani su le spalle del marito, lo guardò fisso in faccia, con aria d'affettuoso rimpro- vero: "Ascoltami, non sdegnarti! ..." Ma egli la interruppe; e, presàla pei polsi, portò le care mani alle labbra: "Sono diacce!" "Ascoltami" ripetè Eugenia, senza tentare di ritrarle. "Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: "Ufficio e alloggio sono in un convento!" te ne ricordi? io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: "In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra". E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immagina- vo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me ... Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l'avversione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch'ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire ..." "No! No!" disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani. "Che guardi?" domandò Eugenia, vedendolo fermare all'improvviso. "È strano ..." egli rispose. "Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zagara ... Ma non è la stagione. Hai forse un profumo di fiori d'arancio?" "Lasciami sentire ..." Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore. "È vero: pare che io abbia toccato della zagara e che me ne sia rimasto l'odore ... Si avverte appena però ..." "Anzi, al contrario! Senti? ... Anche ai polsi ..." soggiunse Patrizio ... E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fio al gomito. "Pure al braccio!" esclamò, meravigliato. "Senti, senti!" Eugenia si strinse nelle spalle: "Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria ..." "Può darsi." "Dunque, come ti dicevo ..." ella cercò di riprendere. Patrizio portò rapidamente l'indice della mano destra alle labbra per significarle: Silenzio! "Animo tranquillo e buon brodo, ha raccomandato il dottore!" E affacciatosi all'uscio che dava sul corridoio, chiamò: "Dorata! Dorata!" Eugenia persisteva nella sua idea. Finito di sorbire la tazza di brodo recata dalla donna, messasi a sedere su la sponda del letto, ravviata la veste e pas- sàtesi le mani sul volto, attirò Patrizio tra le ginocchia, cingendogli le braccia attorno il collo. "Bada!" gli disse. "Io non cedo. Non ho ceduto ai miei, quando mi agitavano dinanzi a gli occhi lo spauracchio di una vita randagia, senza nessuna sicurezza per l'avvenire; non cederò, mettitelo in mente, nemmeno con tua madre!" "In che cosa dovresti cedere? ..." Egli affettava un tono di gentile canzonatura, per mascherare l'agitazione che le parole di lei gli producevano. "Intendo" riprese Eugenia seria seria "intendo: che voglio esser libera, con libertà santa e giusta, si capisce! Intendo che ti voglio sincero con me, come da un pezzo non sei più, sì, come da un pezzo non sei più! Mi credi tanto stupida da non capirlo?" E all'improvviso gli si abbandonò con la fronte sul petto, mormorandogli quasi in tono di preghiera: "Pensa che ora non ho altri che te! Pensa che tu sei tutto per questa povera creatura che ti vuol bene! Oh Patrizio! Il mio cuore è uno specchio così limpido che neppure il fiato l'appanna ... Puoi mirarviti quando tu vuoi! Sul tuo cuore, invece, c'è spesse volte un velo grigio, che m'impedisce di vedervi bene quando più avrei bisogno di vedervi be- ne. Non ce lo voglio! Strappalo! Che cosa chiedo infine? Se io ti sentissi sincero, non mi curerei di nient'altro! Hai forse qualche doloroso segreto? ... Mettimene a parte; voglio soffrire assieme a te!" "Vedi come ti ecciti? ... Come esageri? ..." E sollevandole la testa, soggiunse: "Dammi una prova del tuo amore, Eugenia; te ne scongiuro, non tornare su questo soggetto, almeno per ora! Ti fa male; fa male anche a me ..." "Non ne parlerò ... Ma ... sarai tu sincero da oggi in poi?" "Sì, sì, come sempre! ..." "Proprio sincero? ..." "Sì!" "Ebbene ... allora ..." ella riprese lentamente, fissandolo, "allora dimmi ... perché ... la mam- ma ... No, non voglio saperlo! Me lo dirai quando ti parrà!" E gli si avvinse di nuovo al collo, arrossendo di essersi così presto contraddetta, e ripetendo con voce soffocata: "Non voglio saperlo! Non voglio saperlo!"

Scivolò tra le lenzuola, abbattuta, prostrata, con le mani avviticchiate sul capo, e gli occhi fissi alla volta quasi in- gombra di nebbia nella semioscurità silenziosa. Le pareva che quell'odor di zagara emanasse sottile sottile da tutto il suo corpo, e invadesse la camera, impregnando talmente l'aria che ella se ne sentiva stordire, quasi soffocare. Il respiro le diventò affannoso, la vista le si offuscò e ne- gli orecchi tintinnii e zufolii s'avvicendarono con altri strani rumori che le intronavano il capo. Un sopore di sfinimento cominciò ad aggravarsele su le palpebre; strie luminose, iridate le tremolavano dentro gli occhi; l'odor di zagara conti- nuava a esalarsi sottile sottile, spossandola, togliendole ogni forza del corpo, annichilendo ogni movimento della sua volontà; e, poco dopo, ella rientrava senza accorgersene nel regno dei sogni: stretti, lunghissimi corridoi dove Ruggero la inseguiva; alte rocce sovrastanti da ogni lato e tra cui egli la raggiungeva, la stringeva fra le braccia, la copriva di ba- ci; nere grotte, dove gl'immancabili enormi pipistrelli agitavano le ali, atterrendola con quella sensazione di cosa fredda e viscida che le sfiorava la faccia. "Eugenia! Eugenia!" Non ancora ben desta, e mentre Patrizio tornava a chiamarla, vedeva sparire gli ultimi lembi del sogno quasi strac- ciato e disperso da un soffio improvviso. E quando si scosse, negli occhi tuttavia imbambolati le appariva il corruccio di essere stata svegliata in quel momento da lui. Patrizio, che s'era affacciato appena con la testa dall'uscio e rimaneva là aspettando una risposta, se ne avvide, ma non capì. "Ti senti male?" domandò. "No. Mi levo subito." "Fa presto. Vieni in salotto." "Che c'è di nuovo?" "Non turbarti ... Un biglietto del sindaco. Ahimè! Era da prevedersi!" "Insomma?" "Giulia ... è fuggita col Favi, la notte scorsa." "Oh, Dio!" esclamò Eugenia, balzando dal letto. Ah! Neppure alla povera Giulia il triduo alla Madonna era giovato. "Mi faranno fare una pazzia!" L'aveva detto più volte, e l'aveva fatta! Vestìtasi in fretta e in furia, coi capelli in disordine, senz'essersi lavata la faccia, finendo di agganciarsi il busto della veste, Eugenia s'era precipitata ansiosamente in salotto. Patrizio teneva in mano il biglietto del sindaco. "Ci prega di comunicare la notizia a Ruggero e di trattenerlo qui. Se ne sono accorti soltanto poco fa. La credevano in camera, a letto ... Teme che Ruggero possa fare scandali e dar da ridere alla gente." "Oh, Dio!" ripeteva Eugenia. "E dove sono andati?" "Non si sa. Ho mandato Zuccaro a prendere informazioni. Tutto si accomoderà, senza dubbio. Intanto è un brutto momento. Condurrò Ruggero qui." "Sarà un gran colpo! Vuol tanto bene alla sorella!" "Finisci di vestirti. Io torno nell'ufficio per impedire che qualcuno commetta l'imprudenza ..." Ella restò un momento in piedi presso il tavolino, sbalordita, ridomandandosi internamente: "Dove sono andati?" Poi, l'idea di doversi trovare di lì a poco faccia a faccia con Ruggero, di essere costretta a rimanere, forse l'intera giornata, sola con lui, le produsse una acuta agitazione, un fremito di paura per l'inevitabile pericolo; ma reagì contro se stessa. Lavandosi, ravviandosi i capelli, si sentiva commovere da viva compassione, immaginando il dolore che egli avreb- be provato all'annunzio della triste notizia. Dovevano partecipargliela con cautela, fargliela indovinare piuttosto che dirgliela ... "È difficile. Povero giovane!" Pensò di far preparare il caffè. Sarebbe stato un pretesto. Tra un sorso e l'altro, Patrizio o lei, o tutti e due assieme, avrebbero parlato. E diede l'ordine a Dorata. Poi prese in mano un lavoro di uncinetto, assunse l'aria più tranquilla e più indifferente che potè, e sedette presso la finestra, in salotto, aspettando. "Eugenia deve comunicarle non so che cosa. È vero?" disse Patrizio un po' impacciato. "Segga, segga qui" ella soggiunse. E gli stese la mano. Ruggero li guardava perplesso, con un sorriso di curiosità sulle labbra, imbarazzato alquanto da quel fare misterioso. E la sua immaginazione fantasticava rapidissima per indovinare che potesse mai comunicargli Eugenia davanti al mari- to. Non doveva essere una cosa piacevole, lo deduceva dal contegno dell'Agente, dalla ruga che si contraeva su le so- pracciglia di lei. E si mise in guardia. Dorata portò le tazze col caffè. Eugenia si levò da sedere e ne offerse una a Ruggero. "Troppo zucchero!" E, ridendo, egli soggiunse: "Per indolcirmi la bocca prima di darmi l'amaro". Eugenia guardò Patrizio negli occhi, stupita, e si sforzò di sorridere. "Ai suoi ordini" disse Ruggero dopo aver sorbito lestamente il caffè, stendendo il braccio per posar la tazza nel vas- soio. "Nulla di grave" rispose Eugenia con voce malsicura. "Cioè ... un fatto doloroso, sì, ma che non produce mai cattive conseguenze ... Il matrimonio sana tutto." "Sana tutto" ripetè Patrizio dietro la pausa di sua moglie. "Sventataggine da innamorati! ... Biasimevole, chi lo nega? ma, in certe circostanze, scusabile. Lei, che è uomo e giovane, compatirà facilmente." Ruggero scattò dalla seggiola, pallido come un morto, con gli occhi smarriti, e fece per slanciarsi fuori del salotto. Patrizio lo trattenne. Eugenia, tremante, gli prese una mano, balbettando: "No, no! Resti qui. Dove vuole andare?" "Non dovevano farlo! Non dovevano! ... Ah Giulia! Giulia!" Mugolava, più che parlare, si strizzava le dita, pestava co' piedi, stralunava gli occhi: "Non dovevano farlo! È un'infamia ... Non dovevano!" Non riusciva a dir altro, tentando di svincolarsi. Voleva correre dietro ai fuggitivi, andare a sputare sulla faccia a Corrado Favi per quell'affronto a una famiglia che egli avrebbe dovuto rispettare come propria. E tornava a prendersela con Giulia: "Non la guarderò più in viso! Non è più mia sorella!" "Si calmi. Suo padre vuole che si trattenga qui fino a sera. La ricondurrò io stesso a casa. Tutto è bene quel che fini- sce bene." "Che disonore! No, non dovevano farlo!" rispondeva Ruggero, mentre l'Agente cercava di rimetterlo a sedere. "Ha ragione. Dice benissimo" soggiunse Eugenia commossa. "Oramai però bisogna pensare al rimedio." Ruggero si lasciò cascare su la seggiola. Dalla rabbia, faceva stridere i denti e singhiozzava, col capo fra le mani, ri- petendo: "Che disonore! ... Non dovevano farlo!" Patrizio s'aggirava attorno al tavolino aggiustando le tazze nel vassoio, stirando una piega del tappeto, come persona che non sappia che cosa fare o dire. Eugenia, in piedi dinanzi a Ruggero, cercava di scusare alla meglio l'amica. Ine- sperta, innamorata cieca, Giulia, con quella fuga, aveva voluto soltanto forzar la mano ai parenti; nè il Favi, poverino, poteva aver avuto cattive intenzioni. Buon giovane, a quel che ne dicevano, colto, modesto, con un bell'avvenire davanti a sè ... "La benedizione a piè dell'altare scancellerà ogni cosa, toglierà qualunque malinteso tra le due parentele. Una sorella è sempre sorella, anche quando commette uno sbaglio." Ruggero negava, scotendo la testa tra le mani, coi gomiti appoggiati sui ginocchi, inconsolabile. Successe un lungo intervallo di silenzio, durante il quale Patrizio, avvisato del ritorno di Zuccaro, uscì nel corridoio. "Mi fa male vederlo così afflitto" disse allora Eugenia, posandogli una mano su la spalla. "Ah, signora!" Ruggero alzò la testa, la guardò in faccia e, quasi per persuaderla meglio a dargli ragione, prese tra le sue la mano che gli era stata posata affettuosamente su la spalla. Eugenia non ebbe il coraggio di ritirarla, assai turbata da quel contatto che le pareva la mettesse, imprevedibile cir- costanza! proprio in balia di lui. E così, tra le pressioni delle mani di Ruggero, che s'avvicendavano ora lievi, ora forti, secondo la varia intensità del sentimento, stette ad ascoltare il rapido sfogo che gli sgorgava dalle labbra contro la sorel- la, contro il Favi, contro il padre, contro le altre sorelle, contro tutti. E rispondendo con lievi assensi del capo, con sguardi che dicevano: "Sì, è vero ... Mah! ... Mah! ..." lasciava che intanto il tepore, le scosse, le con- trazioni delle mani le insinuassero per la persona un senso novo d'intimità con quella viva partecipazione al dolore di lui, qualcosa che già somigliava a un abbandono di se medesima, per conforto, per consolazione, senza però conceder niente che ella dovesse rimproverarsi, o di cui pentirsi, dopo. "E come rideranno i nemici della nostra famiglia!" esclamò all'ultimo Ruggero. "Come ridono in questo momento!" "Non s'occupi di essi. Non rideranno più quando il matrimonio sarà compiuto." "Ah, signora! ... Ella non sa le basse invidie, le malignità dei partiti in questo miserabile paesetto!" Le stringeva più forte la mano, se la portava alla fronte con gesto desolato. Eugenia, paventando non se la portasse anche alle labbra, la ritirò lestamente; e si rimise a sedere di faccia a lui. "Buone nuove!" gridò Patrizio, rientrando. I fuggitivi erano a Rosolini, presso una famiglia amica dei Favi. Giulia vi si trovava ospitata come una figlia. Corra- do era già tornato a Marzallo. Le cose si mettevano bene per la dignità e per l'onore di tutti. Intanto, amici comuni s'in- gegnavano di appianare le difficoltà. Sopraggiunse il dottor Mola. "Ebbene? Che vuoi farci?" esclamò, vedendo il gesto furibondo di Ruggero. "Siamo tutti senza cervello a vent'anni. Ora sarà una sfilata di fughe; vedrete, signora mia! L'esempio è contagioso. Accade sempre così. Voi però, voi sopra tutti, dovete sforzarvi di stare tranquilla. Che viso, che occhi, Dio mio! ... Date qua. E che polso! Ecco una ricetti- na. Calmante. A cucchiaiate, d'ora in ora, lungo la giornata. Sono venuto a posta." "Grazie." "Niente. Lo faccio anche per egoismo, per non dovervi curare a lungo dopo. Non ci ho gusto a veder malata la gen- te, quantunque sia il mio mestiere. Brutto mestiere vivere a costo del male altrui! Tu" soggiunse rivolto a Ruggero "bevi un bel bicchiere d'acqua fresca; ti farà bene. E non ti muovere di qui; così ordina tuo padre. In queste circostanze, meno chiasso si fa e meglio è." Dopo desinare, Eugenia e Ruggero erano rimasti soli in salotto. Calmato, egli non ragionava più del triste avveni- mento; fumava una sigaretta, appoggiato col dorso alla finestra. Eugenia, seduta poco distante, aveva ripreso in mano il suo lavoro di uncinetto e lavorava a capo chino. Si sentiva addosso, insistenti nel silenzio, gli sguardi di lui e non sapeva come stornarli. Di tanto in tanto, portava le mani alla faccia; una vampata l'assaliva a ogni movimento di Ruggero, che pareva non riuscisse a star fermo e si appog- giava ora su l'una or su l'altra gamba, accavalciando i piedi, quasi impazientito di quel silenzio troppo prolungato. Eugenia avrebbe voluto prevenirlo e avviare la conversazione in maniera da impedire che si mettesse per uno sdruc- ciolo pericoloso; ma non trovava nulla. E provò una stretta al cuore, sentendo la voce di lui, che, esitante, diceva: "Si annoia. Ha ragione. La mia compagnia non è piacevole oggi." Ella fece un lieve atto di protesta col capo, e si chinò di nuovo sul lavoro, senza aggiunger parola. "Mi fa impazzire!" esclamò tutt'a un tratto Ruggero, buttando fuori dalla finestra, dietro le spalle, la sigaretta fumata a metà. "Non parli così!" balbettò Eugenia. E, atterrita, si volse istintivamente verso l'uscio. "Compatisce gli altri, con me! ..." continuò Ruggero con voce repressa. "Non s'accorge o finge di non accor- gersi di niente! ... Mi fa impazzire!" "Non parli così! Che cosa vuole?" ella domandò con angoscioso smarrimento. "So che non è felice; me n'ha parlato Giulia, tante volte!" "E se pure fosse vero?" "Mi dica una sola parola! ... Una sola!" "Zitto, per carità!" Eugenia s'era levata da sedere, col cuore in tumulto, con la mente turbata e un gran tremito per tutta la persona. Pen- tita delle inconsulte parole sfuggitele di bocca, s'irritava di non trovar la forza di interrompere con un gesto, con una ri- sposta recisa, quella tanto paventata dichiarazione sentita addensare nell'aria simile a un temporale, e che già scoppiava irresistibile nel peggior momento per lei. "No" riprese Ruggero, tentando di afferrarle una mano che Eugenia ritirò per portarla rapidamente alla fronte. "No, non è possibile che il suo cuore sia rimasto indifferente. È di ghiaccio? ... Una parola! Una sola parola! ... Non le chiedo altro. Se sapesse quanto l'amo! ... Fino al delirio! ... Lo sa, lo sa ... Finge di non saperlo. Ah! ... Mi disprezza dunque?" "Perché dovrei disprezzarlo? Che cosa vuole da me? Sono maritata. Non mi offenda, supponendo che io possa tradi- re mio marito. Gli voglio bene ..." "Non è vero!" All'energica affermazione, Eugenia sgranò gli occhi, quasi vedesse in quel punto il proprio cuore aperto come un li- bro davanti a Ruggero. Egli le si era accostato, supplicandola a mani giunte: "Una parola! ... Una sola parola!" E tornava a ripetere: "Non è vero. Giulia mi ha confidato tutto. Non è amata, non ama; io, io solo l'amo alla follia, da otto mesi, dal primo istante che la vidi!" "Perché me lo dice? ... Perché?" Si torceva le mani, crollava la testa, smaniando: "Non voglio saperlo! Non devo saperlo! ... Mi lasci in pace, per carità! Mi lasci in pace! ... o dirò tutto a mio marito!" Le parve d'aver trovato la parola giusta, e guardò in viso Ruggero. "Glielo dica, se ha coraggio!" egli rispose, arrestandosele davanti. "Potrà impedirmi di amarla? Glielo dica; così lei si leverà di torno la mia odiosa persona. Io debbo venire qui per forza; vederla tutti i giorni per forza, perché mio padre lo vuole, per le lezioni. Quando mio padre saprà, mi manderà via da Marzallo. E sarà liberata dalla persecuzione de' miei sguardi; non mi vedrà, non mi udrà più! Glielo dica. È una soluzione ... per lei! Io l'amerò lo stesso. È la pri- ma volta che amo. Ah! L'ha condotta qui la mia mala sorte. Ero tranquillo, felice. E, da otto mesi, soffro tormenti incre- dibili; vivo soltanto per lei, penso soltanto a lei, giorno e notte! ... E lei mi ha visto, mi vede soffrire, e non si è mai commossa, non si commuove! ... Che cuore ha?" "Oh, Dio! ... Zitto! Zitto!" S'era coperta la faccia con le mani, senza sapere quel che diceva e faceva. Le pareva di sognare a occhi aperti; udiva quasi le stesse parole udite tante volte nei sogni; e, come nei sogni, sentiva venir meno ogni forza, quantunque la sua volontà dicesse ora, come sempre: "No! No!". Dalla faccia portava le mani agli orecchi per non udire le fatali parole e non esserne ammaliata; e ripeteva: "Zitto! Zitto!" con doloroso accento di preghiera. Ruggero non l'ascoltava; tornava a insistere: "Una parola! Una parola! ... Che le costa? ... È dunque vero che non ha cuore? Senta, senta come tre- mo!" E le prendeva una mano. "Così non si finge! Così non si mentisce!" Eugenia tentò invano di svincolarsi. Ma appena si fu meglio impossessato della cara mano, egli cominciò a baciarla sempre più avidamente, come più la sentiva cedere, cedere sotto la pressione delle labbra, con deboli proteste: "No. Non è vero che mi vuol bene! ... Non è vero! ..." Le pareva che il suolo le mancasse sotto i piedi; e si aggrappava a lui, singhiozzante, invocando pietà con quel fil di voce: "Ah! ... Che male mi fa!" Lo respinse con sforzo improvviso e corse a rifugiarsi in un angolo. "Non s'avvicini! Grido; faccio accorrere gente. Per carità! ... Per carità!" tornava a supplicare. "È mai possibi- le? Come ha potuto credere? Mi prometta che non ricomincia. Sia bono! Sia bono!" "Sì, sì; farò tutto quel che mi ordina" disse Ruggero a bassa voce. "Purché io sappia se mi vuol bene o no ..." "Non devo." "No, no! Lo dice per ingannarmi. Glielo leggo negli occhi." "E allora? ... Sia bono! Gli voglio bene, ma non come crede lei. A che scopo? Non me ne riparli più. Sono d'altri. Sarei imperdonabile, se rispondessi diversamente. Non lo capisce? Deve capirlo." "Che m'importa d'altri? Che può importarne a lei, se non è amata? Una parola! Una parola soltanto! Sarà un segreto tra me e lei. Senta! Senta! ..." Lo aveva lasciato accostare a poco a poco, vinta dal fascino della voce, dalle insinuanti parole, dall'atteggiamento di calda preghiera con cui egli le si rivolgeva, incapace di fare il minimo movimento per sfuggirgli. E quando le fu vicino, gli stese le mani, invocando pietà col gesto, con lo sguardo, gesto e sguardo d'amore desolato, di passione irrompente, quasi di resa. "Senta! Senta!" ripetè Ruggero. Questa volta però le loro mani, incontràtesi, si strinsero forte. Vedendola mancare dalla violenta commozione, egli l'attirò a sè, la premè al petto e la baciò su la fronte e su le lab- bra, ripetutamente, intanto ch'ella, inerte, gli si appesiva addosso, diaccia e pallida, con un fioco lamento, tra' singulti. Ruggero ebbe paura. La sollevò tra le braccia, la mise a sedere, sorreggendola, quasi in ginocchio dinanzi a lei. Nel turbamento la chiamava: "Donna Eugenia! ... Donna Eugenia!" E le strofinava le mani per farla rinvenire, spaventato dall'idea che Patrizio, sopraggiungendo, potesse trovarla in quello stato. "Quanto male mi ha fatto! ..." Queste parole, uscite dalla bocca di Eugenia come un gemito di moribonda, lo rincorarono alquanto. "Mi perdoni!" supplicò umilmente. Eugenia aperse gli occhi. Credeva di destarsi da un sonno profondo, e fissava Ruggero, per ricordarsi bene quel che doveva essere accaduto. E, intanto che andava riprendendo coscienza, la indignazione per la sua debolezza le increspava le sopracciglia, le con- traeva le labbra. Poi svincolando con uno strappo le mani da quelle di Ruggero, si levò subitamente da sedere e lo re- spinse con gesto vibrato, muta, ansante. "Mi perdoni!" egli tornava a pregare. "Purché non ricominci!" rispose severa. E mutando accento, soggiunse: "Per carità! ... Se mi vuol bene, mi la- sci in pace, si scordi di me. Non posso amarlo. Non devo amarlo. Lei è giovane e libero ... Io non sono più libera ... Mi lasci in pace! Trovi una scusa, non venga più qui ... Non si lusinghi ... No! ... No! ... Abbia stima di me. Abbia pietà pure! Sono malata ... Non concorra a farmi peggiorare. Le voglio bene anch'io, ma non come intende lei. Si scordi di me. Si scordi di me! ..." "Impossibile! Scordarla, ora? Ora?" la interruppe Ruggero. "Si fidi. Non lo saprà nessuno, mai! Nessuno!" "No! No!" gemeva Eugenia. Ma l'accento, ma gli sguardi, pur troppo, dicevano sì.

Racconti 1

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Capuana, Luigi 2 occorrenze
  • 1877
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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E portava alla faccia sbiancata e macilente le scarne mani, scotendo desolatamente il capo, finché non veniva presa da un colpo di tosse che le facea perdere il respiro e la lasciava abbattuta, sfinita, tra i guanciali che la sorreggevano da ogni lato. Lorenzo, ginocchioni, piú pallido di lei, tentava di far le ingoiare un cucchiaio di calmante: - Per amor mio, per amore di te stessa! Vuoi proprio ucciderti con questi eccessi? - Vedendoselo ai piedi; sentendo quella voce piena di angoscia e che le rimescolava il cuore, ella si rizzava, e lo guardava, lo guardava, vinta da pietà di donna innamorata, capace di qualunque sacrificio. - Perdonami, - gli diceva, - perdonami! ... No, non toccarmi, non baciarmi. Sono appestata; allontanati! ... Tu devi vivere ... Vivi. Lasciami morire qui, abbandonata. Mi basterà vederti, sentirti parlare ... Dimmi però che mi vuoi bene ancora, come prima. Proprio come prima? ... - Anche piú! - Allora ... giurami che quando sarò morta tu non amerai nessun'altra donna. - Te lo giuro. - ... Che seguiterai a dormire in questa camera, in quel letto, con quella stessa biancheria ... - Te lo giuro! - Ah, se tu mentissi! ... Vieni, fatti piú accosto ... Dammi un bacio, uno solo! Sono diventata brutta, lo so senz'essermi vista allo specchio ... Ma ti voglio tanto bene! Tu sei mio, è vero, Lorenzo? - Tutto tuo, anima e corpo. - Ripetilo, ripetilo. - Tutto tuo, anima e corpo. - Grazie. Come mi fanno bene queste parole! ... Ah, se potessi risanare! Ah, se potessi almeno continuare a vivere in questo stato, a costo di penare il doppio, venti, cento volte piú! - Guarirai; ogni speranza non è perduta. Senza questi terrori, senza questi eccessi ... - Sarò buona, starò tranquilla; vedrai. Ti ubbidirò come una cagnolina ... Lasciati baciare ... Non ti faccio ribrezzo, è vero? No. Stringimi forte al cuore ... - Queste tregue duravano appena un giorno, qualche volta soltanto poche ore; poi la fissazione la riprendeva. Fra il bianco delle pareti, alla luce del giorno che penetrava dalle ampie vetrate con tutti gli splendori del maggio, in quel silenzio di ore ed ore, interrotto soltanto dal sommesso rammarichio di lei o dagli schianti di tosse che, di tratto in tratto, pareva dovessero soffocarla; quella figura squallida, da gli occhi infossati e diventati piú grandi nel volto rimpicciolito, dai capelli spettinati c he conservavano tuttavia i loro bagliori di oro filato, affondata fra i guanciali nella poltrona, perché a letto non ci voleva piú stare, oh!, era spettacolo pietosissimo. Lorenzo non doveva muoversi dalla camera dove ella non voleva vedere altri visi, neppure quello del suocero. Già invecchiato, quasi tutto incanutito durante quei terribili mesi, il povero Lorenzo non si riconosceva piú. Ed ella se lo divorava, silenziosa, con sguardi lampeggianti di fascino maligno. Voleva portarselo via con sé; voleva rapirlo a quell'altra che forse attendeva impaziente di gettarglisi tra le braccia, piena di salute, bella, amante e trionfante, tale da scancellargli dalla memoria ogni trac cia di lei. No, colei non lo avrebbe avuto. Non lo avrebbe avuto! Se ne sarebbero andati assieme, abbracciati nella morte come nella vita. Suo era, e colei non lo avrebbe avuto, no, no! E per non lasciarselo sfuggire, per paura che il male non gli si fosse attaccato abbastanza, tornava a baciarlo, a ribaciarlo, su la bocca, su le gote, sul collo, sugli occhi, sui capelli; talvolta lo mordeva, con furore di belva ... - Ah! ... Ti ho fatto male? ... - E subito lo baciava dove lo aveva morso, per attutirgli il dolore. Intanto egli doveva asciugarsi il viso coi fazzoletti tutti impregnati del sudore di lei; intanto doveva bere nello stesso bicchiere, dal lato dov'ella avea accostato le labbra ... No; non volea lasciare la sua cara preda a quell'altra! Infatti Lorenzo che davvero si sentiva morire a poco a poco, ora le si avvicinava con indefinito terrore superstizioso, pensando - I miei presentimenti, ecco, si avverano! - L'attesa della catastrofe, inevitabile, lo teneva invasato. E il giorno ch'ella gli disse: - Mi sento meglio - Lorenzo le prestò fede, tanto aveva bisogno d'illudersi. - Mi sento bene, quasi guarita improvvisamente. È effetto di questa bella giornata? Di questo sole? - Ridiventata buona, gentile, affettuosa come nei primi giorni, scherzava anche intorno alla sua malattia: - Alla fine vinco io ...? Doveva essere cosí! Ho una gran forza dalla mia parte: l'amore! - Ne hai un'altra: la gioventú -. E ne risero insieme. Quel giorno Concettina volle rivedere il povero don Giacomo, e gli chiese perdono di essere stata cattiva con lui: - Quando si è malati non si ha coscienza di quel che si fa. Oggi che sto meglio, vede? - Don Giacomo però non fu ingannato dall'apparenza: - Ahimè! La lucerna dà gli ultimi guizzi. Bisogna chiamare il prete, se pur si fa a tempo! - A un tratto, ella si sentí mancare; il debole filo che la teneva attaccata alla vita stava già per spezzarsi. Si abbandonò su la poltrona, guardando Lorenzo con sguardi d'invidia feroce: - Egli restava? ... Non andava via con lei? - Gli accennò, col capo: - Senti: spingi la poltrona verso il terrazzino; apri la imposta; voglio vedere la città e la campagna, per l'ultima volta ... Affrettati ... Affrettati ... - Lorenzo ubbidí, macchinalmente. - Guarda quel campanile ... - Lorenzo guardava, sbalordito. - Ricordati che lo hai veduto l'ultima volta con me ... E quelle colline ... quegli alberi! ... Ricordati, ricordati ... che prima di morire li abbiamo guardati insieme ... e che io ti ho detto: "Guarda, guarda! ..." E quei pini di Santa Maria di Gesú ... lí a manca ... dove spesso siamo andati a passeggiare, ricordati! ... Ricordati! ... - Lorenzo, trasognato, rispondeva di sí con la voce e col capo. Quel campanile, quelle colline, quegli alberi, quei pini di Santa Maria di Gesú se li sentiva imprimere negli occhi quasi per una malía che lo invadeva ... Non avrebbe piú veduto altro che quelli! ... Sempre! ... Sempre! ... Sempre! ... E Concettina, attiratolo al petto con sforzo supremo, cercando le labbra di lui che la reggeva per la vita: - Muori con me! ... Muori con me! ... - balbettava. Roma, novembre 1882@. 1882.

Prima e dopo della legale separazione da mio marito, che io dovetti domandare, sono stata spesso circondata da tentazioni superiori alle deboli forze di una donna; e benché in questo momento sia proprio sicura di non esser creduta, soggiungerò che son uscita tremendamente abbattuta e straziata sí da quelle lotte del cuore, ma vittoriosa; anche quando mi sarei facilmente rassegnata a rimaner vinta! ... Non glielo dico né per orgoglio, né per artifizio di donna. - Oh le credo! - risposi. - Sarò franca; è mio costume. E comincerò dal confessarle che non sono qui venuta per mera cortesia, o per cedere soltanto a un impulso di curiosità femminile. C'è un altro sentimento che io non so come chiamare, (è cosí incerto e confuso!) il quale ha lusingato il mio spirito e mi ha spinto a porgere facile orecchio al suo invito. Ho capito appena qui giunta, e gliel'ho detto subito, che ho fatto male a venire. - Invece ha fatto benissimo! - Le sue parole dell'altra volta, il persistere a ricordarsi di me dopo tanti giorni, le sue lettere che mi rivelano un animo gentile e troppo aperto a dei sentimenti che non sono piú di moda, hanno naturalmente fatto impressione nel mio cuore. Piú che ogni altra donna e per la condizione in cui mi trovo io sento un bisogno di continui conforti. Illusioni o realtà, non mi confondo a discerner bene quello che mi si presenta a consolarmi. L'unica realtà che io cerchi è la mia consolazione, la soddisfazione di un bisogno ineffabile che mi agita e mi fa soffrire; e spesso non è davvero l'illusione quella che sappia meno soddisfarlo. - Come son lieto - le dissi - di sentirla parlare a questo modo! - Non si imagini nulla che possa secondare qualche suo desiderio; si troverebbe ingannato. - Le giuro - risposi (e in quel momento ero sincero) - che i miei desideri, le mie speranze non vanno piú in là di quello che ora mi si concede. - Oh! Si dice sempre cosí! - Avrà la conferma del fatto. - Non è un uomo lei? - Ma un po' diverso dagli altri. - Ecco, dunque: ho assecondato il suo desiderio, son venuta, le ho detto forse piú di quello che non avrei dovuto dirle; non rimane che separarci da buoni amici e ... dimenticarci. - Perché dimenticarci? - Perché sarebbe meglio. Non le pare? - Ma se fra noi due non può, come lei dice, esservi luogo per l'amore, potrebbesi invece trovar un posto all'amicizia. - L'amicizia tra un uomo ed una donna si riduce ad un amore che ha vergogna di mostrarsi a viso aperto, ed io ho in uggia gli equivoci. - Cediamo dunque al destino! - dissi fermandomi. E presi tra le mie le sue mani e la guardai fisso nelle pupille, con le labbra atteggiate a un sorriso di speranza ed esprimendo cogli occhi un'intensa preghiera. - Ed è cosí ch'ella è diverso dagli altri! - esclamò tentennando amaramente la testa e alzando gli sguardi al cielo. - Interpreta male le mie intenzioni! - Interpreto giusto! - E riprese il mio braccio. - Non ci vedremo piú - mi disse dopo con accento commosso. - Ella tornerà alle tranquille occupazioni della sua vita; io ... alle noie ed alle lotte della mia. Ciò che mi fa rifuggire da un legame, creda, è un puro calcolo. Se io ora cedessi alle sue premure, se credessi alle sue proteste, non farei che prepararmi un disinganno crudele. Un mese, due mesi, sei mesi, un anno! E poi tutto sarebbe finito, e l'apparizione celeste diventerebbe un fantasma intollerabile. Non vi è peggiore umiliazione pel nostro amor proprio: è una ferita che non sana. Ho ragionato sempre cosí quando il cuore ha tentato di trascinarmi dietro le seducenti appariscenze di una felicità che mi si faceva brillare vagamente sotto gli occhi; e il ragionamento mi ha salvato. Parlo schietta: non mi faccio piú virtuosa di quel che sono. Forse non ho ancora avuto occasione di provare una di quelle passioni che non dan campo a ragionare, e quando verrà, gliel'assicuro, non me ne lagnerò; ma intanto la sfuggo. Bisogna mi colga all'improvviso, alla sprovveduta! - Ma se tutte le donne la pensassero come lei - interruppi scherzando - che sarebbe del mondo? - Ciò che salva il mondo - rispose - è che si predica bene e si razzola male. Io stessa, forse, non isfoggio in questo momento tante belle teoriche che per giustificarmi dell'inconseguenza di esser qui venuta. - Senta - dissi; - lei ragiona troppo! Ami invece! - E strinsi il suo braccio col mio. Restò a capo chino, come assorta improvvisamente in una riflessione penosa. - Ami! - le ripetei all'orecchio. - No! - disse, sciogliendosi dal mio braccio e passandosi le mani sulla fronte. Si era fatto tardi senza che ne fossimo accorti. Il viale era deserto; i lampioni brillavano qua e là fra i tronchi e i rami degli alberi come pupille investigatrici di ciò che può avvenire nelle ombre notturne; e il rumore delle acque del canale daccanto faceva meglio avvertire la solitudine e il silenzio onde eravamo circondati. Di tanto in tanto il sordo strepito delle carrozze e degli omnibus, che si accresceva o si affievoliva secondo l'avvicinarsi o lo scostarsi accelerato, rammentava che a cento pass i di distanza le vie della città formicolavano ancora di gente. - Abbia l'amabilità di accompagnarmi un pochino - ella mi disse avviandosi verso il Naviglio. - Come passano presto le ore! - Mi promette che ci rivedremo? - feci prendendole una mano. - Non insista - rispose. - Rimanga colle impressioni che ha ricevuto finora. Forse, conoscendomi meglio, mi troverebbe molto diversa da quel che si è imaginato: e lo stesso probabilmente sarebbe per me. Ci scapiteremo tutti e due. - Rivediamoci! - ripetei. - Sento che l'amo di piú dopo di averla conosciuta da vicino: l'istinto del cuore non mi ha ingannato. - Abbiamo scherzato col fuoco - ella disse ridendo: - non ripetiamo lo scherzo -. Per un buon tratto rifacemmo la stessa via del giorno in cui le andai dietro la prima volta. L'incertezza ov'ella mi teneva era quasi piú dolce del sí che avrei voluto strapparle. - Addio, signore - disse fermandosi: - mi lasci ora andar sola. - Ubbidisco - risposi, - ma però non mi tolga affatto la speranza. - Addio! - replicò sorridendo. E fino alla sera dopo io non vissi che di quel sorriso. Era davvero divisa dal marito, e non per sua colpa? Era davvero rimasta sempre vittoriosa di tutte le seduzioni che dovevano, cosí bella e sola, circondarla da ogni parte? Era stata proprio sincera parlando a quel modo? Queste interrogazioni mi si affacciavano ripetutamente allo spirito, ma non volevo fermarmici su per trovar loro una risposta. Ho sempre amato un che d'indefinito, di digradato, di incerto nei sentimenti e nelle cose, e son riuscito per questo poco adatto agli affari. Possiamo noi forse, colle nostre indagini, toccare proprio il fondo della realtà? Non avviene, nel passaggio dai sensi allo spirito, un alterarsi, un modificarsi, un trasformarsi dell'impressione del di fuori per cui spesso vediamo non già quello che è, ma quello che ci pare, il contrario? Dall'altra parte in ciò che io provavo riguardo a lei non c'era evidentemente nulla di preciso e di determinato. Se ella non avesse avuto il marito? Se fosse stata una donna che non trovavasi piú alla sua prima relazione? Se, illuso da una vernice di gentilezza, di cultura e di eleganza io non avessi capito quello che altri avrebbe compreso di primo acchito, cioè ch'ella era una delle solite pericolose femmes de proie, come le dicono i francesi, nelle quali un'arte sopraffina simula le piú squisite, le piú pudiche ritrosie della virtú per irretire gli allocchi? Che cosa sarebbe avvenuto allora del mio povero cuore, delle fervide espansioni di un amore che viveva di rugiada, tra cielo e terra, quantunque avesse i suoi quarti d'ora nei quali sarebbe rimasto molto volentieri sulla terra? Ma io mi seccavo di tante supposizioni, di tante indagini, e lasciavo correre. Amavo! Mi bastava. Amavo infatti da amatore, da dilettante. Succedeva da qualche giorno dentro di me uno strano e delizioso sdoppiamento dello spirito; metà di esso subiva gli incanti della passione, metà stava ad osservare, e spesso chi godeva di piú era la metà che faceva da spettatrice tranquilla. Ciò intanto non impediva la spontaneità degli slanci e delle esaltazioni dell'altra. Forse vi era un che di artificiale in tutto cotesto rimescolarsi di sentimenti. Un lavorio della imaginazione, combinando alla sua guisa e sviluppando sensazioni, impressioni, sentimenti vecchi e dimenticati, ricostruiva di bel nuovo il mondo fresco e sorridente della giovinezza e mi dava un'illusione simile a quella del miraggio del deserto, che si sposta a seconda del punto di vista del viaggiatore. Ora io vedevo innanzi a me quel che già mi sembrava fosse rimasto alle mie spalle. E poi, che giovava preoccuparsi di quanto poteva avvenire? Tanto, non era in mia mano l'impedire che avvenisse. Volevo quindi andar spensieratamente incontro all'ignoto; era un viaggio divertentissimo benché pieno di pericoli. Maritata o no, donna di mondo o femme de proie, vi era infine in lei una cosa innegabile e indiscutibile: la bellezza. Quando la natura si perde tutt'intiera nella creazione di un corpo perfetto (e il suo era tale) non ha mica tempo di confondersi molto col resto. Una linea di quel corpo equivale benissimo al cuore; un'armonia di quelle forme equivale senz'altro allo spirito; una bella e forte sensazione non la cede in nulla al piú bello e piú generoso dei sentimenti. Pensavo tutte queste cose alla rinfusa e non mi fermavo a lungo e in particolare su nessuna. Avevo ancora nell'orecchio l'armonia della sua voce, provavo ancora il blando tepore della sua mano e del suo braccio; e a traverso i globi azzurri del fumo della mia sigaretta di lathachié scorgevo intanto qualcosa di luminoso, di sorridente, che poteva anche esser l'effetto del tabacco orientale voluttuosamente aspirato, e non era per questo meno amore e meno ideale di qualsivogliano amori e ideali di piú alta pro venienza. Per due sere di seguito non venne; le scrissi e non rispose. La terza sera, quando già cominciavo a disperare di rivederla, me la sentii alle spalle, col suo passo lesto e cadenzato. Piovigginava. Le gocce dell'acquerugiola facevano un rumore gradevole tra le foglie degli ippocastani. Il sole, prossimo a tramontare, dorava di un colore rosso ranciato le frondi degli alberi che, trasparenti, lucidissime, stillanti, parevano proprio di smeraldo. Per l'aria rinfrescata errava diffuso l'odor speciale che si lev a in primavera, dal terreno inzuppato dalla pioggia. - Mi aspettava? - ella disse, mostrandosi sorpresa di trovarmi. - Sicuramente - risposi stringendole forte la mano. - Come è buono! - La pioggia aumenta - soggiunsi offrendole il braccio; - verrà giú un rovescione. Andiamo a ripararci nel Caffè dei Giardini; saremo soli, solissimi; potremo ragionare a bell'agio. - Abbiamo ben poco da dirci! - ella fece, chiudendo il suo ombrello per prendere il mio braccio e reggere con l'altra mano il lungo strascico della veste. Nel Caffè dei Giardini c'era soltanto un vecchietto. Avrei voluto, entrandovi insieme a lei, far rivolgere almeno un centinaio di occhi su noi; avrei voluto sentire quel mormorio di ammirazione e vedere quei sorrisi di piacere che l'aspetto di una bellissima donna suol sempre produrre al suo primo apparire in un salone. Oramai quella donna in qualche modo mi apparteneva, e credevo di avere un po' il diritto di insuperbirmi della sua bellezza come di qualcosa di mio. La conversazione fu piú sentimentale, piú vaporosa dell'altra volta. Ella era contenta di vedermi già savio. Finché duravo cosí, quelle scappatelle da giovani innamorati potevano continuare. Come non appagarsi di una felicità modesta, soave, che trovava nella sua stessa natura una guarentigia di durata? Io sorridevo, dicevo di sí; ma gli leggevo nell'intonazione della voce e negli occhi qualcosa di simile a quello che sentivo accadere nel mio interno, e raffrenavo la gioia. Non avrei saputo dire perché, ma mi sembrava che le parole della nostra conversazione esprimessero quel giorno preciso l'opposto di quello che valevano nel loro ordinario significato. Piú intendevamo dirizzare le ali per l'alto, e piú mi pareva si radesse terra terra. Parlando di unione di cuori, mi sembrava che di accordo volessimo sottintendere; corpi; parlando di sentimenti ineffabili, eterni, mi sembrava evidentemente parlare di sensazioni ineffabili sí, ma fugaci, alle quali ci pareva mill'anni non pot erci inaspettatamente abbandonare, senza dirci una parola, come trascinati nostro malgrado. Che pause eloquentissime! Che sorrisi accompagnati da tentennamenti espressivi del capo, quasi per dire: guarda un po' come si va di carriera! E intanto ella parlava di mille piccole cose, del tempo, della pioggia la quale non voleva piú smettere, della sorella con cui viveva e dei suoi vasi di fiori; ed io progettavo una passeggiata alla Certosa di Garignano e a un mio villino in quei pressi; ed ella rispondeva di no, specie pel villino di cui, diceva, era molto giusto diffidare. Voleva che il nostro piccolo sogno di amore non si allontanasse mai e poi mai dal ristretto orizzonte dei viali dei Boschetti e dei Giardini Pubblici. Fiore delicatino, sarebbe subito appassito a trapiantarlo in terreno e sotto clima diversi. E poi, m'imaginavo forse che quel sogno dovesse durare molto a lungo? Oibò! Mi sarei presto annoiato, stancato; già ella mi secondava unicamente per provarmi che aveva ragione a diffidare di piú larghe profferte e di dichiarazioni piú solenni. - Che brutta cosa è la vita! - conchiudeva sospirando. Ma un sorriso gli lampeggiava a un tratto sulle labbra e negli occhi, e pareva dicesse all'opposto: - Com'è bella cosí la vita! Ed io internamente esclamavo di conserva: - Divina! Divina!- Da quel giorno in poi ci rivedemmo regolarmente con un'assiduità che non diminuiva affatto il piacere di ogni nuova passeggiata. Parlavamo meno che mai di qualunque progetto sul nostro avvenire. Ma annoiarci? Stancarci? Non se ne scorgeva l'ombra di un indizio. E cosí la Cecilia diventava di grado in grado meno diffidente, piú espansiva, e le nostre passeggiate si prolungavano sui bastioni di Porta Nuova fino a Porta Garibaldi. Una volta rientrammo tardi per la via Principe Umberto e per la via Manzoni. La serata era stata dolce; un magnifico lume di luna faceva impallidire le fiammelle del gas; la gente andava attorno allegra, chiassosa, contenta di godersi, dopo molti giorni di pioggia, una vera serata primaverile. Avevamo tanto ciarlato e tanto riso anche noi come due veri ragazzi! Ed ora camminavamo muti, raccolti, governati intimamente da una tristezza soave e tenevamo, quasi senza avvedercene, la mano dell'una stretta in quella dell'altro con pressione tenera e casta, da nuovi sposini. Passando parecchie volte per la via Manzoni, innanzi alla casa ove abitavo, io le avevo sempre indicato con piacere i terrazzini delle mie stanze. - Son belle? - mi aveva chiesto una volta. - Perché non viene a vederle? - le avevo subito risposto. Ma ella aveva affrettato il passo, dicendo di no. Quella sera, come al solito, ci fermammo innanzi al portone e con un semplice accenno degli occhi le chiesi, per grazia, di salir su. Esitò sospettosa e la rassicurai collo sguardo. Forse, se avessi pronunciato una parola, ella non si sarebbe indotta a salire; ma quel linguaggio intimo, intenso, che pareva non potesse celare una menzogna perché veniva diritto dal cuore senza l'intermediario della voce, corrispondeva tanto bene in quel punto allo stato dell'animo nostro, ch'ella sorrise languidamente quasi le fosse impossibile opporre della resistenza e fece il primo passo per entrare. Montammo le scale lenti, a capo chino. Dal suo respiro indovinavo che il cuore doveva batterle con l'uguale violenza del mio. Come siamo sciocchi e ridicoli in certi momenti della vita! Entrò guardando attorno, quasi spaurita di aver osato venir su. Nel salotto non volle sedersi, e rimase in piedi accanto al tavolo di mezzo, con una mano appoggiata sur un album e tenendo l'altra sospesa come preparata a respingere un assalto. Io accendevo tutti i lumi e volevo perfino accendere la lumiera; il salotto doveva risplendere a festa pel gran ricevimento della serata. Poi me le appressai, battendo le mani dalla gioia, e le chiesi che gliene sembrava. - Bello! - esclamò un po' distratta. - Visiti ora le altre stanze - le dissi porgendole il braccio. - No - rispose - mi basta: andiamo via. - Cosí presto? - È già tardi. - Si segga qui un momentino - feci, tentando di prenderla per la mano onde attirarla presso una poltrona. - No! no! - esclamò con voce soffocata, incrociando le dita e mettendo tra lei e me il tavolo sovraccarico di gingilli chinesi. Quest'atto di paura mi fece capire che significasse lo stordimento e l'affluire del sangue al capo che provavo in quell'istante. Dovevano certamente lampeggiarmi negli occhi le mille cupidigie che l'influenza del ristretto ambiente del salotto mi aveva all'improvviso destate. Ebbi vergogna ch'ella sospettasse potessi io usarle violenza in casa mia; e benché mi passasse un istante per la mente l'idea che quella paura poteva anch'essere uno dei tanti gestri del pudor femminile i quali vogliono ordinariamente esser intesi all'incontrario, pure preferii di parer un po' semplice, e con un accento da cui traspariva l'emozione: - Cecilia! - dissi - non dimentichi di trovarsi in casa d'un gentiluomo! - Grazie - rispose stendendomi la mano e stringendo con riconoscenza la mia. - Ma ... - soggiunse - la prego, andiamo fuori! La precessi col lume. Ella non parve pienamente rassicurata che quando fu sul pianerottolo. Lí riprese il suo sorriso, la sua vivacità e scese le scale lesta come un augellino che saltelli fra i rami. Non aveva mentito. Scopersi per caso che un mio amico conosceva il marito, lei, la sua famiglia e lo interrogai destramente. Era di buona nascita e aveva ricevuto un'educazione raffinata. Indotti da improvvisi rovesci di fortuna, i parenti la sposarono a un ricco piú vecchio di lei, un uomo brutale e vizioso con cui poté stare insieme appena sei mesi. Morti i genitori, conviveva al presente con la sorella, vedova di un impiegato governativo. Il marito, intrigato in brutti affari di speculazioni equivoche, e ra fuggito in America; ma libera e senza lo spauracchio di una vendetta minacciatale spesso da quell'uomo brutale, ella non aveva mai dato nulla a ridire sulla sua condotta. - Però - conchiuse l'amico - non sarei niente sorpreso di sentire un giorno o l'altro che sia anch'essa caduta: ha troppo cuore quella donna ed ha troppo sofferto; e la fortezza del carattere non sempre riesce a scacciar via le tentazioni di fuori e quelle di dentro, che son le piú pericolose perché ne diffidiamo assai meno -. Di primo lancio, apprendendo che non aveva mentito, provai una grande allegrezza; indi a poco a poco cominciai a riflettere sulla serietà di quel che stavo per fare. Ma quando la rividi e mi parve che lo splendore della sua bellezza fosse quasi offuscato da un raggiare mite e soave proveniente dalla bontà affettuosa e rassegnata scoperta nel suo carattere, sentii divamparmi piú forte nel petto il fuoco dell'amore destatovi da lei. Fui piú dimesso, piú gentile, piú premuroso; la trattavo, senza volerlo, come una di quelle convalescenti che hanno bisogno di cure minute e continue, da prevenirne i desideri, da indovinarne i capricci; e rimanevo ammaliato anch'io dall'incanto che scaturiva da questa nuova fase della nostra relazione. Ella n'era commossa e nello stesso tempo atterrita. Ne capiva meglio di me le conseguenze e avrebbe voluto evitarle; ma si sentiva oramai raggirata da un vortice che la trascinava rapidamente via e che l'avr ebbe inghiottita. Avevamo fatto dei giardini pubblici il nostro nido: non ci passava per mente di allontanarci di lí. Vi eran dei viali che ci sembravano esclusivamente nostri, quasi parte di noi stessi: delle piante, delle aiuole, dei punti di veduta che, ammirati le cento volte, entravano come elementi necessari nella vita spirituale dei nostri cuori, e piú non sapevamo come poterne far di meno. Una sera che provammo ad andar diritto, fuori Porta Venezia, lungo il viale di Monza, non riuscivamo a raccapezzarci; provavamo q ualcosa che c'impacciava; non ci sentivamo piú intimi come nei giardini; e quando ci persuademmo di tornare indietro e trovammo chiusi i cancelli, girammo silenziosi attorno ad essi fermandoci ad osservare dietro le sbarre di ferro. Le ombre della notte erano dense; gli alberi stormivano leggermente; i zampilli tacevano; di tratto in tratto mostravasi tra le cime degli alberi qualche strappo di oscurità e un po' di cielo stellato faceva risaltare sur un fondo scuro e diafano i neri frastagli delle frondi. Avevamo il cuore oppresso; ci agitava un vago rimorso; da quel silenzio, da quell'ombre partivasi un misterioso pispiglio di rimproveri: chi sa se domani vi avremmo trovato nuovamente le nostre sensazioni di tutti i giorni! E ci fermavamo e ci stringevamo l'una al braccio dell'altro, quasi per rimpiangere con quella stretta una felicità perduta; ed io ricercavo la sua mano ed ella me l'abbandonava come suol farsi nei momenti di grave dolore. - Eccoci scacciati dal nostro piccolo paradiso terrestre! - disse la Cecilia con voce che tremava delle strane emozioni di quel momento. - Oh mia Eva! - risposi, pronunciando quest'esclamazione con una serietà e con uno slancio che in altra occasione mi sarebbero parsi ridicoli. E le girai un braccio attorno il busto, e stringendomela al cuore le impressi ripetutamente i primi baci sulla fronte. Ella taceva come venuta meno, agitata per tutto il corpo da un ineffabile fremito. Gustavamo una quasi fisica voluttà nell'indugiarci con arte inconscia un momento che tutti e due eravamo certi dovesse finalmente arrivare. La Cecilia diventava sempre piú triste: mi guardava con quella occhiate lunghe e piene di tenerezza cosí speciali alla donna, ove si leggeva: - Tu mi farai del male, ma per questo non posso né voglio amarti di meno! - Io evitavo ogni parola, ogni frase che potesse sembrare un accenno a quel che stava per accadere, e lasciavo che il caso, una piccola circostanza imprevista assumesse l'ufficio della gocciolina che fa traboccare la tazza già ricolma fino agli orli. Ma, come al solito, la donna fu piú schietta e nello stesso tempo piú coraggiosa. Un giorno che io parlavo dell'eternità del nostro amore: - T'inganni - mi disse; - esso non fu mai cosí prossimo a finire come in questi momenti che tu ti compiaci di crederlo eterno! - Perché mai? - chiesi stupito di sentirla parlare a quel modo. - Perché la prova - rispose mestamente - sarà infallibile e breve ... Ma è meglio non pensarci! - No, non può essere! - dissi. - Credi dunque che io mentisca? - È il cuore - replicò - è la natura che verrà meno! Siamo entrambi in buona fede. - Vedrai! - Oh! Vedrai! - Quel giorno i giardini erano tuttavia illuminati dal bel sole dei primi del giugno. Brillava, cantava attorno una gran festa di luce, di colori, di sussurri che faceva bollire il sangue ed eccitava le menti. In che maniera ci trovammo, da lí a poco, a salire le scale di casa mia? Non lo saprei dire davvero. Appena passato l'uscio, la strinsi tra le braccia e la baciai sulla bocca, esclamando: - È l'investitura del tuo regno! - Sorrise triste, incerta, ma non rispose nulla. Entrò in salotto con un incredibile abbattimento sul viso: le pupille nuotavano nelle lagrime che non si decidevano a venir giú. Io ero piú commosso di lei, ma in un'altra guisa. Le stavo attorno pregandola cogli sguardi di non mostrarsi cosí, e intanto l'aiutavo a cavarsi i guanti e il cappello. - Che sbaglio stiamo per fare - esclamò. E nello stesso punto abbandonossi singhiozzando tra le mie braccia e mi coperse di baci Il giorno appresso le mie stanze mi parvero un giardino improvvisamente fiorito sotto la bacchetta di una fata. Ella andava, veniva, sorrideva, mi interrogava, mi faceva delle proposte per disporre meglio certi mobili, mi parlava di tanti piccoli nulla che pel suo genio di donna avevano una grande importanza; ed io non sapevo persuadermi fosse quello il primo giorno ch'ella stesse con me ed abitasse la mia casa. C'era dappertutto un nuovo colorito vivace, chiassoso che mi abbagliava: c'era un profumo soavis simo che deliziava le narici e penetrava fino all'anima; c'era una musica paradisiaca, come di un'orchestra invisibile, destata dal voluttuoso fruscio della sua veste di seta: mi pareva strano, quasi impossibile che tutte queste cose non ci fossero mai state fino allora! Presi per mano, andavamo in salotto senza sapere perché; tornavamo addietro girando per le altre stanze, fermandoci innanzi un quadro, una stampa, un gingillo di porcellana, cosí spensierati, cosí contenti, cosí felici da non metter fuori nemmeno un'esclamazione per dircelo a vicenda con un semplice monosillabo. Parlavano piú efficacemente, piú profondamente gli sguardi; e quando essi non bastavano aiutavano i baci. Che baci, Signore Iddio! Che baci! La sua stanza da letto fu adornata come un piccolo santuario dell'amore: tutta cortine candidissime, tutta ombre e frescura, pareva, entrando, prendervi un bagno vivificante di giovinezza e di felicità. Come ero superbo di quel santuario cosí elegante e civettuolo, intorno al quale avevo speso tante cure meticolose quasi si fosse trattato di un'opera d'arte! E come ero beato di vederla il mattino uscire di lí avvolta nel suo bianco abbigliamento da toeletta, con la cuffiettina da notte che ratteneva a stent o i capelli disciolti, coi nastri di essa che le svolazzavano per le spalle e sul petto, e coi piedi entro le microscopiche pantofoline rosse che affasciavano di quando in quando la punta sotto gli orli della veste come due linguette di serpenti! Pensavo alle belle apparizioni delle dee antiche sognate dai greci e sentivo diffondersi per l'aria attorno un odore soavissimo come di cosa sovrumana. Per piú settimane i limiti del nostro quartierino segnarono per noi gli estremi confini del creato! Vi era intanto un che di austero in quel sogno di amore! Cecilia, benché si sforzasse di non mostrarmelo, provava in tanta felicità una tristezza che giornalmente diventava piú intima e piú profonda. I suoi occhi avevano spesso degli sguardi di un abbandono inesprimibile; sulle labbra le appariva frequente un sorriso che toccava il cuore come un rimpianto. Non era, lo capivo, a una felicità sparita che rivolgevasi quell'indefinito sospiro dell'anima; ma ad una felicità che le pareva fuggisse via di mano in mano che ella si accorgeva diventasse piú intensa. E ques to metteva nella nostra vita un'intonazione elevata, austera che me la rendeva piú cara. La mia stanza da studio fu adornata per suo consiglio di vasi di fiori. Rimpetto al tavolo dove leggevo o scrivevo, ella situò il suo tavolino di lacca intarsiato in madreperla, col cestino del lavoro e qualche libro; e sedeva lí sur una poltroncina bassa, covandomi coi suoi sguardi e coi suoi sorrisi pieni di un sentimento di premura quasi materna, di qualcosa insomma che trascendeva qualunque straordinaria espressione di amore. Spesso mi levavo dal tavolo, andavo a sedermele accosto per terra e, la testa sui suoi ginocchi, le domandavo con un gesto delle labbra la mia elemosina di baci. Altra volta era lei che mi s'avvicinava in punta di piedi per dirmi dolcemente all'orecchio - Maurizio, ti affatichi troppo! E mi distraeva dallo studio coll'accarezzarmi e col baciarmi. Ingrati come tutti gli amanti, non ritornammo piú ai giardini pubblici, non ne parlammo nemmeno una volta. Ella si chiuse in casa pari a quelle femmine di uccelli, che nel tempo della cova non abbandonano mai un solo momento il lor nido e vi son nutrite dal maschio che va in busca di preda. Non voleva piú veder nessuno, nemmeno la sorella; tutto il suo mondo era circoscritto in quelle nostre stanze; che le importava del resto? Mi pregava intanto di non sacrificarmi per lei. Amici, conoscenze, relazioni sociali, tutto dovevo coltivare come prima, senza mutare un'abitudine, senza venir meno a un dovere, senza mancare a una convenienza! ... Per carità, non la facessi accorta che mi fosse già diventata un impaccio! ... Pur troppo questo momento sarebbe arrivato! Che arrivasse almeno il piú tardi possibile! Tanta insistenza a dubitare dell'avvenire m'irritava un pochino e mi costringeva mio malgrado a riflettere. Ero forse mutato? No. Provavo dei sintomi di stanchezza e non mi accorgevo di mostrarli? Neppure per ombra. La Cecilia, conosciuta intimamente, superava perfino l'ideale che me n'ero formato al solo vederla. Ma quel suo lamento rassegnato mi feriva. In confuso capivo forse anch'io che qualcosa di ciò che ella prevedeva dovesse finalmente avvenire; ma m'illudevo volentieri e m'ostinavo a credere che invece non sarebbe punto avvenuto. - Perché sempre cosí triste? - le dissi un giorno. - Mi fai soffrire! - Io triste? - rispose sorridendo, ma in maniera che il sorriso ne smentiva le parole. - Non son mai stata tanto felice! - Temi sempre che il nostro amore ... - Chi ama teme! - m'interruppe. - Però tu mi hai giurato che il giorno in cui ti accorgeresti di non piú amarmi, saresti tanto generoso e leale da dirmelo subito. - E lo torno a giurare. - Del resto poi non aspetterò che tu me lo dica; lo saprò anche prima che tu stesso abbia coscienza del mutamento avvenuto. Con una donna che ama davvero è cosa inutile il mentire -. E sorrideva. Intanto le tremava la voce e aveva gli occhi imbambolati. Divenne, e mi pareva impossibile, piú tenera, piú espansiva. Sentivo nei suoi baci come un furore di affetto. Dalle sue carezze traspariva una smania, un tormento di volerne esaurire tutt'intera la dolcezza e uno scontento di non riuscire. Spesso mi chiamava a nome due, tre volte di seguito, unicamente pel piacere di pronunciare: "Maurizio! Maurizio!" - Matta! - le dicevo abbracciandola, e battendole sulla guancia colla punta delle dita, quasi per castigarla come una bimba cattiva. Insomma sembrava avesse fretta di godersi una felicità che vedeva dileguarsi a poco a poco. Io intanto vivevo tranquillo. Non scorgevo nei miei sentimenti e nei miei modi nessun mutamento. Naturalmente mi trovavo assai piú calmo; lo stato di esaltazione febbrile non poteva durare in perpetuo; ma quel godimento sereno, sempre uguale che vi era succeduto, mi sembrava piú dolce, piú intimo e per conseguenza piú duraturo. Le smanie della Cecilia, le sue tenerezze eccessive m'inquietavano stranamente, come un cattivo presagio. La rimproveravo con un accento che sembrava preghiera; e in seguito mi stizz ivo di non averla rimproverata con bastante energia; quella fiacchezza di rimproveri mi sembrava un delitto dalla mia parte. - Tu hai pianto! - le dissi un giorno, sorprendendola cogli occhi rossi e asciugati malamente in fretta nel sentirmi rientrare in casa. - No - rispose; - ho dormicchiato sulla poltrona; ho un po' di emicrania -. Mi appagai di quella risposta; ma rimasi inquieto fino a sera. Perché m'ero appagato? Non ero forse sicuro che la Cecilia aveva voluto nascondermi la verità? Sí, ella aveva pianto! E non mi era passato pel capo di dirle una parolina sola di conforto. Ingrato! Ma non trovavo il verso di riparare al mal fatto. Era un po' dimagrita da qualche tempo in qua, e un po' pallidina. Mi persuasi dopo alcuni giorni che doveva dormir poco. Una notte fui di un tratto svegliato da un fruscio di veste nella mia stanza. Apersi gli occhi con un senso d'indefinito terrore, e vidi la Cecilia accoccolata sul tappeto accanto al mio letto, coi capelli sciolti sulle spalle, colle mani aggrappate attorno un ginocchio, gli occhi spalancati, immobili sopra di me, le guance irrigate da lagrime che scorrevano silenziose. - Dio mio! Cecilia, che fai? - le dissi. E tentavo rimoverla da quella posizione attirandola per un braccio verso di me onde spingerla a levarsi. - Lasciami star qui! - rispose, - lasciami star qui, te ne prego! - Ma ti ammalerai! Sei fredda! Cecilia! - Lasciami stare! - Non rispondeva altro, né si asciugava le lagrime e continuava a guardarmi fisso. Mi posi a sedere sul letto accostandomi alla sponda, in modo di prendere la sua testa fra le mie mani, e cominciai a baciarla sui capelli, mormorando affettuosamente: - Cecilia mia! Levati su, per carità! Levati su! Parla che è stato?- Si alzò lentamente, come un'apparizione, ricacciò dietro le orecchie i capelli e mi tese le mani sorridendo sconsolata. I capelli nerissimi sciolti pel collo, l'accappatoio bianco, il pallore del viso, alla luce del lumino da notte che ardeva sul comodino entro un vaso di alabastro, davano a quella figura di donna un fascino sacro ... In quel momento ero superstizioso e credevo a qualcosa di un altro mondo. - Parla, che è stato? - tornai a balbettare. - Tutto è finito! - rispose con un filo di voce che parve quello di una moribonda. Poi, dopo una breve pausa, diessi a divorarmi dai baci per parecchi minuti di seguito in modo da togliermi il respiro e fuggí via. Rimasi fino al mattino cogli occhi fissati all'uscio da cui l'avevo vista sparire come un fantasma, incerto se avessi assistito ad una realtà o sognato a occhi aperti. Nella giornata non osai interrogarla sull'accaduto della notte. Ero sbalordito: credevo di aver ricevuto un gran colpo sulla testa e non mi stupivo di non riuscire a riordinar bene le idee. La vidi affaccendata a far dei preparativi che mi sorprendevano: ma non trovavo modo di aprir bocca per domandargliene ragione. Mi pareva che facesse un'operazione convenuta di accordo fra noi. Per un viaggio? Per una villeggiatura? Non lo rammentavo preciso; però quei preparativi erano tristi, mi stringevano il cuore, mi riempivano gli occhi di lagrime. Finalmente il mio spirito acquistò ad un tratto una sorprendente lucidità. Tutto era finito! Come? Cosí lentamente, cosí segretamente che non me n'ero accorto io medesimo; ma pur troppo tutto era finito! La Cecilia aveva detto una cosa che la mia mente non avrebbe saputo esprimere per cento ragioni, e sopratutto perché si rifiutava a credere quello che imaginava non avrebbe dovuto accadere. La Cecilia era calma. Ripiegava i suoi vestiti di mano in mano che li toglieva dall'armadio e li situava nelle casse. Ogni abito era per me un ricordo di un giorno di beatitudine, di un'ora felice, e a vederlo riporre, mi pareva assistere alla tumulazione di una particella del mio povero cuore ... Soffrivo un dolore compresso, un acuto limío, ma non avevo il coraggio di accostarmi a lei per dirle: - Rimani! Ricominciamo daccapo! - Non volevo mentire; non avrei neanche saputo. Sentivo tutta ora la stanchezza di una situazione irregolare, nella quale ci eravamo imbarcati io colla spensieratezza di un uomo appassionato, ella colla rassegnazione del sagrificio di una donna che ama! Pensavo con tristezza: - Perché non può durare? Perché non deve durare? - E la riflessione rispondeva tranquillamente: - È la legge! - Tornai dopo alcuni giorni ai giardini pubblici per rintracciarvi un passato che piú non trovavo dentro di me. Era la stessa stagione del nostro primo incontro, la primavera. Gli alberi ricchi di fronde; le aiuole verdi di erbe e qua e là fiorite; il sole, prossimo al tramonto, scherzava coi raggi fra le foglie agitate dai venticelli della sera. Ahimè! Quei viali, quelle frondi, quelle aiuole non mi dicevano piú nessuna delle mille celesti cose rivelatemi una volta. I zampilli mormoravano stupidamente monotoni; le acque dei laghetti e dei canali torbide, verdastre, riflettevano il cielo e gli oggetti in un tono di colorito che faceva schifo. Le rane, nascoste tra le foglie delle ninfee, gracidavano una musica degna del posto, che ora mi sembrava pretenzionoso e volgare. Gironzolai qua e là, facendo ogni sforzo per evocare una sensazione, un sentimento; ma invano. Il viale dei Boschetti mi parve tristo, lungo, basso da mozzare il fiato; dal canale accanto esalava un cattivo odore di borraccina che non avevo mai avvertito. E andando via rimuginavo: - Ma è dunque vero che questo mondo di fuori sia una mera creazione del nostro spirito, uno scherzo, un'illusione? Povera Cecilia! Tu non avresti mai creduto che perfino il mio rimpianto di amore sarebbe un giorno sfumato perdendosi fra le nebbie di un problema di metafisica!

Racconti 3

662736
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1905
  • Salerno Editrice
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma non era una Santacroce per nulla; capiva istintivamente che era indegna di una sua pari mostrarsi abbattuta. La sottomissione ai riguardi, ai pregiudizi della razza ella la portava nel sangue. Cosí avevano fatto l'ava, la nonna, sua madre; cosí doveva far lei; non poteva avvenire diversamente! Quando il pericolo era lontano ella si era illusa che avrebbe saputo sfidarlo e superarlo: ora che era prossimo, anzi là accanto a lei, sotto la forma di quell'uomo non giovane né vecchio, senza età apparente, con quella voce grossolana, con quelle fedine da cameriere, con l'aria di sciocca superiorità e di volgare bonomia con cui aveva trattato da «picciolezza», da «ingenuità» il vibrante appello del cuore di lei, la confessione fattagli, e ne aveva riso; ora che ella era stata incapace di mostrare la minima resistenza alla volontà dei suoi genitori e si era vista sfuggire l'unica speranza di salvezza riposta nella generosità di quell'uomo; ora ella sentiva soltanto l'orgoglio di non dover dare a nessuno la sodisfazione di mostrarsi vinta; sentiva soltanto la fiera voluttà di una vendetta - ancora non sapeva quale - con cui punire, prima, se stessa in espiazione del dolore che avrebbe arrecato al «lontano» la notizia del matrimonio di lei, quantunque egli non avesse mai concepito l'illusione che il loro amore potesse finire altrimenti; e poi punire quel vanitoso che si stimava tale da strapparle facilmente il dolce conforto di quell'amore dal cuore! Ella sentiva anzi, nel momento che il barone rispondeva ai brindisi di auguri di don Paolo Forti, ancora in piedi, con una punta del tovagliolo infilata tra collo e collare - specie di sermoncino piú che brindisi, che il prete aveva preso a memoria come soleva con le sue prediche - ella sentiva anzi in quel momento qualcosa di piú che la fiera indeterminata voluttà della vendetta; qualcosa che si maturava nella misteriosa oscurità del suo cervello o del suo cuore, e che presto si sarebbe rivelata perché lei la mettesse in atto; e con questo senso di prossima vendetta, ella toccò la coppa da sciampagna che il barone le stendeva; e il gesto fu cosí vivace che don Paolo Forti pensò: - Tutto è accomodato; tanto meglio! - E se ne rallegrò, poco dopo, con la marchesa. - Come? Voscenza ne dubita? - egli esclamò, vedendole scotere tristamente la testa. - In certi momenti, mia figlia mi fa paura! - rispose la marchesa. Le nozze dovevano aver luogo nei primi di settembre. Durante i quattro mesi d'intervallo, i preparativi venivano fatti quasi alla chetichella, per non dar nell'occhio, perché il marchese voleva che l'avvenimento si limitasse a un'intima festa di famiglia, e apparisse anche un atto di protesta contro le «novità» che ormai non piú erano «novità», e non lasciavano intravedere nessuna speranza di cangiamento. Don Paolo Forti recava lassú, a «palazzo», le strabilianti notizie della guerra franco- prussiana. - Ebbene? ... Che ne sperate? - domandava il marchese. - Bismarck, dicono, restituirà alla chiesa le province toltegli dal governo usurpatore. - È protestante ... Come vi illudete! - Io ripeto le voci che vanno attorno; rimetterà i Borboni sul trono di Napoli e di Parma, costituirà la Confederazione italiana sotto l'alta presidenza del Pontefice; notizie che vengono da Roma -. E il barone di Pietrerase, nelle sue frequenti visite, ripeteva le stesse cose. - Il principe però ... - obiettava il marchese. - Mio fratello è divenuto liberale, piú per mostra che per altro, credo. Egli è di opinione che i nobili non devono lasciarsi prendere la mano ... È sindaco, quasi un impiegato del governo; non può parlare altrimenti. L'ultima volta che è stato qui, però, lo avete udito: egli ha rimpianto la indipendenza siciliana, il parlamento siciliano ... È opportunista mio fratello. La nostra politica, marchesina, consisterà nel buon governo della nostra casa; dico bene? Voi regina, io re, e assoluti. E per ciò - scusate, marchese - non è necessario sequestrarsi, segregarsi ... Io la penso cosí. - I veri Santacroce spariscono dal mondo! - rispose tristamente il marchese. - Questo nome, tra qualche anno, alla mia morte, sarà portato quasi per irrisione da un miserabile che lo disonorerà ... Non mi importa piú di niente! - E cosí, non ostante le prossime nozze, una gran tristezza continuava a invadere le stanze del suo palazzo, di cui i balconi a ponente rimanevano chiusi, nelle settimane che il barone non veniva a R*** per fare a modo suo la corte di fidanzato alla marchesina, irritandola sovente con la solita esortazione: - Con me bisogna stare sempre allegri! - Invece ella era sempre piú cupa e piú chiusa che mai. Sacrificarsi alla volontà del padre stimava ormai un dovere impostole dalla sua condizione e dal sentimento religioso; ma sacrificarsi a colui che avrebbe dovuto salvarla dopo ch'ella gli aveva aperto confidentemente il cuore, le sembrava enorme. Dell'«altro» non aveva piú nessuna notizia e non era riuscita a fargliene avere da parte sua. Aspettava di esser libera, maritata, per spedirgli la lunga e straziante lettera, alla quale aggiungeva ogni giorno qualche pagina e che teneva chiusa sotto chiave in un armadietto in camera sua. Scriveva la notte, quando non le riusciva di prender sonno, o quando era stanca di mulinare la vendetta che avrebbe dovuto mettere in atto, già abbozzata nella sua mente, e per la quale temeva soltanto di non essere abbastanza forte e persistente, perché le circostanze della vita infiacchiscono le piú nobili energie, rendono vigliacchi i piú risoluti caratteri! Talvolta ella amava figurarsi che il barone, all'ultimo momento, si lasciasse vincere dalla riflessione. Egli aveva mantenuto la parola, non aveva mai accennato, neppure velatamente, al loro colloquio di quella sera, mentre il sole tramontava dietro i colli lontani; ma non poteva averlo dimenticato. La sua vanità non gliel'aveva fatto valutar bene quel giorno; dopo, però ... Ma forse egli contava su la bontà dell'animo di lei, su la sua dignità di donna e di marchesina Santacroce, che le avrebbe impedito di commettere una pazzia o una bassezza! E si sdegnava riconoscendo che era vero: ella non sarebbe stata capace di commettere una bassezza o una pazzia! Si considerava come divisa in due metà: il suo corpo, impassibile, lo avrebbe dato in balia di colui; ma il cuore, ma lo spirito sarebbero stati sempre di quell'«altro» ... E se questo era peccato, tanto peggio per coloro che la forzavano a peccare! Suo padre e sua madre non avrebbero potuto lagnarsi di lei: non obbediva ciecamente? Il giorno in cui essa diventerebbe baronessa di Pietrerase, la situazione non era piú la stessa; ella acquistava, quel giorno, piena libertà di azione. Suo marito avrebbe saputo anticipatamente quel che doveva attendersi. Voleva essere leale, ingenua, come diceva lui, fino all'ultimo! Appunto il giorno precedente alle nozze, ella parlò al barone: - Ascoltatemi attentamente: debbo dirvi poche parole, ma di suprema importanza. - Oh! oh! - egli rispose. - Qualche altro segreto? Il primo l'ho dimenticato; credo che l'abbiate già dimenticato anche voi. - Io non dimentico, tenetelo a memoria! - Dunque ... ? - Sembrava ch'egli intendesse di provocarla con quell'aria di sfida, con quel sorrisetto compassionevole tra le ispide fedine all'austriaca. - Non prendete a scherzo quel che sto per dirvi. I miei genitori hanno diritto a un'assoluta obbedienza. Nel monastero, in casa, nel confessionale, tutti hanno ribadito questa convinzione, ed io l'ho accettata come un domma di fede. I Santacroce però, dice mio padre, hanno una volontà di acciaio; sento di averla anch'io ... e non vorrei darvene una prova. - Quale, in caso? - Ho giurato a me stessa ... - Io non giuro mai, per precauzione. - Ho giurato a me stessa ... che se domani dovrò pronunziare il fatalissimo «sí» ... - E chiaro e sonoro, spero, perché il sindaco e il cappellano lo odano bene! - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra! - Non capisco ... Non sarà una sillaba mortale. - Cosí fosse! ... Siete ancora in tempo! Trovate, ve ne supplico, un pretesto! - Di nuovo quella storia? Ve lo ripeto: la vostra bella coscienza può vivere tranquilla. Io non vi farò mai una colpa di un sentimento ... naturalissimo ... Nessuna donna e nessun uomo sono mai andati dal sindaco o a piè dell'altare con la verginità del cuore ... Il matrimonio è come il battesimo: scancella il peccato originale di qualunque amoretto ... Se io sospettassi che quella vostra confidenza ... - e ve ne torno a ringraziare e ve ne sono gratissimo! - Ma essa non mi ammonisce di un pericolo ... Mi sembrate una bambina che si accusa di aver mangiato, di nascosto della mamma, qualche dolce ... Si sa, i dolci piacciono ai bambini; ed essi sono scusabili se li mangiano non ostante i timori della mamma per un'indigestione, Via! via! Non torniamo piú su questo argomento ... ! Con me bisogna stare allegri! - Ancora dopo una settimana egli non sapeva persuadersi che non si trattasse d'un semplice scherzo; o, se non di uno scherzo, di una cattiva scontrosità femminile; o, se non di questa, di un irragionevole tentativo di rivincita che non poteva certamente né doveva durare molto a lungo. Dopo il «sí» davanti al sindaco e a piè dell'altare nella cappella privilegiata di famiglia, la marchesina Cecilia Santacroce, ora baronessa di Pietrerase, non si era piú lasciata sfuggir di bocca una sola parola. Aveva detto: - Esso sarà l'ultima sillaba che uscirà dalle mie labbra, l'ho giurato a me stessa! - Ed era stato davvero l'ultima sillaba da lei pronunziata. Nei primi momenti tutti avevano creduto che la commozione pel prossimo distacco dai genitori le impedisse di parlare. Era un po' pallida, un po' sbalordita, ma non piangeva, non si mostrava agitata; e anche questa mancanza di uno sfogo di lagrime era stata creduta effetto dell'eccessiva commozione nervosa. Piú tardi, soltanto la marchesa aveva intravista la verità. - Figlia mia! Figlia mia! - La baronessa le sorrideva, la baciava in fronte, le passava per confortarla, amorosamente, quasi maternamente, le mani su le guance bagnate di pianto, e con umile gesto le chiedeva perdono. - Parla! parla! - insisteva la marchesa. La baronessa scoteva la testa, negativamente, e alzando gli occhi, e accompagnando l'espressione di essi con un risoluto movimento della destra rispondeva. - Mai piú! Mai piú! - E per calmare la desolazione della mamma, ella scrisse su un foglio: - È un voto! Lasciami fare, mammà ! - Il barone fingeva di prender la cosa rassegnatamente: - Avrò sposato una muta! - Ma pensava che, prima con le buone, poi un po' con le cattive avrebbe finalmente sciolto la lingua alla moglie. Rimaneva intanto molto imbarazzato davanti al contegno di lei: nessuna resistenza, nessun atto di repugnanza; egli poteva fare di quel corpo senza parola quel che piú le piaceva. Baci, abbracci, parole affettuose, preghiere, scuse umilissime, ragioni di ogni sorta, tutto però riusciva inutile contro quell'ostinatezza inflessibile. - Ma è ridicolo; dovreste capirlo! Se non per me, per vostra madre almeno ... Siate ragionevole, siate buona! - La baronessa lo lasciava dire, quasi non comprendesse. Una gran serenità le risplendeva nel volto, nella persona. Ella andava e veniva per le stanze, accennando benevolmente alla gente di servizio qualche ordine e riuscendo a farsi intendere senza stento. Quella figura silenziosa, che pareva avesse imposto silenzio anche ai suoi passi, ispirava rispetto e compassione insieme, perché si era sparsa la voce che una strana paralisi della lingua l'avesse colpita durante la cerimonia nuziale. Qualcuno si maravigliava che il barone non consultasse un dottore, uno specialista. - La baronessa si rifiuta. E poi, dicono che le malattie di questo genere si risolvano da sé all'improvviso; vanno via come vengono, senza sintomi apparenti -. Si scusava in tal modo, lasciando volentieri accreditare la voce della paralisi, intestato nel convincimento che un giorno o l'altro sua moglie si sarebbe stancata. Ci voleva la gran caparbietà di una donna per condannarsi al silenzio e perdurare! E cominciava a irritarsi, vedendo che tutti i suoi calcoli venivano sconvolti. Dapprincipio egli si era detto: - La ridurrò con le buone maniere; un po' con le cattive, se occorrerà -. Ma la baronessa non gli dava nessun pretesto di mostrarsi irritato con lei, all'infuori di quella maledetta mutezza, che, prolungata, poteva, da finta, diventare reale. Egli rammentava una sua visita al carcere cellulare di Noto, inaugurato pochi mesi avanti. Tra i condannati, il direttore gli aveva fatto notare un fabbroferraio che costruiva serrature complicatissime, da sfidare qualunque ingegnosità di ladri per aprirle; una di esse era stata premiata all'esposizione universale di Parigi. Costui, condannato a vita per omicidio, da sedici anni, secondo il regolamento carcerario, non parlava. Dal cellulare di Pallanza lo avevano trasportato a quello di Noto; intanto le corde vocali gli si erano atrofizzate, e la lingua articolava a stento poche parole. Alla baronessa sarebbe accaduta la stessa cosa? Glielo disse, per spaventarla con l'idea di tal pericolo. Non se ne mostrò affatto scossa. Ella aveva un mezzo per manifestare i sentimenti del suo cuore; il pianoforte. Tre, quattro volte al giorno, specialmente quand'era sola in casa, tutta l'abbondanza dell'anima sua vibrava dalle corde dello strumento, diventava parola per lei, si effondeva fuori dell'aperto balcone, volava via, lontano, lontano! Ella non sapeva precisamente dove indirizzare quelle note tristi, fremebonde, lamentose; era certa però che esse avrebbero trovato la giusta strada e sarebbero arrivate dove dovevano arrivare! E che importava se si smarrivano a metà di cammino? se morivano nello spazio inascoltate? L'«altro», ormai, era divenuto, piú che un ricordo, una lontana visione fantasticata o sognata. Non ne aveva saputo piú niente. Era ancora vivo? Era morto? ... Non gli aveva piú spedito la lunga lettera stimando inutili le scuse, le proteste, e sembrandole che avrebbe commesso un atto indegno di lei ora che portava il nome altrui e piú non era libera di sé. Un giorno aveva riletto quei fogli piangendo e li aveva bruciati. Le pallide sembianze di lui, il suono della voce, gli occhi che la penetravano con intensi sguardi dal balcone dell'albergo, dopo quest'ultimo sacrificio le si erano attenuati, spiritualizzati nella memoria; e la parola interiore, che non prendeva suono neppure quando avrebbe potuto sfogarsi in soliloqui, infondeva a quella figura attenuata, spiritualizzata un prestigio indefinibile; e stimolava acutamente la baronessa a perseverare nel giuramento, non ostante che questo l'avesse fatta incorrere nello sdegno dei suoi genitori, e ora provocasse impeti scortesi da parte di suo marito. Una notte ella avea sognato che, nell'assenza del barone, la posta le recava una lettera. Riconosciuta subito la calligrafia, s'era sentita invadere da tal tremore per tutto il corpo che le era parso di morire. Doveva aprirla? Doveva leggerla? Lungamente indecisa, guardava la busta gettata sul tavolino con inconsapevole gesto di terrore. Poi le era sembrato di sentire la voce, lontana, del pallido giovane innamorato che la supplicava di leggere. Aveva resistito ancora. Come mai, dopo un anno e mezzo, egli si era risoluto a farsi vivo con lei? Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva da lei? E il timore che, non ricevendo risposta, egli potesse commettere l'imprudenza di tornare a scriverle e che la lettera potesse capitare in mano del barone, l'aveva spinta ad aprire con mani tremanti la busta. Poche righe: e, appena finito di leggerle, si era destata di soprassalto, con gli occhi bagnati di lagrime e il cuore penetrato da dolcezza infinita. Non aveva dubitato un istante che colui che nel sogno le indirizzava cosí semplici, cosí affettuose e cosí tristi parole, non era piú! Ella però non lo rimpiangeva. Se lo sentiva accanto, invisibile, come non aveva pensato mai che fosse potuto accadere nella realtà, come non avrebbe permesso mai che accadesse se le circostanze della vita avessero apportato davvero un incontro! Le sembrava intanto che da ora in poi tutta la sua esistenza sarebbe trascorsa sotto gli occhi vigilanti di lui. Arrossiva provava brividi acuti al solo pensiero che il suo contegno verso il marito potesse offendere il povero morto e dargli angosce e tormenti di gelosia che la lontananza gli aveva probabilmente risparmiati quando era vivo. In certi momenti, il sospetto che il sogno fosse stato fallace eccitava la sua fantasia alla ricerca di un mezzo con cui accertarsene. Ma l'idea di arrivare a una scoperta che confermasse il sospetto la distoglieva da qualunque piú timido tentativo. Era cosí consolante saperlo morto fedele a lei, come la sognata lettera diceva! Ella avea sentito parlare tante volte di sogni veritieri. Anche lei, parecchie notti avanti di lasciare il convento, aveva sognato l'arrivo dei suoi parenti che venivano per condurla via. Ignorava che dovessero venire, ed era rimasta stupita vedendoli apparire inattesamente, realizzando il suo sogno! Fin allora ella aveva soffocato la ripugnanza che le ispirava il contatto del barone. L'impero delle convenienze sociali e dei sentimenti religiosi le avevano imposto una rassegnazione passiva. - Questo ghiaccio non si scioglierà mai? - le diceva talvolta il barone. - Io sono paziente; attendo, attenderò. E vi si snoderà anche la lingua. San Sebastiano opererà il miracolo! Vedete che vita mi fate fare? - Ella crollava la testa, negando. Il barone infatti per stanchezza, per fiacchezza anche, aveva già ripreso la sua solita vita di scapolo. Quando non andava in campagna, passava molte ore della giornata al casino di convegno giocando a tressette, al bigliardo; o nella farmacia dei Sorci, come veniva chiamata la farmacia Garano, dove si riunivano i clericali, i borbonici che si sfogavano a dir male del governo e a rimpiangere il passato. Egli veramente non si scalmanava né pel papa, né per Francesco II, ma si compiaceva di mostrarsi colà per darsi l'aria di persona seria e un po' per far dispetto al principe suo fratello che «liberaleggiava» e riceveva il sottoprefetto e gli ufficiali della piccola guarnigione. Spesso però restava in casa, a tormentare la baronessa con interminabili discorsi, nei quali egli ormai aveva preso l'abitudine di farsi le domande e di rispondersi, quasi sua moglie lo interrompesse. O andava a sedersi sul canapè di faccia al pianoforte mentre ella suonava, rimproverandole talvolta che avesse suonato distrattamente lo stesso pezzo la sera avanti nel salone del principe, e avesse accompagnato male la cognata principessa che se n'era indispettita, quantunque non lo avesse lasciato scorgere davanti agli altri. Lo faceva a posta? Anche questo? Fortuna ch'egli non era un marito brutale! ... E la baronessa cessava tutt'a un tratto di sonare, indignata perché quel ch'egli chiamava rassegnata aspettazione veniva da lei giudicata atto di villano orgoglio e sciocca lusinga di vincerla. Oh! Avrebbe preferito di sperimentarlo brutale. Il barone era stato assente tre giorni per sorvegliare alcuni lavori nel fondo di Saccorotto datole in dote dal padre; ed ella aveva cosí potuto abbandonarsi interamente al triste conforto del suo sogno. Per disgrazia, arrivando di assai buon umore, egli si era seccato di trovare la baronessa assorta a suonare un malinconicissimo pezzo. - Mancano funerali in questa casa? - aveva esclamato, ridendo sarcasticamente. E con brusco moto della mano chiudeva sul leggio del pianoforte il volume della musica. La baronessa continuò a suonare a memoria. Egli ebbe la malaccortezza di fermarle le mani e di abbassare il coperchio dello strumento. La baronessa scattò in piedi, svincolandosi da un abbraccio. Rimasero un istante a guardarsi negli occhi; il barone stupito di vederla reagire, ella mordendosi la lingua per non rompere il giuramento di non fargli mai piú udire il suono della sua voce neppur con la feroce parola che le stringeva la gola: e uscí dal salotto. Il barone le corse dietro. - Via! via! Sono stato un po' vivace ... - Ella entrò rapidamente nella stanza vicina e gli chiuse l'uscio in faccia. - Aprite! ... Vi dico aprite! O butto l'uscio a terra! - Lo sentiva gridare, imbestialito, battere coi pugni chiusi e con la punta delle scarpe ... - Aprite! O butto l'uscio a terra! Sono stanco di fare l'imbecille! ... Comando io in casa mia! ... Aprite! - Gettata bocconi a traverso il lettino che si trovava colà, la baronessa non singhiozzava, non piangeva. Si premeva desolatamente le mani su gli occhi, e col pensiero invocava: - Mammà ! Mammà ! - Due mesi dopo, la marchesa era accorsa chiamata in fretta da una lettera del barone che annunziava un peggioramento nella malattia di languore da cui sua figlia era stata colpita. Il marchese resistendo a ogni preghiera e al pianto della moglie, non avea voluto accompagnarla presso la figlia «ribelle», che con quel mutismo significativo contristava la sua vecchiaia. - Ha fatto la nostra volontà! - A modo suo! - rispose il marchese inesorabile. - Non v'impedisco di andare. - Cilia ! ... Figlia mia! - Quasi non la riconosceva, tanto sua figlia era cangiata. - Parla! parla! - insisteva. - Cosí ti uccidi! - Sembrava che, anche volendo, la baronessa ora piú non avesse forza di parlare. Ed era affliggente a vedersi quel viso scarno, di un pallore cadaverico, con gli occhi infossati, e che pareva sorridere con strana dolcezza, sotto i baci e gli abbracci della madre. - Perché? Come mai! - Colpa sua, marchesa! - rispose il barone duramente, indicando la moglie. - Di me non può lagnarsi! - Don Paolo Forti, che aveva accompagnato la marchesa, si teneva rispettosamente in disparte, con le mani giunte, girando i pollici l'uno attorno all'altro, e con le labbra strette e allungate. - C'è qui il cappellano, il tuo confessore! - La baronessa sorrise anche a lui, che si fece avanti invitato da un cenno della marchesa. - Non perché voscenza abbia bisogno di me ... La signora marchesa mi ha dato l'onore di accompagnarla ... Si ha bisogno soltanto di Dio ... E Dio le concederà la salute, presto! Ogni domenica, nella santa messa, «a palazzo», abbiamo pregato per lei. Ora che ha qui la mamma, voscenza si deve spicciare a ristabilirsi ... Un po' d'aria nativa le farà bene ... L'aria nativa è balsamo ... - Il pover'uomo era tutto confuso di aver detto tante vane parole; ci voleva un miracolo di Dio e della Madonna - pensava, parlando - per ridar vita a quel corpo estenuato che pareva respirasse a stento e non apriva le labbra neppure per lamentarsi! Perché avrebbe dovuto lamentarsi? Ella era lieta di morire. E affrettava la morte fingendo di prendere le pillole, le cartine ordinate dal dottore, levandosele con astuzia di bocca, sputandole senza farsi scorgere, sorridendo di triste sodisfazione quando sentiva maravigliare il dottore della incredibile inefficacia dei rimedi apprestati. Quel doloroso sorriso che le fioriva a ogni momento su le labbra smorte irritava il barone. Egli che si era immaginato di poter avere, presto o tardi, ragione degli ingenui scrupoli confidatigli dalla marchesina prima delle nozze, e non aveva creduto possibile l'attuazione della minaccia: «Il "sì" sarà l'ultima sillaba che mi uscirà dalle labbra!» tardi si accorgeva che le donne sono capaci di qualunque pazzia. - Non si tratta d'altro! - egli si sfogava col cappellano. - Avrei dovuto farla chiudere in un manicomio, e sarebbe stato bene per lei e per tutti! ... Queste cose non posso dirle alla marchesa ... E doveva capitare a me! - Chi lo sa? Qualche segreta ragione! - disse timidamente don Paolo Forti. - Pazzia, vi ripeto! ... Quale segreta ragione? Ve l'ha detta, forse, confessandosi? Avete fatto male a non rivelarla ... senza rompere il sigillo della confessione - soggiunse vedendo lo stupore del cappellano a quelle parole. - La paralisi ... - Che paralisi! Anche voi fingete di credervi? Atto diabolico! Io non so come abbia potuto resistere e come abbia resistito io ... Ma siamo alla fine! ... Vedete che mi fa dire? L'ho sopportata, l'ho compatita quasi due anni ... È stata implacabile! ... Ora non ne posso piú! ... E sorride, sorride ... perché l'ha vinta lei ... Per questo sorride! E mi rende spietato ... Dovea capitare proprio a me! - Misteri della volontà di Dio! - conchiuse don Paolo. Per consiglio della marchesa, due giorni dopo egli si presentava alla malata con la qualità di confessore. - La vita e la morte sono in mano di Dio! ... Non perché voscenza sia in pericolo, ma per precauzione, se mai ... La baronessa gli porse una mano e strinse forte quella del prete guardandolo fisso negli occhi. - Perdonate, figliuola mia? - Ella assentí con un'altra stretta. - Dite qualche parola di consolazione a vostra madre ... Parlate almeno una volta, solo per mostrare che non portate via nessun rancore! La baronessa ritirò lentamente la mano. Il prete, spaventato del repentino disfacimento di quel viso pallido e scarno, si affrettò a dare alla moribonda l'assoluzione ... Gli occhi della baronessa si dilatarono quasi errando con lo sguardo dietro una visione che spariva. Con la chiaroveggenza dei morenti vide forse che il sogno l'aveva ingannata? E il dolce strano sorriso di quelle ultime settimane (non si capiva se di sodisfazione o di delusione) le si fissava poco dopo su le aride labbra per sempre!

ARABELLA

663055
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Se cresceva un monello e se portava intorno i segni della pezzenteria, la colpa non era soltanto della povera mamma, stanca, abbattuta sotto il peso di tante cose e di tante disgrazie, ma ancora un poco di una certa monachella che colla scusa di contemplare gli eterni misteri del paradiso, non si curava dei bottoni e delle calze della sua gente. Domani, come una fata benefica delle leggende, essa avrebbe potuto con una parola trasformare quella rovina in una casa ordinata, ricondurre la pace, la speranza, la volontà nel lavoro e nel bene; prendere essa l'autorità, l'iniziativa, il comando, che viene dalla forza e dai mezzi, cambiare il bianco in nero, impedire che la rovina menasse la disperazione, e che i suoi fratelli andassero per il mondo come veri vagabondi, "Senti, Ara," disse Naldo, parlando sottovoce alla sorella "c'è stato due ore fa il sor Tognino, che ha lasciato un magnifico astuccio per te. Vedessi! è pieno di perle e di diamanti." "Dov'è?" "La mamma voleva che ti chiamassi, ma papà Paolino non ha voluto, perché dice che tu non hai ancor detto di sì. L'astuccio è di sopra nella tua stanza." "Sta zitto, vado a vedere." Arabella uscì senza dir altro. Il Pirello rosso e scalmanato agitò tre volte la polenta nel paiolo, riempiendo la cucina d'un buon fumo caldo. La famiglia era quasi tutta raccolta. La Pirella col secchiello in mano e la tazza nell'altra, versava il latte spumoso nelle scodelle di terra allineate sulla tavola. Gli uomini, che lavoravano in casa, prendevan posto sui sacchi, dove s'era messo in guardia anche Brill, un cane ricciuto che non si ricordava più di essere stato bianco. Mario, tornato da pochi giorni dal collegio, entrò colle gabbie e colla civetta e cominciò a litigar forte con Naldo, come al solito. Le donne che avevan fatto il bucato sedevan sotto il portico, al piccolo chiaro del crepuscolo, ciascuna colla sua scodella in grembo, e già tutti ormai avevano trovato il loro posto, il loro piatto, il loro cucchiaio, e le bocche cominciavano a essere occupate, quando l'uscio che mette sulla scala si spalancò e apparve Arabella, col lume in mano, coperta il collo, i polsi, il petto, i capelli, di perle, di diamanti, di braccialetti d'oro con grosse pietre di rubino e di smeraldo, una vera apparizione miracolosa della Madonna santissima, che sulle prime incantò tutti gli occhi, poi trasse un grido di meraviglia e di giubilo; tutti gridarono: "Viva la sposa!" Mamma Beatrice, a cui il marito aveva sussurrata una parolina in disparte, tocca nella parte più sensibile del suo orgoglio materno, corse verso la figliuola, se la prese nelle braccia, la baciò a lungo sui capelli, la condusse nel mezzo della cucina, dove uomini e donne e ragazzi, colla scodella in mano, si raccolsero ad ammirare quel non mai visto splendore di gemme. Accorsero altre ragazze dal cortile, il portico si affollò e Arabella dovette farsi vedere anche a quelli di fuori. "O santa, se l'è mai bella!" bella!" "L'è un splendor che scuriss la vista." vista." "Non se ne vede... " " "L'è la Madonna de la Salètta, Delaida." Delaida." "Con vun de quist " disse il Pirello, indicando colla punta del cucchiaio un grosso brillante dello spillone, "se pò mung la vacca anca al scur... " "Tutti vollero dire qualche cosa. Le bambine scalze e spettinate a cui Arabella soleva far la dottrina in chiesa, eccitate anch'esse da quell'apparizione, le baciavano il vestito e le mani. Papà Paolino scivolò via e si nascose nello stanzino della pesa al buio. Aveva bisogno di piangere forte e che nessuno lo sentisse.

Demetrio Pianelli

663143
De Marchi, Emilio 1 occorrenze

Beatrice Pianelli, pallida, un po' abbattuta in viso, scendeva col suo passo tranquillo, tenendo raccolto un lembo del vestito. "È lei?" esclamò colla sua voce chiara e armoniosa. "Se mi avesse detto il nome ... Mi rincresce di averla fatta aspettare." Pardi salí un gradino e le si collocò davanti col pugno stretto, come se si preparasse a una lotta, tremando visibilmente in tutto il corpo, e pure sforzandosi di mostrarsi educato e gentile in mezzo agli aculei della sua sofferenza. "Scusi: Palmira ... ." "Che cosa?" "Non è qui?" "No" rispose Beatrice con candore. "Non è oggi il giorno che lei deve sposarsi?" "No" essa tornò a dire con semplicità, con una nota cantata. "Ma allora ... ." Si dominò. Voltò la testa indietro verso la corte per dar tempo al respiro, alzò una mano mezza chiusa, come se volesse continuare un'argomentazione impossibile. "Difatti il matrimonio si doveva fare in agosto, e se era possibile anche in fin di luglio. Ma non fu possibile, perché c'è un articolo di legge che lo impedisce." "Ah! un articolo di legge ... " ridisse il Pardi adoperando la frase già fatta, tanto per dire qualche cosa, e per tenere avviato il discorso, per non lasciarla scappare quella donna, volendo sapere da lei il resto, e non trovando in tutto il suo vocabolario, in quel momento, due altre parole per tirare innanzi la conversazione. "Scusi ... , lei non ha scritto la settimana scorsa a Palmira una lettera?" "No." "Ma sí!" gridò il Pardi, agitando e allungando la mano verso Beatrice. "Non si ricorda piú." "Che lettera?" "L'ho vista, l'ho letta io ... una lettera ... ." Beatrice raccolse il pensiero a riflettere. "Una lettera con cui lei invitava Palmira alle Cascine ad assistere al suo matrimonio per stamattina." "Non è possibile, caro lei." "Ah! non è possibile?" Secco, come se le forze lo abbandonassero del tutto, discese all'indietro il gradino e piombò sulle gambe, alzando le braccia grosse, congiungendo i due pugni collo sforzo di chi si attacca a una gronda e fa leva sui muscoli per non cadere dall'altezza di un tetto. Beatrice, non ancora vicina all'idea che dava al signor Pardi un'aria cosí stravolta, lo interrogò cogli occhi curiosi. Non era possibile ch'ella avesse invitato Palmira, l'amabile, la maligna, l'invidiosa Palmira, a una festa di famiglia. "Però" prese a dire il Pardi con l'affanno di chi ha lo stomaco rotto dalla nausea, "però ella ha mandato una carrozza a prenderla ... ." "Quando?" "Ieri, ieri sera. Oh, per Dio, l'ho vista io ... ." Il Pardi s'infuriò contro quella stupida donna, che non capiva nulla, e che stava ad osservarlo con gli occhi d'una bambola. Beatrice s'impaurí, entrò nell'idea, capí che Palmira ne aveva fatta una delle sue, divenne smorta, balbettò qualche parola a fior di labbra, e finí col dire: "Scusi, io non so proprio niente ... ." "Mi perdoni ... " disse il Pardi, allentando a poco a poco le braccia e chinando la testa sul petto, piegando il collo robusto e le larghe spalle al peso enorme che scendeva lentamente a comprimerlo. "Mi perdoni ... " balbettò. Colla mano irritata tastò qua e là sul corpo, finché trovò la tasca del fazzoletto, lo strappò fuori, lo strinse nel pugno come un cencio, lo compresse due volte nell'angolo degli occhi, schiacciandolo poi sulla bocca quasi per strozzarvi un grido, e, tirandosi ancora un passo indietro per lasciar passare Beatrice, tornò a dire: "Mi scusi tanto ... ." Beatrice discese gli ultimi gradini, e nel passar davanti a quell'uomo, che pareva fulminato, lo guardò con un senso di sincera e paurosa compassione. Avrebbe voluto salvare Palmira o la buona fede di suo marito. Ma per la seconda volta in poche ore si vergognò della sua povertà di spirito. Si sentí incapace, troppo ignorante delle battaglie della vita. Fece un piccolo saluto colla testa, scappò piú che non uscisse sulla strada, e col cuore pieno di dolori e di spaventi si mescolò al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini. Arabella l'accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un'ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino cosí contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò cosí, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d'una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l'altra ciascuna passò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all'avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell'anima nostra. Una volta sola la ragazza uscí a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa: "Di', mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?" La mamma non rispose nulla, ma di lí a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi. Giunsero cosí al cimitero. Arabella, già pratica del sito, ritrovò subito il piccolo monumento. Mentre la mamma, inginocchiata sulla terra sabbiosa del viale, sfogava il suo pianto nelle mani giunte, Arabella perdevasi lontano cogli occhi verso un cielo lontano, che andava coprendosi di nuvoloni bianchi di temporale. Il soffio fresco che mandavano quelle nuvole dissipò a poco a poco come dolce lavacro quell'ultima nebbia di sogni cattivi che era negli occhi, e la compassione amorevole, la compassione che scalda il cuore e che fonde tutto, la trasse piú vicina alla sua mamma, che poco fa aveva conturbata colle sue parole. Pensò che la poverina non sapeva ancora com'era morto il papà e perché avesse voluto morire cosí: e in questa sua coscienza sentí su quella donna inginocchiata a' suoi piedi una superiorità morale, quasi una forza fisica di consolarla, di dominarla. Si accostò, le prese la testa tra le mani, la baciò sui capelli, col fazzolettino aiutò ad asciugare le molte lagrime che le bagnavano il viso, ma senza piangere essa, senza parlare. E rimase cosí un quarto d'ora, nel silenzioso e lento abbandono del dolore che non pensa, nell'aspro ed energico godimento della vita che soffre. Si mossero piú consolate e piú in pace. Nell'uscire, quando furono sul ponticello che traversa il canale, un uomo mal vestito, consunto dalla miseria, stese il cappello, supplicando con una nenia, in cui le parole si spezzavano come singhiozzi. Sui piedi trascinava due scarpe non sue, color della polvere, rigide nelle rughe e nelle infossature, sulle quali cascavano a brandelli certi calzoni flosci, mal sostenuti da un corpo sconnesso e febbricitante. Era il maestro Bonfanti. Un'altra malattia gli aveva dato l'ultimo colpo. Tocco da paralisi nelle dita e nella lingua, egli non poteva piú né sonare, né cantare, e tanto per trascinarsi vivo alla sepoltura, stendeva il cappello ai passanti, sulla porta dei cimiteri, scrollando la sua febbre intermittente, sonnecchiando tra un'Avemaria e l'altra sulle sue artistiche reminiscenze. A quell'uomo, che aveva sempre tenuta alta la bandiera del classicismo, discepolo del Pollini, quasi amico del Thalberg, non restava nemmeno la forza di lamentarsi, e la figura stessa andava ogni giorno scomparendo nel pelo selvatico della barba e nella sordidezza della povertà. Arabella si attaccò stretta stretta al braccio della mamma, quando riconobbe nel vecchio pezzente il suo buon maestro di pianoforte, e le parve che il cuore le cascasse nel petto. Il Bonfanti andava raccontando a furia di singhiozzi la sua dolorosa storia, agitando colla mano paralizzata il cappello, come se lo sventolasse per l'allegria. Gli buttarono una moneta d'argento, lo salutarono colla mano, e partirono in fretta. Tornarono in città a braccetto, sempre in silenzio, ma non piú in collera come prima. Purtroppo di miseria ce n'è per tutti, e chi si lamenta della sua fa torto un poco a quella degli altri.

UNA SERENATA AI MORTI

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Faldella, Giovanni 1 occorrenze

Il salone dietro la cucina, formato da due stanze riunite, in cui alla abbattuta parete divisoria si era sostituito un arco sorretto da un pilastro, era rigurgitante di gente, pareva una fitta piantonaia di uomini clamorosi, come un'assemblea operaia per fondare un magazzino cooperativo, o un comitato elettorale, in cui un candidato pagasse le spese alle sue speranze di consigliere o deputato delle acque. La Ghita doveva affaccendarsi a voltare i grossi peperoni gialli e rossi; e le fette di polenta, che arrostivano sopra le molle adagiate sulla brace; e a portare litri e doppi litri alle tavolate richiedenti. Nello scompartimento di destra c'era la tavolata del dottore, il quale quella sera pareva proprio in buona vena d'accettare con Ambrogione la sfida a chi le dicesse più grosse. Ambrogione si presentava maestoso quale un fiume nella sua piena. Il dottore aveva già comunicato per la millesima volta il suo progetto di una confraternita religiosa, nella cui processione il Gran Tommaso avrebbe fatta la parte di Longino, e Ambrogio quella del buon Ladrone; aveva già narrato in una ultima edizione il suo sogno di una rivista militare che farebbe il Commissario di leva agli impiegati e alle impiegate del Municipio che sarebbero denudati e denudate come coscritti alla visita; aveva già riferito il famoso testamento di Don Coraglia. ? Non ho capito bene ? osservò il panattiere mansueto ed inesauribile nel bere ed ascoltare e far ripetere. ? Don Bertrame Coraglia, ? ripeté il dottore - dopo avere vissuto da lepido gaudente, aveva voluto mantenersi buffo anche in morte, corbellando il pubblico con un pio teatrale decesso, che accadde, come si ricordava mia nonna, a Trentacelle, nel 1840. Egli era caduto ammalato in uno dei primari alberghi dell'antico capoluogo della nostra provincia; e per farsi trattar bene dall'albergatore e onorare dalla cittadinanza, mandò a chiamare il notaio, a cui dettò un grasso testamento. Con esso nominò erede universale delle sue sostanze il venerando Capitolo metropolitano, e profuse un'immensità di legati pii non dimenticando il padrone dell'albergo, a cui lasciò l'orologio d'oro, né i camerieri che lo assistevano durante l'ultima malattia, ai quali lasciò, in compagnia del padrone, le cedole della sua valigia. Anzi, prima di spirare, ebbe cura di farli chiamare intorno al letto, e loro pronunciò distillando con la solennità dell'Uomo Giusto, che muore nell'ultimo atto di un dramma, un commovente discorso, in cui loro raccomandò la fermezza nella fede cattolica, l'amore di patria e la purezza dei costumi. I canonici commossi di riconoscenza gli ordinarono un funerale sontuoso di prima classe, durante il quale cantarono colla più sfogata solennità a squarciagola; ma poco dopo dovettero mangiarsi i pugni di pentimento per la voce prodigata e per la cera buttata al diavolo, riconoscendo che le sostanze dell'abate erano una vera burla: zero via zero. L'albergatore trovò di ottone, trovò essere un misero giocattolo da fiera il famoso orologio d'oro; e i camerieri dell'albergo poi, aperta la famosa valigia delle cedole, scopersero che esse non erano già cartelle del Debito pubblico, come essi avevano fermamente creduto, ma cartelle del Debito privato del testatore, cioè cedole di citazione intimate pel ministero d'usciere dietro istanza dei creditori al Don Coraglia, diventato da parecchi anni debitore non solvente. Il panattiere batté le mani, poi le lasciò cadere congiuntamente sui ginocchi, per atto di grande meraviglia. Lo stesso Ambrogione si degnò cavallerescamente di tacere alla ripetizione di questa storiella. Onde il dottore lesse una nuova tacita preghiera negli occhi del panattiere, e, senza pigliar fiato, riprese: ? Voi, Gregorio, volete sapere... E Gregorio: ? Sì... Ma era proprio... ? Ve lo ripeto? L'abate Coraglia era proprio quel desso, che nel confessare dava l'assoluzione a capriccio e secondo le conoscenze. In una sera scura si recò a confessarsi da lui il vecchio Conte. E Don Coraglia distratto gli negò l'assoluzione. Quando il penitente si partì, il prete sporgendosi dal confessionale si avvide di chi si trattava; e gli trottò dietro gridandogli: scusi non l'aveva mica conosciuto... Se vuol tornare, subito ripariamo. Risero discretamente gli ammiratori del medico, ma il panattiere si prese la testa fra le mani, per non scoppiare dal contento, e parve risoluto di assumere coi suoi monosillabi la parte di leader del partito. Ambrogione punto di invidia, per non riuscir sopraffatto in quel torneo, cominciò a parlare con voce strepitosa alla sua tavola, ma in modo che la direzione della sua voce e del suo racconto pareva sopratutto rivolta a vincere gli avversari costringendoli a non perderne una sillaba. Disse: ? Don Coraglia l'ho conosciuto pur io. Si è conservato fino a settant'anni una capigliatura nera e folta. Usava di una certa pomata, che avrebbe fatto nascere i capelli anche sopra una palla di bigliardo. Un giorno, avendo le dita unte di quella pomata, toccò un sedile di pietra nel giardino. Or bene, il giorno dopo quel sedile era coperto di peli come un velluto... ? Boun! E Ambrogione senza scomporsi seguitò: ? Del resto, la morte e il testamento di Don Coraglia sono accaduti non nel 1840, ma nel 1849, quando io era all'eroica difesa di Casale. C'erano con me allora tre cannonieri veterani così sordi, che quando avevano sparato il cannone, si domandavano l'un l'altro, se aveva preso fuoco: l'a pià fò? Balzarono gli ah ah! più contenti dalle bocche dei suoi abbronziti partigiani, i quali poscia bevettero; e dopo la bevuta, batterono rumorosamente il bicchiere sulla tavola. Riscaldato, Ambrogione continuò dicendo: ? Ciò è nulla a petto dei Cinesi, i quali respingono gli attacchi alla baionetta e le scalate date ai loro spalti, gettando della polvere negli occhi... ? Ai gonzi! ? interruppe il dottore sentendosi incoraggito dall'approvazione che continuava a scintillare negli occhi al panattiere. ? No, signore! Ai nemici Francesi ? continuò imperturbato Ambrogione. ? Perché quei guerrieri vanno alla guerra colle tasche piene di sabbia... Cosa, del resto, facilissima a capirsi... Perché vi sono dei metodi di guerra e di caccia ancora più semplici... Un mio amico, guarda?convoglio, mi raccontava che egli prendeva gli orsi comodamente così: metteva in capo al sentiero, per cui essi dovevano passare, un semplice cribro di fili di ferro. Allorché gli orsi si affacciavano a quell'ostacolo, rizzandosi per apporvi le zampe di contro, attraversavano colle unghie i buchi del crivello. Allora il cacciatore appostato dall'altra parte con un piccolo martello ribatteva quelle unghie, ritorcendole gentilmente contro i fili di ferro. Tich tach. Così gli orsi rimanevano attaccati al cribro e si potevano portare via belli, vivi e sani. ? Questa è da Barone di Münchhausen! ? dissero a un tempo il medico e il segretario comunale. ? Non c'entra nessun calcio nel caffè di Moka rispose Ambrogione. ? È un fatto storico... Si tratta dello stesso capo?convoglio, mio grande amico, che venne poi nominato capo stazione a Baltesana. Egli per non interrompere la partita a tarocchi colle guardie doganali, era solito a non presentarsi al passaggio dei treni diretti e collocava sull'uscio dell'ufficio un fantoccio della sua statura, col berretto, e colle cifre del grado. Una volta il vento nell'impeto di un treno celerissimo rovesciò il fantoccio, onde il macchinista, temendo di avere travolto il capo?stazione, fermò la macchina; e si riconobbe... ? Ih! Ih! Ah! Ah!... Uh! Uh! ? urlarono tutti. L'organista, come fosse pagato per dargli l'imbeccata: ? Baltesana è lo stesso paese... ? Lo stesso paese ? abboccò Ambrogione ? dove c'era quella ragazza magnifica, ma smorfiosa e prepotente, la quale una volta recitava coi dilettanti nella Suor Teresa. Avendo sentito in platea alcuni giovinastri darle la baia, essa benché vestita da monaca, si avanzò risolutamente sul proscenio, si rivolse al pubblico bestemmiando: "Fate silenzio, brutti diavoli! cri... cco! contacc!" e alzando le anche si diede una patta di dietro. Un'altra volta, sul loggione, al teatro dei burattini, si lagnò infinitamente d'aver sentito un rumore e un odore cagionato da una scorpacciata di fagiuoli. Per tutta quella sera e per il giorno dopo non cessò mai dal protestare che non si dovevano permettere quelle porcherie, vantando che a lei non era mai accaduta... simile disgrazia. I giovinotti del paese per punirla di quel vanto, una volta la colsero in un bosco, mentre essa andava per funghi, e con un soffietto, che avevano portato espressamente con loro, la gonfiarono tanto, che essa tornando a casa strombettava per via come una diavolessa! - E fece... ? disse il medico. Il segretario completò la citazione di Dante. ? Impossibile! Una ragazza ricca, non va sola per funghi... ? osservò il panattiere. ? Osate negare ciò che dico io...? Si fece il processo... Fui io testimonio, ché in quei tempi lavoravo pel canale Cavour a Baltesana... Minchioni! Se non li cercano le ragazze ricche, chi andrà a cercar funghi in quel paese!? in cui il più povero pezzente, che si presenti agli usci per amor di Dio, ha per lo meno una ventina di giornate in proprietà tra risaie e marcite. ? Boun! Le due tavolate rimasero veramente spaventate. Ambrogione, offeso dai volti increduli, inferocì. ? Ché! Vi prego di credere, che a Baltesana certi contadini pigliano per carità i calzoni di mezzalana dall'Opera pia, e posseggono tenimenti di 200 giornate... L'osteria tremò... Si guardava dai più la finestra in modo supplichevole, perché la si aprisse pel passaggio delle bombe. L'organista arrischiò: ? Io non stento a credere. Allora Ambrogione per rimunerarlo: ? Ghita, due litri... e di vino imbottigliato. L'attenzione degli astanti si tolse volentieri dallo sballone e si riposò sul bel Rolando che aveva staccata dalla parete la chitarra. Sedutosi sull'angolo della tavola, colle gambe incrociate, teneva la cassa armonica sulle ginocchia e la testa in su a domandare ispirazioni. Il berretto alla marinara, dalla gronda larga di panno azzurro, gli faceva un'aureola celeste; egli era una bella cosa da osservare per la Ghita. La ostessa guardandolo sentiva sotto le ascelle un calore, un'arsura di abbracciarlo, di avviticchiarselo. Egli unghiava le corde, e ne cavava lentamente vibrazioni sonore che empievano, rallegravano l'aria e il petto a tutti; rompevano il tanfo e guizzavano nei nervi più pigri. Mentre egli sonava, gli si ingrandivano gli occhi; gli passavano sulla fronte rossori, vergogne di trovarsi un fannullone paesano, e baldanze, desideri di essere un elegante, misterioso giovane, barabba di città: correre come un demone sull'asfalto degli Skating?Ringh, trascinandosi allacciata pei fianchi, intrecciata nelle mani la più bella cocotte di Torino, ? e ai balzi della musica, al fragore delle rotelle girare con una gamba in aria, valseggiare con lei, volteggiando fra quelle anime dannate, fra quelle fanciulle vestite di velluto, dal largo cappello peloso, dalla pellegrina, intagli di prete: e poi scivolando, filare dietro il paravento, e scalzarla, premerla lei, così superba e di così alto prezzo pei senatori, e per lui docile al solo prezzo di picchiarla come una cagnolina. Indi gli si ritiravano le vedute pornografiche dalla fronte ed erano sostituite da nobili propositi di andar via a guadagnarsi il pane, e diventare qualche cosa di buono, un bravo ingegnere, disegnatore, capo officina... Questa lanterna magica non solo si vedeva passare sulla fronte del bel Rolando, ma la si sentiva nel suono della sua chitarra. Il panattiere, ottuso per la musica, profittando di una pausa, aveva cercato di avviare il medico sul tema dei Conciliatori. - Signor dottore, sarà vera la risposta, che Bertolo, l'oste, ha data al Conciliatore di Calciavacca? ? Sì, me lo hanno riferito. Bertolo era stato citato da Rolla il droghiere, che avanzava da lui venti lire per spezie e candele. Il Conciliatore minacciava l'oste di una condanna coi danni, spese e vacati; quando Bertolo gli osservò placidamente: "Io pagherò le venti lire, che devo a Rolla, quando voi, signor Conciliatore, mi pagherete le trenta lire per quelle due brente di vino...". Allora il Conciliatore furioso: "Silenzio! Silenzio! Se no, metto mano in carta libera...". ? Ah! Ah! Che ridere! Che ridere! ? scompisciava il panattiere. ? Ma la più buffa ? ripigliava il dottore ? è la sentenza, che ha pronunziato il nostro macellaio Conciliatore all'ultima udienza. Egli stanco di due litiganti temerari, che non ho bisogno di nominarvi, li licenziò dicendo: "Sentite! aggiustatevi! se no, ve lo giuro su questo santo Vangelo, per Cristo morto, se vi presentate ancora al mio macello, non vi do più una libbra di carne intera. Vi do tutta giunta ed ossi... E non fatemi perdere la testa...". ? Oh, che ridere! che ridere! ? seguitava il panattiere, lacrimando e quasi scompaginandosi dalla contentezza. ? Questo è nulla in paragone del Conciliatore di Baltesana ? disse Ambrogione, riafferrando il mazzo lui; ? quel Conciliatore, antico furiere in riposo, non essendo stato provvisto di nessun Codice civile dal Procuratore del Re, né dal Comune, si serviva del Codice penale militare, che aveva portato dal reggimento e per questioni di galline o di uno schizzetto di pochi soldi, minacciava condanne alla reclusione, e ai lavori forzati. Nella festa di Sant'Orsola, le ragazze della Compagnia, essendosi ubbriacate in casa della Priora, messesi in fila sul ballatoio, improvvisarono una fontana nel cortile con grande scandalo e bagnatura dei musicanti che suonavano di sotto. Il Conciliatore, fattele citare, le condannò alla fucilazione nella schiena previa degradazione. Trrr... um. Il bel Rolando, con una strappata delle sei corde a un tempo, tagliò degnamente la frottola di Ambrogione, in modo che tutti l'applaudirono ridendo come matti; quindi da quell'arrabbiato accordo, egli si sollevò e li sollevò ad una cavata dolcissima, mentre dalla testa pareva che gli svaporasse un inno oraziano in lode di Cesare Augusto.

Mai devi domandarmi

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Ginzburg, Natalia 1 occorrenze

Quanto a quel nostro cognato, di solito si piantava nell'ingresso, e scrutava i muri, grande e severo, con una mano infilata sotto la giacca, battendosi ritmicamente le dita sul petto, e oscillando sui calcagni: il suo parere era sempre negativo, a proposito di tutte le case, e soprattutto a proposito dell'idea di comperarne una; tuttavia riusciva a trovare in ogni casa dei difetti diversi, sempre allarmanti: o sapeva da suoi informatori che l'impresa non era seria, o sapeva che proprio li davanti avrebbero costruito un grattacielo, per cui non si sarebbe visto più niente; o sapeva che tutta quella zona sarebbe stata presto abbattuta, Ì proprietari espropriati e costretti a emigrare altrove; e poi non c'era casa che per lui non fosse buia, umida, mal fabbricata, o di odore cattivo; e sosteneva che le sole case che dovevamo prendere in considerazione, erano quelle costruite da una ventina d'anni, non prima e non dopo: ed erano proprio quelle che a noi non piacevano. La prima casa che seriamente pensammo di comperare fu una chi si trovava nei pressi del viale Trastevere. La chiamavamo più tardi, nel ricordarla, «Monte-compatri», perché siccome era situata nell'alto su una specie di collina, mio marito diceva che vi si respirava un'aria purissima. «Ti rendi conto - diceva - che là c'è un'aria come se si fosse a Montecompatri?» «Mon-tecompatri» era una casa nuova, non mai abitata. Stava a picco su un precipizio, una forra selvosa, che scendeva giù fino al viale in un punto dove il viale s'allargava in uno spiazzo, nel quale era stato installato un Luna Park. Oggi, dopo qualche anno, non esiste più ne quella forra selvosa, ne quel Luna Park. Oggi là non cleono che case, tanto che quando passo là davanti, mi è impossibile riconoscere quella che noi allora volevamo comprare e che s'affacciava, alta e stretta come una torre, sul vuoto. C'era un terrazzo e c'era un grande soggiorno, con ampie finestre che s'aprivano su quella voragine verde, selvaggia, e andammo là più volte al tramonto, perché il panorama era in quell'ora desolato e solenne, con la città lontana vampeggiamo fra nuvole di fuoco. La casa era di proprietà d'un'impresa, il cui numero telefonico stava scritto su un cartello piantato su un palo, nel mezzo della voragine verde; ma quel numero o suonava occupato o non rispondeva; il portiere ci diceva di insistere, cosa che facevamo puntualmente, ma senza risultato. Il portiere era una persona molto simpatica e gentile, e sembrava ansioso che prendessimo noi quella casa. Un giorno andammo là risoluti a comprarla: erano le tré del pomeriggio, era estate, il sole batteva a picco sul terrazzo dalle piastrelle roventi; su dalla voragine ci parve salisse un forte odore di spazzatura: difatti un cumulo di spazzatura, al quale non avevamo mai molto badato fino a quel momento, cuoceva al sole fra l'erba, pochi metri al disopra del Luna Park. Il Luna Park era muto e deserto, con le grandi ruote immobili e i tendoni calati; la città in lontananza cuoceva contro il cielo d'un azzurro accecante. Pensai che quel panorama era forse stupendo, ma evocava pensieri di suicidio. Così fuggimmo da quella casa per sempre. Mio marito disse che si era accorto che la scala era troppo orribile: civettuola, leziosa, e c'era un grande ragno nero e oro nell'androne, a due passi dalla guardiola di quel simpatico portinaio. Mio marito disse che non avrebbe tollerato di vedere ogni giorno quel ragno nero. Poi ci incantarono due case gemelle, una attaccata all'altra, che erano in vendita tutt'e due. Erano dalle parti di piazza Quadrata: zona che mio marito detestava. Io invece amavo i dintorni di piazza Quadrata, perché vi avevo vissuto molti anni addietro, quando non avevo ancora mai incontrato mio marito, non sapevo nemmeno che esistesse, c'erano a Roma i tedeschi, e io ero nascosta in un convento di suore da quelle parti; e pensai che amavo, di Roma, tutti i punti dove in un momento o nell'altro della mia vita avevo messo radici, sofferto, pensato al suicidio, le strade dove avevo camminato senza saper dove andare. Delle due case gemelle nei pressi di piazza Quadrata, una aveva un giardino: a mio marito piaceva, di questa casa, soprattutto una scala interna, che portava in uno scantinato dove c'era una grandissima cucina e una sala da pranzo lunga e stretta; in genere, quando a noi piaceva un poco una casa, non facevamo che soffermarci a contemplare i punti e le stanze che ci piacevano, cercando di ignorare tutto il resto; cosi, mio marito non faceva che salire e scendere per quella scala, che era di mogano, lucida, e che lui trovava «di stile inglese»: saliva e scendeva, carezzando la ringhiera come fosse stata la groppa d'un cavallo. Insieme ammiravamo la cucina, tappezzata di allegre piastrelle a fiorellini celesti. Per amore della scala e della cucina, eravamo disposti a passar sopra al fatto che per noi mancava una stanza: avremmo messo un tramezzo, ricavato una cameretta in un corridoio; e mio marito sembrava aver dimenticato sia l'odio che nutriva per quella zona, sia ciò che aveva detto sempre a proposito dei giardini, sui quali piove da tutti i balconi spazzatura e polvere. Nel giardino c'era una piccola statua, cinta d'edera, e un bersò con panchine di pietra; pensammo che avremmo potuto far costruire, in mezzo al giardino, un piccolo padiglione, dove avremmo fatto dormire uno dei nostri figli, risolvendo cosi il problema della stanza che ci mancava. La casa accanto non aveva un vero e proprio giardino, ma soltanto uno stretto corridoio di verzura: e di questa casa a noi piaceva soprattutto una stanza, che aveva un bovindo, il quale guardava sul giardino di quell'altra casa: la stanza aveva mobili bianchi e dorati, che ci sembravano molto belli, ma, si capisce, il proprietario se li sarebbe portati via: sostavamo a lungo in quella stanza, perché ci piaceva, e perché cercavamo di capire se l'avremmo amata anche spoglia, o arredata dei nostri mobili smorti e banali; e poi cercavamo di capire se preferivamo guardare il giardino dall'alto di quel delizioso bovindo, o invece guardare il bovindo nascosti nel bersò. Bello sarebbe stato, io dissi, poter comprare tutt'e due quelle case. Ma mio marito mi fece notare che non avevamo nemmeno i soldi per comprarne una; io ero, disse, megalomane e pazza. Litigammo terribilmente su quelle due case. Non che mio marito avesse qualche preferenza per una delle due, o che io l'avessi: no, eravamo entrambi in gran dubbio, e ci acculammo l'uno con l'altra di non saper decidere; inoltre, mio marito ricominciò a dire che la zona di piazza Quadrata, lui la esecrava fin dalla più tenera infanzia. Interrogati, i nostri figli dissero che anche loro esecravano quella zona, ma che gli sarebbe piaciuto dormire nel padiglione in giardino: padiglione che ancora non esisteva, ma sul quale discussero, perché ognuno di loro voleva averlo per sé. Quanto a mia suocera, essa venne un giorno con noi a vedere la casa col vero giardino, ma capitammo proprio in un mattino che i pavimenti del soggiorno venivano smantellati e incatramati, e dal modo come veniva applicato il catrame mia suocera credette di intuire che quei pavimenti non sarebbero stati mai in ordine, che ci avrebbero dato sempre dei fastidi e dei guai; e ci dissuase risolutamente dal comprare quella casa, e di riflesso anche l'altra, che non si poteva visitare quel giorno; ma anche là, disse mia suocera, Ì pavimenti dovevano avere quell'uguale difetto. Dopo aver passato un periodo in cui odiavo tutte le case di Roma, passai un periodo invece in cui mi sembrava di amarle tutte, tanto che mi era impossibile sceglierne una; poi di nuovo ricominciai a odiarle, quando fu chiaro che non avremmo comprato ne la casa col bovindo, ne la casa col bersò. Intanto ricevevo lettere da mio padre, che invariabilmente cominciavano con queste parole: «Desidero dirti che faresti bene a deciderti ad acquistare un quartiere». E di quando in quando squillava il telefono e si udiva la solita voce robusta e festante: «Pronto! Sono il commendator Piavo! Loro non sono ancora venuti a vedere il mio appartamento in piazza della Balduina! è bellissimo! I davanzali sono tutti di onice nero, i pavimenti del soggiorno sono di marmo! C'è il citofono! Posso cederle anche delle piante da mettere nel soggiorno, mia moglie ha un'azalea rosa che è un vero splendore! mia moglie ha una passione per le piante!» Poi vi fu ancora una casa che fummo sul punto di comperare. Era una casa che non aveva assolutamente nessun pregio, se non quello di costare poco. Era anche questa nei pressi del viale Trastevere, su una strada in salita, lungo la quale, camminando ancora circa una ventina di minuti, si arrivava al Gianicolo. «Ti rendi conto che in pochi minuti si arriva al Gianicolo?» diceva mio marito lodando quella casa. Però, dalle finestre, non si vedeva il Gianicolo; anzi non si vedeva nulla dalle finestre, nulla, se non un tetto di lamiera e un muro cieco di color giallino, altre case ne alte ne basse, e la strada. La strada era tranquilla, di solito piuttosto deserta. La casa era a due piani: un «villinetto». Stava tra un materassaio e un vinaio. Aveva un portoncino grigio, con un battente. Aveva un terrazzo con un pergolato secco. Era una casa ne nuova, ne vecchia, una casa senza carattere e senza età. Si entrava, per quel portoncino, in un ingresso a piastrelle marmorizzate, e ci si infilava su per una scala grossa, con una ringhiera panciuta; al pianterreno c'era una cucina, un bagno e un ripostiglio, dove il proprietario aveva radunato una catasta di seggiole; al piano di sopra c'era una serie di stanze, ne grandi ne piccole, messe una in fila all'altra lungo un corridoio a piastrelle marmorizzate: tutte le stanze guardavano sulla strada, quella strada in salita, che andava si al Gianicolo ma aveva invece l'aria di non andare da nessuna parte, di non servire a nulla, una strada che aveva un'aria dimenticata e casuale; una strada strana, disse mio marito, che forse un domani poteva anche diventare una strada molto importante, essenziale, un'arteria di collegamento fra il Gianicolo e il viale Trastevere, per cui se avessimo comperato quella casa, era possibile che venissimo a un tratto a trovarci in un punto ricercatissimo della città, un punto essenziale, e allora quella casa che avevamo avuto a pochi soldi sarebbe cresciuta di valore tanto che l'avremmo potuta rivendere guadagnandoci più del doppio. Ma se la dobbiamo rivendere, io dissi, perché comperarla? Dopo, di nuovo saremo costretti a cercare una casa. Non solo la strada era strana, e niente antipatica, disse mio marito, ma anche la casa era niente antipatica e piuttosto strana. L'ingresso no, l'ingresso era brutto, quelle piastrelle che imitavano il marmo erano proprio orribili. La scala non era antipatica. E non era antipatica la terrazza («Devi immaginare, al posto di quel pergolato secco, un pergolato tutto verde. Immagina. Tu non hai nessuna immaginazione»). A vedere quella casa non portammo nessuno. Non ne parlammo con anima viva. Forse ne avevamo un poco vergogna. Poi un giorno, camminando per la città, vedemmo un cartello di vendita appeso a un portone. Entrammo. E cosi la casa fu trovata. Era una casa in centro. Piacque a mio marito perché era in centro, perché era all'ultimo piano, perché guardava sui tetti. Gli piacque perché era vecchia, grossa, massiccia, perché c'erano vecchi soffitti di grosse travi, e, in qualche stanza, rivestimenti di travertino. Io, del travertino, era la prima volta che ne sentivo parlare. Perché piacque a me? non lo so. Non era al pianterreno essendo all'ultimo piano. Non aveva giardino e non si vedeva un albero nemmeno in distanza. Pietra in mezzo alla pietra, stava serrata fra comignoli e campanili. Ma forse mi piacque perché si trovava a un passo da un ufficio, nel quale avevo lavorato molti anni addietro, quando ancora non conoscevo mio marito, da Roma i tedeschi se n'erano appena andati, c'erano gli americani. Io mi recavo in quell'ufficio ogni giorno. Mettevo il piede, ogni giorno, per motivi superstiziosi, in un'incavatura del selciato, incavatura che aveva la forma di un piede. Quell'incavatura si trovava all'ingresso d'un cancelletto. Aprivo il cancelletto e salivo una scalinata. L'ufficio era al primo piano e guardava sul vecchio cortile, dove c'era una fontana. Quella fontana, quel cancelletto, quell'incavatura del selciato, erano proprio a un passo dalla casa che visitammo un mattino, mio marito e io, e dalla quale uscimmo risoluti a viverci. La fontana, il cortile, il cancelletto, l'incavatura del selciato esistevano sempre; ma l'ufficio non esisteva più. Le stanze dove un tempo c'era stato quell'ufficio eran tornate a essere ciò che erano prima della guerra, vale a dire stanze d'abitazione d'una vecchia contessa. Tuttavia era ancora, quello, un punto della città che io riconoscevo come un luogo amico: un punto dove un tempo m'ero scavata una tana. Non già che io fossi stata felice, in quell'ufficio: vi ero stata, anzi, perdutamente infelice. Ma vi avevo scavato una tana; e il ricordo di quella tana che mi ero scavata, tanti anni prima, m'impediva di sentirmi, su quelle strade e in quei vicoli, un'estranea capitata là per errore. Cosi, nel pensare a quella casa, non soffersi alcun senso di oppressione. Tutti ci sconsigliarono di comprarla. Dissero che, cosi vecchia, era certamente piena di magagne, di tubi rotti, di crepe segrete. Dissero che certo ci pioveva dentro. Dissero che certo c'erano gli scarafaggi («i bacherozzi» diceva mia suocera. Quando parlavamo di prendere una casa vecchia, subito diceva «però no coi bacherozzi! ») somma dissero di quella casa tutto il male possibile Dissero che sarebbe stata fredda d'inverno e calda d'estate. Alcune delle cose che dissero si dimostrarono vere. Vero era che ci pioveva dentro e si dovette far riparare il tetto. Di scarafaggi ne trovai uno solo. Gli spruzzai dietro un po' di insetticida e scomparve per sempre. Ora noi viviamo nella casa senza più sapere se sia brutta o bella. Ci viviamo come in una tana. Ci viviamo come in una calza vecchia. Abbiamo del tutto cessato di pensare alle case. Le parole «livelterrazzo», «termoautonomo» «pentacamere» « assolatissimo » «dilazionando» «rimanenza mutuo» sono scomparse dai nostri pensieri. Tuttavia ancora per molto tempo, iniziato il trasloco, iniziata una serie di indagini complicate che si riferivano ai muri, ai tubi, ai cassoni dell'acqua, iniziate trattative complicate con lattonieri, elcttricisti, falegnami, di tanto in tanto ancora squillava il telefono nella casa che stavamo ormai per lasciare e che era piena di bauli, di carta, di paglia, squillava il telefono e si udiva la solita voce robusta e trionfante: «Pronto! Sono il commendator Piave! Quando verranno a vedere il mio appartamento in piazza della Balduina? E bellissimo! C'è il citofono! Arriva suo marito, dalla portineria l'avverte che è rientrato, lei subito butta giù gli spaghetti, lui mette la macchina nel garage, sale con l'ascensore, il pranzo è in tavola! Nel bagno c'è una colonna d'alabastro nero, con mosaici che rappresentano pesci, tutti i davanzali sono di onice! Non hanno che da telefonare, prendono il tè con mia moglie, arrivo io e li accompagno subito, si riposano un poco sul belvedere, di là si gode tutto il panorama di Roma, prendiamo un aperitivo, li riporto indietro in un attimo con la mia macchina! Ho una Spider!» Ottobre'65.

Un giorno a Madera

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Mantegazza, Paolo 1 occorrenze

Sì, la gioja abbattuta dall'uomo risorge dopo il pianto, ma sul volto che pianse, la lagrima ardente lasciò un solco che più non scompare; ma la lagrima che non è raccolta dalla mano o dal labbro di un'anima amica filtra lenta lenta nel cuore, e vi lascia un segno come goccia di piombo che cade sul legno. Ma a che parlo io di lagrime, quando l'uomo è fatto per il riso, e quando i piaceri infiniti di questa vita fanno sparire nel mare della gioia le lagrime solitarie? E che può mai una stilla di fiele caduta in un oceano di latte? Sì, ma a quella goccia di fiele se n'aggiunge un'altra e poi un'altra ancora e sempre più amara; e al palato squisito dell'uomo che sente si fa sentire nel fondo del vaso l'amaro che vi era celato. E quell'amaro discende anch'esso, filtrando nel cuore e vi lascia il suo solco e quell'amaro serpeggia col sangue in ogni fibra, in ogni midolla e l'uomo non si sente felice. Sì, l'uomo è infelice; è nato al pianto, è incatenato da una legge fatale ad una grama esistenza che abborre e desidera nel tempo stesso. Incapace di togliersi il tormento che lo cruccia, non ha il coraggio di morire, né la scienza di vivere; non ha il sentimento che per raddoppiare il dolore, non ha la mente che per intendere tutta l'immensità dei suoi patimenti. L'uomo è un eterno desiderio saldato a fuoco con un eterno pianto. La mente lo trasporta in orizzonti che i suoi piedi non possono toccare; il suo cuore vuol espandersi, quando una mano di ferro lo stringe. L'uomo è la più imperfetta, la più miserabile, la più ammalata creatura dell'universo. E qui, mia buona Emma, lasciai cadere la penna che pochi momenti prima aveva afferrato col piglio di un generale vittorioso, e mi confessai vinto. In questa confessione però vi era più malinconia che amarezza; perché il lottare eleva l'uomo anche quando la battaglia è senza vittoria e solo è spregevole chi rifiuta la lotta e si dà vinto prima di battersi. Mi sembrava di aver trasformato il dolore in qualche cosa di utile e di bello, solo perché l'aveva piegato sotto il giogo del mio pensiero, solo perché lo aveva distillato su questo foglio attraverso la cannuccia della mia penna. Forse, diceva io, questi poveri pensieri saranno trovati belli dalla mia Emma: il mio malumore non sarà stato un male assoluto. L'uomo più si eleva e più si sente degno di esser uomo, quanto più abbraccia del mondo che lo circonda; se sente più grande quando ad ogni cosa che vien dal di fuori, amica o nemica, dà l'impronta potente del suo individuo. Il mio malumore era venuto in me a dispetto di me e contro di me - io l'aveva combattuto, io lo aveva trasformato in un pensiero. Perdonami questi pensieri da egoista. Più innanzi nel corso della giornata, con una ginnastica insistente e ferocissima, riuscii a trasformare il malumore in malinconia. Mi pareva di aver distillato il fumo e di averne fatto dell'aceto ... perdonami questo scherzo. La malinconia è sempre più benevola e meno cattiva del malumore; ed ecco che cosa scrissi sotto la sua ispirazione. Dammi la mano, o cara, fa ch'io ti possa sentire a me vicino: il turbine della vita mi spaventa, ho bisogno di non esser solo. I miei occhi son corsi arditi a ricercare il vero nei luoghi più reconditi, studiando le meraviglie delle piccole cose; credetti, superbo, di scoprire i misteri della natura creatrice, ma gli occhi miei si son coperti di un velo e non ho più visto nulla. Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo. Gli occhi miei si son levati dalla terra dove pazienti ed acuti si erano indarno affaticati, e li portai nei cieli. Stolto, ricercai i confini dell'universo infinito, ma lo splendore di tanti soli accecò la mia vista e non vidi più nulla. Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo. La mia mano temeraria penetrò là dove la natura, coprendosi d'un pudico velo, cela i più sublimi misteri: là dove la vita, nascendo dalle rovine della morte, ci fa sentire il suo primo palpito; ma la mia mano di ferro soffocò, distrusse il germe delicato, e non più un palpito vi rispose. Metti la tua mano, o cara, sulla mia fronte, e spegni il fuoco che la divora. Per ogni lato dove la mia mente si volge cercando il vero; per ogni luogo dove andò ricercando i misteri della vita, si trovò sbarrata la via; e mai sapendosi accontentare dei vuoti suoni di cui l'andavano vezzeggiando i sapienti fortunati, dopo una lotta inutile e forsennata per spezzare i confini segnati all'umana ragione, giacque spossata ed affranta. Dammi la mano e stringi la mia, sicché io possa sentire d'averti vicino; ho bisogno di non sentirmi solo. Il mio vergine cuore si è fatto sentire e mi si è schiuso un nuovo orizzonte, ristretto da ridenti colline e da prati fioriti ed io apersi le braccia per stringere al mio seno quel paradiso ... Ma dammi la mano, o cara, e stringi la mia ancor più forte, ché il solo ricordarlo mi spaventa, ed io ho bisogno di non sentirmi solo. Ma a che lacerare una piaga che è chiusa da pochi giorni? Le lotte sfortunate della mente, le sconfitte della ragione umana hanno ancora un'eco remota che soddisfa la nostra superbia; ma gli sconforti del cuore hanno un'eco lontana, che non si cancella col tempo, che si ricorda sempre con immenso dolore. O cara, appoggia la tua mano sul mio cuore, e calmane i moti concitati. Fammi sentire che io non son solo. Per tutto il giorno di ieri mi tormentò un solo pensiero, quello di trasformare il malumore in qualche cosa di utile e di bello. La natura ha fatto nascere l'ortica, e l'uomo ne ha cavato un tessuto sottile e soave con cui la bella indiana asciuga il sudore della fronte. La natura ha dato un potente veleno ad una liana del tropico, e l'uomo ne ha cavato un rimedio per guarire il paralitico. Anche la collera, anche l'odio, anche il malumore devono essere trasformati in una forza che innalzi gli uomini sopra gli altri. L'assenzio della tristezza deve essere, colla chimica potente della volontà umana, convertito in un rimedio che guarisca le noie del volgo profano e gli isterismi del genio solitario. Un sonno tranquillo ha sepolto il mio malumore e i miei sogni alchimisti di trasformazione delle forze, e questa mattina ti scrivo col labbro ridente, guardando con infinita compiacenza il cielo azzurro attraverso i vetri della mia finestra. Addio, addio mille volte! Fra le reliquie di William troviamo una pagina senza data e che porta la sola nota di Un dì d'aprile. Ho socchiuso la bocca per aspirare l'aria profumata della primavera e mi parve che essa avesse lambito le labbra vellutate della mia Emma. Ho colto una viola e mi è parso che quell'aroma delicato mi scendesse fino al cuore, e me ne vellicasse le fibre più sensibili, come quando l'anima mia si sente vicina alla sua Emma. Ho sprofondato gli occhi nei campi azzurri del cielo infinito; e i fiocchi vaganti delle nubi mi pareva segnassero coi loro scherzi il nome di Emma, con caratteri d'argento in campo d'oltremare. In me stesso, nelle mie memorie, nelle mie speranze, non poteva trovare altra cosa che te sola, e tutto, tutto mi richiama l'immagine di Emma. Perfino le boccette del mio laboratorio, le immagini dei miei quadri, i libri della mia biblioteca mi sembrano tutti specchi, nei quali Emma, mirandosi un istante, avesse lasciato la sua immagine divina. In me e fuori di me, nel mondo degli spiriti e della materia, nella veglia e nel sonno, nella gioia e nel dolore, nella pace e nell'ira io non vedo, io non sento che una sola cosa, la mia Emma. Io non sono cosa alcuna senza di lei, e senza di lei non sento di pensare e di vivere. Le nostre esistenze non formano altro che un'esistenza sola ... EMMA A WILLIAM. Londra, 17 luglio. Dunque, mio buon William, per amor tuo conviene lasciarci. Io parto per Madera; lo vuole anche il vecchio medico di mio padre. Egli vive ritirato da molti anni nella sua villa di Brompton e ieri ho fatto una gita a casa sua insieme alla zia Anna. Era molto tempo che non lo vedeva, ma dalla zia aveva già saputo tutto, ché tu lo sai, egli è il consigliere nostro in ogni cosa importante. In lui vive ancora un raggio della vita e della mente di mio padre. Non posso vederlo senza sentirmi gli occhi gonfi, e quando mi dirige la parola con una calma lentezza e con una dolcezza penetrante e affettuosa, mi sento tutta commossa. Egli ha più di ottant'anni, ma nessuna delle infermità della vecchiaia lo rende riluttante o molesto agli altri. Gli anni non gli hanno dato che un'indulgenza senza fine per le miserie e le colpe degli uomini, e gli hanno scolpito sul volto un eterno sorriso. La zia Anna mi ha detto che sorride sempre, anche quando dorme. Ha tutti i capelli bianche e li tien lunghi e ben pettinati; il volto grasso, rotondo, ben rasato; ei mi ricorda Franklin. Quando si giunse a Brompton, egli era in giardino tutto occupato a rimondare un cespuglio di rose. Appena mi vide, mi venne incontro e mi abbracciò, come se fossi una sua figliuola, e mi fece entrare colla zia nel suo studio, e là, seduto accanto a me, mi tenne per un pezzo una mano stretta nella sua, e, guardandomi amorosamente, non sapeva dir altro che: - La nostra Emma! La nostra brava Emma! Gli raccontai per filo e per segno la mia visita ai tre oracoli della medicina inglese; ed egli sorrise più d'una volta. - Sì, sì, mia cara Emma, voi dovete andar a Madera: dovete rimanervene là un paio d'anni almeno, finché siate completamente ristabilita. E poi, e poi si ritorna in Inghilterra per mettere alla prova la salute conquistata, e se in altri due inverni inglesi non abbiamo tosse né catarro, e se intorno a questi ossicini riusciamo a mettere un poco di carne e di lardelli, allora Emma fa un'ultima confessione al vecchio dottor Thom, e questi le dà l'assoluzione completa di tutti i peccati e le permette di sposare il suo William. Non va bene così? - Caro dottore, possano le vostre parole esser sante, possa ascoltarle il mio povero padre. - Sì, vostro padre ci ascolta; e quando io in nome suo vi dirò Sposate William, voi lo potrete fare con piena coscienza di non mancare alla vostra parola; ai vostri giuramenti. - Ma, mio buon dottore, io ho pur giurato a mio padre di non prendere mai marito! - Cara creatura, questo è verissimo, ma noi dobbiamo esser servi delle idee e non delle parole. Quando la vostra salute fosse completamente ristabilita e la vostra costituzione rifatta, mancherebbero le ragioni per le quali vostro padre esigeva da voi una solenne promessa. Non vi ha egli detto che in ogni caso aveste a consultarmi e a seguir ciecamente ciò che vi avrei detto di fare? - Sì, mio dottore, e per questo vi ubbidirò ora e sempre, senza esitare, senza domandar spiegazioni, senza guardarmi indietro. Non aveva veduto mai quel mio dottore più bello, più sereno. Io lo avrei baciato e ribaciato cento volte. Mi accorgeva chiaramente che egli, consolandomi, non mi ingannava, ma ch'egli stesso credeva che potrei guarire, e che potrei essere tua, un giorno. E quelle parole così piene di felicità pronunciate da una bocca che mi pareva santa, mi trasportavano in un mondo di paradiso. E il buon vecchio se n'accorgeva e i suoi occhi fermandosi a lungo sovra di me, nuotavano in un sorriso che era lagrimoso tanto era tenero. Si rivolse a mia zia: - Ma, e il signor William saprà aspettare tanto tempo, saprà vivere in tanta incertezza per quattro o cinque anni? Risposi io alla domanda fatta alla zia, e sentendomi diventar rossa rossa, dissi con accento molto lesto: - Oh sì, certamente, William mi aspetterà. Ho fatto molto male, caro William, a prometter tanto, a farmi mallevatrice di tanta pazienza? smentiscimi subito, se lo vuoi. - Oh! a proposito -, m'interruppe ridendo forte il dottor Thom, - il signor William deve darvi la sua parola che non sarà mai a trovarvi a Madera, che vi lascerà sola col vostro egoismo (ne avete dell'egoismo?) tutta intenta a guarire. Alla fine, se volete guarire è per lui, è per lui solamente. Io ti rifaccio a modo mio questo dialogo, ma sono sicura che aggiungo molte parole che noi non abbiam detto. S'era in tre: ma ci intendevamo a mezze parole, e i sorrisi e i segni entravano nei nostri discorsi più che le parole. - Io vi manderò a Londra un libriccino manoscritto che porterete con voi a Madera: sarà il vostro medico. Vi darò anche una lettera per il mio amico, il dottor Sonthey, ma non la si presenterà che quando aveste la disgrazia di essere obbligata a stare a letto; e spero che ciò non avverrà mai in quell'aria di latte tiepido. E con chi andate a Madera? - Con me -, rispose la zia Anna. Avrei voluto che tu fossi presente a quella scena, mio William; avrei voluto che tu sentissi quanta bontà era nascosta nell'accento semplice, naturale, tenero con cui la zia Anna pronunciò quelle parole: con me La bontà di mia zia è così profonda, così uniforme nella sua tenerezza, e così intimamente fusa colla sua natura, che i giorni e i mesi passano, senza che io abbia tempo o luogo a pensare ch'ella è buona; ma quando in un'occasione come è questa si getta lo scandaglio in quel suo carattere così infinitamente buono, si rimane sorpresi dinanzi a tanta serenità limpidissima. La sua bontà è un cielo eternamente sereno, e non lo sa apprezzare che chi ha conosciuto in altre terre la nebbia, la pioggia e gli uragani. Anche il dottor Thom rimase commosso dall'accento dolcissimo, dalla sublime naturalezza con cui la zia Anna aveva pronunciato quelle due parole, e dando al suo sorriso un'espressione calda e riconoscente, le disse: - Voi già siete sempre la stessa Anna di ora è mezzo secolo: neppur gli anni v'hanno potuto dare un pochino d'egoismo; morrete impenitente. Il dottor Thom era buono, era dolce: ma non amava molto arrestarsi sulla tenerezza. - È affar finito, dunque; verrò io stesso a Londra per salutarvi prima della vostra partenza. Venite a vedere il mio giardino, e voi, Emma, venite a visitare la mia nuova serra: vi farò conoscere molte piante che io qui tengo prigioniere, e che a Madera vedrete fiorire lussureggianti a cielo sereno. Oh, venite, venite; ho ricevuto da quindici giorni un solanum del Brasile che è di una rara bellezza. In Inghilterra non siamo che io e il duca di Devonshire che abbiamo questo solanum. Si rimase ancora un'ora a Brompton, ma ti confesso che lungo le aiuole linde linde del giardino e nell'aria calda della serra del dottor Thom io pensavo sempre a te e a Madera; e la nuova fase in cui stava per entrare la mia vita mi pareva un sogno. La speranza, la paura, il terrore dell'ignoto, l'affetto per te si facevano così aspra guerra nel mio cuoricino, ch'io di quando in quando udiva le parole del dottore e di mia zia senza intenderle e non sapeva in qual mondo mi fossi. Vieni a trovarmi, mio William; ora dobbiamo vederci tutti i giorni, finché io rimango ancora in Inghilterra. Verrà pur troppo presto l'oceano a separarci per mesi ed anni. Mio William, mio solo William, la tua Emma ti aspetta. WILLIAM AD EMMA. Londra, 8 agosto. Tu mi hai promesso, Emma, che porterai con te questa mia lettera e che non la leggerai che a Madera. Qualche cosa di mio ti sarà compagno nel tuo viaggio, e appena sbarcata in un paese straniero, una mia parola ti darà il primo saluto. Oh perché non posso io chiudere in questo foglio fortunato tutto me stesso? Perché mai la fantasia umana che ha creato gli spiriti, le ombre, i fantasmi, non ha tanta potenza da trasformare i corpi viventi in questi spiriti invisibili? Perché mai i medici non possono conservare un uomo vivo e addormentato per anni ed anni? Perché mai il pensiero corre sempre più in là della mano? Perché tanta sproporzione fra il pensiero e l'azione? In questa mia lettera il mio spirito ti saluta, o Emma, e aleggiandoti intorno, vuole che l'isola su cui hai posto il piede sia per te un giardino, un paradiso; vuole che il suolo di Madera sia per te una terra benedetta che ti dia la salute, la pace, la gioia. Io avrò il coraggio di amare quell'isola che mi ha tolto la mia Emma per tanto tempo, avrò il coraggio di benedire Madera. E tu mi hai scacciato dalla tua isola, come Dio scacciava i nostri padri dal primo paradiso, né mi hai concesso di venirti a trovare una sola volta, un'ora sola. Hai voluto far segnare la mia condanna colla penna di un medico per te venerando, ma tu fosti il giudice crudele e maliziosamente ti sei nascosta dietro la toga di un magistrato inappellabile. E colla tua solita grazia, col tuo pennello d'artista, nelle tue lettere e nelle nostre conversazioni interminabili degli ultimi giorni, mi hai voluto fare un quadro molto lusinghiero del tuo dottor Thom; me ne hai fatto un tipo del medico filosofo, dell'uomo di cuore saldato insieme all'uomo di scienza; me l'hai fatto un tipo di sublime bontà; ma non sei però riuscita a farmelo amare. Per me il dottor Thom è pur sempre il giudice che ti ha esiliata dall'Inghilterra e ha scacciato il tuo William dalla terra promessa, dove egli possiede tutti i suoi tesori. Io non l'amo punto il tuo Franklin divenuto medico, il tuo dottor Thom. In mezzo al mio dolore ho un'immensa consolazione. Io so di sicuro che a Madera qualche cosa ti mancherà; ti mancherà tutto quello che manca a me. Né l'aria imbalsamata, né i fiori, né le valli ridenti della tua isola, né la bontà della zia Anna potranno riempire quel vuoto. Guai a me se a Madera ti sapessi completamente felice. Vedi Emma, io ti amo troppo, e tanta superbia ho del mio amore, che non ho mai concepito l'idea che io potessi divenir geloso di un altr'uomo. E chi sarebbe tanto temerario d'amarti come io; qual luce oserebbe brillare dinanzi al sole del nostro amore? Chi mai avrebbe il diritto in questo mondo di alzare il capo e di dire: - Io amo Emma più di William? - Io dunque non sono geloso di alcun uomo su questa terra; e se Dio scendesse sotto la forma d'un uomo, io non sarei geloso di Dio. Il tuo William, invece, è geloso della natura e d'ogni cosa bella che ti sta intorno. Io temo sempre che nel contemplare il mare azzurro e il cielo stellato, che nel folleggiare tra i prati fioriti e profumati, tu debba rivolgere un pensiero d'amore a quelle belle cose, e senza che io abbia la mia parte in quel pensiero. Tu ami tanto le belle cose! T'ho udito più volte parlare lungamente, con vera passione, d'una farfalla o d'uno scoglio coperto di muschio; t'ho udita discorrere con entusiasmo d'una quercia su cui si arrampicava un'edera e che avevamo veduta insieme nei giardini di Kent. Ecco, tu dicevi, una creatura che possiamo amare senza rimorsi e senza dolori, la possiamo amare con passione, anche senza che sia cosa nostra. L'amore per la natura è una passione sempre vergine, e nessuno ha potuto chiudere tutta quanta la natura dietro le pareti di un serraglio o le inferriate d'un carcere: ve n'ha per tutti, anche per l'uomo più povero del mondo. Ora, mia Emma, tu sei in un paese cento volte più bello dell'Inghilterra, dicono più bello dell'Italia ed io son geloso di Madera. Quanti volumi non ho io letto in questa ultima settimana su quella tua isola! E per mia fortuna non ho potuto trovare a Londra tutte le opere che parlano di Madera: per cui posso tormentare ancora il mio libraio; posso ancora aspettare nuovi libri dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Portogallo. Ho fatto scolpire dietro un mio disegno una piccola biblioteca, dove non collocherò che opere che parlano della tua isola. Ho già saputo però che è l'isola dei fiori, che gli eliotropii si mietono come l'avena, perché invaderebbero i campi; ho saputo che si passeggia all'ombra delle passiflore, e che i boschi son pieni di lauri, di alberetti sempre verdi, di eriche alte come un uomo. Tu che ami tanto le eriche e le hai vedute nelle nostre serre alte un palmo, potrai passeggiare e perderti in un bosco di erica arborea Ti ricordi quando mi dicevi che le mimose e le eriche erano i merletti d'Inghilterra nel mondo delle piante, ed io, ridendo, ti diceva una secentista, un poeta barocco? Ebbene, tu vedrai ora i merletti giganteschi di Madera. Il primo pensiero di William che tu trovi nell'isola è dunque un pensiero di gelosia, d'immensa gelosia per quella bella natura che ti possederà tutta quanta per chi sa quanti mesi; è un'invidia infinita per quei fiori che andrai cogliendo a piene mani, che ti inebrieranno coi loro profumi. Come troverai fredde e nuvolose le mie lettere che ti giungeranno ancora imbevute della nostra nebbia inglese! Con quanta compassione penserai a noi poveretti che viviamo per cinque mesi dell'anno senza foglie sugli alberi, senza fiori nei prati! Vedi, mia Emma, prima di gettarti in braccio della bella natura che ti circonda e di cui non hai sentito fino ad ora che il profumo lontano, tu mi devi fare una promessa. Tu mi hai a promettere di lasciarmi un posticino, fosse pur piccolissimo, in ogni tuo fiore, in ogni tua ammirazione per Madera. Soltanto in questo modo potrò amare anch'io la tua isola. Quando, portata sul dorso del tuo cavallo, dall'alto di una rupe nera nera guarderai giù nella valle e vedrai fra le canne ondeggianti dello zucchero i cespugli fioriti delle rose, e il vento te ne porterà gli odori inebrianti; quando tutt'all'intorno ti vedrai un mare sereno e tranquillo e non saprai dove fermare il tuo occhio innamorato in mezzo a tutto quel mare di bellezze, tu hai a dire:- Che cosa penserebbe William, se mi fosse qui accanto? E quando ti porterai trionfante a casa nel tuo canestro tutto un bottino di fiori, tutto un diluvio di fiori, di gelsomini, di eriche, di ramoscelli di mirto; e quando nella tua cameretta sospirerai profondamente, respirando tutta quell'aria profumata, m'hai a dire: - Non senti, William, questa voluttà che rassomiglia tanto alle gioie dell'anima? E quando alla sera porterai alla spiaggia il tuo scialle, e là sdraiata, coi tuoi piccoli piedi presso all'onda del mare, ti perderai nel profondo di un cielo trasparente come lo zaffiro, accompagnando i tuoi sogni e i tuoi pensieri coll'alterna carezza dell'onda, anche allora, Emma, pensa subito:- Come sarebbe felice William, se fosse qui con me, coricato anch'egli sulla fresca arena! Vedi, mia Emma, non mi chiamare esigente: no, chiamami soltanto innamorato. L'amore è la vita intiera divenuta un desiderio, è la vita tutta quanta, con tutta la sua forza, con tutto il suo caldo, con tutti i suoi misteri trasformati in una cosa sola, in un desiderio insaziabile, onnipotente, infinito. Intendi, Emma, che cosa voglia dire un uomo tutto trasformato in un desiderio? intendi che cosa voglia dire avere in un pugno solo la bellezza, la gioventù, l'ingegno, l'ardore dei sensi, l'ambizione, l'odio, il pensiero, la poesia, tutte le forze umane e sentirle tutte quante consumarsi in una sola scintilla, bruciare dello stesso fuoco? E sentirsi pronto da un minuto all'altro a gettar tutta quella forza, tutta la vita ai piedi di una creatura per averne un sorriso, e amar la vita, soltanto per poter dire ad una donna: - Io posso morire per te? - E dopo tanto ardore e dopo tanto vulcano, sentir sempre nelle viscere, eterno, insaziabile, infinito quel desiderio, che è poi la vita intera, che è tutto l'amore? Il fiato di Dio nella creta dell'uomo è l'amore; l'infinito del futuro legato alla creatura d'un giorno è l'amore; la scintilla strappata al cielo da Prometeo è l'amore; o almeno tutto questo è l'amore ch'io sento per te. E la parola è ancora ben povera cosa per dirti quel che sento, per circondarti di un'atmosfera che per tutto il tempo che vivrai a Madera ti dica sempre, in ogni ora del giorno e della notte: William è qui. William è sempre qui con me. La parole è il segno che nel deserto mostra al pellegrino la via; ma la via si conquista sulle ali della fantasia e sul dorso d'un cavallo ardente. Se è vero che con venti lettere noi possiamo esprimere tutti i nostri pensieri; se è vero che il genio con sette note ci trasporta nei mondi sconfinati dell'armonia; se è vero che la natura colle tavolozze di sette colori basta all'impresa di dipingerci l'universo; è pur sempre vero che al di là del pensiero scritto, al di là dell'armonia del maestro, al di là della tela del quadro vi ha un mondo misterioso che la nostra mente chiama suo e che non fu ancora acquistato dal poeta, dal maestro, dal pittore. È questa la nostra grandezza, che vi sia un mondo dove lo spirito non trova frontiere, dove non lo arresta alcun doganiere; dove la fantasia e il sentimento spaziano senza battere il capo impaziente contro le pareti della forma, contro le inferriate della scienza. L'uomo sente assai più di quel che possa dire, e tutte le lingue parlate e tutte le forme strappate dalla mano temeraria del poeta al mondo dell'infinito, non bastano ad esprimere quel che l'uomo può sentire in un istante solo d'odio o di amore, di voluttà o di dolore. O mia Emma, dove mi sono io smarrito! Voleva darti il benvenuto al tuo arrivo a Madera; e ti ho parlato di gelosia e fors'anche t'ho fatto della metafisica. Tu che mi intendi, anche quando non parlo, m'avrai inteso anche questa volta. Tu avrai inteso e perdonato la mia gelosia, in cui non sento ombra d'amarezza; in cui credo non si nasconde la più piccola vanità, il più innocente egoismo. Tu sei una cosa mia, come sono miei i miei pensieri, i miei occhi: tu sei mia come son mie le mie mani; tu sei più che la metà di me stesso e ora che sei lontana mi sento avvinto più ancora di quando mi sei vicina; e pensando a te con infinito dolore, mi pare che una parte di me stesso sia in me malata, sicché io di essa sola mi occupo: per essa sola mi tormento e mi cruccio. La gelosia di un'anima onesta è il bisogno di volere che il nostro calore riscaldi tutte le nostre membra, che nelle nostre viscere non entri che il nostro sangue. La gelosia, così com'io l'intendo, è la coscienza piena di sé stesso, è l'amore di sé stesso, è l'istinto della propria conservazione, è il più santo dei diritti naturali. La massima parte di me stesso è a Madera ed io l'accompagno con immenso amore ed io la circondo d'un fiato che me la conservi, che me l'accarezzi, sicché quel ch'è mio rimanga mio soltanto e mio sempre e innanzi a morire non m'abbia a veder dilaniate le membra e sanguinanti escirmi le viscere da un'ampia ferita. L'uomo solo non esiste, te l'ho pur detto le cento volte; non esiste la donna sola; ma solo io conosco un uomo- donna vivente, vivente di quella ch'io soltanto chiamo vita. Fa dunque, mia Emma, di serbarmi il mio posticino sui basalti muschioso dell'isola e alla spiaggia del mare e nel tuo canestro di fiori. E che l'aria imbalsamata di Madera ti accarezzi soavemente le chiome, e ti entri mollemente nel petto e ti risani e ti ritorni a me presto presto. Che sotto i tuoi piedi fioriscano i prati e sul tuo capo facciano cadere una pioggia di fiori anche gli alberi della foresta; che intorno a te Madera divenga un paradiso di armonia, di profumi e di dolcezza e che in quel paradiso tu abbia a serbare un posticino per il tuo William innamorato. EMMA A WILLIAM. Madera, 3 ottobre 18... Già da parecchi giorni, mio William, io mi sentiva languida e oppressa: ogni movimento mi dava pena e l'ozio non mi riposava. Passava le ore alla mia finestra, quasi sdraiata sul seggiolone e leggeva e rileggeva le tue lettere; mia primissima gioia quando sono lieta, mio unico conforto quando sono triste. Fra l'una e l'altra lettera, guardava fisso il mare, questo eterno compagno della meditazione e il mio occhio, per lente oscillazioni, passava senza saperlo dalla scena della vita presente e vicina all'ultima linea sfumata e incerta dell'avvenire. Prima il porto solcato dalle bianche vele, rotto dai remi numerosi, increspato dalle mille onde che io potevo distinguere e numerare: la vita in azione col suo chiasso, coi suoi mille movimenti, coi suoi contorni netti e recisi. Più in là il mare era azzurro e senza rumori: una vela lontana si perdeva in quell'orizzonte più sereno, e pareva un'ala di uccello marino. Là era la vita del pensiero, che attinge ancora la lena dall'azione, ma che già si solleva nei campi dell'infinito, non più confini precisi, non più chiasso; ma il fluido eterno che mai non posa e sempre si muove. E poi giù, nel fondo, l'occhio faceva ancora un passo e si trovava di nuovo in un mare grigio che si perdeva fra le nebbie dell'orizzonte: là né il chiasso che distrae, né il sereno che riposa od eleva, ma un quadro incerto e sconfinato, ma l'infinito deserto del mistero, entro cui l'uomo si smarrisce e si confonde. Era in quella parte del quadro che il mio pensiero triste e vagabondo amava meglio perdersi e divagare. Ora la linea bigia rimaneva immota, ed ora, sollevandosi lenta lenta in fiocchi di fumo, pareva plasmare una terra lontana, la terra delle eterne speranze, e dei sogni senza fine: quella terra di nubi che tante volte strappò un grido di gioia ai compagni disperati di Colombo. Là in quell'abisso di deserti nebbiosi, nessun colore, nessuna forma; ma il caos infinito da cui Dio trasse l'ordine e l'uomo la poesia; là un'eternità di movimento, là un'onda che, eternamente eguale a sé stessa, alimenta il crostaceo microscopico e la balena gigante; che eternamente impassibile copre e lambe le ossa di un pescecane morto decrepito e le reliquie di due sposi che, naufraghi e moribondi, si strinsero in un ultimo amplesso e lasciarono le loro ossa intrecciate sul piano dell'arena profonda. Là un bigio immenso che non rallegra, che non riposa, ma che affascina l'uomo perché egli lo desidera sempre senza mai abbracciarlo, perché sempre lo studia senza mai intenderlo; che affascina l'uomo perché rimane eternamente vergine innanzi alle sue braccia innamorate. Dopo aver passato più giorni a questo modo, senza aver fiato a far altro, ricordai le tue parole, o William, ricordai che l'ozio è una delle colpe maggiori; e fattami forte, coraggiosa in un momento, chiesi a mia zia che mi accompagnasse ad una gita a Machico. Aveva udito parlare vagamente di una triste storia avvenuta in quel luogo, uno dei più pittoreschi dell'isola: e voleva farvi un triste pellegrinaggio. La mia buona zia, felicissima di vedermi uscire da quel letargo mortale in cui era piombata, disse subito allegramente di sì: fece sellare una buona mula per lei e apprestare un'amàca da viaggio per me. Ti ho già scritto altre volte che questo modo di viaggiare così comune in quest'isola, mi ripugna assai, perché ad ogni movimento penso che due uomini si affaticano e sudano per me, e mi domando subito: - Perché mai Dio ha fatto gli uomini di modo che una metà abbia a servir l'altra? La zia calma alquanto i miei scrupoli, mostrandomi i due bruni e robusti arrieiros; pei quali la tua Emma sottile e smilza sarebbe stata più leggera d'una canna. Si va a Machico per una valle tutta verde e tutta ridente, e le fanno cornice basalti neri, acuti, profondamente lacerati come merli d'un antico castello che si confondono coi crepacci serpentini aperti dal tempo nelle sue pareti. I campi di Madera così piccoli e ridenti e tranquilli in mezzo a quella natura di neri giganti mi sembrano nidi d'usignuoli sospesi al cratere d'uno spento vulcano. Fra quelle masse rozze, ciclopiche di roccie, alza il capo più alto il Picco Castanho. Il moto oscillante e lento dell'amàca mi cullava per modo che di quando in quando io sonnecchiava e allora sognava di essere imbalsamata in un'amàca del Perù, fra due palme ove due neri avvoltoi venivano a cantarmi l'inno funebre, appoggiati simmetricamente con una gamba sola sulle due corde della mia amàca. L'acre saliva mi scendeva intanto giù per la gola, e un colpo dure e secco di tosse veniva a svegliarmi improvvisamente, ed io, spaventata, cercava gli avvoltoi e non vedevo dinnanzi a me che la caramuza ridicola del mio arrieiro che mi scacciava d'improvviso i tristi pensieri. Era Arlecchino che veniva col suo bastone a scacciare dalla scena un direttore di pompe funebri. Saltai lesta dall'amàca appena giunti a Machico, e mi sentii ben diversa da quando era partita da Funchal. Poche ore di moto, e un soffio d'aria diversa da quella che soglio respirare, mi cambian d'un tratto e mi sento un'altra donna. Machico è un povero, è un poverissimo villaggio; ma sembra venirti incontro sorridendo e vorresti subito collocarvi un romanzo e un'elegia, e l'elegia ve la trovai senza bisogno d'inventarla. Dopo aver ammirata la spiaggia larga ed estesa e la piccola fortezza che sta sul mare e che chiamano desembarcadouro, andai alla chiesa, e là mi si narrò dal sagrestano questa semplice storia: In un anno del 1300, non si sa quale, una piccola nave giunse dall'Inghilterra su questa spiaggia e sbarcò un uomo e una donna, due bellissimi giovani inglesi, condannati a vivere e a morire nell'Isola di Madera. Si chiamavano Machim ed Anna. Si ignora qual delitto avessero commesso quei giovani, ma di certo il peccato deve essere stato ben lieve o il giudice molto pietoso, dacché furon puniti col dover vivere e col morire insieme in un luogo di paradiso. A pochi passi dalla spiaggia si innalzava un cedro antico quanto l'isola, una vera foresta, una cupola di nera verdura, un labirinto di rami e di foglie che filtrava il sole e rompeva l'urlo delle procelle. Nel suo seno ospitale, il caldo dell'estate diveniva languido tepore, l'aquilone dell'inverno una fresca brezza. Là i due amanti reietti dall'Inghilterra si fecero una capanna, il loro nido d'amore, e là vissero felici, chi sa quanti anni e senza figliuoli. La tradizione dice che essi non si muovessero mai da Machico. Senza figliuoli, senza amici, senza nemici, non ebbero altro tempio che la volta sempre verde del loro cedro; non ebbero altro orizzonte che l'orizzonte sempre azzurro del mare; non ebbero altro amore che il loro amore. Anna morì prima di Machim, e Machim la seppellì sotto quel cedro; ne tagliò un ramo e con esso scolpì una croce, la più bella che mai si fosse veduta. Piantò la croce, ne fece un'altra perfettamente eguale, e scavò accanto alla prima fossa un'altra fossa. Appena l'ebbe finita morì. Nessuno dei vicini udì una parola escire dalle labbra di Machim dopo la morte di Anna. Un mattino lo trovarono morto, steso al suolo, colle braccia avvinghiate intorno alla croce che lo copriva. Convenne distaccarlo a forza, e lo si seppellì accanto alla compagna. Per molti e molti anni quel cedro fu creduto sacro all'amore, gli amanti traditi andavano a piangervi la loro sventura; gli amanti sventurati andavano ad implorarvi la gioia di essere amati; forse ancora gli amanti felici vi andavano a mormorare parole di amore felice. I venti sussurravano sempre dolcemente fra i rami del cedro, e le onde del mare mormoravano soavemente ai piedi di quelle croci. Un giorno il governatore Tristâo Vaz Teixeira, quello stesso che insieme a Zarco colonizzò Madera, con una scure crudele stramazzò quel cedro, e vi trovò tanto legno da farne una chiesa; e fu edificata appunto sulla tomba dei due amanti inglesi. Il tempio del Signore si innalzò sopra un tempio d'amore, e una santa poesia si appoggiò sopra un'altra poesia tutta tenerezza. Di Machim e di Anna, dopo cinque secoli, rimangono due reliquie. Rimane il nome di Machico dato ad un povero villaggio; rimane un frammento della croce che Machim aveva scolpita per la tomba di Anna, e che il sagrestano mostra al viaggiatore pellegrino. Caro William, ho baciato quel pezzo di cedro e ho domandato a me stessa, se anche noi, quando saremo morti, non saremo messi l'uno accanto all'altro. Il moto dell'amàca mi aveva stancato e il mare era tranquillo come lo specchio d'un lago. A Machico si prese un guscio, si giunse a Canical: poche capanne e una chiesa più brutta e più triste delle capanne; si visitò la cappella di Nossa Senhora da Piedade e si ritornò per mare a Funchal. Il mio letargo s'era cambiato in una soave e tranquilla malinconia; il mio respiro era più libero ed io era contenta di aver scoperto una gemma di poesia, perché la poteva mandare al mio William. EMMA A WILLIAM. Madera, 19 ottobre 18... Ho vissuto per quindici giorni nella poesia raccolta a Machico: avrei voluto essere un poeta per poter deporre anch'io sulla tomba di Machim e di Anna la mia corona di fiori; avrei voluto il genio per rendere immortali quei due fortunati esuli che riposano da cinque secoli fra le radici di quel cedro che fu il nido d'un amore senza nubi e senza procelle. Sopra tutto poi avrei voluto essere Anna e avrei voluto che tu fossi Machim. Perché tanta poesia doveva sfumare a un tratto dinanzi a un quadro desolante e d'una dura realtà? Perché l'azzurra poesia del passato doveva esser coperta brutalmente dal drappo nero d'un funerale? Ti ho promesso di non esserti avara della più piccola delle mie gioie, di non risparmiarti nessuno dei miei dolori: or vedi con quanto scrupolo mantengo la parola. E poi mio William il dolore che ho sentito quest'oggi mi ucciderebbe se non l'avessi a dividere teco e poi è un dolore che ci ammaestra e ci eleva: devo essergliene grata. Quando il dolore bruscamente ci piglia per il braccio e ci guida sulla via del dovere, noi dobbiamo ringraziarlo. È un medico che taglia e brucia, ma guarisce. Ah! dovere, dovere, tu sei un Dio di ferro, ma ci tempri l'anima ad alte cose; tu sei crudele, ma tu solo ci dai il santo orgoglio di esser qualcosa più d'una creatura che nasce, mangia e muore, qualcosa più d'un verme che, dopo aver divorato tante creature vive, dà alla sua volta le proprie carni in pasto di altri vermi minori. Se qualcosa d'immortale è in noi, è l'esempio che i nati lasciano ai nascituri e il nostro dovere è il palladio della dignità umana che le generazioni si trasmettono l'una all'altra, e tutti dobbiamo esserne gelosi custodi, sacerdoti incorrotti. Se tutti prestassero a questo Dio il culto ardente che io gli presto fin dalla prima fanciullezza, qual paradiso non sarebbe il mondo! Or stà a sentire, mio William. Ieri io mi ero svegliata piena d'energia e per tutta la notte non aveva tossito che una volta sola. Son così avida della mia saluta, son così ardente di conquistar nuove forze per far piacere a te, che volli subito mettermi alla prova; e sola sola, col mio ombrellino che voleva adoperare non contro il sole ma per farne un alleato pietoso dei miei piedini ancora deboli, escii di casa presto presto e prima ancora che la mia buona zia Anna si fosse svegliata; e mi mossi arditamente verso la strada più ripida che da Funchal si dirige verso il nord e conduce al piccolo Curral. Quei di Madera chiamano questa strada con parola molto felice e poetica caminho do foguete o strada dei razzi. Or bene la tua Emma voleva far arrampicare i suoi polmoni su per il caminho de foguete ed ogni passo affaticato dedicava al mio William. Come si diventa egoisti, quando si ama; quanto si diventa egoisti, quando il nostro amore ha bisogno della nostra salute! Io guardai all'erta del cammino e mi spaventai; ma poi subito dopo chinai gli occhi, misurai i passi coll'alternar del respiro e lentamente, ma sicuramente, riuscii ad ascendere forse cento passi senza stancarmi e senza tossire. Come era felice di quella mia bravura, quanto era superba della mia conquista del caminho de foguete! E tutta la mia bravura, le mie conquiste erano per te, mio William. Dopo quei cento passi la strada si faceva piana; due muricciuoli la stringevano, quasi un torrente pieno di sassi e chiuso da dighe; ma giù per quei muricciuoli cadevano cespugli di eliotropii profumati d'un violetto oscuro, così belli che la mia mano correva impaziente a volervi far bottino. Tu conosci però le mie abitudini: non so sciegliere il fiore d'un prato, il ramoscello di una foresta senza chiederne licenza al padrone del prato, al padrone della foresta. Non è ancora questo un nostro dovere? Qui il proprietario non poteva esser lontano; feci ancora pochi passi, vidi che il muricciuolo si apriva per un cancello verde, basso e socchiuso, si entrava in un campo di ignami e di maiz. Un viale tutto fiancheggiato da alte banane conduceva ad una modesta e linda casetta colle persiane d'un verde vivissimo e le pareti d'un bianco bigio. Dinanzi alla casa vidi un cortiletto, dove alcune galline beccavano avidamente la loro colazione, e ad un lato un alto fico che faceva ombra densa e fresca a quel luogo modestamente pulito. Appoggiata al muricciuolo del cancello, mi alzai sulla punta dei piedi per spiare se vi fosse in tutto quel verde un'anima viva, e la scopersi subito. Sotto al fico stava seduto sopra una sedia di paglia un uomo robusto; in manica di camicia, e che mi dava le spalle. Pareva guardar fisso a qualcosa che avesse in grembo e ch'io non poteva distinguere. Se l'avessi veduto di faccia, avrei subito letto nel suo volto se potessi chiedergli un fiore, ma né sulle sue spalle, né sul colore de' suoi calzoni, né nella forma delle sue ciabatte poteva trovare elementi per giudicare della sua cortesia, e segnando colla punta del mio ombrellino sull'arena del viale molti W, or grandi, or piccini, esitava, sperando che quella creatura viva mi avrebbe presto mostrato il volto, che mi avrebbe veduto. Ma quegli eliotropii eran troppo belli: ed io era lieta e petulante come una fanciulletta, tanto mi avevano rallegrato l'aria mattutina e la salita dell'erta. In cattivo portoghese e colla voce tremante osai indirizzar la parola a quelle spalle ostinate nel loro silenzio: - Signore, mi perdoni ... - Chi è là? E dicendo questo, l'uomo dalle spalle ostinate, si rivolse e mi guardò. Aveva sulle ginocchia una fanciullina sui dieci anni che pareva dormisse. - Signore, voi avete sul muricciuolo del vostro orto degli eliotropii così odorosi e belli che mi hanno tentata e son venuta a chiedervi licenza di coglierne alcuni. - Signora mia, son tutti vostri, non sapeva che fossero fioriti: coglietene quanti ne volete. Intanto io guardava quell'uomo e quella fanciullina, e la mia allegrezza petulante andava rapidamente passando nella tristezza più cupa. Io avevo di certo dinanzi a me il quadro di una grande sventura. Il padrone degli eliotropii era un campagnolo di Madera, dalle spalle tarchiate, e il volto bruno faceva contrasto con un collo ancor più bruno. Non aveva cravatta, e la camicia ampiamente aperta mostrava che quel collo non aveva mai avuto paura del sole. Il volto allungato, con barba nera, naso aquilino, faccia franca rozza, più rughe in volto, e sopratutto sulla fronte, che capelli bianchi in capo. Sul fondo d'una giovialità ingenua ed un cuore espansivo si leggevano le tracce d'un profondo dolore. Neppure per parlare quell'uomo poteva riposare le rughe che dalle sue sopracciglia si arrampicavano lungo un solco profondo scavato in mezzo alla fronte, là dove se ne spicca il naso. Né quel solco, né quelle rughe procellose, però, gli impedivano di essere cortese. - Accomodatevi su questa sedia, signora, voi siete stanca, avete il respiro affannoso; non avete voi il petto gracile? E pareva che, mano mano egli s'andava accorgendo ch'io era malata, il suo accento si raddolcisse e le sue sollecitudini per me andassero crescendo. Mi porse egli stesso una sedia vuota che stava accanto alla sua, senza posar per questo la bambina che le sue braccia robuste e vellose portavano come una pagliuzza. Dove vedo un uomo che soffre, dove sospetto un dolore, io senza volerlo, senza saperlo mi arresto, affascinata da un'irresistibile attrazione. Mi sedetti e dimenticai gli eliotropi, che, pur senza ch'io li vedessi, mi andavano imbalsamando l'aria all'intorno. - Sì, mio buon signore, son malata di petto, son venuta a Madera per guarire, vi son da un anno e sto assai meglio. Quell'uomo non aveva ascoltato di certo le mie ultime parole. Colla palma della mano sinistra, ampiamente aperta, si picchiò sulla fronte, sicché tutta la coperse, e più che parlare, gridò: - Ah maledetta, maledettissima malattia! Sempre e dappertutto dei tisici. Perché mai Domeneddio, onnipotente, e onniscente, ha mai fatto dei polmoni più fragili della carta asciugante? Voi, mia signora, guarirete, guarirete senza dubbio; ma io ... ma io ... E sospirava e guardava la fanciullina che allora osservai anch'io. Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d'un angelo e aveva in sé la bellezza della razza latina e dell'inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato grazioso, sopracciglia nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d'un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all'indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane, dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l'occhio lungamente. - Vedete questa mia Dolores, è l'ultima che mi resta, e l'ho chiamata Dolores, perché è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici. Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perché guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera. Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi. - Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione! Maledizione! Quel dolore però era troppo grande, perché potesse a lungo mescersi coll'ira: e quel pover'uomo, chinando il capo su quel volto d'angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfi di lagrime. - Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent'anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io. - Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch'io, sapete, ebbi undici fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente. - Lo spero anch'io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, darei - fuoco alla mia casa e me n'andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l'America, per il Portogallo, per la casa del diavolo ... scusatemi, signora. - Ma come mai, voi nato qui, in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura? - L'è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perché almeno abbia a giovare a chi può ancora approfittare di una lezione. Avete voi marito? - No. - Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. E poi, vedete, voi avete il petto gracile, voi avete un'aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cateratte del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori: passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare una persona come voi a cui raccontare i miei dolori. Io ho quarant'anni soli, sapete, quarant'anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne dànno almeno cinquanta e anche più. Non me ne meraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire. Anch'io ebbi i miei vent'anni; anch'io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un'altra nella coda, e giù, e giù, sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l'aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d'una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finché non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi; voleva sempre esser fra i campi di maiz o all'ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne: non so perché, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all'amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l'aria più pura, e respirarla a onde e tutti i picchi più alti dell'isola hanno veduto i miei piedi: c'è qualche roccia che io solo e l'aquila abbiamo toccato. L'amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto. Un giorno me n'era andato a Funchal e stava passeggiando sul molo del porto, aspettando un amico con cui dovevo imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare a caccia di conigli. Zufolava, impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinnanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse tenuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava un'altra creatura giovane e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse. Quella signora doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch'io ricordo è che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l'amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo, gli dissi che non partivo più per Porto Santo. Era la prima donna ch'io aveva guardato in volto, ma mi parve subito che non avrei potuto vivere senza di lei, e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me. Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e che quando questa fu morta ed io doveva sposare Jessy, ella fu colta da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n'andava mai ed ella era magra magra. Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perché era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: - Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e avrai dei figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovar tuo zio, dimentica Jessy, io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar tua madre e vorrai tu sposare la prima donna che t'è venuta fra i piedi? Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani. Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d'allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba. Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia. E non solo mi è morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com'eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora; biondi rosei intelligenti, amorosi. Son vent'anni che ho preso moglie e per vent'anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora. E capite voi cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perché non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll'occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatal malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d'improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andar errando il mattino di letto in letto a veder le macchie rosee che la saliva insanguinata d'una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi che cosa voglia dire vivere fra l'agonia dei vivi e l'agonia dei moribondi e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa? Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figliuoli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di quindici anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d'acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull'erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele feroce; e poi si avvicina il fazzoletto alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato. Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando, mi gridava: - Papà, papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti? Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perché, e Michele mi accarezzava e diceva: - Papà, papà, non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive. - Ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli. Ch'io sia maledetto, ch'io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch'io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai propri figliuoli, no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovinetti nell'età delle gioie e delle speranze. No, no, ch'io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce. Non siete voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?» Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando: - Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli. E fuggii da quell'orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della zia, che mi veniva incontro. William, tutto questo t'ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo. MISS ANNA A WILLIAM. Londra, 3 Agosto. William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah, William, tu che l'hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell'angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perché tenterei nasconderti l'orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perché tenterei nasconderla nell'ultima pagina della mia lettera? Son sicura che nell'aprir questo foglio, tu sentiresti nell'aria l'odore della fossa, ed io non potrei ingannarti. Potrei tacerti ancora per qualche tempo l'orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevute notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l'agonia. Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perché oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio, come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell'Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finché non rimangono che le ossa e le viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell'Abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti, e chi vive a lungo non si trova all'ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina, spossato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto? William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d'un minuto l'orologio della tua vita. Io piangerò finché vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo modo; ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d'una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d'adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell'udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni della vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell'angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza; malinconica, malata, sofferente, ella non aveva che gioie e benedizioni per le creature che l'avvicinavano. Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi, ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero. Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggìo l'ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopoché ella era morta; troverai ancora vivo il suo canarino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti: tutto troverai, fuorché la nostra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre. Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non l'hanno conosciuta; vieni a raccogliere l'ultimo fiato di quell'anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri della finestra per cercare i raggi di un sole che più non tramonta. La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un'amica, si indispettiva per un nonnulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella, sempre pazientissima, sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono. Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente. Le proposi di far chiamare un medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l'avesse assalita colla rapidità del fulmine. Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto, e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un'ora sola faceva cento cose; in un'ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria, e tutto la scontentava. Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti ad importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso. Una mattina, e fu l'ultima della sua vita, mi alzai tardi perché mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: - Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all'ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l'orologio e più di una volta mi avvenne di metterlo all'orecchio, perché mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo. Finalmente alle quattro ella venne: le corsi incontro: era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l'affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella cameretta da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo né forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e con sospiri profondi e affannosi. Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa, e poi, fuori di me, appoggiandomi alla sedia e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa. Voleva fare un mondo di cose in una volta sola; avrei voluto aver senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma. Rientrai pochi minuti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: La mia padrona è morta! Miss Emma muore! - e si strappava i capelli. Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del color della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l'ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, e le gridai: Emma, Emma! con una forza tale che il mio grido mi spaventò. Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevò una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi. Mio William, io rimasi fuor di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo, non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola. Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittoio, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Subito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte. Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l'hai tanto amata. Sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell'ultimo tesoro senza dolore e senza una orribile trepidazione che, in sì lungo viaggio, possa andare smarrita. Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l'Oceano; possa giungerti intatto ... William, io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch'io piango e soffro e vivo perché t'aspetto: e conterò i giorni e le ore, perché so che col primo postale di Panama tu sarai qui con me. Fin allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, il suo cembalo, tutto ciò che fu suo. Nessuno porterà i suoi passi profani là, sotto i pini, dove ella riposa accanto al padre. Più d'una volta ella m'aveva detto che là voleva dormire l'ultimo sonno; e là l'ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa. Vieni William, vieni subito: io ti attendo. Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole. L'ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte. Londra, 14 luglio, 18… William, mi sento morire. Non l'ho detto alla buona zia Anna, non l'ho detto al medico, perché sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l'hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m'abbia a rispondere, che tu abbia a venire a vedermi un'ultima volta - Ma tu non morrai. - E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all'altro. Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire. Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d'aver vissuto, che mi fa beata d'averti conosciuto, di averti amato, d'esser stata tanto amata da te! Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che non sei stato e non sarai d'altri che della tua Emma. M'hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti, perché tu possa essere di un'altra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perché il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio. Ah, padre mio, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che ella muore senza aver messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l'aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato quando mi davi la vita. Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m'aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se t'avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno. Ma tu devi vivere, mio William, tu me l'hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l'ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai colto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d'amarmi. Tu me l'hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno, in un delirio d'amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finché ci rivedremo in cielo. Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d'attività. Nella scienza, in viaggi, pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente. Fa tutto quel bene che non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch'io non avrò vissuto inutilmente, perché la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche, nei tuoi affanni. Io muoio coll'orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi. Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l'ombra della tua Emma ti sta vicino; che ella incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi che ella ti contempla e sorride al lampo del tuo ingegno. E quando, nella lotta delle passioni politiche, tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggeranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l'ombra della tua Emma; ricordati che ella applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, e generoso. E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto, che io piango e m'allegro con te. E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorato insieme tante volte come due fedeli sacerdoti del bello, e nell'azzurro d'un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell'onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch'io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria. Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t'aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l'infinito avrà ad appagare. La tua Emma parte e t'attende dove tu pure verrai. Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io t'amerò eternamente. Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto a questa pagina si leggono queste linee: Ti giuro, mia Emma, di vivere. Ti giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo. Quito, 27 ottobre 18... WILLIAM. Dacché ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano. Dieci anni son passati ed io ho diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute. Ad onta del mio diritto, ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna. E dopo aver sperato fino all'ultima ora una parola del mio amico, ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato. Ho la ferma convinzione che l'averli letti non farà male ad alcuno, potrà fare bene a molti.

Pagina 25

Teresa

678574
Neera 1 occorrenze
  • 1897
  • CASA EDITRICE GALLI
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Abbattuta sopra una sedia, coll'occhio fisso sul letto delle gemelle, Teresina ripeteva: "Non scenderò, non scenderò". Ma l'orecchio, intento, spiava ogni passo che risuonasse nella via. Già le sembrava di averlo udito, quel passo, battere in cadenza, lentamente, come un tacito richiamo. "Non scendo, oh! non scendo certamente". Disse ancora così, per persuadersi ch'ella era ben decisa. A un tratto prese il lume, diede un ultimo sguardo alle gemelle che dormivano e si lasciò scivolare giù dalla scala, leggiera come un'ombra. All'ultimo gradino si fermò, nascose il lume dietro un pilastro e mosse brancicando nel salotto buio. Disse ancora: "Non gli parlo, faccio solamente per vedere se c'è". Non urtò nessun mobile; giunse dritta davanti alla finestra e l'aperse. - Grazie. Orlandi le aveva afferrate le mani e glie le stringeva con passione. La fanciulla non rispose né alla stretta né al grazie; ma tremava così straordinariamente, che Orlandi, sorridendo un poco, riprese: - Sono stato ardito, le chiedo scusa ... se mi fossi immaginato di darle dispiacere ... Teresina scosse il capo. - No? ... non dispiacere forse, ma certamente un disturbo. Oh! mi assicuri; mi dica che questa sua bontà per me non le procurerà delle noie in famiglia ... Teresina fece per dire qualche cosa, e non potendo riuscirvi, strinse leggermente le mani che imprigionavano le sue. Orlandi ebbe uno slancio di gioia; soggiunse: - Siamo soli? - Sì. Seguì un breve silenzio. Ad onta della sua franchezza, anche il giovane sembrava commosso. Disse infine a voce bassa, avvicinandosi piú che poteva, colla faccia passata a metà fra le sbarre della finestra: - Sa che cosa volevo dirle? Teresina principiò a tremare. - Non lo indovina? Istintivamente, come all'avvicinarsi di un pericolo, ella volle ritirare le mani. - Non lo indovina? ... - ripeté il giovane stringendo piú forte. - Non s'è accorta di nulla? ... Non sa che io l'amo? Irrigidita, la fanciulla ascoltava quelle parole così nuove per lei, sentendo salire, dalle mani del giovane, una ebbrezza in tutte le fibre. - È la prima volta che un uomo le parla così? - Oh! sì ... E vi era tanta innocenza, tanta mestizia e tanto sgomento insieme in quella esclamazione, che Orlandi continuò, trasportato: - L'amo, l'amo! Pioveva sempre. Orlandi era bagnato dalla testa ai piedi; anche Teresina si sentiva piovere in faccia, tante stille gelate sulla sua faccia che ardeva. La via, sotto la fiamma scialba di un lampione, luccicava, piena di pozze; quasi tutte le case vicine erano immerse nell'oscurità; solo ad una finestra della Calliope brillava, oscillante, un lume. - Mi dica qualche cosa ... l'ho offesa? - No, signore ... Quel "signore" tornò a far sorridere Orlandi. Egli non riusciva a comprendere lo sbigottimento della fanciulla; non vi era abituato; però assuefacendosi a poco a poco, vi trovava un gusto piccante, mentre una tenerezza insolita gli ondeggiava nel cuore. - Una parola ancora ... mi permette di amarla? - Oh Dio ... - Mi permette? Voleva aggiungere: sarà un amore nobile e puro; ma comprese che era inutile dir ciò. Teresa non ne poteva immaginare un altro. - Ho paura. Anche questa parola fece sorridere il giovane; ma di un sorriso che non aveva nulla di irritante, che pareva anzi un compatimento, una carezza, un'indulgenza di persona forte. - Cara ... non si fida di me? Le accarezzava le mani dolcemente, prima sul dorso, poi nel palmo, stringendole le dita ad una ad una. Non si vedevano bene in quel buio, dove apparivano solo i contorni, ma si guardavano intensamente, attirati l'uno verso l'altra. Orlandi parlò ancora del suo amore. Disse che partendo all'indomani, sarebbe felice di portare con sé una parola di speranza, che le avrebbe scritto da Parma, e le domandò s'ella risponderebbe. A monosillabi, balbettando, la fanciulla dichiarò che non avrebbe potuto ricevere le sue lettere. - Perché? - Se mio padre lo sapesse! - Non lo saprà. - Io non esco sola. - Basta parlare col procaccio. È un buon uomo, ci aiuterà. Ella stia pronta quando passa, nient'altro ... qui a questa finestra. Non è difficile. Teresina non voleva. Orlandi fu eloquente, insinuante; le dimostrò così chiaro che sarebbe stato inconsolabile del suo rifiuto, che alla fine acconsentì. Un passo incerto e zoppicante risuonò nel vuoto della via, verso la piazza. - Per l'amor del cielo! Teresina, spaurita, fece atto di chiudere la finestra. - No, aspetti ... mi lasci vedere ... La fanciulla aveva già accostato i vetri, ma non si risolveva a mettervi l'arpione, mormorando nella fessura: - Si allontani, per carità ... - Aspetti un momento. È Caramella. Lo zoppo passò, e Orlandi, fingendo indifferenza, si pose a costeggiare cautamente il sentiero, come se volesse evitare di bagnarsi i piedi. Quando Caramella fu abbastanza lontano per non destare piú sospetti, Orlandi supplicò: - Un'ultima parola ... Teresina riaperse i vetri. - Mi dica che mi vuol bene anche lei! Questo, Teresina non lo disse; ma sospirò e tremò per modo e strinse così soavemente le mani del giovane, che costui non le chiese altro. - Buona notte. - Buona notte. - Pensi a me ... Silenzio eloquentissimo, prolungatissimo. - Addio. - Addio. Però non si staccavano. - Verrò presto ... Un altro passo, in lontananza, li decise; Orlandi, gettandosi il mantello sulla spalla, fradicio d'acqua, strinse ancora una volta le mani della fanciulla e si allontanò. Teresina, nello staccarsi dalla finestra, dovette reggersi al muro perché barcollava. Aveva le guance, il collo, le braccia bagnate dalla pioggia; eppure ardeva. Trovò il lume semispento, dietro il pilastro. Salì adagino, cauta, ma non piú timorosa, meravigliata ella stessa di sentirsi così forte. Tutta la casa era tranquilla. Le gemelle dormivano, russando lievemente, colla coperta fin sopra le orecchie. Teresina cadde in ginocchio nel corsello del letto, colla fronte contro il guanciale, in un'estasi d'amore; con un bisogno immenso di elevare il cuore a Dio, di prenderlo a testimonio delle sue emozioni, di benedirle e di purificarle nello slancio di una preghiera ardentissima. Il cielo, per lei, era il punto di partenza d'ogni cosa bella, ed al cielo mandava i suoi novi desideri, casta, fidente. Ringraziò Dio come di una grazia ricevuta, come di una felicità insperata. Si sentiva duplicare la vita; un altro essere palpitava in lei, dandole la sensazione strana di due pensieri in un pensiero. Era amata! Amava! Si spogliò rapidamente, dimentica di tutto e di tutti; del padre terribile, della sua buona mamma, dell'Ida che fra poche ore sarebbe desta, chiedendo le sue cure. L'assorbimento amoroso si manifestava con tutta la sua potenza. Dio e Orlandi. In letto, cogli occhi sbarrati, il corpo immobile, colla lettera stretta sul seno, ella ripensò parola per parola, carezza per carezza, tutta la scena della sera. Ed era felice. Di dormire, nemmeno la piú lontana probabilità; potendo, non avrebbe voluto, per non staccarsi dall'immagine diletta. Si rammaricava un po' di non aver saputo parlare, di non aver chieste maggiori spiegazioni, di non avergli fatto promettere che l'avrebbe amata sempre. Le dispiaceva soprattutto di non avergli domandato il suo nome. Come si chiamava Orlandi? Nella firma della lettera prima del casato c'era l'iniziale E. Forse Edmondo, come quell'amico di suo fratello? Forse Enrico? Edoardo sarebbe pur stato carino, o Edgardo ed anche Eugenio. Baciò la lettera a piú riprese teneramente, parlandole come a persona, improvvisando canti e poemi, trovando tutte quelle parole che un'ora prima, alla finestra, aveva inutilmente invocate. Stava bene dappertutto, nel corpo, nell'anima, nel cuore. Un'armonia dolcissima correva da' suoi pensieri alle sue sensazioni; aveva la piena coscienza della sua gioventù e della sua salute. Era sana ed era felice. Si abbracciava da sé, colle mani sull'alto delle braccia, sembrandole di avere nelle carni un piacere nuovo; e dentro, nell'intimo delle fibre, una leggerezza ideale che la trasportava. Non prese sonno in tutta la notte, ma sognò tra un dormiveglia delizioso, mormorando nomi d'amore. Aveva spiegata la lettera sul guanciale e vi posava sopra la faccia, colla bocca in giù, respirandola.

Pagina 165

VORTICE

678760
Oriani, Alfredo 1 occorrenze

Caterina, irritata dall'insuccesso, dopo aver troppo contato sul magnifico effetto dei bambini, non aveva poi badato all'aria abbattuta di lui. Non di meno il pranzo era proseguito abbastanza bene. Per fortuna i bambini, lieti dei vestiti nuovi e più liberi nei vecchi, che la serva aveva loro rimesso per il pranzo, si erano abbandonati al più vispo chiacchierio, mentre la mamma ogni tanto li sgridava dolcemente per frenarli ed egli acconsentiva con un sorriso. Quindi il discorso era ritornato sulla zia Matilde, la quale avendo oltrepassato i settant'anni non poteva ancora campare molto. Con quella ingenuità di egoismo propria degli eredi, Caterina valutava tranquillamente tale probabilità, traendone una lunga serie di conseguenze per se stessa e per i figli, molto più che i modi di lui con la vecchia le avevano sempre dato pensiero. Ella credeva alla buona, quantunque modesta posizione della propria casa, ma coll'antiveggenza delle madri, quando amano, cominciava a preoccuparsi dell'avvenire. Il suo affetto era specialmente per la bambina. Le difficoltà sempre più tristi per le ragazze di trovare un discreto partito, le avevano messo in cuore una specie di pessimismo, unica sua reazione contro la vita, della quale aveva sempre accettato il corso blando senza chiedersi di più. Ma Ada, che a giudicare da quel momento doveva crescere molto bella, avrebbe avuto bisogno di una certa dote per accasarsi convenientemente dopo la buona educazione, che ella pensava di darle anche a costo dei più gravi sacrifici; su questo argomento Caterina, così arrendevole, non voleva intendere ragioni. - Tu manderai avanti Carlino. Era questa la risposta, quando egli le faceva osservare che per mettere Ada nell'educandato di Fognano occorreva una grossa spesa annuale, mentre poi le ragazze uscendo dal convento non sapevano far nulla per la vita. Caterina, invece, sognava d'interessare a questo suo disegno prediletto la vecchia zia Matilde. - Che cosa vuoi dunque che faccia un giorno Ada? La maestra, la sarta? La fanciulla, già viziata dalle troppe carezze, scuoteva la testa con una smorfietta, ed egli non sapeva come replicare. Quindi colla facilità delle donne a vedere già realizzati i propri sogni, Caterina s'inteneriva orgogliosamente sull'avvenire, vedendo Ada mescolata a tutte le signorine delle migliori famiglie, e più bella di loro fare appena uscita di convento un grande matrimonio. - Stasera, poco prima dell'Ave Maria, ritorneremo dalla zia Matilde per scusarci: verrai anche tu, non me lo negare. Io ti ho sempre lasciato fare quando hai voluto: ti ho forse mai disturbato? - proruppe ad un suo moto; - e poi non si tratta di me o di te. Oramai per noi è finita: che cosa ci può accadere? Invecchieremo così alla meglio, ma essi hanno bisogno di una buona posizione. Tu hai sempre voluto che Carlino debba andare all'università; io ti approvo, ma debbo preoccuparmi anzitutto dell'altra. Io sono la mamma. Un uomo nella vita arriva sempre a cavarsela, ma una donna se non trova presto marito, senza una buona posizione, può essere perduta. - La zia non ci lascierà nulla, - egli osservò: - sai pure che è pazza per quella sua figlioccia. - Lo dici tu, io non lo credo. Sarebbe da parte sua una ingiustizia: è capitale di famiglia, deve ritornare a noi. - Deve! - Non si può gettare via il capitale della famiglia. Egli s'irritò. - Molti lo fanno. - Hanno torto. Adesso ti diverti a farmi arrabbiare: verrai anche tu? - Non ci andiamo, mamma, la zia Matilde mi fa paura, - protestò Ada agitandosi sulla sedia. La zuppa inglese, portata trionfalmente da Anastasia sopra un piatto oblungo, interruppe la conversazione; i fanciulli batterono le mani strepitando, ma la mamma ne tagliò subito col cucchiaio la metà per serbarla all'indomani. - Lascia che la mangino tutta, - egli disse, intenerito dalla smorfia dei bambini. - Ma che cos'hai oggi? mi contraddici sempre. Egli aveva mangiato quasi come al solito, obliandosi nelle abitudini di tutti i giorni, fra il pettegolezzo dei fanciulli, le chiacchiere della moglie e le osservazioni di Anastasia, che si vantava per la riuscita del pranzo. Però gli era parso che questa, di quando in quando, lo scrutasse. - Perché non ne mangia lei? - gli chiese infatti, vedendolo dare la propria porzione a Carlino. Allora Ada s'ingelosì. - Lascia lascia, egli è più piccolo di te. Ma sulla fine dei pranzo l'allegria scemava. I fanciulli non gridavano più, sorvegliandosi a vicenda, malgrado l'attenzione che mettevano a forbire il piatto della crema; Caterina, ricaduta nella preoccupazione della zia Matilde non parlava. Improvvisamente egli si sentì scoppiare il cuore: non esisteva già più per loro. - In quale stato pranzeranno domani! Eppure nulla era ancora mutato intorno. La saletta, quieta come sempre, aveva la stessa aria di pulizia e di modesta agiatezza; la tovaglia, essendo domenica, era bianca, il cavallo di Carlino dormiva dimenticato sopra quella sedia. Tutto invece sarebbe sossopra domani: forse il vecchio mansionario scenderebbe lui pure, attirato inconsciamente dalla paura della morte. Chi sà quali pianti, quali commenti! Dove sarebbe allora il suo cadavere? - Lei non sta bene; - lo destò la voce brusca d'Anastasia. - Io! - Io dunque? proprio lei, che cosa ha? - Infatti anch'io ti ho osservato. - Ma non ho niente! dammi piuttosto da bere, ecco. Che cosa debbo avere? Avete paura che muoia? Aveva cercato di fare la voce scherzosa, affrettandosi a bere per dissimulare il turbamento, ma quell'ultima parola lo trascinò. - Bah! se dovessi anche morire... - Che discorsi sono questi? Siccome Carlino aveva finito di pulire il piatto coi ditini, egli vinto da un impeto di tenerezza si sporse, afferrandolo sotto le ascelle, e se lo mise sulle ginocchia. Il piccino rideva superbo. - Hai ancora il soldo? No? lo avrai nell'altro abitino. - Eccolo, papà: guarda il buco. - Di' alla mamma che ci passi dentro un cordoncino, e te lo metta al collo. Mi hai promesso di non spenderlo: manterrai la promessa? Vuoi più bene a me o alla mamma? Carlino esitava. - Hai ragione, hai ragione: lei è migliore di me; va a prendere il tuo cavallone. Così poté alzarsi per accendere lo zigaro. - Dunque siamo intesi; stasera verrai anche tu dalla zia Matilde, - tornò ad insistere Caterina. - No, non vengo. Vedrai che domani verrà lei da te. - Tu scherzi sempre. - Già! Si era rimesso il cappello per uscire, scordandosi di scrivere quelle lettere; la paura lo riprendeva. Se fosse rimasto ancora qualche tempo, non avrebbe più saputo come andarsene; poi capiva che, solo coi bambini anche per un momento, sarebbe scoppiato a piangere. Fortunatamente il pranzo aveva durato sino alla solita ora, nella quale usciva a prendere il caffè. - Me ne vado, - disse due volte, - senza riuscire a decidersi. Caterina si era alzata per andare in cucina, egli la seguì; avrebbe voluto voltarsi per stringere in un abbraccio furioso le teste dei fanciulli, ma Anastasia rientrava già per sparecchiare. - Va pure, siamo intesi! - ripeté Caterina una ultima volta. Per risposta egli le diede un gran bacio sulla bocca, fuggendo subito dopo. Caterina rimase sorridendo di quella soluzione. * * * Nel caffè, a quell'ora, la gente era già affollata intorno ai tavolini, che lasciavano appena un varco sotto il loggiato: regnava l'allegria, le voci si alzavano scherzose. Al suo apparire molti lo salutarono, mentre altri si ritraevano per fargli posto nel solito crocchio; egli invece si sentiva freddo di dentro. Quel nuovo aspetto di festa nel pomeriggio lo turbava. Per un momento aveva pensato di andare nell'altro grande caffè aperto all'angolo del palazzo Rondinini, frequentato dai più grossi signori, quasi tutti naturalmente di parte moderata, per incontrarvi il Bonoli e lo strozzino, che di rado vi mancavano. Poi una paura irragionevole, che tutti a quell'ora sapessero già della sua cambiale falsa mandata in pretura, lo aveva sorpreso. Perché non lo saprebbero? Se Roberti certamente non ne aveva parlato con altri prima di partire, il pretore poteva bene averne fatto a qualcuno la confidenza; il caso non era molto probabile, e non di meno, nell'odio improvviso, che si sentiva in cuore contro quel giovane magistrato, adesso divenuto inevitabilmente il suo padrone, si ostinava a dubitare. Del signor Bonoli invece e dello strozzino, più interessati e quindi più facili a tale propalazione, quasi quasi non sospettava: il perché non avrebbe saputo dirlo. Quando nello svoltare dalla fontana vide quel pezzo di loggiato, dinanzi al caffè così gremito di gente, fu per arrestarsi, ma parecchi dovevano già aver guardato verso di lui. Colla bruschezza, che dalla lettura di quel biglietto gli aveva così profondamente mutato il carattere, si decise quindi ad andare innanzi. Se altra volta si fosse battuto in duello, avrebbe creduto di risentirne quell'emozione indefinibile allorché i padrini, dopo avervi tratta la camicia e legato il fazzoletto al polso in qualche angolo appartato, vi dicono improvvisamente, con voce breve: - Andiamo. Non gli accadde nulla. I discorsi erano gli stessi degli altri giorni; a un tavolino alcuni radicali, tutta gente della piccola borghesia, vestiti a festa, e quindi con un'aria più importante e una più grossolana affettazione di chiasso, ciaramellavano di politica; altri parlavano d'affari, più in là un crocchio di giovanotti discuteva di donne, naturalmente in termini vivaci ed osceni, i camerieri andavano e venivano, mescolandosi spesso alla conversazione con una famigliarità poco rispettosa, e nondimeno punto antipatica in quelle abitudini di provincia. Sotto il portico cominciava a passare qualche ragazza: allora tutti gli occhi si voltavano e prorompevano giudizi sommarii, espressioni scoppiettanti come razzi. Quel giorno non v'era alcun argomento speciale di pettegolezzo. Egli sedette. Il cameriere, ragazzotto piccolo e pallido, in giacchetta nera, gli portò al solito il caffè senza averne aspettato l'ordine, e gli sorrise deponendolo sul tavolo. Appoggiato colla schiena ad una colonna egli guardava il Duomo. L'enorme portone di mezzo era socchiuso, e sull'arco del suo vano si agitava lievemente un drappo rosso, segnacolo di qualche festa religiosa in quel giorno; la scalinata di granito pareva più bianca nel sole, la fontana gorgogliava da tutti i propri zampilli, avvolta in un pulviscolo d'acqua tenue come un vapore. Tutto quel largo dinanzi al Duomo sino in fondo alla piazza rimaneva deserto, nessun fiacchero stazionava ancora presso il caffè, l'omnibus del grande albergo era già ritornato dalla stazione; solo qualche bicicletta passava tratto tratto nel vuoto, silenziosamente. Siccome quella gente non sapeva ancora nulla della sua disgrazia e, sapendola, si sarebbe subito scostata, colle cautele così pronte ed assennate dell'egoismo, egli tra la distrazione di quei discorsi tornava a ricordarsi tutto quanto sapeva sopra ognuno degli interlocutori. Pochi avevano una posizione solida ed equilibrata, ed anche questi pochi non avrebbero probabilmente davanti ad un giudice, capace di legger loro nelle coscienze, saputo giustificarne l'origine o il modo: tutti gli altri vivevano come lui, fuori della propria orbita naturale, rammendando ogni mattina gli strappi di ogni sera, nella stessa impotenza di frenare i propri vizi o di guadagnare abbastanza per alimentarli senza pericolo. A vederli così vestiti e con tale disinvoltura giuliva, un estraneo avrebbe potuto crederli ricchi e felici, mentre ognuno celava nella propria vita qualche ignobile controscena di compromissioni domestiche o commerciali, vergogne di donne comprate o vendute, orrori di figli assassinati nell'avvenire per inconfessabili passioni. Eppure sarebbero domani i suoi giudici perspicaci, perché sommerebbero tutte le loro osservazioni su lui, e condannerebbero, avvelenando la condanna di scherni, per quella inconsapevole necessità in tutti di separarsi da coloro, che soccombono nella vita. Era così, non poteva essere altrimenti; se no la gente per compiangerlo avrebbe dovuto condannare se stessa. Egli solo si era scioccamente messo in tale condizione di suicidio, mentre gli altri facendo di peggio sapevano restare a galla. Però questa spiegazione superficiale non gli bastava: un'altra forza oscura spingeva innanzi la vita d'illusione in illusione, di guaio in guaio, sino alla fine, che interrompeva tutto senza risolvere nulla. La moglie, i figli, quanti restano dopo, prorompono in lamenti contro il morto, cercano di rassettare la posizione, e invece tornano a comprometterla con la medesima serie di vizi e di sciocchezze. Era questa l'eterna ridda, l'eterna morale: i figli si lagnano dei padri e, divenuti padri, sacrificano l'interesse dei figli al proprio: le donne, per lo più morigerate come ragazze, si abbandonano da spose e da madri ad ogni sorta di eccessi: i patrimoni oscillano, si scompongono, si ricompongono attraverso un tafferuglio di rapine, di leggi, di prodigalità, di avarizie, di casi tragici o fortunati, nei quali non si capisce nulla, ed è impossibile resistere. Tuttavia in quel momento egli falsario, deciso a morire della propria colpa senza chiedere soccorso ad alcuno, si sentiva migliore di quanti lo circondavano. Un orgoglio doloroso gli gonfiava la coscienza. Invece di scusarsi ai propri occhi come aveva tentato più volte nella notte, si compiaceva quasi ad ingrandire l'accusa, spremendone un'acre vanità. Non era egli pronto a morire? Che gl'importava di tutta quella gente? Quale di loro, malgrado tutte le vanterie, che avrebbero fatto sul suo conto, affermando l'uno contro l'altro di averlo conosciuto benissimo, saprebbe solamente indovinare le sue nuove sensazioni in quell'ora? Era una specie di alterezza, che gli faceva guardare intorno come dall'alto: qualche cosa di profondo e di freddo, che doveva somigliare alla emozione del comando supremo per un generale, nel momento di arrischiare sopra l'ultima idea la vita di migliaia e migliaia di uomini. La morte innalza sempre. Invece di scrutare nella sua oscurità, il che lo avrebbe daccapo atterrito, si guardava indietro come per una lontananza, nella quale le cose e gli uomini perdevano coll'esattezza del rilievo quasi tutta la propria importanza. Che cosa era mai la vita, a pensarci bene? Egli avrebbe sempre seguitato a quel modo, con le solite soste al caffè, sempre fra quelle persone, quei discorsi, senza una speranza mai di mutare, di salire, di provare qualche cosa di nuovo. Null'altro. Tant'era dunque andarsene prima che la vita divenisse solamente un seguito interminabile di ore nel vuoto di una prigione, e dopo, più tristamente, un fuorviare fra la folla per evitare certe persone, per cansare certi sguardi; poi, rabbuffi strazianti in casa dalla moglie e dai figli, fuori un bisogno sempre più umiliante di trovare un impiego, un modo egualmente indispensabile ed impossibile di guadagno. - Oh! non dici niente oggi? - gli si volse Cavina, un giovane mastro-muratore dalla fisonomia malaticcia, che la passione e una tal quale raffinatezza di gusto nella musica rendevano al tempo stesso simpatico ed un po' avversato. - Pensi ai miei debiti o ai tuoi? - seguitò con lo scherzo solito fra di loro, che, troppo desiderosi di spendere, finivano collo sbertarsi reciprocamente sulle angustie della propria posizione. Egli sussultò. - Sono così, non lo so; - ma gli parve subito dopo di avere risposto male. Il muratore confessava che sarebbe andato volentieri alla prima rappresentazione del Lohengrin: c'era tempo ancora, un treno partiva sulle quattro. - Bisognerebbe avere cinquanta franchi da buttar via. - Perché cinquanta franchi? - Sai, dopo il teatro viene la cena, la donnetta... Si rideva: altri sarebbero partiti con lui per Modena, avendo in tasca i cinquanta franchi, meno ancora per ascoltare la musica del Lohengrin che per il piacere della gita. Allora Romani ebbe un impeto di sdegno. - Perché spendere cinquanta franchi? Sono cose che bisogna lasciarle fare ai signori. - Ai signori! - un altro replicò celiando - ma sono un signore anch'io, quando spendo cinquanta franchi in una sera: vuol dire che per quella sera ho cinquanta franchi di rendita. Tutti risero. Romani si accorse trepidando di essersi lasciato trasportare dalla collera contro quella falsa facilità del vivere, che lo aveva condotto all'ultimo punto: quindi per distrarre l'attenzione rimise il discorso sul Lohengrin. Allora tutti protestarono: non sarebbe mancato altro che, non potendo assistere alla rappresentazione, ne avessero dovuto subire la disquisizione da Cavina. Ma questi, che parlava benino, non resistette; da pari suo aveva letto troppo o si ricordava abbastanza le spiegazioni del mito lohengriniano. - È un gran bel finale, - concluse dopo non molto, giacché s'imbrogliava nel patto fra Elsa e Lohengrin; - nessuno muore, eppure è una tragedia. Lohengrin ritorna in cielo col cigno: è un motivo, che fa venire la pelle d'oca, lo stesso motivo, col quale viene rimandato il cigno nel primo atto; ma nessun musicista avrebbe mai saputo trovarne uno uguale. Poi è di una naturalezza! - seguitò animandosi: - Lohengrin canta perché non deve morire, mentre in tutti gli altri finali italiani si ammazzano il tenore e la donna obbligandoli a cantare con tutte le loro forze. Ciò è falso: un ferito, un moribondo non possono cantare; sì, altro che cantare in quel momento! - Ma in teatro... - Che c'entra? In teatro si deve rappresentare la verità. Il finale del Rigoletto è bello, lo concedo anch'io, ma la donna trapassata da un colpo di spada come potrebbe cantare? Sono convenzionalismi, che hanno fatto il loro tempo: io dico che la musica deve rispettare le situazioni drammatiche, e non pretendere di far cantare in condizioni impossibili. C'è l'orchestra appositamente: perché il maestro non la fa cantare invece del tenore o della donna? Sì! il duetto della barella nella Forza del Destino! Don Alvaro ferito a morte, che urla come un dannato! Tiriamo via. Io credo che non solo un moribondo o un ferito, ma nemmeno un condannato a morte, proprio all'ultimo momento, lo si possa far cantare. Che cosa ne pensi tu, Romani? - Mi pare che hai ragione. - Perché? Si sono visti tanti condannati salire il patibolo indifferentemente, - disse un altro. - Indifferentemente! Metti loro una mano sul cuore... Ti sentiresti tu di cantare nei loro panni? - ripeté ostinandosi in questa, che a lui pareva una grande idea novella in arte. Ma la conversazione deviò ancora. * * * Mentre il passeggio della gente cresceva pel largo del Duomo e sotto i portici, gli avventori del caffè si diradavano. Le donne sfilavano vestite a colori vivaci, in ritardo dalla moda e non pertanto esagerandola con una volgarità di tagli e d'intenzioni, alle quali la goffaggine del portamento finiva col dare un non so che di maschile. Egli, divenuto più perspicace, interrogava curiosamente ogni fisonomia per indovinare sotto la sua maschera della domenica il segreto di tutti i giorni. Quindi si accorse che in quella bruttezza di quasi tutte le donne mancava appunto ciò che avrebbe potuto riscattarla, l'incantevole e delicata debolezza del sesso. Fu come una rivelazione per lui. Invece colei, che lo aveva perduto, era donna nel più profondo significato della parola. La paragonò mentalmente per cinque minuti a quante passavano, senza arrivare alla spiegazione della sua superiorità: in che cosa consisteva? Dove era adesso? S'immaginava nemmeno che egli potesse trovarsi così? Erano le cinque. Fuori di porta Montanara, per lo Stradone, il passeggio doveva essere incominciato. Daccapo non seppe che cosa fare. Dinanzi all'altro caffè la larga distesa dei tavolini arrivava insino al palco della banda, senza un avventore; si ricordò del primo pensiero, svoltando alla fontana, di andare piuttosto a quel caffè, dove capitavano il signor Bonoli e lo strozzino. Allora non aveva osato, adesso gliene ritornava un desiderio malato. Siccome era rimasto solo al proprio tavolo, si alzò senza salutare alcuno, giunse in fondo al portico, ne discese i gradini, e si mise all'ultimo tavolino presso l'ultima colonna. Chiese il Secolo ed un gelato. Ma, così solo, gli tornava la paura. - Quanto ci vorrà ancora, prima che sia sera? Rapidamente pensò ai nuovi incontri, ai discorsi che dovrebbe ascoltare, a quelli cui sarebbe inevitabile rispondere, alle combinazioni, ai casi inavvertiti tutti gli altri giorni. Avrebbe potuto tradirsi senza accorgersene. Di quando in quando rimaneva senza forze, in una attonitaggine, dalla quale lo toglieva la sensazione improvvisa del pianto, che stava per sfuggirgli. A quanto doveva compiere nella notte aveva deciso di non pensarci, anzi era sorpreso di scordarsene tratto tratto. Come avveniva ciò? Nessuna di quelle terribili strette, di quei dolori trafiggenti, sotto ai quali nella notte aveva creduto tante volte di svenire, gli si era ancora rinnovato: le ore passavano, dandogli solamente una sensazione vacua, come se ne provano assistendo a certi spettacoli senza prendervi interesse. In tale momento il luogo più deserto era appunto il caffè, ma il suo isolamento avrebbe finito coll'essere notato anche lì. Dove andare? Non aveva nulla da fare; e poi a che scopo lo avrebbe fatto? In questa impassibilità stava già la morte. Oramai era fuori del mondo, non apparteneva più a nessuno, non aveva più nulla. La vecchiezza non deve essere altro che la lenta progressione di questo sentimento, l'abbandono reciproco di tutti verso uno e di uno verso tutti per una solitudine annebbiata, silenziosa, immobile. Aveva acceso un altro sigaro. Guardò alle notizie del giornale senza fermarsi ad alcuna, poi le appendici lo attrassero: Un Idillio tragico, di Bourget; I milioni della scema, di Montfermeil: nel primo la scena era a Montecarlo, nei saloni da gioco rutilanti d'oro, invasi da una folla cosmopolita, di tutti i costumi, di tutti i gradi, di tutte le fortune. L'autore dipingeva finamente e rapidamente; egli ebbe la sensazione di quell'ambiente, nel quale la gente andava per tentare di non morire, ottenendo da una vincita la guarigione della propria vita anemica di oro, di fede, di speranza, di amore, perché presso alla morte tutto si fa pallido. E in quella folla, nella quale l'egoismo delle disperazioni non permette lo scambio di alcun sentimento, e fra quelle le pupille chine e vacillanti sui tavoli nello stesso sogno di riscatto; fra quel silenzio, che neppure il delirio della salvezza improvvisa o la sùbita rivelazione della morte arrivano a turbare; in mezzo a quella moltitudine famelica di ozio e di ricchezza, dentro il profumo dei fiori, l'incendio dei lampadari, la pompa abbacinante di un lusso divoratore, Bourget aveva messo due incantevoli figure di donne, sorridenti in un dialogo di amore. Egli ne lesse le prime battute affascinato, arrestandosi in fondo all'appendice, quasi colla stessa sensazione che se si fosse urtato in un muro. A Montecarlo il suicida tenta di forzare ancora una volta la fortuna; può bastare un solo scudo per ritornare felice e trionfante alla vita. Quanti vi avevano vinto la posta della propria esistenza! Quanti altri l'avevano perduta! Erano più i primi o i secondi? Quanti suicidii si compiono all'anno in Italia, in Europa? Egli non lo sapeva, ma se qualcuno gliene avesse detto la cifra enorme, gli sarebbe parsa esagerata: nullameno ebbe come una vaga visione di questi volontari della morte, strano esercito senza generale e senza disciplina, che tutti gli anni si esauriva sino all'ultimo soldato, e si rinnovava tutti gli anni inutilmente. Ogni suicida credeva di agire solo: qualche volta morivano a poca distanza l'uno dall'altro, egualmente separati dalla differenza dei motivi. Chi poteva dire davvero il perché di un suicidio? Egli stesso non avrebbe saputo definire il proprio caso; le ragioni erano molte, forse una per una non sarebbero bastate, forse neppure la loro somma diventava decisiva... Egli ci aveva pensato molto, poi si era accorto di non poter concludere. Era a questo punto, quando Gualtiero Ponti gli batté la mano sulla spalla: - Anche tu leggi il nuovo romanzo di Bourget: bisognerebbe invece, mio caro, poter andare a Montecarlo e vincere. - Vincendo, che cosa faresti tu? - Mi divertirei. - Come? - Seguiterei a giocare. E l'allegro giocatore, del quale aveva il giorno prima tentato di scontare indarno la cambiale, rise al pensiero di chiudere così la parentesi della propria vita. - E la cambiale? - chiese. - No, è stato impossibile. - Allora? - Allora! L'altro si era voltato a guardare una donna. - Ma quando sarai rovinato? - domandò Romani, che provava un bisogno crudele di affliggerlo, benché quello scapestrato non gli avesse fatto alcun male. Gualtiero Ponti si contentò di alzare le spalle. - Andiamo a fare un giro per lo Stradone? fra poco verranno Tamberi, Marzocchi; sai, questa notte Marzocchi ha perduto settecento lire, io mi ero rifatto, poi ho finito col perderne settantacinque. Ceniamo insieme? Non si era ancora seduto. Era un giovanotto piccolo, brutto, coi baffi a spazzola, la testa rotonda e già calva, che mostrava indifferentemente, giacché si era tratto il cappello per asciugarsi il sudore, rimanendo così a capo scoperto; un tic nervoso gli faceva di quando in quando scattare le dita della mano destra. - Tu non ci pensi dunque? - insisté ancora Romani. - A che cosa serve il pensarci? * * * Non c'era altra filosofia nella vita: sciaguratamente non bastava, perché giungeva il momento di dover pensare per forza. Finirebbe così anche colui? Istintivamente rispose di no, conoscendolo troppo bene per supporlo capace di un simile sforzo. Tuttavia in quel momento, per una specie di giustizia che si sentiva dentro, avrebbe avuto bisogno di credere che per lui pure sarebbe venuta quell'ora insopportabile di espiazione. Quindi n'ebbe come uno scatto violento. - Te ne vai? chiese l'altro, vedendolo alzarsi. - No, debbo fare una lettera. - Va' dentro nella sala a scriverla: ti aspetto qui. Infatti qualche cosa bisognava che scrivesse. La prima idea fu di rivolgersi alla zia Matilde per raccomandarle i bambini; non voleva dir altro, non ne sarebbe stato capace. Si era messo all'ultimo tavolino presso la porta, che dava nella seconda sala del bigliardo: notò che due vecchi lo guardavano. Aveva la mano ferma. Gualtiero Ponti si affacciò dalla strada alla vetrina; allora egli si affrettò. Cara zia, 2 maggio 1896. Vi raccomando i miei bambini, abbiate pietà di loro che sono innocenti; io sconto tutte le mie colpe colla morte. E firmò, avvolgendo come al solito tutta la firma dentro il riccio dell'ultima i. - Hai fatto presto, - gli disse Ponti avvicinandosi. L'altro aveva già chiuso la lettera nervosamente, la mano gli tremava nello scrivere l'indirizzo. - Dammela: te la getto nella buca, mentre vado dal tabaccaio a comprare le sigarette, altrimenti potresti scordartene, come accade quasi sempre a me. Romani rimaneva perplesso; se impostava la lettera, la cosa diventava irrevocabile. Una nebbia di sangue gli salì dal cuore agli occhi. Quasi senza comprenderlo, si cercò in tasca il soldo per il francobollo. - Va! ce lo metto io, - disse Ponti colla mano tesa per ricevere la lettera. Quindi la prese senza guardare la soprascritta, e uscì dal caffè. Romani non si poteva muovere, ma pensava, rabbrividendo: - In ultimo, vi è sempre qualcuno che vi spinge. * * * Poiché avevano mutato luogo alla stazione ferroviaria, costruendone poco lontano un'altra più ricca e più goffa, la strada fuori di Porta Vecchia a quell'ora non era più frequentata come in altri tempi. Egli dopo aver errato per molte vie della città, aveva finito per infilare quella; il sole si piegava al tramonto, dalla campagna veniva una frescura di verde umido e di piante in fiore. S'imbatté in don Procopio, il mansionario, che abitava al disopra di lui; il vecchio ottantenne girava ancora solo, con passo abbastanza sicuro senz'altro appoggio che un bastone dal pomo di avorio ingiallito. Era vestito del solito vecchio soprabito con una leggera mantellina al disopra, tutto lindo e rasato di fresco: i capelli bianchi, troppo lunghi, gli uscivano in ciuffi dagli orecchi. - Lei! - esclamò Romani. Il vecchio gli sorrise, scoprendo due ammirabili fila di denti troppo lunghi, di un bianco gialliccio. Romani si era fermato. - Dove va? - disse, cedendo finalmente al bisogno di una conversazione. - Poco lungi, figliuolo mio. Nihil est longe a Deo: è l'avvertimento di Santa Monica al suo figlio Agostino. Ma l'accento tranquillo contrastava con la lirica minaccia del motto latino. - Sono stato sino alla sbarra della ferrovia. - Ritorni ancora indietro con me. - Nella sera si fa fresco, io sono vecchio e mi avvicino al termine. - Che importa? - proruppe l'altro: - bisogna ben finirla una volta con questa vita. - Eh! finirla... finirà certo. Quando si è giovani si parla male della vita, perché non se ne capisce il pregio, e al più piccolo contrasto si pensa persino male di Dio. - Perché dunque permette egli tante infamie? Perché vi è della povera gente, che deve morire in miseria dopo aver fatto ogni sforzo per non meritarla, mentre i farabutti riescono sempre in quello che vogliono? - Lo sapremo dopo, figliuolo mio: finché viviamo, bisogna rispettare la vita come un dono di Dio. - Poteva tenerselo. Ma siccome la voce gli aveva tremato, il vecchio si fermò a guardarlo in viso. - Non vi è altro in questo mondo che la vita: che cosa volete vi sia di più importante? - Come mai dunque certuni se la tolgono? - Pazzie, suggerimenti del demonio! Tutti i dolori passano, è questione di pazienza: dopo, pensandoci, si resta sempre sorpresi di aver disperato. Vedete, io che sono vecchio, ho avuto anch'io le mie disgrazie, i dispiaceri... e poi, se si potesse ricominciare, ricomincerei. - Lei non può avere sofferto veramente nella vita; bisogna esserci dentro per provarla e comprendere come alle volte non c'è altro modo di cavarsela che andandosene. A che cosa serve la pazienza, quando non c'è più alcuna speranza? - Volete farmi parlare perché sono prete, non è vero? Oggi tutti i giovani, che discorrono con noi, pretendono d'imbarazzarci; ma voi stesso in questo momento non potete essere al caso di giudicare sulle tristi condizioni, che spingono certi infelici al suicidio. Romani si era arrestato, aspettando la sua opinione, ma il vecchio tacque. Andava adagio, soffermandosi spesso a guardare quelli che incontravano, mentre una collera sorda spingeva l'altro a bestemmiare davanti a questo prete, il quale pretendeva naturalmente di rappresentare Dio e di poter parlare in suo nome. Quindi seguitò: - Si fa presto a dire che uno, il quale si uccide, è pazzo; ma se non lo fosse? Moltissimi dànno prova del massimo sangue freddo sino all'ultimo istante. - Pazzi, pazzi! La chiesa permette appunto il loro seppellimento in terra benedetta, perché li considera pazzi. Ma se non c'è altro al mondo che la vita, la quale ci fu data per guadagnarne un'altra migliore! Lasciate correre, sono fandonie delle moderne filosofie; ma intanto tutti questi filosofi e questi poeti, che bestemmiano la vita, tirano a campare. - E quelli che si ammazzano? - Matti! - Non è vero! - proruppe: - Vi sono delle circostanze, nelle quali il suicidio diventa l'azione più onesta e più utile, che un uomo possa fare. E poi, perché si deve tribolare tanto? Se Dio... - Non bestemmiare, figliuolo mio. - Non bestemmio; se Dio fosse giusto... - Andiamo, andiamo, - ripeté il vecchio, alzando un pochino la canna in segno di disapprovazione; ma il fischio della vaporiera li interruppe. Si fermarono, il cantoniere chiudeva dinanzi a loro la barriera. - Passa il vapore, lo vedremo, - disse il prete, voltandosi verso la stazione invisibile, alla quale il treno doveva essersi arrestato. Anche Romani non parlava più; l'affermazione così sicura di quel vecchio sulla vita lo aveva scosso; capiva che confessandogli anche la propria tragedia, non solo non lo avrebbe commosso abbastanza da farlo vacillare nelle proprie convinzioni, ma nemmeno da intenerirlo. I vecchi non si appassionano più per alcuno, ma, chiusi in se stessi, si nutrono dei propri giorni, adagio, come per farli durare maggiormente. Quindi rimaneva irritato; il bisogno di discutere, senza rivelarlo, il proprio suicidio, lo tormentava sempre più dolorosamente. I dubbi filosofici, i terrori religiosi della mattina lungo l'argine del fiume, tornavano a sopraffarlo dinanzi a quel prete, che rappresentava la doppia rivelazione della vita e della religione. Egli doveva sapere per aver provato, e perché credeva senz'alcuna incertezza. Lo esaminò. La sua faccia esprimeva una calma senza nessuna vivacità, adesso che la vita era per lui ridotta al minimo; non diceva nemmeno più la messa, tutto si riduceva al pranzo e a quella passeggiata. Eppure era come tutti gli altri; nessuno voleva pensare alla morte. Egli invece fremeva. Dopo aver lasciato impostare quella lettera, un nuovo orgasmo lo aveva obbligato a muoversi, quasi a fuggire, solo nelle strade, per non tradirsi con qualche scoppio irrefrenabile. Che cosa gli importava della vita? In quel momento, pur di finirla subito, avrebbe accettato anche la morte più dolorosa. Era la rivolta degli animali deboli, che trovano nella disperazione il coraggio dell'attacco. Quel prete di una religione, che secondo la gente ha un balsamo per tutti i dolori, non aveva indovinato in lui, non aveva sentito niente nella sua voce! Un sorriso amaro gli contrasse le labbra. Un altro fischio acuto, prolungato, fendé l'aria; s'intesero gli scoppi di un'enorme respirazione che si avvicinava, si vide in alto uno stendardo azzurrognolo di fumo, e il treno passò alla barriera rapido, nero, perdendosi nella campagna, che si assopiva languidamente sotto il tramonto. Don Procopio lo aveva seguito cogli occhi: - Quello sarà sempre giovane, mentre i nostri cavalli, - e si batté una gamba colla canna - non vanno oramai più! Romani era diventato pallido come un cencio; nei suoi occhi sbarrati vi era la fissità dell'agonia, che non vede più o vede già troppo lontano. * * * Non aveva potuto parlarne nemmeno col prete. Questa impossibilità di trovare un'anima, nella quale riversare tutta l'angoscia della propria, gli era diventata uno spasimo maggiore della stessa necessità di uccidersi. Sino dalla notte, dopo la lettura di quella lettera, resisteva all'angoscia di rivoltarsi per terra mordendo qualche cosa: invece aveva dovuto comporsi una maschera simile al volto di tutti i giorni, perché nessuno si accorgesse di quello che soffriva. Gli pareva di essere un sonnambulo, colla coscienza di non poter più uscire dal proprio sogno. La vita seguitava intorno a lui più intensa di prima; la luce animava le cose, l'aria vibrava, alitavano profumi, i rumori salivano dalla terra mescendosi in una sonorità inesauribile, dentro la quale passava un'altra infinità di musiche, mentre la gente affaccendata di sé medesima sembrava non accorgersi neppure del tramonto imminente. Non poteva essere che così. Era come di quelle danze che i più piccoli insetti fanno nei raggi del sole: volano, si riproducono senza posa, in una confusione ardente ed instancabile, e quello che si arresta un istante, cade non visto nell'ombra, sulla terra. Nessuno può fermarsi al dramma o alla morte di un altro, perché il dramma è in tutti, e tutti debbono morire; la pietà è appena un sorriso, che si volge ai feriti capaci di rialzarsi; per quelli che soccombono, la disattenzione previene già l'oblio. Egli stesso non sapeva più che cosa dire agli altri; si sentiva come una di quelle foglie galleggianti nel fosso sotto il temporale del suo sogno: che cosa avrebbe potuto dire una di quelle foglie morte alle erbe dei margini sbattute dalla corrente? Il problema della morte è più lontano e più in alto della vita, dove il tempo dilegua nell'eternità; e quando l'anima s'affaccia nuda a tale problema, se non vi scorge qualche cosa nel buio, ciò vuol dire che la luce della lampada accesa dalla religione in quelle insondabili profondità si è spenta. Il giorno cadeva. Un vapore si distendeva pel cielo, abbassandosi lentamente sull'aria, che si raffreddava; gli oggetti si velavano incertamente, la moltitudine pareva calmarsi. Però le sue voci si facevano più inquiete, tutti i passi si affrettavano. Le grida degli uccelli erano cessate all'improvviso nell'oscurità misteriosa del fogliame: dentro le finestre, prima incendiate dal sole, il buio si era fatto denso come un panno nero, le strade piene di popolo avevano una ondulazione di marcia sotto la notte imminente. Egli aveva oramai finito quel giorno. Le campane della sera disperdevano il proprio gemito nel silenzio delle lontananze, come un'invocazione saliente dalla terra dinanzi al terrore delle tenebre, che stavano per sommergerla. Nell'agonia di tale fine, che non aveva mai avvertito prima di allora, gli parve che la morte sfiorasse tutte le cose. Quanto era succeduto in quel giorno, non succederebbe più, era già perduto irrevocabilmente dove tutto si perde, ciò che fu e ciò che dovrà essere, perché la vita non è appunto che una evanescenza, un suono di suoni, un'ombra di ombre vagolanti in un infinito infinitamente remoto. La sua anima si ravvolse nel lungo brivido di quella solitudine, che solamente il pensiero avrebbe potuto riempire. Poi il crepuscolo si oscurò ancora, le prime stelle spuntarono dalla volta del cielo, mentre per la città si accendevano i primi fanali, fra un mormorio più indistinto di voci, al disopra della folla, che dileguava nella oscurità delle strade. Ma le stelle crescevano sempre nel cielo opaco, troppo grandi e troppo vivide perché la notte potesse appannarle: miriade di mondi viventi di un'altra vita inesplicabile alla nostra, malgrado tutte le rivelazioni della scienza e della fede. Che cosa c'era lassù? Più alto di lassù? Dio? Un minuto dopo la morte, questa domanda sarebbe ancora possibile? * * * Egli soccombeva all'umiltà di un annichilimento finale. La sua volontà si era disciolta al pari di ogni altra cosa nell'ombra, come in un ritorno alla primordiale indeterminatezza dell'essere; non soffriva più. Persino quest'ultimo dubbio, balenatogli più in alto, oltre lo splendore delle stelle, si era spento con tutto quanto moriva intorno a lui, nella dissoluzione della notte. Che importava il motivo della morte, quando bisognava morire? Il medesimo silenzio penetrava in tutti i cuori, la stessa ombra in tutte le teste: non si poteva essere immortali; perché noi pretendevamo dunque di esserlo? Vi era differenza nella morte? Che cosa era il suicidio? Si muore di tutto, tutti si suicidano, giacché ogni gioia troppo intensa, ogni dolore troppo acuto ci costa forse un giorno: qualunque opera ci toglie quella parte di noi stessi, colla quale la compimmo; i nostri figli sono i nostri parassiti sino al giorno che, non potendo più nutrirsi di noi, ci abbandonano per soccombere altrove. In qualsivoglia momento la morte è sempre la stessa: un terrore, un'angoscia, e la soffocazione in fondo. Non ci si pensa, perché tutte le idee adunate intorno alla morte, paradisi, inferni, non riproducono che teatralmente il nostro oggi sullo sfondo di una notte senza domani. Quando l'ora della morte è suonata bisogna rassegnarsi: non è sempre così davanti a tutte le difficoltà della vita? Si chiudono gli occhi, e si ingoia il bicchiere dell'olio di ricino, come fanno i bambini. Una carrozza, che gli passò accanto fragorosamente, coi fanali accesi, gli ridiede la visione del treno sbuffante, fumante, coi grandi occhi sbarrati nella notte, come se venisse contro di lui, e tutta la terra intorno tremasse sotto la violenza del suo impeto. * * * - Vieni con me dalla Marietta: è arrivata una ragazza d'Imola. Romani alzò la testa, Gualtiero Ponti seguitava: - Venturini dice che è bella, vieni con me: poi ceneremo. Ma sebbene la domanda fosse insistente, la voce rimaneva fredda; Romani stava seduto alla cantonata del caffè Rondinini, in quell'ora pieno di gente, sotto il chiarore rossastro dei lampioni a petrolio: tutti erano vestiti a festa. Era la prima ora del passeggio notturno, per la piazza e sotto il loggiato dei signori; le ragazze passavano a frotte negli abiti chiari, sorridendo fra gli sguardi, che le cercavano avidamente. Romani si era seduto, solo, a quell'angolo. Una stanchezza malata aveva finito di vincerlo, dopo tutte quelle corse fuori e dentro la città: si era cacciato per molti vicoli, sino alle mura, che da Porta Pia vanno a Porta Montanara dirimpetto alla linea delle colline, e anche là aveva trovato la stessa gente, coppie di amanti, torme di bambini, crocchi di mamme, e, tratto tratto, un vecchio, che passava come un'ombra nell'ombra sempre più densa della sera. Gli era rimasta negli orecchi la cantilena di alcune voci. - Dove ti sei nascosto oggi, che non ti ho più visto? - ridomandò Ponti. - Ho girato. - Solo? - Così... non sempre, - si corresse, ricordando l'incontro con don Procopio. - Dunque vieni? - No. - Perché? Vieni. - Non ne ho voglia. Sopraggiunse un altro, al quale Ponti fece la stessa proposta, e che accettò. Romani rimase solo daccapo. Perché non aveva accettato? Era stato un rifiuto istintivo, ripugnante, quasi di un ferito, che qualcuno, stupido o villano, invitasse a ballare, poiché gli era accaduto di ricusarsi così nella giornata ad altri inviti, sempre colla stessa sensazione amara di disgusto. Il passaggio delle donne, che talvolta a quell'angolo gli sfioravano quasi il ginocchio colla gonnella, lo tirava inconsciamente ad altri pensieri: qualche profumo vaporante dalle vesti errava nella sera, nomi femminili salivano dai crocchi vicini a lui, mentre al di là della strada, in quel largo dinanzi al loggiato, fra i tavolini, molto signore si erano già fermate, e i camerieri correvano affaccendati, recando o togliendo i bacili. La festa diventava più tentatrice nelle ombre della notte; pochi bambini erano ancora in giro, nell'aria agitata da uno scirocco leggero soffiavano improvvise caldezze. Le donne, quasi belle a quell'ora, avevano nel passo qualche cosa di diverso, un'ondulazione, che gli abiti festivi rendevano più provocante, quindi voltavano il capo allungando i sorrisi, o si chiamavano fra loro a sussurrare una confidenza non difficile ad immaginarsi. Egli si accorgeva di osservare tutto questo intorno a sé. E quell'invito brutale di Ponti gli ritornava più insistente dalla varietà di quella scena trepida di voci e di fruscii femminini. Perché aveva adunque rinunciato? Fra la folla delle donne ne distinse alcune, delle quali in gioventù era stato l'amante: passavano come le altre, sedotte e seduttrici, in quella prima notturna promessa della primavera. Si capiva, si vedeva che la gente, immemore delle proprie sciagure, o magari a cagione di queste, voleva esaltarsi gaudiosamente in tutte quelle sensazioni, che, risvegliate dai rapidi contatti della strada, nei brevi incontri ai caffè, ingrosserebbero a cena fra la crapula dei discorsi e la fiamma dei bicchieri, per irrompere più tardi nei convegni colle donne irritate dalla troppo lunga attesa. Egli stesso aveva fatto così mille volte, senza riflettervi. Conosceva quelle stanze della Marietta, nell'angolo di un vicolo, sopra un'osteria, poco lungi dalla piazza. La Marietta, non ancora vecchia, pareva quasi un uomo alla durezza della fisonomia e con quella voce grossa. Raramente capitava da lei qualche bella ragazza. Se avesse seguito Ponti, non vi sarebbero in due rimasti più di mezz'ora, giacché in quel luogo si entrava e si usciva, avendo preso tra le braccia per cinque minuti una donna incognita, come lungo la strada i carrettieri si arrestano talvolta ad una bettola e vi bevono un litro in piedi, presso il banco dell'oste. Anche Camilla doveva spesso aver fatto come le altre, prestandosi all'amore momentaneo, nel baratto assurdo di un bacio contro uno scudo, senza piacere, senza pudore, senza memoria. Si ricordano forse certe cose e certi appuntamenti? Ma se ciò non fosse, forse la gente impazzirebbe; tutto nella vita ha la propria immagine falsa, l'amore e la gloria, il vizio e la virtù, e quando il sangue fermenta improvviso, o l'anima non resiste più alla visione di sé medesima, si ricorre a queste falsificazioni come ad un rimedio, che placa il male senza ingannarlo e ci lascia, nella prostrazione dello sforzo compito, una più pronta facilità al riposo. Il suo sguardo frugò rapidamente la strada, che da quell'angolo del caffè Rondinini saliva parallelamente al Corso, per vedere se Ponti ritornava, pentendosi già in cuore di non averlo seguito. Tutto quell'incubo di morte, così soffocante da venti ore, gli faceva schizzare dalla coscienza un desiderio acuto, quasi stridente, di gustare anche una volta quel piacere che, falsato, rimane pur sempre senza confronto con alcun altro. Perché resistere? Aveva egli paura che gliene fosse domandato conto dopo la morte? Come quei condannati, cui era tutto permesso nell'ultimo giorno, e che si sentivano prendere subitamente da golosità frenetiche, egli avrebbe voluto adesso una donna a qualunque costo; era quasi un orgoglio di sfida lanciato al mistero della tomba, un estremo impeto di profanazione contro tutto quanto stava per abbandonare. Le stesse contraddizioni, delle quali nel giorno aveva tanto sofferto, gli si mutavano in un bisogno anche più spasmodico di afferrare per l'ultima volta la vita nel suo momento più intenso, e spremerla, col superbo sottinteso della morte, in una sola stretta. Pregustava già una gioia acre nel constatare l'inintelligenza della donna davanti all'orrore imminente di tale tragedia, con quella falsità di carezze sempre uguali nell'amore gratuito o venduto. Sul marciapiede di contro, rasente all'ultimo gradino della grande scalinata, in quel momento passò l'Anitra, una donna di trent'anni, cui il portamento dei fianchi troppo bassi aveva meritato questo nomignolo: era sola, vestita al solito con una certa modestia, malgrado il proprio mestiere di etèra plebea. Si alzò di scatto per seguirla, nessuno gli aveva badato. Dovette passare attraverso molti gruppi di donne, ma dai loro sguardi si accorse subito di essere sospettato, perché andava troppo dritto su quella traccia. Sapeva dove ella abitava: un vicolo remoto, lercio, dal nome purissimo "Delle Vergini": ma l'Anitra rasentò la fontana a sinistra. Si era accorta di lui. Allora egli non osò più accelerare il passo, il pentimento lo ripigliava. Ella proseguiva adagio, con quel suo pesante ondulamento delle anche, che si distingueva bene nell'ombra rotta dai fanali. I capelli neri le facevano un grosso mazzo sulla nuca. La gente si rarefaceva ancora, lungi dalla piazza, l'ombra s'infittiva: egli passò sull'altro marciapiede per essere più libero. - Perché non la fermo? - si chiese, senza saper rispondere. Tuttavia quell'orgasmo gli durava, si sentiva battere il cuore, come altre volte recandosi a qualche convegno passionale; aveva i sensi irritati e quella leggerezza, che il desiderio della donna sembra dare a tutto il corpo. L'altra rivolse la testa. Egli la riconobbe: il suo viso tondo dalle guance troppo rosse, col mento quasi da bambina, gli occhietti chiari. Gli parve di distinguere persino quella riga grassa sotto il collo, la cosa che più in lei gli era piaciuta. - Non ha altro lei! Anche Camilla, che cosa aveva di più? Quando si è eccitati, si farebbero delle pazzie per loro, e dopo non ne resta niente. Le donne sono tutte uguali: Caterina getterà qualche urlo, poi non ci penserà più, come le altre. Gli sciocchi siamo noi, a credere che esse ci amino. Chi ama? Io stesso, che mi sono rovinato per questo, amo forse Camilla adesso? Intanto proseguiva sul marciapiede, sempre alla stessa distanza. Un uomo fermò l'Anitra, che girò ancora la testa indietro; egli si arrestò, mentre i due invece seguitavano innanzi chiacchierando a bassa voce. Allora svoltò al primo vicolo allungando il passo per ritornare in piazza. Erano le otto e mezzo. Improvvisamente, tra quella moltitudine festiva, si ricordò di una biroccia incontrata nel pomeriggio, lungo la strada di circonvallazione, dinanzi al nuovo macello. L'aveva guardata con una sensazione di stupore, poi non ci aveva pensato altro. Era una delle solite biroccie, verniciate di turchino, dalle ruote alte, tirata da un grande mulo secco; un vecchio carrettiere senza giacca le veniva di fianco, con un mozzicone di frusta nelle mani e una pipetta quasi senza cannuccia fra i denti. Egli si era dovuto ritrarre sull'orlo del fosso per non lasciarsi schiacciare, seguendola collo sguardo sino alla svolta della strada, dove il canale si allarga in una immensa pozzanghera. La biroccia, colma di stracci e scossa da un triste tremito di paralisi, pareva tratto tratto stridere lamentosamente sotto il cumulo delle miserie, che le gonfiavano i fianchi. Gli stracci, gettati gli uni sugli altri a palate, si confondevano in un colore sudicio, dentro al quale qualche cosa biancheggiava ancora, un rimasuglio di candore fra tutte quelle immondizie lasciate indietro dalla vita, e nullameno raccolte da qualcuno per viverne. Egli aveva veduto tutto alla prima occhiata, l'aggrovigliamento di quei cenci tessuti con ogni sorta di fibre, lacerati, sfrangiati, coperti di macchie e di croste, che ricordavano altre piaghe, esalandone ancora il puzzo grasso e penetrante. Una polvere cinerea ondeggiava sopra di essi ad ogni traballone senza potersene staccare, mentre la massa, scrollandosi con una mollezza di carne in putredine, rabbrividiva ancora sotto un volo di mosche affamate. E sopra i suoi fianchi, lievi brandelli riaccendevano tratto tratto nel sole qualche pallore di lino o luccicore di seta, tosto soffocato dalla bigia pesantezza degli altri stracci, che si spostavano senza cadere, come se tutte le loro morti vi si tenessero avvinghiate. Una fetida nausea di cadaveri veniva da quella bara, coi segni tuttavia visibili della vita passata, già fermentante nell'ultima dissoluzione. Tutto lì dentro era stato nuovo in altri giorni: quante migliaia di gente vi aveva lasciato il segreto della propria esistenza! Quanto vino, quanto sudore, quante lacrime, quanto sangue vi erano caduti! Quanti sogni vi rimanevano ancora, che sparirebbero nella medesima buca! Dalla camicia della vergine al mantello del soldato, dalla fascia del bimbo al grembiule del beccaio, dalla veste che tutto un popolo aveva ammirato, all'abito che l'accattone aveva lasciato solamente morendo, forse nulla di quanto la vita umana aveva adoperato per nascondere la propria nudità, mancava in quella bara. Il pensiero avrebbe potuto frugarvi senza fine, come dentro un cimitero. Egli ne aveva ricevuto confusamente questa impressione nella fugacità di un istante, poi aveva riflettuto che dovevano essere stracci troppo sordidi per cangiarsi in carta dopo il solito imbianchimento, e destinati quindi come concime a qualche grassa coltivazione. Adesso la visione immonda gli ritornava in piazza come un finale ironico, che conchiudesse quella festa, trattando allo stesso modo gli abiti e coloro che li portavano. Infatti la bellezza nella vita non dura più della primavera nell'anno: uno splendore di qualche mattino, una purità sorridente di cielo, qualche dolcezza nei tramonti, poi il sole brucia tutto daccapo, e l'autunno imputridisce quanto il sole ha bruciato, e l'inverno seppellisce quanto l'autunno ha imputridito. Quella folla di immemori era attesa come lui dalla morte a un gomito improvviso della strada: uno per uno avrebbero provato la stessa angoscia subitanea nel crollo di tutto il passato, davanti alla impenetrabile oscurità dell'avvenire. E vi arriverebbero forse peggio di lui, logori, maculati di putredine come i cenci di quella biroccia, esalando già prima di morire il fetore della decomposizione sepolcrale. Forse valeva meglio andarsene così, ancora intatto, nella pienezza delle proprie forze e del proprio dolore. La gente condanna i suicidi per dispetto della paura, che questi non hanno avuto. Un pensiero bizzarro gli solcò la mente: se la gente, volendo, potesse non morire mai, vi sarebbero egualmente dei suicidi? Qualcuno si ammazzerebbe ancora, per odio della vita? Il problema era troppo profondo nella sua stravaganza, perché egli potesse trovarne la soluzione, ma vi pensò nondimeno qualche tempo. Sapeva che le bestie non si suicidavano, pur essendo esposte a tutti gli stessi mali fisici della umanità. Era dunque l'anima che anelava alla morte, era la mente che si ribellava alla inutilità dello spasimo! Infatti la povera gente, quella che vive più materialmente, non pensa mai al suicidio: non la fame uccide, ma l'umiliazione di mostrarsi affamato fra la gente satolla. Chi nacque accattone, mendica per tutta la vita, e trova forse la felicità in quest'ozio; chi invece è costretto da un disastro a questuare, non potrà mai perdonare né a se stesso né agli altri lo strazio di tale subordinazione. La sua angoscia in quel momento stava appunto nel sentirsi come un mendicante fra la folla allegra e spendereccia, che non gli avrebbe dato un soldo. Essere espulso dal mondo, come sono cacciati i poveri importuni dalla porta, quando si commise l'errore di lasciarla loro oltrepassare! - La carità? - pensava. - Ma, se ci scacciamo l'un l'altro da tutti i posti, se dovendo tutti morire, la morte degli altri non ci tocca nemmeno... Dov'è la carità? Anch'essa è un lusso di certi istanti: si dà qualche cosa, perché la momentanea gioia di chi riceve aumenta la nostra giocondità. È come nei pranzi: ci vogliono degli invitati; ma si amano forse i proprii invitati? Bisogna essere in molti ad una festa di ballo; ma la soddisfazione di ognuno è appunto nel primeggiare sugli altri, vedendoli così segretamente iracondi del piacere loro tolto. * * * Sapeva che non vi sarebbe entrato, ma da venti minuti passeggiava sull'altro marciapiede, dinanzi alla porta della propria casa. La gente si era diradata anche nella piazza, solo nei due grandi caffè, più vivamente illuminati, proseguiva la festa della domenica. Poche donne passeggiavano ancora. Egli si era diretto verso casa, per abitudine: Caterina doveva aspettarlo e, non vedendolo comparire, avrebbe certamente pensato che volesse evitare un nuovo discorso sulla zia Matilde. Lungo la strada notò molte finestre illuminate; era quella l'ora più dolce, dalle nove alle nove e mezzo, quando le donne rientravano, e si andava a cena chiacchierando della giornata, con quella contentezza di non aver lavorato, e non pensando ancora alle necessità dell'indomani. Egli si riproduceva nella mente la scena di Caterina coi fanciulli a tavola; questi volevano senza dubbio l'altra metà della zuppa inglese serbata a pranzo per il giorno dopo, mentre ella, indispettita per la nuova assenza di lui, si ostinava nel rifiuto. Improvvisamente, questo piccolo dolore dei bambini, prodotto dalla sua assenza, gli divenne intollerabile. - La mia assenza! - si ripeté sottolineando questa parola, della quale si era inconsapevolmente servito. Caterina era poi andata dalla zia Matilde? Questa domanda lo forzava a riflettere sull'orario, secondo il quale la posta distribuiva le lettere; ma si persuase subito che la sua non sarebbe recapitata prima delle nove, all'indomani. Chi era il postino, che faceva il servizio per il rione della zia Matilde? Forse essa, riconoscendo la calligrafia, avrebbe aperto la lettera prima ancora che quegli avesse potuto uscire di casa: e allora? In un baleno vide tutto il dramma dopo la propria morte, ma così rapidamente, in una luce così intensa, che non poté sostenerla. Camminava senza accorgersene, a testa bassa, con tale fiacchezza, che qualcuno fra i rari passanti avrebbe necessariamente finito col notarlo; arrivava dal campanile di San Lorenzo, il più alto della città, nel mezzo della strada, sino alla barriera. La notte era stellata, il fiume, ridivenuto quasi secco fino dalla mattina, non mormorava più come nella notte antecedente; i primi fanali del borgo illuminavano sinistramente le alte spalliere del ponte in ferro. A forza di andare su e giù, la coscienza tornava ad assopirglisi nel ritmo stesso di quell'impulso, ma nel passare dinanzi alla propria porta alzava sempre gli occhi. Due finestre v'erano illuminate, quella della saletta da pranzo e, all'ultimo piano, l'altra della camera da letto di don Procopio. Se non che la luce filtrando appena di fra le griglie, diventava impossibile sorprendere nell'interno il passaggio di un'ombra. Si ricordò dei progetti con Caterina nel primo periodo del matrimonio per un restauro alla facciata della casa: sarebbe stata una spesa di quasi duemila lire, alla quale avevano rinunciato senza fatica. Caterina invece avrebbe desiderato di accomodare qualche stanza nel podere a Santa Lucia in Vado per potervi villeggiare di qualche guisa nell'estate. Anche quello era stato un sogno impossibile. Tutto dileguava, per sempre! Si dovrebbe vendere ogni cosa dopo, quasi subito, in mezzo a una disperazione piena di rimproveri contro di lui: eppure egli non ne soffriva più in quel momento. Come se il grande distacco si fosse già compito, vedeva tutto a una distanza troppo grande, con quella indifferenza che ci lasciano le cose impossibili alla nostra volontà. In lui non sopravviveva che l'abitudine, quel fascio di rapporti indefinibili, onde l'uomo è legato alla propria casa, quella incapacità di pensare sé medesimo in modo diverso dal come si è vissuti, tutte quelle impronte incancellabili, colle quali la vita compose la nostra fisonomia spirituale. La casa, con quanto vi stava dentro, era come una parte di lui stesso. Il tempo passava. Quella passeggiata lenta, uguale, aveva finito coll'attrarre l'attenzione delle due guardie daziarie sedute al fresco fuori della gabella; si erano alzate e lo spiavano. Allora egli diè volta bruscamente, ma quando fu al campanile non seppe andare oltre. Voleva vedere quella finestra ancora una volta. L'orologio della piazza sonò le dieci e un quarto, il lume passava sempre attraverso le griglie: allora si ricordò che Caterina soleva spesso la sera ripassare la lezione dell'indomani a Ada. - Finché c'è il lume non me ne vado, - borbottò ostinatamente. Ma le guardie si erano messe a passeggiare, e venivano verso di lui: dovette tornare indietro. Per un momento pensò di salire con un pretesto, salutare tutti e scappare; titubava, si sentiva affranto. Ritornò ancora, ma siccome le guardie stavano ferme in mezzo alla strada, a quaranta passi dalla gabella, fumando, si persuase di essere sorvegliato. Quasi ciò potesse distogliere i sospetti, traversò la strada per venire sull'altro marciapiede, volgendo daccapo la schiena alla propria casa. Poi un passo sollecito gli risuonò dietro. - Oh tu, Romani! - Tu, Landi? - Esci di casa? - Sì. - Io non ho potuto cenare a casa mia: un'altra scena con quella linguaccia di mia moglie! Vado al Falcone, accompagnami. * * * Aveva già bevuto due ponci, seduto all'ultimo tavolino di sinistra nella prima sala, col gomito appoggiato sulla cassa di vetro, nella quale si conservavano le paste. Gaudenzi, l'impiegato del telegrafo, non si era ancora veduto, l'avv. Guglielmi doveva essere al club, quel vecchio maestro chiacchierino giocava nell'altra sala, e s'udiva spesso la sua voce in falsetto salire fra scoppi di risa. Una malinconia fredda gli era penetrata sino dentro le carni, come certe umidità notturne, contro le quali non sembra giovare alcuna bontà di panni. Nel caffè, pieno degl'insoliti avventori domenicali, il chiasso cresceva più villano; erano gruppi di artieri in gazzarra dal pomeriggio, vestiti con pretensiosità plebea, dalle faccie inintelligenti e vanitose. Quasi tutti portavano un piccolo cappello a cencio sull'orecchio, e tentavano sui divani o sugli sgabelli la posa più provocante, giacché pareva loro una specie di conquista quel bere ai tavoli, dove per solito sedevano i signori. Nei loro discorsi, quasi tutti di politica, ritornava sempre la stessa frase con voce sempre più alta, o con accento più marcato, mentre in fondo ai loro sguardi vaghi nel primo imbambolimento dell'ebbrezza, s'accendevano piccole fiamme. E i più irrequieti si guardavano intorno, cercando qualcuno dall'aspetto signorile per la compiacenza di potersi momentaneamente, davanti a lui, mostrare in una ostilità mimica. Egli vedeva tutto questo senza che alcuno gli badasse, perché non era mai stato veramente un signore. Colla testa abbandonata sull'alta spalliera rossa del divano, una mano in tasca, osservava i cerchi di fumo turchiniccio allontanarsi, dilatandosi lievemente dalla punta dello zigaro, nell'aria già greve di tutti quegli aliti. Al momento di entrare sotto il loggiato aveva rivolto la testa verso il grande orologio della piazza, illuminato: segnava le dieci e mezzo. Le ore, così lente nel giorno, si erano tuttavia involate con una rapidità raccapricciante. Si tastò la rivoltella nella tasca sinistra della giacca, pensando un'altra volta, con un senso d'impazienza, come non avesse incontrato né lo strozzino, né il signor Bonoli, né il pretore, che dovevano conoscere il suo dramma. Credeva che la loro vista sarebbe bastata a raddoppiargli l'energia, almeno per quella necessità d'ingannarli sino all'ultimo col fingersi indifferente. Invece, per tutta quella lunga giornata, nulla era venuto ad aiutarlo: aveva recitato troppo bene dissimulando. La sua fine doveva compiersi come per qualunque altra malattia, senza né ricevere né dare ad altri alcuna insolita emozione. Perché? A che cosa serve la morte? Perché era nato? Se non vi erano perché, tale infinita inutilità diventava il più profondo dei misteri. Nel bisogno di scostarsi dall'ultimo momento, il suo pensiero fluttuava daccapo all'urto delle sensazioni, che gli si rinnovavano nella memoria. Il babbo e la mamma, pieni per lui di tenerezza, lo avevano allevato in un bel sogno di avvenire, addormentandosi per sempre nella tristezza sconsolata di una disillusione finale; egli aveva amato i proprii bambini, rifacendo sopra di essi il medesimo sogno. Perché? Questa parola lo sbalzava da un altro lato; Camilla era passata una sera dinanzi a lui, si erano parlati, egli aveva provato un rimescolamento profondo, non aveva capito più bene, si era rovinato per lei senza accorgersene, e senza che ella se ne accorgesse. Perché? Lo strozzino, d'accordo col signor Bonoli, aveva portato la sua cambiale falsa al pretore: volevano mandarlo in galera? Volevano costringerlo al suicidio? Perché? Che cosa importava loro? Era così. Tutte le vite si rompono come bicchieri l'uno contro l'altro, senza che alcuno abbia mai potuto leggervi la marca di fabbrica, o indovinare chi verrà a raccoglierne i cocci. Solamente allora si accorgeva di aver sempre agito senza un perché; tutta la sua esistenza non aveva un solo atto necessario, che la spiegasse, all'infuori dell'avere mangiato e dormito, due bisogni istintivi per mantenerla. Il resto rimaneva inesplicabile. Camilla e Caterina erano entrate nella sua vita quasi allo stesso modo, egli non aveva riflettuto in nessuno dei due casi; era diventato padre così, perché le donne rimangono gravide, ecco tutto, e aveva allevato i figli per un altro istinto. Gli affari, i divertimenti dipendevano sempre dalle circostanze, anche quando si voleva combinarli con ogni studio possibile: perché dunque si pensava e si soffriva tanto? La sua mente ritornava alle meditazioni della mattina su quell'argine del fiume, nel silenzio della campagna, con un nuovo terrore degli stessi problemi. Ma invece di domandarsi se Dio era, e come ci giudicherebbe nel momento dopo la morte, si sentiva sopraffare dal mistero primordiale della vita. La nozione, per lui oscura ed inevitabile, di un creatore, non faceva che rendere ancora più inintelligibile il quesito: perché si nasce? Anche se Dio esistesse, e dovesse punirci o premiarci dopo morti, la ragione di averci voluto in questo mondo non si vedeva. Se egli era Dio, che cosa poteva importargli di noi? La nostra vita non spiegava sé medesima, mentre l'antagonismo fra la sua legge e la nostra volontà, per lui che ne doveva sapere anticipatamente il risultato, diventava una ridicolaggine. Che bisogno c'era di nascere, per dover pensar sempre senza capire nulla di nulla, soffrirne di tutte le sorta, e morire non avendo compito niente? Essendo cattivi, aggraviamo l'uno contro l'altro le nostre disgrazie, essendo buoni, ci aiutiamo scambievolmente contro il male che non abbiamo fatto, ma che ci tocca patire ad ogni modo. E davanti a questa tenebrosa fatalità del male, che si varia nella vita per tutta la gamma del dolore, dalla più lieve fitta corporea alla più larga lacerazione spirituale, egli tornava sempre a chiedersi, con l'insistenza spaventata di un bambino: perché si nasce? Un terrore fantastico gli faceva pensare a qualche potere mostruoso, che dirigesse il mondo e vi rinnovasse continuamente tutte le crudeli necessità: così i viventi dovevano divorarsi a vicenda per mangiare, e straziarsi l'un l'altro per godere. Infatti, non vi era gioia nella società, che non fosse un dolore per qualcuno; non nasceva nel mondo un individuo, senza essere composto coi resti di altri morti, non si poteva respirare, senza uccidere milioni di microbi, senza inghiottirne altri milioni, che dovevano ucciderci. La legge suprema era dunque la morte: nessuno vi sfuggiva, nessuno aveva torto o ragione davanti ad essa. L'immaginazione esaltata da quella crisi troppo lunga, gli si smarriva in una continua evanescenza di quadri orribili, che mettevano in quel suo sonnambulismo una specie di incubo. La sua faccia era diventata bianca, cogli occhi fissi, mentre il chiasso delle voci e il tinnìo dei bicchieri nelle sottocoppe e nei bacili cresceva sempre da tutti i tavoli. - Ho qualche cosa sullo stomaco, portami un bicchierino di cognac, - disse. Il cameriere si affrettò sorridendo; il padrone, bell'uomo, già cameriere nello stesso caffè pochi anni prima, si accostò fumando in una elegante pipa di schiuma, a testa di cavallo. - Che cosa ha mangiato, signor Romani? - gli chiese cortesemente. - Non lo so neppur io. - Forse dipende anche da tutta questa gente! - l'altro soggiunse a bassa voce, girando intorno un'occhiata di disprezzo. Si era seduto famigliarmente sopra uno sgabello accanto a lui. - Questa sera la sua partita è andata a monte. Ha letto la nuova appendice del Secolo ? - e si allungò per prendere dal banco un fascio di giornali: - a me pare bella assai. Romani rimaneva distratto. - Ecco Montalti! - esclamò il padrone, vedendo entrare quello scrivano storpio, che venne diritto al loro tavolo; poi capitò Cavina, il muratore wagneriano; Rotoli, il vecchio maestro chiacchierino, che aveva finito la partita nell'altra sala, si fermò anch'esso dinanzi a loro. Era quasi la stessa conversazione di tutte le altre sere. Il padrone ricominciò il discorso sul nuovo romanzo del Secolo - Idillio tragico -di Bourget, spiegando come gli paresse bello, perché Montecarlo vi era dipinto colla massima esattezza. Egli vi era stato, da giovane, nelle proprie peregrinazioni di cameriere. Ma lo scrivano, socialista malcontento, protestò: quello era un romanzo aristocratico, buono a nulla, giacché gli scrittori di vero ingegno non potevano occuparsi che delle miserie popolari. - Ho letto anch'io qualche appendice di questo nuovo romanzo del Bourget, - e pronunziò il nome come era scritto. Allora Cavina lo corresse, corsero frizzi. - Tu sei un wagneriano. - E me ne vanto. - Wagner era socialista. - Va! se daranno il Lohengrin in carnevale, vedrai quanto popolo vi andrà, - ribatté l'altro, che intanto aveva preso il Secolo per leggere le notizie dei teatri. Fortunatamente nessuno di loro si sentiva in vena quella sera, poi vi era troppa gente nel caffè, e Montalti davanti alla brutalità di quelle sbornie, che stavano già per scoppiare, non osava i soliti sproloquii. La voce fessa e la sillabazione troppo staccata e monotona, colla quale declamava, gli avrebbero attirato dal pubblico qualche villana interruzione. Si misero a parlare di donne: anche Cavina quella sera era stato in casa della Marietta. - La ragazza era bella? - chiese Montalti con un luccicore di gatto negli occhi. - C'è ancora, parte col diretto di un'ora dopo mezzanotte. Romani si voltò: - E dove va quel treno? - Bella! a Bologna. Rimase perplesso: - Ci sono altri treni? - Prima di giorno? Quello che da Bologna ritorna per Ancona alle tre, e l'altro che arriva da Ancona verso le quattro e mezzo, perché rimane ancora impedita la linea di Porretta. - Ah! - Deve partire, signor Romani? - gli si volse il padrone. - Sì, - e la voce gli si era fatta quasi dolce. - Dove vai? - domandò Cavina. - Non lo so. - Un mistero dunque? - Grande. Tutti sorrisero. Ma il baccano domenicale li teneva in disagio. Lo scrivano, malgrado le declamazioni socialiste, sapeva di essere poco gradito; Cavina era sospettato di aristocrazia per i modi abbastanza garbati e quella istintiva predilezione della grande arte, che lo traeva imprudentemente a ridere delle commedie e delle musiche gustate dal popolino; il vecchio maestro, benché simpatico per la dolce ingenuità del carattere e l'onestà della lunga vita, s'irritava troppo, nella lieta viridezza di tutte le proprie forze, contro ogni critica alla parte moderata. Egli era rimasto dentro la formula cavourriana, condannando ad alta voce tutti gli eccessi politici e le demenze atee dei nuovi rivoluzionari. - Eh, maestro! - esclamò Cavina; - ecco qui altri due suicidii a Torino; non c'è più religione. - Voi lo dite per ischerzo, giovinastro. - Come si sono ammazzati? - domandò Romani. - Uno si è avvelenato, l'altro si è gettato sotto il treno. E Cavina lesse i due incisi di cronaca, secchi, terribili. - I giornali non dovrebbero nemmeno stampare certi fatti, - disse il maestro: - le teste leggere si esaltano e, una volta esaltate, li commettono più facilmente. - Allora io sono una testa pesante. Possono raccontarne dei suicidii, io non mi suiciderò mai, - replicò Cavina. - Chi può dirlo? - ribatté Romani. - Io! Stai pur sicuro. Ammazzarsi per amore o per debiti, giacché la gente si ammazza quasi sempre per queste due cause? Per amore? Se una donna non ti vuole, ve ne sono sempre troppe disposte a prenderti; e quanto ai debiti, aspetterò che si ammazzino prima i creditori. Se io non ho quattrini per pagarli, mi pare che nell'imbarazzo ci siano essi. Si rise. Romani non rispose. - La gente si ammazza, perché la società è in isquilibrio, - sentenziò Montalti. - Si è sempre ammazzata in tutti i tempi, dev'essere una malattia. - Colpa di non credere in Dio; la nostra vita ha il suo scopo altrove. - Quale? - domandò Romani al maestro. - Quale? - ripeterono ad una voce Cavina e Montalti. - Dio..., - cominciò il maestro. - Non deve aver parlato molto chiaro, - interruppe sorridendo il padrone, - perché si discute ancora su quello che ha detto. Fatto sta che, quando la gente sta male, se ne va; non c'è altro di evidente. Nessuno può dire che non si ammazzerà... le circostanze sono tante! Tutti si arrestarono perché, pochi mesi prima, l'altro suo socio nel caffè si era appunto suicidato con un colpo di rivoltella alla tempia destra. Però Montalti, che voleva sempre dire l'ultima parola scientifica, propose il problema: - Quale categoria di persone dà minor contingente al suicidio? - I preti, perché stanno meglio di tutti, - si affrettò a rispondere il padrone. - I milionari, - ribatté Montalti, con quell'acre accento d'invidia, proprio a quasi tutti i socialisti quando parlano di signori. - T'inganni; c'era appunto venerdì sul Secolo un articolo, non ricordo più di quale scienziato, che spiegava come le probabilità del suicidio aumentino in ragione della ricchezza. - Non può esser vero, - si ostinò Montalti. - Lei, maestro? - tagliò corto il padrone. - Coloro che non sentono più la religione. - Lo sapevo... Romani doveva dire ancora la sua, ma dal tavolo prossimo due o tre operai si erano voltati, udendo il quesito, ed ascoltavano le risposte. Uno proruppe: - Lo dico io: i beccamorti! essi sanno meglio degli altri che la morte è brutta: la morte è come una donna, ma finché non ci pare bella, non commettiamo la sciocchezza di sposarla. - Bene! - fu gridato in coro. - Un bicchierino a Matteo! - Questo voglio offrirlo io, - disse il padrone alzandosi: - mi sei piaciuto nella risposta. * * * Guardava il grande orologio nero fra le due scansie gialle, al disopra della porta. Gli altri se n'erano andati in gruppo, e a poco a poco quasi tutti i tavolini erano rimasti deserti, mentre l'aria della notte, entrando leggera dalla bussola spalancata sul portico, spazzava i vapori dei ponci e dei sigari. Dal fondo della cucina giungeva, tratto tratto, un tintinno dei bacili e dei bicchieri, che il facchino lavava forse per la centesima volta nella giornata. Collo sguardo fisso sul quadrante dell'orologio, egli misurava il muoversi lento della grande freccia, che segnava i minuti; ne mancavano undici a mezzanotte. A quell'ora in punto uscirebbe dal caffè. Il sangue gli batteva a grosse ondate sul cervello, facendogli vacillare la vista. Adesso era quella paura materiale, che i nervi non possono più sopportare nella estrema imminenza della catastrofe, quando il pericolo cessa oramai di esser tale per il compiersi stesso del fatto. Non c'era più tempo di riflettere, di soffrire: fra pochi minuti sarebbe entrato nell'orbita della esecuzione. Quindi tutto quanto aveva patito nel giorno gli si condensava in uno spasimo solo, attanagliandogli ogni fibra del corpo e dell'anima; sentiva, dentro, un incalzare di sensazioni, una ressa di idee, uno sbaraglio di memorie, come quando un falco piomba sopra una nidiata di pulcini e ne ghermisce uno a volo, risalendo al cielo con un solo colpo d'ala, e tutti gli altri si sbandano esterrefatti fra le erbe alte del campo. Il suo sguardo era diventato così acuto, che distingueva veramente quel minimo spostarsi a gradi delle frecce. Tutta la sua vita stava ancora in quel piccolo segmento, interrotto dalle cifre nere e madreperlate del X e del XI, due spazi che si sarebbero riempiti con due dita. Non aveva altro. Avrebbero potuto offrirgli chi sa che cosa, e non sarebbe bastato ad allungargli di un altro dito la vita. Il padrone era tornato dietro il banco, e si era messo a contare dei soldi da una scodella di legno. Romani pensava: - Non ho più che otto minuti. La freccia gira senza sapere il perché, ma se sbagliasse, il tempo passerebbe egualmente nella stessa misura: non si può fermarlo. Ecco qui, questi ultimi otto minuti sono inutili, vuoti, come tutto il resto della mia esistenza! Che cosa posso fare? Rimango qui, non mi muovo, eppure il tempo mi trascina. Debbo finire prima di essere logorato: quando l'orologio si ferma, è forse logoro? Finirò così; una ruota che s'incaglia, e la freccia si ferma. Anche la vita è un circolo come quello dell'orologio: tutte le ore sono identiche, non significano nulla; il tempo non è soggetto all'orologio, più che la vita non dipende da noi. Potrei essere il più potente uomo del mondo, e tutta la mia volontà non saprebbe da questo posto arrestare quella freccia, che va sempre... È già passato un altro minuto. Debbo essere pronto. Si portò ambo le mani al volto, strofinandoselo violentemente come per destarsi. Nel caffè entrò un altro gruppo d'operai, più avvinazzati di quelli che n'erano usciti, ma per fortuna si fermarono in fondo agli ultimi due tavolini presso la bussola. Vide il padrone uscire dal banco e passargli dinanzi per servire prontamente i nuovi avventori, perché i camerieri erano in quel momento nel retrobottega. - Debbo decidermi! Non capiva che questo, la necessità ultima, la stretta suprema, senza nome, nella quale già soffocava. Tutto il resto non esisteva più. La febbre gli faceva battere i polsi, tremava in quell'incertezza dello smarrimento finale, che toglie tutte le direzioni, pur sentendosi nel profondo certi impeti, simili ai guizzi della candela che si spegne. Aveva appoggiato la testa sopra ambo le mani, per non guardare più l'orologio; gli pareva di ascoltarlo, benché non l'udisse. - Appena mi alzo di qui, sarò morto! Caterina, i miei bambini saranno già altre persone; adesso sono ancora mia moglie e i miei bambini... per cinque minuti. Poi, più nulla. Non c'è altro. Ho fatto il possibile inutilmente; quella prima cena all'Aquila d'oro mi ha ammazzato, mi ha ammazzato quella donna, che non ho amato; non la conosco nemmeno, adesso, ella non mi conosce più. Domani ci sarà ancora il sole, senza di me. Non ho più che due o tre minuti... È impossibile, sento che è impossibile, non avrò mai il coraggio di uccidermi! Non lo aveva: la testa gli pesava sempre più sulle mani, come una cosa morta. Si tastò ancora la rivoltella nella tasca. - Con questa, no. * * * Il medesimo gruppo, dal quale Matteo si era voltato per dare anch'egli la propria soluzione al problema proposto da Montalti, rientrò vociando nel caffè; erano stati a bere nella liquoreria sotto il campanile della piazza, e ritornavano per bere. Parve che vedendolo ancora a quel posto, si decidessero unanimemente, senza consultarsi, con una di quelle intese da ubbriachi, a gettarsi sul suo tavolo. Egli spaventato si alzò. In un lampo aveva veduto sulla faccia di Matteo, invanito di quella prima risposta, l'intenzione di riparlarne; si voltò verso il banco, ma era già tardi. Il gruppo lo circondava; avevano gli occhi imbambolati, e sui volti madidi quella espressione vaga di spavalderia ostile. Il padrone ripassò dietro il banco, mentre uno dei più briachi cadeva quasi di peso sopra uno sgabello borbottando: - Cognac! - Beva un bicchierino con noi, signor Romani; ho risposto bene poco fa, non è vero? - Mi sei piaciuto, Matteo, - tornò a dirgli il padrone con accento di sottile canzonatura: - bisogna bere per trovare simili risposte. - Adesso vogliamo bere tutti insieme; anche lei, signor Romani. In quel momento Romani vide le freccie dell'orologio sovrapporsi segnando mezzanotte; così in piedi, n'ebbe come un colpo di martello sul cuore, ma avvertiva ancora benissimo quanto gli accadeva intorno. Senza rispondere, fece atto di andarsene. - Questo poi no, - insisté un compagno di Matteo, mentre il padrone diceva: - Se ne va, signor Romani? - Addio, Enrico! - rispose questi tendendogli la mano. L'accento e la forma del saluto erano così insoliti, che l'altro ne rimase sorpreso, però fu pronto a stringergliela. Romani si mosse: allora Matteo volle sbarrargli la via, ma l'altro lo respinse con un gesto. Si alzò un mormorio di disapprovazione. - Va là, - uno gli gridò dietro, - che anche tu sei un bel signore, per fare così l'aristocratico! Il padrone, invece, gli teneva dietro con occhio pensoso, avendo sentito la sua mano tutta bagnata di un sudore diaccio. * * * Romani traversò il portico con passo tentennante, e si fermò nel largo, davanti alla fontana. La notte era sempre bruna, ma piena di stelle, i fanali avevano un chiarore pallido, velato, come il murmure della fontana chiusa entro quella funerea cancellata a palle di ottone. - No! - rispose ad un pensiero, che lo avrebbe condotto a porta Appia, passando ancora una volta sotto le finestre di casa. Pel loggiato, e per quel largo, non si vedeva alcuno; abbassò la testa, e si avviò verso il corso Garibaldi, che conduceva difilato alla vecchia stazione ferroviaria. Una forza oscura lo spingeva in linea retta, come una cosa, mentre la sua mente acquistava, grado a grado, una certa lucidità: come sempre, la fascinazione della meta lo aveva preso, appena entrato nell'orbita della esecuzione, eccitandogli quel coraggio fisico proprio degli animali. Nella luce opaca della notte le case perdevano i piccoli particolari delle proprie fisonomie, le sonorità anche più lievi sembravano attardarsi nell'aria. Egli sentiva solo di andare, appoggiandosi come sulla sensazione medesima del proprio passo sul marciapiede, così che, nel passare dinanzi ad ogni porta, l'interruzione del muro gli faceva un'impressione meno rapida e tuttavia lontanamente simile a quella degli alberi fuggenti agli sportelli dei vagoni, quando il treno corre veloce. Prima di arrivare alla grande barriera fiancheggiata da due casotti giallognoli, rigati e rabescati come due grandi gabbie da canarino, verdeggiava sul piazzale di una chiesa un piccolo giardino dominato da un alto abete storpio alla cima. Il getto esile della fontana, sprizzante da un sasso e ricadente sopra una minima vasca, sembrava un singulto di bambino nella notte: un ranocchio mise uno strido gutturale e tacque subito. Nessuna finestra era illuminata. Il cancello della barriera apparve alto, massiccio, coi lampioni sulle due grosse colonne centrali; al di fuori nereggiavano i tigli dei due viali fra le case del sobborgo. Egli vide da lontano la guardia passeggiare, fumando uno zigaro, dinanzi alla gabella; nella notte nessun rumore, nessun incontro. La guardia gli aperse colla chiave il piccolo cancello a sinistra, pel quale passavano i pedoni, e rinchiuse. Egli ne risentì la scossa, l'ultima che gli dava la città; piegò a sinistra per la via di circonvallazione, lungo il canale fiancheggiato da due alte file di pioppi bruni, ombrelliferi. L'aria era più fresca, il silenzio diverso: cori di ranocchi si rispondevano a distanza nella notte, passavano dei brividi nell'aria, qualche fronda dormendo pareva percossa da un'ala fuggente, un odore di terra e di verde saliva da per tutto. Egli allentò il passo. Sapeva che avrebbe preso per la scorciatoia del Borghetto, prima d'arrivare al nuovo macello, per salire l'argine sinistro del fiume, presso al grande ponte della ferrovia. La distanza dalla barriera al Borghetto era breve; sulla sinistra sorgevano alcune case nuove di fabbri, di falegnami, di piccoli bottegai, il commercio dei quali viveva appunto non pagando dazio. Egli andava sempre innanzi spinto da quella forza oscura, che in noi sembra sostituire la volontà, quando questa non è più sufficiente a dirigere la vita. Il sonno della campagna era però meno profondo che quello della città: le piante sognavano, e la loro respirazione e i loro fremiti turbavano l'aria; miriadi d'insetti, amanti o lavoratori notturni, vi si muovevano, la terra medesima non aveva quella insensibilità dei selciati e dei marciapiedi. I suoi occhi perdevano la fissità atonica, la frescura tornava a vivificargli la pelle. Improvvisamente gli apparve davanti la vasta pozza, nella quale si allargava il canale, immota come un grande antico specchio appannato; le due righe dei pioppi nascondevano le mura della città. Il Borghetto, formato da un solo vicolo, aveva un unico fanale in fondo: vi passò. La strada, pessimamente selciata, sfiancava, avvallando, per un sentiero fra un'alta siepe e un ruscello, poco più largo di un fosso. Odori immondi e penetranti crescevano appunto dove finivano le case. Dovette badare al come poneva i piedi per non cadere; l'argine s'alzava di contro. La sua linea, biancheggiante pel sentiero che le orme vi avevano impresso e che l'erba orlava scuramente, spiccava nello sfondo dell'aria, simile ad una larga striscia d'argento. Quando vi fu salito, abbassò gli occhi sul fiume vacuo, del quale i grandi archi del ponte in pietra e laggiù la spalliera dell'altro in ferro nascondevano le estremità, quindi si volse contro le mura. Solo la chiesa di sant'Ippolito col suo campanile, e l'altro di san Lorenzo e quello della piazza si distinguevano bene: il resto era una massa cupa, incerta, nell'ombra. Egli n'era già fuori per sempre. E allora gli parve, stando fermo, che la città si allontanasse, oscillando lentamente dinanzi a lui. * * * La notte era bruna. Nell'aria vagavano sentori di foglie e quell'indefinibile aroma, che la terra fecondata sembra alitare nel maggio: l'erba era umida, le stelle brillavano sul silenzio notturno pieno di sussurri. Dentro al fiume larghe pozzanghere s'illuminavano tratto tratto di tenui chiarori, mentre laggiù, sul ponte di ferro, i lampioni parevano contigui, e più lontano l'ombra oscillava. Oltre gli argini del fiume non si coglieva che un avvallamento della tenebra in una invisibile profondità, dalla quale si sentivano salire le preoccupazioni terrifiche della notte. Le linee del paesaggio, circoscritto dagli argini e dai ponti, si confondevano oscuramente, pur serbando lo stesso aspetto regolare intorno a quella cavità del fiume, rimasto senz'acqua e senza voce. Non si vedevano case: solo il ponte della ferrovia aveva un biancicore roseo di muro, sulla cima del quale fantasticamente alto, guardava nella notte il grande occhio rosso del disco. Egli vi si incantò. La colonna di ferro sotto il disco si distingueva appena, giacché il piano della ferrovia, sfuggendo dai parapetti del ponte, vaniva esso pure dinanzi a quella enorme pupilla rossa senza una oscillazione. Così ebbe daccapo paura: i fanali lontani dell'altro ponte in ferro sparivano nella loro chiarezza come dentro un bagliore, mentre quel rotondo occhio rosso non illuminava, e vedeva e doveva essere visto ad un'immensa distanza, come una scolta ciclopica sulla ferrovia deserta nella notte. Era rimasto in piedi, inchiodato sul sentiero biancastro. Dal ruscello, che per una larga chiavica passando sotto l'argine sboccava nel fiume, la nota tremula di un rospo s'interruppe timidamente; gruppi lontani di ranocchi gracidavano con violenza, coprendo un vocìo sottile di grilli, che si confondeva d'intorno. Dopo aver guardato da ogni canto si voltò ancora verso la città; dietro la sua lunga massa, bruna come una scogliera di notte, pallidi chiarori sembravano uscire da invisibili cavità; ma non pensò più che egli era vissuto là dentro per trentasei anni. Solamente guardava. * * * Sul ponte della ferrovia il casello del guardiano era illuminato; egli strisciò guardingamente lungo il parapetto pel sentiero lasciato dall'alta ghiaia, sulla quale poggiavano le rotaie, affrettando il passo per non lasciarsi sorprendere, giacché si ricordava come fosse severamente proibito di transitare per le linee della ferrovia. Non sapeva se il guardiano avrebbe fatto la ronda d'ispezione prima dell'arrivo del treno, ma quel divieto bastava in tale momento a fargli paura. La strada ferrata si allungava dinanzi a lui dritta, piana, nera, con quei due regoli sottili, in una uniformità e in un silenzio inesprimibile: nessuna traccia, nessun suono, nessun segno. Aveva voltato la schiena al disco, e scorgeva dinanzi a sé per cento metri un filo luminoso sulla costola interna delle rotaie; null'altro. Quel piano troppo stretto gli limitava la vista, mentre una impressione gelida gli veniva da quelle due rotaie inamovibili, che non si sarebbero toccate mai. Di qua e di là della strada i campi bassi s'affondavano in un'ombra più densa, dentro la quale si distinguevano appena i ciuffi dei primi grandi alberi. Ma i suoi occhi guardavano sempre sulle rotaie quel tenue filo luminoso, che sembrava avanzare con lui. Finalmente era solo. A quell'ora, in quel luogo, per quella strada non passava alcuno; sentì di non essersi mai trovato in una solitudine simile. Vedeva la ghiaia tersa, quasi vi fosse stata posta da poco tempo, e le rotaie luccicargli dinanzi, brunite. Quindi si ricordò di esservi trascorso in vagone molte volte, di notte e di giorno, senza prestarvi attenzione: chi guarda alla ferrovia? Gli occhi sfuggono sul paesaggio che scompare. Adesso invece la solitudine di quella strada, così diversa da tutte le altre, l'opprimeva. Si fermò al quinto palo del telegrafo, volgendosi indietro, verso la stazione. Incontrò il grande occhio rosso del disco fiso sopra di lui, e laggiù un riverbero largo d'incendio prossimo a spegnersi gl'indicò il luogo della stazione. Pareva molto più lontano che non fosse. D'un tratto, nel silenzio della notte, udì il grosso orologio di sant'Ippolito battere le ore dal campanile; le contò rattenendo il respiro. - Due quarti dopo mezzanotte, - esclamò voltandosi istintivamente verso Forlì, donde doveva giungere il treno. * * * Dall'altro lato della strada un'ombra passò con una lanterna nella mano; istintivamente egli girò dietro il palo del telegrafo, abbracciandovisi per non scivolare dall'alta ripa, e tenne il fiato. La lanterna nell'allontanarsi lentamente allungava un riverbero oscillante sulla vicina rotaia, si udiva la ghiaia stridere sotto un passo pesante. Era la ronda del guardiano; dal fondo della notte doveva presto spuntare la prima luce del treno. Il guardiano vigilava, secondo il solito, quel tratto di linea di là del ponte, perché non vi accadessero disgrazie; a un certo punto la lanterna di un altro guardiano avrebbe risposto alla sua, e il disco muterebbe il proprio rosso ardente in un vivido color verde. Romani sapeva tutto questo, giacché in una bella notte d'estate, l'anno prima, se lo era fatto spiegare dal guardiano sul ponte, ove aveva fatto sosta con alcuni amici. Quella notte gli risorse nella mente coi più minuti particolari; si ricordò dell'immenso soprabito biancastro, una meraviglia fra gli eleganti del paese, che allora portava Mario Angelini. Anche questi era morto. Ma una paura lo tenne nascosto, così abbracciato al palo, togliendogli ogni facoltà di ragionare; aveva pensato che il guardiano nella propria ronda potesse passare dal suo lato, e allora scoprendolo gli avrebbe necessariamente intimato di andarsene. Che cosa rispondere in questo caso? Avrebbe l'altro indovinato il vero motivo? Il palo ogni tanto vibrava, percosso da tremiti improvvisi. Era un dispaccio che passava irresistibile, invisibile sul filo, o una oscillazione, che questo, mosso dall'aria della notte, imprimeva al palo? La sua attenzione rimase per qualche tempo divisa fra il brontolio interno del palo e il luccicore saltellante della lanterna già molto lontana. - Ritornerà dal mio lato? Lo credette istantaneamente, quindi svegliandosi come da un sogno, che quel ritorno avesse già rotto, si disse: - Me ne vado. Nuovamente tutto dipendeva da questo caso. Un'angoscia di speranza lo soffocò, accorgendosi della vivezza dei raggi che la lanterna retrocedeva; sarebbe bastato che un suo bagliore traversasse la strada e gli battesse sul viso ad impedire la disgrazia, per la quale appunto si ordinavano le ronde. La lanterna si avvicinava sempre. Allora tornò a tremare di essere scoperto, ma, per una reazione quasi di collera contro sé medesimo, si mise di sbieco, perché lo spessore del palo lo nascondesse meglio. Voltandosi, laggiù, vide una luce. * * * Era il treno, ma non era ancora che una fiammella misteriosa nella notte. Pareva immobile, tutto rimaneva immoto intorno, il guardiano era scomparso dentro il casello: nel silenzio tranquillo dell'aria non un soffio, il fiume taceva. Un brivido del palo gli passò per tutto il corpo facendolo tremare a verga a verga, mentre, laggiù, quella fiammella rimaneva sempre così piccola e ferma. Un impeto freddo gli raggomitolò l'anima in uno di quei terrori sùbiti, senza nome, dei sogni. E strinse violentemente il palo guardando. La fiamma appariva rossastra come in un'aureola, entro la quale pareva di scorgere le larghe maglie tremule di una rete nera. La sua immaginazione si rappresentò subito la marcia rapida, folgorante, del treno apparentemente fermo per la sua stessa velocità, con quei due immensi occhi di fuoco, che gli rischiaravano la strada. Veniva da lungi, andava lungi, nero, veloce, misterioso, fatale. Nulla poteva arrestarlo; il suo respiro era mostruoso; ansava, soffiava fumo senza perdere la lena, senza spossarsi nel palpito enorme, scivolando sulle rotaie che tremavano, sfondando la notte inconsapevole. Non aveva meta, si arrestava, ripartiva; la gente spariva nei suoi vagoni neri, tappezzati all'interno come stanze, vi si obliava chiacchierando, in una fede sicura al mostro immane, che non aveva mai saputo nulla e non saprebbe mai nulla di coloro, che viaggiavano nel suo ventre. Di giorno e di notte, in qualunque stagione, sotto il sole, sotto la pioggia, sulla neve, andava sempre; il suo tremito diventava più profondo traversando i ponti, il suo respiro si faceva asmatico sotto i tunnels, dai quali prorompeva con un fischio trionfale d'ironia avventandosi giù per le valli, e non di meno ubbidendo docile alla mano, che gl'imponeva di rallentarsi dinanzi alle prime case di un villaggio. Era la forza stessa del sole diventato carbone, che si sprigionava daccapo in un altro fuoco; era la giovinezza eterna del moto, che crea tutte le giovinezze. Si ricordò la frase invidiosa di don Procopio: come è sempre giovane, è sempre come la prima volta che lo si guarda! In un attimo, la sua fantasia aveva riveduto tutti i quadri e tutti i sogni della vita. Quel treno misterioso nella notte trasportava indifferentemente gli uomini e le merci, i dolori e le gioie, era esso medesimo tutta la vita nella sua corsa perpetua che nulla può fermare, nella sua insensibilità, nella sua fiamma, nel suo rombo, nel suo orgoglio vincitore di ogni ostacolo. Bastava salirvi per sfuggire subito a tutte le proprie difficoltà, e non essere più che uno sconosciuto fra sconosciuti, in viaggio verso una meta non confessata, a ricominciare sopra una terra nuova la vita quasi consunta in un'altra. Tutto diventava piccolo dinanzi al prodigio di un treno: impotenza ed impossibilità non sono che conseguenza di un luogo, risultati di un ambiente, mentre la vita sempre giovane, corre sempre, si rinnova, si perpetua, dimentica, divora il tempo e lo spazio, bella come il sole che l'accese, più lunga del sole che si spegnerà. L'uomo non è più nulla, se vuole contraddire o dominare la vita, non ne può saper nulla, non vi deve mutar nulla: la morte vera è quando il nostro corpo si rompe da sé, ma allora la vita intorno non se ne accorge. Bisogna vivere come si può, più che si può, bisognerebbe poter vivere sempre. Un tremito profondo del palo lo scosse; la campagna sempre addormentata non si accorgeva che il treno l'oltrepassava vigile ed indifferente come il pensiero. Allora l'umiliazione, che gettandosi sotto quel treno ne sarebbe stato stritolato senza produrvi nemmeno una scossa sensibile, lo vinse. E se il macchinista, avvertendo il caso, arrestasse la corsa, quel cadavere di uno sconosciuto, che faceva perdere qualche minuto al treno, non sarebbe stato che uno spiacevole incidente per tutti. - Perché si sarà gettato sotto il treno? - si sarebbero appena domandato tra di loro gl'impazienti. - Ma s'intendeva già il suo rombo, si distinguevano i due fanali rossi, dilatati, abbacinanti; la terra incominciava a tremare, l'aria palpitava, dalla notte desta di soprassalto uscivano sussurri inquieti, giù pei campi alcune voci spaurite sembravano richiamarsi. Egli sentì tutto questo. Come se le fiamme dei fanali gli fossero entrate per gli occhi nel cervello, non vedeva più, mentre la stessa convulsione spasmodica lo faceva stringersi sempre più violentemente al palo, che oscillava quasi scosso da una bufera. Era tardi, non c'era più tempo. Il treno gli fuggiva agli occhi enorme, nero, con quel ventaglio di fiamma dinanzi, respingendo tutto col suo respiro di fornace; dalle rotaie parevano sprizzare fiammelle, una colonna di fumo illuminata internamente si distendeva sopra di lui, dietro di lui, come una bandiera: e al disotto, fra lunghe fessure, si distingueva ancora una vivezza di braciere, dal quale sfuggivano faville e bracie, che cadevano e si spegnevano. Egli si volse; il disco guardava col grande occhio verde, lungi dal disco un trenta passi l'ombra del guardiano protendeva ancora la lanterna nera col piccolo vetro rotondo. Nessuno sospettava adunque di una disgrazia. Sarebbe stato uno slancio, uno scricchiolio e più nulla. Davanti alla rapidità spaventevole del treno capì che egli avrebbe potuto essere anche più rapido, gettandosi bocconi sulla rotaia per lasciarsi passare sul collo l'immane valanga. Quest'ultima sensazione gli durò, quando il treno col proprio vento non lo scuoteva più così abbracciato al palo; e i vagoni neri s'inseguivano quasi contigui nell'ombra, e dai finestrini si travedevano dentro gabinetti illuminati, rossi, scuri, in una nudità di legno, o non si vedeva nulla, mentre i vagoni fuggivano chiusi sino alla cima, oscuri e sinistri come catafalchi. * * * La notte non mutava. Seduto presso quel palo, colle gambe abbandonate giù per la ripa erbosa, aveva ancora nella fantasia ansante quella visione. Aveva ascoltato il fischio d'arrivo e quello di partenza, gli ultimi rumori e gli ultimi tremiti nella notte, con l'angoscia che si prova solo sfuggendo momentaneamente alla morte. Nessuno fra quanti viaggiavano su quel treno si era certamente immaginato che a quel palo qualcuno fosse rimasto in dubbio di gettarsi sotto le ruote per finirla colla esistenza; ciarlavano o dormivano, nel pensiero dell'arrivo, trasportati dalla corrente della vita, più impetuosa ancora del treno. Potervi s alire e vivere, null'altro! Egli lo aveva sentito con una intensità, che gli rovesciava nella coscienza tutte le ragioni della morte. Il treno gli era apparso dentro una poesia strana ed imperiosa: la sua forza, il suo impeto esprimevano un trionfo costante nell'orgoglio del suo stesso prodigio. Ognuno dei viaggiatori, rapiti dalla sua foga, avrebbe potuto essere già sfinito nelle novissime disillusioni della morte, e non avrebbe meno provato, nel profondo della coscienza, la vittoria di quella corsa. Ma gli era rimasta nella fantasia quella successione di gabinetti rossi, coi divani a mezzo ricoperti dai grandi, grossolani merletti bianchi, sui quali aveva traveduto qualche testa di donna. Qualcuna andava forse a Parigi, un sogno che egli aveva rifatto tante volte inutilmente, ciarlando cogli amici nelle dolci notti di estate, quando, non sapendo come meglio ammazzare il tempo, andavano sino alla barriera per veder passare il treno della mezzanotte. Egli si ricordava le invidie provate nei brevi tragitti dinanzi ai viaggiatori esteri, così riconoscibili alla disinvolta eleganza del vestito e dei più minuti comodi di viaggio: erano i felici, i veri padroni del mondo, pei quali i climi non avevano inconvenienti e le stagioni mutavano indarno. Il lusso di queste esistenze superiori gli riappariva davanti come un quadro rosso di quegli scompartimenti di prima classe, ammantellati di ricami bianchi, con delle teste di donne soffuse di un tenue pallore. Tutto era bello: i cuoi delle valigie avevano tinte esotiche, i fermagli sprizzavano raggi fra il disordine soffice dei veli, degli scialli, delle coperte gettate alla rinfusa, in alto, sulla piccola rete. Si fumava, si chiacchierava, alcuni leggevano il giornale. Invece egli era venuto in quella notte per gettarsi sotto il treno. Si strinse con ambe le mani la testa per riordinarvi i pensieri: perché dunque non lo aveva fatto? Non seppe rispondere. * * * Ma voleva farlo. Sentiva sempre la suprema inutilità del suicidio, quantunque non gli tornasse nella mente un ricordo della famiglia abbandonata, e non gli rampollasse dal cuore un rimpianto della vita trascorsa. Dopo quella lunga giornata, era rimasto veramente solo. La morte, balenatagli così terribilmente nel primo tumulto di quella lettera, lo aveva poco a poco affascinato come il vuoto, nel quale nessuno sguardo può fissarsi lungamente: egli aveva resistito precipitandosi da ogni lato, ma perdendo sempre qualche cosa in ogni sforzo, sentendo svellersi dal profondo del proprio essere una per una tutte le più sottili radici. Doveva essere così, perché la coscienza arriva sempre nuda dinanzi alla morte. L'anima affacciandosi all'infinito non può essere che sola: i morenti mutano allora fisonomia, poiché sono già assenti prima di essere morti, mentre tutto quanto formava la loro vita non ha più nemmeno il valore di un passato, e il futuro non traspare ancora dalla torbidezza del mistero finale. Così solo, non aveva più né coraggio né paura. Lungamente pensò al tempo che gli rimaneva da passare in quella posizione. Nessuno lo aveva sospettato durante il giorno, nessuno lo aveva ancora visto, nessuno quindi lo vedrebbe su quella strada. Chi poteva pensare che egli stesse per morire? Quale influenza poteva avere la sua morte? Solamente la sua volontà vegliava ancora nell'attesa dell'ultimo momento. * * * Per quella necessità di far pure qualche cosa finché si è vivi, macchinalmente si cercò nelle tasche un sigaro per fumare, ma non ne aveva: poi si sdraiò lungo il sentiero, sul margine della ripa, perché quella posizione, così seduto, gli aveva indolenzito la schiena. La terra gli diede sotto la nuca una impressione di frescura. A sinistra, nel cielo, si era formato un largo, sottile velo scuro, le stelle splendevano piccole e rade. Tutto taceva. Al di sopra di quel silenzio assonnato, la vigilia eterna degli astri rompeva le ombre dell'infinito, ma la tenebra sulla campagna era così densa che tutto vi era naufragato. Il suo sguardo salì attratto dal tremolio di quei fuochi di bivacco, e si perdette nella loro confusione. La volta cerula si allontanava ugualmente, da qualunque punto l'occhio la contemplasse, per una distesa trasparente come le fiammelle che vi bruciavano nella inutilità della loro distanza senza misura. Nella sua mente oscura egli non riceveva che questa impressione. Le poche nozioni scientifiche apprese nelle scuole non avevano potuto dargli un concetto vivente del cielo; le stelle, come tanti mondi simili alla terra, probabilmente popolati come la terra, erano rimaste per lui un'idea vuota, un'ipotesi smentita ad ogni notte dall'apparenza del fatto. Il suo pensiero, troppo piccolo, come quello del popolo, per accogliere le spiegazioni della scienza, ritornava involontariamente alla primitiva concezione poetica del cielo, una volta azzurra, punteggiata di fanali e magnificamente spiegata sul mondo. Ma tutto era sulla terra. Questa rappresentazione immutabile per lo spirito umano e contro la quale nessuna scienza potrà prevalere, non gli dava anche adesso che una sensazione di stupore; per concepire le stelle come tanti mondi uguali al nostro, avrebbe dovuto immaginarsele spente, e allora gli sarebbe parso di non poterle più vedere; quindi l'enormità del loro mistero, moltiplicata per l'infinito del loro numero e per quello anche più terribile dei destini, che vi si svolgevano, avrebbe soffocato istantaneamente il suo pensiero. Egli guardava quel cielo senza una piega, velario diafano e costellato, che avvolgeva la terra oscura, tutta piena di dormienti destinati a morire, mentre l'anima gli si assopiva sempre più in un torpore di coma. Il lungo, dissolvente lavoro dell'agonia si era omai compito dentro di lui: un vuoto aveva inghiottito il suo spirito, e tutto quanto gli restava di vita non era più che un moto di abitudini. Tale ultimo stadio gli dava appunto quella calma, che appare sempre così inesplicabile nei condannati a morte. * * * In quella torpidezza così simile al sonno, che teneva la campagna, il suo corpo si riposava dalla stanchezza della lunga giornata. La frescura era blanda, l'aria tranquilla. Sdraiato lungo il sentiero, colla testa in alto, non vedeva più nella strada ferrata né il disco, né il palo del telegrafo: solo i fili neri di questo, tesi sopra il suo capo, formavano come una scalea di un significato misterioso, mentre gli steli alti del fieno si ripiegavano sul margine della ripa a toccargli le vesti, o cedevano sotto la sua mano distratta, inumidendogliela. Se qualche cosa avesse attraversato la notte in quel momento, soffio o voce, il suo spirito l'avrebbe seguita come si muovono nell'aria le piume di essa più lievi. Il sopore gli si faceva sempre più profondo, la vita vegetale della terra l'invadeva. Era per lui come un benessere di albero sbattuto dal vento, arso dal sole nel giorno, e che di notte ridiventa fresco, e dalle foglie ristorate manda un murmure indistinto. Qualche stella sembrava tremolare nel sorriso della propria luce, altre si stringevano a gruppi entro un albore diafano, e altre più remote scintillavano tratto tratto, quasi barattando segnali di scolte. Ma tutto era pace anche lassù: una dolcezza di riposo si spandeva su tutte le cose; perfino il fiume aveva cessato di muoversi, e i ranocchi adunati nelle pozzanghere dei campi non gracidavano più. * * * Un lungo brivido gli discese dal pensiero giù per le reni, mentre un fischio stridente, quasi di un proiettile, gli passava sulla testa. Il fischio seguitava rompendosi nell'acutezza di appelli ripetuti, la terra tremava: prima ancora di essersi potuto levare in piedi aveva scorto nuovamente la pupilla verde del disco dilatata nell'ombra, e al disotto di essa, sulla ghiaia della strada, un chiarore che si muoveva colla lanterna del guardiano. Era il treno delle tre, un misto, che veniva da Bologna. Rimase dritto, cogli occhi laggiù, spalancati sulla luce saliente dalla stazione invisibile. Non aveva raccolto di terra il cappello, si sentiva un continuo soffio agghiacciato sulla faccia, la gola gli si era improvvisamente disseccata. Sbirciò due o tre volte il vetro verde del disco, sorvegliando l'ombra del guardiano; non tremava, ma era come se tutto tremasse intorno a lui. Aspettava in una tensione, che non gli permetteva di fare un moto neppure coll'anima. Aveva i capelli irti e la bocca aperta: il suo sguardo s'illuminava di una profonda chiarezza interna. Il fischio ricominciò, poi a un certo momento parve un urlo, che l'immane respiro della macchina già in moto soffocasse; stridé ancora. La lanterna del guardiano si era alzata. Si vedevano distintamente i due fanali rossi e, più in alto, una oscillazione oscura di fumo: egli guardava ancora, attonito, senza respirare, scosso dal tremito convulso della terra, che pareva sfuggirgli sotto i piedi. La sua vita non aveva più che alcuni minuti secondi. La macchina ebbe uno sbuffo più violento. Rapidamente, inconsapevolmente, si gettò bocconi colla testa sulle rotaie; la rotaia tremava. Egli guardava venire la macchina, ma non vedeva più che un immenso ventaglio di fiamma alto come una parete, la terra oscillava sotto di lui; chiuse gli occhi e sentì sulla ghiaia, nel medesimo attimo, il palpito del proprio cuore e i battiti dell'orologio. Istintivamente aperse le braccia puntando le palme sulla ghiaia, abbacinato dall'immenso fulgore di quell'incendio, che si precipitava contro di lui rugghiando. I suoi occhi sostennero per un istante l'urto, non capiva, non sentiva; poi gli parve che il ventaglio di fiamme si sollevasse, si vide la macchina lanciata a volo sulla testa, come un'enorme arco di ponte che ardesse, un vento impetuoso gli sferzò il volto, mentre la terra squarciata da un ultimo sforzo si apriva sotto di lui. - No, no! - ebbe appena il tempo di urlare, ritraendo disperatamente la testa, che la macchina gli era forse già a soli venti metri. Un torrente nero; solido, alto: un soffio gelido ed irresistibile lo gettò quasi giù dalla ghiaia, sulla quale puntellava ancora le mani, raggricchiato nello sforzo istintivo di farsi più piccolo, senza potersi muovere, chiudendo gli occhi ad ogni vano fra vagone e vagone, come ad una scudisciata che gli fendesse a mezzo le pupille. E il treno enorme, vertiginoso, freddo, nero non finiva. All'ultimo vagone egli rotolò sul sentiero. Quando si rialzò non vide più il treno. * * * Egli se ne andava lungo il sentiero, a testa bassa. Una vergogna amara di quanto gli era accaduto aumentava sulla sua coscienza, come dopo la pioggia in certe pozzanghere cresce l'acqua. Si era gettato sotto il treno cedendo alla pressione di una forza interna che lo spingeva, e la sua ragione, rianimata dal fracasso della macchina, aveva avuto irresistibilmente paura. La sua volontà, incapace di qualunque sforzo, non si era più mossa, quando puntato sulle mani, colla testa rasente ai predellini dei vagoni, aveva sentito sfilare ruinosamente tutto il treno. L'aria, che fuggiva smaniando fra i larghi raggi delle ruote, gli schiaffeggiava il volto gelato da uno di quegli orrori fantastici, pei quali nella notte i fanciulli perdono la voce. Egli non si era immaginato la morte così enorme, con quella onnipotenza di uragano! Adesso tutta la sua natura di uomo timido ed inetto ripigliava il sopravvento. Una specie di buon senso gli diceva sommessamente che aveva avuto ragione di aver paura: lo spettacolo del treno, veduto colla testa sulle rotaie, era qualche cosa d'inesprimibile, d'insopportabile. Le rotaie oscillavano sotto la sua fronte, quasi come il filo del telegrafo quando il vento soffia impetuoso, la terra reboava, quel ventaglio di fiamma, formato dalla congiunzione dei due fanali, si dilatava sempre come per la spinta di una eruzione, dalla quale sfuggiva in alto un'immensa colonna di fumo. Era una scossa saltellante di valanga, con un rombo di tuono fra schianti di baleni e un vento freddo e una minaccia fulminea che rovesciava, dissolveva tutto dinanzi a sé. Perciò non aveva resistito. Per un solo istante si era irrigidito nel duello, premendo la tempia sul ferro gelido della rotaia collo sguardo ardente su quell'incendio; sarebbe abbisognato che il treno non fosse stato più che a tre metri, e allora forse il delirio stesso gli avrebbe fatto mantenere la posizione. Ma uno spavento lo aveva avviluppato, e lo cacciava nuovamente per quel sentiero nella notte tranquilla. Dove andare? Sentiva di avere ancora paura della morte, che gli era quasi passata addosso con quel treno oscuro e fiammeggiante, nell'impeto procelloso di una vittoria: ne aveva rimasto l'abbarbaglio negli occhi e il vento nei capelli. La sua faccia non gli sarebbe parsa più la medesima, se avesse potuto vederla; era di un pallore lapideo, cogli occhi vitrei e una specie di smorfia immobile sulla bocca. Come tutti i toccati dalla morte, aveva mutato. Nel suo stesso terrore gli rimaneva qualche cosa di estraneo alla vita, un senso di profondità interminabili, un freddo di caduta per una ruina di abissi. Infatti quel treno non gli era parso che si allontanasse per la strada ferrata, ma era dileguato per lo spazio, come il tuono, in uno di quei rapimenti che accendono a razzi le stelle. * * * Si arrestò. Aveva camminato per qualche miglio, senza por mente alla diversità della sottoposta campagna nella tenebra. Si accorse di essere tutto bagnato di sudore e di rugiada, il luogo non pareva mutato, e le rotaie gli si perdevano sempre dinanzi a pochi passi sul piano oscuro della strada. - Diranno che ho avuto paura! Infatti lo avrebbero detto, vedendolo così. Era stato lo sbigottimento inevitabile della morte, giacché il coraggio non è appunto che uno sforzo contro di esso, che la gente non vorrebbe mai vedere in coloro che debbono morire. Il soldato, il condannato titubante divengono istantaneamente spregevoli; bisogna che entrambi fingano il disprezzo, quasi la provocazione, perché tutti si esaltino in questa vittoria della volontà umana. Ma il suicida, che si vantò, per una qualunque ragione, di gettare la propria esistenza come un cencio immondo dietro di sé, non ha più diritto alla paura. In questo caso la gente insorge contro il falso temerario, che voleva sottrarsi alla pressione della morte, più greve ancora di quella dell'aria, giacché ci mantiene aderenti alla vita malgrado tutti i dolori: e le contumelie diventano la rivincita dell'umiliazione, che il coraggio inesplicabile di ogni suicida infligge alla moltitudine sempre invocante la morte e singhiozzante di viltà ad ogni sua apparizione. Chi l'ha voluta davvero, non può ritornare nella vita. È una consacrazione come quella che la religione pratica sui propri sacerdoti, i quali non sanno più riconfondersi cogli altri uomini. Egli si rappresentava tutto questo oscuramente, nelle scene che ne sarebbero seguite a casa sua e nel caffè. Si ricordava di alcuni, che avevano annunziato il proprio suicidio, di altri ancora più infelici, che vi erano sopravvissuti rimanendo per tutti un oggetto di scherno. Se egli fosse tornato addietro, avrebbe intoppato nella ilarità di tutto il paese, unanime, dopo una simile commedia, nel giudicare anche più abbietto il suo dramma. Poi, conosceva la zia Matilde, che appena aperta quella lettera ne avrebbe gettato le alte grida per tutta la casa e per le strade, correndo da Caterina. Come intercettare quindi quella lettera? Perché intercettarla? Per quanti sforzi avesse voluto fare, non gli sarebbe riuscito di tornare indietro: la sua anima vuota non amava, non si doleva più, ma, sola dinanzi a sé medesima, assisteva come uno spettatore al supremo duello della volontà contro l'istinto. Se non che, finite tutte le ragioni del vivere, la vita resisteva ancora al pari di ogni involucro alla pressione che doveva spezzarla, ed egli provava un'ultima indicibile vergogna per se stesso nel riconoscersi così pauroso. Solo una specie di testardaggine, un impegno col proprio orgoglio, l'obbligavano a morire. Aveva sempre la rivoltella in tasca, ma non pensò nemmeno un istante a servirsene; dopo quel primo infelice esperimento, temeva di fracassarsi la testa senza uccidersi, perdendosi così in un'altra fine peggiore di tutte le morti. Infatti un suicida sopravviveva ancora in paese, dopo essersi asportato con un colpo di pistola quasi tutta la parte inferiore del volto: era un giocatore non vecchio, che da quel giorno non aveva più osato uscire di casa, e pel quale la serva, diventata sua moglie, cercava l'elemosina. Ma se avesse potuto davvero analizzare sottilmente se stesso, in quella ripugnanza ad uccidersi con la rivoltella avrebbe scoperto qualche altra cosa, poiché a quel modo si sarebbe veramente ucciso da sé, mentre invece non voleva che morire. Gettarsi sotto il treno e lasciarsi schiacciare! Non egli avrebbe distrutto sé medesimo, ma un'altra forza, un mostro vivente, ansante, il più prodigioso uscito dalla mente umana. Egli sentiva un'ironia nella antitesi della propria debolezza contro tale onnipotenza, nel mutare quello stupefacente veicolo di vita in uno strumento di supplizio. Era come una vendetta contro la società, che lo costringeva a morire colla assurda contraddizione delle proprie leggi coi propri costumi. Infatti il suo suicidio non aveva altro motivo. La natura non ha bisogno del nostro concorso per ucciderci, il mondo solo ci condanna al suicidio: quando la nostra presenza non vi è più possibile, sentiamo la necessità di morire, per non durare come un rimasuglio fra la gente. La società non è pari alla natura, nella quale anche i residui hanno un valore. Ognuno crea se stesso in una classe o in una funzione con indelebili caratteri, ma, distruggendo questa personalità, non gli rimane né posto, né gruppo. Allora erompe la contraddizione fra l'istinto che vorrebbe vivere, e la ragione che non sa più trovarne il modo. Infatti egli non aveva, coll'imprudenza di quella cambiale falsa, sciupato che la propria condizione in paese, così che potendo trasportarsi altrove non avrebbe quasi nulla perduto. La morte, cui si umiliava, era un omaggio al giudizio della società, un tragico complimento all'importanza della classe, nella quale era nato. Come marito, come padre, come uomo, egli consentiva a non poter vivere se non come aveva vissuto fino allora, mentre intorno a lui le migliaia e migliaia vivevano egualmente bene entro la condizione, nella quale sarebbe precipitato; ma poiché la nostra vita è anzitutto spirituale, una mutazione della sorte vi ha infinitamente più importanza che qualunque altra della natura. Dalle più grandi tragedie ai più minuscoli drammi, non si tratta mai che di suicidio, di una immolazione che l'individuo fa di se stesso alla società, come vittima espiatoria delle colpe altrui o delle proprie. Quindi la vergogna dell'aver avuto paura lo mordeva anche allora, che nessuno se n'era potuto accorgere. L'orgoglio necessario al suicidio, quella esaltazione di sentirsi maggiore degli altri, appunto gettando ciò che è tutto per essi, gli era venuta improvvisamente meno. Vile come coloro, per non somigliare ai quali moriva, si era gettato disperatamente indietro dalla rotaia, invece di lasciarvisi sfracellare. Egli aveva provato confusamente, in quei brevi istanti, una specie di compiacenza ironica e superba al pensiero di insudiciare col proprio sangue il lucido cerchio delle ruote, arrestandone forse, magari per un secondo, la marcia trionfale. Lo avrebbero visto fracassato, irriconoscibile, inorridendo in quella inesprimibile paura della morte, che gela istantaneamente tutti i cuori! Sarebbe stata la sua rivincita dopo morte, perché anche il suicidio ha bisogno di averne una. * * * Seduto accanto al palo, coi gomiti sulle ginocchia e la fronte fra le palme, piangeva. Dopo aver girato lungamente innanzi e indietro per il sentiero, in un orgasmo di febbre, era ritornato allo stesso punto, vinto dal fascino misterioso, contro il quale lottava. Era stata una corsa miserabile di fanciullo smarrito per la notte che si sente aggredito a ogni tratto nell'invisibile e non osa gridare nemmeno inciampando. Non poteva decidersi, non sapeva andarsene; qualche altro treno doveva passare prima di giorno. Quando rivide quel palo, ne provò un sollievo come di una meta; la luce del disco era sempre rossa, lontanamente la stazione aveva quel largo riverbero d'incendio. Qualche lagrima calda gli scivolava fra le mani e le guance, sciogliendosi con un sottile bruciore di sale. Era l'ultimo pianto, quello che non si sente più, perché tutto è già morto di dentro: i suoi occhi piangevano, come talvolta le ferite lasciano uscire goccia a goccia il sangue, mentre il moribondo sente ancora che col sangue se ne va la vita. La natura stessa esprime talvolta un simile pianto in certi squallori di paesaggi autunnali su praterie opache, sotto un cielo grigio, senza un vivente che le attraversi e senza case; o fra roccie appannate e riarse, in una nudità di cadavere. E vi è un dolore sotto le pietre, e pare un pianto l'umidità che l'aria del crepuscolo vi lascia. * * * Un gallo cantò. L'aria era ancora così scura, ma il sereno del cielo principiava ad imbiancare in una purezza sempre più scialba: le stelle adesso rade perdevano quel tremolio che le ingrandiva, ogni vapore si era disciolto. Senza che ne apparissero ancora i segni, l'alba si avvicinava. Nell'aria più fredda altri brividi passavano, simili a sussurri mano mano più intensi. Toccò un ciuffo d'erba sull'orlo della ripa, e ne ritrasse le dita imperlate di rugiada. Da quell'altezza della strada cominciava a discernere la campagna. Gli alberi scoprivano già le cime, disegnando la regolarità dei loro filari; poi un altro gallo cantò e un crocchio di rane volle rispondergli, ma la loro voce notturna si spense all'improvviso. Gli parve di udire come uno schiaffo di imposte nel muro, una luce apparì. Non era più la notte. Laggiù il grande riverbero della stazione si appannava, mentre dietro le mura della città quel vapore luminoso aveva cessato di salire dalle strade invisibili, e in alto, molto in alto, i tre campanili spiccavano rigidamente. Un freddo gli strinse lo stomaco. Sebbene il casello del guardiano sembrasse chiuso, si allontanò guardingamente dal palo, perché sul margine della strada, nell'aria sempre più diafana, sentiva di apparire a tutta la campagna. Gli alberi si scrollavano lievemente, sibili d'insetti, tintinni misteriosi preludevano alla grande sinfonia del giorno. Una luce approdava all'ultimo orizzonte respingendo la tenebra, che si orlava di riflessi evanescenti in lunghe strisce, talvolta simili a nuvole stracciate. Ma più che dell'albore, egli aveva paura dei suoni. Le cose più mattiniere intorno a lui si erano già deste; dentro le frondi qualche ala batteva per spigrirsi, mentre gli ultimi sogni strisciavano impalpabili sugli occhi ancora socchiusi. Seguì per qualche minuto il volo spaurito di una nottola, rivedendola ogni volta, con una specie di compiacenza egoistica, traballare sempre più incerta e precipitarsi nuovamente giù nell'ombre più dense, ad ogni chiarore che si diffondeva nell'aria. Si era allontanato mezzo miglio dal palo, ma la città e il ponte di ferro si vedevano ancora. Se non avesse avuto così paura del giorno, gli sarebbe sembrato ancora notte; infatti, laggiù, i fanali rimanevano accesi, appena l'ultima linea dell'orizzonte si era rischiarata, e qualche gallo impaziente aveva lanciato il primo squillo della propria diana. Ma i suoi sensi, vibranti di un ultimo orgasmo, gli rendevano manifesti i più impercettibili segni. Non poteva più ricapitolare quanto gli era accaduto nella notte, sentiva solamente una vergogna crescente, intollerabile di essere ancora lì, senza un motivo. Per tutta la notte era stato solo, adesso invece la luce gli addenserebbe intorno tutti i viventi: il suo coraggio non potrebbe resistere, sarebbe ripreso, ricacciato a forza indietro, più in basso, per sempre, sotto la propria ruina, inconsolabile, immutabile, inutile. Tutto ridiventava un pericolo. Guardava, ascoltava convulsamente; la notte non era più simile a se stessa; la sua frescura, la sua tranquillità, il suo sonno avevano mutato; una inquietudine agitava ogni suono e dava un accento di trepidazione a tutte le voci. La solitudine si riempiva. Guardò l'orologio, ma non distinse i numeri sul piccolo quadrante, e non osò accendere un fiammifero. Dovevano essere le quattro: forse a quella distanza l'orologio di sant'Ippolito si sarebbe ancora udito; poi n'ebbe paura. Qualunque voce gli faceva male; nell'aria colse un vagare di aromi, altri effluvii che s'innalzavano verso il mattino. A che ora passerebbe il primo treno? Sbigottito si voltò verso il disco, ancora così rosso, ma di un rosso meno luminoso. Per le altre strade della campagna la gente doveva aver ricominciato il proprio passaggio, i lattivendoli, gli ortolani, tutti coloro che soddisfano ai primi bisogni della città; nei due grandi caffè della piazza, sempre aperti, nottambuli col volto livido dalla veglia troppo prolungata comincerebbero a parlare di separarsi, perché odiavano istintivamente l'alba e la sua ripresa coraggiosa del lavoro sotto la immutabile necessità dell'andare avanti. Anch'egli era un nottambulo, l'ultimo, per l'ultima volta. Nel tormento di quella paura, soffriva alla preparazione lenta del giorno, più ammirabile forse che lo scoppio stesso del sole trionfante daccapo a sollecitare coi propri raggi tutti i viventi. Egli allora non si muoverebbe, informe cadavere per sempre. Ma non voleva esser visto prima, non aveva bisogno delle sollecitazioni, che gli aumentavano intorno. Se ne andrebbe, se ne andrebbe ad ogni modo, nella disperazione di non aver potuto nulla comprendere, senza la giustificazione di quanto aveva sofferto! Meglio la notte, il buio senza vita: un silenzio eterno e la sicurezza del nulla, perché non vi poteva essere altro, dopo! Il suo odio alla vita glielo rivelava chiaramente. Egli, che aveva tanto patito il giorno innanzi nella rottura graduale di ogni vincolo, adesso non soffriva più che la fretta, colla quale gli pareva di sentirsi cacciato; non v'era altro tempo da perdere. Fra venti o trenta minuti, da quella posizione tutti avrebbero potuto scorgerlo. I canti dei galli si erano venuti ripetendo, poi un muggito aveva dominato tutte le voci. I pioppi tornavano a stormire colla battuta secca della grandine, i salici sibilavano, le quercie sussurravano appena. Da un olmo sotto la strada un gridìo di passere, subitaneo come una risata, lo fece trasalire. Ormai egli stesso avrebbe potuto discernere lungo il binario un uomo a grande distanza, e tuttavia era ancora presto. Si fermò al primo palo del telegrafo, sdraiandosi daccapo sul sentiero per nascondersi. Stava in agguato, coll'occhio teso sulle ultime lontananze della strada, l'orecchio aperto sospettosamente a tutte le voci; le erbe alte, fradice di rugiada, gli bagnavano il volto percosso tratto tratto da un tremito, che gli echeggiava sonoramente sino al fondo dell'anima. Ma tutte le forze gli erano improvvisamente tornate: era l'attacco finale di quel duello troppo lungo colla morte, senza più alcuna incertezza, e più orribile nell'impossibilità di muoversi. Tutto il suo odio si era mutato in coraggio, quasi la morte, che gli verrebbe incontro su quel treno, dovesse avere una forma umana come la sua. Il suo tetro scheletro, colle occhiaie vuote e la lunga falce, gli riappariva nella fantasia cogli altri fantasmi della espiazione cristiana evocati dall'ultimo dubbio: ma temeva solamente di non poter durare per tutta la lunghezza della prova. Il suo sforzo supremo era di non pensar più, non voleva più nulla davanti. La sua coscienza era giunta finalmente al disprezzo della vita, di questa farsa stupida ed atroce, che nessun Dio poteva aver voluto, perché vi si soffre solamente, e coll'amore di un minuto vi si chiamano altri a soffrire e a morire: ecco tutto! Il resto era menzogna. E davanti a questa imperscrutabile necessità il suo individuo urlava nello spasimo di non poter inabissare tutta la terra e, strappando con un gesto titanico dal cielo l'immenso manto stellato, ravvoltolarvisi come in una bandiera nemica, e spirare ultimo sulla ruina finale di quanto era stato. - Ah! - gridò balzando in piedi, immemore di ogni riguardo. Era il treno. Nel pallore crescente della tenebra la sua luce appariva simile a quella di un palloncino roseo librato nell'aria, ma egli non vedeva che la morte. Era scattato in piedi alla prima scossa del terreno come ad un appello, protendendo il volto in una impazienza quasi insolente della fine. Aveva negli occhi un chiarore di cristallo e sulla faccia una fisonomia di marmo. Rimase così immobile, colla volontà tesa contro il treno, calcolando mentalmente la rapidità della sua corsa. Un fremito d'orgoglio lo scosse ancora, nel vederlo già così vicino che si discernevano distintamente i due fanali; aprì le braccia ad un gesto inesprimibile, e si gettò sulla rotaia abbandonato. Era caduto, quasi colla fronte sul ferro, gli occhi rivolti al treno. Avanzò la testa per poggiare il collo sulla rotaia, lasciando penzolare il capo nel vano come da una ghigliottina. Il freddo del ferro alla gola gli fece passare questo paragone nel pensiero. Ma allora tutte le forze lo abbandonarono, si decomposero per le scosse della terra, che gli passavano per tutto il corpo colla violenza di continue scariche elettriche. Si raggricchiò, chiuse gli occhi, travolto dal fragore precipite che già l'investiva; il ferro della rotaia gli friggeva quasi sotto il collo, una vampa gli aveva ventato sugli occhi, mentre nel terrore delirante, ineffabile, di quella cosa senza nome, la sua volontà caparbiamente disperata, come quella di un bambino, ripeteva: - Non importa, non importa! Con un ultimo sforzo premé ancora il collo sulla rotaia. Poi un'estrema convulsione di turbine, di abisso, di valanga, d'incendio, lo fece quasi rivoltolare sopra se stesso; aprì gli occhi nella fiamma, e per una paura più terribile gridò: - Mio Dio! Ma l'enorme macchina gli era già passata furiosamente sulla testa, soffocando nel proprio fracasso di cateratta l'inutile parola. FINE

CAINO E ABELE

678780
Perodi, Emma 1 occorrenze

Più tardi quando il duca e Velleda s'incontrarono a colazione, sotto lo sguardo dolce di Roberto, Franco ebbe il coraggio di domandare alla signora se si sentiva male perché la vedeva pallida e abbattuta, Leda s'è sentita male nel bagno, - rispose Maria, - è uscita tutta tremante, pareva che avesse la febbre. Ho commesso un'imprudenza nuotando troppo, disse la signora per rassicurare Roberto, che la guardava ansioso. - Non farò più bagni. L'agitazione di Velleda continuò per un pezzo. Dopo pranzo non ebbe la forza di fare la solita gita sul " Selino " e passò alcune ore seduta nell'acropoli deserta di lavoratori, con un libro in mano, senza leggere. I più strani pensieri le correvano alla mente; pensieri baldi di resistenze violente, di acerbe lotte; pensieri di fuga. di sparizione senza lasciare traccia di sé: ma tutti cadevano allorché il cuore le ricordava che non era sola, 0169 che non aveva il diritto di abbandonare un uomo buono, del quale aveva accettato l'affetto. Mentre stava così perplessa invocando un'idea cui attaccarsi, un'idea che la salvasse in mezzo a tanto sconforto, udì dei passi dietro a sé e si alzò spaventata. Siala vista del Lo Carmine la calmò. Come mai è divenuta così nervosa che si spaventa a ogni rumore? - le domandò. L'estate mi ha spossata, - rispose Velleda, - uia non è nulla e l'autunno mi renderà vigore. Volevo giusto parlarle, - disse il Lo Carmine, ma è sempre accompagnata e non bramo che le mie parole giano udite da altri. C'è forse qualche pericolo? - domandò ansiosamente. No, si calmi, ha i nervi agitati; anzi ... ! Sono stato a Trapani in questi giorni, e come ella sa, per tutto si prepara la lotta elettorale, benché il decreto di scioglimento della Camera non sia anche firmato. Ebbene, molti amici miei, persone anche influenti, vorrebbero che nella lista dei deputati moderati della provincia figurasse il nome del signor Roberto e mi hanno detto d'interrogarlo se si lascerebbe portare. Che cosa crede lei? Queste poche parole erano bastate a dare un altro avviamento ai pensieri di Velleda. Ritornata a un tratto padrona di sé, esaminava la situazione con calma. Naturalmente, il collegio che gli si offre sarebbe. Castelvetrano? - domandò ella Appunto. Non so se accetterà, ma sono quasi sicura che riu scirebbe se si portasse. Veda, l'avvocato Orlando, ministeriale, riuniva fin ora molti voti, perché vi era lo scrutinio segreto e per lui votavano in altre circoscrizioni della provincia. Ritornati al collegio uninominale, egli avrebbe pochi voti, perché non ha, base a Castelvetrano, dove il partito di sinistra è in minoranza. Sono 0170 tutti moderati o socialisti. I primi voteranno certo per il signor Roberto; i secondi, a meno che non portino un candidato proprio, che non riuscirebbe, darebbero i loro voti a un candidato d'opposizione piuttosto che a un ministeriale. In tutti i casi ci sarebbe dispersione di voti e per conseguenza ballottaggio, ma il risultato finale -sarebbe reiezione del signor Roberto. Questi stessi calcoli sono stati fatti dai miei amici di Trapani, ma ora si tratta di sapere se il signor Roberto accetterà. Vorrebbe ella interrogarlo, per evitarmi un rifiuto, o nel caso affermativo, preparare il terreno alla mia proposta? - Volentieri, - rispose Velleda, tutta infervorata da quell'idea. - Se posso, lo interrogo stasera e domani le darò una risposta per lettera. Allora il Lo Carmine si diede a esporre a Velleda il bene che Roberto avrebbe potuto fare a quel paese così abbandonato dal Governo. Prima di tutto bonificarlo, riprendendo dopo tanti secoli i lavori intrapresi da Empedocle; poi creare una colonia agricola nei terreni strappati alla palude e alla malaria, in terzo luogo ottenere del bilancio dell'istruzione pubblica maggiori fondi per gli scavi. Qui la volevo! - esclamò Velleda. - Dica la verità: ella desidera che un uomo colto, un archeologo, conoscitore di questi luoghi vada alla Camera, per ottenere che Selinunte esca dalla terra che la copre, perché lei possa frugare questa spiaggia in tutti i versi. Sarebbe forse un desiderio colpevole? - domandò il Lo Carmine, balbettando più del consueto. No davvero. Anzi è un'ambizione molto modesta ; le mie sono più vaste, più grandi. Lo scienziato non le domandò a che miravano quelle ambizioni; lo indovinava ed era sicuro che Roberto avrebbe accettato il mandato per compiacerla. Noi vi sorprendiamo! - esclamò Roberto mostrando 0171 la testa di dietro un muro basso. - Ah! ho capito! aggiunse rivolgendosi a Velleda scherzando. - Non è voluta venir con noi perché aveva un appuntamento col Lo Carmine! Il viso di lui mi dice che qui si tratta di un complotto. Sì, - rispose Velleda, - noi si cospira contro l'onorevole Orlando, il quale sarà in questo momento nella suo villetta, senza sospettare che dinanzi al mare due persone attentano alla sua felicità. Franco, che era sopraggiunte insieme con Maria, non capiva nulla; Roberto credere che si trattasse del processo, perché l'avvocato Orlando era appunto il difensore d'Alessio e disse : Io non devo saper nulla di questo complotto? Per ora no; più tardi forse. È curioso? - gli domandò ridendo Velleda. - Un poco. Tutti insieme si diressero verso casa. Roberto aveva pregato il Lo Carmine di pranzare con loro, così che quella sera il pranzo fu più animato. Velleda però era taciturna. Era bastato un sorriso di trionfo di Franco per agghiacciarle il sangue. Evitava d'incontrare lo sguardo freddo, sarcastico del duca, ma bastava la voce di lui per ferirla e barbaramente ripeteva a sé stessa, per risentire la vergogna dell'insulto : Mi ha baciata! Mi ha baciata! Era già notte alta, una notte quieta e serena, quando Velleda si alzò da tavola. Ella offrí il caffè agli ospiti e a Roberto e poi per non parlare con Franco, condusse Maria a letto. Le altre sere lasciava per solito a Costanza quella cura, ma quella sera volle spogliare da sé la bambina. Che cosa hai fatto oggi? - le domandò. Niente; mi sono divertita con lo zio Franco. Figurati; fingeva che io fossi grande e mi trattava come 0172 una signora. Mi diceva che ero bella, che avevo gli occhi come un'orientale, la pelle morbida e tante altre schiocchezze. E tu gli credevi? No! Che me ne importa di esser bella ora? Quando sarò grande, allora sarò duchessa. - Ma che duchessa! Egli non può trasmettere il suo titolo altro che ai proprj figli. - T'inganni, Leda: tu sai tutto, ma queste cose le sa meglio Franco di te. Il duca non lasciò a lui il suo titolo? - Perché era un maschio. Le femmine non ereditano titoli; esse portano il nome del padre e poi quello del marito; e se tu mi vuoi bene, Maria, la prima volta che lo zio ti parla di queste sciocchezze devi rispondergli che tu non hai bisogno di titoli, perché ti basta il nome onorato del babbo. Me lo prometti, Maria? S'era inginocchiata accanto al letto della bimba e la guardava con tale intensità d'affetto, che ella, attratta da quello sguardo, le buttò le braccia al collo, dicendole : Farò quello che tu vuoi; Leda, perché ti voglio tanto bene! Ora; dormi, cara, - disse, e chiamata Costanza ricornò in sala. Il Lo Carmine, già s'era alzato per andarsene. Bravo, - gli disse in modo da essere udita da Franco - Lei sa che devo parlare al signor Roberto. Gli parli subito e farà bene, - rispose l'altro. Il duca rimase un momento perplesso, ma poi si rassicurò pensando che del fatto della mattina non avrebbe letto niente a suo fratello, che si sarebbe fatta piuttosto ammazzare. Per via voleva confessare il Lo Carmine e per questo gli usò la cortesia di ricondurlo fino alla Casa dei Viaggiatori, ma il Lo Carmine non si fece confessare. Era 0173 uomo di poche parole ed aveva quella serietà di carattere che è uno dei tanti pregi dei siciliani; eppoi il duca non gl'ispirava nessuna simpatia. Franco rimase per alcun tempo a passeggiare sulla spiaggia, guardando la villa illuminata e specialmente la sala, nella quale scorgeva Velleda seduta vicino alla vetrata aperta. Non vedeva Roberto, ma ne indovinava la presenza, osservando che Velleda parlava animatamente come se cercasse di convincerlo di un fatto. Gli rivela tutto, lo aizza contro di me! - diceva perplesso e ansioso. - Perfida! Ma un momento dopo, vedendo Velleda che cessava di parlare e appoggiando la testa alla spalliera della poltrona sorrideva ascoltando tranquillamente ciò che rispondevate l'altro, si calmò. Non è di me che parla: c'è un altro mistero; una cosa che la fa felice. Se avesse narrato di me, avrebbe pianto, sarebbe andata in collera; invece ha una espressione severa sul volto; non ha astio! La conversazione fra Velleda e Roberto durava lungamente e Franco non sapeva scendere dal monticello di sabbia dal quale il suo occhio si spingeva dentro la sala. A un tratto vide Roberto alzarsi, accostarsi a lei, ma invece di curvarsi a baciarla, sollevò la mano che Velleda posava sul bracciale del seggiolone e se la portò alle labbra. Un momento dopo Roberto era in giardino, e chiudeva il cancello; dall'alto della terrazza Velleda gli gridava : Buona notte, mio buon signore! - e rientrava in sala per scomparire. Velleda aveva vinto le esitazioni di Roberto perché gli aveva detto: Io, che ho rasentato la gloria, non ho più ambizioni per me; tutte le mie ambizioni sono riposte in lei. Accetti e sarà eletto. Col suo ingegno, con la sua attività, con le larghe vedute e specialmente col suo cuore, 0174 che ha tutte le virtù più elette e si commuove a tutti i dolori, capisce tutti i bisogni dell'età moderna; potrà fare tanto bene. Lei, che è un solitario, un carattere integro e assolutamente puro, portando fra tanti utilitarj la sua rettitudine di giudizio e la sua coscienza retta, farà, dei proseliti. Non è possibile che non si manifesti una reazione; che un bisogno di probità e di onoratezza non si faccia strada nelle masse; e lei sarà l'apostolo di queste due virtù, il rigeneratore. Accetti! Ma saremo spesso divisi! - aveva osservai Roberto. È vero, - aveva risposto Velleda, - ma quello divisioni ci faranno meglio sentire l'affetto che ci lega. Accetti e mi farà felice! Roberto s'era lasciato convincere ed era stato in quel momento che Velleda aveva appoggiato la testa alla spalliera della poltrona, e, sicura della vittoria, aveva tracciato a Roberto tutto quello che poteva far di utile, specialmente nel campo della legislazione sociale, proponendo leggi per migliorare la condizione degli operai, per assicurare le famiglie in caso d'infortunio, per far cessare quell'odio di classe; che si accentua ogni giorno più contro la borghesia, la trionfatrice crudele del 1793. Sì Vellcda, io farò tutto quello che vuole, io mi lascerò guidare da lei, - aveva risposto Roberto e le aveva baciato la mano. Franco aveva assistito a quella scena, avevo udito Velleda dar la buona notte a Roberto, eppure non credeva alla purezza del loro affetto, e la sua fantasia eccitata glieli rappresentava ora stretti in un ardente abbraccio, ora dolcemente stanchi dopo lunghe ore d' amore, ma mai mai egli voleva ammettere che amandosi così profondamente, essi si fossero imposti un sacrifizio sovrumano. Anche quella sera Franco tornò stanco e irritato nel suo quartiere e penò molto prima di addormentarsi. 0175 Perché il Signorini non gli rispondeva? Ah! se avesse potuto scoprire una macchia sul passato di Velleda, l'avrebbe avuta in suo potere! Come sarebbe stato felice allora di sapere umiliata quella superba, di poterla piegare alle sue voglie, di vedersela dinanzi supplichevole, offrendo il suo amore in cambio del silenzio. La solita idea fissa lo torturava. Ora anche l'invidia per Roberto era meno viva; non lo invidiava più per la fortuna negli affari, per la stima di cui godeva, per quella superiorità che tutti gli riconoscevamo su di lui e neppure per i benefizj che Roberto gli aveva fatti ; lo invidiava soltanto per essersi fatto amare da Velleda. Questa invece non pensava a lui. Il passo che stava per dare Roberto dietro suo consiglio, le pareva così grave che ne esaminava con mente calma tutti i vantaggi e gli svantaggi, e in certi momenti si pentiva del consiglio, ma subito dopo ripensava alla nobile opera che egli avrebbe potuto compiere e ricacciava nel fondo dell'anima i dubbj. Fu in uno di questi momenti di fiducia che scrisse al Lo Carmine di comunicar pure ai suoi amici che Roberto accettava. Ella posò la lettera senza chiuderla sulla scrivania, per vederla appena desta e modificarla nel caso che il sonno le avesse dato un altro consiglio. Sia il sonno l'avvalorò, invece, nel suo proposito e la lettera fu recapitata la mattina presto al suo indirizzo.

LE NOVELLE DELLA NONNA. Fiabe fantastiche

679092
Perodi, Emma 2 occorrenze
  • 1992
  • Newton Compton Editori s.r.l.
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Ma dopo una settimana, invece di potersi alzare, come aveva detto il medico, la Regina era sempre più abbattuta e nulla valeva a renderle il vigore. Verso i primi di giugno volle fare uno sforzo e si fece portare al sole sull'aia, ma dopo pochi minuti che era lì a guardare i fiori e a sentire il lieto bisbiglio dei bimbi, fu presa da una mancanza, e le nuore dovettero portarla a letto a braccia. Da quel giorno non si alzò più, e il 15 di giugno spirò in mezzo ai suoi, non esclusi l'Annina e Carlo, venuti da Firenze per riabbracciarla. Morì la buona e cara vecchia, senza aver perduto la lucidità della mente, raccomandando ai figliuoli di restare uniti per amor suo, raccomandando ai nipotini di seguire l'esempio dei genitori e d'essere uomini laboriosi e onesti. Non è possibile dire quale vuoto lasciasse in casa la morte della Regina e quanto fosse pianta da tutti. Con lei spariva la mente illuminata, l'anima della famiglia, la donna esperta e di buon consiglio alla quale erano soliti ricorrere nei momenti solenni e difficili della vita.

Allorché ella fu in salvo, si rammentò che giù in cucina c'erano Nando e la Lisa, e tanto pregò, tanto supplicò i suoi salvatori, che questi, abbattuta facilmente la porta, penetrarono nella cucina. I due piccini parevano addormentati ancora, stretti l'uno all'altra. Con grande fatica i contadini li portarono fuori, ma per quanto cercassero di rianimarli non vi riuscirono. Intanto la casa era caduta con gran fracasso e la povera Fortunata, piangente in mezzo ai suoi piccini, guardava ora i due piccoli cadaveri, ora le macerie fumanti, come inebetita dal dolore. Ma torniamo a Bardo. Egli fuggiva come il vento e, giunto all'Arno, vi si gettò, credendo di spegnere le fiamme che lo circondavano; ma, invece, anche nell'acqua ardeva sempre e soffriva atroci spasimi. Cercò di trascinarsi sulla riva e costì rimase, come piantato in terra. A poco a poco perdé ogni effigie umana, le sue carni si disfecero come cera e le fiamme, che avevano ridotto il suo corpo come un lungo e grosso cero, si spensero; ma sul suo capo continuò ad ardere una fiammella che gli dava dolori atroci, come se gli consumasse l'ultimo resto di vita. Allora corse all'infuriata, senza accorgersi che tornava verso la casa cui aveva appiccato il fuoco. Ma allorché fu a poca distanza, vide l'aia abbandonata, le macerie fumanti, e i cadaveri dei suoi bimbi, stretti l'uno all'altro. In quel momento Bardo capì il suo misfatto e soffrì più per il rimorso che per le bruciature delle carni. Egli sentì che il suo corpo, ridotto come un cero di carne fumante, prendeva radici nel suolo. Volle di nuovo fuggire da quel luogo, ma non poté, e dopo poco, i pietosi contadini, preceduti dal prete e dalla bara, andando a prendere i cadaveri di Nando e di Lisa, lo videro piantato in terra, ardente nella sommità e gocciolante lacrime di cera, che erano le lacrime della sua anima desolata. Il sacerdote e i pii uomini che lo seguivano, si accòrsero che quel cero umano era il corpo di Bardo e non tardarono a capire che egli era l'autore dell'incendio. Nonostante ebbero pietà dei suoi patimenti; il prete lo asperse di acqua santa e i contadini pregarono affinché fosse liberato da quel supplizio atroce. Ma Bardo rimase piantato in terra. Durante la notte egli mandava una fiamma viva e continui lamenti, e durante il giorno una luce assai più mite e copiose lacrime. La Fortunata e il marito non ebbero coraggio di riedificare la casa. Dopo avere tolte le macerie e ricuperati i denari che vi erano rimasti sotterrati, essi si costruirono, lontano da quel luogo, un'altra casa, e lì eressero una cappella, detta del Perdono, alla quale affluiva la gente da ogni parte del Casentino per pregare riposo a Bardo ed anche per vedere quel prodigio di cero umano. Ma le preghiere di tutta quella gente non ottenevano nulla; Bardo continuava a patire l'atroce supplizio. Allora un giorno, fra tanta folla di gente, comparve una donna pallidissima e scarna, con i capelli scendenti sulle spalle, i piedi scalzi e una pesante croce di legno sulle spalle. Ella, invece di andare alla cappella del Perdono, s'inginocchiò dinanzi al cero ardente, e, piantata in terra la croce, si mise a pregare e vi rimase tutta la notte. La folla, allorché fu sopraggiunta la sera, si allontanò da quel luogo; peraltro, alcune persone, fra le più curiose, vi rimasero, e a un certo punto videro scendere dal Cielo due angioletti, i quali si posero ai fianchi della donna pregante e unirono le loro orazioni a quelle di lei. Alcuni fra i presenti pretesero di riconoscere in quei due angioletti i figli di Bardo, morti nella casa incendiata. Però, prima che l'alba imbiancasse la campagna, gli angioletti erano rivolati in Cielo, lasciando la donna, la quale, senza alzarsi mai, continuava a pregare. La gente, commossa, le portava cibo e acqua per ristorarsi; ma ella, con un gesto umile della mano, ricusava tutto, e rimaneva inginocchiata senza voler rompere il digiuno che pareva si fosse imposta, senza toglier neppur un istante lo sguardo di sul cero ardente. L'unico sollievo che costei si concedesse, consisteva nell'aprir la bocca ogni tanto durante la notte e all'alba per ricevere la carezza del vento fresco. A forza di pregare, la sua voce si era fatta rauca, e dopo tre giorni non le usciva dalla gola altro che un suono inarticolato. La folla non si moveva più dalla cappella del Perdono, per vedere la donna e accertarsi che non mangiava né dormiva mai, e per attendere la discesa degli angioli dal Cielo. La quarta notte, i due angioletti, invece di collocarsi accanto alla donna genuflessa, andarono ai fianchi del cero umano e con le loro manine rosee lo afferrarono là dove stava conficcato nella terra e da quella lo divelsero. Il cero gemé più forte del solito, ma essi, senza badare a quei gemiti, lo portarono, volando per l'aria, su alla cappella degli angioli della Verna, collocandolo dinanzi all'altare. Intanto la donna s'era alzata e, caricandosi sulle spalle la pesante croce, si avviava su per l'aspro monte, inciampando ogni momento e rialzandosi con fatica. Quando ella fu giunta alla Verna, stramazzò e cadde senza potersi rialzare. I frati, vedendo gli angioli, il cero umano e quella donna caduta sotto la croce, immaginarono che stesse per compiersi un miracolo e mossero in processione verso la chiesina. Ma gli angioli erano già volati via e il cero rimaneva dritto, senza alcun sostegno, dinanzi all'altare. Allora la donna fu sollevata di sotto la croce, ed ella fece cenno che desiderava di esser portata dinanzi all'altare insieme con la croce. I frati si misero a pregare, ed ella, non potendo più articolare nessuna parola, pregava con lo sguardo supplice, rivolto sull'immagine di san Francesco, dipinta sull'altare, e su quella della Madonna. A un tratto si vide il Santo muovere le labbra e si udì una voce dolcissima domandare: - Bardo, sei pentito? - San Francesco beato, - rispose il cero spargendo lacrime abbondanti, - è tanto il mio pentimento che ringrazio il Signore del supplizio che mi ha imposto, e lo supplico di prolungarlo, se questo può lavarmi dall'orribile peccato. Il Santo sorrise di beatitudine e allora la donna, che pareva morta, si riebbe e, alzatasi, si avvicinò al cero e lo abbracciò. In quel momento si aprì la vôlta della chiesina e scesero da quella i due angioli, i quali, con le loro manine, unsero di un balsamo celeste tutto il cero. La fiammella si spense e Bardo riprese effigie umana. Quindi gli angioli, cantando, sollevarono sotto le ascelle la povera donna e insieme con essa volarono al Cielo. Nel medesimo tempo la vôlta della chiesina si richiudeva, e san Francesco faceva udire di nuovo la sua dolce voce: - Bardo, tu sei perdonato. Le preghiere dei tuoi figli, convertiti in angioli di Dio, e le suppliche di tua moglie, la quale, per salvarti, aveva rinunziato alla gloria del Cielo, hanno operato il miracolo. Ora ritorna fra gli uomini e cerca, col buon esempio, di cancellare la memoria del tuo peccato. Bardo si alzò e uscì dal convento. Egli, invece di fuggire i luoghi ove era conosciuto, andò per primo alla casa della Fortunata. La buona donna, nel vederlo, si mise a gridare dalla paura; il marito prese un forcone per cacciarlo, minacciandolo di morte. Ma Bardo non si mosse e disse: - Colpitemi, uccidetemi pure, io non temo né i patimenti né la morte. Vi ho fatto un gran danno e voglio cercare di rimediarlo. Lavorerò per voi come un cane e non avrete servo più devoto di me. E da quel giorno lavorò i campi del capoccia, fece l'erba per le bestie, badò che nessuno gli rubasse l'uva e non chiese mai nulla, cibandosi di radici e d'erbe. Il capoccia avrebbe voluto mandarlo via con la forza, ma la Fortunata, impietosita da quel pentimento, lo lasciava lavorare e gli avrebbe dato qualcosa di meglio da mangiare e un ricovero per la notte. Bardo, però, ricusava il cibo come ricusava l'alloggio, e passava le nottate sulla nuda terra, sotto la vôlta del cielo. Per anni e anni egli servì così la famiglia della Fortunata. Dopo un certo tempo, anche il capoccia si abituò a lui e cessò dal vilipenderlo e dal maltrattarlo, accettando l'opera di Bardo con piacere, vedendo che l'infelice, profondamente pentito, vegliava di continuo sulla casa sua e sui suoi. Un giorno, la figlia minore della Fortunata e del capoccia era andata a guardare le pecore sul monte. Bardo, che non aveva nulla da fare, la seguì. Dopo aver lungamente camminato per trovare una piaggia erbosa, perché l'autunno era inoltrato, la ragazzina si fermò sopra un ripiano, a fianco di una selva di abeti, e, sedutasi sopra un sasso, lasciò le pecore pascere a loro piacere. Bardo s'era posto dietro un masso e intrecciava un canestro di vimini, senza perder d'occhio la ragazzina, la quale, stanca per la lunga corsa, reclinò il capo sul petto e si addormentò profondamente. Di lì a poco, un lupo sbucò fuori dal bosco, seguìto da una lupa. Ristette un momento, poi, assalito alle spalle il cane della pastorella, gli ficcò i denti nella carne, mentre la lupa si avvicinava alla ragazzina dormente. Le pecore s'erano date a fuga precipitosa vedendo i loro nemici. Bardo, veloce come il lampo, uscì dal suo nascondiglio e, afferrato un sasso, lo lanciò contro la lupa famelica senza colpirla. Quindi, vedendo che essa stava per azzannare la mano della ragazzina, fece un lancio e si mise fra la dormente e la belva. Questa, infuriata, gli saltò addosso sbranandogli le carni. Il poveretto, non curante del dolore, urlava: - Salvati! Salvati! La ragazzina si destò e, sentendo l'avvertimento, diedesi a fuga precipitosa. Appena vide un albero vi si arrampicò sopra come uno scoiattolo. Bardo, che era rimasto alle prese con la lupa, mentre il cane lottava col lupo, cessò di difendersi appena vide in salvo la figlia della Fortunata e fu orribilmente sbranato. Le due belve, allorché furono sazie, tornarono nel bosco, e la ragazzina, vedendo passato il pericolo, scese dall'albero, riunì le sue pecore e tornò a casa tremante e spaventata, narrando il tragico fatto. La Fortunata, che aveva perdonato da un pezzo a Bardo, non volle che il corpo di lui rimanesse insepolto, e tanto disse e tanto fece che indusse il marito e alcuni altri uomini ad andarlo a prendere, insieme con un prete. Il cadavere, orribilmente mutilato, fu portato al camposanto, e gli venne data onorevole sepoltura. Quello che sia avvenuto di Bardo nel mondo di là, non lo so davvero; so che in casa della Fortunata nessuno malediva la sua memoria, anzi, parlavano di lui con riconoscenza, e la buona donna non sapeva darsi pace che egli fosse morto per salvare la figlia di lei. Ogni giorno la buona famiglia di contadini recitava preci per il riposo dell'anima di Bardo, e la ragazzina specialmente gli serbava un grato ricordo di lui. - Ora la novella è finita, - disse la Regina, - e presto non potrò più raccontarvene. - Perché, nonna? - domandarono i bimbi. - Perché tutte quelle che sapevo le ho già dette, meno una, la più bella, che vi narrerò domenica prossima. Io non sarei capace di cavarmele dal cervello. Tutte quelle che ora ho raccontate, mi erano state dette più di una volta, e perciò le sapevo quasi a mente; ma ora non ne so più e non saprei inventarne altre. Dunque, per l'inverno prossimo, per le lunghe veglie settimanali, dovremo ricorrere a qualche altro passatempo. - Purché sia divertente! - esclamarono i bimbi. - Il solo divertimento non basta, - replicò la Regina. - Fin d'ora dovete assuefarvi a cercare nelle cose più il lato utile che quello divertente; dovete pensare che la missione dell'uomo è molto seria, e bisogna prepararvisi fino da piccoli con la riflessione. Chi cerca nella vita solo il divertimento, va avanti poco bene, ve lo assicuro io. Maso confermò le osservazioni della vecchia, e disse ai figli e ai nipoti che, durante le veglie dell'inverno, avrebbero ascoltato la lettura di buoni libri, fatta da Cecco alla famiglia riunita. - Tu ci leggerai Le mie prigioni di Silvio Pellico, - disse Vezzosa, la quale ricordava con tenerezza l'episodio che si riferiva a quel libro e che era il primo forse della catena dolcissima del loro affetto. - Leggerò tutto quello che mi chiederete, - rispose Cecco, - ma credo che sarà difficile che in essi troviate maggior diletto e maggior utile che nelle novelle della nonna. Ella, in mezzo a narrazioni fantastiche, vi ha insegnato tante cose; ogni novella racchiudeva esempi di fortezza di carattere, di virtù e di rassegnazione nelle sventure, e con tatto squisito ella sceglieva quelle più adattate al presente stato dell'animo nostro ... Mamma, - aggiunse volgendosi verso di lei, - voi non sapete quanto bene ci avete fatto nei momenti di scoraggiamento e di dolore. La vecchia non rispondeva, e grossi lacrimoni le scendevano lungo le guance e le bagnavano il viso. Anche Vezzosa, che s'era fatta pallida e sofferente in quegli ultimi tempi, piangeva. Ogni piccola commozione la turbava, e pareva che attendesse trepidante la nascita del bambino, della cui venuta non si parlava nemmen più, ora che il matrimonio dell'Annina occupava tutti quelli di casa. - Maso, - disse la Regina riportando il pensiero a Camaldoli, - aspetta che siano tutti a letto; ho da parlarti. - Mamma, - rispose il capoccia turbandosi, - forse che quel che dovete dirmi è cosa che la famiglia non possa sentire, è cosa che faccia vergogna? - No, Maso; ma certe cose si dicono meglio a quattr'occhi; sai bene che io non sono buona a chiedere. Dopo questa dichiarazione, le donne portarono a letto i figliuoli. I fratelli andarono a fumare sull'aia, e quando la vecchia e il capoccia furono soli, questi disse: - Ora, mamma, parlate? - Parlate! - ripeté la Regina. - Ti assicuro che ricomincerei fin da principio tutte le novelle, piuttosto che dirti quello che devo; e se non l'avessi promesso, tacerei. - Mamma, mi spaventate! - Non c'è motivo. Ebbene, sappi dunque che Carlo, conoscendo sempre meglio l'Annina, vorrebbe sposarla prima del termine fissato per il loro matrimonio. Egli deve tornare subito a Firenze, e d'inverno sarà per lui molto difficile di assentarsi per venirla a vedere. Io ti consiglierei di appagare il suo desiderio. Un anno è lungo a passare. - Son tutte belle parole quelle che dite, mamma, - rispose il capoccia interrompendola, - ma il matrimonio è una cosa seria e non bisogna contrarlo altro che dopo averci pensato bene. Mi pare che Carlo abbia il difetto di tutti i giovani e degli uomini d'oggigiorno: l'impazienza e la fretta. Vi ricordate che, prima di sposare la Carola, andai a veglia da lei tre anni, e quando il mio suocero, buon'anima, mi metteva con le spalle al muro per farmela sposare presto e dare intanto la via a una delle sue quattro figliuole, io gli rispondevo che al matrimonio, come a tutte le risoluzioni gravi che si prendono nella vita, bisognava pensarci prima, per non pentirsi poi. Vedete che a tardare me ne son trovato bene, e quando ho sposato la Carola, sapevo che virtù e che difetti aveva, e per questo siamo andati sempre d'accordo. - Tu hai ragione, ma la Carola potevi vederla quando volevi, perché le nostre case erano a poca distanza e la sera andavi sempre da lei; ma Carlo sta a Firenze, l'Annina a Camaldoli, e in capo a un anno essi si conosceranno quanto ora e non più di certo. In quest'anno, se Carlo avrà moglie, farà maggiore economia, e così potrà ricondurre più presto l'Annina in Casentino e incominciar quella vita di proprietario ch'è il suo sogno. Non ti pare che, in vista di queste considerazioni, tu potresti cedere e non ostinarti a restar fedele ai principî di quel che è detto è detto? Nella vita sopravvengono spesso tanti avvenimenti, che ci costringono a derogare dalle risoluzione prese, e questo prepotente affetto di Carlo per l'Annina è cosa da esser presa in considerazione. Rifletti, e poi dimmi che cosa debbo fare scrivere da Vezzosa a Carlo. Il capoccia rifletté qualche tempo e poi disse: - Io non lo capisco quest'affetto che non può aspettare un anno, come se un anno fosse la vita di un uomo. Ma se voi credete che l'Annina sia seria abbastanza per maritarsi e che Carlo sia capace di tenerla bene e dimostrarle affezione, derogherò volentieri dal mio principio per compiacervi; ma badiamo poi che voi, mamma, non dobbiate pentirvi della vostra bontà, ed io della mia condiscendenza. - Spero che Iddio mi risparmi questo dolore, - disse la vecchia sorridendo, - e finché sarò in vita aiuterò la giovane coppia con i miei consigli, e, dopo morta, con le mie preghiere. - E batti! - esclamò Maso che non voleva sentir parlar di malinconie. - Quando la finirete di parlar di cose tristi? Regina non rispose, ma sorrise affettuosamente al figliuolo per la concessione fattale.

Se questo è un uomo

680929
Levi, Primo 1 occorrenze

Fummo oltre la barriera abbattuta. _ Dis donc, Primo, on est dehors! Era così: per la prima volta dal giorno del mio arresto, mi trovavo libero, senza custodi armati, senza reticolati fra me e la mia casa. A forse quattrocento metri dal campo, giacevano le patate: un tesoro. Due fosse lunghissime, piene di patate, e ricoperte di terra alternata con paglia a difesa dal gelo. Nessuno sarebbe più morto di fame. Ma l' estrazione non era lavoro da nulla. A causa del gelo, la superficie del terreno era dura come marmo. Con duro lavoro di piccone si riusciva a perforare la crosta e a mettere a nudo il deposito; ma i più preferivano introdursi nei fori abbandonati da altri, spingendosi molto profondi e passando le patate ai compagni che stavano all' esterno. Un vecchio ungherese era stato sorpreso colà dalla morte. Giaceva irrigidito nell' atto dell' affamato: capo e spalle sotto il cumulo di terra, il ventre nella neve, tendeva le mani alle patate. Chi venne dopo spostò il cadavere di un metro, e riprese il lavoro attraverso l' apertura resasi libera. Da allora il nostro vitto migliorò. Oltre alle patate bollite e alla zuppa di patate, offrimmo ai nostri malati frittelle di patate, su ricetta di Arthur: si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine. Ma non ne potè godere Sertelet, il cui male progrediva. Oltre a parlare con timbro sempre più nasale, quel giorno non riuscì più a inghiottire a dovere alcun alimento: qualcosa gli si era guastato in gola, ogni boccone minacciava di soffocarlo. Andai a cercare un medico ungherese rimasto come malato nella baracca di fronte. Come udì parlare di difterite, fece tre passi indietro e mi ingiunse di uscire. Per pure ragioni di propaganda, feci a tutti instillazioni nasali di olio canforato. Assicurai Sertelet che ne avrebbe tratto giovamento; io stesso cercavo di convincermene. 24 gennaio. Libertà. La breccia nel filo spinato ce ne dava l' immagine concreta. A porvi mente con attenzione voleva dire non più tedeschi, non più selezioni, non lavoro, non botte, non appelli, e forse, più tardi, il ritorno. Ma ci voleva sforzo per convincersene e nessuno aveva tempo di goderne. Intorno tutto era distruzione e morte. Il mucchio di cadaveri, di fronte alla nostra finestra, rovinava ormai fuori della fossa. Nonostante le patate, la debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e diarrea; quelli che non erano stati in grado di muoversi, o non avevano avuto l' energia di farlo, giacevano torpidi nelle cuccette, rigidi dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Gli altri erano tutti spaventosamente stanchi: dopo mesi e anni di Lager, non sono le patate che possono rimettere in forza un uomo. Quando, a cottura ultimata, Charles ed io avevamo trascinato i venticinque litri di zuppa quotidiana dal lavatoio alla camera, dovevamo poi gettarci ansanti sulla cuccetta, mentre Arthur, diligente e domestico, faceva la ripartizione, curando che avanzassero le tre razioni di "rabiot pour les travailleurs" e un po' di fondo "pour les italiens d' à côtè". Nella seconda camera di Infettivi, anche essa attigua alla nostra e abitata in maggioranza da tubercolotici, la situazione era ben diversa. Tutti quelli che lo avevano potuto, erano andati a stabilirsi in altre baracche. I compagni più gravi e più deboli si spegnevano a uno a uno in solitudine. Vi ero entrato un mattino per cercare in prestito un ago. Un malato rantolava in una delle cuccette superiori. Mi udì, si sollevò a sedere, poi si spenzolò a capofitto oltre la sponda, verso di me, col busto e le braccia rigidi e gli occhi bianchi. Quello della cuccetta di sotto, automaticamente, tese in alto le braccia per sostenere quel corpo, si accorse allora che era morto. Cedette lentamente sotto il peso, l' altro scivolò a terra e vi rimase. Nessuno sapeva il suo nome. Ma nella baracca 14 era successo qualcosa di nuovo. Vi erano ricoverati gli operati, alcuni dei quali in discrete condizioni. Essi organizzarono una spedizione al campo degli inglesi prigionieri di guerra, che si presumeva fosse stato evacuato. Fu una fruttuosa impresa. Ritornarono vestiti in kaki, con un carretto pieno di meraviglie mai viste: margarina, polveri per budino, lardo, farina di soia, acquavite. A sera, nella baracca 14 si cantava. Nessuno di noi si sentiva la forza di fare i due chilometri di strada al campo inglese e ritornare col carico. Ma, indirettamente, la fortunata spedizione ritornò di vantaggio a molti. La ineguale ripartizione dei beni provocò un rifiorire di industria e di commercio. Nella nostra cameretta dall' atmosfera mortale, nacque una fabbrica di candele con stoppino imbevuto di acido borico, colate in forme di cartone. I ricchi della baracca 14 assorbivano l' intera nostra produzione, pagandoci in lardo e farina. Io stesso avevo trovato il blocco di cera vergine nell' Elektromagazin; ricordo l' espressione di disappunto di coloro che me lo videro portar via, e il dialogo che ne seguì: _ Che te ne vuoi fare? Non era il caso di svelare un segreto di fabbricazione; sentii me stesso rispondere con le parole che avevo spesso udite dai vecchi del campo, e che contengono il loro vanto preferito: di essere "buoni prigionieri", gente adatta, che se la sa sempre cavare; _ Ich verstehe verschiedene Sachen .... _ (Me ne intendo di varie cose ...). 25 gennaio. Fu la volta di Sòmogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l' olandese, era convalescente di tifo e di scarlattina; ma sopravvenne qualcosa di nuovo. Fu preso da una febbre intensa. Da forse cinque giorni non aveva detto parola: aprì bocca quel giorno e disse con voce ferma: _ Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividetela voi tre. Io non mangerò più. Non trovammo nulla da dire, ma per allora non toccammo il pane. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare "Jawohl" ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, "Jawohl" ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell' artiglieria. Tutti si dicevano a vicenda che i russi presto, subito, sarebbero arrivati; tutti lo proclamavano, tutti ne erano certi, ma nessuno riusciva a farsene serenamente capace. Perché nei Lager si perde l' abitudine di sperare, e anche la fiducia nella propria ragione. In Lager pensare è inutile, perché gli eventi si svolgono per lo più in modo imprevedibile; ed è dannoso, perché mantiene viva una sensibilità che è fonte di dolore, e che qualche provvida legge naturale ottunde quando le sofferenze sorpassano un certo limite. Come della gioia, della paura, del dolore medesimo, così anche dell' attesa ci si stanca. Arrivati al 25 gennaio, rotti da otto giorni i rapporti con quel feroce mondo che pure era un mondo, i più fra noi erano troppo esausti perfino per attendere. A sera, intorno alla stufa, ancora una volta Charles, Arthur ed io ci sentimmo ridiventare uomini. Potevamo parlare di tutto. Mi appassionava il discorso di Arthur sul modo come si passano le domeniche a Provenchères nei Vosgi, e Charles piangeva quasi quando io gli raccontai dell' armistizio in Italia, dell' inizio torbido e disperato della resistenza partigiana, dell' uomo che ci aveva traditi e della nostra cattura sulle montagne. Nel buio, dietro e sopra di noi, gli otto malati non perdevano una sillaba, anche quelli che non capivano il francese. Soltanto Sòmogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. 26 gennaio. Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L' ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L' opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell' uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce. Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l' esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l' uomo è stato una cosa agli occhi dell' uomo. Noi tre ne fummo in gran parte immuni, e ce ne dobbiamo mutua gratitudine; perciò la mia amicizia con Charles resisterà al tempo. Ma a migliaia di metri sopra di noi, negli squarci fra le nuvole grige, si svolgevano i complicati miracoli dei duelli aerei. Sopra noi, nudi impotenti inermi, uomini del nostro tempo cercavano la reciproca morte coi più raffinati strumenti. Un loro gesto del dito poteva provocare la distruzione del campo intero, annientare migliaia di uomini; mentre la somma di tutte le nostre energie e volontà non sarebbe bastata a prolungare di un minuto la vita di uno solo di noi. La sarabanda cessò a notte, e la camera fu di nuovo piena del monologo di Sòmogyi. In piena oscurità mi trovai sveglio di soprassalto. "L' pauv' vieux" taceva: aveva finito. Con l' ultimo sussulto di vita si era buttato a terra dalla cuccetta: ho udito l' urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del capo. _ La mort l' a chassé de son lit, _ definì Arthur. Non potevamo certo portarlo fuori nella notte. Non ci restava che riaddormentarci. 27 gennaio. L' alba. Sul pavimento, l' infame tumulto di membra stecchite, la cosa Sòmogyi. Ci sono lavori più urgenti: non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. E inoltre, "... rien de si dégoûtant que les débordements", dice giustamente Charles; bisogna vuotare la latrina. I vivi sono più esigenti; i morti possono attendere. Ci mettemmo al lavoro come ogni giorno. I russi arrivarono mentre Charles ed io portavamo Sòmogyi poco lontano. Era molto leggero. Rovesciammo la barella sulla neve grigia. Charles si tolse il berretto. A me dispiacque di non avere berretto. Degli undici della Infektionsabteilung, fu Sòmogyi il solo che morì nei dieci giorni. Sertelet, Cagnolati, Towarowski, Lakmaker e Dorget (di quest' ultimo non ho finora parlato; era un industriale francese che, dopo operato di peritonite, si era ammalato di difterite nasale), sono morti qualche settimana più tardi, nell' infermeria russa provvisoria di Auschwitz. Ho incontrato a Katowice, in aprile, Schenck e Alcalai in buona salute. Arthur ha raggiunto felicemente la sua famiglia, e Charles ha ripreso la sua professione di maestro; ci siamo scambiati lunghe lettere e spero di poterlo ritrovare un giorno. Qualcuno, molto tempo fa, ha scritto che anche i libri, come gli esseri umani, hanno un loro destino, imprevedibile, diverso da quello che per loro si desiderava e si attendeva. Anche questo libro ha avuto uno strano destino. Il suo atto di nascita è lontano: lo potete trovare in una delle sue pagine, la p. 17. di questa edizione, là dove si legge che "scrivo quello che non saprei dire a nessuno": era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita. Ma ho scritto il libro appena sono tornato, nel giro di pochi mesi: tanto quei ricordi mi bruciavano dentro. Rifiutato da alcuni grossi editori, il manoscritto è stato accettato nel 1947 da una piccola casa editrice, diretta da Franco Antonicelli: si stamparono 2500 copie, poi la casa editrice si sciolse e il libro cadde nell' oblio, anche perché, in quel tempo di aspro dopoguerra, la gente non aveva molto desiderio di ritornare con la memoria agli anni dolorosi appena terminati. Ha trovato nuova vita solo nel 195., quando è stato ristampato dall' editore Einaudi, e da allora l' interesse del pubblico non è più mancato. È stato tradotto in sei lingue, ridotto per la radio e per il teatro. È stato accettato dagli studenti e dagli insegnanti con un favore che ha superato di molto le aspettative dell' editore e mie. Centinaia di scolaresche, in tutte le regioni d' Italia, mi hanno invitato a commentare il libro, per iscritto o possibilmente di persona: nei limiti dei miei impegni, ho soddisfatto tutte queste richieste, tanto che ai miei due mestieri ne ho volentieri aggiunto un terzo, quello di presentatore e commentatore di me stesso, o meglio di quel lontano me stesso che aveva vissuto l' avventura di Auschwitz e l' aveva raccontata. Nel corso di questi numerosi incontri coi miei lettori studenti mi è accaduto di dover rispondere a molte domande: ingenue o consapevoli, commosse o provocatorie, superficiali o fondamentali. Mi sono accorto presto che alcune di queste domande ricorrevano con costanza, non mancavano mai: dovevano dunque scaturire da una curiosità motivata e ragionata, a cui in qualche modo il testo del libro non dava una risposta soddisfacente. A queste domande mi sono proposto di rispondere qui. 1. Come mia indole personale, non sono facile all' odio. Lo ritengo un sentimento animalesco e rozzo, e preferisco che invece le mie azioni e i miei pensieri, nel limite del possibile, nascano dalla ragione; per questo motivo, non ho mai coltivato entro me stesso l' odio come desiderio primitivo di rivalsa, di sofferenza inflitta al mio nemico vero o presunto, di vendetta privata. Devo aggiungere che, a quanto mi pare di vedere, l' odio è personale, è rivolto contro una persona, un nome, un viso: ora, i nostri persecutori di allora non avevano viso né nome, lo si ricava da queste stesse pagine: erano lontani, invisibili, inaccessibili. Prudentemente, il sistema nazista faceva sì che i contatti diretti fra gli schiavi e i signori fossero ridotti al minimo. Avrete notato che, in questo libro, si descrive un solo incontro dell' autore-protagonista con una SS (p. 200), e non per caso esso ha luogo solo negli ultimi giorni, nel Lager in disfacimento, quando il sistema è saltato. Del resto, nei mesi in cui questo libro è stato scritto, e cioè nel 1946, il nazismo e il fascismo sembravano veramente senza volto: sembravano ritornati al nulla, svaniti come un sogno mostruoso, giustamente e meritatamente, così come spariscono i fantasmi al canto del gallo. Come avrei potuto coltivare rancore, volere vendetta, contro una schiera di fantasmi? Non molti anni dopo, l' Europa e l' Italia si sono accorti che questa era una ingenua illusione: il fascismo era ben lontano dall' essere morto, era soltanto nascosto, incistato; stava facendo la sua muta, per ricomparire poi in una veste nuova, un po' meno riconoscibile, un po' più rispettabile, più adatta al nuovo mondo che era uscito dalla catastrofe della seconda guerra mondiale che il fascismo stesso aveva provocata. Devo confessare che davanti a certi visi non nuovi, a certe vecchie bugie, a certe figure in cerca di rispettabilità, a certe indulgenze, a certe connivenze, la tentazione dell' odio la provo, ed anche con una certa violenza: ma io non sono un fascista, io credo nella ragione e nella discussione come supremi strumenti di progresso, e perciò all' odio antepongo la giustizia. Proprio per questo motivo, nello scrivere questo libro, ho assunto deliberatamente il linguaggio pacato e sobrio del testimone, non quello lamentevole della vittima né quello irato del vendicatore: pensavo che la mia parola sarebbe stata tanto più credibile ed utile quanto più apparisse obiettiva e quanto meno suonasse appassionata; solo così il testimone in giudizio adempie alla sua funzione, che è quella di preparare il terreno al giudice. I giudici siete voi. Non vorrei tuttavia che questo mio astenermi dal giudizio esplicito fosse confuso con un perdono indiscriminato. No, non ho perdonato nessuno dei colpevoli, né sono disposto ora o in avvenire a perdonarne alcuno, a meno che non abbia dimostrato (coi fatti: non con le parole, e non troppo tardi) di essere diventato consapevole delle colpe e degli errori del fascismo nostrano e straniero, e deciso a condannarli, a sradicarli dalla sua coscienza e da quella degli altri. In questo caso sì, io non cristiano sono disposto a seguire il precetto ebraico e cristiano di perdonare il mio nemico; ma un nemico che si ravvede ha cessato di essere un nemico. 2. Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L' informazione è oggi "il quarto potere": almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno può fermarli né allontanarli né farli tacere. È tutto facile: se vuoi, senti la radio del tuo paese o di qualunque altro paese; vai in edicola e scegli il giornale che preferisci, italiano di qualunque tendenza, o americano, o sovietico, entro un vasto ventaglio di alternative; compri e leggi i libri che vuoi, senza pericolo di venire incriminato di "attività antiitaliane" o di tirarti in casa una perquisizione della polizia politica. Certo non è agevole sottrarsi a tutti i condizionamenti, ma si può almeno scegliere il condizionamento che si preferisce. In uno Stato autoritario non è così. La Verità è una sola, proclamata dall' alto; i giornali sono tutti uguali, tutti ripetono questa stessa unica verità; così pure fanno le radiotrasmittenti, e non puoi ascoltare quelle degli altri paesi, perché in primo luogo, essendo questo un reato, rischi di finire in prigione; in secondo luogo, le trasmittenti del tuo paese emettono sulle lunghezze d' onda appropriate un segnale di disturbo che si sovrappone ai messaggi stranieri e ne impedisce l' ascolto. Quanto ai libri, vengono pubblicati e tradotti solo quelli graditi allo Stato: gli altri, devi andarteli a cercare all' estero, e introdurli nel tuo paese a tuo rischio, perché sono considerati più pericolosi della droga e dell' esplosivo, e se te li trovano alla frontiera ti vengono sequestrati e tu vieni punito. Dei libri non graditi, o non più graditi, di epoche precedenti si fanno pubblici falò sulle piazze. Così era in Italia fra il 1924 e il 1945; così nella Germania nazionalsocialista; così è tuttora in molti paesi, fra cui duole dover annoverare l' Unione Sovietica, che pure contro il fascismo ha eroicamente combattuto. In uno Stato autoritario viene considerato lecito alterare la verità, riscrivere retrospettivamente la Storia, distorcere le notizie, sopprimerne di vere, aggiungerne di false: all' informazione si sostituisce la propaganda. Infatti, in tale paese tu non sei un cittadino, detentore di diritti, bensì un suddito, e come tale sei debitore allo Stato (ed al dittatore che lo impersona) di lealtà fanatica e di obbedienza supina. È chiaro che in queste condizioni diventa possibile (anche se non sempre facile: non è mai agevole violentare a fondo la natura umana) cancellare frammenti anche grossi della realtà. Nell' Italia fascista riuscì abbastanza bene l' operazione di assassinare il deputato socialista Matteotti, e di mettere l' impresa a tacere dopo pochi mesi; Hitler, e il suo ministro della propaganda Joseph Goebbels, si mostrarono di gran lunga superiori a Mussolini in quest' opera di controllo e di mascheramento della verità. Tuttavia, nascondere al popolo tedesco l' esistenza dell' enorme apparato dei campi di concentramento non era possibile, ed inoltre non era (dal punto di vista nazista) neppure desiderabile. Creare ed intrattenere nel paese un' atmosfera di terrore indefinito faceva parte degli scopi del nazismo: era bene che il popolo sapesse che opporsi a Hitler era estremamente pericoloso. Infatti, centinaia di migliaia di tedeschi furono rinchiusi nei Lager fin dai primi mesi del nazismo: comunisti, socialdemocratici, liberali, ebrei, protestanti, cattolici, e tutto il paese lo sapeva, e sapeva che in Lager si soffriva e si moriva. Ciò nonostante, è vero che la gran massa dei tedeschi ignorò sempre i particolari più atroci di quanto avvenne più tardi nei Lager: lo sterminio metodico e industrializzato sulla scala dei milioni, le camere a gas tossico, i forni crematori, l' abietto sfruttamento dei cadaveri, tutto questo non si doveva sapere, ed in effetti pochi lo seppero, fino alla fine della guerra. Per mantenere il segreto, fra le altre precauzioni, nel linguaggio ufficiale si usavano soltanto cauti e cinici eufemismi: non si scriveva "sterminio" ma "soluzione definitiva", non "deportazione" ma "trasferimento", non "uccisione col gas" ma "trattamento speciale", e così via. Non senza ragione, Hitler temeva che queste orrende notizie, se si fossero divulgate, avrebbero compromesso la fede cieca che il paese gli tributava ed il morale delle truppe combattenti; inoltre, sarebbero venute a conoscenza degli Alleati e sfruttate come argomento propagandistico: il che, del resto, avvenne, ma per la loro stessa enormità gli orrori dei Lager, descritti più volte dalle radio degli Alleati, non furono generalmente creduti. Il riassunto più convincente della situazione tedesca di allora l' ho trovato nel libro Der SS Staat (Lo Stato delle SS) di Eugen Kogon, già prigioniero a Buchenwald, poi professore di Scienze Politiche all' Università di Monaco: A mio parere, nessuna di queste affermazioni è falsa, ma un' altra dev' essere aggiunta a completare il quadro: a dispetto delle varie possibilità d' informazione, la maggior parte dei tedeschi non sapevano perché non volevano sapere, anzi, perché volevano non sapere. È certamente vero che il terrorismo di Stato è un' arma fortissima, a cui è ben difficile resistere; ma è anche vero che il popolo tedesco, nel suo complesso, di resistere non ha neppure tentato. Nella Germania di Hitler era diffuso un galateo particolare: chi sapeva non parlava, chi non sapeva non faceva domande, a chi faceva domande non si rispondeva. In questo modo il cittadino tedesco tipico conquistava e difendeva la sua ignoranza, che gli appariva una giustificazione sufficiente della sua adesione al nazismo: chiudendosi la bocca, gli occhi e le orecchie, egli si costruiva l' illusione di non essere a conoscenza, e quindi di non essere complice, di quanto avveniva davanti alla sua porta. Sapere, e far sapere, era un modo (in fondo non poi tanto pericoloso) di prendere le distanze dal nazismo; penso che il popolo tedesco, nel suo complesso, non vi abbia fatto ricorso, e di questa deliberata omissione lo ritengo pienamente colpevole. ". Queste sono fra le domande che mi vengono rivolte più di frequente, e perciò esse devono nascere da qualche curiosità o esigenza particolarmente importante. La mia interpretazione è ottimistica: i giovani di oggi sentono la libertà come un bene a cui non si può in alcun caso rinunciare, e perciò, per loro, l' idea della prigionia è legata immediatamente all' idea della fuga o della rivolta. Del resto, è vero che secondo i codici militari di molti paesi il prigioniero di guerra è tenuto a cercare di liberarsi in qualsiasi modo, per riprendere il suo posto di combattente, e che secondo la Convenzione dell' Aia il tentativo di fuga non deve essere punito. Il concetto dell' evasione come obbligo morale è continuamente ribadito dalla letteratura romantica (ricordate il conte di Montecristo?), dalla letteratura popolare e dal cinematografo, in cui l' eroe, ingiustamente (o magari giustamente) incarcerato, tenta sempre l' evasione, anche nelle circostanze meno verosimili, e questa è invariabilmente coronata dal successo. Forse è bene che la condizione del prigioniero, la non-libertà, venga sentita come indebita, anormale: come una malattia, insomma, che deve essere guarita con la fuga o la ribellione. Però, purtroppo, questo quadro assomiglia assai poco a quello vero dei campi di concentramento. I prigionieri che tentarono la fuga, per esempio, da Auschwitz, furono poche centinaia, e quelli a cui la fuga riuscì qualche decina. L' evasione era difficile ed estremamente pericolosa: i prigionieri erano indeboliti, oltre che demoralizzati, dalla fame e dai maltrattamenti, avevano i capelli rasi, abiti a strisce subito riconoscibili, scarpe di legno che impedivano un passo rapido e silenzioso; non avevano denaro, e in generale non parlavano il polacco, che era la lingua locale, né avevano contatti nella zona, che del resto neppure conoscevano geograficamente. Inoltre, a reprimere le fughe, si adottavano rappresaglie feroci: chi veniva ripreso era impiccato pubblicamente sulla piazza dell' Appello, spesso dopo torture crudeli; quando veniva scoperta una fuga, gli amici dell' evaso venivano considerati suoi complici e fatti morire di fame nelle celle della prigione, l' intera baracca veniva fatta stare in piedi per ventiquattro ore, e talvolta venivano arrestati e deportati nel Lager i genitori del "colpevole". Ai militi delle SS che uccidevano un prigioniero nel corso di un tentativo di fuga veniva concessa una licenza premio: perciò accadeva sovente che una SS sparasse ad un prigioniero che non aveva alcuna intenzione di fuggire, solo allo scopo di conseguire il premio. Questo fatto aumenta artificiosamente il numero ufficiale dei casi di fuga registrati nelle statistiche; come ho accennato, il numero effettivo era invece molto piccolo. Essendo questa la situazione, dai campi di Auschwitz evasero con successo solo alcuni prigionieri polacchi "ariani" (cioè non ebrei, nella terminologia di allora), che abitavano poco lontano dal Lager, e che quindi avevano una meta verso cui dirigersi e la sicurezza di essere protetti dalla popolazione. Negli altri campi le cose si svolsero analogamente. Per quanto riguarda la mancata ribellione, il discorso è un po' diverso. Prima di tutto occorre ricordare che in alcuni Lager delle insurrezioni si sono effettivamente verificate: a Treblinka, a Sobibor, ed anche a Birkenau, uno dei campi dipendenti da Auschwitz. Non ebbero molto peso numerico: come l' analoga insurrezione del ghetto di Varsavia, rappresentano piuttosto esempi di straordinaria forza morale. In tutti i casi, esse furono disegnate e guidate da prigionieri in qualche modo privilegiati, e perciò in condizioni fisiche e spirituali migliori di quelle dei prigionieri comuni. Questo non deve stupire: solo a prima vista può apparire paradossale che si ribelli chi soffre meno. Anche fuori dei Lager le lotte raramente vengono condotte dai sottoproletari. Gli "stracci" non si ribellano. Nei campi per prigionieri politici, o dove i politici prevalevano, l' esperienza cospirativa di questi si dimostrò preziosa, e si giunse spesso, più che a rivolte aperte, ad attività di difesa abbastanza efficienti. A seconda dei Lager e dei tempi, si riuscì ad esempio a ricattare o corrompere le SS, raffrenandone i poteri indiscriminati; a sabotare il lavoro per le industrie di guerra tedesche; ad organizzare evasioni; a comunicare via radio con gli Alleati, fornendo loro notizie sulle orrende condizioni dei campi; a migliorare il trattamento dei malati, sostituendo medici prigionieri ai medici SS; a "pilotare" le selezioni, mandando a morte le spie o i traditori e salvando prigionieri la cui sopravvivenza avesse per qualsiasi motivo importanza particolare; a prepararsi, anche militarmente, a resistere nel caso che, con l' avvicinarsi del fronte, i nazisti decidessero (come infatti spesso decisero) di liquidare totalmente i Lager. Nei campi con prevalenza di ebrei, come quelli della zona di Auschwitz, una difesa attiva o passiva era particolarmente difficile. Qui i prigionieri, in generale, erano privi di qualsiasi esperienza organizzativa o militare; provenivano da tutti i paesi d' Europa, parlavano lingue diverse, e perciò non si capivano fra loro; soprattutto, erano più affamati, più deboli e più stanchi degli altri, perché le loro condizioni di vita erano più dure, e perché spesso avevano già alle spalle una lunga carriera di fame, persecuzione e umiliazione nei ghetti. Come ulteriore conseguenza, la durata del loro soggiorno in Lager era tragicamente breve, erano insomma una popolazione fluttuante, continuamente diradata dalla morte, e rinnovata dagli incessanti arrivi di nuovi convogli. È comprensibile che in un tessuto umano così deteriorato e così instabile non attecchisse facilmente il germe della rivolta. Ci si può domandare perché non si ribellassero i prigionieri appena scesi dai treni, che attendevano per ore (talvolta per giorni!) di entrare nelle camere a gas. Oltre a quanto ho detto, devo aggiungere qui che i tedeschi avevano perfezionato per questa impresa di morte collettiva una strategia diabolicamente astuta e versatile. Nella maggior parte dei casi, i nuovi arrivi non sapevano a cosa andavano incontro: venivano accolti con fredda efficienza ma senza brutalità, invitati a spogliarsi "per la doccia", talvolta veniva loro dato asciugamano e sapone, e promesso un caffè caldo dopo il bagno. Le camere a gas, infatti, erano camuffate come sale di docce, con tubazioni, rubinetti, spogliatoi, attaccapanni, panchine eccetera. Quando invece i prigionieri davano anche il più piccolo segno di sapere o sospettare il loro destino imminente, le SS e i loro collaboratori agivano di sorpresa, intervenendo con estrema brutalità, con urla, minacce, calci, spari, e aizzando contro quella gente perplessa e disperata, macerata da cinque o dieci giorni di viaggio in vagoni sigillati, i loro cani addestrati a sbranare uomini. Stando così le cose, appare assurda ed offensiva l' affermazione che talvolta è stata formulata, che gli ebrei non si siano ribellati per codardia. Nessuno si ribellava. Basti ricordare che le camere a gas di Auschwitz furono collaudate su un gruppo di trecento prigionieri di guerra russi, giovani, allenati militarmente, politicamente preparati, e non impediti dalla presenza di donne e bambini; e neppure loro si ribellarono. Vorrei infine aggiungere una considerazione. La coscienza radicata che all' oppressione non si deve acconsentire, bensì resistere, non era molto diffusa nell' Europa fascista, ed era particolarmente debole in Italia. Era patrimonio di una cerchia ristretta di uomini politicamente attivi, ma il fascismo e il nazismo li avevano isolati, espulsi, terrorizzati o addirittura distrutti: non bisogna dimenticare che le prime vittime dei Lager tedeschi, in numero di centinaia di migliaia, furono appunto i quadri dei partiti politici antinazisti. Essendo venuto a mancare il loro apporto, la volontà popolare di resistere, di organizzarsi per resistere, è risorta molto più tardi, grazie soprattutto al contributo dei partiti comunisti europei, che si gettarono nella lotta contro il nazismo dopo che la Germania, nel giugno 1941, aveva aggredito improvvisamente l' Unione Sovietica rompendo l' accordo Ribbentrop-Molotov del settembre 1939. In conclusione, rimproverare ai prigionieri la mancata ribellione rappresenta oltre a tutto un errore di prospettiva storica: significa pretendere da loro una coscienza politica che oggi è patrimonio pressoché comune, ma allora apparteneva solo ad una élite. 4. Sono ritornato ad Auschwitz nel 1965, in occasione di una cerimonia commemorativa della liberazione dei campi. Come ho accennato nei miei libri, l' impero concentrazionario di Auschwitz non era costituito da un solo Lager, bensì da una quarantina: il campo di Auschwitz propriamente detto era costruito alla periferia della cittadina dello stesso nome (Oswiecim in polacco), aveva una capacità di circa ventimila prigionieri, ed era per così dire la capitale amministrativa del complesso; c' era poi il Lager (o più precisamente il gruppo di Lager: da tre a cinque, a seconda dei momenti) di Birkenau, che giunse a contenere sessantamila prigionieri, di cui circa quarantamila donne, ed in cui erano in funzione le camere a gas ed i forni crematori; ed infine, un numero continuamente variabile di campi di lavoro, lontani anche centinaia di chilometri dalla "capitale": il mio campo, chiamato Mònowitz, era il più grande di questi, essendo giunto a contenere circa dodicimila prigionieri. Era situato a circa sette chilometri ad est di Auschwitz. L' intera zona si trova attualmente in territorio polacco. Non ho provato grande impressione nel visitare il Campo Centrale: il governo polacco l' ha trasformato in una specie di monumento nazionale, le baracche sono state ripulite e verniciate, sono stati piantati alberi, disegnate aiuole. C' è un museo in cui sono esposti cimeli miserandi: tonnellate di capelli umani, centinaia di migliaia di occhiali, pettini, pennelli da barba, bambole, scarpe da bambini; ma è pur sempre un museo, qualcosa di statico, riordinato, manomesso. Tutto il campo mi è sembrato un museo. Quanto al mio Lager, non esiste più; la fabbrica di gomma a cui era annesso, ora in mani polacche, si è talmente ingrandita che ne ha completamente occupato il territorio. Ho provato invece un' impressione di angoscia violenta entrando nel Lager di Birkenau, che non avevo mai visto da prigioniero. Qui niente è cambiato: c' era fango, e c' è ancora fango, o polvere soffocante d' estate; le baracche (quelle che non sono bruciate durante il passaggio del fronte) sono rimaste com' erano, basse, sporche, di tavole sconnesse, col pavimento di terra battuta; non ci sono cuccette ma tavolacci di legno nudo, fino al soffitto. Qui niente è stato abbellito. Era con me una mia amica, Giuliana Tedeschi, superstite di Birkenau. Mi ha fatto vedere che su ogni tavolaccio di m 1,.0 per 2 dormivano fino a nove donne. Mi ha fatto notare che dalla finestrella si vedono le rovine del crematorio; a quel tempo, si vedeva la fiamma in cima alla ciminiera. Lei aveva chiesto alle anziane: "Che cosa è quel fuoco?", e le avevano risposto: "Siamo noi che bruciamo". Di fronte al triste potere evocativo di quei luoghi, ognuno di noi reduci si comporta in un modo diverso, ma si possono delineare due categorie tipiche. Appartengono alla prima categoria quelli che rifiutano di ritornarvi, o addirittura di parlare di questo argomento; quelli che vorrebbero dimenticare, ma non ci riescono, e sono tormentati da incubi; quelli che invece hanno dimenticato, hanno rimosso tutto, ed hanno ricominciato a vivere da zero. Ho notato che in generale tutti questi sono individui che sono finiti in Lager "per disgrazia", cioè senza un impegno politico preciso; per loro la sofferenza è stata una esperienza traumatica ma priva di significato e di insegnamento, come un infortunio o una malattia: il ricordo è per loro un qualcosa di estraneo, un corpo doloroso intruso nella loro vita, ed hanno cercato (o ancora cercano) di eliminarlo. La seconda categoria è invece costituita dagli ex prigionieri "politici", o comunque in possesso di una preparazione politica, o di una convinzione religiosa, o di una forte coscienza morale. Per questi reduci, ricordare è un dovere: essi non vogliono dimenticare, e soprattutto non vogliono che il mondo dimentichi, perché hanno capito che la loro esperienza non è stata priva di senso, e che i Lager non sono stati un incidente, un imprevisto della Storia. I Lager nazisti sono stati l' apice, il coronamento del fascismo in Europa, la sua manifestazione più mostruosa; ma il fascismo c' era prima di Hitler e di Mussolini, ed è sopravvissuto, in forme palesi o mascherate, alla sconfitta della seconda guerra mondiale. In tutte le parti del mondo, là dove si comincia col negare le libertà fondamentali dell' Uomo, e l' uguaglianza fra gli uomini, si va verso il sistema concentrazionario, ed è questa una strada su cui è difficile fermarsi. Conosco molti ex prigionieri che hanno capito bene quale terribile lezione è contenuta nella loro esperienza, e che ogni anno ritornano nel "loro" campo guidando pellegrinaggi di giovani: io stesso lo farei volentieri se il tempo me lo concedesse, e se non sapessi che raggiungo lo stesso scopo scrivendo libri, ed accettando di commentarli agli studenti. 5. Come ho scritto nel rispondere alla prima domanda, alla parte del giudice preferisco quella del testimone: ho da portare una testimonianza, quella delle cose che ho subìte e viste. I miei libri non sono libri di storia: nello scriverli mi sono rigorosamente limitato a riportare i fatti di cui avevo esperienza diretta, escludendo quelli che ho appreso più tardi da libri o giornali. Ad esempio, noterete che non ho citato le cifre del massacro di Auschwitz, e neppure ho descritto i dettagli delle camere a gas e dei crematori: infatti non conoscevo questi dati quando ero in Lager, e li ho appresi soltanto dopo, quando tutto il mondo li ha appresi. Per questo stesso motivo non parlo generalmente dei Lager russi: per mia fortuna non ci sono stato, e non potrei che ripetere le cose che ho letto, cioè quelle che sanno tutti coloro che a questo argomento si sono interessati. È chiaro che tuttavia con questo non voglio né posso sottrarmi al dovere, che ha ogni uomo, di farsi un giudizio e di formulare un' opinione. Accanto ad evidenti somiglianze, fra i Lager sovietici e i Lager nazisti mi pare di poter osservare sostanziali differenze. La principale differenza consiste nella finalità. I Lager tedeschi costituiscono qualcosa di unico nella pur sanguinosa storia dell' umanità: all' antico scopo di eliminare o terrificare gli avversari politici, affiancavano uno scopo moderno e mostruoso, quello di cancellare dal mondo interi popoli e culture. A partire press' a poco dal 1941, essi diventano gigantesche macchine di morte: camere a gas e crematori erano stati deliberatamente progettati per distruggere vite e corpi umani sulla scala dei milioni; l' orrendo primato spetta ad Auschwitz, con 24 000 morti in un solo giorno, nell' agosto 1944. I campi sovietici non erano e non sono certo luoghi in cui il soggiorno sia gradevole, ma in essi, neppure negli anni più oscuri dello stalinismo, la morte dei prigionieri non veniva espressamente ricercata: era un incidente assai frequente, e tollerato con brutale indifferenza, ma sostanzialmente non voluto; insomma, un sottoprodotto dovuto alla fame, al freddo, alle infezioni, alla fatica. In questo lugubre confronto fra due modelli di inferno bisogna ancora aggiungere che nei Lager tedeschi, in generale, si entrava per non uscirne: non era previsto alcun termine altro che la morte. Per contro, nei campi sovietici un termine è sempre esistito: al tempo di Stalin i "colpevoli" venivano talvolta condannati a pene lunghissime (anche quindici o venti anni) con spaventosa leggerezza, ma una sia pur lieve speranza di libertà sussisteva. Da questa fondamentale differenza scaturiscono le altre. I rapporti fra guardiani e prigionieri, in Unione Sovietica, sono meno disumani: appartengono tutti allo stesso popolo, parlano la stessa lingua, non sono "superuomini" e "sottouomini" come sotto il nazismo. I malati, magari male, vengono curati; davanti a un lavoro troppo duro è pensabile una protesta, individuale o collettiva; le punizioni corporali sono rare e non troppo crudeli; è possibile ricevere da casa lettere e pacchi con viveri; la personalità umana, insomma, non viene denegata e non va totalmente perduta. Per contro, almeno per quanto riguardava gli ebrei e gli zingari, nei Lager tedeschi la strage era pressoché totale: non si fermava neppure davanti ai bambini, che furono uccisi nelle camere a gas a centinaia di migliaia, cosa unica fra tutte le atrocità della storia umana. Come conseguenza generale, le quote di mortalità sono assai diverse per i due sistemi. In Unione Sovietica pare che nei periodi più duri la mortalità si aggirasse sul 30 per cento, riferito a tutti gli ingressi, e questo è certamente un dato intollerabilmente alto; ma nei Lager tedeschi la mortalità era del 90-9. per cento. Mi pare molto grave la recente innovazione sovietica secondo cui alcuni intellettuali dissenzienti vengono sbrigativamente dichiarati pazzi, rinchiusi in istituti psichiatrici, e sottoposti a "cure" che non solo provocano crudeli sofferenze, ma distorcono ed indeboliscono le funzioni mentali. Ciò dimostra che il dissenso viene temuto: non è più punito, ma si cerca di demolirlo con i farmaci (o con la paura dei farmaci). Forse questa tecnica non è molto diffusa (pare che questi ricoverati politici, nel 1975, non superassero il centinaio), ma è odiosa, perché comporta un uso abietto della scienza, ed una prostituzione imperdonabile da parte dei medici che si prestano così servilmente ad assecondare i voleri dell' autorità. Essa mette in luce un estremo disprezzo per il confronto democratico e le libertà civili. Per contro, e per quanto riguarda appunto l' aspetto quantitativo, resta da notare che, in Unione Sovietica, il fenomeno Lager appare attualmente in declino. Sembra che intorno al 1950 i prigionieri politici fossero milioni; secondo i dati di "Amnesty International" (un' associazione apolitica che si prefigge di soccorrere tutti i prigionieri politici, in tutti i paesi e indipendentemente dalle loro opinioni) essi sarebbero oggi (1976) circa diecimila. In conclusione, i campi sovietici rimangono pur sempre una manifestazione deplorevole di illegalità e di disumanità. Essi non hanno nulla a che vedere col socialismo, ed anzi, sul socialismo sovietico spiccano come una brutta macchia; sono piuttosto da considerarsi una barbarica eredità dell' assolutismo zarista, di cui i governi sovietici non hanno saputo o voluto liberarsi. Chi legge le "Memorie di una casa morta", scritte da Dostoevskij nel 1.62, non stenta a riconoscervi gli stessi lineamenti carcerari descritti da Solzenicyn cento anni dopo. Ma è possibile, anzi facile, rappresentarsi un socialismo senza Lager: in molte parti del mondo è stato realizzato. Un nazismo senza Lager invece non è pensabile. 6. La maggior parte dei personaggi che compaiono in queste pagine sono purtroppo da ritenere scomparsi già nei giorni di Lager o durante la tremenda marcia di evacuazione di cui si parla a p. 196; altri sono morti più tardi per malattie contratte durante la prigionia, e di altri ancora non sono riuscito a ritrovare le tracce. Alcuni pochi sopravvivono, ed ho potuto conservare o ristabilire il contatto con loro. È vivo, e sta bene, Jean, il "Pikolo" del Canto di Ulisse: la sua famiglia era stata distrutta, ma si è sposato dopo il ritorno, ed ora ha due figli, e conduce una vita molto tranquilla come farmacista in una cittadina della provincia francese. Ci incontriamo talvolta in Italia, dove viene per le vacanze; altre volte sono andato io a trovarlo. Stranamente, ha dimenticato molto del suo anno di Monowitz: in lui prevalgono i ricordi atroci del viaggio di evacuazione, nel corso del quale ha visto morire di estenuazione tutti i suoi amici (fra questi era Alberto). Vedo anche abbastanza sovente il personaggio che ho chiamato Piero Sonnino (p. 66), e che è lo stesso che compare come "Cesare" in La tregua. Anche lui, dopo un difficile periodo di riinserimento, ha trovato un lavoro e si è fatta una famiglia. Vive a Roma. Racconta volentieri, e con grande vivacità, le traversie che ha subìte in campo e durante il lungo viaggio di ritorno, ma nelle sue narrazioni, che spesso diventano quasi monologhi teatrali, tende a mettere in evidenza i fatti avventurosi di cui è stato protagonista piuttosto che quelli tragici a cui ha assistito passivamente. Ho rivisto anche Charles. Era stato preso prigioniero sulle colline dei Vosgi, presso la sua casa, dove era partigiano, solo nel novembre 1944, ed era stato in Lager soltanto per un mese; ma questo mese di sofferenza, ed i fatti feroci a cui aveva assistito, lo avevano segnato profondamente, togliendogli la gioia di vivere e la volontà di costruirsi un avvenire. Rimpatriato dopo un viaggio non molto diverso da quello che io ho raccontato in La tregua, ha ripreso il suo mestiere di maestro elementare nella minuscola scuola del suo villaggio, in cui insegnava ai bambini anche ad allevare le api e a coltivare un vivaio di abeti e pini. Da pochi anni è in pensione; ha sposato di recente una sua collega non giovane, ed insieme si sono costruiti una casa nuova, piccola ma comoda e graziosa. Sono andato a trovarlo due volte, nel 1951 e nel 1974. In quest' ultima occasione mi ha detto di Arthur, che abita in un villaggio non molto lontano: è vecchio e ammalato, e non desidera ricevere visite che possano ridestare in lui antiche angosce. Drammatico, imprevisto, e pieno di gioia per entrambi, è stato il ritrovamento di Mendi, il "rabbino modernista" a cui si accenna in poche righe alle pp. .5 e 132. Ha riconosciuto se stesso leggendo casualmente nel 1965 la traduzione tedesca di questo libro: si ricordava di me, e mi ha scritto una lunga lettera indirizzandola presso la Comunità Israelitica di Torino. Ci siamo scritti a lungo, informandoci a vicenda dei destini dei nostri amici comuni. Nel 1967 sono andato a trovarlo a Dortmund, in Germania Federale, dove allora era rabbino: è rimasto com' era, "tenace, coraggioso e acuto", ed inoltre straordinariamente colto. Ha sposato una reduce da Auschwitz, ed hanno tre figli ormai grandi; l' intera famiglia ha intenzione di trasferirsi in Israele. Non ho più rivisto il Doktor Pannwitz, il chimico che mi aveva sottoposto ad un gelido "esame di Stato", ma ho avuto sue notizie da quel Doktor Müller a cui ho dedicato il capitolo "Vanadio" del mio ultimo libro "ii sistema periodico". Nell' imminenza dell' arrivo dell' Armata Rossa nella fabbrica di Buna, si è comportato con prepotenza e viltà: ha ordinato ai suoi collaboratori civili di resistere a oltranza, ha vietato loro di salire sull' ultimo treno in partenza per le retrovie, ma ci è salito lui all' ultimo momento approfittando della confusione. È morto nel 1946 di un tumore al cervello. 7. L' avversione contro gli ebrei, impropriamente detta antisemitismo, è un caso particolare di un fenomeno più vasto, e cioè dell' avversione contro chi è diverso da noi. È indubbio che si tratti, in origine, di un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano fra di loro fenomeni di intolleranza. Questo avviene anche fra gli animali domestici: è noto che una gallina di un certo pollaio, se viene introdotta in un altro, è respinta a beccate per vari giorni. Lo stesso avviene fra i topi e le api, e in genere in tutte le specie di animali sociali. Ora, l' uomo è certamente un animale sociale (lo aveva già affermato Aristotele): ma guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell' uomo dovessero essere tollerate! Le leggi umane servono appunto a questo: a limitare gli impulsi animaleschi. L' antisemitismo è un tipico fenomeno d' intolleranza. Perché una intolleranza insorga, occorre che fra i due gruppi a contatto esista una differenza percettibile: questa può essere una differenza fisica (i neri e i bianchi, i bruni e i biondi), ma la nostra complicata civiltà ci ha resi sensibili a differenze più sottili, quali la lingua, o il dialetto, o addirittura l' accento (lo sanno bene i nostri meridionali costretti ad emigrare al Nord); la religione, con tutte le sue manifestazioni esteriori e la sua profonda influenza sul modo di vivere; il modo di vestire o gesticolare; le abitudini pubbliche e private. La tormentata storia del popolo ebreo ha fatto sì che quasi ovunque gli ebrei manifestasse o una o più di queste differenze. Nell' intrico, estremamente complesso, dei popoli e delle nazioni in urto fra loro, la storia di questo popolo si presenta con caratteristiche particolari. Esso era (ed in parte è tuttora) depositario di un legame interno molto forte, di natura religiosa e tradizionale; di conseguenza, a dispetto della sua inferiorità numerica e militare, si oppose con disperato valore alla conquista da parte dei romani, e fu sconfitto, deportato e disperso, ma quel legame sopravvisse. Le colonie ebraiche che si andarono formando, su tutte le coste del Mediterraneo dapprima, e successivamente in Medio Oriente, in Spagna, in Renania, nella Russia meridionale, in Polonia, in Boemia ed altrove, rimasero sempre ostinatamente fedeli a questo legame, che si era andato consolidando sotto la forma di un immenso corpo di leggi e tradizioni scritte, di una religione minuziosamente codificata, e di un rituale peculiare e vistoso, che pervadeva tutti gli atti della giornata. Gli ebrei, in minoranza in tutti i loro stanziamenti, erano dunque diversi, riconoscibili come diversi, e spesso orgogliosi (a ragione o a torto) della loro diversità: tutto questo li rendeva molto vulnerabili, ed infatti furono duramente perseguitati, in quasi tutti i paesi ed in quasi tutti i secoli; alle persecuzioni gli ebrei reagirono in piccola parte assimilandosi, ossia fondendosi con la popolazione circostante; in maggior parte, emigrando nuovamente verso paesi più ospitali. In tal modo si rinnovava però la loro "diversità", che li esponeva a nuove restrizioni e persecuzioni. Sebbene nella sua essenza profonda l' antisemitismo sia un fenomeno irrazionale di intolleranza, esso, in tutti i paesi cristiani, ed a partire da quando il cristianesimo si andò consolidando come religione di Stato, assunse una veste prevalentemente religiosa, anzi teologica. Secondo l' affermazione di sant' Agostino, gli ebrei sono condannati alla dispersione da Dio stesso, e ciò per due motivi: perché in tal modo essi vengono puniti per non aver riconosciuto in Cristo il Messia, e perché la loro presenza in tutti i paesi è necessaria alla Chiesa cattolica, che essa pure è dappertutto, affinché dappertutto sia visibile ai fedeli la meritata infelicità degli ebrei. Perciò la dispersione e separazione degli ebrei non dovrà mai avere fine: essi, con le loro pene, devono testimoniare in eterno del loro errore, e di conseguenza della verità della fede cristiana. Dunque, poiché la loro presenza è necessaria, essi devono essere perseguitati, ma non uccisi. Tuttavia, non sempre la Chiesa si mostrò così moderata: fin dai primi secoli del cristianesimo fu mossa agli ebrei un' accusa ben più grave, quella di essere, collettivamente ed eternamente, responsabili della crocifissione di Cristo, di essere insomma il "popolo deicida". Questa formulazione, che compare nella liturgia pasquale in tempi remoti, ed è stata soppressa solo dal Concilio Vaticano ii (1962-65), sta all' origine di varie funeste e sempre rinnovate credenze popolari: che gli ebrei avvelenano i pozzi propagando la peste; che profanano abitualmente l' Ostia consacrata; che a Pasqua rapiscono bambini cristiani, col cui sangue impastano il pane azzimo. Queste credenze hanno offerto il pretesto per numerosi e sanguinosi massacri, e tra l' altro, per l' espulsione in massa degli ebrei dapprima dalla Francia e dall' Inghilterra, poi (1492-9.) dalla Spagna e dal Portogallo. Attraverso una serie mai interrotta di stragi e di migrazioni, si arriva al secolo xix, contrassegnato dal risveglio generale delle coscienze nazionali e dal riconoscimento dei diritti delle minoranze: ad eccezione della Russia zarista, in tutta l' Europa cadono le restrizioni legali ai danni degli ebrei, che erano state invocate dalle Chiese cristiane (a seconda dei luoghi e dei tempi, l' obbligo di risiedere in ghetti o in zone particolari, l' obbligo di portare sugli abiti un contrassegno, il divieto di accedere a determinati mestieri o professioni, il divieto dei matrimoni misti, ecc.). Sopravvive però l' antisemitismo, vivace soprattutto nei paesi dove una rozza religiosità continuava ad additare negli ebrei gli uccisori di Cristo (in Polonia e in Russia), e dove le rivendicazioni nazionali avevano lasciato uno strascico di generica avversione contro i confinanti e gli stranieri (in Germania; ma anche in Francia, ed alla fine del XIX secolo, i clericali, i nazionalisti ed i militari si trovano concordi nello scatenare una violenta ondata di antisemitismo, in occasione della falsa accusa di alto tradimento mossa contro Alfred Dreyfus, ufficiale ebreo dell' esercito francese). In Germania, in specie, per tutto il secolo scorso una serie ininterrotta di filosofi e di politici avevano insistito in una teorizzazione fanatica, secondo cui il popolo tedesco, per troppo tempo diviso ed umiliato, era depositario del primato in Europa e forse nel mondo, era erede di remote e nobilissime tradizioni e civiltà, ed era costituito da individui sostanzialmente omogenei per sangue e per razza. I popoli tedeschi avrebbero dovuto costituirsi in uno Stato forte e guerriero, egemone in Europa, rivestito di una maestà quasi divina. Questa idea della missione della Nazione Tedesca sopravvive alla disfatta della prima guerra mondiale, ed esce anzi rafforzata dall' umiliazione del trattato di pace di Versailles. Se ne impadronisce uno dei personaggi più sinistri ed infausti della Storia, l' agitatore politico Adolf Hitler. I borghesi e gli industriali tedeschi porgono orecchio alle sue orazioni infiammate: Hitler promette bene, riuscirà a deviare sugli ebrei l' avversione che il proletariato tedesco tributa alle classi che l' hanno condotto alla sconfitta ed al disastro economico. Nel giro di pochi anni, a partire dal 1933, egli riesce a trarre partito dalla collera di un paese umiliato e dall' orgoglio nazionalistico suscitato dai profeti che l' hanno preceduto, Lutero, Fichte, Hegel, Wagner, Gobineau, Chamberlain, Nietzsche: il suo pensiero ossessivo è quello di una Germania dominatrice, non nel lontano futuro ma subito; non attraverso una missione di civiltà, ma con le armi. Tutto ciò che non è germanico gli appare inferiore, anzi detestabile, ed i primi nemici della Germania sono gli ebrei, per molti motivi che Hitler enunciava con furore dogmatico: perché hanno "sangue diverso"; perché sono imparentati con altri ebrei in Inghilterra, in Russia, in America; perché sono eredi di una cultura in cui si ragiona e si discute prima di obbedire, ed in cui è vietato inchinarsi agli idoli, mentre lui stesso aspira ad essere venerato come un idolo, e non esita a proclamare che "dobbiamo diffidare dell' intelligenza e della coscienza, e riporre tutta la nostra fede negli istinti". Infine, molti fra gli ebrei tedeschi hanno raggiunto posizioni chiave nell' economia, nella finanza, nelle arti, nella scienza, nella letteratura: Hitler, pittore mancato, architetto fallito, riversa sugli ebrei il suo risentimento e la sua invidia di frustrato. Questo seme d' intolleranza, cadendo su di un terreno già predisposto, vi attecchisce con incredibile vigore ma in forme nuove. L' antisemitismo di stampo fascista, quello che il Verbo bandito da Hitler risveglia nel popolo tedesco, è più barbarico di tutti i precedenti: vi convergono dottrine biologiche artificiosamente distorte, secondo cui le razze deboli devono cedere davanti alle forti; le assurde credenze popolari che il buon senso aveva sepolte da secoli; una propaganda senza soste. Si toccano estremi mai sentiti prima. L' ebraismo non è una religione da cui ci si può allontanare col battesimo, né una tradizione culturale che si può abbandonare per un' altra: è una sottospecie umana, una razza diversa ed inferiore a tutte le altre. Gli ebrei sono solo apparentemente esseri umani: in realtà sono qualcosa di diverso: di abominevole e indefinibile, "più lontani dai tedeschi che le scimmie dagli uomini"; sono colpevoli di tutto, del rapace capitalismo americano e del bolscevismo sovietico, della sconfitta del 191., dell' inflazione del 1923; liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono sataniche invenzioni ebraiche, che minacciano la solidità monolitica dello Stato nazista. Il passaggio dalla predicazione teorica all' attuazione pratica è stato rapido e brutale. Nel 1933, solo due mesi dopo che Hitler ha conquistato il potere, nasce Dachau, il primo Lager. Nel maggio dello stesso anno si accende il primo rogo di libri di autori ebrei o nemici del nazismo (ma più di cento anni prima Heine, poeta ebreo tedesco, aveva scritto: "Chi brucia i libri finisce presto o tardi col bruciare uomini"). Nel 1935 l' antisemitismo viene codificato in una monumentale e minuziosissima legislazione, le Leggi di Norimberga. Nel 193., in una sola notte di disordini pilotati dall' alto, vengono incendiate 191 sinagoghe e distrutti migliaia di negozi di ebrei. Nel 1939 gli ebrei della Polonia testè occupata vengono rinchiusi nei ghetti. Nel 1940 viene aperto il Lager di Auschwitz. Nel 1941-42 la macchina dello sterminio è in piena azione: le vittime saliranno a milioni nel 1944. Nella pratica quotidiana dei campi di sterminio trovano la loro realizzazione l' odio e il disprezzo diffusi dalla propaganda nazista. Qui non c' era solo la morte, ma una folla di dettagli maniaci e simbolici, tutti tesi a dimostrare e confermare che gli ebrei, e gli zingari, e gli slavi, sono bestiame, strame, immondezza. Si ricordi il tatuaggio di Auschwitz, che imponeva agli uomini il marchio che si usa per i buoi; il viaggio in vagoni bestiame, mai aperti, in modo da costringere i deportati (uomini, donne e bambini!) a giacere per giorni nelle proprie lordure; il numero di matricola in sostituzione del nome; la mancata distribuzione di cucchiai (eppure i magazzini di Auschwitz, alla liberazione, ne contenevano quintali), per cui i prigionieri avrebbero dovuto lambire la zuppa come cani; l' empio sfruttamento dei cadaveri, trattati come una qualsiasi anonima materia prima, da cui si ricavavano l' oro dei denti, i capelli come materiale tessile, le ceneri come fertilizzanti agricoli; gli uomini e le donne degradati a cavie, su cui sperimentare medicinali per poi sopprimerli. Lo stesso modo che fu scelto (dopo minuziosi esperimenti) per lo sterminio era apertamente simbolico. Si doveva usare, e fu usato, quello stesso gas velenoso che si impiegava per disinfestare le stive delle navi, ed i locali invasi da cimici o pidocchi. Sono state escogitate nei secoli morti più tormentose, ma nessuna era così gravida di dileggio e di disprezzo. Come è noto, l' opera di sterminio fu condotta molto avanti. I nazisti, che pure erano impegnati in una durissima guerra, ormai difensiva, vi manifestarono una fretta inesplicabile: i convogli delle vittime da portare al gas, o da trasferire dai Lager prossimi al fronte, avevano la precedenza sulle tradotte militari. Non fu condotta a termine solo perché la Germania fu disfatta, ma il testamento politico che Hitler dettò poche ore prima di uccidersi, coi russi a pochi metri, si concludeva così: "Soprattutto, ordino al governo e al popolo tedesco di mantenere in pieno vigore le leggi razziali, e di combattere inesorabilmente l' avvelenatore di tutte le nazioni, l' ebraismo internazionale". Riassumendo, si può dunque affermare che l' antisemitismo è un caso particolare dell' intolleranza; che per secoli ha avuto carattere prevalentemente religioso; che, nel iii Reich, esso è stato esacerbato dalla predisposizione nazionalistica e militaristica del popolo tedesco, e dalla peculiare "diversità" del popolo ebreo; che esso fu facilmente disseminato in tutta la Germania, e in buona parte dell' Europa, grazie all' efficienza della propaganda fascista e nazista, a cui occorreva un capro espiatorio su cui convogliare tutte le colpe e tutti i risentimenti; e che il fenomeno fu condotto al parossismo da Hitler, dittatore maniaco. Tuttavia devo ammettere che queste spiegazioni, che sono quelle comunemente accettate, non mi soddisfano: sono diminutive, non commisurate, non proporzionali ai fatti da spiegare. Nel rileggere le cronache del nazismo, dai suoi torbidi inizi alla sua fine convulsa, non riesco a sottrarmi all' impressione di una generale atmosfera di follia incontrollata che mi pare unica nella storia. Questa follia collettiva, questo sbandamento, viene di solito spiegato postulando la combinazione di molti fattori diversi, insufficienti se presi singolarmente, e il maggiore di questi fattori sarebbe la personalità stessa di Hitler, e la sua profonda interazione col popolo tedesco. È certo che le sue personali ossessioni, la sua capacità d' odio, la sua predicazione di violenza, trovavano sfrenata risonanza nella frustrazione del popolo tedesco, e da questo ritornavano a lui moltiplicate, confermandolo nella sua convinzione delirante di essere lui stesso l' Eroe profetizzato da Nietzsche, il Superuomo redentore della Germania. Sull' origine del suo odio contro gli ebrei si è scritto molto. Si è detto che Hitler riversava sugli ebrei il suo odio contro l' intero genere umano; che riconosceva negli ebrei alcuni suoi stessi difetti, e che odiando gli ebrei odiava se stesso; che la violenza della sua avversione proveniva dal timore di poter avere "sangue ebreo" nelle vene. Ancora una volta: non mi sembrano spiegazioni adeguate. Non mi sembra lecito spiegare un fenomeno storico riversandone tutta la colpa su un individuo (gli esecutori di ordini orrendi non sono innocenti!), ed inoltre è sempre arduo interpretare le motivazioni profonde di un individuo. Le ipotesi che vengono proposte giustificano i fatti solo in misura parziale, ne spiegano la qualità ma non la quantità. Devo ammettere che preferisco l' umiltà con cui alcuni storici fra i più seri (Bullock, Schramm, Bracher) confessano di non comprendere l' antisemitismo furibondo di Hitler e della Germania dietro di lui. Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: "comprendere" un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l' autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano più comprensibili. Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende più crudeli della lotta biologica per l' esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la "comprendiamo". Ma nell' odio nazista non c' è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell' uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre. Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano "capi carismatici", possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibilità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono più pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Ho5ss comandante di Auschwitz, come Stangl comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent' anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent' anni dopo, massacratori in Vietnam. Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. È meglio accontentarsi di altre verità più modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate. È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitù, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall' interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono più, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell' Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento. .. Parlando rigorosamente, non so e non posso sapere che cosa sarei oggi se non fossi stato in Lager: nessun uomo conosce il suo futuro, e qui si tratterebbe appunto di descrivere un futuro che non c' è stato. Ha un certo significato tentare previsioni (del resto sempre grossolane) sul comportamento di una popolazione, ed invece è difficilissimo, o impossibile, prevedere il comportamento di un singolo, anche sulla scala dei giorni. Allo stesso modo, il fisico sa pronosticare con grande esattezza il tempo che impiegherà un grammo di radio a dimezzare la sua attività, ma non sa assolutamente dire quando si disintegrerà un singolo atomo di quel radio. Se un uomo si avvia verso un bivio, e non infila la strada di sinistra, è ovvio che infilerà quella di destra; ma quasi mai le nostre scelte sono fra due sole alternative: poi, ad ogni scelta ne seguono altre, tutte multiple, e così all' infinito; e infine, il nostro futuro dipende fortemente anche da fattori esterni, in tutto estranei alle nostre scelte deliberate, ed anche da fattori interni, di cui però non siamo coscienti. Per questi notori motivi non si conosce il proprio avvenire né quello del nostro prossimo; per gli stessi motivi nessuno può dire quale sarebbe stato il suo passato "se". Una certa affermazione posso però formularla, ed è questa: se non avessi vissuto la stagione di Auschwitz, probabilmente non avrei mai scritto nulla. Non avrei avuto motivo, incentivo, per scrivere: ero stato uno studente mediocre in italiano e scadente in storia, mi interessavano di più la fisica e la chimica, ed avevo poi scelto un mestiere, quello del chimico, che non aveva niente in comune col mondo della parola scritta. È stata l' esperienza del Lager a costringermi a scrivere: non ho avuto da combattere con la pigrizia, i problemi di stile mi sembravano ridicoli, ho trovato miracolosamente il tempo di scrivere pur senza mai sottrarre neppure un' ora al mio mestiere quotidiano: mi pareva, questo libro, di averlo già in testa tutto pronto, di doverlo solo lasciare uscire e scendere sulla carta. Adesso sono passati molti anni: il libro ha avuto molte vicende, e si è curiosamente interposto, come una memoria artificiale, ma anche come una barriera difensiva, fra il mio normalissimo presente e il feroce passato di Auschwitz. Lo dico con esitazione, perché non vorrei passare per un cinico: nel ricordare il Lager oggi non provo più alcuna emozione violenta o dolorosa. Al contrario: alla mia esperienza breve e tragica di deportato si è sovrapposta quella molto più lunga e complessa di scrittore-testimone e la somma è nettamente positiva; nella sua globalità, questo passato mi ha reso più ricco e più sicuro. Una mia amica, che era stata deportata giovanissima al Lager femminile di Ravensbrück, dice che il campo è stata la sua Università: io credo di poter dire altrettanto, e cioè che vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, ho imparato molte cose sugli uomini e sul mondo. Devo però affrettarmi a precisare che questo esito positivo è stata una fortuna toccata a pochissimi: dei deportati italiani, ad esempio, solo circa il 5 per cento hanno fatto ritorno, e fra questi, molti hanno perduto la famiglia, gli amici, gli averi, la salute, l' equilibrio, la giovinezza. Il fatto che io sia sopravvissuto, e sia ritornato indenne, secondo me è dovuto principalmente alla fortuna. Solo in piccola misura hanno giocato fattori preesistenti, quali il mio allenamento alla vita di montagna, ed il mio mestiere di chimico, che mi ha concesso qualche privilegio negli ultimi mesi di prigionia. Forse mi ha aiutato anche il mio interesse, mai venuto meno, per l' animo umano, e la volontà non soltanto di sopravvivere (che era comune a molti), ma di sopravvivere allo scopo preciso di raccontare le cose a cui avevamo assistito e che avevamo sopportate. E forse ha giocato infine anche la volontà, che ho tenacemente conservata, di riconoscere sempre, anche nei giorni più scuri, nei miei compagni e in me stesso, degli uomini e non delle cose, e di sottrarmi così a quella totale umiliazione e demoralizzazione che conduceva molti al naufragio spirituale.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

. - Prese la sua carabina, quell'istessa che aveva già abbattuta la terribile tigre nera, chiamò i malesi fra i quali si trovava Kubang, che si era ben guardato di narrargli del rapimento di Surama, e scese nel gran cortile, dove si trovavano pronti dodici cavalli, due elefanti, molti cani e una ventina di seikki, che dovevano aiutarlo nella pericolosissima caccia. Fu nondimeno un po' sorpreso nel trovare invece d'un maggiordomo o d'un conduttore di scikari, un alto ufficiale del rajah, il quale gli disse senza preamboli: - Mylord, la direzione della caccia spetterà esclusivamente a me. - Oh! - fece Yanez incrociando le braccia. - Ed a me che cosa spetta? - Di uccidere il rinoceronte. - E se lo uccideste voi invece? - Io non sono il gran cacciatore della corte, - rispose seccamente l'alto ufficiale. - Ah! - Mi hai capito mylord? Io solo ho la direzione. - Spero che mi caccerai dinanzi il bestione però. - Lascia fare ai seikki, mylord. - Yanez salì su uno dei due elefanti, molto di cattivo umore ed un po' anche pensieroso. - Non ci vedo chiaro in questa faccenda - mormorò. - Il greco deve aver tentato qualche colpo. Come mai il rajah ha cambiato così presto d'umore verso di me? C'è qui sotto qualche cosa che mi sfugge. Stiamo in guardia. In una caccia è facile sbagliare un animale e uccidere invece un cacciatore. Avvertirò i miei malesi d'aprire per bene gli occhi e di non perdere di vista un solo istante i seikki. Il pericolo sta là. - Si sdraiò sui cuscini della cassa, accese la sigaretta e affettando una calma completa che realmente non sentiva, fece segno al cornac di muovere l'elefante, il quale già cominciava a dar segni d'impazienza. La carovana attraversò la città sfilando fra due ali di popolo, che osservava con curiosità, non esente da una certa simpatia, il famoso cacciatore; poi rimontò la riva destra del fiume avviandosi ai grandi boschi che si estendevano verso ponente, formati di superbi tek dal legno durissimo ed incorruttibile, di gomma lacca, di nagassi, ossia d'alberi dal legno di ferro perché i loro tronchi ed i loro rami sono così duri da smussare le scuri le più affilate, e di imponenti fichi baniani. L'ufficiale del rajah che montava il secondo elefante, si era messo alla testa della truppa, fiancheggiato dai seikki che montavano bellissimi cavalli, di forme perfette, d'origine certamente araba o per lo meno persiana. Pareva che si fosse perfino scordato della presenza del grande cacciatore di corte a cui spettava il poco invidiabile onore di abbattere il terribile rinoceronte. Per cinque ore la carovana continuò a costeggiare la riva del fiume, oltrepassando di quando in quando dei meschini raggruppamenti di capanne, formate di rami intrecciati, mescolati a fango rossastro o grigiastro; poi l'ufficiale fece l'alt nei dintorni d'un villaggio piuttosto grosso, che sorgeva in mezzo a vastissime piantagioni d'indaco, che si vedevano realmente qua e là gravemente danneggiate, come se una truppa di bestie si fosse divertita a farvi sopra delle corse sfrenate. - È questo il luogo che il rinoceronte frequenta? - chiese Yanez al cornac che stava a cavalcioni dell'elefante. - Sì, signore - rispose l'indiano. - Quel brutto animale ha già distrutto tanto indaco, che seicento rupie non sarebbero bastanti per ricompensare questi poveri contadini. Oh, ma tu lo ucciderai signore, è vero? - Farò il possibile. - Ci fermiamo qui, signore. - La popolazione del villaggio guidata dal suo capo, un bel vecchio ancora vegeto, erasi avanzata incontro alla carovana, dando a tutti il benvenuto e mettendosi a loro disposizione. Essendo già stata precedentemente avvertita da un corriere mandato dal rajah, aveva preparato una specie di campo chiuso da bambù incrociati e solidamente legati, innalzandovi nel mezzo otto o dieci capanne formate con frasche e coperte da rami ancora verdeggianti. Yanez senza occuparsi dell'alto ufficiale, scelse la più comoda e la più ampia, istallandovisi coi suoi sei malesi. Nella sua qualità di grande cacciatore, credeva di averne bene il diritto. I cuochi servirono ai cacciatori ed ai servi una colazione fredda e abbondante, inaffiata con dell'eccellente toddy, poi il capo del villaggio, accompagnato dall'ufficiale del rajah, chiese a Yanez: - Sei tu sahib, che sei incaricato di liberarci dal cattivo animale? - Sì, amico - rispose il portoghese - ma per poter far ciò tu devi darmi delle indicazioni e anche una guida. - Io darò a te tutto quello che vorrai, signore, e anche un premio. - Quello lo darai ai danneggiati. Dove credi che il rinoceronte abbia il suo covo? - Nella foresta che costeggia lo stagno dei coccodrilli. - Lontana? - Qualche ora di marcia. - Si è mai mostrato di giorno? - Mai, sahib. È solamente a notte tarda che lascia la foresta per venire a devastare le nostre piantagioni. - L'hai veduto tu? - Sì, tre notti or sono gli ho sparato contro due colpi di carabina e probabilmente non sono riuscito a colpirlo. - È grosso? - Non ne ho mai veduto di così colossali. - Va bene. Lasciami riposare fino dopo il tramonto e avverti l'uomo che deve guidarci di tenersi pronto. - Sarò io che ti condurrò sul luogo che la cattiva bestia frequenta. - Una parola, mylord - disse l'ufficiale del rajah. - Come intendi cacciarlo? - Lo aspetterò all'imboscata. - Non otterresti nulla, perché al primo colpo di fucile, quegli animali assalgono e scappano, e tu sai che una palla sola non basta ad atterrarli. Il rajah ha messo a tua disposizione uno dei suoi migliori cavalli, onde tu possa inseguire l'animale dopo fatto il colpo. - Me ne servirò, - rispose Yanez. - Ora lasciatemi tranquillo perché non so se questa sera avrò tempo di dormire. - Attese che il capo e l'ufficiale si fossero allontanati, poi volgendosi verso i suoi malesi che stavano seduti a terra, lungo le pareti, disse loro: - Qualunque cosa debba succedere, voi non mi lascerete solo nella foresta. Non abbiate paura del rinoceronte: penso io ad abbatterlo. - Temi qualche tradimento, padrone? - chiese Kubang. - Sono sicurissimo che quel maledetto greco, cercherà di vendicarsi, con tutti i mezzi possibili, del colpo di scimitarra che gli ho dato, e perciò dubito di tutto e di tutti. In una caccia in mezzo alla foresta accade talvolta di ammazzare un cacciatore invece dell'animale. - Non perderemo d'occhio i seikki, capitano Yanez. Alla prima mossa sospetta, piomberemo addosso loro come tigri e vedremo quanti sfuggiranno alle nostre scimitarre. - Che uno di voi monti la guardia fuori della capanna e prendiamo un po' di riposo. - Si stese su una stuoia ed invitato dal gran calore che regnava e dal profondo silenzio, poiché anche gli elefanti e gli indiani si erano addormentati, chiuse gli occhi. Fu svegliato verso il tramonto dai latrati dei cani, dai nitriti dei cavalli, dai barriti degli elefanti e dalle grida dei cornac e dei seikki. I malesi erano già in piedi e pulivano le loro carabine e le loro pistole. - La cena, - disse Yanez. - Poi andremo a scovare questo signor colosso. - I cuochi avevano preparato il pasto serale e non aspettavano che l'ordine del gran cacciatore per servire. Yanez mangiò alla lesta, prese la sua magnifica carabina a doppia canna, caricata con palle rivestite di rame, veri proiettili da grossa caccia, e uscì. Gli uomini scelti ad accompagnarlo, non erano che in sei e tenevano per le briglie alcuni splendidi cavalli, fra i quali uno tutto nero che pareva avesse il fuoco nelle vene e che era riccamente bardato, con staffe corte all'orientale. - Il mio? - chiese Yanez all'ufficiale. - Sì mylord, - rispose l'indiano. - Non montarlo però ora. - Perché? - I cavalli devono giungere sul luogo della caccia freschissimi. I rinoceronti corrono colla velocità del vento quando caricano e guai al cavallo che in quel momento si trovasse affaticato. - Hai ragione. E la guida? - Ci aspetta di là delle piantagioni. - Partiamo, ma senza cani: disturberebbero la caccia. - Così ho pensato anch'io, desiderando tu cacciare all'agguato. - Lasciarono l'accampamento e presero un sentiero che attraversava le piantagioni d'indaco, seguìti dagli sguardi di tutti i contadini, i quali si erano schierati sui margini dei campi. La notte era splendida e propizia per una buona caccia. Una fresca brezzolina, che scendeva dagli altipiani giganteschi del Bhutan, soffiava ad intervalli, sussurrando fra le pianticelle d'indaco, e la luna sorgeva mestosa dietro i lontani picchi della frontiera birmana. In cielo le stelle fiorivano a milioni e milioni, proiettando una luce dolcissima. Yanez colla sua eterna sigaretta fra le labbra, colla carabina sotto un braccio, seguìto subito dai suoi malesi, marciava in testa al drappello. L'ufficiale invece guidava i seikki che conducevano i cavalli. Oltrepassate le piantagioni il drappello trovò il vecchio capo. - L'hai veduto? - gli chiese Yanez. - No, sahib, ma ho saputo dove si trova il suo covo. Un cacciatore di nilgò me l'ha indicato. - Credi che sia già uscito a pascolare? - Oh! non ancora. - Meglio così: lo sorprenderemo nel suo covo. - Ripresero la marcia avviandosi verso una foresta che nereggiava verso ponente e che sembrava immensa. Bastò un'ora di marcia rapidissima, essendo gli indiani dei camminatori lestissimi ed infaticabili non meno degli abissini, perché la raggiungessero. Per un caso veramente raro, quella foresta si componeva quasi tutta di fichi d'India, piante colossali d'una longevità straordinaria, dalle foglie ovali lanceolate, coriacee, mescolate a piccoli frutti d'un sapore dolciastro che poco hanno da fare coi nostri fichi d'Europa, e dai cui tronchi gl'indiani estraggono, mediante una semplice incisione, una specie di latte che non è però bevibile, ma che invece serve ottimamente a preparare una specie di gomma-lacca, che nulla ha da invidiare a quella che viene usata dai cinesi e dai giapponesi. Il vecchio capo fece una breve fermata sul margine della foresta mettendosi in ascolto, poi non udendo che gli ululati lontani di alcuni lupi indiani, s'inoltrò risolutamente fra quella miriade di tronchi, dicendo a Yanez: - Non ha ancora lasciato il suo covo. Se fosse uscito lo si udrebbe, perché quando scorazza per le boscaglie fa sempre udire il suo niff-niff. - Meglio così, - rispose Yanez. Gettò via la sigaretta, armò la carabina, fece segno ai malesi di fare altrettanto e seguì la guida che s'inoltrava con passo sicuro sotto le immense volte dei fichi, tenendo in mano un vecchio fucile che ben poco avrebbe potuto servire contro quei colossali animali, che hanno una pelle quasi impenetrabile ai migliori proiettili. La foresta, di passo in passo che i cacciatori s'avanzavano, diventava sempre più fitta. Per di più enormi cespugli crescevano qua e là, avvolti in una vera rete di calamus e di nepente. I cacciatori avevano percorso un buon mezzo miglio, quando il vecchio indiano fece a loro segno di arrestarsi. - Ci siamo? - chiese Yanez sottovoce. - Sì, sahib: lo stagno dei coccodrilli è poco lontano ed è sulle sue rive che il rinoceronte ha il suo covo. Fa' avvolgere le teste dei cavalli nelle gualdrappe onde non nitriscano. L'animale può essere di buon umore e sfuggirci, invece di caricarci. - Yanez trasmise l'ordine ai seikki poi disse alla guida: - Avresti paura a seguirmi? - Perché sahib? - Desidero scovare il rinoceronte senza avere dietro di me i seikki ed i miei uomini. Spareranno dopo di me se non riuscirò ad abbatterlo. - Tu sei il grande cacciatore del rajah, quindi nulla devo temere. - Aspettatemi qui e tenetevi pronti a montare a cavallo, - disse Yanez alla scorta. - Se io manco aprite il fuoco e mirate bene. Se ci carica sarà un affare serio ad arrestarlo in piena corsa. Andiamo amico: conducimi nel luogo preciso dove si trova il covo. - Vieni, sahib. - Si allontanarono in silenzio, passando con precauzione fra le innumerevoli colonne dei fichi, cogli occhi in guardia e gli orecchi ben tesi. Regnava un profondo silenzio. Perfino i bighama, i lupi dell'India, tacevano in quel momento. Anche il venticello notturno era cessato e non faceva più stormire il fogliame degli immensi alberi. Percorsi altri trecento passi il vecchio indiano tornò a fermarsi. - Lasciami ascoltare, - disse sottovoce a Yanez. - Lo stagno dei coccodrilli sta dinanzi a noi. - Odi nulla? - Il respiro del rinoceronte. Deve essere nascosto in mezzo a quel vasto cespuglio. - Che non abbia fame questa sera? - Si sarà cibato abbondantemente stamane. - Lo costringerò io a mostrarsi. - Si guardò intorno e scorto un grosso pezzo di ramo, lo scagliò, con quanta forza aveva, al disopra del cespuglio. Subito una specie di fischio rauco s'alzò fra le fronde seguìto da uno strano grido. Era il niff-niff del rinoceronte. - Si è svegliato - sussurrò Yanez mettendosi rapidamente la carabina alla spalla. - Che si mostri e gli caccerò due palle nel cervello. - Trascorsero alcuni istanti senza che l'animale si mostrasse. Anche l'indiano, quantunque avesse una scarsa fiducia nell'efficacia del suo vecchio fucile, si teneva pronto a sparare. Ad un tratto il cespuglio si agitò in tutti i sensi, come se una tempesta fosse improvvisamente scoppiata nel suo seno, poi s'aprì bruscamente ed un enorme rinoceronte comparve lanciando furiosamente il suo grido di guerra. Subito tre detonazioni rimbombarono l'una dietro l'altra, seguìte tosto da un altissimo grido lanciato dall'indiano. - Fuggi, sahib! ... - Il rinoceronte quantunque dovesse aver ricevuto qualche palla, poiché Yanez non mancava mai ai suoi colpi, caricava all'impazzata coll'impeto furibondo, che è particolare a quegli animalacci. Il portoghese vedendolo, aveva voltato le spalle slanciandosi a tutta corsa verso il luogo ove si trovavano i malesi e i seikki. Fortunatamente gl'innumerevoli tronchi dei fichi d'India, che in certi luoghi crescevano così uniti da non permettere il passaggio ad un grosso animale, avevano frenato lo slancio terribile del colosso, lasciando così tempo ai fuggiaschi di raggiungere i loro compagni. - A cavallo! - gridò Yanez. Un seikko gli condusse prontamente dinanzi quel cavallo che il rajah gli aveva destinato. Il portoghese con un solo slancio fu in sella senza servirsi delle staffe. I malesi e i seikki vedendo il rinoceronte apparire fra i tronchi dei baniani a corsa sfrenata, fecero una scarica, poi si dispersero in varie direzioni, trasportati loro malgrado dai cavalli spaventati che non obbedivano più né alle briglie, né agli speroni. L'ufficiale del rajah era stato il primo a scappare, senza perdere tempo a far fuoco. Yanez aveva fatto fare al suo nero destriero un salto terribile per evitare l'urto del furibondo colosso, mentre il vecchio indiano, più fortunato, si poneva in salvo, con un'agilità scimmiesca, su un fico. Il rinoceronte, reso feroce dalle ferite ricevute, continuò la sua corsa per un due o trecento passi; poi fatto un brusco voltafaccia tornò indietro lanciando per la seconda volta il suo grido di guerra: niff-niff! ... Se gli altri erano scappati, Yanez era rimasto sul luogo della caccia e non per volontà sua, bensì per bizzarria del suo cavallo che pareva fosse diventato improvvisamente pazzo. Faceva dei terribili salti di montone come se il peso del cavaliere gli spezzasse le reni, s'inalberava nitrendo dolorosamente, poi sferrava calci in tutte le direzioni. Il portoghese però non si lasciava scavalcare e stringeva nervosamente le ginocchia e non risparmiava né strappate di briglie, né colpi di sperone, sagrando come un turco. - Via! scappa! - urlava. - Vuoi farti sventrare? - Il cavallo non obbediva ed il rinoceronte tornava alla caccia, colla testa bassa ed il corno teso, pronto ad immergerlo tutto nel ventre del nemico. Un freddo sudore bagnava la fronte di Yanez. Un terribile sospetto gli era balenato nel cervello, ossia che il greco gli avesse preparato qualche tranello per perderlo nel momento più pericoloso. Guardò rapidamente in aria. Appena ad un metro sopra la sua testa si stendevano orizzontalmente i rami dei fichi. - Sono salvo! - esclamò, gettandosi a bandoliera la carabina. In quel momento il rinoceronte piombò addosso all'imbizzarrito destriero. Il corno scomparve intero nel ventre del povero animale, poi con un colpo di testa alzò cavallo e cavaliere. Uno solo però cadde: il primo, poiché il secondo, che aveva conservato un meraviglioso sangue freddo anche in quel terribile frangente, si era disperatamente abbrancato ad un ramo, issandosi prontamente. Il cavallo, sventrato di colpo, stramazzò al suolo, s'alzò ancora inalberandosi, poi cadde di quarto mandando un nitrito soffocato. Il rinoceronte, colla brutalità e ferocia istintiva degli animali della sua razza, tornò addosso al povero animale immergendogli per la seconda volta nel corpo il corno, poi preso da un eccesso di furore indescrivibile, si mise a calpestarlo rabbiosamente mandando fischi acuti. Sotto il suo peso enorme, le ossa del cavallo scricchiolavano e si spezzavano, e dagli squarci prodotti da quei due colpi di corno, uscivano insieme getti di sangue, intestini e polmoni. Yanez che aveva ricuperata prontamente la sua calma, appena messosi a cavalcioni del ramo, ricaricò la carabina, borbottando: - Ora vendicherò il cavallo del rajah, quantunque quel testardo, per poco, non mi abbia spedito diritto nell'altro mondo. - In quel momento alcuni spari rimbombarono a breve distanza: poi i sei malesi passarono a centocinquanta metri circa da Yanez, trasportati in un galoppo sfrenato. - Andate pure, miei bravi - disse Yanez. - Ci penso io al rinoceronte. - Si accomodò meglio che poté sul ramo e puntò la carabina. Il bestione che pareva impazzito non aveva ancora lasciato la sua vittima. La squarciava a gran colpi di corno avvoltolandosi nel sangue, la calpestava lasciandosi poi cadere con tutto il suo enorme corpaccio e non cessava di mandare urla stridenti. Una palla che lo colpì un po' sopra l'occhio sinistro, lo calmò per un istante. S'arrestò guardando in aria, colla bocca aperta. Era il momento che Yanez aspettava. Il secondo colpo di carabina partì colpendo l'animale al palato e penetrandogli nel cervello. La ferita era mortale, pure il bestione non cadde. Anzi si mise a galoppare vertiginosamente intorno ai tronchi dei fichi schiantandone parecchi. - Per Giove! - esclamò Yanez ricaricando l'arma. - Per questi animali ci vorrebbe una spingarda o meglio un cannone. - Attese che gli passasse sotto e fece fuoco quasi a bruciapelo, colpendolo fra la nuca ed il collo. L'effetto fu fulminante. L'animalaccio si rizzò di colpo sulle zampe posteriori, poi stramazzò pesantemente a terra rimanendo immobile. Aveva ricevuto cinque palle e tutte foderate di rame e di grosso calibro. - Era tempo che tu morissi! - esclamò Yanez lasciandosi scivolare giù da uno di quegli innumerevoli tronchi. - Ho ammazzato tanti animali, ma nessuno m'ha fatto sudare né passare un brutto momento come questo. Vediamo ora che giuoco hai tentato, maestro Teotokris dell'Arcipelago greco. Che una tigre mi divori se qui sotto non vi è la tua mano! Il cavallo era troppo impazzito. - S'avvicinò con precauzione al rinoceronte e dopo essersi ben accertato che era proprio morto e che non vi era più pericolo che si rimettesse in piedi, rivolse la sua attenzione al destriero del rajah. Disgraziato animale! Intestini, cuore, polmoni e fegato giacevano intorno a lui, strappati dal brutale corno del colosso ed il suo corpo schiacciato, mostrava delle ferite spaventevoli dalle quali il sangue colava ancora abbondantemente. - Sembra quasi una focaccia, - mormorò Yanez. - Spero nondimeno di poter ancora trovare il perché aveva il diavolo in corpo. Ci deve essere qui sotto qualche bricconata. - Guardò a lungo il cadavere, poi slacciò la fascia del sottoventre e alzò la sella. - Ah! birbanti! - esclamò. Nella parte interna vi erano state confitte tre punte d'acciaio, lunghe un centimetro. - Ecco perché il povero animale era diventato furibondo, - riprese il portoghese. - Saltando in sella gli si erano conficcate nelle carni. Questo è un tiro del greco. Egli sperava che il rinoceronte mi sventrasse. No, mio caro, anche questa t'è andata a vuoto. Yanez ha la pelle più dura di quello che tu credi e, devo dirlo, anche una fortuna prodigiosa. Acqua in bocca per ora e lasciamo correre, ma ti giuro, birbante, che un giorno ti farò pagare, e tutto d'un colpo, i tuoi tradimenti. Già quell'altissimo ufficiale, che deve essere una tua creatura, mi era sospetto. - Caricò flemmaticamente la carabina e sparò, con un certo intervallo l'uno dall'altro, due colpi in aria. Le due detonazioni rombavano ancora sotto le infinite volte di verzura, quando vide giungere, a breve distanza l'uno dall'altro, i suoi fidi malesi seguìti dall'ufficiale del rajah. - Ecco fatto, - disse Yanez con una certa ironia, guardando l'indiano. - Come vedi la faccenda è stata sbrigata senza troppa fatica. - L'ufficiale rimase per qualche istante muto, guardandolo con profondo stupore. - Morto, - disse poi. - Non si muove più, - rispose Yanez. - Tu sei il più grande cacciatore di tutta l'India. - È probabile. - Il rajah sarà contento di te. - Lo spero. - Farò tagliare dai seikki il corno e tu stesso lo regalerai al principe. - Lo presenterai tu, così potrai avere una mancia. - Come vuoi, mylord. - Fammi condurre un altro cavallo, purché sia più docile del primo. Ne ha qualcuno troppo bizzarro il tuo signore. - L'ufficiale finse di non udirlo ed essendo in quel momento giunti i seikki accompagnati dal vecchio indiano, fece cenno a uno di loro di smontare. Yanez stava per montare in sella quando un'improvvisa agitazione si manifestò fra i seikki, seguìta quasi subito dalle grida: - Lo jungli-kudgia! ... Lo jungli-kudgia! - Yanez udendo dietro di sé aprirsi i cespugli si voltò rapidamente. Un animale che a prima vista sembrava un bisonte indiano, era comparso improvvisamente aprendosi il passo fra le liane e i nepenti. - Fuoco, amici! - gridò. I sei malesi, che avevano le carabine ancora cariche, fecero fuoco simultaneamente, non badando al grido mandato dal vecchio indiano: - Ferma! - Il ruminante colpito da cinque o sei palle stramazzò fra le erbe, senza mandare un muggito. - Sventura sui maledetti stranieri! - urlò il capo del villaggio slanciandosi verso l'animale che agonizzava e alzando le braccia verso il cielo. - Hanno ucciso la vacca sacra di Brahma! - Ehi capo, diventi matto? - chiese Yanez. - Se è per spillarmi un po' di rupie, sono pronto a pagarti la tua bestia. - Una vacca sacra non si paga, - rispose l'ufficiale del rajah. - Andate tutti al diavolo! - gridò Yanez che perdeva la pazienza. - Temo, mylord che tu dovrai fare i conti col rajah, perché qui, come in tutta l'India, una vacca è un animale sacro, che nessuno può uccidere. - Perché dunque i tuoi uomini hanno gridato lo jungli-kudgia? Sebbene non conosca profondamente la lingua indiana, quel nome lo si dà, se non erro, ai terribili bisonti della jungla, che non sono meno pericolosi d'un rinoceronte. - Si saranno ingannati. - Peggio per loro. - Mentre si scambiavano quelle parole, il vecchio indiano continuava a girare intorno al cadavere della vacca, manifestando la più violenta disperazione e vomitando una serqua infinita d'ingiurie contro gli uccisori dell'animale sacro. - Finiscila, cornacchia! - gridò Yanez, sempre più seccato. - T'ho liberato dal rinoceronte che guastava le tue piantagioni, e non cessi d'ingiuriarmi. Tu sei la più grande canaglia che abbia conosciuto da che sono nato. Se non ritiri la tua linguaccia da cane, ti farò bastonare dai miei uomini. - Tu non lo farai, - disse l'ufficiale del rajah con voce dura. - Chi me lo impedirebbe, signor ufficiale? - chiese Yanez. - Io, che qui rappresento il rajah. - Tu non sei, per me, che sono un mylord inglese, che un impiegato della corte, inferiore ai miei servi. - Mylord! - Vattene all'inferno, - disse Yanez, montando a cavallo. Poi volgendosi verso i malesi che guardavano ferocemente i seikki, pronti a caricarli al primo moto sospetto, disse a loro: - Torniamo in città; ne ho abbastanza di questo affare. - Mylord, - disse l'ufficiale, - gli elefanti ci aspettano. - Gettali nel fiume, non ne ho bisogno. - Fece salire dietro di sé il malese che gli aveva dato il cavallo e partì al galoppo, mentre il vecchio indiano gli urlava dietro ancora una volta: - Maledetti stranieri! Che Brahma vi faccia morire tutti! - Usciti dal bosco, le tigri di Mompracem si gettarono fra le piantagioni, senza badare se rovinavano più o meno l'indaco, e presero la via di Gauhati. Quando entrarono in città era ancora notte. Le guardie che vegliavano dinanzi al portone, si affrettarono ad introdurli nel vasto cortile d'onore, dove, sotto i porticati spaziosi, dormivano su semplici stuoie, scudieri e staffieri, onde essere più pronti ad ogni chiamata del loro signore. Yanez affidò a loro i cavalli e salì nel suo appartamento svegliando il chitmudgar. - Tu, signore! - esclamò il maggiordomo stropicciandosi gli occhi. - Non mi aspettavi così presto? - No, signore. Hai già ucciso il rinoceronte? - Sì, l'ho messo a terra con quattro colpi di carabina. Portami una bottiglia nella mia stanza, alcune sigarette e aspettami, ché devo chiederti importanti spiegazioni. - Sono ai tuoi ordini, sahib. - Yanez si sbarazzò della carabina, mandò i suoi malesi a coricarsi, poi raggiunse il chitmudgar, che aveva già accesa la lampada e messo sul tavolo una bottiglia di liquore ed una scatola di sigarette indiane, formate d'una foglia di palma arrotolata e di tabacco rosso. Vuotò un bicchiere di vecchio gin, poi sdraiatosi su una poltrona, gli narrò succintamente come si era svolta la caccia, dilungandosi solo sull'uccisione di quella maledetta vacca sacra, che l'aveva fatto uscire dai gangheri: - Che cosa ne dici tu ora di questo affare? - È una cosa grave, mylord - rispose il maggiordomo che appariva preoccupato. - Una mucca è sempre sacra, e chi l'uccide incorre in grandi fastidi. - Mi avevano detto che era un bisonte della jungla ed io ho comandato il fuoco senza guardarla bene. - Il chitmudgar scosse il capo mormorando: - Affare serio! affare serio! - Dovevano tenersela nel villaggio. - Tu hai ragione, mylord, ma il torto sarà tuo. - Quel capo è un vero furfante. Non gli ho ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del villaggio? Ah! e se in questa faccenda vi fosse sotto la mano del favorito del rajah? Le punte di ferro vi erano nella sella. - Non mi stupirei, - rispose il maggiordomo. - Io so che quell'uomo ti odia a morte. - Me ne sono già accorto e poi vorrà vendicarsi di quel colpo di scimitarra. - Certo, mylord. - Allora è stata ordita una vera congiura. Prima ha tentato di farmi sventrare dal rinoceronte, poi mi ha mandato la vacca sacra. Che fosse d'accordo anche il capo del villaggio? - È probabile, signore. - Per Giove! non mi lascerò mettere nel sacco. Vado a riposarmi e se prima di mezzogiorno il rajah manda qualcuno dei suoi satrapi, risponderai che dormo e che non voglio essere disturbato. Se insistono, lancia contro di loro i miei malesi. È ora di mostrare a quel cane di greco e a quell'ubriacone che serve, che un mylord non si lascia prendere a gabbo. Va', chitmudgar. - Spense la lampada e si gettò sul ricchissimo letto senza spogliarsi, addormentandosi quasi subito.

I PREDONI DEL SAHARA

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Su una vasta pianura che s'abbassava in forma d'imbuto, una numerosa carovana giaceva senza vita, abbattuta fra le sabbie. Uomini, cammelli, cavalli e asini, confusamente mescolati, in mezzo ad armi, a casse, a barili, a pacchi d'ogni forma e dimensione, ma sventrati e fracassati, riposavano insieme, nell'eterno sonno della morte. Un silenzio profondo, rotto solamente dal lugubre gridio degli uccelli da preda, volteggianti su quell'ecatombe, regnava in quell'immenso carnaio che l'ardente sole del Sahara aveva già cominciato a decomporre. "Che cosa è successo qui?" chiese il marchese, con voce strozzata. "Chi ha potuto causare la morte a questa carovana?" "I pirati del deserto, signore," rispose Ben Nartico, rabbrividendo. "Guardate! Il campo, dopo la vittoria dei briganti, è stato saccheggiato." "Ma quando?" "Forse da non più di ventiquattro ore." "Che i Tuareg si aggirino da queste parti?" "Tutto lo indica, marchese." "Fuggiamo, Ben! Fuggiamo!" "No, marchese: forse la morte di questa carovana ci salva." "Perché dite questo?" "Qui troveremo dell'acqua. Vedo un gran numero di otri dispersi fra le sabbie e non tutti saranno vuoti." "Non avrò il coraggio di mettere i piedi in questo carnaio," disse il marchese. "Vi manderemo i beduini." "Venite, Ben; quest'aria pestifera è pericolosa." Stavano per spronare i cavalli, quando in mezzo a quella distesa di morti udirono echeggiare un grido umano, rauco, straziante: "Acqua! Ac ... qua!" "Un uomo che vive ancora!" esclamò il marchese. "Ho ben udito io?" La medesima voce, più straziante di prima, s'alzò fra i morti: "Ac ... qua! Ac ... qua!" "Vi è un uomo da salvare," disse il marchese, profondamente commosso. Rifiutandosi i cavalli d'avanzare, scesero da sella, presero i fucili e si diressero verso il luogo ove avevano udito levarsi quel lamento. L'odore che esalava quell'ammasso di cammelli e d'uomini era tale, che il marchese fu costretto ad arrestarsi più volte. Dovunque v'erano gruppi di morti coperti di ferite. Molti erano stati già decapitati, avendo l'abitudine quei feroci predoni di sospendere alle selle dei loro rapidi mehari le teste dei vinti nemici, onde mostrarli alle donne delle loro tribù, come prove del loro indomito valore. Perfino i cammelli non erano stati risparmiati e se ne vedevano moltissimi coricati gli uni addosso agli altri e uccisi a colpi di fucile, tirati forse a bruciapelo. "Che macello!" esclamò il marchese. "Ah! Sono ben terribili quei Tuareg! ... " "Quando escono dai loro inaccessibili covi, portano dovunque la strage," rispose Ben Nartico. "Guai allora alle carovane che incontrano sul loro cammino e che osano tentare la resistenza!" "Forse questi disgraziati marocchini, fidando nelle proprie forze e nel proprio numero, hanno tentato di far fronte all'assalto di quei briganti e hanno pagato colla morte il loro coraggio." "Ac ... qua! ... Ac ... qua!" ripeté in quell'istante la voce, con un accento così disperato che il marchese si sentì correre un brivido per tutte le ossa. Erano allora giunti presso una duna dietro la quale si vedeva un gruppo di dodici o quindici marocchini, che dovevano aver opposto una vigorosa resistenza. Tutto intorno le sabbie erano inzuppate di sangue e s'aggiravano dei brutti avvoltoi, i quali di quando in quando si gettavano su quei cadaveri, staccando dai volti lunghi brandelli di carne. Il marchese, dato uno sguardo su quei miseri, le cui ossa dovevano rimanere insepolte, a calcinarsi lentamente sotto la pioggia di fuoco del sole africano, stava per salire una seconda duna, quando a pochi passi, su un terreno scoperto, vide sorgere e dimenarsi una testa umana e quasi contemporaneamente udì una voce lamentevole, strozzata ripetere per la quarta volta: "Ac ... qua! ... Ac ... qua!" Il marchese e Ben Nartico si erano precipitati innanzi, mandando un grido di sorpresa e d'orrore. Un essere ancora vivo, forse l'unico superstite di quell'ecatombe, stava dinanzi a loro, sepolto nella sabbia fino al collo, avendo davanti a sé, fuori di portata dalle labbra, un vaso contenente ancora un pò d'acqua. Quel disgraziato, che i feroci Tuareg avevano condannato al supplizio di Tantalo, per farlo morire di sete coll'acqua dinanzi agli occhi, aveva il volto spaventosamente alterato, le labbra screpolate e contratte e le orbite orribilmente dilatate. Vedendo comparire il marchese e Ben, le sue pupille, che avevano strani bagliori, si fissaron su di loro, con terribile ansietà ed insieme paura. "Acqua! ... " gridò. Non era più una voce umana, era un vero ruggito di belva. Poi era rimasto immobile, cogli occhi sempre spaventosamente fissi sui due salvatori, mentre le sue mascelle s'abbassavano lentamente con un lugubre crepitio. "Disgraziato!" esclamò il marchese. "Quei mostri non potevano immaginare un supplizio più atroce!" S'armarono entrambi d'una di quelle larghe sciabole che avevano veduto presso i marocchini e si misero a scavare febbrilmente la sabbia. Ad un tratto, quando già Ben ed il marchese l'ebbero quasi disseppellito, parve che acquistasse tutto d'un colpo l'elasticità delle membra. Con uno scatto improvviso, fulminea, e prima ancora che il marchese avesse pensato a trattenerlo, si era slanciato fuori da quella buca che avrebbe dovuto servirgli da tomba, gettandosi sul vaso. Afferrarlo e vuotarlo d'un fiato, fu la questione d'un secondo. "Fermatevi!" aveva gridato il marchese. "Vi ucciderete! ... " Era troppo tardi. Il liquido era ormai scomparso ed il disgraziato era piombato al suolo come se fosse stato toccato da una bottiglia di Leyda. "Morto?" chiese Ben. "Forse no." Il marchese si era curvato sul pover'uomo, posandogli una mano sul petto. "Il suo cuore batte ancora," disse. "Trasportiamolo al campo e cerchiamo di salvarlo. Un uomo di più non ci sarà di peso, specialmente ora che abbiamo la speranza di trovare degli otri pieni d'acqua." "Ve ne saranno qui," rispose Ben. "Ai Tuareg premono le merci e le armi e non già l'acqua. Sanno dove si trovano i pozzi e ne hanno in abbondanza." Presero il disgraziato per le gambe e per le braccia e si diressero verso i cavalli. Era un uomo di trent'anni, magrissimo, di statura piuttosto alta, colla pelle abbronzata ed i lineamenti molto più regolari di quelli che si riscontrano ordinariamente fra gli abitanti del Sahara. Due piccoli baffi, piuttosto radi, gli ombreggiavano il labbro ed il mento portava un lungo pizzo simile a quello che usano avere gli algerini soggetti alla Francia. Anche le vesti che indossava erano diverse da quelle dei cammellieri delle oasi e dei marocchini: aveva larghi calzoni di stoffa rossa, casacca di panno azzurro con alamari pure rossi e alle gambe alte uose di tela. "O m'inganno assai o quest'uomo è qualche algerino," disse il marchese. "Se non muore, sapremo chi è." Quando giunsero ai cavalli, lo caricarono sull'animale più docile e s'affrettarono a giungere al campo, dove Esther e Rocco li aspettavano con viva impazienza, tenendo in freno i beduini che la sete aveva reso furiosi. Appena questi ultimi appresero la notizia del massacro, si slanciarono all'impazzata verso il campo della morte, spinti un po' dall'avidità del saccheggio, ma soprattutto dalla speranza di trovare ancora dell'acqua negli otri della carovana. Intanto il marchese, fatta rizzare una tenda e stendere alcuni tappeti, aveva coricato il moribondo, il quale continuava a dare pochi segni di vita. Poscia, aiutato da Rocco e da Ben, gli aprì i denti che teneva chiusi con forza suprema e gli versò fra le inaridite fauci alcune gocce di vecchio cognac. Un sonoro sternuto, accompagnato da una smorfia spasmodica, fece capire al marchese che l'ultimo superstite del massacro non era così malandato come credeva. "Quest'uomo deve essere di ferro," disse. "Lo credevo moribondo, mentre invece mi ha l'aria di voler risuscitare molto presto." Gli fece inghiottire a più riprese parecchi cucchiai d'acqua zuccherata, lo coprì con un caic e lo lasciò tranquillo. Quando uscì in compagnia di Esther, vide i due beduini ed il moro ritornare carichi di otri gonfi d'acqua. "Padrone, siamo salvi!" gridò El-Haggar, precipitandosi verso il marchese. "Prendete, bevete senza risparmio, vi è acqua in abbondanza laggiù." "Hai riconosciuto nessuno di quei morti?" chiese il marchese, dopo essersi dissetato abbondantemente. "No, signore," rispose El-Haggar. "Credi che i Tuareg si siano allontanati?" "Lo suppongo, signore. Devono aver fretta di mettere in salvo le merci prese." "Quanti uomini componevano la carovana, secondo i tuoi calcoli?" "Dovevano essere per lo meno duecento," rispose il moro. "Allora i Tuareg erano moltissimi." "Talvolta si radunano in parecchie centinaia per dare addosso alle grosse carovane. Una volta ho veduto una banda forte di cinquecento cavalieri." "Che tornino qui?" chiese il marchese. "È probabile che vengano a raccogliere il resto, armi e oggetti," disse El- Haggar. "Sarebbe quindi un'imprudenza fermarci qui." "Sì, signore. Non spira buon'aria per noi, qui." "Vi sono degli altri otri da raccogliere?" domandò Ben. "Ne abbiamo veduti molti," rispose il moro. "Andiamo a prenderli," disse Rocco. "L'acqua è troppo preziosa per lasciare che la beva il sole. Condurremo con noi quattro cammelli e vi raggiungeremo più innanzi." "Spicciatevi dunque," disse il marchese. "Ci accamperemo più al sud." Mentre Rocco, El-Haggar ed i beduini partivano pel campo della morte, il marchese, Esther e Ben abbeveravano gli animali per rianimarli, poi caricarono sul cammello coperto dalla tenda il supposto algerino, senza che quel disgraziato avesse riaperto gli occhi. "Partiamo," disse il marchese. "Ben, Esther, i fucili in mano, non si sa mai quello che può accadere." Radunarono i cammelli, girarono al largo dal campo della morte e si diressero verso il sud-ovest, passando fra due altissime file di dune, le quali serpeggiavano capricciosamente attraverso il deserto. Avendo scorto, parecchie miglia più a mezzodì, una specie di bastione roccioso, volevano raggiungerlo e stabilire colà il loro accampamento, onde poter dominare un vasto tratto del Sahara e quindi evitare una sorpresa da parte dei feroci predoni. Una mezz'ora più tardi Rocco, i beduini ed El-Haggar li raggiungevano coi quattro cammelli. Avevano raccolto quattordici otri quasi tutti pieni d'acqua, provvista sufficiente per permettere di raggiungere Marabuti senza correre il pericolo di dover provare ancora le atroci torture della sete. Alle due del mattino la carovana giungeva finalmente dinanzi all'ammasso di rocce che aveva scorto in lontananza. Era una collinetta isolata, formata da rupi addossate le une alle altre, con spaccature e piccole caverne, che poteva servire da cittadella nel caso d'un attacco da parte dei predoni. "Riposiamoci qui qualche giorno," disse il marchese. "Ora che l'acqua non ci fa difetto, possiamo permetterci questo lusso." Scaricarono i cammelli, rizzarono le tende, circondandole colle casse e si accamparono. L'algerino fu levato di peso e portato sotto una piccola tenda che era stata addossata alla rupe. Non si era ancora risvegliato; però il suo sonno era tranquillo e la sua respirazione era diventata regolare. "Domani questo diavolo d'uomo sarà in piedi," disse il marchese. Mentre Rocco ed El-Haggar preparavano la cena ed i beduini raccoglievano alcune bracciate di sterpi, che crescevano tra le fessure delle rupi, il marchese, Ben ed Esther salirono la collinetta dalla cui cima potevano abbracciare una vasta estensione di deserto. Essendo la notte chiara e l'orizzonte limpidissimo, era facile scoprire un uomo od un cammello ad una distanza straordinaria. "Non si scorge nessun essere vivente," disse Ben, il quale aveva raggiunto pel primo la cima. "Non vedo che dune di sabbia e laggiù delle bande di uccelli di rapina che si dirigono verso il campo della strage." "Che i Tuareg abbiano i loro duar molto lontani?" chiese il marchese. "Vi ripeterò ciò che vi ha detto il vecchio Hassan: le distanze non si calcolano nel deserto ed i Tuareg non si spaventano a scorrazzare anche a cinque o seicento miglia dalle loro oasi." "Dove saranno andati? A levante, ad occidente o al sud? Temo di trovarli sulla nostra via." "Dio ci guardi da un tale incontro, marchese. Quei ladroni non ci risparmierebbero, soprattutto voi e Rocco che siete per loro degli infedeli." Accertatisi che pel momento nessun pericolo li minacciava, ridiscesero la collinetta e rientrarono nel campo dove li attendeva la cena. Mezz'ora dopo tutti dormivano sotto la guardia di El-Haggar a cui spettava il primo quarto.

Le sabbie si agitavano in tutti i sensi e i cammelli ed i cavalli s'alzavano gridando e nitrendo sonoramente, poi anche una tenda, che pareva fosse stata abbattuta, si sollevò ed il moro ed i due beduini comparvero, scuotendosi di dosso la polvere. "Voi, signore!" esclamò El-Haggar, scorgendo il marchese. "Solo! ... E gli altri? ... " "Non sono tornati qui Ben e Rocco?" chiese il signor di Sartena, tornando ad impallidire. "Non li abbiamo veduti, signore." "Che siano stati sepolti dalle sabbie?" "Non erano con voi?" "Sì, ma poi non li ho più riveduti. Le trombe di sabbia ci avevano divisi." "E la signorina Esther? Perduta anch'essa?" "È al sicuro." "Avete raggiunto le caverne della roccia?" "Sì, El-Haggar; io ed Esther siamo stati anche rinchiusi dalle sabbie." "Forse ugual sorte è toccata anche a Ben Nartico ed al vostro servo," disse il moro, dopo un momento di riflessione. "Conoscete quelle caverne?" "Mi ci sono rifugiato parecchie volte, signore." "Quante sono?" "Quattro." "Vicine l'una all'altra?" "No, signore." "Lasciamo che i beduini s'incarichino della carovana. Prendete delle corde, montate un cavallo e seguitemi senza indugio." Un momento dopo, l'uno sul mehari e l'altro sul miglior cavallo, lasciavano la carovana, dirigendosi verso l'enorme ammasso di rocce. Quando scalarono la piattaforma e si curvarono sullo squarcio, trovarono la coraggiosa fanciulla seduta in mezzo alla caverna, col fucile sulle ginocchia. Due solide funi unite alle due estremità da una traversa di legno furono calate, e l'ebrea fu felicemente innalzata fino sulla rupe, assieme ai due otri, troppo preziosi per lasciarli nella caverna. "Marchese," diss'ella, quando rivide la luce, "a voi devo la vita." Il signor di Sartena non rispose, ma le sorrise guardandola a lungo negli occhi.

La virtù di Checchina

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Checchina camminava piano, ancora abbattuta dallo scorno di aver dovuto dire tutto, parendole oramai tutto fosse finito, poichè un'altra lo sapeva, poichè ella aveva avuto la debolezza di pronunziare quel nome. Quando voltò in via Santi Apostoli, dette uno sguardo alla chiesa e, passando, urtò il cancello, era chiuso. Dinanzi al grande palazzo Odescalchi una carrozza stemmata stava ferma: era vuota, aspettava qualcuno. Poi, dall'altro marciapiede, Checchina vide l'arco e dopo l'arco, due botteghe, e poi la porticina, con uno scalino. Ma sulla soglia, sbarrando la metà dell'entrata, appoggiato al muro, vi era il portinaio, un uomo alto e grosso, dalla faccia volgare e irsuta di peli bigi, con un fazzoletto di lana rossa al collo e un berretto con la visiera, messo un po' di traverso. Fumava la pipa, guardando in aria. Di botto, sul marciapiede dirimpetto, Checchina si fermò, senza poter attraversare la via. Per entrare nella porticina, bisognava domandare al portinaio di poter entrare, chiedergli se il marchese d'Aragona era su e poi passare. Ella riunì tutte le sue forze, per far questo tentativo, ma a mezza via si fermò di nuovo. Il portinaio aveva un viso brutto e brutale, una di quelle facce irriverenti che disanimano i timidi. Ella arrivò sino dal tappezziere Reanda, cercando di farsi coraggio e attraversò la strada. Passò innanzi alla porticina, non levando gli occhi sul portinaio: eppure vide che costui la squadrava, sfacciatamente. Essa arrivò di nuovo sino alla chiesa: e si voltò a guardare le finestre, disperatamente, come se chiedesse aiuto. Le imposte verdi erano chiuse, il marchese lo aveva detto, che lui amava l'ombra. Allora ella rifece la strada, dal palazzo Odescalchi sino al caffè, all'angolo di via Nazionale, ripassando lentamente innanzi alla porticina. Il portinaio leggeva un biglietto del lotto, con una cèra collerica, ma non si muoveva. Ella non entrò. Per la terza volta, ritornando verso il palazzo Odescalchi, ella ripassò: egli ricaricava lentamente la pipa, premendo il tabacco col pollice - nè si levava dalla soglia. Allora Checchina abbassò il capo e se ne andò a casa rinunziando. In Roma, dicembre 1883.

LEGGENDE NAPOLETANE

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Serao, Matilde 1 occorrenze

Donna Romita china il capo, abbattuta; ancora non ha avuto il tempo di esser giovane e già si sente irresistibilmente attirata dalla morte. Esse s'inchinano a Donna Regina ed ella rende loro il saluto. - Parlate anche per me, Donnalbina - mormora a bassa voce Donna Romita. - Veniamo a dirvi, sorella nostra - prende a dire Donnalbina - che dobbiamo dividerci. Regina non trasalisce, non batte palpebra, aspetta. - È mia intenzione, è intenzione di Donna Romita, dare una metà della nostra dote ai poveri e l'altra parte dedicarla alla fondazione di un monastero, dove prenderemo il velo. - Ogni monaca di casa Toraldo ha diritto di diventare badessa nel monastero che ha fondato - rispose Regina con tono severo. - Sia pure. Attendiamo le vostre risoluzioni, sorella. Ella non rispose. Pensava, raccolta in se stessa. - Siateci generosa del vostro consenso, Donna Regina. Troppo vi offendiamo, è vero… - Desistete - fece quella con un moto di fastidio. - Non desistiamo, no - riprese Donnalbina, affannandosi. - Dio e voi offendemmo. Grave il peccato, grave l'espiazione. Ecco, ancora non giunsero per noi i venti anni e noi abbandoniamo questo mondo così bello, così ridente; noi lasciamo la nostra casa, le nostre dolci amiche, e care abitudini; lasciamo voi, sorella amata, per quanto offesa. Il chiostro ne aspetta. a voi l'onore di conservare il nostro nome, a voi le liete nozze, l'amore dello sposo, il bacio dei figliuoli… - Voi v'ingannate, o sorella - rispose Donna Regina lentamente. - È da tempo che ho deciso prendere il velo in un convento da me fondato. Un silenzio tristissimo segue le infauste parole. - Io non posso sposare Filippo Capace - riprese ella, mentre una vampa di sdegno le correva al viso. - Egli mi odia. - Ahimé! io gli sono indifferente - mormorò Donnalbina. - Io anelo al chiostro. Egli mi ama - pronunziò con voce rotta Donna Romita. E le due sorelle baciarono Donna Regina sulla guancia e ne furono baciate. - Addio, sorella mia. - Addio, sorella mia. - Addio, sorelle. Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano torchiato d'oro, e lo franse in due pezzi. E rivolgendosi al ritratto dell'ultimo barone Toraldo, gli disse inchinandolo: - Salute, padre mio. La vostra nobile casa è morta! Non hanno parole le brune vòlte dei monasteri, la pallida luce dei cere trasparenti, il profumo eccessivo e pesante dell'incenso, la profonda voce dell'organo, le bige pietre sepolcrali; non han parola le fredde celle, il nudo e duro letto dove è scarso il sonno, il cilicio sanguinoso, le pagine distrutte dalle lagrime, i crocefissi distrutti dai baci; non han parola i volti ingialliti, gli occhi cerchiati di nero, i corpi consunti, ma rianimati sempre da una fiamma rinascente; non han parola le convulsioni spasmodiche, le allucinazioni, le estasi dolorose. Altrimenti storie meravigliose e drammatiche sarebbero narrate al mondo; altrimenti noi sapremmo tutta la vita delle tre sorelle; altrimenti noi sapremmo il giorno che finì la loro tortura. Ma il giorno, che importa? Sappiamo noi se dopo non si ami ancora? Finisce, forse, l'amore? Noi non possiamo, non possiamo segnare il suo ultimo giorno, né la sua ultima parola.

IL PAESE DI CUCCAGNA

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Serao, Matilde 3 occorrenze

Inchiodato dalla morbosa curiosità, il marchese si tenea ritto presso il letto, spiando, al lume della lampada, ogni gesto, ogni atto della sua figliuola, abbattuta su quel letto di dolore. A un tratto, come per una scossa elettrica, le mani della fanciulla brancicarono convulsivamente la coltre: un grido rauco le uscì dalla strozza. - Che è? - gridò il marchese, scosso anche lui. - È lo spirito, lo spirito, - balbettò lei, con la voce cambiata di tono, profonda, cavernosa. - Dove è? - disse il padre, sottovoce. - Sulla soglia, è là, guardatelo, - disse ella, fermamente, energicamente, sbarrando gli occhi verso la porta. - Non vedo niente, niente, sono un povero peccatore! - gridò disperatamente il marchese Cavalcanti. - Lo spirito è là, - sussurrò lei, quasi che nulla avesse inteso. - Come è vestito? Che fa? Che dice? Bianca, Bianca, pregalo! - È vestito di bianco...non si muove... non dice nulla, - mormorò ella, parlando in sogno. - Pregalo, pregalo che ti parli, tu sei innocente, Bianca! - Non parla... non vuol parlare. - Bianca, scongiuralo, per il nostro Dio, per la sua forza, per la sua potenza Tacquero. Tutta l'intensa attenzione del marchese Cavalcanti era su quella porta, dove solo sua figlia vedeva lo spirito, mentre tutto l'animo di lui era una preghiera. Ella giaceva, sempre più affannata, mentre le ardenti mani sottili stringevano convulsivamente, fra le dita, le pieghe del lenzuolo. - Che dice? - Nulla, dice. - Ma perché non vuol parlare? Che è venuto a fare, se non vuol parlare? - Non mi risponde, - replicò lei, sempre con quella voce, che pareva venisse da una profonda lontananza. - Ma che fa? - Mi guarda... mi guarda fisamente... ha gli occhi così tristi, così tristi... mi guarda con pietà; perché mi guarda così, come se fossi morta? Sono forse morta, io? - Ora andrà via, senz'averti detto niente! - urlò il marchese di Formosa. - Domandagli che numeri escono, domani! La figliuola emise un lamento straziante. - Mi pare che pianga, adesso, quasi che io fossi morta, questo mi pare. Gli scendono le lacrime sulle guancie... - Il pianto, sessantacinque, - disse Formosa a se stesso, come se temesse che qualcuno lo udisse. - Leva la mano, per salutarmi... - Guarda quante dita solleva, guarda bene, non ingannarti! - Tre dita: mi saluta, mi saluta, se ne vuole andare.. - Digli che ritorni, pregalo, pregalo... - Accenna col capo di sì, - riprese, dopo una lieve pausa Bianca Maria, - se ne va, se ne è andato, è scomparso... - Lodiamo Iddio, - gridò Cavalcanti, inginocchiandosi ai piedi del letto. - Tre le dita, inque la mano, essantacinque il pianto, isogna sapere che numero fa la fanciulla morta, ingraziamo il Signore!... - Sì, sì, - mormorò la ragazza, con accento bizzarro, - bisogna che vediate quanto fa la fanciulla morta .. ..bisogna saperlo... - Lo sapremo, lo sapremo, - esclamò Formosa, ridendo come un folle. Non pensava più a sua figlia, la cui febbre era arrivata al più alto grado, con la violenza delle effimere he pare vogliano portare via in ventiquattr'ore un'esistenza. Ella affannava, bevendo l'aria dalla bocca schiusa, simile a un uccelletto che muore: il sangue batteva così precipitosamente alle pareti delle vene che sembrava le spezzasse, e tutto quel fragile corpo abbruciava come un ferro rovente. Invece, il marchese di Formosa era in preda a una impazienza giovanile: due volte era andato alla finestra, per vedere se spuntava il giorno; ancora qualche ora da aspettare, per andare a giuocare il biglietto dello spirito. Pensava di non aver più denaro: come avrebbe giuocato? Non una lira, era una cosa feroce, questa continua sete che nulla arriva a soddisfare! Oh, ma li avrebbe trovati i denari per giuocare, avesse dovuto vendere gli ultimi mobili di casa e mettere in pegno la propria persona; li avrebbe trovati, perdio, ora che la rivelazione era stata fatta, ora che lo spirito assistente si era degnato entrare nella sua casa! La sua fortuna era nelle sue mani, ci avrebbe rimesso tutto, per giuocare tutto sul biglietto dello spirito. Oh! Ecce Homo, Ecce Homo i casa Cavalcanti, eravate stato voi a fare quella grazia, per voi ci voleva una cappella apposta e quattro lampade di argento massiccio, sempre accese, in memoria della grazia che avevate fatto. I denari li avrebbe fatti trovar anche lui, l' Ecce Homo, l buono e potente Ecce Homo, rotettore della casa: i denari, i denari per giuocare! E trascinato dal suo fervido, appassionato pensiero, il marchese Cavalcanti parlava ad alta voce, passandosi la mano nei capelli, gesticolando, dandosi a girare nella stanza, come un pazzo. Sottovoce, poiché le mancava il respiro, Bianca Maria continuava a delirare, con dolcezza, parlando a frasi vaghe, nominando adesso Maria degli Angioli o parlando ogni tanto, con una infinita malinconia, di un fresco e ridente paese di campagna, di un paese verde dove avrebbe voluto andare a vivere, laggiù, lontano, lontano. Ma il vecchio, infuocato dall'attesa, non ascoltava più sua figlia e mentre l'alba fredda di marzo sorgeva, in quella stanza si confondevano i due delirii, del padre e della figliuola, tragicamente. Alla livida e glaciale luce dell'alba, pallido e con gli occhi stralunati, il marchese di Formosa girava con passo vacillante pel suo appartamento, cercando nei cassetti vuoti e sui rari mobili, qualche cosa da vendere o da impegnare. Non trovava nulla e con le mani brancolanti tornava ad aprire i cassetti, battendoli forte, macchinalmente, e si guardava attorno con la follia nello sguardo, pensando di voler vendere o impegnare le nude mura di quella casa che era stata sua. Nulla, nulla! A poco a poco, divorati dal giuoco del lotto, erano scomparsi i gioielli di immenso valore, le pesanti argenterie antiche e moderne, i quadri dei grandi pittori, i libri preziosi, le rarità artistiche di bronzo, d'avorio, di legno scolpito: la casa si era denudata, rimanendovi solo i mobili che sarebbe stato vergognoso voler impegnare o vendere. Ahi, che non trovava nulla per far denaro, per giuocare i numeri dello spirito. Egli si torceva le mani dalla disperazione, mentre aveva lasciata Bianca Maria nel sopore affannoso, febbrile, in cui ancora qualche confusa parola le sfuggiva, mentre i due vecchi servi ancora dormivano. Entrò finanche nella cappella, come un pazzo: ma le lampade che vi ardevano, erano di ottone: ma le frasche, ull'altare, egli stesso le aveva comprate, di metallo in imitazione d'argento, quando aveva venduto quelle di argento vero: pensò per un momento a prendere la coroncina di argento dal capo della Madonna Addolorata e di toglierle dal cuore quelle sette spade d'argento, le piccole spade che raffigurano i dolori della Gran Madre straziata, ma lo trattenne un timore mistico. Uscì, senz'aver potuto neppur dire una preghiera, tanto lo tenea, in quell'alba, l'allucinazione della notte, e la fretta febbrile della mattinata di sabato. Pensava, ora, a chi avesse potuto chieder denaro in prestito: ma non trovava la persona e si stringeva le tempie tumultuose fra le mani, per concentrarsi, per arrivare a ottenere lo scopo. Tutti gli amici del suo ceto, i suoi larghi parenti, dopo la morte di sua moglie, si erano allontanati da lui, ma solo dopo che egli li aveva messi a contribuzione, tutti quanti, per giuocare. Gli amici di adesso? Tutti giuocatori: tutti, in quella mattina, faceano dei tentativi disperati per giuocare ancora, e non prestavano, certo, denaro, ognuno pensava a sé, cercava per sé. Amici nuovi? Quella passione non gliene aveva fatti trovare, fuori di quella morbosa cerchia di pazzi, dannosi come lui. E ci voleva molto denaro, molto, poiché lo spirito si era degnato di rivelarsi: bisognava far fortuna in quel giorno, o mai più. A un tratto, un lampo di luce lo colpì: un nome gli si era affacciato alla mente. Costui gli potea dare del denaro; era un galantuomo, ne avea molto, del denaro, non avrebbe rifiutato un piccolo prestito a un Formosa. E mentre, seduto presso la sua scrivania, sopra un foglietto strappato da un taccuino pieno di cifre, egli scriveva al dottor Antonio Amati, pensava che non era vergogna quel prestito chiesto a un estraneo, poiché egli avrebbe restituito quel denaro la sera istessa. uando ebbe scritto, un pensiero lo fece tremare: e se Amati dicesse di no? Era un indifferente, un estraneo, il denaro indurisce tutti i cuori. - Porta questa lettera al dottor Amati e torna qui - egli disse a Giovanni, che si era presentato, mal desto, al suono del campanello. - Dormirà... - Porta! - comandò Formosa. E si mordeva le labbra, adesso, sicuro che Amati avrebbe rifiutato, sentendo il rossore della vergogna salirgli alle guance. Ma doveva aver denaro, ne doveva avere, a qualunque costo! Buttato sulla poltrona, guardando, senza vederle, le cifre scritte sulle carte disperse sulla scrivania, egli si sentiva vincere da quella collera irrefrenabile della passione, alle prese con la realtà. - Quando si sveglia, darà la risposta, - disse Giovanni, rientrando, e aspettando in silenzio gli ordini del suo padrone. - Giovanni, dammi l'altro denaro che hai, - disse sordamente Formosa. - Non ne ho, Eccellenza... - rispose l'altro, assalito da un tremito. - Non dir bugie: hai altre cinquanta lire, dammele subito... - Eccellenza, le ho prese in prestito da un usuraio, debbo restituirle a tanto la settimana, non me le togliete... - Non me ne importa niente, - disse superbamente Carlo Cavalcanti. - Non me le togliete, Eccellenza, se sapeste a che servono... - Non me ne importa niente, - replicò ferocemente il marchese. - Dammi le cinquanta lire... - Servono per far mangiare la marchesina... - Non me ne importa niente! - urlò Formosa. - Quando è così, ubbidisco, - disse disperatamente il servo. E cavò le altre cinquanta lire; il marchese le afferrò con l'atto di un ladro e se le mise in tasca rapidamente. - Tua moglie anche ha denaro, cercaglielo, - riprese Cavalcanti, freddamente. - Chi glielo ha dato, a mia moglie? - Ne ha: fattelo dare e portalo qui. Risparmiami una scena. Se tua moglie nega, potete andarvene dalla mia casa, subito. - Nossignore, nossignore, Eccellenza: vado subito, - disse umilmente il servo. Ma di là, vi fu la scena. Il dialogo fra marito e moglie fu lungo, agitato, la donna non voleva lasciarsi portar via il denaro: gridava piangeva, singhiozzava. Alla fine vi fu un silenzio: e poi come un lamento. Giovanni rientrò, con la vecchia faccia sconvolta, più curvo, quasi colpito da un tremor paralitico. E deponendo altre cinquanta lire sulla scrivania, in silenzio, con gli occhi rossi delle scarse e brucianti lacrime dei vecchi, egli colpì tanto il marchese, che costui, placato a un tratto, disse bonariamente: - Sono trecento lire, fra ieri sera e stamattina: stasera avrete tutto. - E il pranzo di oggi? - Verrò io, alle quattro, disse vagamente il marchese. - La signorina è ammalata, vorrà un po'di brodo, stamane - mormorò il servo. Allora, cercandosi in tasca, con la smorfia dolorosa dell'avaro, il marchese di Formosa diede tre lire al servo, seguendole con lo sguardo avido. Avevano bussato, Formosa trasalì, era la risposta del dottor Amati: non importa, adesso, se diceva no! Ma come ebbe nelle mani la busta, alla divinazione del tatto comprese che i denari chiesti vi erano, e rosso di gioia, si mise la busta in tasca senz'aprirla. Usciva, adesso, usciva alle otto del mattino, come se lo portasse un soffio irresistibile: usciva senza voltarsi indietro, a guardare la figlia inferma, la sua casa nuda, i suoi servi piangenti che gli avevano dato tutto, il suo vicino a cui egli non aveva pagato le visite e a cui aveva osato chieder del denaro in prestito: usciva, portando seco trecentocinquanta lire, che avrebbe messe tutte sul biglietto dello spirito, mentre aveva lasciato digiuni i due poveri vecchi servi, e aveva lesinato sopra un po'di brodo per Bianca Maria. Niuno lo rivide, in casa, sino al pomeriggio. La fanciulla era restata a letto, vinta dalla febbre, ardendo, respirando faticosamente chiedendo ogni tanto da bere, niente altro. Margherita si era seduta accanto al letto, dicendo mentalmente il rosario, due o tre volte, per lasciar passare le ore: e ogni tanto metteva la mano sulla fronte dell'inferma, sgomentandosi del calore. La malata taceva: dormiva, con la respirazione oppressa. A un tratto, aprendo gli occhi, disse nitidamente a Margherita: - Chiamami il dottore... - Ora non sarà in casa. - Quando ritorna... E richiuse gli occhi. Il dottore non venne che alle quattro e mezzo. Si fermò sulla soglia della cameretta, odorando l'aria di febbre. - Potevate chiamarmi prima, - disse ruvidamente a Margherita. - Oh Vostra Eccellenza, se potessi dirvi. Egli le ordinò di tacere. La malata lo guardava coi suoi belli e dolci occhi, sbarrati, e gli tendeva la mano. E il forte uomo, dalla testa poderosa, dalla faccia genialmente brutta, prese, innanzi a quella fragile creatura, quella profonda aria di tenerezza che gli sgorgava spontanea dal cuore. Il medico sentì subito che quella febbre sarebbe finita: già decadeva, con la rapidità delle effimere: ma a lui restava confitta in cuore la spina di quella povera esistenza, traballante fra la vita e la morte, vinta da un morbo di cui egli non trovava le cause. - Ora vi ordino una medicina, - disse lui, dolcemente, alla malata, tenendone la mano fra le sue. - No - disse lei, piano. - Non la volete? - Ascoltate, - disse lei, attirandolo a sé, per farsi udir meglio. - Portatemi via. Tremava, dicendo questo. Antonio, improvvisamente pallido, colpito da una emozione indicibile, non potette neppure risponderle. - Portatemi via, - soggiunse ella, umilmente, come se lo supplicasse. - Sì, cara, cara, - balbettò lui. - Dove voi volete, subito... - In campagna, lontano, - sussurrò la poveretta, - dove non si vedono fantasmi, nella febbre, dove non ci sono ombre, né spettri paurosi... - Che dite? - disse lui, sorpreso. - Niente, portatemi via... in campagna, fra il verde, nella pace, con vostra madre... innanzi a Dio. - Oh cara, cara... - non seppe dire altro, il grande uomo, nel turbamento supremo, nella suprema dolcezza di quell'idillio. - Lontano... - mormorò, ancora ella, guardandolo coi grandi occhi buoni. E soli, dolcissimamente, castamente, senza parlarne, parlavano d'amore.

Ma Carmela, anche quando donna Concetta si era allontanata, conservava il brivido di vergogna che le davano quella voce aspra, quelle parole offensive; e stanca, abbattuta, senza un centesimo in tasca, dopo una giornata di lavoro, ella tornava a invidiate sua madre che era morta. Certo anche lei aveva quel vizio del giuoco, ma era a fin di bene, per dar denaro a tutti, per far felici tutti, se guadagnava; si faceva cavar le lire da Raffaello, o'Farfariello: a che per questi peccati veniali dovesse esser così duramente punita, le rodeva l'animo. Ah in certe giornate, in certe giornate, come volentieri si sarebbe buttata nella cisterna del grande palazzo, dove era la Fabbrica, per non udire niente, per non sentire niente più. Ma donna Concetta, non dissetata da quella goccia di acqua, che erano i pochi soldi di Carmela, risalendo a casa sua, prima di entrare nel portoncino, ogni sera, si affacciava al basso el vico Rosariello dove abitava Annarella; costei stava seduta presso il letto, spesso all'oscuro, non avendo da comperar l'olio, dicendo il rosario con sua figlia Teresina: donna Concetta si segnava e aspettava che il rosario fosse finito, per chiedere i suoi quattrini, inutilmente, come accadeva ogni giorno: Annarella non sapeva fare altro, che rispondere con qualche sospiro, con qualche lamento: e quando donna Concetta dava in escandescenze, ella si metteva a piangere. Teresina interveniva, parlando all'una e all'altra donna: - Non piangete, mammà, fatemi questa finezza… E all'usuraia: - Non lo vedete, donna Concettella, che mammà non ha denaro? - Figlia mia, figlia mia… - singhiozzava Annarella, a cui tutte le disgrazie della sua esistenza venivano a soffocare le parole. La strozzina non si lasciava commuovere. Era tanto abituata alle false lacrime di coloro che volevano truffare il suo denaro, che non credeva più a nessun dolore, ed era solamente quando aveva esaurito tutto il suo vocabolario d'ingiurie, che si decideva ad andarsene, lentamente, con quel suo passo pieno di mollezza, borbottando ancora che si sarebbe fatta giustizia con le sue mani, contro i ladri del sangue suo. a madre e la figliuola restavano sole, al buio, in quel caldo afoso e umidiccio del basso, e rispondendo a un suo pensiero interiore la povera serva esclamava: - Anima di Peppiniello, fammela tu questa grazia! Quando poi Carmela e Annarella si trovavano insieme per la via, o nel basso el vicolo Rosariello, era un lungo sfogo di dolori, era un racconto alternato, dove scoppiavano tutte le amarezze fisiche e morali della loro triste esistenza. Quella bonafficiata, he mala sorte, che sorte infame, non mai dare un quattrino di vincita e invece prender loro tutto, tutto, anche il tozzo di pane che serve a non morire d'inedia! E ogni tanto, attraverso tutta la narrazione della loro miseria e della loro solitudine, veniva il discorso su quella terza infelice che era loro sorella, Maddalena. Che faceva? Come sopportava la sua vita di peccato? Due volte Carmela era andata a trovarla nel larghetto, dopo le scalette di Santa Barbara, ma una volta era fuori, e l'altra volta l'aveva trovata così fredda, così mutata, come colpita da un rammarico profondo, che Carmela, presa dall'emozione, era scappata via, subito subito. Una volta Annarella aveva incontrata Maddalena per via, vestita di azzurro e giallo, col solito nastro rosso al collo; e le aveva chiesto perché non portasse il lutto della madre. - Non sono degna, - aveva risposto Maddalena, abbassando gli occhi e allontanandosi col suo passo molle, sui tacchi alti delle scarpette di lustrino. E in tutto questo, Carmela sentiva, oltre i guai noti, oltre la sequela delle miserie e delle umiliazioni, qualche cosa di segreto che le sfuggiva, come una disgrazia ignota che le si aggravasse sul capo, come la fatalità suprema che cominciasse a circuirla, non lasciandole via di uscita. Che era? Non sapeva bene, non si rendeva conto: ma era forse la profonda indifferenza di Raffaele e la brutalità con cui la trattava; era forse il contegno truce del cognato Gaetano, il tagliatore di guanti; era forse l'aspetto strano della sorella Maddalena, di cui ella non osava andar a prendere notizia. E fra loro due, da tempo, un gran progetto si andava maturando, per trovar rimedio ai loro guai. In tutto il popolo napoletano vi sono donne che hanno fama di grandi maghe, di fattucchiare merite, ai cui filtri, ai cui esorcismi, alle cui fatture ulla resiste; alcune, anzi, hanno una clientela larga, assai più di quella che può averla un medico, e quasi ogni quartiere si vanta della sua maga, capace de' più bizzarri miracoli, sempre però coll'aiuto di Dio e della Madonna. Ma la riputazione della gran fattucchiara hiarastella che abitava lassù, lassù, al vicolo Centograde, presso il corso Vittorio Emanuele era immensa: non vi era bottega, o basso, strada, o piazza, o crocicchio, dove non si conoscessero e non si raccontassero i prodigi di Chiarastella. Si dicea, dappertutto, che per avere la fattura i Chiarastella, bisognava chiederle cose a cui non fosse contraria la volontà di Dio: ma che nessuno, avendo obbedito a questa regola, era uscito malcontento dalla casetta delle Centograde. Niuno osava mettere in dubbio il potere magico di Chiarastella, fra il gran popolo napoletano: e se, nelle botteghe dei pizzicagnoli e dei pastaiuoli, dove le comari giovani e vecchie chiacchierano così volentieri o innanzi ai trespoli e alle canestre delle venditrici di ortaggi, dove le donnette contrattano per tre quarti d'ora un fascio di boraggine; o sulle porte dei bassi ove si discorre così a lungo e così animatamente, se qualcuna ignorante udendo i miracoli della fattucchiara elle Centograde, levava le sopracciglia per sorpresa, per incredulità, venti voci affannose, commosse, entusiaste le raccontavano i grandi fatti operati da Chiarastella. Qua un marito traditore, ricondotto alla giovane sposa; là un giovanotto che moriva di etisia, guarito, quando i medici lo avevano licenziato; altrove una sarta che aveva perduta tutta la clientela e che l'aveva veduta ricomparire, a poco a poco, per influenza della maga; altrove una ragazza insensibile che induceva, con la sua freddezza, l'innamorato alla mala vita e al delitto; e sopratutto la legatura della favella; uella, quella era la gran fattura di Chiarastella! Tutti coloro che avevano una lite, un processo, dove potevano esser sopraffatti dall'avversario o dalla giustizia, dove poteano rimettere i denari, o l'onore, o la libertà, o la vita, ricorrevano disperatamente alla magia di Chiarastella: costei, udito il fatto, se lo giudicava morale, conforme alla volontà di Dio, si prestava a legar la favella dell'avvocato avversario. Consisteva in una cordicina fatturata con tre nodi, quante sono le persone della Trinità, che bisognava trovar modo di metter addosso all'avvocato, in una tasca, nella fodera del vestito, la mattina dell'udienza decisiva: e con l'aiuto delle preghiere, l'avvocato avversario non avrebbe potuto dire essuno dei suoi argomenti, sebbene li avesse in mente, li pensasse: la sua favella era legata, la lite, per lui, era perduta, la fattura aveva raggiunto il suo scopo. Si citavano esempi in cui gli innocenti, gli oppressi, quelli contro cui si esercitava la grande ingiustizia umana, erano stati così salvati da Chiarastella. Ed era da tempo che Carmela e Annarella avevano pensato di ricorrere a Chiarastella; Carmela per ridestare all'amore il cuore di quel Raffaele che non era mai stato suo, e adesso meno che mai; Annarella per indurre Gaetano, suo marito, a non giuocare più al lotto. Carmela, per tentare, ci era già stata, lassù, tre volte, alle Centograde: e per avere la fattura da Chiarastella ci volevano cinque lire per ciascuna, e certi piccoli ingredienti da comperare. Dopo, se le due fatture riuscivano, secondo la volontà di Dio, le due sorelle avrebbero fatto un grosso regalo alla maga. Chiarastella non prometteva mai certamente nulla: ella parlava sempre misticamente e in una forma di dubbio: ella aveva dei profondi silenzi, a certe domande; e pareva che non si curasse del denaro, si contentava solo di poco, per vivere, contando sulla riconoscenza di quelle cui la fattura riesciva, per averne un dono più importante. Dopo… ma intanto dieci lire ci volevano, al minimo, se no, non se ne faceva nulla, e per quante privazioni subissero, in quell'estate così cattiva, giammai le due sorelle avrebbero potuto metter da parte, tutte insieme, dieci lire. Ma i giorni passavano, e le loro miserie morali urgevano quanto le materiali; non trovavano altro rimedio, oramai: e sebbene a malincuore, Carmela si decise a vendere il vecchio cassettone dal piano di marmo, il mobile più importante della sua stanzetta, il cassettone che aveva comprato sua madre, quando era sposa. Ne trovò, a stento, dodici lire: tutti vendevano in quell'estate maledetta, non vi era più un cane che volesse comperare due soldi di roba! La poca biancheria ella la mise in una canestra chiusa, sotto il suo letto, e quei grami vestiti li sospese a una cordicella, attaccata a due chiodi, lungo il muro umido. Ma aveva dodici lire! Fu in una domenica della fine di agosto, dopo aver udito la messa nella chiesa dei Sette Dolori, che le due sorelle si avviarono per il vicolo delle Centograde. Carmela aveva chiusa la casa e ne portava la chiave in tasca; Annarella vi aveva lasciata sua figlia Teresina, che si aggiustava una vesticciuola lacera, dopo esser restata sino a mezzogiorno al lavoro, dalla sarta. Erano otto giorni che Carmela, vagando per Napoli nelle sue ore di libertà, non arrivava a trovare Raffaele: e Gaetano, il marito di Annarella, in quella notte dal sabato alla domenica, non era rientrato a casa. Nella chiesa dei Sette Dolori, inginocchiate innanzi alla panca di legno bruno, dove si mettono i poveri, perché non si paga, esse avevano assai pregato, durante la messa, e ora ascendevano faticosamente gli scalini dell'erta scala che conduce da via Sette Dolori al Corso Vittorio Emanuele, non parlando, comprese in un raccoglimento di vaga speranza e di vaga paura. Chiarastella, la fattucchiara, bitava propriamente in un vicoletto cieco, silenzioso, ma luminoso, a destra della vasta scala che mette in comunicazione la grande arteria della collina, con le piccole vene della Pignasecca, della Carità, di Montesanto. Una gran pace era in quel vicoletto cieco, ma lo scirocco umido di quell'estate aveva bagnato, di un lieve strato di fanghiglia, i ciottoli rotondi del selciato: tanto che vi si camminava con precauzione, per non scivolare, e senza fare alcun rumore. - Ci aspetta? - dimandò a fior di labbro Annarella, che ansimava per le scale fatte. - Sì, - disse anche sottovoce Carmela, entrando nel portoncino. Salirono al primo piano: sullo stretto pianerottolo, vi erano due porte che si prospettavano. Una era chiusa ermeticamente, anzi vi era stato messo il catenaccio, donde pendeva un grosso lucchetto, anche di ferro; pareva che gli abitanti ne fossero partiti, dopo una sventura, serrando per sempre il tetro soggiorno. La porta a sinistra era socchiusa: ma le sorelle, udendo un singhiozzare sommesso, di là, non osarono entrare senza bussare: fu rabbrividendo che Carmela tirò una zampetta bruna di scimmia, attaccata a una catena di ferro a grossi anelli, donde pendeva internamente il campanello: la zampetta nera imbalsamata faceva orrore, era pelosa di sopra, rosea di dentro, sembrava la mano di un bimbo moretto, ammazzato, di cui là si trovasse un brano. Tinnì il campanello, stridulamente e lungamente, quasi non volesse mai tacere: una serva vecchia, decrepita, curva, con un naso aguzzo che pareva si volesse ficcare nella bocca rincagnata, le cui labbra coprivano le gengive senza denti, apparve: e trattenne, con un cenno dell'antico capo, le due donne, nella strettissima anticamera, priva assolutamente di mobili, un po'umida per terra. Il singhiozzare, di là, continuava, dietro un'altra porta chiusa, quasi soffocato: poi si appressò, la porta si schiuse e una ragazza del popolo, una sartina, la bionda Antonietta, attraversò l'anticamera, con lo scialletto che le cadeva dalle spalle, e il volto nascosto nel fazzoletto dove piangeva. Una sua compagna, più piccola, Nannina, le teneva un braccio attorno alla cintura quasi volesse sostenerla, e le andava ripetendo, per consolarla: - Non importa, non importa… Ma quella singhiozzava più forte: la serva decrepita schiuse la porta d'entrata e mise fuori le due ragazze, quasi spingendole: poi disparve, di là, senza dire una parola a Carmela e ad Annarella. Costoro, già turbate dal sentimento che le spingeva a invocare la potenza della fattura, erano state commosse da quel passaggio di quelle fanciulle, una inconsolabile, l'altra invano consolatrice: e appoggiate alla finestrella dell'anticameretta, aspettavano, con gli occhi bassi, con le mani incrociate sul grembiule che tenevano fermi i capi dello scialle, senza dire una parola. Un grande silenzio, intorno, nell'afa umidiccia estiva, in quel lungo pomeriggio domenicale. E Annarella, più dolce, più afflitta e insieme meno appassionata, avendo già curvate le spalle alla fatalità del suo destino, sentendo una sfiducia crescente in qualunque mezzo di salvazione, sapendo che Gaetano non sarebbe mai ricondotto da nessuna preghiera, da nessuna fattura, non provava altro, attraverso la sua malinconia, che una impressione sempre più distinta di spavento. Invece Carmela, dall'animo ardente di amore che nessuna forza arrivava a domare, sentiva l'esaltazione della passione accenderle le fiamme, nell'anima: non temeva, no, avrebbe affrontato qualunque spettacolo, qualunque pericolo per aver a sé, nuovamente, il cuore di Raffaele. Ma la decrepita serva dal corpo piegato ad arco, che pareva si volesse ricongiungere con la terra, era comparsa di nuovo nell'anticameretta e aveva fatto segno a Carmela di entrare. Senza far rumore le due sorelle sparirono nell'altra stanza, la cui porta si chiuse dietro a loro. - Ecco mia sorella, - mormorò Carmela, scostandosi per presentare Annarella che le si trovava alle spalle. Chiarastella fece un cenno col capo, per salutare. La fattucchiara ra una donna di media statura, piuttosto piccola che grande, molto magra, con certe mani brune, lunghe e sottili, la cui pelle attaccata alle ossa si era fatta lucida: il corpo aveva movimenti automatici, quasi che una volontà ne irrigidisse ogni muscolo: la testa era piccola e il volto corto, coi pomelli forti e rossi, con le mascelle salienti: la carnagione era di un pallor livido e caldo, il naso all'insù, breve. Ma l'interessante, nel volto nevrotico della fattucchiara, rano un par d'occhi dallo sguardo mobilissimo, la cui tinta variava dal bigio al verdastro, ma dove si vedeva sempre un punto luminoso, una scintilla: uno sguardo che riassumeva in sé tutta la vitalità della persona. Sembrava che avesse quaranta e più anni, Chiarastella, i cui capelli si conservavano nerissimi e la cui fronte era tagliata da una sola ruga, profonda; ma quando lo sguardo le si accendeva, come una irradiazione di giovinezza si faceva sul suo volto e sulla sua persona. Portava un vestito di lana nera, assai semplice, nel taglio delle vesti che portano le popolane, tal quale: solo era guarnito di bottoni di seta bianca e un nastro di seta bianca le pendeva dalla cintura, in un fiocco e due lunghi capi, sul fianco. Il bianco e il nero sono i colori del voto alla Madonna Addolorata. Un grosso, ritorto corno di corallo rosso le pendeva dal collo, attaccato a un cordoncino sottile di seta nera: e nei suoi gesti a scatto la fattucchiara occava occavacon le dita, ogni tanto, questo corno. Stava seduta, accanto a una larga tavola di noce, su cui era posata una scatola di ferro, di acuto lavoro artistico, una scatola di lavoro antico, chiusa: accanto ad essa un grosso gatto nero, raccolte le zampe sotto la pancia, dormiva. E intorno, nella piccola stanza, non vi era che un divanetto di percalla, dal disegno scolorito, e cinque o sei sedie, niente altro. Sul muro un crocifisso di legno nero, su cui un Cristo di avorio scolpito, un altro oggetto di arte. Ella taceva, con gli occhi abbassati: e le due sorelle sentivano l'approssimamento, l'invasione di un gran mistero. - Abbiamo portato le dieci lire, - disse timidamente Carmela, cavandole dalla cocca del fazzoletto e posandole sulla tavola, accanto alla mano di Chiarastella. La fattucchiara on batté palpebra: solo il gatto nero levò il capo, mostrando i begli occhi gialli come l'ambra. - Avete intesa la messa? - chiese Chiarastella, senza voltarsi. - Sì, - mormorarono le due sorelle. Ella aveva una voce bassa e roca; una di quelle voci muliebri che paiono sempre cariche di una intensa emozione, e che producono una vibrazione nel cervello, nell'animo di chi ascolta. - Dite tre Avemarie, re Pater noster, re Gloria patri, d alta voce. In piedi, innanzi ad essa, le due sorelle dicevano le sacre parole delle orazioni: ella stessa le diceva, con la sua vibrante voce, con le mani congiunte a preghiera, nel grembo, sul grembiale di lana nera. Il gatto si era levato su, sulle grosse zampe nere, e teneva il capo abbassato. Poi tutte insieme, le tre donne, dopo essersi inchinate tre volte al Gloria patri, issero la Salve Regina. e preghiere erano finite. La fattucchiara prì il cassetto di ferro lavorato, tenendone sollevato il coperchio, in modo da nascondere quello che vi era dentro, e vi frugò con le dita, a lungo. Poi avendone preso certi oggettini, celandoli ancora con la mano, impallidì mortalmente, gli occhi le si stravolsero, come se vedesse un orribile spettacolo. - Madonna mia, assistici, - pronunziò sottovoce Annarella che tremava di paura. Chiarastella, adesso, con un cerino giallastro acceso, aveva fatto bruciare due pastiglie dall'odore bizzarro, pungente e pesante nel medesimo tempo: e intentamente guardava nelle volute, negli anelli di fumo, quasi vi dovesse leggere una parola arcana: due o tre volte gli occhi le si dilatarono, mostrando il bianco striato d'azzurro. Quando il fumo si fu dileguato, restò il profumo acuto e grave: le due sorelle provavano già uno stordimento al cervello, forse per quell'odore. E monotonamente, senza guardarle, Chiarastella domandò: - Sei tu risoluta di far la fattura a tuo marito? - Sì, purché non soffra nella salute, - rispose fiocamente Annarella. - Vuoi legargli le mani, due o tre volte, perché in nessun giorno, in nessun'ora egli possa giuocare al lotto? - Sì, - disse l'altra, con slancio. - Sei in grazia di Dio? - Così spero. - Raccomandati alla Madonna, ma in te stessa. Mentre Annarella levava gli occhi, come per trovare il cielo, la fattucchiara avava dal cassetto di ferro una sottile cordicina nuova: la guardava, questa cordicina, mormorando certi versi curiosi, lunghi e corti, in dialetto napoletano, che invocavano la potenza del cielo, dei suoi santi e insieme di certi spiriti buoni, dai nomi strani: e la cantilena proseguiva, Chiarastella sempre stringendo nella mano la cordicina, sempre guardandola, quasi infondendovi il suo spirito. Anzi, tre volte, vi soffiò sopra: tre volte baciò devotamente la corda. Mentre ella faceva queste operazioni, le sottili mani brune le tremavano: e il gatto andava su e giù sul tavolone, agitato, gonfiando il pelo nero del muso. Annarella, adesso, si pentiva più che mai di esser venuta colà, di aver voluto fare la fattura a suo marito: sarebbe stato meglio, assai meglio, rassegnarsi alla mala sorte, anziché venire a chiamar fuori tutti quegli spiriti, anziché mettere quel gran mistero pauroso nella sua umile vita. Ah se ne pentiva profondamente, col respiro oppresso e la faccia afflitta, desiderando di fuggire di là, subito, di trovarsi lontano, nel suo oscuro basso, ove preferiva soffrire la miseria e il freddo! Era una sua sorella che l'aveva indotta a quel mezzo estremo: l'aveva fatto più per pietà di sua sorella che ella vedeva così malinconica, così desolata, così consumata di dolore, per l'abbandono di Raffaele. Non è bene, no, tentare così la volontà di Dio, con le fatture e con gli scongiuri: già, tanto, nessuna potente fattura avrebbe mai vinto la passione di suo marito. Ella gliela aveva letta, negli occhi inferociti, un giorno di sabato, l'indomabilità di quel vizio; ella lo aveva visto maltrattare i suoi figli, con quella rabbia compressa di chi è capace anche di maggiore brutalità. E quella fattura, vedete, quella fattura così paurosa nei suoi preludii, nella sua composizione, le sembrava un altro passo dato sulla via di una oscura catastrofe. Ora, Chiarastella, il cui viso sembrava assottigliato, la cui pelle bruna luccicava, i cui occhi ardevano, aveva fatto i tre nodi fatali alla cordicina, fermandosi ad ognuno, per dire qualche cosa, sottovoce: e alla fine, d'un colpo, dal seggiolone dove era sempre restata seduta, si era buttata in terra, inginocchioni, col capo abbassato sul petto. Il gatto nero, come furioso, si era buttato anche lui giù e adesso roteava, roteava intorno alla fattucchiara, on quel giro convulso dei felini che stanno per morire. - Madre dei Dolori, non mi abbandonare, - gridò Annarella, fremendo di paura. Ma la fattucchiara, opo essersi segnata, furiosamente, più volte, si alzò e in tono solenne disse alla moglie del giuocatore: - Prendi, prendi, questa è la corda miracolosa che legherà la mente, che legherà le mani di tuo marito, quando Belzebù gli suggerirà di giuocare: credi in Dio, abbi fede in Dio, spera in Dio! Tremando, provando alla bocca dello stomaco il calore delle supreme emozioni, Annarella prese la cordicina della fattura che doveva mettere addosso al marito, senza che costui se ne accorgesse: e ora avrebbe voluto andarsene, fuggire via, sentendo più forte l'afa di quella stanza e il profumo che dava le vertigini al cervello. Ma Carmela, smorta, sconvolta, da quanto aveva visto e da quanto sentiva ribollire nel suo animo, le rivolse uno sguardo supplichevole, per farla aspettare, ancora. Chiarastella aveva già cominciato a fare la fattura, perché Raffaele amasse nuovamente Carmela; aveva chiamata Cleofe, la decrepita serva, e le aveva detto qualche cosa all'orecchio; la serva era uscita ed era rientrata, portando nelle mani un piatto di porcellana bianca, un po' fondo, pieno di acqua chiara; lo aveva portato, tenendolo con precauzione fra le mani, guardando l'acqua, quasi ipnotizzata, per non farne versare una goccia; poi, era scomparsa. Chiarastella, piegata la faccia sul piatto, mormorava parole sue, sull'acqua: poi vi bagnò un dito, lasciando cadere tre goccie sulla fronte di Carmela che, a un suo cenno, si era inclinata innanzi a lei: le tre goccie non si disfecero, la fattura sarebbe riescita. Poi la fattucchiara ccese un candelotto di cera vergine, che le aveva portato Carmela; e mentre borbottava continuamente parole latine e italiane, lo stoppino del candelotto strideva, come se si fosse buttata dell'acqua sulla fiammella: - Hai portato i capelli, tagliati sulla fronte, un venerdì sera, quando la luna cresceva? - domandò Chiarastella, con la sua voce roca, interrompendo le sue preghiere. - Sì, - disse Carmela, traendo un profondo sospiro e consegnando una ciocchetta dei suoi neri capelli alla fattucchiara. al cassetto di ferro Chiarastella aveva cavato fuori un dischetto metallico, di platino, lucido come uno specchio, sulla cui superficie erano incisi certi geroglifici e vi aveva messo la ciocchetta di capelli, elevando tre volte in aria il dischetto, come se ne facesse offerta al cielo. Poi espose la ciocchetta dei capelli neri alla fiammella crepitante del candelotto, un po' in alto: la fiammella si allungò per divorare i capelli, in un minuto secondo, e attraverso il fetido odore dei capelli bruciati, non si vide sul dischetto che un pizzico di cenerina puzzolente. L'incanto procedeva, mentre Chiarastella cantava, sottovoce, il suo grande scongiuro per l'amore: una bizzarra mescolanza di sacro e di profano dal nome di Belfegor a quello di Ariel, da san Raffaele protettore delle fanciulle, a san Pasquale protettore delle donne, un po'in dialetto napoletano, un po'in italiano scorretto. Prese, dopo, una boccettina dal cassetto di ferro lavorato, che conteneva tutti gli ingredienti per le fatture: e versò nell'acqua del piatto tre goccie di un liquore contenuto nella boccetta; l'acqua diventò subito di un bel colore di opale dai riflessi azzurrastri, dove la fattucchiara uardò uardòancora, per leggere in quella nuvola biancastra; la nuvola si avvolgeva: si avvolgeva in spire, in volute, e Chiarastella vi versò il pizzico di cenere dei capelli abbruciati. Man mano, sotto lo sguardo della maga, l'acqua del piatto si chiarì, diventò limpida di nuovo: e allora lei, fattasi consegnare da Carmela una bottiglina di cristallo, nuova, comperata di sabato, di mattina, dopo essersi fatta la comunione, la riempì pian piano di quell'acqua del piatto: il filtro amoroso era fatto. - Tieni, - disse la fattucchiara Carmela, col suo accento solenne della fattura compita, - tieni, conserva gelosamente quest'acqua. Ne farai bere qualche goccia nel vino o nel caffè, a Raffaele: quest'acqua gli infiammerà il sangue, gli brucierà il cervello, gli farà consumare il cuore di amore per te. Credi in Dio; abbi fede in Dio; spera in Dio! - Non è veleno, non è vero? - osò dimandare Carmela. - Bene gli può fare e non male: fida in Dio! - E se continua a disprezzarmi? - Allora vuol dire che ama un'altra: e questa fattura qui non basta. Allora bisognerà che tu sappia chi è questa femmina per cui egli ti tradisce; che mi porti qua un pezzetto della camicia, o della sottana, o della veste di questa femmina, sia lana, sia tela, sia mussolina. Io farò la fattura contro lei: sopra un limone fresco inchioderemo con un grosso chiodo e con tanti spilli il pezzetto della camicia o del vestito: e tu butterai nel pozzo della casa, dove abita questa femmina, questo limone affatturato. Ogni spilla di quelle, figliuola mia, è un dispiacere: e il chiodo è un dolore al cuore, di cui ella non guarirà mai… hai capito? - Va bene, va bene - mormorò Carmela, desolata alla sola idea del tradimento di Raffaele. - Andiamocene, andiamocene, - le disse Annarella che non ne poteva più. - Grazie della carità, sie' hiarastella. hiarastella.- Grazie, - soggiunse anche Anna. - Ringraziate Iddio, ringraziatelo, - esclamò la fattucchiara, saltatamente. saltatamente.E si buttò un'altra volta inginocchioni, pregando fervidamente, mentre il grosso gatto nero miagolava dolcemente, strusciando il muso roseo sulla tavola. Le due donne uscirono, pensose, preoccupate. - Questa fattura non è cosa buona, - disse Annarella, con malinconia, a Carmela. - E allora che si deve fare, che si può fare? - chiese l'altra, torcendosi le mani, con gli occhi pieni di lacrime. - Niente, - disse Annarella, con voce grave. Esse scendevano, lentamente, stanche, abbattute da quella lunga scena di magia, superiore alla loro semplicità intellettuale, accasciate dopo quella tensione di sentimenti. Un uomo ascendeva gli scalini del vicolo Centograde, lestamente, dirigendosi verso la casa della fattucchiara. ra don Pasqualino de Feo, l' assistito. e due femmine non lo videro: andavano, sentendo più grave il peso della loro vita sventurata, temendo di aver oltrepassato i limiti che alle pie creature umane si concede, temendo di aver attirato, sul capo delle persone che amavano, la misteriosa punizione di Dio.

E ricaduta, abbattuta sul letto, in una nuova paralisi, l'unica cosa viva di lei era la voce che voleva Amati, sempre l'unica idea della sua ragione smarrita era Amati, Amati, Amati. - Gli scriverò, - disse il vecchio, desolatamente, andando di là mentre il medico provava a mettere nuovo ghiaccio, sulla testa infiammata di Bianca Maria. Il marchese scriveva: ma era insopportabile lo sdegno di dover cedere, e le parole non uscivano dalla sua penna. Stracciò due foglietti. Infine ne uscì una breve lettera, con la quale pregava il dottor Amati di andare a casa sua, perché sua figlia era malata: niente altro. Quando dovette scrivere l'indirizzo, fu per ispezzare la penna. E senza guardare in volto Giovanni, gli disse di correre dal dottore… sì, dal dottore Amati. E il poveretto corse, mentre Morelli dava delle pillole di calomelano alla povera delirante che urlava, poiché il dolor di testa era divenuto insoffribile, atroce. Il padre, consumato il primo sacrificio, si sentiva impazzire, a quegli urli: e tremava, temeva di mettersi anche lui a urlare, a urlare, come lei, come se ella gli avesse comunicata la meningite. Adesso che aveva scritta la lettera, consumando un insopportabile sacrificio, adesso il marchese Cavalcanti si metteva a desiderare che il dottor Amati giungesse presto, almeno: gli era impossibile sopportare più quelle grida, quei lamenti, quei gemiti, in cui un solo nome continuava ad apparire, sempre, sempre. E oramai contava i minuti del ritorno di Giovanni, tendendo l'orecchio, se udisse qualche rumore di porta che si schiudeva: il tempo passava e l'ammalata, malgrado il ghiaccio, malgrado il calomelano, delirava, con gli occhi stravolti, in preda alla infiammazione che sembra arda il cervello. Ecco una porta si apriva, qualcheduno si avanzava verso la stanza, in cui il marchese di Formosa aveva ricoverata la sua disperazione. Era Giovanni, solo: e pareva così stanco, così vecchio, così triste, che il marchese tremò, chiedendogli: - Ebbene? - Non viene, il dottor Amati. - Non vi era? - Non vi era, l'ho aspettato sotto il portone: è poi venuto… - E dunque? - Ha letto la lettera… e ha detto che egli era troppo occupato, che la signorina aveva certo qualche altro buon medico… - Non lo hai… pregato? - L'ho pregato, Eccellenza: si è fatto aspro, è andato via mormorando certe parole, che non ho capite. - Dovevi salire… insistere… - Non ho avuto il coraggio… - Ma capisci che senza lui la signorina muore, non lo capisci? - Lo capisco, Eccellenza, ma il dottore mi ha maltrattato, sono un povero servo… - Egli ha ragione, - disse il vecchio lentamente, - io l'ho molto offeso… - Eccellenza, Eccellenza, andateci voi, a voi non dice di no… - Tu sei pazzo!… - Per la signorina, Eccellenza! - Dirà di no, m'insulterà… - Per la signorina… - No, no, è troppo… - Ma, Eccellenza, lo avete detto, la signorina muore. - Va via, - gridò brutalmente il marchese, cacciando il suo servitore. Restò solo. Il suo orgoglio si ribellava potentemente all'idea di umiliarsi innanzi all'uomo che egli aveva ingiuriato: soffriva atrocemente; la voce di sua figlia che ora borbottava in tono basso, ora strideva acutamente, nominando Amati, gli dava il senso di un dolore fisico, di un ferro rovente che bruciava la sua carne. Dentro di lui, però, come il tempo passava, come il pericolo della fanciulla aumentava, si compiva un lavoro di annichilimento, in cui tutte le ribellioni antiche e nuove della sua superbia andavano cadendo: e al posto dell'orgoglio si metteva una immensa pietà, una immensa tenerezza, un immenso dolore. Fuggiva l'ora, mentre egli passeggiava su e giù, rodendo il freno degli ultimi vincoli in cui si abbassava e radeva terra il suo cuore: e non cessava di là quell'eterna voce delirante, che non sapeva dire altro che il nome di Antonio Amati. Oramai egli non trasaliva più di collera, l'odio taceva e quando, di nuovo, si presentò il dottore Morelli, che era andato e che era ritornato, domandandogli, egli rispose: - Non è venuto: vado io. - Lo condurrete? - Lo condurrò. Era ben tardi, però, quando si mise in cammino, a piedi, per andare in via Santa Lucia, dove abitava adesso il dottor Amati: era quasi mezzanotte e la gente si era diradata per Toledo, nella dolcezza della sera di aprile. Malgrado la vecchiaia, il marchese correva per la strada, spinto da una forza nervosa, e quando fu nel grande portone del palazzo che abitava Amati, fece le scale rapidamente, senza neppur rispondere al portiere, che domandava dove andasse. - Dite ad Amati che vi è il marchese Cavalcanti, - disse alla governante che gli era venuta ad aprire. - Veramente… studia… - Diteglielo, ve ne prego, è una cosa urgentissima, - pregò il vecchio, il cui orgoglio era completamente sparito. Ella andò di là, ricomparve subito, facendo cenno al marchese di entrare. Egli attraversò due salotti e si trovò in uno studio, tutto in penombra, dove la luce della lampada si concentrava sopra un gran tavolone, sparso di carte e di libri. Ma il dottor Amati era in piedi, in mezzo alla stanza, aspettando. Quei due uomini, che si erano tanto odiati, si guardarono, con lo stesso dolore che li accomunava, e la pietà della infelice creatura morente troncò ogni astio. Si guardarono. - Che è? - dimandò, con voce fioca, Amati. - Muore, - disse Formosa, facendo un atto disperato. - Di che? - Di meningite. Un pallore terreo si diffuse nel volto del dottore e due pieghe gli si formarono alle labbra. E non osò fare rimproveri al marchese. Non aveva, egli stesso, abbandonata la povera creatura, a cui aveva promessa, giurata la salvazione? Non aveva, per superbia, lasciato il delicato fiore ammalato, in preda a tutti i mali fisici e morali? Ambedue erano colpevoli, ambedue. - Andiamo, - disse. Uscirono insieme, chiamarono una carrozza da nolo, fecero sollevare il soffietto, come se volessero nascondere il loro dolore. Non parlavano, durante il tragitto. Soltanto, mentre mordeva il suo sigaro spento, il dottor Amati, ogni tanto, faceva qualche interrogazione medica. - Da quanto tempo, la meningite? Primo giorno? - Sì: ma ebbe nove giorni di tifo. -Febbre alta? - Da quaranta a quarantuno. - Gran mal di testa? - Atroce. - Convulsioni? - Sì: ogni tanto. - Stravolge gli occhi? - Sì. - Ha contratti i muscoli della nuca? - Sì. -… vi fu qualche causa? - Sì, - disse umilmente il padre, quasi singhiozzando questo monosillabo. - Le hanno dato il calomelano? - Sì. - Non ha calmato? - No, niente. Spesso è paralizzata: ma per poco. - È proprio la meningite, - mormorò il medico, pensoso. La carrozza camminava, camminava alla meglio, con il mediocre cavallo notturno. Non arrivavano ancora e avevano già incitato il cocchiere ad affrettare. - Ha il delirio? - chiese nuovamente il medico. - Non so… Non capisco se è il delirio.., ma parla sempre, convulsamente… - E che dice? - Chiama voi… - Me? - Voi, sempre. Ah il cuore del medico si schiantò, udendo questo! Sottovoce il vecchio padre lo udì dire, come per preghiera sgomenta: - Mio Dio!… Non dissero altro. Trovarono la porta aperta, il povero vecchio Giovanni li aveva attesi sul pianerottolo, appoggiato alla ringhiera, guardando nel portone, ansioso di vederli arrivare, ma certo che il dottore sarebbe venuto. - Come sta? - chiese subito il padre che aveva un continuo bisogno di essere rassicurato. - Come deve stare?… - sospirò il vecchio servo, precedendoli, - sta come prima. - Sempre il delirio? - disse il dottore. - Sempre. Entrarono pian piano nella stanzetta. Il dottor Morelli era andato via da poco, lasciando una letterina pel dottor Amati. Ma costui andò diritto al letto della inferma. La voce di costei, oramai stanca, ma sempre appassionata, andava ancora ripetendo il nome di Amati, ma il capo era affondato nei cuscini e gli occhi socchiusi. Egli vide tutto immediatamente, e lo scompiglio del suo animo, dovette esser tale che non giunse a padroneggiare, egli il forte, egli l'invincibile, il suo volto. Ed esitò un minuto, prima di rispondere alla infelice delirante che seguitava a chiamarlo, temendo di produrre sui nervi di lei una impressione troppo forte: ma non potette resistere a quella fievole voce che gli penetrava sino al cuore e lo faceva struggere di tenerezza. Disse: - Bianca Maria.. Qual grido fu la risposta! Ella si levò, col volto improvvisamente acceso, con gli occhi diventati stragrandi, e gli buttò le braccia al collo, gli appoggiò il capo sul petto, gridando: - O amor mio, amor mio, quanto avete tardato! Non mi lasciate più, non mi abbandonate, è tanto tempo che vi chiamo non mi lasciate. - Non temete, non vi lascio… - mormorò lui, cercando di vincere la sua emozione, carezzandole i bei capelli confusi e arruffati. - Non ve ne andate mai, mai, - gridava ella appassionatamente, stringendogli le braccia al collo, - se mi abbandonate, io muoio… - Calmatevi, Bianca Maria, calmatevi, non dite queste cose. - Le voglio dire, - levò lei ancora la voce, irritandosi della contraddizione,- senza di voi, per me è la morte. Ma tu non mi lascerai morire, eh, non mi lascerai morire? - Creatura mia, taci, taci… - egli disse, incapace di frenarsi, volendo disciogliere la catena di braccia, che gli allacciava il collo. - Non mi levare di qui, non mi levare,- strillò lei, facendo degli atti disperati col capo. - Se mi levi, sento che la morte mi piglia. - Oh Bianca, taci, per carità, non mi uccidere, - le disse il forte uomo, diventando il più debole e il più misero fra gli uomini. - Mi piglia la morte, è qui dietro, la sento, tu solo puoi salvarmi… Non mi lasciar morire, non voglio morire, hai capito, non voglio morire! - Non morirai, zitto, cara, zitto, perché ti ammali assai peggio, io sto qui, non me ne vado, mai più, mai più, non ti lascio… -… e non voglio morire, - concluse lei, di nuovo, calmandosi un poco. Stettero così, qualche tempo. Il padre era ai piedi del letto, appoggiato alla spalliera, con gli occhi bassi, sentendo nel suo orgoglio schiacciato, nella sua anima trafitta, tutto il peso del castigo che il Signore gli faceva aggravare sul capo, in punizione del suo lungo peccato. Pian piano, visto che la fanciulla taceva, che gli occhi le si chiudevano, il dottor Amati tentò di rimetterle il capo sul guanciale: ma ella sentì l'atto, e mentre si abbassava, attirò a se anche lui ed egli dovette chinarsi, poiché quelle braccia non volevano sciogliersi. Restarono così, ella assopita, egli inclinato in una posizione dolorosa, così angosciato di quella malattia e della sua impotenza, che non gli arrivava la sensazione di quel tormento fisico: il dolore assumeva in lui tale una violenza che si sentiva scoppiare, non potendo né piangere, né gridare, né parlare. Ora la infelice fanciulla pareva assopita, ma ogni tanto sussultava, e una espressione di fastidiosa pena le si dipingeva sullo scarno viso. Pareva che le passasse una idea per la mente, o che udisse un rumore che gli altri non udivano, o che vedesse qualche penosa visione, poiché le palpebre le battevano e le labbra si striavano sulle pallide gengive. Poi, ella schiuse gli occhi, come se avesse fissato quel rumore, quella visione, quella impressione fastidiosa e con un soffio di voce, che solo il medico intese, chiamò: - Amore! - Che vuoi? - Mandalo via. - Chi? - Mio padre. Il medico impallidì e non rispose. Dette una obliqua occhiata al vecchio, che era sempre fermo ai piedi del letto, con gli occhi bassi, dolorosamente concentrato. - Ti prego, mandalo via, - ricominciò lei, parlandogli nell'orecchio. - Ma perché? - Così: non voglio vederlo. Mandalo via. Che se ne vada. - Bianca Maria, ma è tuo padre! - Ascolta, ascolta, - diss'ella, attirandolo maggiormente a sé, perché gli potesse parlare più piano. - È mio padre, - mormorò poi con una paura soffocata, con un rimpianto immenso, - ma mi ha uccisa. - Non parlare così, - rispose, lui, volgendo il capo dall'altra parte per non lasciare scorgere le sue impressioni. - Ti dico che muoio per lui. Non ho il delirio, sai, io ragiono, - soggiunse ella, stralunando gli occhi, con quel moto infantile dei fanciulli moribondi, che fa impazzire di dolore le madri. Egli crollò il capo, come se non sapesse più che cosa fare, che cosa dire. - Mandalo via, - diss'ella, insistendo, arrabbiandosi, con le fatali irrompenti furie della meningite. - Io non posso, Bianca Maria… - Se non lo mandi via, tu, tu, io mi levo e gli grido di andarsene, di non comparirmi mai più innanzi, mai più, hai capito? - Aspetta, - egli disse, decidendosi, rassegnandosi. E la lasciò, staccandosi da lei, rimettendole le scarne braccia sulla coltre. Ella lo seguì con lo sguardo, senza mai levargli gli occhi di dosso, come se con lo sguardo udisse quello che molto sottovoce il dottore Amati diceva a suo padre. Il dottor Amati, con molta delicatezza e con un fremito di dolore che faceva tremare invincibilmente la sua voce, gli spiegava che la meningite è una terribile malattia che abbrucia il cervello, che sconquassa i nervi, e che fa delirare per giorni e giorni i poveri infermi che ne sono attaccati, che li induce a continua collera e persino al furore: che la povera Bianca Maria era in preda a questo delirio, che non poteva soffrir nessuno nella sua stanza, e che se egli amava sua figlia, se non voleva udirla dare in escandescenze, facesse la carità di andarsene in un'altra stanza… - Mia figlia vi ha detto questo? - chiese il vecchio, smorto, con le sopracciglia aggrottate. - Sì. - Non vuole nessuno nella sua stanza? -… Nessuno. - Ma voi, sì? - Me, sì. - Mi caccia, mia figlia? - gridò il vecchio. - Per carità, marchese, non v'irritate, abbiate pietà della fanciulla, di voi, di me… - Non me ne andrò, se non me lo dice lei, capite? Bianca Maria? - chiamò il marchese, avanzandosi presso il letto. Ella guardò il padre con tanta intensità, come se gli rispondesse. - Bianca Maria, - gridò l'esasperato vecchio, - è vero che non mi vuoi, nella tua stanza? Dillo tu, se è vero, io non credo a quest'uomo, lo devi dire tu! - È vero, - ella proclamò, a voce chiarissima, guardando suo padre. Egli chinò gli occhi, dove comparvero le ultime lacrime della vecchiezza, chinò il capo sul petto, vinto dall'inflessibile castigo che gli veniva dalla delirante, dalla morente sua vittima. Uscì, senza voltarsi. E cadente come se avesse cento anni, solo, taciturno, si ritirò in quella che era stata la sua stanza da studio, dove restavan solo un tavolino vecchio e una vecchia sedia. Lì, prono, con la testa fra le mani, senza più nozione né di tempo, né di cose, il vecchio peccatore s'immerse nella incommensurabile amarezza della punizione. Ogni tanto, fiocamente, o vivacemente gli arrivava la voce di Bianca Maria che diceva ad Amati, sempre, sempre: - Non voglio morire, non voglio morire, salvami, salvami, ho venti anni, non voglio morire… Quella voce, quelle parole disperate, pronunziate nel delirio, ma che pure parevano un lamento e una maledizione, gli facevano un effetto crudele. Non aveva più la forza di levarsi, per uscire, per andarsene di casa, solo, a morire come un cane sopra gli scalini di una chiesa, non pianto, non rimpianto. Non si levava, per andare presso l'agonizzante, poiché sua figlia lo aveva cacciato, tenendo presso sé l'unica persona che l'aveva amata. - Non voglio morire, amore, non voglio morire, - parlava la demente. - Hai ragione, hai ragione, - pensava il padre, trasalendo. E mentre le ore passavano, egli sentiva di là l'andirivieni del medico che tentava il salvamento della fanciulla, gli ordini frettolosi, l'uscire di Giovanni, di un assistente accorso. Egli non aveva più diritto di presentarsi, di sapere: e difatti lo dimenticavano lì, come se fosse morto da anni e anni, come se giammai un marchese Carlo Cavalcanti fosse esistito. Non sarebbe stato meglio per lui se fosse morto, poiché tutti lo avevano abbandonato? - E giusto, è giusto, - pensava fra sé. Egli tendeva l'orecchio, ogni tanto, come se i rumori che arrivavano, dovessero dirgli che la fanciulla migliorava, che il medico le amministrava i rimedii energici, capitali. Ma oltre all'affaccendarsi dei servi, dell'assistente, del dottore, egli non udiva altro che il grido straziante, continuo: - Non voglio morire, non voglio morire, amore, salvami! Egli si assopì, coll'antico capo appoggiato alle braccia, verso l'alba, sentendo anche nel lieve e breve torpore quel lamento, quell'angoscioso grido. Fu Giovanni che lo svegliò, a giorno chiaro, portandogli una tazza di caffè. Il padre scacciato dalla camera di sua figlia, interrogò con gli occhi il servo: - Sempre lo stesso, sempre! - mormorò Giovanni, crollando il capo vacillante. - Ma neppure Amati la salva? Neppure lui? - Cerca: ma è disperato. Il marchese Carlo Cavalcanti passò tre giorni e tre notti in quella stanza, solo, senza veder letto, senza quasi toccar il poco cibo che gli portavano: i tre giorni e le tre notti che durò l'agonia di sua figlia, Bianca Maria Cavalcanti. Il volto del vecchio, sempre sanguignamente colorito malgrado l'età, era chiazzato di violetto; i capelli bianchi erano tragicamente arruffati. Oramai, quando Giovanni e Margherita gli apparivano innanzi, solo a vedere il loro abbattimento, egli non domandava più nulla loro. Non sentiva egli forse che ella delirava sempre, gridando che a quell'età non voleva morire, non voleva, aggiungendo le esclamazioni e le preghiere più trambasciate? I due servi non gli dicevano nulla: l'udito gli si era affinato e non una parola del delirio gli sfuggiva. Pure, quella stessa vitalità di forza nervosa, quella voce forte lo illudevano, come una forma di salute e quasi quasi, nei piccoli intervalli di silenzio, egli si augurava che quel delirio ricominciasse. Ma il terzo giorno, alla mattina, una nuova dolorosa impressione lo trasse da quello stupore. La delirante, con voce strozzata, chiamava sua madre, sua madre, addolcendo il tono, pregando la mamma che non la facesse morire. Ogni tanto, taceva: egli si guardava intorno, atterrato da quegli improvvisi silenzi che si prolungavano, trabalzando quando, di nuovo, Bianca Maria si metteva a gridare. - Mamma, non voglio morire, non voglio, non voglio, mamma cara! Verso le due dopo mezzanotte, del terzo giorno, sempre seduto presso quel tavolino, lo colse il sopore, mentre ancora gli risuonava nell'orecchio quel delirio. Quanto tempo dormì? Quando si svegliò, il silenzio era così profondo, che egli si sgomentò. Aspettò, per udire quella voce che chiedeva di non morire ancora. Niente. Calcolò il tempo, dalla consumazione della candela: dovevano esser passate due ore. Una paura orribile lo assalse. Non osava muoversi. Guardò sotto l'arco della porta, vide la faccia bianca di Margherita che lo guardava. Intese. Pure, macchinalmente, domandò: - Come sta la marchesina? - Sta bene, - disse fievolmente la vecchia. - Quando… è stato? - Un'ora fa. - Non ha… non ha domandato di me? - No, Eccellenza. Egli provò a levarsi. Non poteva. Pensò che la morte lo avrebbe preso lì, su quella seggiola, subito, poiché i giovani di venti anni morivano prima dei vecchi di sessanta. Ora, era sopraggiunto anche il dottor Amati. Era irriconoscibile: un accasciamento mortale ne aveva distrutta tutta la energia fisica e morale. Come a un fanciullo, grosse lagrime silenziose gli si disfacevano sulle guance. Tacquero, un poco. - Ha sofferto assai? - chiese quel padre. - Immensamente.. - Non è stato possibile…? - No, non è stato possibile, - disse il dottore, il vinto, aprendo le braccia, confessando la più atroce fra le sue disfatte. Il vecchio, dalla faccia oramai immobilizzata in quella tragica espressione, non piangeva. E come un fanciullo inconsolabile, il dottor Amati lo prese per mano, lo sollevò, gli disse teneramente: - Venite a vederla. Andarono. La marchesina di Formosa, Bianca Maria Cavalcanti, giaceva sul suo bianco piccolo letto, col capo un po' abbassato sulla spalla, con le ceree mani dalle dita livide, congiunte per mezzo di un rosario. Le avevano messo un vestito bianco, molle, sullo scarno corpo. La bocca violetta era socchiusa; le palpebre terree erano abbassate. Pareva assai più piccola, come una fanciulletta adolescente. Non aveva sul volto che l'augusta impronta della morte che tutto placa, che a tutto indulge: non la serenità, ma la pace. Dalla soglia i due uomini guardavano il piccolo cadavere, dalle lunghe trecce nere fluenti lungo la persona: non entrarono. Immobili, ambedue tenevano gli occhi su quella piccola salma; e il dottore, teneramente, ripeteva, come fra sé, come un fanciullo che nulla potrà consolare: - Ci vogliono dei fiori, dei fiori… Il vecchio non lo udiva. Guardava sua figlia morta, e senza parlare, senza trarre un sospiro, piegò il suo gran corpo, e s'inginocchiò sulla soglia, tendendo le braccia, chiedendo perdono, come il vecchio Lear innanzi al cadavere della dolce Cordelia.

STORIA DI DUE ANIME

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Serao, Matilde 1 occorrenze

E, immancabilmente, questo piccolo incidente, aveva il potere di risvegliare Domenico, qualunque fosse il sonno in cui era tenuta e abbattuta la sua persona. - Bisogna riaccendere la lampada - egli pensò, male risvegliato, ancora. Con la mano, cercando di non far rumore, tastò sul tavolino da notte, per cercarvi la scatola dei fiammiferi. Non la potette trovare ed ebbe un moto di delusione e di lassezza, con la testa sull'origliere: temeva di risvegliare Anna; costei era abituata a dormire sempre, con la lampada accesa o spenta, e s'irritava assai di essere svegliata, quando Domenico faceva del rumore, per riaccendere la lampada, burlandosi, amaramente, di lui, come di un bimbo pauroso che non sapesse dormire all'oscuro. Domenico rimase qualche minuto immobile, sveglio, guardando nell'ombra, tendendo l'orecchio, a udire il respiro di Anna. - Dorme profondamente - disse, fra sè. E pensò di alzarsi, pianissimo, senza disturbarla, per riaccendere la lampada. Quella profonda oscurità, lo opprimeva, da un canto, e gli dava una inquietudine singolare, dall'altro: sentiva che non si sarebbe riaddormentato, se non rivedeva la fioca luce del lumino, nel bicchiere rosso innanzi a san Domenico. Con una cautela di movimenti, arrestandosi ad ogni secondo, per non produrre neppure uno scricchiolìo del letto, egli mise fuori le gambe, trovò le pianelle, si levò in piedi: tastò lungamente sul tavolino da notte, dove si ricordava di aver deposta, senz'altro, come ogni sera, una scatola di fiammiferi. Niente. Come fare? La sua inquietudine misteriosa lo eccitava sempre più: egli fece qualche passo, distese la mano, trovò sulla sedia, a piedi del letto, i suoi panni, infilò i suoi calzoni. Poichè in camera non vi erano fiammiferi, poichè nella sua giacca non ne avrebbe ritrovati, perchè non fumava, voleva andare in cucina, ove ne avrebbe trovati. Levando i passi, con una lentezza singolare, per non farsi udire, a tastoni, fermandosi, barcollando, eppur continuando il suo cammino, egli uscì dalla stanza da letto. - Meno male che Anna non si è svegliata - disse, fra sè, con un sospiro di sollievo. Con la consuetudine che aveva, da tanti anni, della sua piccola casa, si diresse all'oscuro, senza troppo inciampare, verso la cucina. Da che, l'anno scorso, Anna aveva licenziato la vecchia Mariangela ed egli non aveva avuto il coraggio di opporvisi, e la poveretta aveva dovuto prendere, a giorno fisso, implacabilmente, la via del paesello ove era nata, e donde mancava da tutta una vita, essi avevano cambiato due o tre domestiche, per capriccio di Anna, per lo più, o perchè erano indolenti, insolenti, mangione. - L'ultima, una giovine, vi stava da un paio di mesi miracolosamente, poichè Anna sembrava proteggerla molto: ma lei, come le altre, andava via dalla casa, la sera, dopo il pranzo e dopo aver rigovernato le stoviglie. Era Anna che aveva voluto così, dicendo che si nauseava di tenere a dormire in casa queste donne sudicie, che sciupavano la biancheria, che forse, avrebbero portato degli insetti nel letto e nella casa. Era, anche, una economia, poichè le domestiche che vanno via di sera, si compensano meno delle altre, che restano a dormire. Domenico che aveva fatto compiere, vilmente, il sacrificio di Mariangela, nulla aveva tentato di osservare, a questi mutamenti. Il dietrostanza oscuro dove, un tempo, dormiva la fedele Mariangela, era vuoto: e in quella notte, in quel silenzio, mentre si avviava alla cucina, Domenico pensò, che, in altri tempi, tante volte, quando si era alzato, a quell'ora, Mariangela si era svegliata subito, con quel senso fine dei cani di custodia, e gli aveva chiesto se voleva qualche cosa. Nulla, ora; la casa era deserta di quell'antica fedeltà, e Mariangela aspettava la morte, in vita divota e solinga, ad Airola, in un piccolo paese di montagna. Sospirando, tastando qua e là, Domenico finì per mettere le mani sopra una scatola di fiammiferi da cucina, di legno, dalla capocchia di zolfo. Bisognava contentarsi, poichè gli era impossibile continuare la sua notte nelle tenebre. - Povera Mariangela! - mormorò fra sè. Rientrò nella camera da letto, smorzando di nuovo i passi, diminuendo quasi il respiro, per non turbare il riposo di Anna, sua moglie. La lampada spenta era collocata sovra un cassettone, a sinistra del letto coniugale, dal lato di Domenico: appoggiato al cassettone, egli strofinò due fiammiferi, prima di avere la fiamma fosforica e male odorante, tossi per il fosforo, e riaccese il lumino, sempre tenendo le spalle voltate al letto, cercando, per cautela, di nascondere le sue operazioni. Vide che l'olio non mancava e che il lumino era nuovo: esso si era spento, non da sè, ma dalla mano di qualcuno che lo aveva annegato nell'acqua. Nella stanza si diffuse un pallido chiarore. Domenico si voltò verso il letto. Esso era vuoto, deserto, Anna non vi era. Egli si accostò di più, per vedere meglio. Il letto era deserto e vuoto: Anna non vi era. Si avvicinò moltissimo, toccò, con le mani, le coltri un po' rimboccate donde la donna si era levata, toccò l'origliere, in un incavo rotondo donde la testa della donna si era sollevata, toccò tutto il letto, con le mani, due volte. Era vuoto e deserto, Anna non vi era. E fulmineamente, una certezza gli squarciò tutte le fibre e tutta l'anima: Anna lo aveva abbandonato. Anna era fuggita. Non credette a un caso singolare, a un accidente bizzarro, a una combinazione qualsiasi, che attenuasse o contradicesse l'orrenda verità: tutta la orrenda verità gli fu palese, senza velo d'illusione alcuna. Come coloro che, in un istante, apprendono il massimo male, che li abbatte e li travolge, come coloro che sono toccati, in un istante, in un solo istante, dalla folgore del dolore, una vertigine lo colse, più forte, più forte, lo gittò sovra una sedia, ai piedi del letto, fatto vasto e deserto, donde Anna era fuggita; e nei giri larghi, ove egli perdeva conoscenza, girando attorno a lui, il letto, la stanza, la casa, la città, l'universo, in questi giri, in cui si sprofondava la sua conoscenza, egli pensò: - Io muoio, va bene. Ma non morì. Qualche minuto dopo, o molti minuti dopo, non intendendo bene la misura del tempo, supponendo che fosse passato un secolo di dolore o un secondo di altissimo dolore, Domenico Maresca si ritrovò solo, caduto di traverso sovra una sedia, sovra dei panni, solo, in quella stanza, solo, innanzi a quel letto, solo, in quella casa, in quella notte. E il terrore di quella solitudine, di quel silenzio, di quella penombra, un freddo terrore lo colse: si levò, come un pazzo, accese le due candele steariche nei candelieri, sulla toilette di merletto, escì nel salotto, accese il grande lume a petrolio, che era sul tavolino centrale, corse in istanza da pranzo, accese la sospensione, la luce si diffuse dapertutto, nelle poche stanze della piccola casa, tutto fu chiaro e fu chiara la solitudine, e fu chiaro il deserto di quella casa, una solitudine ultima, irrevocabile, un deserto ove neppure la voce di una familiare, di una serva sarebbe venuta ad aiutare la disperazione dell'uomo, che era stato abbandonato e che aveva fatto la luce per avere, quasi, il senso più largo e più estremo del suo abbandono. Tutto era a posto, tutto era in ordine, nella stanza da pranzo, nel salottino, ma tutto vi aveva un aspetto funebre, di dimora, ove, un tempo, fosse stata la vita di esseri palpitanti, vibranti e donde questa vita si fosse ritratta, per sempre. Sgomento, come folle, vacillante, egli corse di nuovo nella stanza da letto: là, ai piedi del letto, vi erano, dal lato ove dormiva la moglie, le pianelline sue: sovra la sedia era disposta la sua vestaglia di lana azzurra, le braccia pendenti, aperte, come in atto di ineluttabile disperazione. - Oh Anna, Anna! - gridò, vanamente, l'abbandonato. Il suo grido stesso, in quella camera muta, gli ridestò nel cuore, smarrito e straziato, dei tumultuosi sentimenti d'ira, di gelosia, di amara e beffarda curiosità, dei sentimenti novelli nella sua natura mite e fiacca, un impeto di collera come non ne aveva mai avuto, tutta la collera repressa in quegli anni d'infelicità e dì oppressione, un furor di anima debole che si è maturato per anni: e gittandosi sulla vestaglia azzurra, con le mani, coi denti, coi piedi, la lacerò, la fece a brandelli, la pestò, imprecando al nome di Anna. - Assassina, assassina della vita mia, assassina! - gridava, solo, nella stanza vuota. E si slanciò, per compiere qualche altra vendetta manuale contro le vesti, contro la biancheria di Anna, per soddisfare quel desiderio cruento e fugace che aveva di strappare, di svellere, di rompere, di calpestare, si slanciò contro il settimanile di Anna, che era a destra del letto, aprì il primo cassetto ove era la chiave, aprì il secondo, il terzo, il quarto, tutti, tirandoli violentemente, sbattendoli nel richiuderli: erano vuoti, lisci, vuoti, vuoti. - Ha portato via la sua roba, tutta la sua roba! - gridò, ancora, esterrefatto. E si arrestò, vinto da un tremito nervoso così forte, così forte, che le sue mani non potettero più rinchiudere l'ultimo cassetto. Andò a un grande armadio a specchio, ove erano le vesti e i mantelli di Anna; era socchiuso. lo schiuse perfettamente: vuoto, liscio, le gruccie sospese e libere, non una veste, non una giacchetta. Traversò di nuovo la casa, andò nella stanzetta ove, un tempo, aveva dormito Mariangela e ove vi erano altri due armadi, di biancheria e di vestiti. Tutta la roba di Anna mancava. Il corredo di biancheria così ricco e così elegante, per cui egli aveva speso tanto denaro, tre anni prima, e di cui ella non aveva usato che una parte, tutti gli abiti donatile nelle nozze, dopo le nozze, tutti, sino ad uno, da mattina, portatole dalla sarta, due giorni prima, e di cui Domenico aveva saldata la nota, tolto via, portato via, la roba pagata col danaro del pittore dei santi, non un fazzoletto lasciato, non un nastrino, non un cencio di merletto. Freddamente, da tempo, Anna non solo aveva premeditata questa fuga, ne aveva dovuto combinare, lungamente, il piano, ma lo aveva dovuto eseguire, giorno per giorno, ora per ora, da tempo! Sì, ella era partita, nella notte, un'ora prima, forse, due ore prima, appena lo aveva visto, immerso, il pittore dei santi, in una densità profonda di sonno. ma non si porta via, tanta roba, di notte. - La roba, via, prima, - egli pensò, amaramente - e lei, questa notte, quest'assassina della mia vita! Tremando, nella persona, nelle mani, come se avesse il ribrezzo della febbre terzana, egli ritornò in camera da letto: gittò uno sguardo sulla sveglia. Erano le quattro del mattino. - Questa notte, due ore fa: non sola. Con Mariano Dentale - pensò, ancora, mordendosi le labbra, in un accesso impotente di furore geloso, nella inanità dell'uomo tradito e abbandonato. E insieme al nome del bel giovinotto così beffardo, così seducente nella sua insolenza, insieme a questo nome che, per tre anni, era stato l'incubo segreto della sua anima, un ricordo lo colpì, dandogli un nuovo sussulto di spavento. Non aveva inteso dire che Mariano Dentale doveva partire per l'America, per farvi fortuna, non lo aveva udito, così vagamente, due o tre volte, negli ultimi tempi, mentre Anna era assorta, muta, indifferente, come sempre, Anna che, certo, era partita con lui. Con qual danaro? Con qual danaro? Mariano Dentale era un pezzente. Con qual danaro? Un pezzente! I gioielli di Anna Dentale, quelli, cioè, che suo marito le aveva donati alle nozze, e nelle sue feste, durante tre anni, qualche altro dono avuto, dal compare, dai parenti, erano chiusi, ordinariamente, in uno dei tiretti, il superiore, del cassettone di Domenico, e per maggiore sicurezza, alla loro volta, erano tutti raccolti in un cassetto di sicurezza, di ferro, non molto grande, di cui Domenico teneva la chiavettina. Quando aveva bisogno di adornarsi, Anna cercava la chiave del cassettino e, per lo più, la restituiva immediatamente a suo marito, con una smorfia di sarcasmo, per quella diffidenza. Accanto a questo cassettino, dei gioielli, ve ne era un secondo più grandicello, di cui teneva sempre la chiavettina Domenico, non affidandola mai a sua moglie, e in esso, da anni, erano chiusi quei titoli di rendita al portatore che suo padre gli aveva lasciati, circa trentamila lire, raccolte dopo una vita di lavoro. In verità, con il matrimonio, con le spese consecutive, Domenico Maresca ne aveva dovuto distaccare e vendere, di titoli, per dodicimila lire e ve ne erano, quindi, rimasti solo diciottomila, non toccate più, naturalmente, dopo, presa solo la rendita, poichè i guadagni del pittore dei santi erano bastati a fare andare innanzi la casa. Anna sapeva che, lì dentro, vi era tutta la piccola fortuna di Domenico: ma aveva sempre finto di non saperlo, di non interessarsene, uscendo dalla camera, con un'alzata di spalle, quando egli apriva il tiretto del cassettone, quando immergeva il viso nel fondo, per schiudere misteriosamente il cofanetto di ferro. Dopo, Domenico richiudeva e metteva la chiave del cassettone nel taschino del suo panciotto, ove già erano le chiavettine dei due cofanetti di ferro. Folle di spavento, dunque Domenico Maresca afferrò i suoi panni, frugò nel taschino del panciotto: nessuna delle tre chiavi vi era: si voltò al cassettone, e vide che il tiretto, come il settimanile, come tutti gli armadi, era socchiuso: folle di spavento, lo aprì tutto, vi cercò, con gli occhi, freneticamente, i due cassettini di ferro. Non vi erano. Tastò con le mani, come aveva tastato il letto, donde Anna era fuggita: i due cofanetti non vi erano più, più, essa li aveva portati via, essa aveva rubato i gioielli, essa aveva rubato il denaro. - Assassina e ladra! - gridò il povero pazzo, nella notte, maledicendo l'infame. E volle uscire, correr per le vie, correr dietro ai due ladri del suo onore, della sua felicità, della sua fortuna, volle raggiungerli, ove si trovavano, essi che si portavan via tutto, quei due ladri ma più ladra lei, che gli toglieva la sua persona e che gli derubava quanto egli aveva, tutto, tutto, glacialmente, cinicamente, come una scellerata. Oh li avrebbe ritrovati, non potevan esser lontani, non potevano essersi imbarcati, quella notte istessa, per l'America, sarebbe andato in questura, avrebbe fatto dei telegrammi per fermarli, per arrestarli. Diciottomila lire, tutto quello che egli aveva. tutto, portato via, dalla donna, dal suo amante! Voleva uscire, cominciò a vestirsi frettolosamente, mettendosi le scarpe, la camicia di giorno, i calzoni, un panciotto, la giacchetta, frugando macchinalmente nelle tasche, dove aveva poche lire spicciole, tre o quattro, forse: aprì il portafogli ove aveva riposto le mille lire dategli dal duca, per la Madonna Addolorata. Non vi erano. La sera, le aveva fatte vedere ad Anna, con un sorriso di soddisfazione, ed ella appena le aveva guardate, nella sua alterigia signorile. Prima di fuggire, scelleratamente, Anna aveva rubato anche quelle, lasciando suo marito con le poche lire che aveva, egli, in saccoccia. - Ladra, ladra! - gridò ancora, lui, nei singhiozzi che gli salivano dal petto, Frugandosi, ancora, nelle tasche della giacchetta, non trovò la chiave della bottega dei santi. Rovesciando le sedie, urtando nei mobili, senza cravatta, afferrando macchinalmente il cappello, in anticamera, egli escì di casa, si dirupò per le scale oscure, ritrovando, a stento, la via, nel piccolo portone senza portinaio ove essi abitavano, e di cui i battenti erano chiusi solo con un lucchetto. Nella via Donnalbina, l'oscurità era grande, egli corse in piazza Ecce Homo , rasentando le mura, con la consuetudine antica che non lo faceva sbagliare, anche attraverso il delirio fisico e morale che lo trasportava: traversò, di corsa, la piazza Madonna dell'Aiuto, e si precipitò contro le porte della bottega dei santi. Come i cassetti, e i tiretti del settimanile, come le porte degli armadii, come i tiretti del cassettone, le porte della bottega erano leggermente schiuse: entrandovi, Domenico inciampò nella chiave, che era caduta per terra, lasciatavi dai fuggiaschi, dai due ladri. Il delirante non si ricordò, più tardi, come egli aveva acceso il grande lume a petrolio, che aveva, dietro, un grande riflettore di metallo: certo che, ai suoi occhi, che tanti successivi spettacoli terribili avevano veduto, l'ultimo spettacolo si offerse. La bottega dei santi era svaligiata e devastata. Dal petto e dalle spalle del san Sebastiano erano state strappate le freccie di argento e lo stucco che si era rotto, qua e là, mostrava il fondo di creta, il fondo di legno; dalla mano del san Giovannino era stata tolta la mazza pastorale di argento e, nella fretta, il braccio si era spezzato per metà; dalla mano di santa Filomena era stata strappata la penna di argento, e da un san Francesco, da un san Cataldo, da un san Gregorio, erano state svelte le aureole di argento, più grandi, più piccole, onde erano incoronate le loro teste. Due di questi santi, più piccoli, erano stati arrovesciati dal loro piedistallo, per derubarne il prezioso metallo che li adornava; un terzo, il san Cataldo, giaceva per terra, a faccia sul suolo. Nel mezzo della bottega, la Dolente appariva denudata, derubata di tutto. Le avevano tolto la massiccia corona di argento dal capo, il manto carico di oro, le sette spadine confitte nel petto e che erano anche di argento massiccio, la veste carica di oro: disadorna, svestita, ella aveva la sua sottana nera, di tela forte, mezza discinta, per la rabbiosa fretta degli svaligiatori, e si vedeva la tunica di mussola bianca, come una camicia: mentre, sul capo denudato, in alto, ove erano dipinti leggermente i capelli, vi era un buco, prodotto dalla furia di tirar via la corona di argento e il manto che vi erano inchiodati: le bende e il soggolo pendevano lacerati, sul petto: dalla mano distesa era stato tolto persino il fazzoletto. E il furto sacrilego, quel furto che offendeva infamemente la immagine di Maria Addolorata, che aveva mutilato e spezzato le immagini dei santi, che aveva tolto sacrilegamente, da queste immagini benedette e consacrate, gli ornamenti benedetti e sacri, questo furto era completo, perfetto, tutto ciò che poteva valer danaro, dalle vesti della Dolente che costavano seimila lire di oro, alle piccole aureole di argento dei santi che ne costavano dieci, tutto, tutto era sparito, e la Madonna era spogliata, col capo infranto, i santi erano spogliati, con le braccia rotte, con il costato aperto, e giacevano in terra, spezzati, e il sacrilegio era consumato, nella sua forma più oltraggiosa, più irreparabile, più orribile. Dato un urlo altissimo, Domenico Maresca, cadde, come morto, ai piedi di Maria Addolorata e vi giacque, per terra, come morto. Tutta la sera, una pioggia scrosciante accompagnata da larghe raffiche di vento, una improvvisa e violenta bufera di equinozio primaverile, aveva battuto le vie e le case napoletane: verso le colline già verdi e odorose, qualche tuono rumoreggiava, mentre, in città, nelle vie deserte, allagate di vasti specchi di acqua nerastra, per la ineguaglianza del selciato, i lampioni a gas diffondevano delle fantastiche, vacillanti luci gialle. Gli scrosci di pioggia ora rallentavano, quasi cessavano, per riprendere, dopo pochi minuti, con ira maggiore: il vento ora ravvolgeva a turbine la pioggia, come un gorgo, ora la sbatteva sul volto, come uno schiaffo. Laggiù, verso santa Maria la Nova, verso Santa Maria dell'Aiuto, non un viandante, non un'ombra: altro che il fracasso del temporale, più intenso nelle strade anguste, coi vortici di pioggia che vi si ingolfavano, col turbine del vento che vi si angustiava dentro. A quell'ora piuttosto tarda, la bottega dei santi era ancora aperta: attraverso i vetri sudici ed opachi delle sue impannate, un lume fioco trapelava. Dentro vi era un silenzio intenso, in contrasto col rumore affannoso e urlante della bufera, un silenzio che aveva qualche cosa di mortale. E tutte le cose vi erano restate come Domenico Maresca le aveva trovate: la spoliazione, il furto, la devastazione, il sacrilegio, vi apparivano, in tutta la loro realtà e in tutta la loro crudeltà. Ma queste cose orrende non avevano più, da che una giornata era trascorsa, una eterna giornata di stupore di desolazione e di disperazione, non avevan più la loro espressione impensata e violenta: sembrava che da tempo, oramai, quelle cose orrende fossero accadute: che da tempo, lo spettacolo loro avesse destato il lungo grido di orrore e che tutti gli echi, oramai, di tal grido, si fossero spenti: che la sventura, l'onta, l'infamia che esse rappresentavano, non fossero più la convulsione spasmodica di fatti inaspettati e brutali, ma la pacata e immanente desolazione senza confini, oltre l'anima, oltre il mondo, oltre il Cielo. Il momento altissimo, atrocissimo, era trascorso e la tragedia aveva toccato il suo culmine: già le vittime senza vita o viventi, parevano coperte dal tetro, pesante, ineluttabile manto della rassegnazione. Un solo lume a petrolio, portato dalla casa di Donnalbina, ardeva debolmente sovra la tavola, fra gli strumenti dell'arte, i mucchi delle biacche, i vaselli degli ori e degli argenti, i pennelli e le stecche. Contro il muro di fronte, la immensa ombra della Madonna Addolorata, che le ciniche mani avevan dispogliata delle sue vesti sontuose e dei suoi gioielli, si allungava, misteriosamente: e la statua era rimasta deturpata, come le mani dei due furenti spoliatori l'avevan lasciata: e tutti gli altri santi, derubati dei loro ornamenti, spezzati, protendevano, colpiti da quella poca luce, le loro linee sulle muraglie, in ombre fantasiose e lugubri. Quella penombra conveniva ad essi: meno si scorgeva il danno, e il sacrilegio si avvolgeva di incertezza, per gli occhi non avvezzi. Il grande lume dal vividissimo riflettore, era stato spento, e pareva che, in quella bottega, si vegliasse, da giorni, in silenzio, in penombra, intorno a una persona morente, intorno a una persona morta. Tendendo l'orecchio, un respiro penoso si udiva, infatti, interrotto, talvolta, da sospiri dolenti: non altro. In un cantuccio della sua bottega, sovra una sedia, coi gomiti appoggiati a un angolo estremo di un tavolino, Domenico Maresca vegliava, colà, come in una camera mortuaria. Era solo! I due poveretti suoi compagni di fatica, lo stuccatore Gaetano e il piccolo storpio Nicolino che, nella mattinata, qualcuno era andato a chiamare, per soccorso, avevano passato la giornata con lui, piangendo con lui, provando un dolore più semplice e più candido, non osando neppure consolarlo, non osando nominargli nè la fuggiasca che gli aveva tutto strappato, l'onore, la felicità, il denaro, nè il suo complice che l'aveva spinta al tradimento, al furto, al sacrilegio. E non gli erano stati di altro aiuto, che come triste compagnia. Non potevano essergli di altro aiuto: non lasciarlo solo, in preda all'abbattimento delle forze fisiche ed alla disperazione: erano restati lì, in bottega, chiusi con lui, fra le statue spogliate e manomesse, non osando toccarle, non osando neanche toccare il san Cataldo che era caduto con la faccia per terra, non osando quasi voltarsi alla Dolente, dal piccolo capo rotto, donde era stata strappata brutalmente la sua corona: e chiusi col pittore dei santi, in una taciturnità d'avvilimento, di sgomento, di stupore, non sapendo che cosa dirgli, comprendendo, così, vagamente, che nulla potevano dirgli e che nulla egli poteva udire. Avevano vegliato con lui, come si veglia con uno sventurato che ha perduto una persona amatissima, rapitagli da un destino avverso: senza parole, con movimenti cauti e lenti, lasciando trascorrere le ore. Per prendere un boccone, morenti di fame, come erano, verso la sera, uno alla volta, erano usciti, si erano allontanati, dandosi il cambio: e dal non aver egli neanche risposto, all'offerta di portargli qualche cosa, dal non aver neanche udito, forse, le loro discrete e umili insistenze, essi si eran convinti, che era meglio lasciarlo stare, immerso nel suo muto e atroce dolore. E quando egli li aveva rinviati, la sera, nel momento che principiava la tempesta di primavera, essi non avevano chiesto di restare, avevano obbedito, come erano avvezzi a obbedirgli, sempre. Così mentre la pioggia imperversava, colpendo i vetri delle impannate e il vento ne faceva scricchiolare i cardini, Domenico Maresca era solo, con i gomiti puntati sul tavolino e il volto nascosto fra le mani; solo, assorto, perduto nella vastità di uno strazio muto. Nè udì schiudere la porta, verso le dieci e mezza di sera, mentre, furiosamente, acqua e pioggia entravano dall'uscio e quasi spegnevano il fioco lume a petrolio; nè vide la donna che entrava, richiudendo subito con la chiave, e posando, in un angolo, un ombrello stillante di acqua, nè la vide asciugarsi con un fazzoletto le vesti tutte bagnate, passarsi il fazzoletto sul viso bagnato di pioggia. Mentre Fraolella faceva questo, teneva gli occhi fissi su quella massa immobile e accasciata, che formava il corpo di Domenico Maresca: ma la massa non si scosse, l'uomo era immerso, profondamente, nella sua contemplazione angosciosa. La giovine, allora, si accostò pianamente a lui, rasciugandosi le mani. Ancora del tempo era passato sul capo della graziosa e sventurata creatura: e malgrado la giovinezza, i segni della decadenza si erano fatti più palesi sul suo viso e sulla sua persona. Più gracili le forme, come se un malore intimo le avesse cominciate a distruggere, a venti anni, quando ogni essere fiorisce, e ha bellezza più vivida, e forza più salda. Più languido, più stanco l'andare, e le vesti come troppo larghe, cadenti, fluttuanti, con pieghe di abbandono. Portava una veste di lana viola pallida, guarnita goffamente di nastri rosa, e una camicetta di seta, di un rosa molto vivo, sovraccarica di galloncini di oro, di nastrini bianchi, di bottoncini: sulle spalle, uno dei suoi soliti scialletti, celeste questa volta: un insieme chiassoso, senza gusto, con quel carattere di vita viziosa, ahimè, indelebile, come una livrea di vergogna, come una livrea di disonore! Non portava più il cappello: e i suoi bei capelli folti erano acconciati pomposamente, in nodi, in ciocche, in ciuffi, in ricci, sempre nella forma più caratteristica delle poverette vagabonde, di cui si profila l'alto casco oscuro di capelli, nella notte, agli angoli delle vie. Assottigliato il viso, con gli zigomi sporgenti, carico di rossetto, con gli occhi dipinti, sotto, e le leggiadre palpebre, un tempo rosee e trasparenti, cariche anch'esse di un bistro azzurrino: e disegnata, col rossetto, la piccola fragola presso il mento, non più come un tempo, come una voglia, ma come un artifizio d'ignobile seduzione; e torbidi gli occhi, sempre torbidi, tristi, rassegnati, quasi servili, traversati, talvolta, da onde di collera servile, da onde di lagrime servili e inani. Ella si curvò sull'uomo assorto e, chetamente, lo chiamò. - Domenico, Domenico! Egli non udiva, forse, o giaceva in torpore doloroso. - Domenico, sono io, Fraolella , Domenico! - ella mormorò e poichè gli pareva di veder trasalire quella massa abbattuta, delicatamente, gli prese le mani, gliele distaccò dal viso, lo forzò dolcemente a guardarla, a riconoscerla. E nel guardarla, nel riconoscerla, il cuore di Domenico Maresca si franse: egli scoppiò a piangere singultando, balbettando, torcendo le mani: - Gelsomina... Gelsomina... hai visto, che mi è successo?.. hai visto, che mi hanno fatto?.. mi hanno ucciso... mi hanno assassinato... - Poveretto, poveretto, poveretto! - diceva lei, a bassa voce, ritta innanzi a lui, lasciandolo piangere. - Gelsomina... Gelsomina... perchè Anna non mi ha ucciso? Era meglio una coltellata nel cuore... era meglio uccidermi... era meglio... - Certo, è meglio morire - mormorò lei, con la sua voce dalla raucedine così forte, che ne aveva ottusa ogni armonia. - È meglio morire, che sopportare certe cose. - Oh Dio! oh Dio! - esclamava lui, battendosi dei pugni nella testa, in un nuovo accesso di disperazione, aridi gli occhi, adesso, e con la voce concitata. - Non far così, Domenico, - disse lei, tentando di prendergli le mani, tentando di tenergliele ferme. - Non far così, calmati, calmati!... - Ma lo sai, che Anna è fuggita in America, che non la vedrò più, che è morta, per me, che è come se fossi vedovo, mentre ella vive, con un altro, per un altro, lo sai? - Lo so - disse lei, crollando il capo. - Lo sai che ha portato via, dalla mia casa, diciottomila lire, tutto quello che io possedeva, tutto ciò che mi restava, della eredità di mio padre, e le mille lire, anche, che avevo in tasca, Gelsomina, anche quelle, perchè gliele aveva fatte vedere, lo sai? - Lo so - replicò lei, a testa china. - E lo sai, lo sai, che infamia ha commessa, qui, ove non era mai venuta, ove è entrata solo per rubare? Non le bastavano, a lei, a lui, quei denari miei, le fatiche del mio povero papà, non bastavano, le mie fatiche, è venuta qui, a rubare la Madonna, capisci, a rubare i santi, ha spogliato Maria Addolorata, si è portata tutto, per vender l'oro, per vender l'argento, in America, Gelsomina, questo, non lo sapevi? - Lo sapevo, lo vedo - disse ella, girando intorno gli occhi torbidi e tristi, dalle palpebre pesanti e oscure. - L'avresti creduto, tu, Gelsomina, che Anna mi avrebbe assassinato, l'avresti creduto? - Io l'ho sempre creduto - diss'ella, semplicemente. - Da prima? - Dal primo momento - ella soggiunse, con fermezza. - E non mi hai detto niente? Nessuno, mi ha detto niente! - Non dovevo dirti niente - ella soggiunse, ancora. - E perchè? Perchè? - Perchè tu l'amavi: perchè tu eri pazzo, Domenico - continuò lei, tristemente. - Ed era inutile dirti nulla. - E mi hai lasciato perdere, Gelsomina, tu che mi volevi bene! Tu dicevi, allora, di volermi bene! - Ti volevo bene e assai - disse la misera, con un tremito nella voce. - Come a nessuno, ti volevo bene! - E mi hai taciuto tutto! Non mi hai avvertito! Mi hai lasciato perdere, così, Gelsomina. - Anch'io mi sono perduta, Domenico! - dichiarò la disgraziata, a voce alta, con l'accento della verità. La verità, a un tratto, grandeggiò, fra quei due, si fece più alta di loro, s'impose a loro, luminosa, immensa, fatale, apparsa troppo tardi, fatale, troppo tardi, inutile e fatale. Tutto ciò che era stato e che era finito, per sempre, tutto ciò che avrebbe potuto essere e che mai più sarebbe stato, l'Irreparabile, l'Irreparabile si levava fra loro, e riempiva di sua fantastica e tragica presenza la bottega dei santi, tra le immagini rotte e deturpate, innanzi ai simulacri violati, nell'ora alta notturna, mentre imperversava, fuori, il temporale, e i due si guardavano, colpiti dalla medesima fatalità, trascinati, ognuno di essi, nel dolore, nel disonore, nel fango, per non aver visto a tempo, ove erano la verità e la vita. E l'uomo obbliò il suo immenso strazio, la sua anima si sollevò dal proprio pianto, egli sentì la comunanza di un'altra sciagura, assai più profonda della sua, perchè più oscura, più ostinata, più tetra, più inguaribile, sentì la miseria di un altro essere, la miseria del corpo e dell'anima, la miseria di un essere che lo aveva amato e del cui amore egli non si era accorto, la miseria di un essere che egli anche aveva amato, ma che non aveva saputo amare. - Ah povera, povera Gelsomina! - egli gridò. E poichè vide il volto di lei decomporsi, farsi livido, sotto il belletto, poichè vide quel sottil corpo giovanile tremare, egli prese la poveretta nelle sue braccia, per la prima volta, e con la castità della pietà infinita, paternamente, fraternamente, la strinse, tenne il picciol capo di lei sulla sua spalla e ne baciò, leggermente, i capelli, mentre ella singhiozzava, funebremente, con un singulto roco e penoso, ove vi era un lamento, un lamento di creatura colpita a morte, colpita senza speranza, senza rimedio, a morte. Gelsomina, lentamente, si sciolse dalle fraterne braccia di Domenico, si ravviò i capelli, si sedette presso a lui. Un'aridità improvvisa aveva diseccato le loro lacrime, e calmato i loro singhiozzi: l'aridità della pietà inane, della pietà vana, della pietà che non può diventare coraggio, energia, forza, della pietà che ha solo delle gelide lacrime, degli abbracci paterni, dei baci fraterni, della pietà che è un sentimento senza lena, della pietà che non ha fiamma e che nulla può distruggere, della pietà sterile che a nulla può dar vita. - Io sarei stato felice, se ti avessi sposato, Gelsomina - disse lui, con un rimpianto triste e vano, a occhi bassi. - Sì, tu saresti stato felice - replicò lei, a occhi bassi, con lo stesso tono. - Io ti avrei stimato e onorato come un benefattore e come un innamorato, Domenico. - Ahimè, io era cieco e sordo. in quel tempo! Una benda mi copriva gli occhi, Gelsomina. - Eppure io feci assai, per farti comprendere. Non ti rammenti, Domenico? Qui. venivo a cercarti, a parlarti, ogni sera. - Mi rammento, Gelsomina. - E tu non ti accorgevi di nulla. Tu guardavi le finestre del palazzo Angiulli, perchè tu amavi Anna, Domenico. - Lo sapevi, Gelsomina? - Lo sapevo, Domenico. Come potevo, ho tentato di staccarti da lei, ti ricordi, Domenico? - Mi ricordo, Gelsomina. - Ma non mi è riuscito, Domenico. - Non ti è riuscito, Gelsomina. - Non era possibile, Domenico. - Non era possibile, Gelsomina. Il dialogo continuava. Monotono, arido, quasi freddo, quasi essi facessero la storia di un lontanissimo passato. la storia di due altre persone, e non di loro due. - Dio mi ha punito della mia folle passione e del mio orgoglioso desiderio - disse lui, dopo un silenzio, riabbandonandosi all'egoismo della sua sciagura. - Raccomandati a Lui: Egli ti darà forza - mormorò Gelsomina, crollando il capo. - Io sono perduto - disse lui, cupamente. - Ci vuole coraggio: gli uomini debbono aver coraggio. - Avevo una moglie e una famiglia: non ho più nulla. - Dimentica quella donna: essa ha tentato di ucciderti. - Avevo una fortuna: non ho più un soldo. - Puoi lavorare ancora: il Signore ti manderà del lavoro. - Domani andrò in carcere, come ladro. - Tu? Tu? - Io! - Ma perchè? - Perchè Anna ha rubato le vesti della madonna, che costavano seimila lire, e gli argenti, e ogni cosa: perchè io debbo consegnare, domattina, la statua della Madonna a chi l'ha ordinata e pagata, sino all'ultima lira. - Dì che non è finita. - Non posso. Egli l'ha vista. finita. All'alba, la manda a prendere. - Va da lui, digli tutto. - Non so dove abita. - Cercalo, gittati ai suoi piedi. - Non so chi è. - Oh Dio! - esclamò lei, disperata. - Sono perduto, Gelsomina. Bisogna che dimentichi di esser un cristiano, e che mi uccida ai piedi di questa Madonna. - No - disse lei, con forza. - Bisogna che lo faccia. Non posso esser chiamato ladro. - Vuoi dannarti, dunque? - Anna mi ha messo nell'inferno, per la vita e per la morte - egli conchiuse, con l'ostinazione della follia. Ella lo guardò, stralunata. - Tu vuoi ucciderti - gli gridò, nel viso, tenendogli le mani, bruciandolo coi suoi sguardi, ove ardeva la vampa della disperazione. - Vuoi ucciderti? E che avrei dovuto fare io? Cento volte, avrei dovuto uccidermi, io! Ero una fanciulla buona, ti volevo bene, mi hai respinta, non mi hai voluta, ed io mi sono lasciata prendere, da uno qualunque, così, per debolezza, per tristezza, per non aver più che fare, di me. Non mi dovevo uccidere, forse, il giorno seguente al mio errore? Don Franceschino Grimaldi mi ha lasciata; e io, abbandonata, già perduta, ho rotolato sempre più giù, ogni giorno, perchè ero sola, perchè ero fiacca, perchè nessuno mi ha soccorso, neppure tu, perchè era impossibile, a un certo punto, di soccorrermi più. Ah quante volte la morte mi è parsa bella: e non mi sono uccisa! Io non ti posso dire la mia istoria, tutta quanta, Domenico, ma essa ti farebbe rabbrividire: non te la voglio dire, non devi saperla, non me la voglio ricordare, no, no: la volontà di morire l'ho avuta, ogni sera, ogni mattina, e non mi sono uccisa! Un tempo, due o tre anni fa, questa vita di vergogna mi dava da vivere, avevo degli abiti, dei cappelli: poi sono venuti degli infami, come Gaetanino Calabritto, degli altri, mi hanno oppressa, mi hanno maltrattata, mi hanno tolto tutto... Poi sono stata malata... all'ospedale, Domenico... ma non sono morta... e quando sono uscita, capisci... anche peggio... è stato anche peggio... Egli la udiva, smarrito, atterrato da quel tremendo racconto. - Chiedi al tuo stuccatore, Gaetano, dove sono io, adesso - disse ella, cupamente. - Egli abita dirimpetto alla mia casa. Stassera, mi ha incontrato. Giravo. Debbo girare. Mi ha raccontato tutto. E sono venuta qui, per dirti, Domenico, che se uno doveva uccidersi, dovrebbe uccidersi, sono io, io sola... io che era una buona ragazza... e che sono una disgraziata... - Ma tu non l'hai fatto! Tu non lo faresti? - No - ella disse, levandosi. - Aspetto che Dio mi tolga da queste tribolazioni. - Aspetti? - Aspetto. Deve venire il giorno... deve venire. Addio, Domenico. - Te ne vai adesso? te ne vai? - È tardi, debbo andare - diss'ella, con atto rassegnato, levando le spalle. - Mi lasci solo? - Non posso passar la notte, qui - soggiunse ella, con un sorriso amaro. - Ritornerai? domani? - No. Come posso venire, qua, di giorno? Dimentichi chi sono? Qui... da te... come sono... vedendomi tutti? No, non verrò. - Ma dove vederti, allora? - insistette ancora lui, nel suo bisogno di soccorso. - Oh non da me, non da me! - gridò lei, facendo un atto di ribrezzo. - Hai ragione - annuì lui, lentamente. E si guardarono in viso. Il destino li aveva avvicinati un tempo, ed essi tenevano nelle loro mani, la quiete e la dolcezza della loro vita, e l'avevano lasciata sfuggire, per ignoranza, per cecità, per timidezza, per debolezza: sovra loro, sovra le loro fragili anime, sovra le loro caduche compagini, era sorto un essere forte e crudele, una donna imperiosa e malvagia che li aveva combattuti, in nome dei suoi istinti di dominazione, di cupidigia, di potenza, li aveva combattuti, debellati, distrutti. E travolti dal turbine, sempre più, essi dovevano incontrarsi, ogni volta, per compiangersi, per piangere insieme, per esalare i lagni del loro dolore, ma incapaci, nella loro fiacchezza, di salvarsi, l'un l'altro, ma inetti ad agire, inetti a lottare, inetti a vivere, destinati, infine, ad aspettare che Iddio li liberasse dai triboli, ad aspettare la morte pacificatrice, solo quando il giorno della liberazione fosse venuto. Si guardarono, infelici come mai creature umane, in una notte bruna e tempestosa, furono infelici: e sentirono che nulla avevan più da dirsi: che le loro mani non dovevano toccarsi: che le loro vite dovevano separarsi: poichè la loro salvazione non era più in loro, ma fuor di loro, in mani misteriose, e chiuse, e alte, e supreme. Nella bottega dei santi, Domenico Maresca restò solo e piegò la testa sulle braccia, versando rade e fredde lacrime. Nella via, sotto la pioggia, la gracile ombra notturna di Gelsomina si allontanava, trascinando la stanca persona, e sul triste viso scendevano le rade e gelide lacrime.

CONTRO IL FATO

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Steno, Flavia 1 occorrenze

Era tanto bella così, un po' pallida, un po' abbattuta, con quell'aria di preghiera negli occhi buoni, che il duca l'abbracciò quasi teneramente. - Perdonami, sai che scherzo e che ho molta stima di te: sei la duchessa d'Eboli, e ciò mi basta per esser sicuro che non mancherai mai al tuo nome.... D'altronde mi devi perdonare se scherzo un po' sul tuo ex spasimante..., Sai che sono curioso, come v'incontrerete? - Partiamo - diss'ella a un tratto. - Partire? perché egli lo sappia e rida di noi?... Tu hai dunque paura? Essa tacque un momento. - Hai paura? - ripetè il duca, corrugando la fronte. - No, no, - s'affrettò a rispondere Sarah, guardandolo franca coi suoi grandi occhi puri - non ho paura. - E hai tutto quanto il tempo per prepararti; il signor Rook non è all'albergo, mi ha detto stamane il dottore. Egli è a Madrid da due giorni e non tornerà che alla fine della settimana, se pur tornerà. – Sarah non potè a meno di gettare un sospiro di sollievo. - Vedi che eri impensierita? - osservò lui un po' imquieto in fondo in fondo, ma sicuro di sua moglie che lo adorava, e un po' ferito nel suo amor proprio dall'idea che un altr'uomo potesse occuparla così, fosse pure per un sentimento d'odio e di paura!... Dopo tutto, quell'uomo, un giorno, era pure stato amato, e aveva avuto il primo palpito di quel cuore vergine e intatto. - Lo hai amato molto? - le chiese per la prima volta. Sarah sussultò colpita da quella strana domanda, ancor più strana sulla bocca di lui, che non si era mai degnato di chiederle nulla del suo passato. - Ma che! - protestò - se l'avessi amato, non avrei sposato te! non sarei neppure partita di laggiù, credo!... - Ma credevi d'amarlo, non è vero? - Che ne sapevo allora dell'amore? - sussurrò lei pensosa, commossa da quelle ricordanze soavi, e forse per la prima volta conscia di quanto aveva fatto.... Il duca sorrise, orgoglioso di quella risposta. Non era tributo ed omaggio a lui? Non aveva aperto egli stesso la mente di lei, candida e ignorante? Non l'aveva conosciuto per lui l'amore? Ah, lo Yankee con molti milioni, che credeva d'essere anche il re di cuori!... Venisse pure, non lo temeva certo! Lo Yankee arrivò infatti molto prima di quanto si credeva; Sarah ch'era rimasta fuori tutto il pomeriggio per una lunga passeggiata lungo la costa colla baronessa Gleunitz, rientrava lentamente, tranquilla e lieta, quando due vetture dell'albergo le passarono accanto al trotto, scomparendo nel lungo viale che saliva alla collina. La piccola Solange che camminava un po' avanti con miss Lucy, si fermò, e volgendosi verso sua madre: - Quante scatole! - esclamò, indicando la seconda delle vetture tutta piena di pacchi e d'involti. Poi aprì la sua rete per mettervi altre due piccole conchiglie rosee raccolte allora allora, e raggiunse un po' di corsa miss Lucy che aveva continuato la strada leggendo il Times spiegato come un immenso lenzuolo. - Ancora forestieri! - disse la baronessa. - Sì, - confermò Sarah, ben lontana dall’immaginare che quel forestiero così equipaggiato fosse il temuto signor Rook. Dieci minuti dopo, mentre saliva lo scalone per recarsi in camera, lo incontrò proprio sul pianerottolo del primo piano. Ah, l'ora temuta!... Entrambi si fermarono come immobilizzati, fissandosi un istante. Essa frenò a stento un grido di sorpresa e quasi di terrore davanti a quella figura che le parve smisuratamente alta e maestosa, sotto quegli occhi verdi fosforescenti.....E negli sguardi di William passò rapida tutta una tempesta terribile: lampi d'odio e di vendetta, subito vinti dai ricordi e dall'impressione dolorosissima che gli produceva la presenza dell'amatissima.... Ah, che istante! nessuno dei due doveva dimenticar mai più quell'attimo, foriero di tante ed immense sciagure!... Ma fu un lampo; in lui, la fibra potente, ed atta a dominare gli impeti del cuore, prese subito il sopravvento; l'antico innamorato scomparve, e senza proferir parola, il signor Rook s'inchinò profondamente alla duchessa d'Eboli e continuò a scendere, lasciandola immobile e come istupidita sul pianerottolo. Finalmente anch'essa si riebbe; salì rapida le scale, quasi temendo il riapparire di quella visione, chiuse l’uscio della sua camera e si lasciò cadere affranta e commossa sul piccolo divano accanto al balcone difaccia al mare. William!... era il William di dieci anni prima quello!... il bel giovane bruno e forte, sempre timido e sottomesso come un bimbo davanti a lei.... ma il suo Willy d'un tempo non aveva quegli strani occhi di fuoco intraveduti in un lampo, non aveva quelle rughe profonde tra le sopracciglia e la piega d'ironia sanguinosa all'angolo delle labbra sottili.... eppure quello era Willy!... anche lui l'aveva riconosciuta subito.... come mai nessun insulto, nessun rimprovero, nessun accento era uscito da quella bocca? Ah, egli non l'aveva dimenticata! Essa era la duchessa d'Eboli. E quasi quasi la prendeva un intimo rimpianto per tutto il passato perduto, irreparabilmente, perduto senza più nessuna speranza, e senza ritorno.... Tutta una visione di altri lidi, di altre fisonomie, di altri giorni, suscitata da quel volto temuto, che tante volte ella aveva visto illuminarsi al raggio dei suoi occhi infantili, e arrossire di desiderio e di passione per una sua tenue carezza. Ah! il passato! Le pareva di essere ancora la Sarita d'un giorno, la piccola bimba dello Skating, colla pelliccia e il manicotto bianchi, la piccola allieva di miss Violet, che rubava nel giardino i più bei fiori per Willy e lo veniva ad aspettare la sera e gli diceva tante paroline tenere, sempre tremando d'essere scoperta e ritenendosi un'eroina d'amore per l'enorme pericolo che affrontava, d'essere sgridata dal babbo. Proprio quel Willy che ella aveva creduto d'amar tanto, che l'aveva adorata davvero con tutta la passione d'una natura primitiva e non completamente ancora civilizzata, stava ora a due passi da lei.... l'aveva veduto.... Oh Dio! come mutato! Ma essa non era più la piccola Sarita! ora non c'era più a sgridarla il vecchio babbo buono e un po' cieco, c'era invece un altr'uomo ch'ella conosceva assai poco, ma che amava assai.... e che non la sgridava, ma la guardava con due occhi tanto cupi e bui, così freddi e pungenti a volte, ch'essa li sentiva scendere fin in fondo al cuore con un brivido impercettibile. E c'era ancora un amore di bimba, un'altra piccola Sarita, che sarebbe cresciuta, certo, o forse avrebbe essa pure amato un altro Willy.... Ma perchè sempre Willy? Non era morto laggiù sulla pianura verde dove pascolavano le giumenta bianche e correva selvaggio il bufalo crudele? Qui non esisteva che il signor Rook, come non c'era che la duchessa d'Eboli.... E il signor Rook non rammentava più nulla certo! Era sceso tranquillo, quasi sprezzante, deridendo forse lo stupore di lei.... Perché dunque tanta inquietudine? Perché non essere come lui franca e sorridente? La vita era bella, e il mondo abbastanza largo per entrambi!... Ognuno per sé e il sole per tutti! A che dar tanta importanza a una storia d'amore infantile? A malgrado di tutti questi ragionamenti non volle scendere la sera a pranzo; e al duca, che aveva indovinato le sue paure e ne rideva, accusò invece un fortissimo mal di capo. Tenne con sé la bimba e miss Lucy, mentre Luciano scendeva col principe Belitzine.... Il pranzo fu triste assai nel salottino, tutto aperto verso il mare, dove alcuni piccoli canotti a vela si cullavano pigramente presso la spiaggia tranquilla e bianca. E il sole moriva nel sangue, laggiù nell'Atlantico azzurro. Cosa strana: contrariamente alle sue abitudini, anche il signor Rook quella sera mangiò di sopra, e Lovere non mancò di notare la coincidenza. - C’è del torbido.... - pensò, stuzzicato nella sua curiosità d'elegante sfaccendato un po' pettegolo. E si promise di non perdere nulla del dramma che si annunciava. Se sarebbe stato dramma o commedia, egli però non poteva saperlo, e invano si sarebbe lambiccato il cervello per indovinarlo. Intanto, completamente solo nel suo salotto orientale, William, poiché esisteva pur sempre un William dentro il miliardaio signor Rook, stava riflettendo all’impensato incontro di pochi momenti prima. Era caduta la maschera d'indifferenza che lo aveva sostenuto, lasciando ora scorgere chiaramente sul viso tutta la tempesta dell'anima, una vera tempesta, perchè dentro cozzavano furiosamente la sua fierezza offesa e la voce del cuore risorto. A malgrado dell'odio terribile che da tanto tempo gli faceva maledire la diletta, non poteva esimersi da un senso vivo d'ammirazione verso la splendida creatura riveduta. Infame, sì, e spergiura; vana e frivola, sì, ma pur bella!... Ancora essa era viva, viva nella sua mente, e socchiudeva gli occhi per rivederla, così tutta stupita e immobile, coi grandi occhi sbarrati di sorpresa e di paura, pallida come una morta, con la bocca schiusa a un grido, chissà se di meraviglia o di timore?... Era pur bella la splendida figura modellata dal vestito nero a grandi mazzi di mammole, le spalle bianchissime, nude, sotto le trine sottili, la breve cintura stretta tanto da potersi prendere colle dita. Così,... così egli l'aveva immaginata la sua Sarah d'un tempo, proprio così; essa era viva e desiderata nei suoi sogni pieni di lei. Aveva pensato di partir subito la sera stessa, per resistere all'impeto di rabbia che lo spingeva a spezzarla come un giocattolo, per rifarsi di tanto strazio sofferto; ma ora sentiva che non sarebbe potuto partire, no, prima d'averla riveduta.... Ne aveva bene il diritto!... Chi mai l'aveva amata quanto lui?... Oh, non certo quel duca d'Eboli, che aveva dorato a nuovo il suo stemma sbiadito coi dollari del vecchio Gould.... Ah, quel marito!... No, assolutamente bisognava ch'egli rimanesse; voleva ad ogni costo riveder Sarah, magari per odiarla ancor di più, per maledirla un'altra volta, se proprio quel cuore era tutto dell'altro! Chissà!... Sarah era rimasta troppo commossa e troppo stupita, per aver dimenticato interamente il passato. Ad ogni modo voleva sapere.... No, non sarebbe più partito: il giuoco era pericoloso e terribile, le sorti diverse assai, ma valeva ben la pena d'arrischiare il tutto pel tutto! Sonava l'ora della rivincita contro il destino.... Che cos'avrebbe fatto? In verità non sapeva: ma ad ogni modo non sarebbe partito. Anzitutto, riveder Sarah, avvicinarla, parlarle, leggere dentro e fuori la sua vita e la sua anima. Ma per avvicinar Sarah bisognava farsi amico del duca. Era facile la cosa. Nel pomeriggio aveva scorto Luciano in compagnia di Belitzine. Belitzine era un amico comune, dunque, comodissimo. Avrebbe parlato a Belitzine. Dov'era ora il principe? In giardino certo, con Sarah forse, anzi, sicuramente con Sarah. Bisognava scendere. Fece le scale con un'impazienza che smentiva stranamente la sua calma proverbiale. - L'americano ha un diavolo per capello - disse a un cameriere un giovinetto che oziava sul pianerottolo spiando. Ma l'americano era già nel giardino. Era triste quella sera: pareva che tutta la gaiezza fosse fuggita dall'Hôtel Regina. Lovere, afflitto per l'assenza di Solange, sua piccola amica, si dondolava pigramente su una sedia a sdraio, fumando una sigaretta egiziana, affatto indifferente e insensibile alle manovre di miss Cora, che approfittava dell'assenza della nuova rivale per riprendersi i suoi adoratori e cominciava collo stendere un vero stato d'assedio in tutte le regole a quel povero marchese annoiato!... D'Ostrog e von Yglau obbligati vicini alla baronessa per dovere di cortesia, nascondevano di tanto in tanto qualche sbadiglio poco lusinghiero per la povera signora, che invano si sforzava di rendersi interessante coi suoi discorsi serî, troppo assolutamente pesanti per un'ora di siesta. Gleunitz faceva invece una partita all'écarté col direttore del Casino, e nei crocchi delle signore la conversazione languiva assai. Fin la musica pareva influenzata dalla tristezza generale; anche il direttore del concerto era stato infelicissimo quella sera nella compilazione del programma, e dalle corde dei violini le note uscivano lunghe e roche come gemiti. La venuta del signor Rook portò una nota nuova, una distrazione almeno tra tutti quegli ammalati di spleen. spleen.Il miliardaio destava sempre la curiosità d'una persona nuova; le sue continue corse attraverso le capitali d'Europa, la facilità con cui profondeva il suo oro, il suo modo particolare di avvicinare tutti senza mai stringere amicizia con nessuno, gli avevano creato intorno una leggenda di stranezze e di follìe, che interessava specialmente le signore.... Ah, che cosa avrebbe dato miss Cora, Clara Berth e la contessa d'Ostrog e Lalla d'Egmont per riuscirgli simpatiche!... Ma il signor Rook era purtroppo tetragono a tutte le seduzioni femminili, come se in quella robusta e maschia figura non battesse un cuore e non si destassero mai i sensi. Egli s'intratteneva volentieri con tutte quelle che avessero un po' di spirito e una vernice di coltura mondana, ascoltava anche cortesemente i mille pettegolezzi femminili, il racconto noioso degli infiniti disturbi di quelle eleganti nevrotiche, sorridendo di tutto, senza interrompere mai per non dover sostenere la conversazione, in particolar modo per evitare tutto ciò che lo riguardasse. Anche ora il signor Rook s'avvicinò al gruppo dove era la baronessa Gleunitz e fu subito accolto con premura e cortesia, tanto da quella quanto dagli uomini. - Ben tornato, signor Rook, non v'attendevamo oggi.... - Perchè? - chiese lui, distratto. Intanto osservava intorno, cercando fra le signore la figura alta e snella di Sarah e i suoi biondi capelli. Fu meravigliato assai di non vederla. Lo pungeva un acuto desiderio di avvicinarla, di contemplare quella donna non sua, per comprendere quanto vi fosse ancora in lei della bambina adorata un tempo. Provava una smania strana, come una voluttà d'odio e di dolore insieme, una voglia terribile di tormentarsi e di tormentarla. Narrò distrattamente alla baronessa il suo breve viaggio, poi, abilmente manovrando, andò vicino al duca d'Eboli, il quale sedeva accanto a Belitzine, in modo d'essere da questi veduto. - Il signor Rook! - disse forte infatti il principe, tenerissimo per quel miliardaio, anche se senza quarti di nobiltà. - Come, già tornato? E rivolgendosi a d'Eboli: - Il re delle miniere - sussurrò. D'Eboli accennò di conoscerlo, mentre William s'avvicinava sorridendo al principe. - Non vorrei disturbare.... - disse cortesemente, inchinandosi al duca. E non volendo essere da meno in gentilezza, il duca si degnò: - Onoratissimo.... Belitzine fece la presentazione reciproca, e cinque minuti dopo, i due uomini tanto profondamente ed intimamente nemici, ebbri d'odio l'uno per l'altro, sedevano di fronte allo stesso tavolino e si guardavano sorridendo, versandosi reciprocamente una bionda chartreuse, mentre intorno nell'aria della sera, acremente profumata dal mare, vibravano le ultime note d'una ballata spagnuola, che rievocava le leggende di Siviglia e di Granata. Ma dei due, il più sereno era d'Eboli. Per lui, quell'uomo favolosamente ricco e onnipotente che gli sedeva vicino e che si era lasciato rapire la fidanzata da lui, duca d'Eboli senza uno scudo, era semplicemente uno scornato. La cosa gli destava un po' d'ilarità, e si divertiva assai osservandolo e immaginando ciò che doveva passare dietro quella fronte cupa; per conto suo era tranquillo e calmo, troppo sicuro di sua moglie per darsene un pensiero al mondo, troppo fiducioso nel rispetto che il suo titolo doveva incutere a tutti, per supporre che il signor Rook volesse arrischiarsi a combattere con lui.... Ma negli occhi di William passavano ogni tanto certi lampi così feroci, così intensi d'odio, così pieni di volontà indomita e quasi selvaggia, che avrebbero dovuto impensierirlo un po'! Mentre il duca osservava curiosamente lo Yankee con un lieve sorriso canzonatorio sotto i baffi biondi, questi pensava invece all'uomo visto quattr'anni prima in una sala dell'Anglo-American Club a Parigi, e sul quale si sarebbe allora gettato tanto volentieri per strappargli la maschera di gentiluomo e mettere a nudo tutta la sua ipocrisia. Ecco, quello stesso uomo gli stava ora davanti, e mentre su dal cuore gli venivano bollenti le ingiurie più sanguinose per lui, doveva contenersi e mostrarsi sereno, stringergli la mano e sorridergli toccando insieme i piccoli calici iridescenti. Ah, ma si sarebbe vendicato d'entrambi! Avrebbe fatto loro scontare i lunghi anni di sofferenza atroce, nascosta sotto l'apparenza d'una attività febbrile che non era valso mai a guarirlo, mentre essi si godevano insieme la vita e le gioie d'una gioventù beata! Certo bisognava aspettare; esser calmi e sereni in apparenza per assaporare meglio la vendetta, essere prudente e tranquillo come se il passato doloroso non fosse mai esistito. Intanto Belitzine faceva le spese d'una conversazione che nessuno dei due udiva, e che non interessava certo. Finalmente rivolgendosi al signor Rook interrogò: - Sapete, signor Rook, che la duchessa d'Eboli è americana? - Sì, principe; - rispose William sorridendo - ho avuto l'onore di conoscere il padre di miss Gould, ora duchessa d'Eboli - soggiunse, inchinandosi al duca. Questi restò assai sorpreso della perfetta imperturbabilità dell'americano. O sapeva molto ben fingere, o l'episodio della sua passione giovanile doveva essersi cancellato da molto tempo da quella mente assorbita tutta dagli affari. - Ad ogni modo, - pensò - Sarah avrebbe potuto risparmiarsi il sacrificio di non scendere per quest'orso. Già le donne sono tutte esagerate, e credono che l'uomo debba morire od ucciderle perché non amato da esse. Quasi quasi gli piacque quel tipo d'uomo tutto dedito ai suoi affari, innamorato solo dei suoi sacchi d'oro. Perchè fare delle tragedie, in questo mondo? È assai meglio divertirsi, cogliendo l'amore quando sboccia sui nostri passi, senza crearsi catene nè legami, che diventano sempre ferrei, procurando solo di formarci intorno tutto il benessere possibile, come un nido morbido, tiepido e profumato. Già egli, d'altronde, aveva sempre avuto una grande simpatia por la razza americana, in generale tutta positiva, sprezzante di sentimentalismi e di idillî poetici. vera figlia del secolo, vera padrona dell'avvenire. Dopotutto, il signor Rook non doveva essere un imbecille se era riuscito a farsi una fortuna così colossale. Oh, quella Sarah che s'immaginava di vederlo svenire s'ella si fosse presentata a tavola, e di essere fulminata da quegli occhi verdi, che parevano fosforescenti e luminosi, a forza d'avere guardato l'oro!... Così il duca d'Eboli andò a dormire pieno d'ammirazione per quello strano americano, figlio della fortuna; ma prima di chiudersi in camera, andò a rassicurare sua moglie. - Sai? mi sono fatto amico del signor Rook. - Tu? - chiese essa sgomenta. - Io. E ti so dire che è il miglior uomo del mondo, e che non pensa menomamente nè a morire per te, nè a trucidarti per gelosia. Sai, ha troppi quattrini e deve trovare la vita molto bella, troppo bella per guastarla con delle tragedie. Sarah era rimasta a sentire un po' stupita, certo meravigliata, da quella conclusione, ma lieta, in fondo, che le cose stessero così. Sospirò profondamente, sorridendo a suo marito, e gli porse a baciare la bianca fronte, pura e serena, sotto i riccioli biondi leggerissimi. - Buona notte, Luciano. - Addio.

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Bestie

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Tozzi, Federigo 1 occorrenze

Allora, un contadino, venendo dalla strada, ci fece vedere una rondine, ancor viva, che il temporale aveva abbattuta. Le sue penne eran bagnate e lucide: pareva stordita, e stava da sé nel cavo della mano, palpitando, ma quasi rassegnata. Provai tanta gioia che battei le mani. * * * Con la mia moglie era un affar serio, ogni giorno di più! Bastava un pretesto qualunque per leticare parecchie ore. Una volta, la minestra mi parve sciocca; anzi, era certamente. Glielo dissi. Mi rispose: - Perché non vai a trattoria? - Se fossi più furbo! - Vai dunque. - Me lo vorresti proibire tu? E la guardai con tutto il mio odio; ed ella altrettanto. Ma io non glielo volevo permettere. Allora, feci l'atto di darle uno scapaccione. Si alzò, rigida come uno stecco; e si mise a guardarmi fisso. Pareva che i suoi occhi si allargassero sempre di più; ma mi sentivo tanto più forte di lei che non pensavo né meno a offenderla. Mi disse: - Vuoi scommettere che io vado dal procuratore del re? - E perché no? Potevi esserci andata. Così mi sarei fatto fare la minestra più salata, se non c'eri in casa! Si slanciò; io mi riparai con un braccio piegato. In questo mentre, vedemmo, tutti e due insieme, non so come, una formica che dall'orlo del fiasco stava per scender dentro e cadervi. La rabbia finì subito. Ella la prese con le dita e la scaraventò lontano. Io dissi: - Per fortuna l'hai vista! Avremmo dovuto buttar via tutto il vino! E il pranzo finì bene quella volta. * * * Alla dottrina cristiana ci sarei andato volentieri, ma da quel prete, no da vero! Quando entravo nel suo studio, siccome, avendo cominciato più tardi degli altri comunicandi, dovevo rimettermi in pari, sentivo una specie di freddo che m'agguantava l'anima come uno per la giubba. C'era un tavolino con un tappeto rosso, forse rovesciato; il ritratto del papa, quattro o cinque seggiole che parevano tutte nere come le loro spalliere; e un odore tra l'intingolo e l'incenso o la cera bruciata. C'era poca luce, perché la finestra dava in un piccolo orto sotto certe mura antiche ricoperte di edere; e mi veniva sempre la voglia di andarmene prima che il prete fosse venuto. E quella zoppa che m'apriva l'uscio! Certi occhi che mi facevano pensare alla panna inacidita! Ma tra le tende, tutte polverose e sbiadite, c'era una gabbia appesa, con un canarino così giallo che pensavo fosse colorito con i tuorli dell'uova che si davano al prete quando veniva a benedire le case. Saltellando, faceva oscillare la gabbia e anche un poco le tende, e a motivo delle quali mi scansavo in fretta; quasi per paura. Io mi vergognavo di lui, che mi vedesse con il mio libricciolo sotto il braccio lì ad aspettare. Ed ecco perché l'osservavo sempre, quando il prete m'interrogava, prima di rispondere! Un giorno glielo portai via; e, piuttosto che ritrovarlo in quella gabbia, lo schiacciai con il tacco delle scarpe. * * * Un mio amico era in agonia. Caduto da una scala aveva battuto l'occipite, non riprendendo più i sensi. Siccome non l'aveva potuto comunicare, il prete gli lasciò la stola sopra i piedi dopo aver detto molte preghiere. La mamma del moribondo stava nella stanza accanto, con l'uscio aperto, a piangere; io, stringendo i ferri a piè del letto, lo guardavo. Il suo volto acceso dalla febbre, aveva, di quando in quando, una contrazione lunga e lenta; ma gli occhi restavano chiusi, sempre più in dentro. Una ragazza, dall'altra parte della strada, cominciò a cantare; io la feci star zitta. Il rantolo diveniva sempre più forte, alternandosi con un sibilo così dolce che mi ricordava, con terrore, tutte le nostre allegrie. La febbre gli aveva seccato le labbra. Io pensavo come bagnargliele, quando entrò una delle sue due tortore. Prima che io facessi in tempo a rimandarla in dietro, era già volata sul letto, proprio sopra il guanciale molle di sudore. Allora, perché non si mettesse a svolazzare, buttando in terra qualcosa, aspettai che tornasse via da sé, come credevo che avrebbe fatto. Gli montò su la fronte, che s'increspò; e, allungando tutto il collo, gli diede una beccata tra le labbra. Egli era uso a farsi prendere di bocca i chicchi di granturco o di granella. Allora, troppo tardi, la scacciai. Ma, dal labbro di sotto, dovetti asciugare con il cotone idrofilo le gocce di sangue, che smisero soltanto all'ultimo respiro. * * * So che una vipera ha morso uno che m'odia. Pari e patta. * * * Ricordo sempre queste sensazioni: dopo la scuola attraversare il corridoio del seminario, fresco ed annaffiato allora; l'attesa d'un rimprovero; la prima comunione: parole alla fidanzata; un campo troppo verde; un'ape che esce da un fiore senza che mi fossi avvisto che c'era. * * * O ciliegie, sapore del maggio! Farei ridere se raccontassi quanto le amo, ora che non ho altro da amare. Ed io per poco non mi crederei sciocco. Ma la mia bocca è cieca; e non è fatta che per mangiare. Mettete un piatto grande di ciliegie sopra la mia anima: non le lasciate troppo maturare, perché le passere le beccano tutte. * * * E quella finestra che vedevo dal mio podere scintillare tutte le mattine quando il sole si levava; una finestra che è delle prime case di Porta Camollia. Non ho mai saputo chi ci sta; del resto, mi sarebbe stato difficile, perché quell'abitazione è dalla parte degli orti tra le mura e la chiesa di Fontegiusta; un orto dopo un altro che non finiscono mai. A entrar lì dentro bisognava anche attraversare un andito sempre buio, con l'impiantito sempre molle; perché, in fondo, c'è un pozzo e le donne vi vanno ad attingere l'acqua con le brocche e le sbattono ai muri troppo stretti. Le scale da una parte, tutte a pianerottoli, sudicie e sciupate. Ho pensato che fosse di quella vecchia che tiene in casa il nipote cieco che fa l'impagliatore di seggiole; poi, di quella fruttivendola sorda; oppure della tabaccaia tisica o di quel maestro impazzito. E pure, quando sento cantare, e bisogna che il vento tiri da Siena, specie la sera, e non so chi è, credo che sia dentro quella stanza; e allora me la immagino con quei mobili vecchi ma riverniciati di verdolino e con le righe attorno alle serrature e alle maniglie di ottone, rosse e fatte a mano: più larghe e più strette, brutte. E, a una parete di fianco, un gran crocifisso doventato leggiero come una galla perché i tarli l'hanno tutto vuotato; e, infilato tra i piedi, un ramicello di olivo che si è seccato e che non si può smovere perché le foglie, color tabacco, cadrebbero subito e sporcherebbero il pavimento; che dev'essere spazzato ogni giorno e annaffiato con l'acqua a pisciolo, facendoci quei disegni tutti intrecciati che si allargano da sé. E questo farfallino grigio scommetto viene di là; perché ha le ali tinte di polvere. * * * Quel melo è il più bell'albero del mio campo, lo saluto tutti i giorni dalla finestra. So che l'ha piantato il mio zio Pellegro. Ma lo avevo visto la prima volta quando mio padre dovette tagliare i legacci di salcio perché lo stringevano troppo; e il fusto, ingrossando, s'era quasi reciso. Allora gli cambiarono il palo. L'anno dopo fece tre mele: e mezza mi fu data ad assaggiare. Per altri tre o quattro anni non lo vidi più. Ma quando ripassai di lì, s'era fatto irriconoscibile: una buccia lucida e tenera che veniva via a toccarla con l'unghia; tanti rami e così alto che lo guardai rovesciando la testa in dietro. Vidi che era cresciuto prima di me e che mio padre ne faceva gran conto. Gli avevano zappato la terra attorno come agli olivi; ma siccome era autunno, gli erano rimaste poche foglie sbiadite; e nelle punte dei suoi fuscelli i segni dove stavano le mele: una sola, anzi, gialla e grinzosa. La guardai meglio, prima di staccarla con una zollata; ma raccattatala, m'accorsi che dalla parte di sotto c'era il buco di un bacherozzolo. Allora la tirai lontano. L'anno dopo, a primavera, lo ritrovai fiorito, tutto bianco, come una gran festa. L'avevano potato e i suoi rami facevano una specie di circonferenza un poco vuota nel mezzo. Ma uno dei suoi quattro rami che venivano su dal gambano era gobbo e un poco più corto perciò. Quasi tutti i contadini, passando sotto, ci ficcavano la punta della falce per cercar meglio con tutte e due le mani nelle saccocce del panciotto la cicca e i fiammiferi. L'anno dopo ebbe la prima disgrazia: ogni fronda fu fasciata da centinaia di ragnatele piene di bruchi, che gli mangiarono in meno di una settimana i fiori e le foglioline. A maggio era già per seccarsi. E per due anni non fiorì né meno più. Allora mio padre lo fece scapitozzare e dentro una rigonfiatura, a metà del gambano, lo trovarono pieno di bachi carnosi duri e grossi più delle dita; ed avevano capocchie tonde e rosse più del sangue. Furono uccisi con il coltello, a pezzi, e la pianta si riebbe. Ma di mele ne ha fatte sempre meno. Ora, cinque o sei sole, che se le mangiano gli uccelli e le vespe. * * * La mattinata è fresca come le rose umide; ma tuttavia non riesce a convincermi che io posso odorarla. Tutti questi tetti attraventati addosso alla collina di Ovile si abituano a farsi guardare di quassù, di sbieco, da questo muricciolo così scalcinato che tra mattone e mattone c'entra un dito. Se la primavera ci fosse già, potrei divertirmi a guardare gli alberi fioriti; ma son venuto troppo presto, in vano, impaziente. Scommetto che quando la primavera ci sarà da vero, io non ci verrò né meno. Ma finalmente capisco perché mi ci prenda questa dolcezza con la quale voglio prepararmi a scrivere alla mia fidanzata. Là, da una parte della piazza, dove la ghiaia è più consumata, c'è la porta del Seminario, verde e sbiadita, con l'architrave di marmo doventato quasi giallo, contenta di essere accanto a San Francesco, quasi sotto il campanile. Mi pare ancora di entrarci per andare a scuola. Ma c'entra il sole, con una striscia che va a ritrovarsi con quella di dentro il chiostro. Ed io resto nella piazza. Giù la Porta Ovile, poi campi di olivi e viti; e, su in alto, la piccola stazione con i vagoni carichi di sacchi e di legname; con una strada, per salirci, che gira più di un esse fatto per ridere sopra un muro da qualche ragazzo. È una dolcezza che, se qualche volta pare stanca, tuttavia si sente anche lontano lontano, tra le pieghe verdi dei colli dove non sono stato mai. Il campanile con i grappoli delle campane che fanno escire per la piazza i rondoni! Ed i tetti hanno la pazienza di stare lì e l'abilità di non lasciarsi andare per riposarsi un poco! Qui, pensando alla fidanzata, ritrovo molta della mia vita, anche quando andavo, d'estate, all'ombra, sotto il muraglione delle Figlie di Maria ad imparare la chitarra, e dove m'ebbi un pugno e riescii a non piangere; e ricordo il cavallo che scappò dalla caserma dei carabinieri. * * * La siepe, addirittura, tagliava le spiazzate dei campi verdi o arati, l'uno accanto all'altro, l'uno addosso all'altro. Gli uccelli volavano con un volo sempre più basso, tremolando un poco, impauriti delle quattro nuvole, quasi quadrate, che avevano coperto il tramonto: le quattro carte da gioco. Nel Pian del Lago, c'era nebbia, a strisce sempre più sovrapposte e larghe; Montemaggio e la Montagnola di un verde più nero della siepe, e voli di colombacci che a stento proseguivano, randelloni, con le ali appiccicate nel cielo d'un turchino che voleva smettere. * * * Per tornare a casa, ci sono sempre nel mezzo della strada quelle sette stelle dell'Orsa, che me l'hanno buttata là chi sa perché. Il vento, che batte la faccia, viene di lì. E tutta la bellezza della sera vorrebbe entrare dopo di me e spinge in qua l'uscio, sì che duro fatica a richiuderlo. Perché la gatta miagola e si spenzola dalla grondaia? * * * All'ombra il carraio verniciava di cinabro mescolato al minio le ruote dei carri da contadini; e poi, con un fusello infilato nel mozzo e tenuto tra ambedue le palme, le portava al sole, appoggiate al muro. Qualche volta andava a levare con il manico del pennello una mosca che c'era rimasta attaccata. Tutte le mattine passavo il tempo così, senza parlar mai al carraio, sedendomi sopra un mucchio di breccia che lo stradino teneva già pronta per l'inverno. Mattinate dolci di sole, quando cominciavo a sbadigliare di fame; e io ne provavo un senso indefinito, quasi di sonnolenza e di piacere! Pensavo, allora, che da grande avrei scritto un libro differente a tutti quelli che io conoscevo: qualche storia ingenua e tragica che pareva uno di quei pampini che il vento mi faceva cadere tra le ginocchia; ecco; come c'è questo pampino, ci sarà il mio libro. E sentivo un fremito. Il carraio seguitava a verniciare; e, talvolta, m'illudevo che anch'egli vedesse riempirsi la distanza tra me e lui, delle persone che mi pareva di vedere. Egli è buono, pensavo; egli non dice niente né a me né a loro perché io non creda che gli si dia noia. Tutta la strada era piena di persone, come un incubo trasparente e leggero, che si movesse anche ad un alitare di vento; come si moveva la mia anima. Alla fine dovevo supplicare questa gente che mi desse un poco di tregua: la sentivo attorno alla mia giovinezza come insetti attorno ad un lume acceso allora allora. Qualcuno mi perseguitava e mi faceva venire i brividi; un altro voleva stare in casa con me, ed io non potevo mandarlo via. Ecco che il mio libro doventava la vita stessa, la gente cioè che conoscevo! Ma soffrivo e sentivo una specie di malessere vertiginoso; e m'invogliavo di pigliare a sassate, per scherzare. In vece, i moscerini m'entravano negli occhi; e mi venivano le lacrime. * * * Una strada scende, anche un'altra scende e le viene incontro: si fermano insieme. Dalla prima, a metà, se ne parte un'altra che scende per un altro verso e ne trova subito un'altra, più bassa che fa lo stesso. Su la prima se ne butta un'altra; poi la prima e la seconda, dopo la fermata, se ne vanno giù insieme e a un certo punto incontrano quella più bassa di tutte. Altre strade le tagliano e scendono. Le case hanno paura a stare ritte tra questi precipizi e si toccano con i tetti pendenti. Ma anche i tetti, a pendere così, non potrebbero cadere tutti giù? Le case, per fortuna, sono soltanto a due o tre piani; e la gente, alle finestre, ha l'aria di far loro da contropeso; perché non seguitino ad andare più in giù, tutte insieme, verso la Porta Fontebranda, da dove certo non passerebbero essendo così stretta. Le vie della città guardano queste quasi per scendere loro addosso; con la Cattedrale nel mezzo e con San Domenico sopra il tufo giallo. Ma la Fontebranda è ficcata giù sotto terra, e i Macelli se ne stanno stretti stretti, rasente la balza che regge metà di Siena. La vasca natatoria è verdastra dietro le punte nere e taglienti del suo cancello; i lavatoi hanno l'acqua saponata; gli archi delle conce piene di cuoia ad asciugare. Quanta solitudine e quanto silenzio anche con il vocio delle donne e dei ragazzi! Quando le donne di Fontebranda cantano, con quelle cadenze d'una stanchezza tanto dolce! È un silenzio che sta lì come le case; quasi assurdo. E perché quel cadere perpetuo dei tetti insieme con le strade? Non si ha, al contrario, il senso che le strade salgano; si sente soltanto la discesa fatta in fretta, con ansia; e, dal punto più basso, anche il meriggio è così lontano che resta soltanto per gli altri rioni di Siena. Cominciano le strida dei porci scannati, ognuno basta ad empire di sangue due secchi. * * * Quel che vedo e penso è come se lo leggessi. Leggerò, forse, fino a stasera; ma il libro non lo chiuderò; resterà aperto tutta la notte e troverò i sogni su le pagine come se fossero figure. In vece, no. Allora percepisco solo le cose, che stanno vicino a me: e, perché sono seduto sotto la mia pergola, mi metto a guardare un pampino: forse, uno dei più larghi. Perché non capisco quel che fo, lo strappo dal tralcio e lo butto dietro di me, di là dal pancone verniciato di verde. Il sole, tra gli altri pampini, taglia gli occhi con i suoi pezzetti di vetro. Una cavalletta mi salta su una mano. Nel bosco cerco l'albero che, tagliato a bara, imputridirà sotto terra con me. Gli voglio tanto bene: forse, è quello dove ora c'è sopra un merlo. * * * Quando ci sono io, tutto ciò che è nella mia casa vive con me. Io stesso ho insegnato a tutte le cose, scegliendole, come dovevano fare per piacermi e perché io le amassi. Queste pareti riconoscono la mia voce, e la loro fedeltà è profonda. Ma guardando, dalle mie finestre, chiuse o aperte, la fila degli orfani che escono a prendere aria, capisco che i miei occhi non vedono tutto. Mentre, se guardo lavorare i contadini, mi farei aprire il cuore dai loro vomeri, per dar loro la gioia di doventare anch'io terra da semina. E se guardo i cavalli che tirano i barrocci, riparo in vano le sferzate. Se sento cantare i vagabondi e gli ubriachi, io mi rattristo; se guardo gli orti mi piacciono le campane che fanno finta di annaffiarli; e cambierei di posto volentieri con le stelle. Ma la luce della luna si diverte a farmi sentire le civette. * * * Io m'ero messo in testa di trovare il violoncello che udivo tra gli alberi del bosco: quando tira vento, non sta più zitto niente! Credevo che fosse a pochi passi da me; e, allora, andavo là, quasi di corsa. Non c'era più; più lontano ora, ma distante da me quanto prima. Andavo lo stesso. Né meno! Sempre, sempre vicino a me; ma non dovevo vederlo né trovarlo mai! Così, sul fiume, il riflesso del sole camminava sempre avanti a me; e, dove era stato prima, l'acqua tornava ombra turchina, senza che vi fosse nessuna traccia di quell'incendio finto. Così i monti non erano più azzurri quando, dopo mezza giornata di strada, vi ero giunto; ed allora vedevo altri monti; ma era inutile che io camminassi a posta per questo! Così le onde che il vento faceva sopra il prato: dov'ero io, attorno alle mie gambe, tutto era fermo come me. Così i miei sogni quando mi sono destato. Né, da vicino, ho mai potuto guardare la trasparenza violacea che aveva un piccolo padule del fiume: non c'era più. Così, da ragazzo, l'eco della mia voce: un'altra voce, ma senz'anima. Così i pappi di certi fiori, quando volevo portarli in mano. Il violoncello del bosco l'avrei voluto comprare, per darmi l'aria di essere ricco. E suonarlo i giorni di festa della mia anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prenderei da qualche favola vecchia. * * * Dieci anni che abito nella mia casa, comincio soltanto da oggi a sentirne la realtà. Tutto quel che vi avviene è la compilazione d'una storia che riguarda me. Ma quando io stesso non saprò dirla, nessuno ci penserà più. Così come quella fonte che ho ritrovato morta, ed io non lo sapevo. Morta da due mesi, e nessuno me lo aveva detto. Ma l'aria, oggi, è gaia; e mi sento bene. Forse, vivrò parecchio tempo ancora; ché di me non sento nessun segno di morte; e tutto quel che vedo fa parte della mia esistenza. Il limone già tagliato, i bicchieri puliti, la tovaglia di bucato; e la voglia di mangiare. Sono impaziente; mi guardo le mani, mi specchio ai vetri della finestra. Nessuna stanza è bella come questa; e la mia anima è anche più gaia dell'aria: il limone, i bicchieri, i piatti sono belli perché miei. Il senso di averli e loro stessi sono una cosa sola. Ed è una sola realtà. Ma, a pena mi sono seduto a tavola per il pranzo, sento cantare, da un ragazzo, una canzone che io conosco senza averla ancora imparata. Mi vengono i brividi. Portava gli agnelli a vendere. Vorrei leggere come un ragazzo, vorrei capire come un ragazzo. Là giù nel bosco fresco di verde e di ombre, ho lasciato il giocattolo del mio passato, perché si sono rotti i fili. Ma io mi metto a guardare fisso il turchino perché me ne venga un altro; magari fatto come una nuvola. Anche la pioggia è il giocattolo con il quale ruzzano le fontane del giardino; anche il mio sorriso è un giocattolo, come il mio cuore che batte. E la mia ombra è il giocattolo del sole; la mia voce è quello della mia anima. Quando siamo morti non si parla, e allora quel che s'è detto lo ripetono gli altri. Anche la bara è il giocattolo, che si mette sotto terra. E, s'io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace; e mi scriverei da me il mio libro di lettura. Farei doventar buone anche le vipere. * * * Ecco la sera, quando le cose della stanza doventano pugnali che affondano nella mia anima; maniche che mi attendono. Qualche altra volta, mi erano sembrate - libri, tavoli, sedie, tagliacarte, cuscini, lampade, pareti - poemi immensi. Mai, in nessun modo, sono riescito ad essere indipendente dinanzi a loro. Ma questa sera hanno atteso tutte d'accordo. Siete sicure di essere sincere? Ormai vi lascio. La mia anima, se qualche volta si ricorderà di voi, crederà di mettersi a suonare un organetto di Barberia per fare ridere le serve e piangere chi non c'è. Il cardellino morirà di fame: il pane intinto non glielo darà più nessuno. * * * Il cielo sta per doventare uno specchio; è già impossibile guardarlo. Qualche uccello, che di rado vedo entrare in una boscaglia di pini, fa credere che sia disseccato come quelli imbalsamati; e la sua ombra affonda passando nella polvere della strada. C'è una piccola sorgente che a pena è buona ad escire di tra i ciuffi dell'erba verde, sotto l'ombra di una quercia. L'acqua, al buco della sorgente, un ago che si spezza sempre, scintilla e poi sparisce. In giro c'è nata questi dieci metri quadri di erba che lustra, e basta. Il luogo è così silenzioso che par di udire l'erba. E la fonte, con lunghi rigagnoli, che non smettono più, va giù per il prato a fare la calligrafia. Quando ritorno nella strada, la polvere scotta; e io cammino adagio, per non sudare. * * * Anch'io ho avuto due carri verniciati di rosso, che mi destavano la mattina, quando i contadini li portavano con i bovi nel campo.Carri di concime o di uva, di granturco o di grano, di saggine o di pomodori. Li ebbi da mio padre, ed io li vendei perché avevo da pagare un debito. Io non avevo mai posseduto niente, che mi fosse durato molto. Mi ci ero tanto abituato che anche i miei sentimenti, scambiandoli per balocchi da pochi centesimi, li ascoltavo sempre con malevola e giusta ironia. Non era, forse, l'unico modo per non ingannarmi più? Impazzito per aver pensato subito che io potevo finalmente credere; effetto del mio bisogno di credere. Dopo tanto tempo, ecco che in vece di altre cose innumerevoli, di ogni genere, io ripenso ai due miei carri. E alla mia vita quale avrebbe dovuto essere. A me non era lecito escire dal mio paese. Ascoltare là le musiche della domenica, passeggiare con tutti gli altri le mezze giornate intere per la strada che gira attorno alle case, amare quache ricca fantoccia. E, sopra a tutto, avere ancora i due carri verniciati di rosso. Il gallo che la mattina fa tremare il cuore di gioia; le noci mangiate con il pane, ancora in maniche di camicia; le cipolle strofinate sul sale tenuto nel palmo della mano. La dolcissima aia costruita bene e spazzata! Fedeltà ed amicizia dei campi verdi! Le prime pesche vendute, i vitelli comprati alla fiera, il vino assaggiato dai tini, ancora caldo e torbido; e il suo afrore! Gli acquazzoni che fanno ridere; la terra che sporca le mani! E le feste di campagna con gli organetti briachi, a singhiozzare lontano tra i campi; e fanno venir voglia di andarci anche noi, dietro; le feste che restano per sempre nell'anima con i fuochi artificiali e i palloni di carta che vanno a cadere quando pigliano fuoco. E la cometa che fa paura! E il temporale livido, con la grandine bianca bianca; con i lampi che accecano! E tutte queste case del paese, che ci sono non si sa perché; con le strade lontane per la maremma di Grosseto e verso Siena; e si sperdono, giù nelle vallate, dopo dieci o quindici chilometri; le strade che aspettano. In vece, non l'ho né meno più visto questo bernoccolo di case! I miei carri non mi destano più; e il gallo, benché duro, l'ho mangiato. * * * Mi piacciono quelle persone che adoprano, parlando, modi di dire differenti a tutti gli altri. Mi sembrano, le loro conversazioni, riconoscibili, amicizie a cui ci si possa affidare di più. E, così , ho imparato che le cose hanno per ogni persona una fisionomia differente. Una persona si distingue più profondamente dal suo modo di parlare che dal suo viso. Con quale voce, per esempio, dovrei parlare di un bel prato verde? E con quale altra di questa crocetta d'oro ritrovata per caso e che la mia mamma portava? Ed io ho la certezza che sia viva da vero, la mia mamma! Sono venti anni che è morta? No; non è vero. È viva ancora. Ecco ancora le sue vesti, ch'ella si metterà. Ecco il suo armadio, le bottiglie dei profumi, il suo cappello. La porta della mia camera l'ha lasciata aperta lei; stasera non mangerò, se non c'è lei insieme con me. Le farò trovare un grande piatto di fichi maturi; ne è ghiotta. Il pane fresco; e lo metterò al suo posto, su la tavola. Il suo bicchiere alto e scannellato, di vetro un poco verde e con il fondo rossiccio di vino che non si può lavare più. Ho imparato a vivere con la mia anima! Ora devo imparare a vivere con la mia mamma. Non abiterò più nessuna casa dove non sia anche lei; io la seguirò con un'obbedienza che i fanciulli non hanno. Io non parlerò che alla mia mamma. Ed ella mi ricomprerà un paio di piccioni a cui taglierà le ali, perché non volino via. * * * Tutti quei fiori che ho sognato! La mia anima , dunque, sapeva di qualche funerale che io non so. La mia anima è stata a qualche funerale. Infatti, tutt'oggi nella mia casa, vuota e deserta, c'era un senso di cose tragiche, nascoste a me. Quand'io aprivo gli occhi avevo paura, e la carta delle pareti aveva un'aria di silenzio quasi timido; non canzonatore o vispo, come altre volte. Tra le stanze c'era un'intesa e un accordo di non dirmi niente; qualche parola che se la passavano quand'io voltavo le spalle. I miei libri facevano di tutto perché io non li prendessi in mano; le stoviglie nel salottino da pranzo erano mute e così tristi che io non mi sarei arrischiato ad adoperarle né meno una; perché mi sarebbero cadute. E ricordandomi in vece, nettamente, qualche altra giornata quand'ero stato tanto bene in casa mia, quando non me n'ero né meno accorto di esserci! Io, dopo tanto tempo, devo domandarmi ancora per chi erano quei fiori. Ma le tortore hanno fame; e dico che comprino il miglio perché mangino. * * * Ci si sta così bene a piangere con la faccia su l'erba fresca che arriva fino all'anima! L'allodola! Piglia la mia anima!