Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbattendo

Numero di risultati: 27 in 1 pagine

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La storia dell'arte

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Pinelli, Antonio 1 occorrenze

Ginzburg sostiene che i tre personaggi in primo piano stiano discutendo sulla necessità di organizzare una crociata contro i Turchi che, com’è noto, nel 1453 avevano conquistato Costantinopoli abbattendo definitivamente l’impero romano d’Oriente. Il personaggio a sinistra, in particolare, sarebbe il Cardinal Bessarione, famoso cardinale di origine greca trapiantato in Italia, che ebbe un ruolo da protagonista nel Concilio di Ferrara e Firenze del 143839, sostenendo la necessità di una unificazione tra la Chiesa greca e quella romana. L’unificazione fu realizzata, ma solo per pochi anni, e Bessarione, rimanendo in Italia, divenne un cardinale della Chiesa romana, ma continuò a battersi per l’unificazione e per una crociata che riscattasse Costantinopoli e la Terra Santa dal dominio musulmano.

Pagina 206

Leggere un'opera d'arte

256464
Chelli, Maurizio 1 occorrenze
  • 2010
  • Edup I Delfini
  • Roma
  • critica d'arte
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I Giganti sovrapposero due montagne per dare la scalata all’Olimpo, con lo scopo di spodestare Giove, ma Giove scagliò i suoi fulmini abbattendo le montagne ed uccidendo i Giganti. L’iconografia più antica del tema è di epoca ellenistica e la possiamo ritrovare nel fregio dello zoccolo dell'Ara Massima di Pergamo, oggi nei Musei di Stato di Berlino (figura 81). Figura 81 - SCUOLA DI PERGAMO, La battaglia tra gli Dei e i Giganti, Ara Massima di Pergamo, Musei di Stato, Berlino. Qui, in una lunghezza di circa 100 metri si sviluppa la cruenta lotta degli dei contro i Giganti, con una passionalità ed una teatralità sottolineate dal gioco violento e contrastato della luce e dell’ombra. Dai gorghi d’ombra emergono direttamente, con un risalto crudo, le massime sporgenze del rilievo; l’estremo particolarismo della resa anatomica dei nudi e dei panneggi contribuisce a rendere più accidentate le superfici, favorendo il rimbalzare della luce e generando una espressione di moto concitato.

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Manifesti, scritti, interviste

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Fontana, Lucio 1 occorrenze

Se, dapprima, chiuso nelle sue torri, l’artista rappresentò se stesso e il suo stupore e il paesaggio lo vide attraverso i vetri, e, poi, disceso dai castelli nelle città, abbattendo le mura e mescolandosi agli altri uomini vide da vicino gli alberi e gli oggetti, oggi, noi, artisti spaziali, siamo evasi dalle nostre città, abbiamo spezzato il nostro involucro, la nostra corteccia fisica e ci siamo guardati dall’alto, fotografando la Terra dai razzi in volo.

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Scritti giovanili 1912-1922

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Longhi, Roberto 2 occorrenze

sporgenze nelle case si vennero abbattendo per disposizioni di gride ducali». P. 355: «nonostante le demolizioni, in pieno '400 abbondavano ancora lobbie e baltresche che deturpavano la città... dopo l'ordine del... 1493, incitante a togliere quegli inestetici avanzi medievali...». E come puntate più generali contro l'architettura medievale e il Medio Evo: P. 234: «è tutto un popolo uscito dal lungo torpore medievale ringiovanito al calore dell'arte». P. 4: «l'introduzione della policromia e adirittura dell'affresco (nel Rinascimento) viene pian piano ravvivando di calore nuovo gli antichi freddi principi dell'arte edilizia».

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Cavaglieri, abbattendo i falsi idoli dei caminetti troppo «guarniti» procede fermamente verso un impressionismo più sostanzioso - se anche voglia per sempre appagarsi del briciolo d'intelletto che v'è nel colore puro e semplice - e certe sue cose recenti s'imparentano in fatto con le paste ricche ed armoniche di Vuillard, o con gli accordi elementari e potenti del primo Matisse.

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UGO. SCENE DEL SECOLO X - PARTE PRIMA

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Bazzero, Ambrogio 2 occorrenze

Sulle cime che dominano le valli di Fenestrelle, in cui si sbalza il torrente Chiusone, il rovaio, spezzandosi nelle forre dagli acuti ciglioni, dalle frementi profondità, stride cogli spiriti della mezzanotte, abbattendo, indiavolando, storcendo. È nero il tempo.... Una donna appare! Chi è?... Ella rompe il lenzuolo nei vepri: ecco svolazzano i brandelli sibilando. Si squarcia i piedi nei radiconi: vaporano le pozzette di sangue col verde fumoso delle meteore. Cade: ghignano le cortecce degli abeti colle boccacce rugose. Si lamenta collo strido della lupa trafitta: l'alito suo, uscendo dalle labbra, fuma come torcia di funerale notturno. Fanno tresca allo spettacolo spirti glauchi, spirti bigi, spirti scialbi. I brandelli sono lacerati, il vapore turbinato, le cortecce agghiacciate, l'alito diffuso in nebbia inargentata. Ecco la tormenta! Ecco la valanga! La donna ancora rompe il lenzuolo e si scopre l'oscenissimo fianco.... Chi è? È Guidinga, la morta senza croce fra le mani. Guidinga rotola le valanghe al Monviso, sghignazza al Meidassa, le rotola al Glaisa, sghignazza al Genèvre, le rotola al Chalierton, sghignazza al colle dell'Assietta.... Fanno tresca gli spirti. Prega il buon romito di Malandaggio che veglia tutte le notti e tutte, perchè sono l'ultime di sua vita, ed a ogni parola di lui ecco un castigo inflitto da Dio agli spiriti del male: quello colle aliuzze crepitanti fu impegolato alla resina gocciante da un troncono, quello punzecchiato colle foglie aghiformi di un pino, l'altro legato colla coda ad un roveto, l'altro propagginato in una buca di calabroni.... O Guidinga, o madonna perduta se tu fischi verso qualche casetta di montanari, è indizio di sventura! Su, su, su: là nell'opaca foresta, che si distende a falde scendenti, come un calderotto di pece riversato dalla montagna su si vede un lumicino. Pare una favilla minutissima addormentata sull'immensa fuliggine di una cappa ne' castelli. Può essere un fuoco acceso dai folletti colle pergamene rubate al vecchio di Malandaggio, o un voto fatto alla Madonna santissima, da qualche pastore: lume di finestretta no, perchè le cime dei monti già sono nevose e i boscaiuoli già sono calati nelle valli: eppure! Giù tra i dirupi d'una frana s'ode una voce che dice: - Com'è lontano! È voce d'uomo: non è grido di fiera, nè fragore d'acqua travolta, nè rotta, nè corsìa di vento. Chi può essere?... Oh vedi, un pellegrino! O pellegrino della notte nera, ove t'inerpichi? Quegli cammina, cammina. O pellegrino che cammini, perchè t'inerpichi e dove? Forre, di qua, spaccate boscaglie di là, sentieri taglienti, tempo da lupi, ora da spiriti: ritorna alla valle. O pellegrino che non ritorni alla valle, dimmi chi sei? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Cammina e cammina. Il pellegrino è arrivato ad una capanna, su, nell'opaca foresta. La finestretta quadra gli sbatte addosso un po' di luce e lo mostra qual'è, un alpigiano inferraiolato: la portella si apre sollecitamente: ma oh! questa che spinge la robusta tavola di quercia non è mano di montanara!... Qua nella stanzuccia di legno ecco appese le scuri del boscaiuolo, qua due giacigli, una culla di poverissime lane e nella culla un bambolino, qua entro quattro lastre di pietra ecco un focolare vampeggiante. L'uomo e la donna sfogano nei cupidissimi baci e negli abbracci potenti la desolazione delle lunghe ore già deserte. - Lodato Pio e i santi! O Silverio! - Sono qui, o Maria! - Tu non venivi mai! Egli, pigliando a ciocche i capegli della donna e con quelli facendo fascia maliarda d'amore al volto irrigidito, egli esclama: - Perchè così sorridi? Ed ella: - Perchè sospiri così? - Mia Imilda! - Ugo, ti aspettavo tanto! Ecco adunque, come racconta il vecchio di Malandaggio, uniti il cavaliero ardente e la promessa sposa di Oberto, un boscaiuolo e una montanara, Silverio e Maria. Ugo in due anni era cresciuto di corpo, dimagrato di volto, ma sempre contento, come marito, come padre, senza più gli ardentissimi tormenti pei deliri d'amante e di figlio. Ugo si volgeva al suo passato, come tentava di specchiarsi nei rapidi torrenti dell'Alpi: un gran tumulto che si perdeva, ecco il passato. Imilda a tutte l'ore ringraziava Iddio: dalla cappella ardente era venuta alla placidissima casetta della massaia! Imilda attendeva alla sua creaturina, alla capretta, alla bisogna del pranzo e della cena, cantava sempre fissando il cielo: e alla sera aspettava il suo Ugo che tornasse dai boschi. Due anni erano scorsi in pace'. - Ugo - dice Imilda, cambiando tutta quella, festa in una scena placidamente dolorosa: - Dio sa come, anche oggi, fu affannato il tuo viaggio, con questo gelo, sulle scoscese rive del torrente, senza di me! Ma la mia solitudine! Oh sei qui: non voglio saper altro, tra le mie braccia tenaci! Ugo! - E ad un tratto: - Perché dunque stasera sospiri così? E perché non mi domandi della bimba? - Perché non me ne parli? - Ugo tenta quasi schermirsi da tanto amore. Ugo è triste e combatte per infingersi. - Oh come io ti aspettavo, e come t'aspettava anche lei! Non voleva chiudere gli occhi senza il bacio del babbo. - Imilda, gentile e sagace interprete, vuole snebbiar la fronte del suo Ugo colle sante labbra dell'angiolo custode. - Dorme? - Meglio che se posasse in culla d'oro. Non dici il tuo scherzo d'ogni sera? - Sì.... - Ugo sorride, beato e tormentato da quella soave violenza: - Lascia ch'io la baci, la mia castellanina. - Messere, non siate scortese colle belle. Voi la svegliereste a bacioni.... - dice Imilda col tono di una gran dama, regina di venti damigelle e cento paggetti, sporgendo il labbro inferiore, facendo un inchino alla culla di legno e porgendo al cavaliero, perchè lo baci, un lembo della sua gonna di pelli cucite: gioca fanciullescamente e amorosissamente deridendo il passato: ma poi, fissando Ugo che non l'asseconda, o l'asseconda come smemorato, poi con dispiacere e quasi offesa: - A bacioni? No: è lo scherzo d'ogni sera, ma non l'abbiamo detto.... Tu non l'hai detto celiando, come sempre.... - Infine incertissima: - Che cos'hai, Ugo? Ugo con voce addolorata: - Baciala tu per me! - Ugo? - Imilda, prega il tuo angiolo che nel sonno dica a Dio una parola per me! - Ugo, pentito di quel lamento che gli è prorotto, piomba in un silenzio desolato. E Imilda meravigliata e trepidante: - Ugo, che c'è? Tu guardi la cuna e non sorridi? Tu sei pensieroso? Tu m'hai stretto a te, celandomi un dolore - E con stringicore ineffabile, quasi a scongiurare un pericolo: - Non sono la tua sposa? E perché l'angiolo nostro preghi per noi, forse vuoi dire che le nostre orazioni non sono più quelle? Ed Ugo affannato, ma sempre più facendosi forza, quasi per non tradire un segreto: - Le tue sì, le mie.... - Che vuoi nascondermi? - Lo sai.... Da un pezzo.... Sempre: c'è nelle mie orazioni un rimorso! - C'è nelle mie una dolcezza ineffabile! - Imilda, rammenti quel giorno, dopo quello in cui ci sposò il romito? - E non ci vedeva Iddio? - Senti: quel giorno io spiai i tuoi piedi insanguinati nella corsa ruinosa, il delicatissimo petto ansante di fatica, gli occhi spossati, più che d'amore, di travaglio! Io ero vinto, vituperato, scomunicato, fuggente, e potevo io dirti mia? Ecco il mio rimorso! - E sapevo io resistere? Ecco la mia gioia! Ed Ugo, titubando: - Ahi da quel giorno ad oggi! - e combattuto: - Non posso dirti, e come! Mi tormento! - Poi ad una stretta di lei: - T'ho detto.... il mio rimorso! Ma Imilda: - No, no! Tu mi celi qualcosa! È un altro il segreto. E lo so: stamane sei partito più presto, con un pensiero.... - e pregando: - Dimmi! Fu tanta la pace, che anche il dolore ci giunge benedetto! Ed Ugo risoluto e tremante: - Ebbene ti dirò. Sì, stamane sono partito prestissimo, sì con un pensiero, una febbre, che mi tormentavano da due notti. In questi mesi ho obliato, lo sai, ma l'anima talora mi rigurgitava in petto, e volevo sapere qualcosa! Ressi a lungo, penai, penai, poi non ressi più. Stamane, scendendo giù per le valli coi boscaiuoli, boscaiuolo io pure, volli richiedere novelle di coloro che abbiamo lasciato giù... Dopo due anni! - Ah! perchè? - freme Imilda con rimprovero grave: - Perchè? Non ti bastava il mio amore? - O mia donna! passai il Chiusone, venni a Inverso, a san Germano, a Torre di Luserna. - Ed Ugo rimane, palpitando dolorosamente. Sospira Imilda: - La valle del Pelice ov'è il castello di mia madre! - e china la testa, come pronta a subire il castigo della disubbidienza del suo Ugo. - A Luserna. Più oltre non osai! E come un rozzo villano, indifferente, per il solo amore di un po' di pane, feci questa domanda: «O buona gente, volete braccia? Vi è un signore potente, non lontano di qui, il quale abbisogni di scuri per apparecchiare le travi alle macchine di guerra? C'è forse quel signore? E come si chiama?» Oh lo strazio di quella simulazione! A questo punto gli accenti divengono procellosi, - Hai saputo dunque d'Adalberto? di mio padre! - Adalberto è vinto: Oberto è vincitore: Ildebrandino è morto. - Morto? - così domandando, Imilda rompe in uno scoppio di pianto. - Di altri non seppi. So che il mio tormento è grande, e tu piangi. E so che Oberto.... - Ugo ripete astiosamente, quasi aizzato dalle memorie: - Oberto! - Ebbene? - Rizzi il capo a sentire il nome di colui? Oberto è nel mio castello.... signore potentissimo! - Ed Ugo è straziato dalle sante lagrime d'Imilda: - E la sposa? mi domandai. Non ha sposa. O Imilda, s'io non ero il tuo dimonio, tu ora saresti madonna di grande stato, moglie di Oberto, in belle sale, fra gentile corteo di damigelle. Ma sei qui, con me!... Perche ho valicato oggi il Chiusone? - e con forza gioiosa: - Ugo ritorna in me! - Ugo! - rimprovera solennemente la donna:. - Dovevi lasciarmi nel fuoco quel giorno! Non avrei oggi ascoltato questo!... Ugo!... Mio padre! - Questo ti grava? - minaccia tristamente Ugo: poi sogghignando: - E sei serbata ad ascoltare di più! Sappi dunque: che i traditori giungono dappertutto: e Bonello che un dì fu pagato da Adalberto contro di me, contro di noi può essere pagato da Oberto.... - Oh quel valente, no! Voi che dite così non siete cavaliere! - Imilda pavida e sdegnosa dell'immenso pericolo ribatte il dubbio col cuore: - No, no, Ugo! E a quest'altro punto la procella si scatena tremenda, e Ugo si percuote il petto, si rizza furiosissimo, immenso nell'amore e nell'odio. Imilda si spaventa, e più è spaventata, più subisce il fascino di lui. - Ma sono padre!... Perché ho valicato il Chiusone?... Vedete quella cuna? Che c'è, che c'è, Dio mio, nel destino perchè la maledizione debba pesare su quella creatura? e su voi? Tormenta me, se godi di questa atroce potenza: io faccio sacramento di rendere un giorno agli uomini quello che essi mi hanno fatto, col furore addoppiante della vendetta! Ma una donna, una bimba! Ad esse fu dato il cuore per amare, non per odiare! - Ugo, tu bestemmii! Senti: castigo d'Iddio! il vento vuol sfasciare la capanna! O Signore, la mia cuna! - Non temere! Il tristo dono della vita non si ritoglie mai a tempo. Gioisci? Muori. Ti strazii? La morte invocata non VIENE. Tutto è martirio! - Ugo! Ugo, tu piangi? - Se Bonello venisse quassù? - Tu hai la scure: io so pregare Iddio. - Tu non temi l'ira del cielo, perché tu sai che in cielo Dio è l'amore: io temo quella degli uomini, perché in terra Dio è l'oro! - Ti dissi io: «Ugo, fuggiamo! I boscaiuoli già sono tutti al piano: qui temo la bufera, la valanga, la morte» ti dissi? - Ed io devo supplicarti: fuggiamo! Oggi lo seppi, sì; fu scoperto che noi siamo quassù: fu giurato il nostro martirio, lo scempio della tua creaturina, il tuo vitupero, la mia prigionia! Bonello, forse domani, o solo col tradimento, o violentissimo con cento armati, verrà su queste cime, a guadagnare la taglia! Io ho udito il bando e la promessa in oggi stesso! Fuggiamo, Imilda! Imilda è già soggiogata, non si lamenta, non si dibatte, non si stringe ad Ugo, non prega Dio, ma solo geme col sospiro più profondo: - E la nostra poverina? Quel sospiro soffia in un grande inferno: perché Ugo bestemmia: - Sempre un rimorso nella mia preghiera! Ma Imilda se lo stringe a sè. Quando il boscaiuolo era entrato nella capanna era Silverio, ora il cavaliero era Ugo. Con Silverio Imilda amava la pace, con Ugo adorava il passato, il presente, l'avvenire. - No, Ugo! Io ti seguii! Non ti seguii: ma ti volli, ti trascinai, ti inebbriai! Oh com'era il tuo amore? Ch'io non ti abbia poi conosciuto mai in tanti mesi? Che tu non sii forte come me? - Imilda! - Come sarà il tuo amore? - Sarà come adesso! Ardente, santo, santissimo, pronto a tutto!

. - e dopo una tremenda pausa: - Se pure un traditore non schiude al saracino i passi delle valli, girando dietro l'alpi e abbattendo ad una ad una le castella vassalle a quei valorosi! - Ah! - geme Ugo con suono ineffabile. L'uomo si caccia a piangere, lasciandosi andar giù sul terreno fino ad insozzarsi di mota la fronte. Ugo fatale invidia quella posizione di massimo avvilimento, ma i suoi muscoli s'inturgidano, la persona si leva audace: egli è invaso da un tremito spaventoso e inciocca i denti pel ribrezzo della febbre. Succede un momento di terribile ansia. Poi Ugo, guardando giù, oltre la valle, quei fuochi di guerra, interroga cupamente: - Messere, o barone o boscaiuolo, che cercate voi? - Io la vendetta! - esulta l'uomo e rizza la testa. - E la vorreste? - A qualunque costo! - ma l'uomo ricade agonizzando. Ed Ugo con spasimo satanico di gioia: - Sono straziato io più di voi! Io voglio la vendetta, a qualunque costo! Diceste che laggiù in oggi è terra di pagani ed ogni misfatto è permesso? Vi auguro di morire! Morite, qui, subito! Non ascolterete l'atrocissimo delitto! Ugo precipita dalla montagna, e alla bambina famelica dà a suggere le proprie labbra lorde di sangue e di bava....

IL BENEFATTORE

662576
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1901
  • CARLO LIPRANDI EDITORE
  • prosa letteraria
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Ora si udiva un rumore confuso di voci, di passi incalzanti, quasi di armento che scendesse con corsa sfrenata, abbattendo gli ostacoli che gli capitavano dinanzi. I due carabinieri si affacciarono alla porta e rientrarono, chiudendola. Il signor Kyllea, pallido, smaniante, strizzandosi le mani, si volgeva di tratto in tratto a guardare nella stanza accanto ... - Ah! Se non ci fossero le donne! ... Ho tre Remington! Don Liddu, che era andato ad affacciarsi dall'alto della terrazza, venne ad annunziare: - Se ne vanno! ... Hanno guastato tutto! ... Ma lungo lo stradone scende un'altra fiumana di gente ... Le campane suonano a stormo! Don Liddu s'interruppe. Grida confuse, fischi, poi due colpi d'arma da fuoco! ... I carabinieri si slanciarono fuori; e don Liddu, afferrato il padrone, cercava a ogni costo di impedirgli di uscire. - Per carità! Voscenza , no! Voscenza , no! Il signor Kyllea stava per svincolarsi, quando comparve miss Elsa, atterrita. - Babbo! ... Che cosa è stato? ... Babbo! Ed ecco la signora Kyllea mezza vestita, bianca come un cencio lavato, che gesticolava senza profferir parola. Il signor Kyllea si contenne: - Niente! Niente! - disse. - Dei malintenzionati. Ma non potè far a meno di trasalire anche lui, sentendo picchiare alla porta, e gridare: - Aprite! Aprite! - Sono i carabinieri! - esclamò don Liddu che aveva riconosciuto la voce. Erano essi infatti, accompagnati dal brigadiere e sostenevano una figura insanguinata, con gli abiti stracciati, che si reggeva a stento. Miss Elsa die un grido; aveva riconosciuto Paolo Jenco!

ABRAKADABRA STORIA DELL'AVVENIRE

676107
Ghislanzoni, Antonio 1 occorrenze
  • 1884
  • Prima edizione completa di A. BRIGOLA e C. EDITORI
  • prosa letteraria
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Gli equilibristi, inferociti da parziali resistenze, avevano perpetrato in parecchi comuni le più feroci rappresaglie contro i facoltosi, abbattendo e incendiando edifizii, violentando persone. Negli ultimi bollettini del 22 ottobre, il numero delle vittime si faceva ascendere a due milioni cinquemila e ottocento. Il Presidente temporario del Consiglio, nel rilevare questa cifra, si fregò le mani esclamando: «Il nostro sistema di non repressione ha dato ottimi risultati. Lasciar passare la volontà dei pazzi è il migliore stratagemma per ricondurre alla ragione le maggioranze. La violenza e l'eccesso generano mai sempre la reazione. Fra una ventina di giorni il partito equilibrista sarà schiacciato, nè si udrà più riparlarne in Europa, nè anche a Manicopoli. Le previsioni dell'arguto presidente si avverarono. Di là ad un mese, quel moto rivoluzionario che aveva scompigliato tante proprietà e distrutte tante vite, era appena ricordato come una sfuriata ridicola di pochi imbecilli. I nuovi rappresentanti della nazione protestarono contro gli abberramenti dei loro elettori; e lo stesso Casanova, l'Acclamato di Milano, il Redentore del popolo, il Messia dell'uguaglianza universale, nella adunanza del 30 Novembre dichiarava in pieno Parlamento che i suoi elettori, prendendo sul serio il programma da lui pubblicato per scroccare un milione di voti, aveano mostrato di essere una mandra di ciuchi. Un secolo addietro, i ciarlatani della politica non giudicavano altrimenti il criterio dei pecoroni che si affidavano alle loro ciance; ma non eran abbastanza civilizzati per dichiarare alla Camera i loro apprezzamenti. Mentre il fascio degli equilibristi si andava scomponendo, i naturalisti guadagnavano aderenti. Nei centri più popolosi e più illuminati si aprivano nuovi Circoli. I recenti affigliati si prestavano con fervore da neofiti alla propaganda del principio. Nelle alte sfere governative, questa diversione dello spirito pubblico verso una riforma comparativamente retriva, era veduta di buon occhio. Pel giorno quindici dicembre i naturalisti furono invitati ad un solenne comizio nella capitale della gioia(35).

Il sistema periodico

681123
Levi, Primo 2 occorrenze

Alberto se ne partì a piedi coi più quando il fronte fu prossimo: i tedeschi li fecero camminare per giorni e notti nella neve e nel gelo, abbattendo tutti quelli che non potevano proseguire; poi li caricarono su vagoni scoperti, che portarono i pochi superstiti verso un nuovo capitolo di schiavitù, a Buchenwald ed a Mauthausen. Non più di un quarto dei partenti sopravvisse alla marcia. Alberto non è ritornato, e di lui non resta traccia: un suo compaesano, mezzo visionario e mezzo imbroglione, visse per qualche anno, dopo la fine della guerra, spacciando a sua madre, a pagamento, false notizie consolatorie.

Pagina 0558

Qualche volta avevamo studiato insieme: era serio e non aveva indulgenze per se stesso, studiava senza genialità e senza gioia (sembrava che non conoscesse la gioia), abbattendo successivamente i capitoli dei testi come un minatore in galleria. Col fascismo non si era compromesso, e aveva reagito bene al reattivo delle leggi razziali. Era stato un ragazzo opaco ma sicuro, di cui ci si poteva fidare: e l' esperienza insegna che proprio questa, l' affidabilità, è la virtù più costante, quella che non si acquista né si perde con gli anni. Si nasce degni di fiducia, col viso aperto e gli occhi fermi, e tali si resta per la vita. Chi nasce contorto e lasco, tale rimane: chi ti mente a sei anni, ti mente a sedici e a sessanta. Il fenomeno è notevole, e spiega come certe amicizie e matrimoni sopravvivono per molti decenni, a dispetto dell' abitudine, della noia e del logorarsi degli argomenti: mi interessava verificarlo su Cerrato. Versai la quota, e scrissi all' anonimo Comitato che alla cena avrei preso parte. La sua figura non era molto cambiata: era alto, ossuto, olivastro; i capelli ancora folti, la barba ben rasa, la fronte, il naso e il mento pesanti e come appena abbozzati. Ancora, come allora, si muoveva malamente, con quei gesti bruschi e insieme incerti che in laboratorio l' avevano reso un proverbiale spaccatore di vetreria. Come è usanza, dedicammo all' aggiornamento reciproco i primi minuti di colloquio. Appresi che era sposato senza figli, e simultaneamente compresi che questo non era un argomento gradito. Appresi che aveva sempre lavorato in chimica fotografica: dieci anni in Italia, quattro in Germania, poi di nuovo in Italia. Era stato lui, certo, il promotore della cena e l' autore della lettera d' invito. Non provava vergogna ad ammetterlo: se gli concedevo una metafora professionale, gli anni di studio erano il suo Technicolor, il resto era bianco e nero. Quanto agli "eventi" (mi trattenni dal fargli notare la goffaggine dell' espressione), gli interessavano veramente. La sua carriera era stata ricca di eventi, anche se per lo più, appunto, non erano stati che in bianco e nero: anche la mia? Certo, gli confermai: chimici e non chimici, ma negli ultimi anni gli eventi chimici avevano prevalso, per frequenza e intensità. Ti dànno il senso del "nicht dazu gewachsen", dell' impotenza, dell' insufficienza, non è vero? Ti dànno l' impressione di combattere un' interminabile guerra contro un esercito avversario ottuso e tardo, ma tremendo per numero e peso; di perdere tutte le battaglie, una dopo l' altra, un anno dopo l' altro; e ti devi accontentare, per medicare il tuo orgoglio contuso, di quelle poche occasioni in cui intravvedi una smagliatura nello schieramento nemico, ti ci avventi, e metti a segno un rapido singolo colpo. Anche Cerrato conosceva questa milizia: anche lui aveva sperimentato l' insufficienza della nostra preparazione, e il dovervi surrogare con la fortuna, l' intuizione, gli stratagemmi, ed un fiume di pazienza. Gli dissi che andavo in cerca di eventi, miei e d' altri, che volevo schierare in mostra in un libro, per vedere se mi riusciva di convogliare ai profani il sapore forte ed amaro del nostro mestiere, che è poi un caso particolare, una versione più strenua, del mestiere di vivere. Gli dissi che non mi pareva giusto che il mondo sapesse tutto di come vive il medico, la prostituta, il marinaio, l' assassino, la contessa, l' antico romano, il congiurato e il polinesiano, e nulla di come viviamo noi trasmutatori di materia; ma che in questo libro avrei deliberatamente trascurato la grande chimica, la chimica trionfante degli impianti colossali e dei fatturati vertiginosi, perché questa è opera collettiva e quindi anonima. A me interessavano di più le storie della chimica solitaria, inerme e appiedata, a misura d' uomo, che con poche eccezioni è stata la mia: ma è stata anche la chimica dei fondatori, che non lavoravano in équipe ma soli, in mezzo all' indifferenza del loro tempo, per lo più senza guadagno, e affrontavano la materia senza aiuti, col cervello e con le mani, con la ragione e la fantasia. Gli chiesi se a questo libro gli sarebbe piaciuto contribuire: se sì, mi raccontasse una storia, e, se mi era permesso dare un suggerimento, doveva essere una storia delle nostre, in cui ci si arrabatta nel buio per una settimana o per un mese, sembra che sarà buio sempre, e viene voglia di buttare via tutto e di cambiare mestiere: poi si scorge nel buio un bagliore, si va a tentoni da quella parte, e la luce cresce, e infine l' ordine segue al caos. Cerrato mi disse seriamente che in effetti qualche volta le cose andavano così, e che avrebbe cercato di accontentarmi; ma che in generale era proprio buio sempre, il bagliore non si vedeva, si picchiava il capo più e più volte contro il soffitto sempre più basso, e si finiva coll' uscire dalla grotta carponi e a ritroso, un po' più vecchi di quando ci si era entrati. Mentre lui interrogava la sua memoria, con lo sguardo verso il soffitto presuntuosamente affrescato del ristorante, gli scoccai una rapida occhiata, e vidi che era invecchiato bene, senza deformarsi, anzi crescendo e maturando: era rimasto greve come un tempo, negato al refrigerio della malizia e del riso, ma questo non offendeva più, si accettava meglio da un cinquantenne che da un ventenne. Mi raccontò una storia d' argento. _ Ti racconto l' essenziale; il contorno ce lo metti tu, per esempio come vive un italiano in Germania; del resto, ci sei pure stato. Ero al controllo del reparto dove si fabbricano le carte per radiografia. Ne sai qualcosa? Non importa: è un materiale poco sensibile, che non dà rogne (rogne e sensibilità sono proporzionali); quindi anche il reparto era piuttosto tranquillo. Ma devi pensare che, se funziona male una pellicola per dilettanti, nove volte su dieci l' utente pensa che sia colpa sua; o se no, al massimo ti manda qualche accidente, che non ti arriva per insufficienza d' indirizzo. Invece, se va male una radiografia, magari dopo la pappa di bario o l' urografia discendente; e poi ne va male una seconda, e tutto il pacchetto di carte; ebbene, allora non finisce così: la grana fa la sua scalata, ingrossando mentre sale, e ti arriva addosso come un' afflizione. Tutte cose che il mio predecessore mi aveva spiegate, col talento didascalico dei tedeschi, per giustificare ai miei occhi il fantastico rituale di pulizia che nel reparto si deve osservare, dal principio alla fine della lavorazione. Non so se ti interessa: ti basti pensare che .... Lo interruppi: le cautele minuziose, le pulizie maniache, le purezze con otto zeri, sono cose che mi fanno soffrire. So bene che in qualche caso si tratta di misure necessarie, ma so pure che, più sovente, la mania prevale sul buon senso, e che accanto a cinque precetti o divieti sensati se ne annidano dieci insensati, inutili, che nessuno osa cancellare solo per pigrizia mentale, per scaramanzia o per morbosa paura di complicazioni: quando addirittura non capita come nel servizio militare, in cui il regolamento serve a contrabbandare una disciplina repressiva. Cerrato mi versò da bere: la sua grossa mano si diresse esitando verso il collo della bottiglia, come se questa stesse starnazzando sul tavolo per sfuggirgli; poi la inclinò verso il mio bicchiere, urtandovi contro più volte. Mi confermò che spesso le cose stavano proprio così: per esempio, alle operaie del reparto di cui mi stava parlando era vietato usare cipria, ma una volta, ad una ragazza era caduto dalla tasca il portacipria, si era aperto cadendo, e ne era volata per aria un bel po' ; la produzione di quel giorno era stata collaudata con rigore particolare, ma andava benissimo. Bene, il divieto della cipria era rimasto. _ ... però un dettaglio bisogna che te lo dica, se no la storia non si capirebbe. C' è la religione del pelo (questa è giustificata, te lo assicuro): il reparto è in leggera sovrapressione, e l' aria che ci si pompa dentro è accuratamente filtrata. Si porta sopra gli abiti una tuta speciale, e una cuffia sopra i capelli: tute e cuffie vanno lavate tutti i giorni, per asportare i peli in formazione o catturati accidentalmente. Scarpe e calze vanno tolte all' ingresso, e sostituite con pantofole antipolvere. Ecco, questo è lo scenario. Devo aggiungere che, da cinque o sei anni, incidenti grossi non ne erano capitati: qualche protesta isolata da qualche ospedale per la sensibilità alterata, ma si trattava quasi sempre di materiale già fuori del limite di scadenza. Le grane, tu lo saprai, non vengono al galoppo, come gli Unni, ma zitte, di soppiatto, come le epidemie. Incominciò con un espresso da un centro diagnostico di Vienna; era in termini molto civili, direi più una segnalazione che una protesta, e allegata c' era una radiografia giustificativa: regolare come grana (scusa il bisticcio: qui volevo dire grana dell' emulsione) e come contrasto, ma cosparsa di macchioline bianche, oblunghe, grosse come fagioli. Si risponde con una lettera compunta, in cui ci si scusa dell' involontario eccetera, ma dopo il primo lanzichenecco morto di peste è meglio non farsi illusioni: la peste è peste, è inutile fare gli struzzi. La settimana dopo c' erano altre due lettere: una veniva da Liegi e accennava a danni da rifondere, l' altra veniva dall' Unione Sovietica, non ricordo più (forse l' ho censurata) la complicata sigla dell' ente commerciale che l' aveva spedita. Quando fu tradotta, a tutti si drizzarono i capelli in testa. Il difetto, naturalmente, era sempre quello, delle macchie a forma di fagiolo, e la lettera era pesantissima: si parlava di tre operazioni che avevano dovuto essere rimandate, di turni persi, di quintali di carta sensibile contestata, di una perizia e di una controversia internazionale presso il Tribunale di non so dove; ci si ingiungeva di mandare subito uno Spezialist. In questi casi si cerca almeno di chiudere le stalle dopo che una parte dei buoi sono scappati, ma non sempre ci si riesce. Chiaro che tutta la carta aveva superato bene il collaudo di uscita: si trattava dunque di un difetto che si manifestava in ritardo, durante il magazzinaggio da noi o dal cliente, o durante il trasporto. Il Direttore mi chiamò a rapporto; discusse il caso con me, molto cortesemente, per due ore, ma a me pareva che mi scuoiasse, lentamente, metodicamente, e godendoci. Prendemmo accordi col laboratorio controlli, e ricollaudammo lotto per lotto tutta la carta che era a magazzino. Quella più recente di due mesi era in ordine. Nell' altra, il difetto fu riscontrato, ma non in tutta: i lotti erano centinaia, e circa un sesto presentavano l' inconveniente dei fagioli. Il mio vice, che era un giovane chimico neanche poi tanto sveglio, fece un' osservazione curiosa: i lotti difettosi si susseguivano con una certa regolarità, cinque buoni e uno cattivo. Mi sembrò una traccia, e cercai di andare a fondo: era proprio così, era guasta quasi esclusivamente la carta fabbricata il mercoledì. Certo saprai anche che le grane a ritardo sono di gran lunga le più maligne. Mentre si cercano le cause, bisogna pure continuare a produrre: ma come puoi essere sicuro che la causa (o le cause) non sia tuttora al lavoro, e il materiale che produci foriero di altri guai? Si capisce che puoi tenerlo in quarantena due mesi e poi ricollaudarlo: ma che cosa dirai ai depositi in tutto il mondo, che non vedono arrivare roba? E gli interessi passivi? E il nome, il Buon Nome, l' Unbestrittener Ruf? Poi c' è quell' altra complicazione: ogni variazione che tu faccia nella composizione o nella tecnologia, deve aspettare due mesi prima che tu sappia se serve o non serve, se annulla il difetto o lo accentua. Io mi sentivo innocente, naturalmente: avevo rispettato tutte le regole, non mi ero permessa nessuna indulgenza. A monte e a valle di me, tutti gli altri si sentivano altrettanto innocenti: quelli che avevano date per buone le materie prime, che avevano preparato e collaudato l' emulsione di bromuro d' argento, quelli che avevano confezionato, imballato e immagazzinato i pacchi della carta. Mi sentivo innocente, ma non ero: ero colpevole per definizione, perché un caporeparto risponde del suo reparto, e perché se c' è danno c' è peccato e se c' è peccato c' è un peccatore. È una faccenda, appunto, come il peccato originale: non hai fatto niente, ma sei colpevole e devi pagare. Non con denaro, ma peggio: perdi il sonno, perdi l' appetito, ti viene l' ulcera o l' eczema, e fai un grande passo verso la nevrosi aziendale definitiva. Mentre continuavano ad arrivare lettere e telefonate di protesta, io mi accanivo ad almanaccare sul fatto del mercoledì: un significato lo doveva pure avere. Il martedì notte era di turno un guardiano che non mi piaceva, aveva una cicatrice sul mento e la faccia da nazi. Non sapevo se parlarne o no col Direttore: cercare di scaricare la colpa sugli altri è sempre cattiva politica. Poi mi feci portare i libri paga, e vidi che il nazi era da noi solo da tre mesi, mentre il guaio dei fagioli incominciava a manifestarsi sulla carta fabbricata dieci mesi prima. Cosa era successo di nuovo dieci mesi prima? Circa dieci mesi prima era stato accettato, dopo rigorosi controlli, un nuovo fornitore della carta nera che si usa per proteggere dalla luce le carte sensibili: ma il materiale difettoso risultò imballato promiscuamente in carta nera proveniente da entrambi i fornitori. Anche dieci mesi prima (nove, per l' esattezza) era stato assunto un gruppo di operaie turche; le intervistai una per una, con loro grande stupore: volevo stabilire se il mercoledì, o il martedì sera, facevano qualcosa di diverso dal solito. Si lavavano? o non si lavavano? Usavano qualche cosmetico speciale? andavano a ballare e sudavano più del solito? Non osai chiedergli se il martedì sera facevano all' amore: comunque, né direttamente né attraverso l' interprete, non riuscii a cavarne nulla. Capirai che frattanto la faccenda si era risaputa in tutta la fabbrica, e mi guardavano con un' aria strana: anche perché ero il solo caporeparto italiano, e mi immaginavo benissimo i commenti che si dovevano scambiare dietro le mie spalle. L' aiuto decisivo mi venne da uno degli uscieri, che parlava un po' italiano perché era stato a combattere in Italia: anzi, era stato fatto prigioniero dai partigiani dalle parti di Biella, e poi scambiato con qualcuno. Non aveva rancore, era loquace, e parlava a vanvera di un po' di tutto senza mai concludere: ebbene, è stata proprio questa sua chiacchiera insulsa a fare da filo d' Arianna. Un giorno mi disse che lui era pescatore, ma che da quasi un anno, nel fiumicello lì accanto, non si pescava più un pesce: da quando, cinque o sei chilometri più a monte, avevano messo una conceria. Mi disse poi che addirittura l' acqua, in certi giorni, diventava bruna. Lì per lì non feci caso a queste sue osservazioni, ma ci ripensai pochi giorni dopo, quando dalla finestra della mia camera, nella foresteria, vidi ritornare il camioncino che riportava le tute dalla lavanderia. Mi informai: la conceria aveva cominciato a lavorare dieci mesi prima, e la lavanderia lavava le tute proprio nell' acqua del fiume dove il pescatore non riusciva più a pescare: però la filtravano e la facevano passare per un depuratore a scambio ionico. Le tute le lavavano durante il giorno, le asciugavano di notte in un essiccatoio, e le riconsegnavano al mattino presto, prima della sirena. Andai alla conceria: volevo sapere quando, dove, con quale ritmo, in quali giorni svuotavano i tini. Mi mandarono via malamente, ma io ci ritornai due giorni dopo col medico dell' Ufficio d' Igiene; bene, il più grande dei tini di concia lo vuotavano ogni settimana, la notte fra il lunedì e il martedì! Non mi vollero dire che cosa conteneva, ma sai bene, i conciati organici sono dei polifenoli, non c' è resina scambio-ionica che li trattenga, e che cosa possa fare un polifenolo sul bromuro d' argento lo immagini anche tu che non sei della partita. Ottenni un campione del bagno di concia, andai al laboratorio sperimentale, e provai ad atomizzare una soluzione 1:10000 nella camera oscura in cui stava esposto un campione di carta per radiografie. L' effetto si vide pochi giorni dopo: la sensibilità della carta era sparita, letteralmente. Il capo del laboratorio non credeva ai suoi occhi: mi disse che non aveva mai visto un inibitore così potente. Abbiamo provato con soluzioni via via più diluite, come fanno gli omeopatici: con soluzioni intorno alla parte per milione si ottenevano le macchie a forma di fagiolo, che venivano fuori però solo dopo due mesi di riposo. L' effetto-fagiolo, il Bohneffekt, era stato riprodotto in pieno: a conti fatti, si è visto che bastava qualche migliaio di molecole di polifenolo, assorbito dalle fibre della tuta durante il lavaggio, e portato in volo dalla tuta alla carta da un pelino invisibile, per provocare una macchia. Gli altri commensali intorno a noi conversavano rumorosamente di figli, di ferie e di stipendi; noi finimmo con l' appartarci al bar, dove a poco a poco diventammo sentimentali, e ci promettemmo a vicenda di rinnovare un' amicizia che in effetti fra noi non era mai esistita. Ci saremmo tenuti a contatto, e ognuno di noi avrebbe raccolto per l' altro altre storie come questa, in cui la materia stolida manifesta un' astuzia tesa al male, all' ostruzione, come se si ribellasse all' ordine caro all' uomo: come i fuoricasta temerari, assetati più della rovina altrui che del trionfo proprio, che nei romanzi arrivano dai confini della terra per stroncare l' avventura degli eroi positivi.

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Storie naturali

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Levi, Primo 1 occorrenze

Non si era diretto verso casa, né verso la cascina De Simone: aveva saltato netto la staccionata alta due metri che recinge la proprietà Chiapasso, aveva preso di traverso per le vigne, aprendosi un varco tra i filari con furia cieca, in linea retta, abbattendo paletti e viti, stroncando i robusti fili di ferro che sostengono i tralci. Era giunto sull' aia, e aveva trovato la porta della stalla chiusa col catenaccio dall' esterno. Avrebbe potuto agevolmente aprire con le mani: invece aveva raccolto una vecchia macina da grano, pesante mezzo quintale, e l' aveva scagliata contro la porta mandandola in schegge. Nella stalla non c' erano che le sei mucche, un vitello, polli e conigli. Trachi era ripartito all' istante, e si era diretto, sempre a folle galoppo, verso la tenuta del barone Caglieris. Questa è lontana almeno sei chilometri, dall' altra parte della valle, ma Trachi vi arrivò in pochi minuti. Cercava la scuderia: non la trovò al primo colpo, ma solo dopo di aver sfondato a calci e a spallate diverse porte. Quanto fece nella scuderia, lo sappiamo da un testimone oculare: uno stalliere, che al fracasso della porta infranta aveva avuto il buon senso di nascondersi nel fieno, e di lì aveva visto ogni cosa. Aveva sostato un attimo sulla soglia, ansante e sanguinante. I cavalli, inquieti, scrollavano i musi tirando sulle cavezze: Trachi era piombato su di una cavalla bianca, di tre anni; aveva spezzato d' un colpo la catenella che la legava alla mangiatoia, e trascinandola per questa stessa l' aveva condotta fuori. La cavalla non aveva opposto alcuna resistenza; strano, mi disse lo stalliere, perché era di carattere piuttosto ombroso e restio, e non era neppure in calore. Avevano galoppato insieme fino al torrente: qui Trachi era stato visto sostare, attingere acqua colle mani, e bere ripetutamente. Poi avevano proseguito affiancati fino al bosco. Sì, ho seguito le loro tracce: fino a quel bosco, fino a quel sentiero, fino a quella macchia in cui Teresa mi aveva chiesto. E proprio qui, per tutta la notte, Trachi doveva aver celebrato le sue nozze gigantesche. Vi trovai il suolo scalpicciato, rami spezzati, crini bianchi e bruni, capelli umani, ed ancora sangue. Poco lontano, richiamato dal suo respiro affannoso, trovai lei, la giumenta. Giaceva a terra su di un fianco, ansimante, col nobile mantello sporco di terra e d' erba. Al mio passo sollevò a stento il muso, e mi seguì con lo sguardo terribile dei cavalli spaventati. Non era ferita, ma esausta. Partorì dopo otto mesi un puledrino: normalissimo, a quanto mi è stato detto. Qui le tracce dirette di Trachi si perdono. Ma, come forse qualcuno ricorda, nei giorni seguenti comparve sui giornali notizia di una curiosa catena di abigeati, tutti perpetrati con la medesima tecnica: la porta infranta, la cavezza sciolta o spezzata, l' animale (sempre una giumenta, e sempre una sola) condotto in qualche bosco poco lontano, e qui ritrovato sfinito. Solo una volta il rapitore sembrò aver trovato resistenza: la sua occasionale compagna di quella notte fu trovata morente, con la cervice slogata. Sei furono questi episodi, e furono segnalati in vari punti della penisola, susseguendosi da nord a sud. A Voghera, a Lucca, presso il lago di Bracciano, a Sulmona, a Cerignola. L' ultimo avvenne presso Lecce. Poi null' altro; ma forse si deve riconnettere a questa storia la curiosa segnalazione fatta alla stampa dall' equipaggio di un peschereccio pugliese: di aver incontrato, al largo di Corfù, "un uomo a cavallo di un delfino". La strana apparizione nuotava vigorosamente verso levante; i marinai le avevano dato una voce, al che l' uomo e la groppa grigia si erano immersi, scomparendo alla vista.

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Lilit

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Levi, Primo 1 occorrenze

Viveva in Lager come una tigre nella giungla: abbattendo e taglieggiando i più deboli ed evitando i più forti, pronto a corrompere, a rubare, a fare a pugni, a tirar cinghia, a mentire o a blandire, a seconda delle circostanze. Era dunque un nemico, ma non vile né sgradevole. Scese lentamente le scale, e quando fu vicino potemmo vedere chiaramente dove fosse finito il contenuto del secchio. Questa era fra le sue specialità: al primo latrato dell' allarme aereo, nel subbuglio generale, precipitarsi alla cucina del cantiere, e scappare col bottino prima che arrivasse la ronda. Rappoport lo aveva fatto tre volte con successo; la quarta, da bandito prudente qual era, se ne restò tranquillo con la sua squadra per tutto l' allarme. Lilienthal, che aveva voluto imitarlo, fu colto sul fatto, e impiccato pubblicamente il giorno dopo. _ Salute, italiani, _ disse: _ ciao, pisano _. Poi fu di nuovo silenzio; stavamo sdraiati sui sacchi fianco a fianco, e poco dopo Valerio ed io eravamo scivolati in un dormiveglia brulicante di immagini. Non occorreva per questo la posizione orizzontale: accadeva, in momenti di riposo, di addormentarsi in piedi. Non così Rappoport, che, pur detestando il lavoro, era uno di quei temperamenti sanguigni che non sopportano l' inazione. Cavò di tasca un coltellino e prese ad affilarlo su un sasso, sputandovi sopra a intervalli; ma anche questo non gli bastava. Apostrofò Valerio, che russava già: _ Sveglia, ragazzo: che cosa hai sognato? Ravioli, vero? e vino di Chianti: alla mensa di via dei Mille, per lire sei e cinquanta. E le bistecche, psza crew, bistecche di borsa nera che coprivano il piatto; gran paese, l' Italia. E poi la Margherita ... _ e qui fece una smorfia gioviale e si batté fragorosamente una mano sulla coscia. Valerio si era svegliato, e se ne stava accoccolato con un sorriso rappreso nel piccolo viso terreo. Quasi nessuno gli rivolgeva mai la parola, ma non credo che lui fosse in grado di soffrirne molto; invece Rappoport gli parlava spesso, lasciandosi andare sull' onda dei ricordi pisani con abbandono sincero. A me era chiaro che per Rappoport Valerio rappresentava solo un pretesto per questi suoi momenti di vacanza mentale; per Valerio essi erano invece pegni di amicizia, della preziosa amicizia di un potente, elargiti con generosa mano a lui Valerio, da uomo a uomo, se non proprio da pari a pari. _ Come, non conoscevi la Margherita? Non ci sei mai stato insieme? Ma allora cosa sei pisano a fare? Quella era una donna da svegliare i morti: gentile e pulita di giorno, e di notte una vera artista .... _ Qui si udì nascere un fischio, e poi subito un altro. Sembra vano scaturiti da una lontananza remota, ma si avventavano su noi come locomotive in pazza corsa: la terra tremò, le travi di cemento del soffitto vibrarono per un attimo come se fossero di gomma, ed infine maturarono le due esplosioni, seguite da uno scroscio di rovina, e in noi dalla voluttuosa distensione dello spasimo. Valerio si era trascinato in un angolo, aveva nascosto il viso nel cavo del gomito come a proteggersi da uno schiaffo, e pregava sottovoce. Sorse un nuovo fischio mostruoso. Le nuove generazioni europee non conoscono questi sibili: non dovevano essere casuali, qualcuno deve averli voluti, per dare alle bombe una voce che esprimesse la loro sete e la loro minaccia. Mi rotolai giù dai sacchi contro il muro: ecco l' esplosione, vicinissima, quasi corporea, e poi il vasto soffio del risucchio. Rappoport si sganasciava dalle risa. _ Te la sei fatta sotto, eh pisano? O non ancora? Aspetta, aspetta, il bello ha ancora da venire. _ Hai dei buoni nervi, _ dissi io, mentre dalla memoria liceale mi affiorava, sbiadita come da una incarnazione anteriore, l' immagine spavalda di Capaneo, che dal fondo dell' inferno sfida Giove e ne irride le folgori. _ Non è questione di nervi, ma di teoria. Di contabilità: è la mia arma segreta. Ora, a quel tempo io ero stanco, di una stanchezza ormai antica, incarnata, che credevo irrevocabile. Non era la stanchezza nota a tutti, che si sovrappone al benessere e lo vela come una paralisi temporanea, bensì un vuoto definitivo, una amputazione. Mi sentivo scarico, come un fucile sparato, e come me era Valerio, forse in modo meno cosciente, e come noi tutti gli altri. La vitalità di Rappoport, che in altra condizione avrei ammirata (ed infatti oggi la ammiro) mi appariva importuna, insolente: se la nostra pelle non valeva due soldi, la sua, benché polacco e sazio, non valeva molto di più, ed era irritante che lui non lo volesse riconoscere. Quanto a quella faccenda della teoria e della contabilità, non avevo voglia di starla a sentire. Avevo altro da fare: dormire, se i padroni del cielo me lo permettevano; se no, succhiarmi la mia paura, in pace, come ogni benpensante. Ma non era facile reprimere Rappoport, eluderlo od ignorarlo. _ Cosa dormite? Io sto per fare testamento e voi dormite. Forse la mia bomba è già in viaggio, e non voglio perdere l' occasione. Se fossi libero, vorrei scrivere un libro con dentro la mia filosofia: per ora, non posso che raccontarla a voialtri due meschini. Se vi serve, tanto meglio; se no, e se voi ve la cavate e io no, che sarebbe poi strano, potrete ripeterla in giro, e verrà magari a taglio a qualcuno. Non che me ne importi molto, però: non ho la stoffa del benefattore. Ecco: finché ho potuto, io ho bevuto, ho mangiato, ho fatto l' amore, ho lasciato la Polonia piatta e grigia per quella vostra Italia; ho studiato, ho imparato, viaggiato e visto. Ho tenuto gli occhi bene aperti, non ho sprecato una briciola; sono stato diligente, non credo si potesse fare di più né meglio. Mi è andata molto bene, ho accumulato una grande quantità di bene, e tutto questo bene non è sparito, ma è in me, al sicuro: non lo lascio impallidire. L' ho conservato. Nessuno me lo può togliere. Poi sono finito qui: sono qui da venti mesi, e da venti mesi tengo i miei conti. I conti tornano, sono ancora di parecchio in attivo. Per guastare il mio bilancio, ci vorrebbero molti mesi ancora di Lager, o molti giorni di tortura. D' altronde, _ e si carezzò affettuosamente lo stomaco, _ con un po' d' iniziativa anche qui, ogni tanto, qualcosa di buono si può trovare. Perciò, nel caso deprecabile che uno di voi mi sopravviva, potrete raccontare che Leon Rappoport ha avuto quanto gli spettava, non ha lasciato debiti né crediti, non ha pianto e non ha chiesto pietà. Se all' altro mondo incontrerò Hitler, gli sputerò in faccia con pieno diritto .... _ Cadde una bomba poco lontano, e seguì un rombo come di frana: doveva essere crollato uno dei magazzini. Rappoport dovette alzare la voce quasi in un urlo: _ ... perché non mi ha avuto! Ho rivisto Rappoport una volta sola e per pochi istanti, e la sua immagine è rimasta in me nella forma quasi fotografica di questa sua ultima apparizione. Ero ammalato nell' infermeria del Lager, nel gennaio 1945. Dalla mia cuccetta si poteva vedere un tratto di strada fra due baracche, dove, nella neve ormai alta, era segnata una pista; vi passavano spesso gli inservienti dell' infermeria, a coppie, portando in barella morti o moribondi. Vidi un giorno due barellieri di cui uno mi colpì per l' alta statura, e per un' obesità perentoria, autorevole, inusitata in quei luoghi. Riconobbi in lui Rappoport, scesi alla finestra e picchiai ai vetri. Lui si arrestò, mi indirizzò una smorfia gaia ed allusiva, e levò la mano in un ampio gesto di saluto, al che il suo triste carico si inclinò scompostamente su un lato. Due giorni dopo il campo fu evacuato, nelle spaventose circostanze ben note. Ho ragione di ritenere che Rappoport non sia sopravvissuto; perciò stimo doveroso eseguire del mio meglio l' incarico che mi è stato affidato.

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ALLA CONQUISTA DI UN IMPERO

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

I bisonti, dopo essersi arrestati un momento presso i cespugli, dove poco prima si erano tenuti nascosti i malesi, sperando forse che i cacciatori si fossero imboscati là in mezzo, avevano ripresa la loro carica indiavolata, tutto abbattendo sul loro passaggio. Parevano tanti enormi proiettili scagliati da qualche colossale pezzo di marina, tanto era il loro impeto. I bambù, che come si sa, sono resistentissimi, cadevano falciati dai robusti zoccoli di quei demoni, come se fossero semplici giunchi. Giunti dinanzi allo strato fangoso, s'arrestarono di colpo, piegandosi fino a terra e accavallandosi gli uni sopra gli altri. - Per Siva! - esclamò Kammamuri, raggiungendo rapidamente i suoi padroni, che si erano messi in salvo sul loro elefante. - Altro che assamesi! Questi sono ben più pericolosi di quei poltroni! ... - Avanti, cornac! - gridò Tremal-Naik. - Se passano lo strato fangoso, assaliranno gli elefanti. - E voialtri aprite il fuoco! - comandò Sandokan, vedendo che anche tutti i suoi uomini erano già montati. Otto o dieci colpi di carabina rimbombarono, ma non ottennero altro effetto, che quello di rendere maggiormente furiosi gli jungli-kudgia. Gli elefanti, aizzati dai cornac, si erano già lanciati coraggiosamente nella fanghiglia, avanzandosi frettolosamente, temendo di dover provare la robustezza e l'acutezza di quelle terribili corna. I bisonti, vedendoli allontanarsi, anziché calmarsi si misero a muggire spaventosamente ed a spiccare salti; poi si provarono a gettarsi a loro volta nel pantano, ma accorgendosi che le loro gambe, che non avevano lo spessore di quelle degli elefanti, sprofondavano interamente, rimontarono lo strato duro, seguendo su quello i fuggiaschi. - Che non vogliano lasciarci? - chiese Sandokan che cominciava ad inquietarsi. - Avrei desiderato meglio incontrare gli assamesi. - Quegli animali sono testardi ed eccessivamente vendicativi - rispose Tremal- Naik. - Aspetteranno che i nostri elefanti trovino un terreno solido per darci battaglia. - Spero che prima di allora saranno ben decimati. - Non ci rimane altro da fare, amico. - Non sono che a trecento metri, e le nostre carabine hanno una portata più che doppia. - Gli è che il dondolìo degli elefanti renderà il nostro tiro molto difficile. - Sandokan prese la carabina, si piantò per bene sulle gambe, appoggiando il petto contro l'orlo superiore della cassa, e puntò l'arma, aspettando che l'elefante pilota trovasse qualche punto su cui poggiare con minor violenza, le sue zampacce. Trascorse qualche minuto, poi Sandokan lasciò partire il colpo, approfittando d'un istante di sosta del pachiderma. La palla, quantunque ben diretta, andò a spezzare una delle corna del bisonte, che guidava la truppa e che era il più colossale di tutti. L'animale si fermò un momento, sorpreso, senza dubbio, di vedersi cadere dinanzi una delle sue principali difese; poi riprese tranquillamente la marcia, come se nulla fosse avvenuto. - Saccaroa! - esclamò Sandokan, deponendo l'arma ancora fumante, per prenderne un'altra che gli porgeva Kammamuri. - Quegli animali valgono i rinoceronti. - Te l'ho detto, - disse Tremal-Naik. Sandokan tornò a puntare l'arma, mirando ancora il capo-fila, essendosi promesso di abbatterlo a qualunque costo. Due minuti dopo un altro sparo rimbombava e la palla passava oltre senza aver colpito nessuno del branco. - Tu sprechi il piombo, - disse il bengalese. - Ho ancora una palla. - Confesserai almeno che si spara male, stando sul dorso d'un elefante, e che per distruggere tutto quel branco, dovremmo consumar tutte le munizioni. - Ciò che non desidero affatto, non sapendo se gli assamesi ci seguono ancora o, se sono tornati indietro. - Uhm! Lo dubito: sono testardi come gli jungli-kudgia. - Riprese la carabina e per la terza volta l'alzò, aspettando il momento favorevole. Una nuova fermata dell'elefante pilota, il quale era sprofondato nel fango fino alle ginocchia, rimanendo immobile per qualche istante, gli permise di sparare il suo ultimo colpo. Il bisonte mandò un lunghissimo muggito, poi si fermò bruscamente abbassando la testa fino quasi al suolo, colla lingua pendente. Tutto il branco si era fermato, guardandolo e muggendo. Aveva compreso che il capo doveva essere stato gravemente ferito. Il colossale bisonte non accennava a muoversi. Tenera sempre la testa bassa e dalla sua bocca, assieme ad una bava sanguigna, uscivano dei rauchi muggiti, che diventavano rapidamente fiochi. - Sta per morire! - esclamò Sandokan. In quel momento il bisonte cadde sulle ginocchia, affondando il muso nel fango. Tentò ancora di rimettersi in piedi; le forze invece bruscamente gli mancarono e si rovesciò su un fianco. - Pare che sia proprio morto, è vero Tremal-Naik? - disse Sandokan, tutto lieto di quel successo insperato. - Tu hai provveduto agli sciacalli ed ai cani selvaggi una buona preda, che avrebbe servito a meraviglia anche a noi, - rispose il bengalese. - Tu tiri, come Gengis-khan lanciava le sue frecce. - Non lo conosco, né mi occupo di sapere chi sia. - Un meraviglioso conduttore di esercito ed un famoso arciere. - I bisonti, dopo d'aver fiutato a più riprese il loro capo e di aver manifestata la loro rabbia con muggiti possenti, avevano ripresa la marcia, camminando quasi parallelamente agli elefanti. Vi era da augurarsi che quel pantano si prolungasse indefinitivamente, o almeno fino alle falde delle montagne di Sadhja, ciò che era impossibile a sperarsi. Per altre due ore gli elefanti continuarono a marciare, ostinatamente seguìti dai bisonti. Trovato un altro strato solido, che formava come un isolotto in mezzo alla fanghiglia della circonferenza di tre o quattrocento passi e coperto d'alberi di varie specie, Sandokan comandò una seconda fermata. Era una precauzione necessaria, poiché il mezzodì era già trascorso e continuando ad avanzare, senza alcun riparo, potevano buscarsi qualche terribile colpo di sole, non meno fatale del morso dei velenosissimi cobra-capello. D'altronde tutti avevano fame, non avendo potuto prepararsi la colazione durante la prima fermata, in causa dell'attacco furioso degli jungli-kudgia. Il luogo non era stato scelto male, poiché un largo canale fangoso li difendeva dall'attacco di quei testardi animali; e poi su quell'isolotto assieme a parecchie palme ed a piante d'areca, si vedevano degli ham, ossia dei manghi, carichi di frutta oblunghe di tre o quattro pollici di lunghezza, che sotto la buccia dura e verdognola, contengono una polpa giallastra, d'un sapore aromatico squisitissimo e salubre se ben matura. Il campo fu subito improvvisato alla meglio, all'ombra delle piante, poiché anche gli elefanti soffrono assai il calore; anzi tenendoli troppo esposti, corrono il pericolo di veder la loro pelle screpolarsi, formando così delle piaghe nella carne viva, che sono talvolta difficilissime a guarirsi. Gli è perciò che i loro cornac li spalmano di grasso, specialmente sulla testa. Furono accesi parecchi fuochi e furono messi ad arrostire i volatili abbattuti da Sandokan e da Tremal-Naik. Mentre gli arrosti rosolavano infilzati nelle bacchette di ferro delle carabine, e attentamente sorvegliati da una mezza dozzina di cuochi improvvisati, Sandokan, Surama ed il bengalese, scortati da alcuni dayachi, esploravano l'isolotto, per far raccolta di frutta, non avendo ormai più nemmeno un biscotto. La loro gita non fu inutile, poiché oltre a molli manghi, furono tanto fortunati da scoprire un paio di mahuah, piante preziosissime, che non a torto vengono chiamate la manna delle jungle, perché danno, dopo la caduta dei fiori, che sono pure mangiabilissimi, quantunque sappiano di muschio, delle grosse frutta col mallo violaceo, contenenti delle mandorle bianche eccellenti, lattiginose, colle quali gli indiani si preparano delle focacce gustosissime, che surrogano benissimo il pane. La colazione, abbondantissima, essendo tutti i volatili grossissimi, fu divorata in pochi minuti; poi tutti, Sandokan e Tremal-Naik eccettuati, si stesero sotto la fresca ombra delle palme, a fianco degli elefanti, i quali stavano consumando una enorme provvista di teneri rami e di foglie, non potendosi dare a loro né farina di frumento impastata, né la solita libbra di ghi per ciascuno, ossia di burro chiarificato. I due capi, che sospettavano sempre un attacco degli assamesi, e che da veri avventurieri non sentivano bisogno di riposarsi, avevano riprese le loro armi, per sorvegliare le due rive dell'isolotto. Volevano anche assicurarsi di ciò che facevano i bisonti, che poco prima avevano veduto ancora gironzolare al di là della fanghiglia. Percorso l'isolotto tutto all'ingiro, scorsero nuovamente gli jungli-kudgia. Si erano sdraiati al di là del canalone, brucando le dure erbe palustri che crescevano presso di loro. Vedendo apparire i due cacciatori, in un attimo furono tutti in piedi, cogli occhi iniettati di sangue, sferzandosi rabbiosamente i fianchi colle loro lunghe code infioccate. Muggivano ferocemente e dimenavano freneticamente le teste, come se si provassero ad avventare delle cornate. - Qui non siamo più sul dorso degli elefanti, - disse Sandokan. - È questo il momento di decimarli. - Accostò le mani alle labbra e mandò un lungo fischio. Subito malesi e dayachi si precipitarono verso la riva. - Fucilatemi quelle canaglie, - disse a loro Sandokan. - È tempo di finirla con questo inseguimento che dura da troppo tempo. - Fu una scarica terribilissima quella che partì. Su diciotto bisonti, undici caddero morti o moribondi; gli altri, vista la mala parata, si allontanarono a corsa sfrenata, mettendosi in salvo fra le moltissime macchie di bambù, che coprivano la jungla settentrionale. I nostri fuggiaschi non scorgendo più i bisonti, fecero ritorno all'accampamento, sicuri di potersi finalmente riposare senz'essere più disturbati. Verso le quattro pomeridiane, quando l'intenso calore cominciava a scemare, l'accampamento fu levato e gli elefanti, sempre preceduti dal pilota, riprendevano le mosse. Mezz'ora dopo ritrovavano finalmente il terreno solido. La jungla paludosa era stata attraversata e cominciava quella secca, con distese di eterni bambù lisci e spinosi, di erbe altissime semi-bruciate dal solleone, di immensi cespugli con qualche gruppo di mindi, quei graziosi arbusti dalla corteccia bianchiccia, foglie verdi pallide e lunghi grappoli di fiori, d'un giallo delicato e dal profumo delizioso. Era il momento di spingere i pachidermi a gran corsa, per lasciare definitivamente indietro gli assamesi, se ancora li seguivano. Una brutta sorpresa però attendeva i fuggiaschi e si preparavano a offrirla gli implacabili bisonti. Nessuno più pensava a quegli animali, che non si erano fatti più vedere dopo la disastrosa sconfitta, che avevano subìta sul margine della fanghiglia, quando una improvvisa agitazione si manifestò fra gli elefanti. Il pilota pel primo si era fermato dimenando la proboscide e lanciando dei sonori barriti. - In guardia, signori! - gridò il cornac, volgendosi verso Sandokan e Tremal- Naik, che si erano alzati scrutando le folte macchie che li circondavano. - Noi abbiamo dimenticato gli jungli-kudgia, - disse Tremal-Naik. - Ancora quelle canaglie! - esclamò Sandokan furioso. - T'ho già detto che tu non li conosci. - Questa volta li stermineremo! - Non ci resta altro da fare, se vogliamo continuare tranquillamente la marcia. - Sandokan alzò la voce. - Tenetevi pronti tutti! Fuoco accelerato e mirate meglio che potete. - Gli elefanti, malgrado i colpi d'arpione, non si muovevano e non cessavano di barrire. Si erano piantati solidamente sulle zampacce, colla proboscide ben alta, pronta a vibrare colpi vigorosi e le teste basse colle lunghe zanne tese innanzi. Avevan fiutato il pericolo prima degli uomini e si preparavano a sostenere gagliardamente l'urto degli avversari, proteggendosi vicendevolmente i fianchi, per non farsi sventrare dalle aguzze corna di quegli indemoniati animali. I malesi ed i dayachi, tutti appoggiati ai bordi delle casse, colle dita sui grilletti delle carabine, erano pronti ad appoggiarli e ben risoluti a difenderli. Gli jungli-kudgia s'avvicinavano, sfondando con slancio irresistibile le macchie. Le altissime canne oscillavano in diversi punti, poi cadevano abbattute dalle corna d'acciaio dei colossi animali. La carica, a giudicarlo dalle mosse disordinate dei bambù, doveva avvenire per diverse direzioni. Gli astuti e vendicativi animali, non si slanciavano più in una sola massa, per non cadere in gruppo come sulle rive della fanghiglia. - Eccoli! - gridò ad un tratto il cornac. Un bisonte, dopo d'aver sfondato con un ultimo urto una vera muraglia di bambù spinosi, comparve all'aperto e si slanciò, con impeto selvaggio, contro l'elefante pilota, colla testa bassa, per piantargli le corna in mezzo al petto. Fu così fulmineo l'attacco, che Sandokan, Tremal-Naik, Kammamuri e anche Surama, la quale si era pure armata, essendo una buona bersagliera, non ebbero nemmeno il tempo di far fuoco. L'elefante-pilota però vegliava attentamente. Alzò la sua possente tromba, poi quando si vide l'animale quasi fra le gambe, lo percosse furiosamente sulla groppa. Parve un colpo di spingarda. Lo jungli-kudgia stramazzò di colpo, colla spina dorsale fracassata da quella tremenda sferzata. S'udì quasi subito un crac, come se delle ossa si spezzassero sotto una pressione spaventevole. Il pachiderma aveva posato ambe le zampe posteriori sul moribondo, schiacciandogli la testa. - Bravo pilota! - gridò Tremal-Naik. - Questa sera avrai doppia razione di typha! - Altri tre bisonti erano comparsi sbucando da diverse direzioni e caricando all'impazzata. Uno fu subito fulminato da una scarica dei malesi e dei dayachi, il secondo andò a cacciarsi fra due elefanti della retroguardia e subito schiacciato prima che avesse potuto far uso delle sue corna, ed il terzo, ferito e forse gravemente da una palla di Sandokan, voltò le spalle rientrando nelle macchie, forse per morire là dentro in pace. Giungeva però il grosso, formato fortunatamente da cinque soli animali, gli unici superstiti della numerosa truppa. L'accoglienza che ebbero fu tremenda. I malesi ed i dayachi che avevano avuto il tempo di ricaricare le armi, li ricevettero con un vero fuoco di fila, arrestandoli in piena corsa ed il peggio fu quando gli elefanti, aizzati dai cornac, caricarono a loro volta abbattendo con gran colpi di proboscide quelli che, quantunque gravemente feriti, tentavano ancora di rialzarsi. - Ehi, Tremal-Naik! - gridò allegramente Sandokan. - Che questa volta la sia proprio finita? - Vorrei sperarlo, - rispose il bengalese che non era meno lieto di quel completo successo. - E quello che si è rifugiato nella jungla, vada a cercare altri compagni? - Le truppe di bisonti non s'incontrano ad ogni passo e poi ogni gruppo fa da sé e non si unisce mai agli altri. Facciamo le nostre provviste, giacché la carne qui abbonda, mentre noi siamo a secco. Il filetto e le lingue di questi animali, godono fama di essere bocconi da re. - Gli elefanti furono fatti inginocchiare e tutti scesero a terra, senza l'aiuto delle scale, correndo verso quelle enormi masse di carne. Non fu però impresa facile spaccare quelle gobbe per trarne i filetti. I bisonti indiani, al pari di quelli americani, offrono delle resistenze incredibili anche dopo morti, per lo spessore enorme delle loro ossa che sono a prova di scure. I malesi, dopo essersi invano affaticati, dovettero lasciare il posto a Bindar ed ai cornac più pratici di loro. Fatta un'abbondante provvista di lingue e di carne scelta, la carovana riprese la marcia, rimontando verso il settentrione con passo abbastanza celere, malgrado gli ostacoli che presentava incessantemente l'interminabile jungla. Non fu che verso le otto della sera, nel momento in cui il sole precipitava all'orizzonte e dopo d'aver percorse ben quaranta miglia in poche ore, che Sandokan diede il segnale della fermata a breve distanza dalla riva destra del Brahmaputra, il quale piegava pure, in senso inverso, a settentrione, scendendo dall'imponente catena dell'Himalaya. Non essendo improbabile che in quel luogo vi fossero molti animali feroci, Tremal-Naik e Kammamuri fecero improvvisare dai malesi e dai dayachi, uno stecconato di bambù, intrecciati e accendere anche, ad una certa distanza, numerosi falò; poi le tende furono rizzate per difendersi dai colpi di luna, che nell'India non sono meno pericolosi di quelli di sole, poiché dormendo col viso esposto all'astro notturno, sovente ci si sveglia ciechi affatto. La cena fu deliziosa e, come si può ben immaginare, abbondantissima. Gustate furono specialmente le lingue dei bisonti, che erano state messe a bollire in un pentolone di rame. I flying-fox, quei brutti vampiri notturni, dalle ali nere, che quando sono interamente spiegate, misurano insieme perfino un metro e che hanno il corpo rivestito da una folta pelliccia rossastra, e la testa che somiglia a quella della volpe, cominciavano a descrivere in aria i loro capricciosi zig-zag, quando Sandokan, Surama e Tremal-Naik, si ritirarono sotto la loro tenda, sicuri di poter passare finalmente una notte tranquilla. Gli altri li avevano già preceduti. Solo Kammamuri e Sambigliong, con quattro dayachi, erano rimasti a guardia del campo, potendosi dare che qualche tigre, qualche pantera, si celassero nei dintorni e tentassero, quantunque i fuochi ardessero sempre, qualche colpo sugli addormentati.

Meravigliosi tiratori, aprirono a loro volta il fuoco abbattendo un uomo ogni colpo che sparavano. I seikki, quantunque atterriti dalla precisione di quel fuoco, che non cessava un solo istante, se non osavano avanzare, si tenevano però ostinatamente sul dorso del pachiderma, rispondendo colpo per colpo, mentre il pezzo d'artiglieria, piazzato in fondo al cortile, tuonava mandando le palle sopra le loro teste, cercando di sfondare il soffitto e di provocarne la caduta per schiacciare i difensori della sala. Fortunatamente la volta era stata troppo bene costruita e non rovinavano che qualche mattone e larghi pezzi di calcinaccio, proiettili che non inquietavano affatto né Yanez, né i malesi. Il fuoco era diventato terribile d'ambo le parti e anche rapidissimo. Ogni seikko che cadeva, veniva subito surrogato da un altro non meno ostinato, né meno valoroso del compagno e che non tardava a capitombolare morto o ferito. Una ventina di uomini erano già stati posti fuori di combattimento, quando il segnale della ritirata venne dato. Quel comando giungeva in buon punto, poiché i malesi si trovavano ormai imbarazzati a tener fronte a tanti avversari, e si bruciavano le mani essendo diventate le canne delle carabine ardenti. Anche questa volta il fuoco dei seikki non aveva ottenuto alcun risultato, poiché solo Burni era stato colpito da una palla di rimbalzo, che gli aveva portato via il lobo dell'orecchio destro, provocando un'emorragia che non poteva avere alcuna grave conseguenza. - Capitano, - disse Burni, - come ce la caveremo noi? Che cosa tenteranno i seikki? - Eccoli radunati intorno al pezzo, - gridò Yanez. - Amici, preparatevi a sgombrare o riceverete in pieno petto una palla di buon calibro. - I malesi furono solleciti ad allontanarsi, riparandosi dietro le due estreme ali della barricata, che si trovavano fuori dalla linea del portone. Avevano appena raggiunti i loro posti, quando il cannone avvampò con un fragoroso rimbombo. La palla rimbalzò sulle porte di bronzo, scheggiando quella di destra, attraversò la barricata dei divani, affondandone parecchi e andò a conficcarsi in una parete. - Avranno però da fare, a sfondare le porte di bronzo, capitano - disse il malese. - Cederanno anche quelle. Il pezzo che i seikki adoperano deve essere buonissimo, - osservò Yanez. Un altro colpo seguì il primo e la palla tornò a rimbalzare, sfondando però un'altra buona parte della barricata. - Se ne va, - disse Burni scuotendo tristemente la testa. I colpi si succedevano ai colpi, facendo tremare le invetriate della sala. Le palle rimbalzavano da tutte le parti, scrosciando sulle porte di bronzo, le quali a poco a poco cedevano, e si conficcavano contro le muraglie aprendo dei buchi enormi. Yanez ed i malesi, rannicchiati dietro i divani, cupi, pensierosi, stringevano le loro carabine senza sparare un solo colpo, ben sapendo che sarebbero state cartucce perdute senza alcun profitto, poiché la massa del pachiderma impediva a loro di scorgere gli artiglieri. Il cannoneggiamento durò una buona mezz'ora, poi quando le due porte caddero spezzate, e la barricata fu sfondata, il fuoco fu sospeso ed un uomo, salito sui resti dell'elefante, si presentò, tenendo infisso sulla baionetta un pezzo di seta bianca. Yanez si era già alzato, pronto a fulminarlo, ma accortosi a tempo che si trattava d'un parlamentario, abbassò la carabina chiedendo: - Che cosa vuoi tu? - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. La vostra barricata ormai non vi protegge più. - Dirai a Sua Altezza che ci proteggeranno le nostre carabine, e che il suo gran cacciatore ha ancora le braccia ferree e la vista eccellente, per mettergli fuori di combattimento le guardie reali. - Il rajah mi ha mandato per proporti delle condizioni, mylord. - Quali sono? - Accorda a te la vita, purché tu ti lasci condurre alla frontiera del Bengala. - Ed a' miei uomini? - Hanno ucciso, non sono uomini bianchi e pagheranno colla loro vita. - Va' a dire allora al tuo signore, che il suo grande cacciatore li difenderà finché avrà una cartuccia e un soffio di vita. Sgombra o ti fucilo sul posto! - Il parlamentario fu lesto a scomparire. - Amici, - disse Yanez con voce perfettamente tranquilla, - qui si tratta di morire: la Tigre della Malesia penserà a vendicarci. - Signore, - disse Burni, - la nostra vita ti appartiene e la morte non ha mai fatto paura alle vecchie tigri di Mompracem. Cadere qui o sul mare è tutt'una, è vero camerati? - Sì,- risposero i malesi ad una voce. - Allora prepariamoci all'ultima difesa, - disse Yanez. - Quando non potremo più sparare, attaccheremo colle scimitarre. - Ai colpi di cannone di poco prima, era successo un profondo silenzio. I seikki si consigliavano e stavano preparando la colonna d'attacco. Essi, invece di esporsi al tiro di quelle infallibili carabine, avevano trascinato il pezzo d'artiglieria vicino alla porta, e siccome l'elefante, ormai quasi interamente distrutto dalle granate, non impediva più il puntamento, si preparavano a mitragliare i difensori della sala. - Ecco la fine! - disse Yanez, che si era accorto della manovra. - Cerchiamo di morire da prodi. - Una bordata di mitraglia scrosciò sugli avanzi della barricata, fulminando Burni che si era avanzato per vedere come stavano le cose. Seguì una seconda scarica che fece cadere un altro malese, poi il parlamentario tornò a mostrarsi fra il corpaccio dilaniato dell'elefante, gridando per la seconda volta: - Il rajah mi manda per intimarvi la resa. Se rifiutate vi stermineremo tutti. - La difesa era insostenibile. - Noi siamo pronti ad arrenderci, - rispose finalmente il portoghese, - a condizione però che i miei uomini abbiano, al pari di me, la vita salva. - Il mio signore te lo promette. - Ne sei ben certo? - Mi ha dato la sua parola. - Eccomi. - Balzò sopra gli avanzi della barricata seguito dai suoi malesi, superò l'elefante e saltò sul gradino, fermandosi dinanzi al cannone ancora fumante. Il cortile era pieno di seikki ed in mezzo a loro si trovava il rajah coi suoi ministri, i quali reggevano delle torce. Yanez gettò a terra la carabina, respinse gli artiglieri che cercavano di afferrarlo e mosse verso il principe a testa alta, colle braccia strette sul petto, dicendo con un accento sardonico: - Eccomi Altezza. I seikki hanno vinto l'uccisore di tigri e di rinoceronti, che esponeva la sua vita per la tranquillità dei vostri sudditi. - Tu sei un valoroso, - rispose il rajah evitando lo sguardo fiammeggiante del portoghese. - Poche volte mi sono divertito come questa sera. - Sicché Vostra Altezza non rimpiange i seikki, che sono caduti sotto il mio piombo. - Li pago - rispose brutalmente il principe. - Perché non dovrebbero distrarmi? - Ecco una risposta degna d'un rajah indiano, - rispose Yanez ironicamente. - Che cosa farete ora di me? - A questo penseranno i miei ministri, - rispose il principe. - Io non voglio avere questioni col governatore del Bengala. T'avverto però che finché non si saranno decisi, tu sarai mio prigioniero. - Ed i miei uomini? - Li farò rinchiudere intanto in una stanza appartata. - Assieme a me? - No, mylord, almeno per ora. - Perché? - Per maggior sicurezza. Siete uomini troppo astuti voi per lasciarvi insieme. - Avverto però V. A. che anche i miei servi sono sudditi inglesi, essendo nati a Labuan. - Io non so che cosa sia questo Labuan, - rispose il principe. - Tuttavia terrò conto di quanto tu mi dici. - Fece poi un segno colla mano e tosto quattro ufficiali piombarono sul portoghese, afferrandolo strettamente per le braccia. - Conducetelo dove voi sapete, - disse il rajah. - Non dimenticatevi però che è un uomo bianco e per di più un inglese. - Yanez si lasciò condurre via senza opporre resistenza. Era appena entrato in una delle sale pianterrene, quando i seikki si scagliarono, coll'impeto di belve feroci, contro i tre malesi, strappando a loro di mano le carabine e legandoli solidamente. Quasi nel medesimo istante, da una delle ampie porte che s'aprivano sul cortile, usciva un colossale elefante, montato da un cornac barbuto e d'aspetto feroce. Appeso alla tromba reggeva un ceppo, poco dissimile a quello su cui i macellai usano spaccare i quarti di bue. Quel bestione era l'elefante-carnefice. In tutte le corti dei principotti indiani vi è un simile animale, ammaestrato sul miglior modo di mandare all'altro mondo tutti coloro che danno ombra a quei crudeli regnanti. Mentre i seikki si ritiravano per lasciargli il passo, il gigantesco pachiderma depose, proprio nel centro del cortile, il ceppo, posandovi poi sopra una delle sue zampacce, come per provarne la solidità. - Avanti il primo, - disse il rajah che stava comodamente seduto su una poltrona, con un sigaro fra le labbra. - Voglio vedere se questi uomini, che si battono col coraggio delle tigri, saranno altrettanto coraggiosi dinanzi alla morte. - Quattro seikki afferrarono uno dei tre malesi e lo trascinarono dinanzi all'elefante, facendogli appoggiare la testa sul ceppo e trattenendolo con tutto il loro vigore. Il gigantesco carnefice, ad un ordine del cornac, fece due o tre passi indietro, alzò la proboscide cacciando fuori un lungo barrito, poi s'avanzò verso il ceppo, levò la zampa sinistra e la lasciò cadere sulla testa del povero malese. Il cadavere fu gettato da un lato, e coperto con un largo dootèe; poi l'uno dopo l'altro, furono giustiziati, nel medesimo modo, i due altri malesi. - Teotokris sarà ora contento, - disse il rajah. - Andiamo a riposarci. - Cominciava allora ad albeggiare. Egli si alzò e entrò in uno degli edifici laterali, seguìto dai suoi ministri e dai suoi ufficiali, mentre i seikki si preparavano a portare via i loro camerati, caduti sotto il piombo delle tigri di Mompracem. Il principe si era forse appena coricato, quando un uomo entrava frettolosamente nel palazzo reale e saliva a quattro a quattro i gradini, che conducevano nell'appartamento di Yanez. Era Kubang che tornava, dopo aver assistito all'attacco del palazzo di Surama, e alla fuga di Sandokan e di Tremal-Naik verso il fiume. Udendo bussare frettolosamente, il chitmudgar, che dopo le prime fucilate sparate nella sala si era precipitosamente rifugiato lassù, non osando prendere le parti del gran cacciatore, aveva subito aperto. Il pover'uomo, che da una finestra che prospettava sul cortile d'onore, aveva assistito alla resa di Yanez, e all'esecuzione dei tre malesi, era disfatto per l'intenso dolore e piangeva come un fanciullo. - Ah, mio povero sahib! - esclamò vedendosi dinanzi Kubang; - vuoi morire anche tu, dunque? - Che cosa dici chitmudgar? - chiese il malese, spaventato dal pianto di quell'uomo. - Il tuo signore è stato arrestato. - Il capitano! - esclamò il malese facendo un salto. - Ed i tuoi compagni sono stati tutti giustiziati. - Kubang diede indietro come se avesse ricevuto una palla di fucile in mezzo al petto. - Povera Tigre della Malesia! - esclamò con voce strozzata, - povero capitano Yanez! - Poi rimettendosi prontamente e afferrando strettamente le braccia del chitmudgar, gli disse: - Narrami ciò che è avvenuto, tutto, tutto. - Quando fu informato del combattimento avvenuto nella notte, il malese si passò più volte una mano sugli occhi, strappando via qualche lagrima, poi chiese: - Credi tu che il rajah giustizierà anche il mio padrone? È necessario, prima che lasci questo palazzo, che io lo sappia. - Io non so nulla, tuttavia secondo il mio modesto parere, il rajah non oserà alzare la mano su un mylord inglese. Ha troppa paura del governatore del Bengala. - Dove hanno rinchiuso il mio padrone? - Se non m'inganno devono averlo condotto nel sotterraneo azzurro, che si trova sotto la terza cupola del cortile d'onore. - Un luogo inaccessibile? - Sicuro di certo. - Bene guardato? - So che giorno e notte vegliano dei seikki dinanzi alla porta di bronzo. - Vi sono dei carcerieri? - Sì, due. - Incorruttibili? - Eh, questo poi non lo posso sapere. - Sotto la terza cupola mi hai detto? - Sì, - rispose il chitmudgar. - Potresti farmi uscire senza che mi vedano? - Per la scala riservata ai servi, che mette dietro il palazzo. - Un'ultima domanda. - Parla, sahib. - Dove potrei rivederti? - Ho una casetta nel sobborgo di Kaddar, che è tutta dipinta in rosso, ciò che la fa spiccare fra tutte le altre, che sono invece bianchissime, e dove tengo una donna che mi è assai affezionata e che due volte alla settimana posso vedere. Là potrai trovarmi quest'oggi, dopo mezzogiorno. - Tu sei un brav'uomo, - disse il malese. - Ora fammi fuggire. - Seguimi: il sole è appena sorto ed i servi non si saranno ancora alzati. - Attraversarono un piccolo terrazzo che s'allungava sul di dietro dell'alloggio di Yanez, si cacciarono entro una scaletta aperta nello spessore delle muraglie, e così stretta da non permettere il passaggio che ad un solo uomo alla volta, e scesero nei giardini del rajah, che avevano una notevole estensione e che, stante l'ora mattutina, erano deserti. Il chitmudgar condusse il malese verso una porticina di metallo, adorna delle solite teste di elefante e l'aprì, dicendogli: - Qui non vi sono sentinelle. Ti aspetto nella mia casetta. Io mi sono affezionato al tuo padrone e tutto quello che potrò fare per liberarlo dalla sua prigionia, te lo giuro su Brahma, mio sahib, lo tenterò. - Tu sei il più bravo indiano che io abbia conosciuto fino a oggi, - rispose Kubang, commosso. - Il padrone, se un giorno sarà libero, non ti dimenticherà. - S'avvolse nel dootèe e s'allontanò frettolosamente, senza volgersi indietro, avviandosi verso la casa di Surama, colla speranza d'incontrare in quei dintorni qualcuno di sua conoscenza. Stava per giungervi scorgendo già le ultime colonne di fumo che s'alzavano sopra le rovine del palazzo, interamente divorato dal fuoco, quando un uomo che veniva in senso contrario con molta premura, gli sbarrò bruscamente il passo. Kubang, già troppo esasperato dalla catastrofe che aveva colpito il suo padrone, stava per sparare una pistolettata sull'insolente, quando un grido di gioia gli sfuggì: - Bindar! - Sì, sono io sahib, - rispose subito l'indiano. - Surama e la Tigre della Malesia sono ormai in viaggio per la jungla di Benar e venivo ad avvertire il tuo padrone. - Troppo tardi, amico - rispose Kubang con voce triste. - Egli è prigioniero ed i miei camerati sono stati massacrati. Pare che tutto sia stato scoperto e che quel cane di greco sia vincitore su tutti. Non perdere un momento, va' a raggiungere subito la Tigre della Malesia e avvertilo subito di quanto è avvenuto. - E tu? - Io rimango qui a sorvegliare il greco. Ho modo di sapere quello che può accadere alla corte. La mia presenza in Gauhati può essere più utile che altrove. - Hai bisogno di denaro? Ho riscosso or ora per conto del capo. - Dammi cento rupie. - E dove potrò io trovarti? - Nel sobborgo di Kaddar vi è una casetta tutta rossa, che appartiene al chitmudgar, che era stato messo a disposizione del capitano Yanez. Là andrò a stabilirmi. Ora parti senza indugio e va' ad avvertire la Tigre. Quell'uomo libererà di certo il capitano. - Bindar gli contò le cento rupie, poi partì a corsa sfrenata dirigendosi verso il fiume, dove contava di acquistare o di noleggiare qualche piccolo battello. Kubang proseguì il suo cammino per raggiungere il borgo, il quale trovandosi lontano dal palazzo reale, aveva meno probabilità, in quel luogo, di venire scoperto. Sua prima cura però fu quella di entrare da un rigattiere baniano e di cambiare il suo costume troppo vistoso, con uno mussulmano; poi dopo d'aver fatto colazione in un modestissimo bengalow di passaggio, riprese la marcia addentrandosi nelle tortuose viuzze della città bassa. Eccetto che nei grandi centri, o nei dintorni dei palazzi reali o delle più celebri pagode, le città indiane non hanno strade larghe. La pulizia è una parola poco conosciuta, sicché quelle viuzze, prive d'aria, sempre sfondate e polverose, essendo rare le piogge, somigliano a vere fogne. Una puzza nauseante si alza da quei labirinti, anche perché di quando in quando si trovano delle vaste fosse, dove vengono gettate le immondizie delle case, il letame delle stalle e le carogne d'animali morti. Guai se non vi fossero i marabù, quegli infaticabili divoratori, che da mane a sera frugano entro quei mondezzai, ingozzandosi fino quasi a scoppiare. Fu solamente verso le tre del pomeriggio che Kubang, che aveva parecchie volte sbagliata via, non conoscendo che imperfettamente la città, riuscì finalmente a scoprire la casetta rossa del chitmudgar. Era una minuscola costruzione a due piani, che sembrava più una torre quadrata che una vera casa, che si elevava in mezzo ad un giardinetto dove sorgevano sette od otto maestose palme, che spandevano all'intorno una deliziosa ombra. - È un vero nido, - mormorò Kubang. - Speriamo che il proprietario vi sia già. - Aprì il cancelletto di legno che non era stato fermato e s'inoltrò sotto le piante. Il maggiordomo stava seduto dinanzi alla sua casetta, insieme a una bella e giovane indiana dalla pelle vellutata, appena un po' abbronzata, con lunghi capelli neri adorni di mazzolini di fiori. - Ti aspettavo, sahib, - disse l'indù muovendo sollecitamente incontro al malese. - Sono due ore che sono giunto. Ecco la mia donna, una brava fanciulla, che sarà ben lieta di riceverti come ospite, se tu, come credo, avrai intenzione di fermarti qui. Almeno saresti sicuro, specialmente ora che hai cambiato pelle. - È una offerta che io accetto ben volentieri, avendo dato appuntamento qui agli amici del mio padrone. - Saranno sempre ben ricevuti da me e dalla mia donna. - Hai raccolte notizie sul capitano? - Ben poche. Posso solo dirti che è sempre rinchiuso nel sotterraneo della terza cupola, però ... - Continua. - Ho trovato il modo di poter far pervenire a lui tue notizie, se credi che possano essergli utili. - E come? - chiese il malese con ansietà. - Il rajah ha rinnovato i carcerieri che vi erano prima, e uno è un mio parente. - E si presterà al pericoloso giuoco? - È troppo furbo per lasciarsi sorprendere. Con un po' di rupie, sarà a nostra disposizione. - Dammi un pezzo di carta. - Più tardi: ora pranziamo. -

IL FIGLIO DEL CORSARO ROSSO

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

Buttafuoco sparò il primo colpo, abbattendo il capo-fila che era il piú grosso e che probabilmente doveva essere anche il piú feroce e pericoloso. Il conte ed i suoi compagni a loro volta fecero fuoco, gettandone giú altri, poi snudarono le spade, tenendosi in parte riparati dietro al tronco della palma. Non erano indiani da scappare dinanzi a quei feroci mastini che incutevano agli ingenui figli dell'America centrale, non abituati a vedersi assaliti da bestie cosí grosse, tanta paura Un luccicare d'acciaio, sette od otto colpi, menati con forza terribile, e le bestie rimasero a terra, sbudellate o decapitate. Gli spagnuoli, che avevano contato sull'assalto di quei mastini, vedendoli stramazzare l'uno dietro l'altro, ricominciarono a sparare, ma essendo costretti a far fuoco correndo, le loro palle non colpivano mai il segno, anche a causa dei canneti, dietro ai quali si riparavano i fuggiaschi. Buttafuoco ed i suoi compagni avevano subito ripresa la corsa, non avendo alcun desiderio d'impegnare una battaglia che non offriva nessuna possibilità di riuscire a loro favorevole, dato il numero degli assalitori. Sbarazzatisi dei cani, i soli che avrebbero potuto raggiungerli e dare loro molto da fare, si erano raccomandati alle proprie gambe, poiché ormai la loro salvezza non consisteva che nella robustezza e resistenza dei garretti. Buttafuoco, abituato alle fughe precipitose, correva con uno slancio invidiabile. Quel diavolo d'uomo, quantunque non piú giovane, filava come un vero daino inseguito da una muta furibonda. Chi si trovava male era sempre Mendoza, il quale non finiva mai di borbottare, assicurando di essere ormai finito, dopo tante scappate. Il guascone invece allargava sempre piú le sue gambe smisurate e pareva che se ne ridesse di quella corsa indiavolata. Buttafuoco pure, di quando in quando, faceva qualche breve sosta per sparare qualche archibugiata, ma piú per concedere ai suoi compagni un mezzo minuto di riposo che colla speranza di abbattere qualche nemico. Quella corsa furiosa durava da circa mezz'ora e gli spagnuoli erano rimasti tanto indietro da non scorgerli piú, quando Buttafuoco andò a urtare contro una palizzata. - Siamo salvi! - gridò. - Ecco la fattoria della marchesa di Montelimar!

I suoi venti pezzi della batteria e le due caronade del cassero tuonavano furiosamente, specialmente contro le caravelle, mentre i suoi fucilieri spazzavano a fucilate i ponti altissimi dei galeoni, abbattendo, con una precisione matematica, timonieri e ufficiali. Urla feroci s'alzavano su tutte le tolde, mescolandosi, confondendosi col fragore delle artiglierie e lo scrosciate degli archibugi. Anche la folla che si accalcava sulle calate, quantunque esposta al fuoco delle artiglierie, urlava ferocemente: - Morte ai filibustieri! Distruggeteli! Massacrateli! La Nuova Castiglia continuava intrepidamente la sua marcia, coprendo di palle e di bombe le navi nemiche e minacciando di abbordarle. Salda di costole, bene armata e condotta da uomini abituati a battersi quasi ogni giorno, non tentennava nelle sue mosse. Rispondeva ai galeoni e alle caravelle, quasi colpo per colpo, con una insistenza feroce, mentre le due caronade della coperta avventavano di tratto in tratto delle bordate di mitraglia. Giunta a cento passi dai galeoni, sfilò superbamente sulla loro fronte con tutti i suoi formidabili archibugieri a babordo; poi, con una mossa improvvisa, inaspettata, girò a destra della squadra dove c'era ancora abbastanza spazio per navigare lungo la costa. Una piccola caravella tentò di chiudere il passo, gettandosi dinanzi alla prora per lasciar tempo ai galeoni di muoversi. Era un topolino che tentava di arrestare un leone. La Nuova Castiglia la urtò poderosamente col suo solidissimo tagliamare e la sfasciò completamente passando in mezzo ai rottami; poi, dopo aver scaricati tutti i suoi pezzi d'un colpo solo, fuggí fuori dal porto. - Ebbene, che cosa ne dite, signor conte? - chiese Mendoza, il quale fumava furiosamente, con le mani affondate nelle tasche e le gambe allargate. - Che con simili uomini, si potrebbe conquistare il mondo - rispose il signor di Ventimiglia. Non so se un'altra nave se la sarebbe cavata cosí bene, mio caro. - Ecco che i galeoni si mettono in caccia, ma che cosa sperano di fare? Di raggiungere la nostra nave? Eh, cari miei, non conoscete ancora la Nuova Castiglia! - Mi pare che l'abbiano conosciuta or ora. - Il signor Verra li farà correre. - E allora corriamo anche noi e cerchiamo di lasciare San Domingo prima che spunti il sole. Gli spagnuoli rivolgeranno tutta la loro rabbia contro di noi e ci daranno una caccia spietata. - E se ci prendono, ci impiccheranno, signor conte, - rispose Mendoza. - Forse quelle due corde non sono ancora state intrecciate. Conosci anche tu la città! - Abbastanza per condurvi alla Puerta del Sol. - Ci lasceranno poi uscire, a quest'ora? - Oh, non lo sperate, capitano, - rispose il filibustiere; - E perché condurmi là dunque? - Perché il bastione vicino è in parte diroccato e potremo trovare il modo di scendere nel fossato e anche ... Si era interrotto, guardando il conte, e rimanendo con la bocca aperta. - E dunque? - chiese il corsaro. - Sono un vero stupido, capitano! - Perché? - Ma sí che noi possiamo passare per la Puerta del Sol senza esporci al pericolo di fiaccarci il collo in fondo al fossato. In verità io invecchio troppo presto. - Sei impazzito, Mendoza? - No, signor conte, ma stavo per diventare un cretino. Non siete vestito da alabardiere, voi? - Pare di sí! - Noi ci presenteremo alle guardie della porta e voi direte che avete ricevuto l'ordine di scortarmi e di farmi uscire. Potrete aggiungere, se non vi dispiace, che io sono una spia che va a sorvegliare i bucanieri. A un soldato si crede sempre. - E tu affermavi poco fa che stai per diventare un cretino? disse il conte ridendo. - A me pare invece che tu diventi ogni giorno piú furbo, vecchio squalo. In marcia! Non voglio trovarmi ancora a San Domingo al sorgere dell'alba. Gettarono le vesti e la spada di Martin in mezzo ad un folto cespuglio e volsero le spalle al porto, internandosi in una stradicciuola che serpeggiava fra siepi e splendidi filari di banani e di palme. Essendo tutta la popolazione accorsa sulle calate, non vi era anima viva nei dintorni, cosicché poterono attraversare indisturbati la città e giungere dinanzi alla Puerta del Sol, che era in quel tempo una delle principali di San Domingo e che metteva nell'aperta campagna. Due alabardieri, armati di lunghe picche, passeggiavano a breve distanza, fumando e chiacchierando. Scorgendo il conte e il suo marinaio, si fermarono per sbarrare loro il passo; poi uno dei due, accortosi di aver da fare con un soldato, chiese: - Oh, camerata, dove vai? - Ho l'ordine di scortare quest'uomo fuori della città - rispose franco il signor di Ventimiglia. - Chi è? - Un corriere governativo. - Senza cavallo? - Sa dove trovarlo. Sbrigatevi ad aprire la porta; abbiamo molta fretta. - E non ti hanno dato nessuna carta? - Non sono un soldato, io? - È vero, ma ci hanno dato anche il comando di impedire l'uscita a qualunque persona. - Era per i borghesi, quello. - Aspetta che chiamo l'anziano: io non voglio assumermi questa responsabilità. Entrò in una vicina caserma e uscí subito con un altro soldato, munito di una lanterna, il quale trascinava con gran fracasso un enorme spadone. - Guarda questi uomini, Barrejo - disse la sentinella. - Fulmini! - mormorò Mendoza. - Il guascone! Ora siamo fritti! Il conte trasalí e portò rapidamente una mano sulla pistola di Martin, pronto ad impegnare una lotta disperata. Il guascone si avvicinò a loro e non potè trattenere un gran gesto di stupore nel riconoscere la propria corazza e le proprie vesti che il conte indossava. - Ah, camerata! - esclamò sbarrando gli occhi. Poi, volgendosi verso le due sentinelle, disse loro: - Continuate la ronda voi, io conosco queste persone. Aspettò che si fossero allontanate, poi, dopo aver alzato una seconda volta la lanterna per guardare bene in viso il conte ed il suo compagno, chiese: - Che cosa fate ancora qui, nei miei panni, signore? Siete ben voi che mi avete dato quei venti dobloni! - Sí, messer Barrejo - rispose il signor di Ventimiglia. - E che cosa siete venuti a fare qui? - A offrirvi altri dieci dobloni, se non vi rincresce. - Per tutti i venti del mare di Biscaglia! Volete far di me un milionario? - No, voglio ingrassarvi, perché siete troppo magro. - Tutti i guasconi sono magrissimi, signor conte. Ma che muscoli d'acciaio abbiamo! - Chi sa che un giorno non li veda al lavoro! Orsú, volete guadagnare altri dieci dobloni? - Che cosa devo fare? - Una cosa semplicissima. Aprirci la porta e lasciarci andare in campagna. - E null'altro? - chiese il guascone con stupore. - Nient'altro. Vi avverto che abbiamo detto ai vostri camerati che siamo corrieri del governatore. - E non avete paura d'incontrare i bucanieri? Si dice che stiano organizzandosi per tentare un colpo di mano sulla città. - Non vi occupate di questo, messer Barrejo. Apriteci la porta e altre dieci monete d'oro andranno a ingrossare il vostro piccolo tesoro. - Vi apro anche tutte quelle della città - rispose don Barrejo. Venite, signor conte. I miei camerati non vi daranno alcun fastidio. Afferrò un'enorme chiave che stava appesa ad un chiodo e aprí la pesante porta laminata di ferro, conducendoli attraverso un massiccio bastione forato nel mezzo da uno stretto passaggio. - Eccovi in campagna - disse dopo aver aperta un'altra porta. Mi permettete di scortarvi per qualche tratto? - Vi ho detto che noi non abbiamo paura - disse il conte. - Non ne dubito, signore, ma che volete, mi piace immensamente la vostra compagnia. - Non sarà per sorvegliarci, spero - disse Mendoza. - Oh! un guascone! ... Noi non siamo abituati a mentire. - Allora venite - disse il conte. - Potreste darci qualche preziosa informazione. - Sono tutto a vostra disposizione, signor conte - rispose il guascone. - Potreste, per esempio, dirci dove potremo trovare dei cavalli. - Vi è un corral a mezzo miglio di qui, annesso ad una grande fattoria. Se avete ancora di quei bei dobloni, potrete acquistarne finché vorrete. - Le nostre borse sono ancora assai fornite, malgrado il salasso fatto alla mia. - Vi guiderò io. - Ed i vostri camerati che non vi vedranno tornare non si allarmeranno? - Vadano al diavolo! - disse Barrejo alzando le spalle. - Non sono padrone di fare una passeggiata notturna e di scortare delle persone raccomandate da Sua Eccellenza il Governatore? - Oh, è vero! - disse il conte ridendo. - Noi siamo personaggi importantissimi. - Che viaggiano però senza carte - aggiunse maliziosamente il guascone. - Le teniamo sempre sulla punta delle nostre spade. Il soldato capí a che cosa voleva alludere il conte e, quantunque guascone, credette opportuno di troncare il discorso. Si erano inoltrati per una viuzza fiancheggiata da bellissime agavi, piante tessili che danno dei fili elastici e fini e dalle cui foglie gli indiani estraggono una bibita fermentata detta pulque, molto spumante e anche molto gradevole. Di là da quelle enormi siepi, si estendevano immense piantagioni di canne da zucchero e di caffè, le maggiori risorse di quella fertilissima isola. Per la tenebrosa campagna volavano sciami di Moscas de luz, insetti che tramandano una luce ben piú potente delle nostre lucciole, e nei solchi delle piantagioni e attorno agli stagni muggivano i grossi rospi gialli e neri con appendici cornute e fischiavano migliaia e migliaia di batraci. I tre uomini camminarono in silenzio per un buon quarto d'ora, rischiarando la via con la lanterna; poi, giunti ad una biforcazione, il guascone si fermò. - Ci lasciate? - chiese il conte. - Questo dipende da voi, signore - rispose il soldato. - Che cosa volete dire? - Signor conte, io sono un uomo d'onore e sono un cadetto d'una famiglia nobile della Guascogna. Già. Voi saprete che, piú o meno, noi siamo tutti nobili nel mio paese, ma anche poveri, poveri, perché i nostri padri non ci lasciano per eredità che una buona spada e delle lunghe lezioni di scherma. - Che cosa volete concludere, signor Barrejo? - Che vorrei sapere chi siete e perché siete fuggito da San Domingo, mentre era stato dato l'ordine d'impedire l'uscita a tutti gli abitanti. Il conte rimase un momento muto, guardando il soldato, poi disse: - Scommetterei che voi già lo sapete. - Forse. - Sono il capitano della fregata che entrò nella rada ieri mattina che due ore fa è stata cannoneggiata dagli spagnuoli. - Dei filibustieri, non è vero? - Siete molto perspicace, signor Barrejo. Ora andrete ad avvertire certamente il governatore. - Io? - esclamò il guascone. - Io tradirvi? Mai! Siamo uomini d'onore, noi. - Allora avrò soddisfatta la vostra curiosità. - Signor conte, se vi facessi una proposta? - Dite pure. - Noi guasconi siamo gente di guerra e non amiamo lasciar arrugginire inutilmente le nostre spade. La mia dorme da due anni in San Domingo e minaccia di non saper piú uscire dal fodero. Volete arruolarmi? Coi filibustieri vi è sempre occasione di menar le mani. - E anche di morire piú facilmente! - aggiunse Mendoza. - Ho trentadue anni e ne ho già abbastanza della vita - disse il guascone. - Mi volete, signor conte? Vi giuro che sarò una buona lama. - E poi lo liberereste da molti fastidi - aggiunse il marinaio, a cui non dispiaceva affatto quel fracassone. - Sia! - disse il signor di Ventimiglia. - Un bravo soldato di piú sulla mia nave non sarà d'impiccio. - Voi non siete spagnuolo, quindi potete passare al nemico - disse Mendoza. - Sono un soldato di ventura e null'altro, e come tale posso offrire la mia spada ed il mio braccio a chi meglio mi piace. - Conoscete S. Josè? - Conosco mezzo San Domingo. - Sapreste condurci nella tenuta della marchesa di Montelimar? - Anche con gli occhi bendati. - Andiamo a procurarci dei cavalli, prima di tutto. Io non dubito che gli spagnuoli ci diano la caccia. - Potete esserne certo, signor conte - rispose il guascone. - Ci lanceranno anche addosso qualche banda dei loro terribili cani. - In cammino allora, Barrejo - disse il conte. - Non ho alcun desiderio di farmi mordere i polpacci da quelle bestiacce. - Dovremo prendere la via dei boschi, signor conte. Le vie sono battute dalle ronde e potrebbero arrestarci. - Ve ne sono molte fuori della città? - Eh, un bel numero. - Andiamo a visitare i boschi. Il guascone gettò via la lanterna, la cui luce poteva tradirli e attirare qualche ronda in perlustrazione o alla caccia di bucanieri. Quelle bande di soldati, formate da cinquanta uomini ciascuna, erano incaricate di impedire ai bucanieri, alleati dei filibustieri, di dare la caccia ai numerosi tori selvatici che in quell'epoca scorrazzavano liberamente per le foreste dell'isola. Non osando gli spagnuoli affrontare quei terribili cacciatori, i quali non sbagliavano mai un colpo, avevano deciso di affamarli e perciò avevano istituite quelle compagnie volanti. Dapprima le avevano munite d'armi da fuoco, ma siccome non volevano imbattersi nei bucanieri, né impegnare mischie con loro, quando s'accorgevano della loro presenza preferivano fare delle scariche di moschetteria in aria. I cacciatori, avvertiti del pericolo, se ne andavano tranquillamente da un'altra parte. I governatori delle varie città, accortisi della gherminella, avevano tolto alle ronde le armi da fuoco, armandole solamente di alabarde, ma senza ottenere, come si può capire facilmente, alcun risultato pratico. Se prima erano i bucanieri che scappavano, ora erano gli alabardieri che se la davano a gambe appena udivano uno sparo; sicché i combattimenti erano rari come le mosche bianche, ché nessuno aveva il desiderio di giocare la pelle inutilmente. E quelle erano le famose ronde dette cinquantine, colle quali i governatori speravano di distruggere tutti i bucanieri, - ed erano molti - che infestavano le immense foreste dell'isola, sempre pronti a prestare man forte ai filibustieri della Tortue, quando si trattava di tentare qualche buon colpo Il guascone fece attraversare ai suoi due compagni una vasta piantagione di canne da zucchero, poi si gettò risolutamente in mezzo alle boscaglie, formate per lo piú da enormi piante di cotone selvatico, con i cui tronchi cavi gli indiani e i negri formavano canoe capaci di contenere perfino cento uomini. - Il corral lo troveremo di là da questa boscaglia - aveva detto il soldato al conte. - Risparmieremo tempo e non correremo il pericolo di imbatterci in qualche cinquantina. Cercate solo di non far rumore, poiché fra queste macchie i tori non mancano, e vi so dire io se sono pericolosi quando s'infuriano o vengono disturbati! La marcia non tardò a diventare difficilissima, con molto dispiacere di Mendoza, abituato a passeggiare solamente sulle tolde delle navi e ad arrampicarsi sulle alberature. A quei tempi San Domingo, al pari della vicina Cuba e della Giamaica, aveva delle foreste, antiche quanto il mondo, le quali accumulando foglie su foglie e imputridendo rami e tronchi, dovevano preparare quel meraviglioso ordimento vegetale, che piú tardi doveva cosí ben servire agli intraprendenti piantatori. I cotoni selvatici s'alzavano dovunque, mescolati, anzi confusi, con palme gigantesche, reggendo non si sa in quale modo i loro giganteschi fusti, non avendo per sostegno che una crosta di terra non più alta di due piedi affatto insufficiente alle smisurate radici. Erano soprattutto i foltissimi cespugli, vere macchie per le imboscate, che facevano brontolare Mendoza, anche perché si mostravano formidabilmente armati di acutissime spine. Il guascone, che aveva fatto parte piú volte delle cinquantine, per buona fortuna non esitava mai a scegliere la via, quantunque sotto quelle immense arcate di verzura regnasse un'oscurità quasi completa. - Ho la bussola nella testa - ripeteva sfondando a colpi di spadone i cespugli per aprire il passo al conte. E pareva infatti che quel diavolo d'uomo, che camminava con piena sicurezza senza mai fermarsi, avesse la facoltà d'orientarsi come i piccioni viaggiatori. Chi invece era incerto e non poco era Mendoza, il quale, quantunque uomo di mare, non ignorava come fosse facile smarrirsi in mezzo alle boscaglie. Quella marcia faticosissima durò tre ore, poi il piccolo drappello si trovò dinanzi ad una vasta pianura interrotta da un gran numero di stagni. Un fracasso indiavolato s'alzava fra le alte erbe e i canneti che la coprivano. Muggivano milioni di rospi, fischiavano le rane americane e di quando in quando, a tutto quel baccano, si univano delle urla rauche, somiglianti al fragore dei tamburi, dei cannoni. Il guascone si era arrestato, bestemmiando in francese o in spagnuolo. - Ehi, camerata, avresti per caso perduta la bussola che tu affermavi d'avere dentro il cervello? - chiese Mendoza. Il guascone stette un momento zitto, poi picchiandosi furiosamente la corazza che gli rinserrava il petto, rispose: - Pare proprio che si sia guastata. - Chi? - La mia bussola. - Ecco una faccenda seria per la gente di mare. - E anche qualche volta per la gente di terra, - rispose l'avventuriero, il quale appariva sconcertato. - Come mai mi sono smarrito? Eppure queste boscaglie le ho scorse piú volte. - Spero, don Barrejo, che non avrete l'intenzione di farci divorare dai caimani, - disse il signor di Ventimiglia. - Ci tengo alle mie gambe non meno di voi, - rispose il guascone. - Volete un consiglio, signor conte? Aspettiamo l'alba. - Ed intanto schiacciamo un sonnellino - aggiunse Mendoza. L'erba è folta e fresca e dormiremo meglio che su una branda della Nuova Castiglia. - E i caimani intanto cenerebbero con i vostri piedi - disse il guascone. - Non chiudete gli occhi, signore, ve ne prego. Io so come sono pericolose queste paludi! - Avete un sigaro, don Barrejo? - chiese il conte. - Sono ben provvisto, signor conte, ed è tabacco di Cuba, il migliore che si coltivi in tutto il golfo del Messico. - Datemene uno, e aspettiamo che il sole spunti. Spero che non ci farete perdere in mezzo alle boscaglie di San Domingo. - Zitto, signore! - Che cosa c'è ancora? Se è qualche caimano, lo taglieremo in due a colpi di spada. Anzi, non ho ancora visto lavorare la vostra draghinassa. - Altro che caimano! È una cinquantina che s'avvicina. Zitti! Tutti si misero in ascolto, dopo essersi gettati dietro l'enorme tronco d'un albero di cotone selvatico. Pareva che un grosso drappello uscisse dal bosco. Si udivano i passi pesanti e cadenzati di uomini abituati a marciare in colonna. - Adesso ci prendono! - borbottò Mendoza. - Che splendida passeggiata notturna! Era molto meglio restarcene a San Domingo. - Zitto, eterno brontolone! - sussurrò il conte. - Sai che le cinquantine non desiderano altro che di andarsene pei fatti loro. Non ti muovere, e vedrai che nessuno verrà a cercarti dietro a questa pianta. - Ben detto, signor conte, - disse il guascone. - D'altronde basterebbe sparare un colpo di pistola per far scappare quei poveri diavoli. Da quando i governatori hanno avuto la pessima idea di privarli delle armi da fuoco, non si sentono piú in grado né di darci, né di fare battaglia. - Purché non abbiano con loro dei cani, - disse Mendoza. - Ecco quello che temo, - rispose il guascone. - Voi avete però quattro pistole. Datene una a me e vedrete che scapperanno come lepri, benché non manchino di coraggio, questo ve lo assicuro io. Lo spagnuolo è sempre stato un buon soldato e nemmeno io, se avessi in mano una spada contro un buon bucaniere armato d'archibugio volterei le spalle, eppure sono un guascone. - Ricco di guasconate! - disse Mendoza, un po' ironicamente. - Mi vedrete all'opera, camerata, - rispose il soldato, un po' piccato. - Silenzio, s'avanzano. Un grosso drappello era sbucato di fra le canne e le erbe e avanzava lungo la fronte della foresta. Si trattava veramente d'una di quelle famose cinquantine, armate esclusivamente d'alabarda e di spade, senza nessuna bocca da fuoco. Era composta tutta di alabardieri con elmetto e corazza, difese affatto insufficienti contro le grosse palle dei bucanieri. Era preceduta da un doz di Cuba. Questi cani ferocissimi sono molto grossi, molto robusti e d'un coraggio a tutta prova, e gli spagnuoli li usavano specialmente contro gli indiani, i quali avevano una paura terribile di quelle bestiacce. A quei doz cubani si deve piú che altro la conquista delle numerose colonie del golfo del Messico. Si può anzi dire che la Colombia fu conquistata piú da loro che dagli avventurieri. Il cane, giunto in vicinanza del grosso albero del cotone, si era fermato, aspirando fragorosamente l'aria, e la cinquantina, che era guidata da un ufficiale, si era subito disposta su quattro linee abbassando le alabarde. - Camerata, - sussurrò Barrejo, rivolgendosi a Mendoza - voi occupatevi di quel cagnaccio e badate di non sbagliare il colpo o vi salterà alla gola. - È un affare che sbrigherò io, - rispose il filibustiere. - Alla cinquantina penseremo io e il signor conte. Tutti e tre avevano armato le pistole e si tenevano l'uno presso l'altro, pronti a sguainare le spade. Il doz cubano fiutava sempre, volgendo la testa massiccia verso l'enorme albero e ringhiando sordamente. Doveva aver sentito che là si nascondeva il nemico. Un grido s'alzò fra gli uomini d'avanguardia della cinquantina - Ay, perrito! Il cagnaccio, udendo quel comando, si slanciò furiosamente, sperando di azzannare i misteriosi avversari che non osavano mostrarsi. Mendoza, che lo teneva d'occhio, fu pronto a sparare e gli fracassò il cranio, mentre il conte ed il guascone facevano fuoco contro la cinquantina, tirando a casaccio. Allora gli spagnuoli, credendo d'aver dinanzi qualche grosso drappello di quei terribili bucanieri che non sbagliavano mai la mira, in un lampo si dileguarono, gettandosi in mezzo ai canneti delle paludi. - Ecco la cinquantina sgominata! - disse il guascone ridendo. Lavoriamo tuttavia di gambe, perché domani mattina tornerà qui e se si accorgerà, dalle nostre tracce, d'aver avuto da fare con soli tre uomini, ci darà una caccia terribile. Corriamo, signor conte! - E queste sono le splendide passeggiate che si fanno a San Domingo - disse Mendoza. - Preferisco quelle che si fanno sulla tolda della Nuova Castiglia. Si erano messi a correre, come se avessero altri molossi alle calcagna. Il guascone, che aveva le gambe piú lunghe di tutti, marciava con una rapidità incredibile lungo la fronte della boscaglia, dietro però la prima linea degli alberi, per paura che la cinquantina, rimessasi dalla sorpresa, si fosse nuovamente ordinata e formata per la caccia. - Questo briccone ha giurato di farmi morire completamente sfiatato! - brontolava Mendoza, il quale sbuffava come un bufalo. - Quanto durerà questa storia? Pareva proprio che il guascone possedesse una resistenza incredibile e muscoli di acciaio, poiché non rallentava nemmeno un momento la sua corsa. Il figlio del Corsaro Rosso si mostrava non meno resistente, anzi, aveva maggiore slancio, come se fosse già abituato alle lunghe corse. Quella galoppata furiosa durò un'ora, poi il guascone si fermò. - Può bastare - disse. - La cinquantina ha avuto piú paura di noi e non ha osato darci la caccia. Prima che ne incontri altre o che si rifornisca di cane, passerà del tempo e noi potremo raggiungere la villa della marchesa, senza essere piú disturbati. - Se non sapete nemmeno dove si trovi! - disse Mendoza, il quale aspirava, come un mantice da fucina, la fresca brezza notturna. - Camminando sempre, si va anche a Parigi - rispose Barrejo. - Nel mio paese si dice che tutte le vie conducono a Roma - aggiunse il conte. - Ma non alla villa di Montelimar - ribattè Mendoza il quale sembrava di pessimo umore. - Voi, camerata, brontolate sempre contro il vostro capitano - disse il guascone. - Anche questo è un brutto vizio. - Mi correggerò col tempo. - Siete ormai troppo vecchio per farlo. - I filibustieri sono sempre giovani. Lo sanno gli spagnuoli. - Oh, non lo nego, amico! Avete sempre il fuoco nel petto. - E non le vostre gambe. - Orsú, che cosa facciamo ora, don Barrejo? - chiese il conte. - Io per conto mio, farei colazione - disse Mendoza. - Questa corsa mi ha messo un appetito da pescecane. - Contentati di accendere la tua pipa, per ora - rispose il conte. - Se non basta, stringi bene la cintura. - Ottimo consiglio! - sentenziò gravemente il guascone. - Che non farà bene a nessuno - brontolò Mendoza - Mettetelo in pratica voi. - Ne avete qualche altro da suggerirci don Barrejo? - chiese il conte. - Sí, quello di sdraiarci in mezzo a queste fresche erbe e di tirare il fiato fino all'alba. - E i caimani? - chiese Mendoza. - prima avevate una gran paura di quelle bestiacce. - Sono lontani da qui, e poi non chiuderemo gli occhi - Visto e considerato che non vi è di meglio da fare, lo metto in esecuzione - disse il conte, lasciandosi cadere fra le erbe e allungandosi con visibile soddisfazione. - Sono due giorni che io e questo eterno brontolone non ci riposiamo: è vero, Mendoza? - Saranno forse di piú - rispose il filibustiere imitandolo. Il guascone guardò attentamente in tutte le direzioni, si chinò, accostò un orecchio a terra, ascoltò attentamente e poi, a sua volta, si allungò fra le fresche erbe, dicendo: - Nulla: possiamo riposarci. Non era però troppo facile socchiudere gli occhi. I grossi rospi muggivano sempre, con un crescendo spaventoso; i caimani facevano del loro meglio per imitarli ed i batraci gareggiavano fra di loro per fischiare con maggior furore, come se si fossero messi d'accordo per impedire a Mendoza di schiacciare un sonnellino, fosse pure d'un quarto d'ora. Era però molto tardi, e l'alba non doveva tardar molto a spuntare. Nel Golfo del Messico il sole tramonta presto e si alza anche molto presto. Alle tre e mezzo, durante l'estate, il cielo si tinge dei primi riflessi dell'aurora e le stelle scompaiono. I tre filibustieri - poiché ormai anche il guascone si poteva considerare come tale - si riposavano da un paio d'ore, tendendo continuamente gli orecchi, per paura che i cani delle cinquantine, li sorprendessero, quando le tenebre cominciarono a diradarsi. - In marcia, signor conte - disse il guascone, alzandosi rapidamente. - Cercherò di orientarmi. - È stata accomodata la bussola piantata in mezzo al vostro cervello? - chiese Mendoza beffardamente. - S'incaricherà il sole di rettificarla - rispose l'avventuriero. - Speriamo che sia un abile meccanico. - Vedrete, camerata. Stavano per mettersi in cammino, quando udirono a breve distanza uno sparo. - La cinquantina! - gridò Mendoza facendo un salto. - Sí, che spara con le sue alabarde! - osservò il guascone sorridendo. - Io scommetto invece che è la colazione che giunge. Signor conte, siete conosciuto fra i bucanieri? - Se non io, erano troppo noti i tre corsari: il Rosso, il Nero e il Verde. - Questa archibugiata deve averla sparata un bucaniere. - Andiamo a trovarlo - rispose il signor di Ventimiglia. Attraversarono di corsa una folta macchia e, giunti sul margine, scorsero, in mezzo ad una radura erbosa, un uomo piuttosto attempato, vestito malamente. Aveva un grembiale di pelle ed un largo cappello di feltro in testa e stava ritto accanto ad un gigantesco bue selvaggio il quale stava spirando. Vedendo quegli stranieri, il cacciatore fece alcuni passi indietro, e gridò con voce minacciosa: - Chi siete? Rispondete, o vi uccido prima che possiate giungere fino a me! - Siamo filibustieri, camuffati da spagnuoli - rispose il conte in francese purissimo, perché l'intimazione era stata fatta in quella lingua. - Io sono il figlio del Corsaro Rosso e nipote del Verde e del Nero. - Del Corsaro Nero! - gridò il bucaniere, lasciando cadere l'archibugio e facendosi innanzi. - Di quello che con Grammont, Laurent e Wan Horn ha espugnato Vera-Cruz? Io ho combattuto con lui! Tonnerre de Brest! Signore, sono ai vostri ordini! Comandate!

Il conte e i suoi due compagni si erano intanto posti al riparo dietro il tronco d'un albero caduto per decrepitezza o abbattuto da qualche fulmine, ed avevano ricominciato a sparare, abbattendo i due ufficiali che guidavano le cinquantine. Gli alabardieri, spaventati dalla precisione terribile di quei tiri, si gettarono nuovamente fra le erbe, non sapendo in quale modo dare l'attacco. In quel momento non ringraziavano di certo i governatori che li avevano privati delle armi da fuoco. Mentre il conte e i suoi compagni mantenevano un fuoco abbastanza vivo, Buttafuoco continuava a perlustrare la palude che pareva di una estensione immensa. La sua paura era d'incontrare quelle terribili sabbie mobili che quando afferrano una preda, sia uomo o animale, non la restituiscono piú. Aveva spezzato una canna e si avanzava nell'acqua tastando il fondo. Ad un tratto il conte lo vide ritornare correndo, col volto giulivo. - Dunque? - chiese il signor di Ventimiglia, sparando un'altra archibugiata là dove vedeva scintillare gli elmetti degli alabardieri. - Ho trovato il passaggio - rispose il bucaniere. - Non sarà forse largo, tuttavia per noi basterà. - E i caimani? - Non preoccupatevi di quelle stupide bestiacce. Non ci daranno molti fastidi. Caricate gli archibugi e seguitemi tutti! Attenti sempre ai cani! Il conte ed i suoi compagni ricaricarono frettolosamente le loro armi, poi si slanciarono dietro al bucaniere, il quale correva lungo la piccola lingua di terra che aveva scoperta. I due cani, vedendoli scappare, avevano ripreso animo, mentre anche gli spagnuoli, comprendendo che i loro nemici stavano per sfuggire al tanto sospirato accerchiamento, si erano alzati agitando furiosamente le alabarde. In meno di mezzo minuto i fuggiaschi raggiunsero l'estremità della lingua di terra. - Fuori le spade e risparmiate la polvere! - gridò Buttafuoco. I due cani stavano per raggiungerli, aizzati dalle grida dei loro padroni. Il conte, che conservava un ammirevole sangue freddo, cacciò la sua spada fra le fauci spalancate del primo doz, immergendola fino a mezzo corpo, mentre Mendoza ed il guascone attaccavano coraggiosamente il secondo. Due guaiti avvertirono Buttafuoco che anche i due pericolosi avversari avevano avuto il loro conto. - In acqua, signori, - disse - e badate di seguirmi attentamente, perché ai vostri fianchi si trovano le sabbie mobili e chi vi cade dentro non ne esce piú. Se gli spagnuoli ci seguono, sparate uno per volta qualche colpo di archibugio. Ai caimani ci penso io. Erano entrati tutti nell'acqua fangosa della savana, immergendosi fino alla cintola, senza preoccuparsi gran che degli spagnuoli, i quali si erano slanciati animosamente sulla lingua di terra, con la speranza di poterli acciuffare o di vederli scomparire fra le sabbie traditrici. Buttafuoco tastava sempre il fondo con la sua canna e cercava di affrettare il passo, quantunque incespicasse ogni momento, essendovi sott'acqua delle erbe non meno perfide delle sabbie. Avevano cosí percorso circa cinquecento passi, quando videro alzarsi a breve distanza un isolotto coperto da una folta vegetazione e che pareva avesse un'estensione considerevole. - Ecco uno splendido rifugio! - disse Buttafuoco. - Se il fondo continua a mantenersi buono, sotto quelle piante potremo sfidare non due, ma anche dieci cinquantine. Mi pare già che gli spagnuoli non abbiano, almeno per il momento, alcuna intenzione di cacciarsi in acqua. Diavolo! Le sabbie mobili fanno troppa paura a tutti! Tastando sempre il terreno ed avanzando con grande precauzione, il bucaniere raggiunse l'isolotto e salí sulla riva, aggrappandosi a certe erbacce dure e coriacee, chiamate olgochloa e che sono cosí cattive che perfino le capre le rifiutano. Una massa di passiflore rampicanti si parò dinanzi al bucaniere. Sono piante che crescono molto rapidamente formando dei bellissimi festoni e che producono dei fiori purpurei con pistilli e stami bianchi con martello, chiodi, il ferro della lancia e tutti gl'istrumenti della Passione, che poi si tramutano in frutta gialle, ovoidali, grosse come poponcelli, assai apprezzate dagli abitanti, specialmente se cucinate con vino e molto zucchero. - Questo deve essere un piccolo paradiso! - mormorò Buttafuoco. - Probabilmente gli spagnuoli ci assedieranno ora, ma io credo che non riusciranno ad affamarci, come forse sperano. Conosco la ricchezza di questi isolotti. - Siamo giunti finalmente a casa? - chiese Mendoza. - Parrebbe - rispose Buttafuoco. - Che i nostri creditori vengano a romperci le tasche anche qui? - Mi sembra che abbiano rinunciato, per oggi o meglio per questa notte, ad importunarci. - Sono gente educata, - disse il guascone. - Se avessero però potuto mettervi le mani addosso, non so, mio caro signor soldato, se avreste ancora tanto spirito, - rispose il bucaniere, ridendo. - E lo dite a me? Oh li conosco io, quei signorini. Diavolo! Ci tengono poco a scherzare coi bucanieri. - E nemmeno i bucanieri con loro, - ribatté Buttafuoco. Noi siamo ancora in quattro e dubito molto che essi siano ancora in cento. Signor conte, volete dormire qualche ora? Pel momento nessun pericolo ci minaccia. - La gente di mare è abituata alle lunghe veglie e non sento affatto il desiderio di riposarmi, - rispose il signor di Ventimiglia. - Io preferirei una buona cena, - disse Mendoza. - La lingua di bufalo e anche l'arrosto di maiale non so piú dove si trovino. Probabilmente si sono affondati nei miei talloni, dopo tante corse furiose. - Io credo di averli sulle punte dei piedi, - disse il guascone con comica gravità. - Io non ho meno fame di voi, - disse il bucaniere. - Però sarete costretti, al pari di me, ad aspettare l'alba. Non posso già prendere degli uccelli di notte e qui noi non troveremo altro che uccelli. - E sarà già molto, - disse il conte, sorridendo. - Le paludi di San Domingo sono di solito molto frequentate dai pennuti, signore, ed una buona colazione non ci mancherà, purché gli spagnuoli ci lascino tranquilli. - Credete che tentino un nuovo attacco? - Ora che non hanno piú i cani, i quali costituiscono la vera forza delle cinquantine, non oseranno forse assalirci. È probabile però che mandino degli uomini a cercare dei rinforzi per assediarci. Di ciò però mi preoccupo ben poco. - E se circondassero la savana? - chiese il signor di Ventimiglia. - Eh! Ci vorrebbero almeno cento cinquantine ed il governatore di San Domingo non ne troverà mai tante. Se io ho un passaggio, non dispero di trovarne un altro e, prima che i rinforzi giungano, noi saremo a S. José, nella fattoria della marchesa. Là non correremo alcun pericolo, essendo io molto conosciuto dall'intendente. - Quest'uomo è veramente meraviglioso, - disse Mendoza. - Decisamente i filibustieri hanno una fortuna straordinaria. È bensí vero che gli spagnuoli ci credono figli o nipoti o pronipoti di compare Belzebú! È già qualche cosa anche questo. Il bucaniere ed il conte si erano coricati sotto una passiflora, sorvegliando attentamente le mosse degli spagnuoli, mosse assolutamente inoffensive, poiché non avevano osato abbandonare la penisoletta che s'avanzava nella savana. Sorvegliavano anche le acque, soprattutto quelle ingombre di erbe, per paura che qualche caimano tentasse di giungere di soppiatto fino all'isolotto per fare qualche buon colpo. Quelle brutte bestiacce non dovevano mancare in quella palude, però non si mostrarono. Probabilmente non si erano ancora accorte della presenza di quel gruppo d'uomini. Quando le tenebre cominciarono ad alzarsi, il bucaniere ed il conte, dopo essersi assicurati che gli spagnuoli erano sempre fermi sulla penisoletta, fecero una rapida escursione attraverso all'isolotto, onde cercare un passaggio che permettesse loro di sfuggire alla sorveglianza dei loro avversarii. Quel pezzo di terra era ingombro di ponted eire, bellissimi cespi di foglie d'un verde lucente e di fiori azzurri e di aristolochie dalle foglie ovali, i fiori lividi in forma di sifoni, col tronco grosso come una botte e radici gigantesche le quali s'alzavano fuori dalla terra come serpenti smisurati. Non mancavano però le piante d'alto fusto. Qua e là s'ergevano, a gruppi, delle quercie, delle magnolie acuminate cariche di certe frutta somiglianti ai cetriuoli, d'un bel rosso lucente, e che si adoperano con successo per guarire le febbri intermittenti, e anche dei noci neri, di dimensioni gigantesche e molto frondosi. Numerosi volatili fuggivano dinanzi al corsaro ed al bucaniere. Erano corvi di mare, piú grossi dei galli, ferocissimi perché osano assalire perfino le persone ferite impotenti a difendersi; fenicotteri, tantali verdi, ibis bianche e botauri, bellissimi volatili alti quasi due piedi, colle penne brune rigate, il ventre grigiastro, il becco acutissimo e gli occhi gialli e molto delicati. - Occupiamoci prima del passaggio, - disse il bucaniere al conte, il quale si preparava a sparare qualche colpo onde procurarsi una buona colazione. - Avremo tempo per massacrare questi volatili, i quali non mi sembrano molto spaventati per la nostra presenza. - Sperate di trovarlo? - Eh! ... Le savane di quest'ísola sono molto difficili ad attraversarsi in causa delle sabbie mobili che costituiscono il fondo. Ma io non dispero di trovare qualche costa che ci permetterà di farla agli spagnuoli. Voi siete sicuro che la vostra nave vi aspetta sempre al capo Tiburon? - Non scioglierà le vele senza mio ordine, - rispose il conte. - Allora possiamo andare alla fattoria della marchesa. Senza il suo appoggio sarà un po' difficile che voi possiate lasciare San Domingo. A quest'ora tutte le cinquantine saranno in movimento per catturarvi. I tre famosi corsari non sono stati dimenticati e gli spagnuoli devono essere molto spaventati nell'apprendere che ve n'era un quarto che batte ancora le acque del gran golfo e che non si sa che cosa voglia fare. - Forse è questo che farà venir loro la febbre, - disse il conte. - Che cosa io sia venuto a fare qui tutti lo ignorano. Certamente io non ho varcato l'Atlantico per continuare le gesta di mio padre e dei miei zii. Il bucaniere si era voltato vivamente, guardando fisso il figlio del Corsaro Rosso. - Delle vendette? - chiese. - Quelle verranno piú tardi, - rispose il signor di Ventimiglia, con voce grave. - Ho prima altro da fare. Si era fermato, guardando a sua volta fisso fisso il bucaniere. - Siete stato nel Darien, voi? - gli disse ad un tratto. - Sí; con Wan Horn, - rispose Buttafuoco. - Conoscete dunque quel paese? - Abbastanza bene: si trattava allora di attraversarlo con l'aiuto di un grande cacico, nemico terribile degli spagnuoli, per andare ad assalire Granata. - Come si chiamava quel grande cacico? - Hara. - Aveva delle figlie, non è vero? - Sí, signor conte. - Date spose a dei famosi filibustieri? - Questo lo ignoro - rispose Buttafuoco. - È lui. - Chi? Il conte, invece di rispondere, si mise a guardare la savana che si estendeva dinanzi a lui a perdita d'occhio, interrotta qua e là da isolotti e da altifondi coperti da una vegetazione superba. - Saremo costretti ad attraversarla? - chiese dopo un lungo silenzio. - Sí, signor conte - rispose Buttafuoco. - Non possiamo tornare indietro: perderemmo la vita, poiché sono certo che gli spagnuoli hanno mandato dei corrieri per aver degli aiuti e le cinquantine che giungeranno non saranno solamente armate di alabarde. - Quando partiremo? - Questa sera stessa, perché i nostri nemici non s'accorgano della direzione che prenderemo. - È lontana la fattoria della marchesa? - È piú vicina di quello che supponete - rispose Buttafuoco. Con una rapida marcia vi potremo giungere in cinque o sei ore. - Cerchiamo la colazione, allora. - Un momento, signor conte; è la costa che mi occorre trovare. Se non riesco a scoprirla, non potremo allontanarci dall'isolotto. Spezzò una canna, armò l'archibugio per essere piú pronto a far fuoco sui caimani e avanzò nell'acqua tastando il fondo. Aveva percorso una quindicina di passi, quando il conte lo vide ritornare. - Abbiamo una fortuna meravigliosa, - disse - il fondo è ottimo e non vi sono sabbie. Signori spagnuoli, ci aspetterete un bel po' e quando vi metterete in marcia non troverete che dei caimani ... Signor conte, guadagniamoci ora la colazione. Non sarà una faccenda lunga. Getteremo giú una mezza dozzina di scoiattoli e ci procureremo un arrosto squisito. Rifecero il cammino percorso, costeggiando specialmente i noci neri, ed aprirono quasi subito il fuoco. Fra gli enormi rami delle grosse piante saltavano disperatamente o meglio volavano dei graziosi animaletti, un po' piú grossi dei topi, col pelame grigio perla sopra e bianco argenteo sotto, con gli orecchi piccoli e neri, il muso roseo ed una splendida coda che pareva una magnifica piuma di struzzo. Erano degli scoiattoli volanti i quali, spaventati dalla presenza di quei due sconosciuti, cercavano di mettersi in salvo, come se avessero già indovinate le malevole intenzioni del bucaniere. Quantunque rassomiglino un po' a quelli che si trovano nelle foreste d'Europa, ne differiscono per una membrana pelosa che unisce le gambe posteriori a quelle anteriori, permettendo loro di spiccare delle vere volate che si prolungano talvolta perfino di cinquanta e più passi. Avevano però da fare con un tiratore meraviglioso; cosicché, in meno di cinque minuti, sette od otto di quei graziosi roditori, mitragliati dal bucaniere, caddero al suolo insieme ad un gran numero di noci che potevano servire benissimo come ottima frutta. Mendoza ed il guascone, che già s'immaginavano di avere una buona colazione con un cacciatore cosí famoso, avevano nel frattempo acceso un allegro fuoco e raccolte delle erbe aromatiche per rendere l'arrosto piú gustoso. I quattro uomini scuoiarono in pochi istanti le bestiole, le infilarono nella bacchetta di ferro d'uno degli archibugi e le misero sopra i carboni, girando quello spiedo primitivo su due forchettoni di legno piantati nel suolo. Mendoza si era improvvisato cuoco, dopo che il guascone gli aveva solennemente dichiarato di saper divorare anche sei beccaccini l'uno dietro l'altro, ma di non saperseli cucinare. Il buon marinaio non aveva né protestato, né brontolato; anzi, aveva guardato con ammirazione quel formidabile mangiatore, chiedendogli solamente per quale motivo i guasconi, pur essendo divoratori, non ingrassavano. Non occorre dire che la domanda era rimasta senza risposta, perché anche don Barrejo non avrebbe saputo dare su quello strano caso nessuna spiegazione plausibile. Il fatto sta che gli scoiattoli scomparvero tutti e la maggior parte passò nel ventre del guascone. Finita la colazione, i quattro uomini si occuparono subito degli spagnuoli, temendo sempre un improvviso colpo di mano. Quelli invece pareva che per il momento non si occupassero affatto di loro. Avevano acceso dei fuochi all'estremità della penisoletta e divoravano la loro colazione tranquillamente, composta forse di testuggini, poiché quei preziosi rettili abbondano intorno alle savane sandominghesi.. - Attendono dei rinforzi - disse Buttafuoco al conte. - Se noi non ci affrettiamo a scappare, circonderanno la palude, e allora sarà bravo chi potrà sfuggire all'accerchiamento. Le cinquantine non si trovano però lí per lí, e possono passare parecchi giorni prima che arrivino. Certo che noi non aspetteremo il momento terribile e fileremo attraverso le acque e anche fra le sabbie mobili. Penserà poi la marchesa a farvi scappare, signor conte. - Sarà la seconda volta - rispose il conte. - A lei tutto è facile - disse Buttafuoco. Aprí una tasca di cuoio che portava al fianco e offrí al conte un grosso sigaro dicendogli: - Potrete con questo ingannare il tempo. È tabacco cubano che ho potuto avere dai filibustieri della Tortue, e non ne troverete del migliore, ve lo assicuro io. Il conte stava per prendere il sigaro, quando un colpo d'archibugio rimbombò e una palla fischiò sopra di loro. Il basco si alzò precipitosamente, afferrando il suo fucile. - Signor conte - disse con la voce un po' alterata - sono giunti dei rinforzi agli spagnuoli e si preparano a prenderci a fucilate. Poi, alzando la voce, disse a Mendoza ed al guascone: - S'impegna battaglia: attenti alle palle!

IL RE DEL MARE

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Salgari, Emilio 2 occorrenze

Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole. - Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! - aveva esclamato Padada. Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli. Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici. - Non muovetevi e non fate fuoco! - aveva ripetuto precipitosamente Padada. Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki. - Che siano cacciatori? - chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza. - Che cacciavano noi, - rispose il malese. - La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano. - Possiamo quindi rivederli ancora? - È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran. - Siamo lontani molto ancora? - Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba. - Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa. - Quale, signore? - Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali. - Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, - disse Tangusa, che assisteva al colloquio. - Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi. - E si presteranno a quel giuoco? - Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi. - Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto! Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta. Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole. I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta. Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi. Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente. - Ci credono ancora lontani dal kampong, - disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. - Vanno a cercarci verso il Kabatuan. - Quanta ostinazione in quei furfanti, - disse Yanez. - È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata. - Eh, signor mio, - rispose Padada, - sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile. - Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo. - Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi? - Non ho ancora pronunciato l'ultima parola, - rispose Yanez, con un sorriso. - Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi. - Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano. - Fra poco troveremo le prime piantagioni, - disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. - Se non m'inganno siamo presso il Marapohe. - Che cos'è? - chiese Yanez. - Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori! - Che cosa c'è? - Vedo dei fuochi brillare laggiù! - esclamò Tangusa. Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale. - Il kampong! - chiese. - O un fuoco degli assedianti? - disse invece Tangusa. - Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria? - Prenderemo il nemico alle spalle, signore. - Tacete, - disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi. - Che cosa c'è ancora? - chiese Yanez, dopo qualche minuto. - Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore. - Attraversiamolo, - rispose Yanez risolutamente, - e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.

Una scarica nutrita partì da dietro le rocce, abbattendo d'un colpo solo un piccolo drappello di nemici, che, sprezzando il pericolo, muoveva audacemente innanzi, senza prendere alcuna precauzione. Era composto di una dozzina d'uomini e nessuno era rimasto in piedi. - Cominciamo bene, Sambigliong, - gridò Kammamuri. - Per Siva e Visnù, dovrebbero mandarci incontro un altro manipolo d'uomini. I dayaki, resi furibondi per la distruzione totale della loro avanguardia, non avevano indugiato a rispondere con scariche formidabili, che rintronavano profondamente nella stretta valle. Per alcuni minuti la fucilata durò intensissima d'ambe le parti, poi i dayaki, comprendendo che non sarebbero mai riusciti a scacciare, coi fucili, i difensori della rupe che si tenevano bene nascosti, si radunarono in varii drappelli per prendere a viva forza quella formidabile posizione. Impugnati i kampilang, si slanciarono, col loro impeto abituale, all'attacco, urlando per incutere maggior terrore ai nemici, ma non erano ancora giunti alla base della rupe che il fuoco dei Tigrotti, dei malesi e dei giavanesi, li costrinse ad arrestarsi per riprendere i fucili. - Amici! - gridò Sambigliong ai suoi prodi che non abbandonavano i loro posti, quantunque molti fossero stati già feriti. - Ecco il momento terribile! Sappiate morire da eroi! I dayaki per la seconda volta si erano precipitati all'assalto, sostenendosi con un fuoco vivissimo. Malgrado le enormi perdite che subivano, avevano cominciato ad arrampicarsi su per le roccie, vociando sempre, balzando come scimmie, impazienti d'impadronirsi delle teste di quegli ostinati difensori e di vendicarsi di tante sconfitte subite. Il drappello guidato da Sambigliong e da Kammamuri resisteva tenacemente. La lotta diventava terribile! Era un battagliare selvaggio, feroce, inumano. Gli uomini cadevano mandando urla furiose, tentando ancora di offendere o col fucile o coi kampilang o coi parangs gli avversari. Sambigliong e Kammamuri vedevano con angoscia assottigliarsi sempre più il loro drappello. Tutti quelli che si trovavano a metà della rupe erano stati decapitati dalle pesanti sciabole degli assalitori o fucilati sul posto ed il segnale ancora non si udiva! Che cosa poteva essere successo a Yanez? Che i prahos dei pescatori non fossero ancora rientrati in porto? Era quello che si chiedevano con ansietà estrema Kammamuri e Sambigliong, i quali ormai si vedevano impotenti a frenare l'attacco. I dayaki salivano sempre, sfidando intrepidamente la morte e facendo scintillare i loro terribili kampilang. Non facevano quasi più fuoco, tanto erano sicuri della vittoria. Sambigliong, vedendo sciabolare gli uomini che si erano appiattati a due terzi della salita, mandò un grido tuonante: - Kammamuri! Lancia la tigre! - A te, Darma! - urlò il maharatto. - Sbrana! La belva, che durante quella intensa fucilata era rimasta nascosta dietro una roccia, mugolando sordamente e rizzando il pelo, a quel comando balzò innanzi con un aug spaventevole e piombò su un uomo che stava decapitando un giavanese, puntandogli i denti nella nuca. I dayaki, vedendo rovinarsi addosso quella belva, che pareva volesse divorarli tutti, si erano precipitati all'impazzata giù dalla roccia, ricaricando precipitosamente i loro moschetti. Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi sopra un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì. La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s'abbattè, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato: - La mia Darma! Me l'hanno uccisa! Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari. - Il segnale! Il segnale! - gridò Sambigliong. - In ritirata! Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle e i kampilang dei dayaki e i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa. Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sè, dicendogli: - È morta: lasciala. Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa. Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayaki ripreso l'inseguimento e sbucò su una piccola pianura alla cui estremità s'alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare. - Signor Yanez - gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, colle vele già spiegate, pronti a prendere il largo. Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva. - Presto! - gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura. Pochi minuti dopo, estenuati e insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva. - E gli altri? - chiesero a una voce Yanez e Tremal-Naik. - Tutti morti, - rispose Kammamuri con voce affannosa; - anche la tigre, la nostra brava Darma. - Sia dannato quel cane di pellegrino! - gridò l'indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. - Anche la mia tigre perduta! - Ed i dayaki? - chiese Yanez. - Fra poco saranno qui, - disse Sambigliong. - Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l'altro con Kammamuri ed i superstiti. S'imbarcarono rapidamente e i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata udendo le grida dei dayaki si salvava precipitosamente nei boschi vicini. Il vento era favorevole, sicchè i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno pel momento. I dayaki giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nella mani. Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio. - Canaglie! - esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. - Se avessi ancora la mia Marianna vi darei io una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro pellegrino! I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan. Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi. Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po' più grosso e portava per armamento un lilà; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su un cavalletto fissato sulla prora. - Pessimi velieri, - disse Sambigliong, dopo un rapido esame. - Sono vecchi quanto me. - Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto, - rispose Yanez. - È stata anzi una vera fortuna trovarli e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli. - Muoviamo subito su Mompracem? - Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcacce che assorbono acqua come le spugne. - Sono impaziente di giungervi, capitano. - Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo! - Che la Tigre stia combattendo contro gli inglesi? - Non mi stupirei: Sandokan non è un uomo d'abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d'aver perduto la mia nave! Colla mia Marianna e la sua appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan. - Non è colpa mia, capitano Yanez, - disse Sambigliong. - Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave, - rispose Yanez, con voce dolce. - Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem. Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l'uno dall'altro. Yanez, seduto a poppa, su una grossa pietra che serviva da ancora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Soli quattro vegliavano a prora, per la manovra. Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell'inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l'isolotto di Sapangar, che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, la torcia forse di qualche pescatore notturno. Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza. - Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell'alba, - mormorò il portoghese. - La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna. Vegliò fino alle una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su una vecchia vela di vimini. Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo: - All'armi! Tutti in piedi! Cominciava allora ad albeggiare e i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell'isola di Gaya. Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo: - Ebbene, che cosa c'è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e ... Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà. Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguìto da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull'asta di poppa. - Che cosa vuole quella flottiglia? - si era domandato il portoghese. Un colpo di mirim, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intima ai due prahos di fermarsi. - I dayaki, signori! - gridò in quell'istante Sambigliong, che si era slanciato verso prora per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. - Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa! Il portoghese mandò una bestemmia. - Ancora essi! - esclamò poi. - Ecco la fine! Era una follia tentare d'impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lilà e di mirim e fors'anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayaki, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri. Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l'isola di Gaya che era coperta di folte foreste, era l'unica salvezza che restasse ai fuggiaschi. - Appoggiate sulla costa! - gridò Yanez. - E armate i fucili. Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette o otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya. Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong, accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lilà, cercando di abbattere le manovre. - Ah! Canaglie! - aveva gridato Yanez. - Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi. Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong. I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria. Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza. Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme. - Tigrotti di Mompracem! - aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. - Andiamo a salvare la fanciulla! Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong. Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare. - Fuoco sul ponte, Tigrotti! - gridò il portoghese. - Almeno vendichiamo gli amici! Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong: - Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita! Il misterioso nemico era apparso sul cassero col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar. - Ah! Cane! - gridò Yanez. - Anche tu ci sei! Prendi! Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente. Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong. - Finalmente! - gridò Yanez. - Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!

I FIGLI DELL'ARIA

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Salgari, Emilio 1 occorrenze

Rokoff e Fedoro avevano risposto con due colpi di fucile, abbattendo uno degli artiglieri. Gli altri, vedendo cadere il loro compagno, si erano precipitati all'impazzata verso una casamatta, abbandonando il pezzo. Fortunatamente, anche i manciù che si trovavano all'opposta estremità del bastione, ne avevano seguito l'esempio, rifugiandosi entro il fortino. - Signore! - gridò Rokoff. - Cadiamo? - No, - rispose il capitano, che aveva ricuperato prontamente il suo sangue freddo. - I piani inclinati ci sostengono e pel momento non v'è alcun pericolo. È un'avaria che ripareremo. Il fuso infatti si manteneva all'altezza primitiva, però aveva rallentato la sua corsa e si era inclinato verso l'ala ferita. Le eliche orizzontali e quella di rimorchio funzionavano con velocità vertiginosa sostenendo l'apparecchio, ma le ali non agivano più, per non guastare interamente quella che era stata colpita dal proiettile. - Resisteremo? - chiese Rokoff che s'aspettava di vedere, da un momento all'altro, lo "Sparviero" precipitare nelle acque profonde e vorticose del fiume. - Sì, - rispose il capitano che cercava di dare alle eliche la maggior rapidità possibile. - Non approdiamo? - chiese Fedoro. - La riva destra è vicina. - Non ho alcun desiderio di farmi assassinare dai manciù! Se ci vedessero scendere qui verrebbero a scovarci. Bisogna che ci allontaniamo fino a trovare qualche isola o qualche sponda deserta. - E se cadiamo prima di giungervi? - chiese Rokoff, che non si sentiva affatto tranquillo. - Il vento che soffia dietro di noi ci porta e agisce a meraviglia sui piani inclinati. Guardate: non discendiamo nemmeno d'un centimetro. - Maledetti cinesi! ... - Ci hanno scambiato per demoni. - E l'ala? - L'accomoderemo - rispose il capitano. - Non si tratta che di fare una solida saldatura e una rilegatura all'asta, e io, in previsione di possibili accidenti, ho portato con me tutto il necessario per le riparazioni. Il mio macchinista s'incaricherà di guarire la nostra povera ala. Si vede ancora il fortino? - No, signore, è nascosto da una curva del fiume - rispose Fedoro. - E io scorgo dinanzi a due o tre miglia di distanza, un'isola che fa per noi. Sono deserte le rive? - Non vedo che boschi di pini e canneti. - Speriamo di calare inosservati. Lo "Sparviero", sempre sorretto dai suoi piani inclinati e rimorchiato dall'elica prodiera, s'avanzava lentamente sull'Hoang-ho, spinto anche dal vento che era, fortunatamente, favorevolissimo. Era però sempre un po' sbandato dal lato dell'ala spezzata, tuttavia pareva evitato il pericolo d'un capitombolo improvviso. L'isola ingrandiva a vista d'occhio. Era un bel pezzo di terra, di forma allungata, situato proprio in mezzo al fiume, in un punto dove questo aveva una larghezza di oltre due chilometri. Folti canneti circondavano l'isolotto e sulle rive crescevano numerose piante, per la maggior parte pini, querce e giuggioli. Numerosi uccelli acquatici, gru, oche, schiavi d'acqua, alcedi e marangoni svolazzavano in mezzo ai canneti, formando, colle loro grida rauche, un baccano assordante. - Bell'isolotto, - disse Rokoff che lo guardava attentamente. - E non vi è alcun abitante - disse Fedoro. - Ne prenderemo possesso senza contrasti e spiegheremo la bandiera dello "Sparviero", se ne ha una. - L'ha, ma non si espone, almeno per ora - disse il capitano che lo aveva udito. - Ehi, macchinista, rallenta e lasciamoci cadere dolcemente. I piani inclinati basteranno. L'isola, che aveva un circuito d'oltre un miglio, si prestava magnificamente alla discesa dello "Sparviero" poiché, mentre le rive erano coperte di folti alberi, l'interno invece era solamente ingombro di sterpi e di piccoli cespugli. Arrestato il movimento turbinoso delle tre eliche, l'aerotreno che aveva già raggiunto la punta estrema dell'isolotto, cominciò ad abbassarsi lentamente, sorretto dai piani inclinati, i quali agivano come due immensi aquiloni. Passò sopra i primi alberi sfiorandone le cime, poi calò dolcemente proprio in mezzo a quel brano di terra, coricandosi fra i cespugli. Le due ali, con un mezzo giro dell'albero motore, si erano distese orizzontalmente, in modo da rimanere perfettamente nascoste a qualunque navigante che scendesse o salisse il fiume. - Che cosa ne dite di questa discesa? - chiese il capitano con voce assai lieta. - Che non poteva riuscire migliore - rispose Rokoff. - Potete andare superbo della vostra macchina, signore. Eppure io avrei giurato che saremmo precipitati in mezzo al fiume. - Sì, se il mio "Sparviero" non fosse stato munito dei suoi piani inclinati - disse il capitano. - Andiamo a vedere l'avaria prodotta da quella maledetta palla. Sbarcarono balzando fra gli sterpi, sotto i quali si udivano pigolare numerosi uccelli e si vedevano fuggire bande di piccoli rosicchianti, ed esaminarono l'ala. Il proiettile aveva spezzato nettamente l'asta principale, a circa metà altezza, asportandone un pezzo lungo trenta centimetri e forando la seta, sicché le nervature superiori, non più sorrette, si erano ripiegate. Era una mutilazione grave, ma non irreparabile. - Quanto tempo ti è necessario? - chiese il capitano al macchinista. - Non meno di dodici ore - disse l'interrogato. - Rispondi della saldatura? - Sarete soddisfatto. Abbiamo una buona scorta d'aste d'alluminio e la fucina. - Ti possiamo essere utili? - Farò tutto da me. - Portami dei fucili da caccia. Poi volgendosi verso Rokoff e Fedoro, disse: - Signori, facciamo una battuta fra i canneti della nostra possessione. Un po' di carne fresca spero che l'accoglierete bene. I fagiani dorati e argentati non devono mancare fra questi cespugli. - Una passeggiata la faccio volentieri - rispose Rokoff. - E poi mi preme di sapere se i manciù del fortino sono rimasti sui loro bastioni. - Temete che vengano a disturbarci? Non credo che ci abbiano veduti calare su questo isolotto. - Non abbiamo percorso molte miglia, capitano. - Una mezza dozzina. - Siamo ancora troppo vicini. - Li consiglierei a non venire qui - disse il capitano. - Abbiamo una mitragliera che tira stupendamente. Signori, in caccia!

I MISTERI DELLA GIUNGLA NERA

682363
Salgari, Emilio 2 occorrenze

Un colpo di rivoltella echeggiò abbattendo il mastro-cannoniere. -Kâlì! ... Kâlì ... - urlarono i thugs. Era il grido di guerra degli strangolatori e fu appoggiato da una tremenda grandinata di palle. Alcuni uomini rotolarono sul ponte. Gli altri, smarriti, sorpresi da quell'improvviso attacco, che certamente non s'aspettavano, si precipitarono a poppa gettando urla di terrore. - Kâlì! ... Kâlì! - rimbombò a poppa. Tremal Naik e i suoi uomini s'erano slanciati sul cassero colle rivoltelle nella dritta ed i pugnali nella sinistra. Alcune detonazioni rintronarono. Una confusione indescrivibile accadde a bordo della cannoniera, la quale, senza timoniere, andava a traverso alla corrente. Gli inglesi, presi tra due fuochi, cominciarono a perdere la testa. Per fortuna l'ufficiale di quarto non era stato ancora ucciso. D'un balzo si gettò giù dalla lunetta colla sciabola in pugno. - A me, marinai! - urlò egli. Gli inglesi si radunarono in un baleno attorno a lui e si avventarono a poppa impugnando i coltelli, le scuri, le manovelle. Il cozzo fu terribile. I thugs di Tremal-Naik furono ributtati da quella valanga d'uomini. L'ufficiale di quarto s'impadronì del cannone, ma la vittoria fu di breve durata. Hider si era messo alla testa dei suoi e li assaliva alle spalle pronto a comandare fuoco. - Signor tenente, - gridò, puntando verso di lui la rivoltella. - Cosa vuoi, miserabile? - urlò l'ufficiale. - Arrendetevi e vi giuro che non verrà torto un sol capello né a voi, né ai vostri marinai. - No! - Vi avverto che abbiamo cinquanta colpi ciascuno da sparare. Ogni resistenza sarebbe inutile. - E cosa farai di noi? - Vi faremo scendere nelle imbarcazioni e vi lascieremo liberi di sbarcare sull'una o sull'altra riva del fiume. - E della cannoniera cosa vuoi farne? - Non posso dirlo. Orsù, o la resa o io comando il fuoco. - Arrendiamoci, tenente, - gridarono i marinai che si vedevano ormai in balìa di Hider. Il tenente, dopo d'aver esitato, spezzò la spada e la gettò nel fiume. Gli strangolatori si slanciarono sui marinai, li disarmarono e li fecero scendere nelle due baleniere, calandovi il capitano che ancora dormiva e l'ingegnere. - Buona fortuna! gridò il quartier-mastro. - Se ti prendo ti farò appiccare, - rispose il tenente, mostrandogli il pugno. - Come vi piacerà. - E la cannoniera riprese la corsa, mentre le imbarcazioni si dirigevano verso la sponda del fiume.

L'elefante camminava con passo spedito, eccitato dalla voce del mahut, fracassando, stritolando, sotto le enormi zampe le radici e gli arbusti, ed abbattendo con un vigoroso colpo di proboscide gli alberi o i bambù che gli sbarravano la via. Il capitano Macpherson, sul dinanzi dell'hauda, con una carabina in mano, spiava attentamente i gruppi di piante e le alte erbe, in mezzo alle quali poteva celarsi la tigre. Un quarto d'ora dopo essi giungevano sul margine della jungla, irta di bambù e di ammassi di cespugli spinosi. Sei sipai, muniti di lunghe pertiche ed armati di scuri e di fucili, li aspettavano con un branco di piccoli cani, miserabili botoli all'apparenza, ma molto coraggiosi in realtà, indispensabili per cacciare il terribile felino. - Quali nuove? - chiese il capitano, curvandosi sull'hauda. - Abbiamo scoperto le traccie della tigre, - rispose il capo dei battitori. - Fresche? - Freschissime; la tigre è passata di qui mezz'ora fa. - Allora entriamo nella jungla. Lasciate i cani. I botolini, liberati dal guinzaglio, si slanciarono animosamente in mezzo ai bambù, dietro le traccie della tigre, abbaiando con furore. Bhagavadi, dopo di aver fiutato colla proboscide tre o quattro volte l'aria a diverse altezze, s'addentrò nella jungla, sfondando col suo petto la massa di verzura. - Sta' bene attento Bhârata, - disse Macpherson. - Avete scorto qualche cosa, capitano? - chiese il sergente. - No, ma la tigre può essere tornata sui propri passi ed essersi imboscata fra i bambù. Tu sai che quegli animali sono astuti, e che non temono di assalire l'elefante. - In tal caso avrà da fare con Bhagavadi. Non è la prima tigre che egli calpesta sotto le sue zampaccie o che scaglia in aria a fracassarsi le membra contro qualche albero. L'avete veduto voi, l'animale? - Sì, e posso dirti che era proprio gigantesco. Non mi ricordo d'aver visto una tigre così grossa né così agile; faceva balzi di dieci metri. - Oh! - esclamò l'indiano. - Con un salto arriverà fino all'hauda. - Se la lascieremo avvicinare. - Tacete, capitano. In lontananza s'udirono i cani ad abbaiare furiosamente e qualche guaito lamentevole. Bhârata si sentì correre un brivido per le ossa. - I cani l'hanno scoperta, diss'egli. - E qualcuno è stato sventrato, - aggiunse il sipai che aveva preso le carabine, pronto a passarle ai cacciatori. Uno stormo di pavoni s'alzò a circa cinquecento metri e volò via mandando grida di terrore. - Uszaka? - gridò il capitano, facendo una specie di portavoce colle mani. - Attenzione, capitano! - rispose il capo dei battitori. - La tigre è alle prese coi cani. - Fa' suonare la ritirata. Uszaka accostò al naso il bansy, sorta di flauto, e soffiò con forza emettendo una nota acuta. Tosto si videro i sipai tornare precipitosamente e correre a rifugiarsi dietro all'elefante. - Animo, - disse il capitano al mahut, - conduci l'elefante dove abbaiano i cani. E tu, Bhârata, guarda bene alla tua sinistra mentre io guardo alla dritta. Può darsi che dobbiamo combattere più di un avversario. Gli abbaiamenti continuavano ognor più furiosi, segno infallibile che la tigre era stata scoperta. Bhagavadi affrettò il passo movendo intrepidamente verso una grande macchia di bambù tulda, in mezzo alla quale s'erano cacciati i botoli. A cento passi di distanza fu trovato uno dei cani orrendamente sventrato da un poderoso colpo d'artiglio. L'elefante cominciò a dare segni d'inquietudine, agitando vivamente la proboscide dall'alto in basso. - Bhagavadi la sente, - disse Macpherson. - Sta' bene attento mahut e bada che l'elefante non dia indietro o che esponga troppo la sua tromba. La tigre gliela sbranerà come l'anno scorso. - Rispondo di tutto, padrone. Fra i bambù s'alzò un formidabile ruggito a cui nessun grido è paragonabile. Bhagavadi s'arrestò fremendo ed emettendo sordi barriti. - Avanti! - gridò il capitano Macpherson, le cui dita si raggrinzavano sul grilletto della carabina. Il mahut lasciò andare un colpo di uncino sul pachiderma, il quale si mise a sbuffare in orribile modo, arrotolando la proboscide e presentando le due aguzze zanne. Fece ancora dieci o dodici passi poi tornò a fermarsi. Dai bambù si slanciò fuori, simile a un razzo, una gigantesca tigre emettendo un formidabile miagolìo. Il capitano Macpherson lasciò partire la scarica. - Tuoni e fulmini! - gridò irritato. La tigre era ricaduta fra i bambù prima di essere stata toccata. Si slanciò altre due volte nell'aria, facendo balzi di dodici metri e scomparve. Bhârata fece fuoco in mezzo al macchione, ma la palla andò a fracassare la testa di un botolino mezzo sbranato, che si trascinava penosamente fra le erbe. - Ma ha il diavolo in corpo quella tigre, - disse il capitano, assai di cattivo umore. - È la seconda volta che sfugge alle mie palle. Come va questa faccenda? Bhagavadi si rimise in marcia, con molta precauzione, facendosi prima largo colla proboscide, che si affrettava però a ritirare subito. Fece altri cento metri, preceduto dai cani che andavano e venivano cercando la pista del felino, poi fece alto piantandosi solidamente sulle gambe. Tornava a tremare ed a sbuffare fragorosamente. Davanti a lui, a meno di venti metri, stava un gruppo di canne da zucchero. Un buffo d'aria impregnata d'un forte odore di selvatico, giunse fino ai cacciatori. - Guarda! guarda! - gridò il capitano. La tigre s'era slanciata fuori dalle canne movendo con rapidità fulminea verso il pachidermo il quale s'era affrettato a presentare le zanne. Vi giunse quasi sotto, sfuggendo alle carabine dei cacciatori, si raccolse su se stessa e piombò in mezzo alla fronte dell'elefante cercando con un colpo d'artiglio d'afferrare il mahut, che s'era gettato all'indietro urlando di terrore. Già stava per raggiungerlo, quando in lontananza echeggiarono alcune note acute emesse da un ramsinga. Sia che si spaventasse o altro, la tigre fece un rapido voltafaccia e si precipitò giù, cercando di raggiungere la macchia. - Fuoco! - urlò il capitano Macpherson, scaricando la carabina. Il felino mandò un ruggito tremendo, cadde, si rialzò, varcò la macchia e ricadde dall'altra parte, rimanendo immobile come se fosse stato fulminato. - Hurrà! hurrà! - urlò Bhârata. - Bel colpo! - esclamò il capitano, deponendo l'arma ancor fumante.- Getta la scala. - Il mahut ubbidì. Il capitano Macpherson impugnato il coltellaccio giunse a terra e si diresse verso la macchia. La tigre giaceva inerte presso un cespuglio. Il capitano, con sua grande sorpresa, non iscorse su quel corpo alcuna ferita, né per terra macchie di sangue. Ben sapendo che le tigri talvolta si fingono morte per gettarsi di sorpresa sul cacciatore, stava per tornare indietro, ma gli mancò il tempo. Il misterioso suono del ramsinga tornò a echeggiare. La tigre a quella nota scattò in piedi, si scagliò sul capitano e lo atterrò. La sua enorme bocca, irta di denti, si spalancò sopra di lui pronta a stritolarlo. Il capitano Macpherson, inchiodato al suolo, in maniera da non potersi muovere, né servirsi del coltellaccio, emise un grido d'angoscia. - A me! ... Sono perduto. - Tenete fermo, ci sono! - urlò una voce tonante. Un indiano si gettò fuori della macchia, afferrò la tigre per la coda e con un violento strappone la scaraventò da una parte. S'udì un ruggito furioso. L'animale, pazzo di collera, s'era prontamente alzato per gettarsi sul nuovo nemico; ma, cosa strana, inaudita, appena che l'ebbe scorto fece un rapido voltafaccia e s'allontanò con fantastica rapidità, scomparendo fra l'inestricabile caos della jungla. Il capitano Macpherson, sano e salvo, s'era prontamente levato in piedi. Un profondo stupore si dipinse tosto sui suoi lineamenti. A cinque passi da lui stava un indiano di forme muscolose, grandemente sviluppate, con una testa superba, piantata su due larghe e robuste spalle. Un piccolo turbante ricamato in argento copriva il suo capo ed ai fianchi portava un sottanino di seta gialla, stretto da un bellissimo scialle di cachemire. Quell'uomo, che aveva intrepidamente affrontato la tigre non aveva alcuna arma. Colle braccia incrociate, lo sguardo sfavillante d'ardire, egli fissava con curiosità il capitano, conservando l'immobilità d'una statua di bronzo. - Se non m'inganno, ti devo la vita, - disse il capitano. - Forse, - rispose l'indiano. - Senza il tuo coraggio a quest'ora sarei morto. - Lo credo. - Dammi la mano; tu sei un prode. L'indiano strinse, con un tremito, la mano che Macpherson gli porgeva. - Posso io conoscere il tuo nome, o mio salvatore? - Saranguy, - rispose l'indiano. - Non lo scorderò mai. Fra loro due successe un breve silenzio. - Cosa posso fare per te? - ripigliò il capitano. - Nulla. Macpherson estrasse una borsa rigonfia di sterline e gliela porse. L'indiano la respinse con nobile gesto. - Non so che farne dell'oro, - dissegli. - Sei ricco tu? - Meno di quello che credete. Sono un cacciatore di tigri delle Sunderbunds. - Ma perché ti trovi qui? - La jungla nera non ha più tigri. Sono salito al nord a cercarne delle altre. - E dove vai ora? - Non lo so. Non ho patria, né famiglia; erro a capriccio. - Vuoi venire con me? Gli occhi dell'indiano mandarono un lampo. - Se avete bisogno d'un uomo forte e coraggioso, che non teme né le belve, né l'ira degli dei, sono vostro. - Vieni, o prode indiano, e non avrai a lagnarti di me. Il capitano girò sui talloni, ma s'arrestò subito. - Dove credi che sia fuggita la tigre? - Molto lontano. - Sarà possibile trovarla! - Non lo credo. Del resto m'incarico io d'ammazzarla, e fra non molto tempo. - Ritorniamo al bengalow. Bhârata, che aveva assistito con stupore a quella scena, li aspettava presso l'elefante. Egli si slanciò contro al capitano. - Sei ferito, padrone? - gli chiese, ansiosamente. - No, mio bravo sergente, - rispose Macpherson. - Ma se non giungeva questo indiano, non sarei ancora vivo. - Sei un grand'uomo, - disse Bhârata a Saranguy. Non ho mai veduto un simile colpo; tu tieni alta la fama della nostra razza. - Un sorriso fu l'unica risposta dell'indiano. I tre uomini salirono nell'hauda e in meno di mezz'ora raggiunsero il bengalow dinanzi al quale li aspettavano i sipai. La vista di quei soldati fece corrugare la fronte di Saranguy. Parve inquieto e represse con grande sforzo un gesto di dispetto. Per fortuna nessuno avvertì quel movimento che fu, del resto, rapido come un lampo. - Saranguy, - disse il capitano, nel momento che entrava con Bhârata, - se hai fame, fatti additare la cucina; se vuoi dormire, scegli quella stanza che meglio ti accomoda; e se vuoi cacciare, domanda quell'arma che meglio ti conviene. - Grazie, padrone, - rispose l'indiano. Il capitano entrò nel bengalow. Saranguy si sedette presso la porta. La sua faccia era diventata allora assai cupa e gli occhi brillavano d'una strana fiamma. Tre o quattro volte s'alzò come se volesse entrare nel bengalow, e sempre tornò a sedersi. - Chissà quale sorte toccherà a quell'uomo, mormorò egli con voce sorda. - Forse la morte. È strano, eppure quell'uomo mi interessa, eppure sento che quasi lo amo! Appena lo scorsi sentii il mio cuore fremere in modo inesplicabile; appena udii la sua voce mi sentii quasi commosso. Non so, ma quel volto somiglia ... Non nominiamola ... Tacque diventando ancor più tetro. - E sarà qui lui? - si chiese d'un tratto. - E se non vi fosse? Si alzò per la quinta volta e si mise a passeggiare colla testa china. Passando dinanzi ad un recinto, udì alcune voci che venivano dall'interno. Si arrestò alzando bruscamente la testa. Parve indeciso, si guardò attorno come volesse assicurarsi che era solo, poi si lasciò cadere ai piedi della palizzata, tendendo con molta attenzione gli orecchi. - Te lo dico io, - diceva una voce. - Il birbone ha parlato dopo le minaccie di morte del capitano Macpherson. - Non è possibile, - diceva un'altra voce. - Quei cani di thugs non si lasciano intimidire dalla morte. Ho visto coi miei propri occhi, delle diecine di thugs lasciarsi fucilare senza nulla dire. - Ma il capitano Macpherson ha dei mezzi ai quali nessuna creatura umana resiste. - Quell'uomo è molto forte. Si lascierà strappare di dosso la pelle, prima di dire una sola parola. Saranguy divenne più attento, e accostò viepiù l'orecchio alla palizzata. - E dove credi che l'abbiano rinchiuso? - chiese la prima voce. - Nel sotterraneo, - rispose l'altra - Quell'uomo è capace di scappare. - È impossibile, poiché le pareti hanno uno spessore enorme, di più uno dei nostri veglia. - Non dico che scapperà da solo, ma aiutato dai thugs. - Credi tu che ronzino da queste parti? - La scorsa notte abbiamo udito dei segnali e mi si disse che un sipai scorse delle ombre. - Mi fai venire i brividi. - Hai paura tu? - Puoi crederlo. Quei maledetti lacci di rado falliscono. - Avrai paura ancora per poco - Perché? - Perché li assaliremo nel loro covo. Negapatnan confesserà tutto. Saranguy udendo quel nome era balzato in piedi, in preda ad una viva eccitazione. Un sorriso sinistro sfiorò le sue labbra e guardò trucemente. - Ah! - esclamò egli con voce appena distinta. - Negapatnan è qui! I maledetti saranno contenti.

I PESCATORI DI BALENE

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Salgari, Emilio 3 occorrenze

A mezzodì un vento freddissimo cominciò a soffiare dal nord, abbattendo non pochi ghiacci male equilibrati e mettendo in movimento tutti gli altri con grande pericolo del "Danebrog" che poteva venire schiacciato. Tutto all'ingiro s'udirono allora tonfi, scoppi violenti e cozzi formidabili che diventavano, quanto più il vento cresceva, sempre più forti. Alle 2 il mare presentava uno spettacolo spaventevole. Lunghe ondate, come se fossero mosse da una forza misteriosa, correvano da nord a sud, colle creste coperte di candida spuma, accavallandosi disordinatamente e lanciando in aria giganteschi sprazzi che il vento tosto disperdeva e polverizzava. Sulle loro cime o nei loro avvallamenti, gli "icebergs", gli "hummoks", i "palks" e gli "streams" si dondolavano spaventosamente, ora tuffandosi ed ora tornando a galla; si urtavano furiosamente struggendosi reciprocamente e, lanciando ovunque frammenti, si rovesciavano facendo fuggire con acute strida gli uccelli marini che avevano piantato nei crepacci i loro nidi. Guai se uno di essi avesse urtato, con quell'impeto, i fianchi del vascello! I marinai, pallidi, col terrore negli occhi, seguivano attentamente i balzi disordinati di quelle montagne e ogni qualvolta una di esse minacciava di portarsi presso il vascello, sporgevano i buttafuori onde possibilmente respingerla. Alle 3, quando l'oscurità era maggiore, cominciò a cadere attraverso il nebbione una neve fitta che in pochi minuti coperse i ghiacci, la tolda e gli attrezzi del "Danebrog". Il freddo scese quasi tutto d'un colpo di altri 8 gradi! - L'affare diventa serio assai! - disse il tenente a Koninson. - Corriamo il pericolo di venire sfracellati. - E l'oscurità cresce sempre - disse il fiociniere, masticando rabbiosamente un mozzicone di sigaro. - Un gran brutto navigare è il nostro, con tutti questi ghiacci che pare abbiano una voglia matta di fare del "Danebrog" una frittata. Vedete la costa americana, signor Hostrup? - No, Koninson, e anche quella costa mi dà assai da pensare. Possiamo trovarci da un istante all'altro dinanzi a una delle numerose isole o scogliere che la cingono.. In quell'istante, tra i fischi del vento e i muggiti delle onde, si udì mastro Widdeak gridare con accento di terrore: - Abbiamo un "iceberg" a prua! Il capitano, il tenente e Koninson, malgrado i violentissimi beccheggiamenti del vascello, si slanciarono colà. A mezza gomena appena, attraverso il nebbione, si vedeva scintillare una gran montagna di ghiaccio la quale, urtata da tutte le parti dalle onde, pareva fosse lì lì per capovolgersi. - Vira, timoniere! - urlò il capitano. - Tutti ai bracci delle manovre! Il "Danebrog", che non era più che a venti o a trenta passi dall'"iceberg", virò prontamente sul posto, ma ricevette sul fianco tale colpo di mare che lo fece quasi rovesciare sul tribordo. Quasi nel medesimo istante si udì ancora mastro Widdeak urlare: - Bada, timoniere! Un altro "iceberg" dinanzi la prua! Infatti, dritto l'asta di prua, era improvvisamente apparso un altro "iceberg" e questo ancora più grande del primo. Era una specie di colonna alta almeno cento metri e grossa quasi altrettanto. - Siamo proprio circondati? - gridò il capitano con ira. Si slanciò alla ruota del timone, e mentre i marinai, ad un comando del tenente, si portavano tutti a prua armati dei buttafuori, diresse la nave in modo da passare fra le due montagne che erano distanti appena due gomene l'una dall'altra, manovra quanto mai pericolosa, poichè potevano proprio in quel momento perdere l'equilibrio e sfracellare il "Danebrog" assieme a tutti quelli che lo montavano. - State in guardia, capitano! - gridò il tenente, appena vide la nuova direzione presa dalla nave. - Gli "icebergs" non mi sembrano bene equilibrati. - Non temete, tenente! - rispose il capitano con voce ferma. - Che nessuno abbandoni i buttafuori! Il "Danebrog", spinto dal vento e dalle onde e guidato dalla ferrea mano del capitano Weimar, si avvicinò rapidamente alle due montagne le quali, violentemente urtate dalle acque che muggivano e rimuggivano, balzando e rimbalzando, oscillavano spaventosamente minacciando di urtarsi e di capovolgersi. Non mancavano più che poche decine di metri, perchè il "Danebrog" giungesse al pericoloso passo, quando dall'"iceberg" più grande caddero in mare parecchie centinaia di ghiacciuoli, ciò che indicava che stava per perdere l'equilibrio. Un urlo di terrore si alzò sul ponte della nave; i marinai che si erano raggruppati a prua, lasciarono il posto precipitosamente, gettando via i buttafuori. Alcuni si slanciarono verso le baleniere, ritenendo ormai imminente una catastrofe. Il tenente, che era rimasto intrepidamente sul castello di prua, si gettò in mezzo ai fuggiaschi alzando minacciosamente il buttafuori che teneva in mano. - Ai vostri posti! - urlò. - Il primo che pone una mano sulle baleniere lo ammazzo come un cane! - tuonò dal canto suo il capitano, che si teneva aggrappato alla ruota del timone. - Tutti a prua o siamo perduti! Koninson primo, mastro Widdeak secondo, poi tutti gli altri riguadagnarono i posti assegnati. Era tempo! Il "Danebrog" si era cacciato fra le due montagne di ghiaccio e una di queste, portata innanzi da un'onda, minacciava di spezzare i pennoni e le murate. I marinai, quantunque il terrore li agghiacciasse, ubbidirono di comune accordo. L'"iceberg" che avanzava sempre rollando spaventosamente, tutto d'un tratto s'inclinò verso la nave che gli passava di fianco ratta ratta e sfracellò i buttafuori mandando a terra gli uomini che li stringevano. Per la seconda volta i marinai abbandonarono i loro posti fuggendo a tribordo. Il capitano Weimar gettò un vero ruggito e il tenente, malgrado tutto il suo coraggio, impallidì. Entrambi credettero che questa volta pel "Danebrog" fosse proprio finita. Un'altra onda avvicinò di più la montagna di ghiaccio. Un pennone, quello di maestra, che sporgeva assai fuori dal bordo, fu smussato da un blocco di ghiaccio staccatosi dalla cima dell'"iceberg" - Si salvi chi può! - urlarono alcuni marinai, che avevano perduto completamente la testa. - Fermi! Fermi! Passiamo! - tuonò il capitano Weimar sempre ritto dietro la ruota del timone. Il "Danebrog", trasportato dal vento che soffiava con forza irresistibile, filava come una rondine marina quasi strisciando sul fianco della montagna. Due volte toccò, ma finalmente uscì dal pericoloso passo e si slanciò sulle onde furenti lasciandosi addietro i due "icebergs", i quali in brevi istanti scomparvero nel nebbione. Un grido di gioia s'alzò fra l'equipaggio, unito al grido di: "Viva il capitano"! Ma quel grido cessò quasi subito. Uno strano e formidabile fragore si era improvvisamente udito verso sud-est. Pareva che l'oceano si rompesse contro una costa che il nebbione non permetteva di vedere. - Tenente Hostrup! - gridò il capitano che aveva pure udito quel lungo muggito. - Cosa abbiamo dinanzi a noi? La costa americana forse? Il tenente salì sul castello di prua e guardò attentamente dinanzi, a babordo e a tribordo, ma altro non vide che furiosi marosi i quali trascinavano nei loro disordinati movimenti ghiacci di ogni dimensione, sfracellandoli gli uni contro gli altri. Si curvò più che potè verso l'acqua e tese attentamente gli orecchi. Fra i fischi del vento e i cozzi dei ghiacci udì distintamente un sordo muggito. - Sì, capitano - gridò. - Noi abbiamo vicina la costa o una scogliera. - Tutti ai bracci delle vele pronti a virare! - comandò il capitano, Il "Danebrog" per dieci minuti tirò innanzi, sempre orribilmente sballottato dalle onde, che saltavano sopra le murate inondando la tolda da prua a poppa. Ad un tratto, a breve distanza apparve una spuma biancastra e il muggito poco prima udito divenne così intenso da credere che la costa o le scogliere fossero a poche gomene. Il capitano Weimar stava per dare il comando di virare, quando avvenne un leggero cozzo che arrestò subito la marcia del "Danebrog". Il tenente e Koninson corsero a prua e si issarono, per meglio vedere, sul bompresso. Quasi subito avvenne un secondo urto e questa volta così forte da rovesciare tutto l'equipaggio. Una montagna d'acqua, varcate le murate, si precipitò sulla tolda atterrando tutto ciò che incontrava. Tra i fischi del vento ed i muggiti delle onde s'udirono due grida d'aiuto, poi più nulla. Quando i caduti si rialzarono, il "Danebrog" galleggiava ancora, ma due uomini mancavano. Il tenente Hostrup e il fiociniere Koninson, che al momento dell'urto si trovavano sull'albero di bompresso, erano stati trascinati via dal colpo di mare!

Si sarebbe detto che quella luce avesse avuto anche il calore del fuoco, poichè tutti i ghiacci delle montagne si fendevano in mille guise come se sotto di loro la terra si sconvolgesse e precipitavano a migliaia nella sottoposta pianura in un disordine spaventevole, sibilando, fischiando, tuonando e tutto abbattendo sul loro cammino. Il tenente balzò in piedi, ma si sentì subito atterrare. Anche i fianchi della montagna su cui si trovava erano in movimento, e quelle grandi lastre di ghiaccio, che poche ore prima parevano inchiavardate e sicurissime, si fendevano in tutti i versi e scivolavano giù per le chine. - Siamo perduti! - esclamò involontariamente. - Koninson! Koninson! All'erta! Il fiociniere si slanciò fuori della tenda, ancora mezzo addormentato. - Cosa succede? - chiese. La sua voce si perdette fra le detonazioni dei ghiacci. Si precipitò verso il tenente che, impotente e ormai rassegnato, aveva incrociato le braccia sul petto aspettando la morte che pareva ormai certa. - Fuggiamo, signore! - esclamò. - Dove? - Alla grotta. - È impossibile, la via è interrotta. - Allora siamo perduti. - Chissà! Speriamo in Dio. - Signor tenente ... Il fiociniere non proseguì. Una scossa violenta l'aveva atterrato assieme al tenente e alla tenda. Quasi subito udirono una detonazione paragonabile solo allo scoppio d'una mina di cinquecento chilogrammi di polvere e si sentirono trascinare verso il basso, dapprima lentamente e poi con una rapidità vertiginosa. Un lastrone di ghiaccio di dimensioni enormi e del peso di parecchie migliaia di tonnellate, su cui si trovavano i due balenieri, si era staccato e scendeva la montagna più rapido di un treno diretto, seco trascinando tutto ciò che incontrava sul suo cammino, fiancheggiato e seguito da un vero esercito di massi di ghiaccio che rimbalzavano in tutte le direzioni. I due balenieri, mezzo soffocati dalla rapidità della discesa, storditi dalle migliaia di ghiacciuoli che li percuotevano incessantemente, assordati dai fragori che produceva il lastrone nella sua corsa e che talora erano fischi stridenti e tal'altra ruggiti che sembravano emessi da fiere in furore, tentavano di mantenersi presso la slitta, ma brusche scosse, di quando in quando, li separavano violentemente lanciandoli a destra o a sinistra, innanzi e indietro a rischio di cadere in mezzo a tutto quel rovinio di massi che non avrebbe mancato di schiacciarli. Dopo un minuto, che ai due disgraziati parve lungo quanto un secolo, il ghiaccione toccò il piano. Si raddrizzò con un colpo tremendo che lo fece crepitare e fendere in più luoghi, indi continuò la corsa attraverso la pianura con un rullìo paragonabile a quello di una nave in un giorno di tempesta. Ad un tratto avvenne un potente urto. Il lastrone aveva cozzato contro una rupe che s'alzava di pochi metri sulla superficie del suolo, ma che presentava una resistenza incalcolabile. Il ghiaccione si rialzò come un cavallo che si inalbera sotto una violenta speronata, e ricadde spaccandosi in venti e più parti. I due balenieri, scaraventati innanzi da quei due urti, caddero in mezzo alla neve ove rimasero immobili come se fossero stati uccisi sul colpo.

Due detonazioni rimbombarono, poi altre due, poi due altre ancora abbattendo altrettanti lupi. I due balenieri continuarono così, mentre i cani li trascinavano verso il bosco. I lupi, che ormai avevano assaggiato il sangue, non retrocedevano più. Urlando furiosamente assalivano la slitta per di dietro e ai lati tentando di strangolare i cani e di saltare alla gola degli nomini i quali si difendevano disperatamente. Ad un tratto Koninson gettò un grido di disperazione. - Non ho più polvere! - Maledizione! - urlò il tenente. - E questo è il mio ultimo colpo! I lupi, come se avessero compreso che la vittoria era ormai sicura, si precipitarono confusamente all'assalto della slitta, circondandola da ogni parte. I cani sparvero sotto il numero degli assalitori e dopo breve lotta furono fatti a brani, ma i due balenieri non erano ancora vinti. Ritti sul sedile, si difendevano con sovrumana energia respingendo l'orda incalzante coi calci dei fucili, spaccando teste, fracassando dorsi, scavezzando gambe, schiacciando musi. Ma quella lotta di due contro centocinquanta e più non poteva durare a lungo. Già il fiociniere e il tenente si sentivano impotenti di più oltre resistere, già le loro forze venivano meno, i più feroci balzavano contro le loro gambe, quando una scarica violenta rintronò sotto il bosco che era lontano soli trecento passi. Quindici o venti uomini, apparsi improvvisamente, balzarono in mezzo all'orda urlante disperdendola a colpi di scure e di fucile e accolsero nelle loro braccia i due balenieri, così miracolosamente salvati. - Signore, - disse un di loro volgendosi verso il tenente che non si reggeva più - non abbiate più timore: siete fra i cacciatori del forte Speranza.

IL VENTRE DI NAPOLI (VENTI ANNI FA - ADESSO - L'ANIMA DI NAPOLI)

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Serao, Matilde 1 occorrenze
  • 1906
  • FRANCESCO PERRELLA EDITORE
  • prosa letteraria
  • UNIFI
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Citiamo il Borgo Marinai, a santa Lucia, posto che si dovevano abbattere, sino da venti anni, tutte le case pittoresche e sporchissime dell'antico rione santa Lucia, case che, oh ironia, si vanno abbattendo solo da un anno, e si era preoccupati dove si sarebbero allogati quei pescatori di polipi, quelle venditrici di acqua sulfurea, quegli intrecciatori di nasse, quei sommozzatori o palombari, si pensò e si costruì, sulla lingua di terra che parte dalla sinistra, di Castel dell'Uovo, un gruppo di casette a un piano, sulla riva del mare. Costavano, costano diciotto lire, una stanzetta con la cucina, e ventisette lire due stanzette con la cucina. Irrisione! Nonsenso! Non vi è pescatore, non vi è palombaro, non vi è barcaiuolo di santa Lucia che guadagni più di venticinque o trenta soldi al giorno e volete che ne spenda diciassette soldi, al giorno, solo per la casa? Non vi è venditrice di acqua minerale, di noci, di frutta fracide, di ciambellette, di spassatiempo che guadagni, quando li guadagna, più di dodici o quindici soldi al giorno e, se è sola, se è vedova, se è abbandonata dal marito, come potrebbe pagarne diciassette, al giorno, per il pigione di casa? In breve: come era naturale, non un solo luciano , non una sola luciana è andata ad abitare al Borgo Marinai. Non uno, una! Hanno preferito, ostinatamente, le loro vecchie, dirute, sudicissime case che, per diciotto anni, hanno aspettato il piccone, ove pagavano nove o dieci lire il mese, di pigione - è TUTTO ciò che può pagare il popolo napoletano NOVE o DIECI LIRE il mese! - e negli ultimi due anni, man mano si sono ritirati più indietro, nelle medesime catapecchie, e scacciati dalle demolizioni, sono rientrati, rientrano la notte ad abitare le rovine, e si gittano alle ginocchia dei demolitori, per non essere perseguitati dalle guardie, dai carabinieri, e piangono, e gridano, e urlano, non vogliono andar via, non sanno andar via, e alcuni di essi, o pietà grande, abitano, adesso, nelle grotte onde è forato il monte Echia che sovrasta santa Lucia, e talvolta una di queste grotte frana sulle teste, sui corpi di questi miseri luciani che dormono, e li uccide. Intanto dirimpetto, sotto il forte Ovo, il Borgo Marinai scintilla di lumi che si riflettono nelle acque del mare. Chi vi abita, chi vi vive, mai? Pittori che scelsero quei quartini per istudio, poichè il posto è pittoresco; qualche loro modella; delle ballerine o delle chanteuses del vicino cafè chantant dell'Eldorado, che prendono in affitto, per un mese, per quindici giorni, una cameretta con cucina; qualche donnina di facile vita e misera fortuna; e altra minuta gente, non del popolo. In quanto alle botteghe, esse in un vasto angolo, sono tutte trasformate in osterie grandi e piccole, alcune carissime, altre modeste, altre vere taverne e vi si aspira un'aria mefitica di cucine più o meno malsane, e nel piccolo porto cadono tutti i detriti di queste taverne e ciò contrista, affligge, avvilisce i due eleganti clubs dei canottieri che sono sulla riva accanto. A ogni modo il Borgo Marinai è vivido, lieto, curioso: e inutile, infine, anche al santo scopo a cui serviva. I luciani sono d'altra parte respinti di stamberga in stamberga, respinti di rovina in rovina, di grotta in grotta. E dopo, quando tutto, tutto sarà demolito dove andranno questi superbi ma poverissimi popolani, quelle fiere, ma miserissime popolane dove andranno? Lo sa Iddio! Anche le case del popolo costruite all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale hanno fallito completamente la meta. Il minor prezzo di ognuno di questi quartini, è ventisette lire il mese; si domandano due mesate anticipate, per regolamento, cioè cinquantaquattro lire: o si domanda un garante solido. Anzi tutto, dove è mai un vero popolano che possa pagare ventisette lire il mese, di pigione? Per poter cavare questa somma, un napoletano del popolo deve guadagnare almeno due lire e cinquanta al giorno, o tre lire: e allora, qui da noi, non è più un popolano, è già un operaio, ma di quelli fortunatissimi, di opera eletta, diciamo così: è già un civile, è già appartenente alla piccola borghesia. Dove, dove è il popolano che disponga, mai, nella sua vita di cinquantaquattro lire tutte insieme? Dove, dove è il popolano che trovi un garante solido? Ah che nessuno, nessuno si convince che qui, il popolo nostro, vive di soldi e non vive di lire, che gitta la sua gioventù, la sua salute e la sua forza in fatiche compensate irrisoriamente, felice, anche, di trovarla, questa fatica; che, per istinto, poichè nessuno pensò a educarlo, preferisce spendere i suoi soldi più nel mangiare, che nell'aver una casa e delle vesti e che quando ha venti soldi, quindici, almeno, gli servono pel suo pranzo e il resto, pel resto! Ventisette lire il mese! Cinquantaquattro lire di anticipo! Un garante solido! Quale ironia insultante! Nelle case del popolo, all'Arenaccia, nel Quartiere Orientale non abitano, dunque, che gli operai eleganti, diciamo così, e tutta la piccola borghesia, piccoli impiegati, commessi, contabili, uscieri, scritturali e, persino, dei cancellieri di tribunale: non abitano che tutti coloro, il cui bilancio familiare fluttua da settantacinque lire a cento lire il mese, posizione, già molto brillante, in questo nostro paese. Borghesia, borghesia minuta, modesta, innumerevole come le stelle del cielo e le arene del mare, borghesia lavoratrice, onesta, ma, come si vede, molto povera, per la sua condizione: borghesia, non altro che borghesia, nelle case del popolo, ma niente popolo, mai! Vi è di più. Spesso, a questi operai fortunati, a questi oscuri borghesi dalla decente miseria, è impossibile pagare ventisette lire al mese, perchè vi sono spesso, cioè, non spesso, sempre, dei figli, e spesso, quasi sempre molti figli, poichè la fecondità femminile, la prolificazione, sovra tutto in certe classi, assume proporzioni assai patriarcali, ma, anche, terrificanti. E allora si trova il rimedio peggiore e migliore; sono due le famiglie che prendono in affitto la casa di ventisette lire, stringendosi, stringendosi, mettendosi in tre, in quattro in una stanza, avendo la piccola cucina comune e allora, addio aria, addio luce, addio igiene! Spesso una famiglia subaffitta una camera a studenti, a uomini soli e la vita è comune e tanto nel primo, come nel secondo caso l'agglomerazione, i contatti, il vivere gli uni sugli altri, conduce, novellamente, alla sporcizia, alla malattia, al vizio, alla corruzione e alla depravazione. In quei nuovi caravanserragli, laggiù, laggiù, in questi caravanserragli già tutti deturpati, dall'aspetto già sconquassato, dalle macchie di sudiceria trapelanti dai muri, dai vetri già appannati e dalle cui finestre, come nei quartieri antichi, pendono le biancherie di dubbio colore, mal lavate, e i mazzi di pomidoro e i mazzi di agli, in questi derisorii caravanserragli che dovevano servire alla rigenerazione fisica e morale del popolo napoletano, si svolgono, ogni giorno, drammi dolorosi venuti, appunto, dalla povertà e dalla degenerazione, si svolgono farse grottesche e si vive colà, male, malissimo, come si viveva altrove, e per una folla che, per abnegazione, per virtù naturale, per onestà natia conserva la decenza dei costumi, ve ne è un'altra che ha trasportato, colà, tutti i suoi istinti indomabili, indomati, che niuno ha cercato di domare, che ha impiantato, colà, una novella vita brulicante e scostumata come nei vecchi quartieri, che, infine, se pure non ruba, se pure non assassina, altri essendo i covi e le caverne del ladri e degli assassini, mette, accanto alla folla borghese e decente, una nota di più bassa borghesia, indecente, rumorosa, screanzata, villana, repugnante. Non popolo, non popolo! Il popolo napoletano è restato nei suoi bassi dei vecchi quartieri, nei suoi bassi dei quartieri non risanati, nei bassi purtroppo, del Vasto, dell'Arenaccia, del Quartiere Orientale; non è mai salito, in nessun posto, di Napoli antica, di Napoli nuova, al primo piano o all'ultimo piano, perchè non può pagare i prezzi, anche minimi che vi si pagano, perchè chi ha costruite quelle case non sapeva niente, ignorava tutto e, intanto, ha fatto una ottima speculazione, poichè tutte quelle case sono affittate, come ho detto; ma lo ripeto, e lo ripeterò sempre, il popolo napoletano non si è mosso dal suo basso , dovunque il basso si trovi, sia una bottega quasi pulita o sia un buco oscuro e insalubre Così, purtroppo, tutte le grandi idee dei grandi uomini, tutti i vasti progetti, a base di milioni, tutte le intraprese colossali, che volevano il risanamento igienico e morale di Napoli, bisogna dirlo hanno fatto fiasco. E non vi è rimedio, dunque? Non vi è altro da fare? Nulla, proprio, di fronte a tante tristezze, a tanti disastri, a tanti pericoli sociali? Chi sa! Vedremo!