Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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D'Ambra, Lucio

220524
Il Re, le Torri, gli Alfieri 3 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Tra molti difetti comuni con la maggior parte dei miei simili io ho anche alcune qualità abbastanza originali: sono, per esempio, riconoscente. Così, ritornato a casa dalla mia fortunata e sfortunata ambasceria, una breve meditazione mi persuase che, se Manon Manette mi aveva deliziosamente sdebitato verso di lei riprendendo dalle mie mani il prezioso pendentif che aveva respinto dalle mani del principe, mi rimaneva tuttavia un obbligo verso Sua Altezza: quello di non permettere che il pendentif in questione fosse per me solo il modo di apprezzare nella più graziosa intimità i fascini delle attrici francesi e repubblicane. Non era forse soverchiamente esagerato pretendere che servisse almeno a iniziare in questi galanti studii etnici di usi e costumi, oltre che me, anche Sua Altezza. Non mi feci vedere a palazzo quella sera, ma, appena pranzato, ritornai al teatro dove Manon Manette dava, furoreggiando, la sua seconda rappresentazione. Gli scrittori francesi che si preoccupano sempre di fare le loro pieces adatte meticolosamente ai bisogni e alle specialità delle loro interpreti cercano anche, quando possono, di dar loro durante la commedia il riposo di un mezzo atto per permettere a queste graziose dive di ricevere senza troppa fretta nei loro camerini ammiratori ed amici. Lo scrittore parigino di cui quella sera Manon Manette esponeva d'innanzi a tutto lo snobismo intellettuale di Pulquerrima l'ultimo, arguto article de Paris era stato addirittura cortesissimo verso la sua interprete e per un atto intero della sua commedia, il secondo, l'aveva lasciata tranquillamente tra le quinte. Ebbi così la fortuna di trovare Manon Manette nel suo camerino, intenta a cercar di capire in qual modo, nella lingua di Fantasia, i giornali pulquerrimesi della sera rendessero omaggio alla sua grazia e al suo talento. Mi accolse come può accogliere un uomo una donna che ieri non lo conosceva, che oggi non ha avuto più segreti per lui e che considera tutto questo come la cosa più naturale e più indifferente del mondo. Mi chiese sùbito, però, in qual modo Sua Altezza aveva appreso la notizia del suo primo fiasco galante, capitatogli proprio dove e quando meno se l'aspettava. E raccontai lungamente una scena immaginaria, quasi drammatica, certo assai commovente: il principe desolato, furibondo all'idea che ella avesse potuto prestargli l'intenzione di offenderla, pazzo di desiderio e d'amore, pronto a qualsiasi sacrificio, inviperito contro di me cui affibbiava ogni responsabilita affermando che solo il poco tatto messo da me nelle mie parole aveva potuto costituire per Manon Manette un'offesa, Manon Manette si divertiva un mondo mentre io le riassumevo con un volto da funerale questo vario e diverso elemento drammatico insinuatosi a un tratto nella frivola commedia che tutti e tre recitavamo dalla sera prima. Ebbi un bel dire che io ero in una posizione indiavolatamente difficile, che rischiavo di perdere per una sciocchezza e per un puntiglio l'amicizia e la fiducia del principe e che alla fin dei conti io ci facevo una pessima figura. Non riuscii assolutamente a nulla. Capitarono anche in camerino due giornalisti pulquerrimesi che venivano a portage all'attrice francese l'approvazione dell'alta critica dopo l'omaggio del pubblico. Non stentai ad osservare che Manon Manette è come tutte le attrici e tutti gli attori del mondo: la vista di uno scrittore di gazzette basta a sconvolgerla tutta. E per lei, come per le altre, tutt'e due erano la stessa cosa. Uno dei due critici in parola era uno dei maggiori commediografi e dei più illustri scrittori della letteratura contemporanea di Fantasia. L'altro era un povero avvocatino, senza grammatica e senza senso comune, capitato non si sa perchè a scriver di critica, e che, dopo ogni première, mendicava una opinione da un amico e una frase fatta da un giornale per scrivere certi articoletti che facevano l'indomani l'inesauribile sorgente d'ilarità di tutte le sale di redazione. Manon Manette accolse entrambi con le stesse manifestazioni di deferenza e d'ammirazione. Per le attrici non importa il giornale, non importa la mano che scrive, importa solo l'aggettivo. S'inebriano dell'aggettivo anche se l'han pagato di tasca loro. È un tratto di carattere che hanno in comune con i ministri. Poichè non ho mai amato troppo le conversazioni in tre o in quattro, appena potei farlo decentemente lasciai i due critici, quello sul serio e quello per ridere, sotto l'inebriante fuoco di fila degli occhi bistrati di Manon Manette. Ma la graziosa donna, sempre presente a sè stessa, non trascurò per amor dell'arte l'arte dell' amore, e, raggiuntomi su la porta del suo camerino, mi ordinò senza discutere di venirla a prendere dopo la recita: «Je ne peux pas lâcher mes deux aristarques: mais nous souperons ensemble». E, difatti, dopo finita Ia commedia, tornando in palcoscenico, trovai Manon Manette già pronta, chè non aveva fatto che gettare un mantello su la toilette scollava del terzo atto. Vidi in questo una notevole differenza tra le attrici francesi e quelle di Fantasia: queste appena finito di recitare si tolgono le toilettes di prezzo per non sciuparle: quelle cominciano appunto allora a consumarle. Più abile, l'attrice francese sa che sciupare una toilette è il miglior modo per procurarsene una nuova. Non racconto qui, immodestamente, le mie avventure. Mi sia quindi permesso di sorvolare, abbassando un pudico velo, su la cena con Manon Manette e su le tenere manifestazioni che la seguirono. Ma non posso tacere che la mia riconoscenza verso Sua Altezza fu letteralmente raddoppiata, tanto che vedendo il pendentif che Manon Manette aveva ancora intorno al collo sentii che non era possibile lasciarvelo più oltre. Spiegai a Manon Manette i miei sentimenti e i miei scrupoli e tentai ancora una volta di muoverla a pietà verso Sua Altezza. Presi allora il mio coraggio a due mani, e non solo il mio coraggio ma anche il pendentif, che slacciai dal collo palpitante della graziosa attrice. E, poichè Manon manifestava la sua meraviglia nel vedermi riprendere ciò che ella poche ore prima si era spontaneamente regalato, dovetti spiegarle che quel pendentif non aveva per una donna come lei altro valore che quello d'un attestato di riconoscenza e d'un affettuoso ricordo e che era perciò assai strano, per non dir peggio, che io manifestassi tutti questi nobili sentimenti con un gioiello che non era mio. Anch'ella doveva del resto trovare assai strano d'aver al collo un attestato di riconoscenza di Sua Altezza che non le doveva nulla e un ricordo di Sua Altezza con cui ella non aveva ancora scambiato una parola. La rituazione era complicata e delicata; ma assicurai Manon Manette che avrei saputo risolverla l'indomani. Si trattava semplicemente d'annodare intorno al suo collo un gioiello che fosse veramente un attestato della mia personale riconoscenza e un ricordo del piacevole modo in cui avevamo occupato le ore di una siesta dopo colazione e d'una siesta dopo cena. Superata così ogni difficoltà ero sul punto di riporre nella tasca posteriore della mia marsina il gioiello di Sua Altezza quando l'imminente scomparsa del pendentif ebbe un effetto immediato e imprevedibile sul quale avevo avuto l'ingenuità di non contare. E, riprendendo con dolce violenza dalle mie mani il gioiello di Sua Altezza, Manon Manette dichiarò che avrebbe accettato assai volentieri il ricordo che avevo avuto la cortesia di offrirle, ma che era assai più corretto, a suo parere, che il pendentif fosse stato restituito a Sua Altezza, l'indomani, da lei in persona. Così fu stabilito. E l'indomani, a palazzo, quando ricevetti Manon Manette e la introdussi nel salotto privato di Sua Altezza, potei sùbito osservare che Manon Manette aveva addosso tutti e due i gioielli, quello di Sua Altezza ed il mio. Ero adesso meno ingenuo della sera prima, tanto è vero che nella mattinata, mandandole al Suprême Hôtel il promesso ricordo, avevo scelto invece del pendentif un braccialetto. Era perfettamente stupido e superfluo attestare nello stesso modo la riconoscenza anticipata di Sua Altezza e la mia riconoscenza posticipata. Appena fatte le presentazioni di Manon Manette a Sua Altezza e di Sua Altezza a Manon Manette mi ritrassi immediatamente, col pudore riguardoso d'un cameriere di albergo che ha accompagnato nella stanza a loro destinata due giovani sposi appena arrivati e impazienti di mormorare alla loro volta il leggendario: Enfin seuls! Ebbi appena il tempo di ammirare, richiudendo la porta, il profondo inchino con cui la bella atirice repubblicana dimostrava a Sua Altezza che per un'autentica repubblicana il figliuolo di Sua Maestà il Re di Fantasia rappresenterà sempre qualche cosa di più suggestivo del figliuolo, mettiamo, del signor Poincaré. Ed ebbi appena il tempo di vedere dal volto e dagli occhi di Sua Altezza che il privilegiato rampollo d'una vecchia monarchia come quella di Fantasia ha le idee cosi larghe da non temere il berretto frigio, sopra tutto quando questo gli appare sul capo della piu deliziosa donnina che mai si possa immaginare. E su questo, ahimè, avrebbe dovuto calare il sipario. Ma fortunatamente il mio regale amico, eroe di commedia modernissima, aveva in comune coi più illustri eroi delle tragedie classiche l'irresistibile bisogno di un confidente. Non dovetti quindi che aspettare l'ora del pranzo per ricostruire attraverso il dire e il non dire di Sua Altezza la scena cui non m'era per decenza stato concesso d'assistere e per ricostruirla così come adesso la consegno alle pagine di questi annali veridici e modesti. Sorvolo su le prime formalità che non hanno alcun interesse. Compiute queste, Sua Altezza, che aveva offerto a Manon Manette l'esposizione dei suoi medaglieri e una tazza di tè, riservò il tè per più tardi e diede sùbito mano alle manovre d'approccio per cui le pesanti custodie che racchiudevano le preziose medaglie offrivano una meravigliosa piattaforma. Le custodie erano già pronto in bell'ordine su una grande tavola e, aprendole l'una dopo l'altra, Sua Altezza cominciò sùbito un nutritissimo corso di numismatica. Solo quando la sua testa poteva, senza aver l'aria di nulla, avvicinarsi a quella di Manon Manette inchinata e intenta ad ammirare qualche medaglia di maggior pregio, Sua Altezza osava arrischiare i primi tentativi per passare ad altro discorso. Ma questi tentativi non erano affatto incoraggiati dall'attrice che, impassibile, continuava ad esaminar le medaglie, ad una ad una, quasi che non fosse venuta che per questo. Sua Altezza, intimidita, non osò quindi bruciare i suoi vascelli che all'ultimo momento, quando cioè aprì la custodia che racchiudeva i più incliti esemplari, i famosi Pisanello oramai cosi popolari fra le signore dell'alta società pulquerrimese. Manon Manette che, prima di rappresentarlo, aveva letto Bourget, non sapeva bene chi fosse quell'incisore, ma sapeva che era di quelli da considerare, per far buona figura, coi segni del maggiore rispetto. Terminate quindi le più svariate esclamazioni del suo vocabolario, prese in mano una medaglia e cominciò a guardarla con quello sguardo attento e indifferente delle persone che sanno di dover ammirare un oggetto che non desta in loro nessuna ammirazione. E siccome non v'ha ammirazione calorosa che non sia prolungala Manon Manette tenne così a lungo nella sua mano sinistra il Pisanello depostovi da Sua Altezza che il principe ebbe il tempo di vincere la sua timidezza e di prendere la mano della bella attrice per portarla alle sue labbra e baciarla. Ma la bella attrice si ritrasse immediatamente, con gli occhi bassi, il volto acceso, e mormorando a guisa di protesta un «Oh, Altesse!» che, secondo l'impressione der mio regale amico, valeva un Perù. Sua Altezza attribuiva evidentemente tanto valore a quella dignitosa ritirata solo perchè il Perù non era roba sua, ma è certo che l'atteggiamento dell'attrice indusse Sua Altezza a una prudente riserva che si prolungò durante altri dieci minuti occupati da una fittisima conversazione su autori francesi e commedie parigine. Un romanziere non si farebbe sfuggire l'occasione di descrivere in tutti i suoi particolari la lunga scena durante la quale Sua Altezza cercò le vie per ottenere quello che Manon Manette sembrava non avere alcuna intenzione d'accordare. Come i più prudenti guerrieri, Sua Altezza temporeggiava. Io mi sono imposto di non sviluppare tutto quello che mi basta indicare e perciò devo omettere il racconto di tutti questi temporeggiamenti che fecero perdere a Sua Altezza e a Manon Manette molto tempo, tutt'il tempo necessario per far giungere, inaspettata, la visita della duchessa di Frondosa. L'annunzio della visita era stato, a bassa voce, comunicato a Sua Alteza, la quale, immediatamente, trovandosi in una situazione difficile, fece chiamare me per sbrogliarla. Quando entrai nel salotto, trovai il principe con gli occhi fuori della testa e Manon Manette che ci guardava un po' spaurita senza capire bene se si trattava di un attentato anarchico preparato contro Sua Altezza o se Sua Altezza era stata improvvisamente colpita da un furioso attacco di mal di denti.... Traendomi in disparte, il mio regale amico mi mise sùbito al corrente di quanto avveniva. Era proprio nato, poverino, sotto una cattiva stella e il destino avverso si divertiva a giuocare con lui: dopo essersi fatta attendere per tanto tempo invano, la duchessa di Frondosa, vinta finalmente dal fuoco dell'inestinguibile amore di lui, si decideva a venire e ad arrendersi. Ma quando? Proprio quando Sua Altezza si trovava su le braccia un'altra donna che non poteva tenere nè poteva mandar via, così, su due piedi, quando appena una parte dei programma era stata espletata. Con decisione fulminea spiegai al principe ch'egli non poteva fare altro che o rinunziare alla duchessa di Frondosa o mettere Marion Manette di là, con me, nella biblioteca, col pretesto di un'udienza di somma importanza che Sua Altezza doveva immediatamente concedere, costretto a interrompere una così piacevole conversazione, la quale sarebbe stata, appena libero il principe, ripresa. Fu attribuita a Sua Altezza Reale il Principe Leopoldo, zio di Sua Altezza, e che in quel momento tagliava certamente il suo banco pomeridiano di baccarat in un club parigino, la parte antipatica d'arrivare nel momento più inopportuno che si possa immaginare. Con molte scuse Manon Manette fu affidata momentaneamente alle mie cure, e l'eccellente figliuola invitò Sua Altezza a discutere con calma gli affari di Stato che reclamavano la sua attenzione poichè ella non aveva fretta ed avrebbe passato piacevolmente il tempo con me che ero un suo vecchissimo amico di ventiquattro ore. Inutile dire che il principe era fuori di sè dall'ansia e dalla gioia e che fremeva nella impazienza di vederci uscire dalla porta di destra per potere aprire sùbito quella di sinistra accogliere finalmente la tanto bramata preda che veniva a gettarglisi, viva, fra le braccia. Almeno cosi credeva. Gli avvenimenti non tardarono a deluderlo. Non ascoltai dietro la porta per tre ragioni: perchè ascoltare alle porte non è nelle mie abitudini; perchè questo è un sistema troppo comodo di cui si abusa solo nelle commedie; e particolarmente poi perchè le porte massicce del gabinetto del principe erano ovattate e non permettevano il passaggio di nessun rumore. E c'era anche questo: ero persuaso fermamente che la virtù della duchessa non correva nessun pericolo e che se ella, accogliendo, per non aver l'aria d'aver paura, l'insistente preghiera di Sua Altezza, s'era decisa a venire ad ammirare i Pisanello, doveva essere incrollabilmente risoluta a non interessarsi assolutamente di altro. La duchessa di Frondosa è come suo marito: non cambia le sue idee. S'è affezionata anche lei all'idea di essere una donna per bene. Prima ancora che questa mia persuasione mi fosse confermata, la sera, dalle confidenze di Sua Altezza, ebbi la prova che una volta di più non mi ero ingannato quando, venti minuti dopo, la mia conversazione con Manette fu interrotta da una porta che s'apriva e dalla voce nervosa di Sua Altezza che invitava f'attrice a raggiungerlo. Decisamente, anche se un giorno la virtù della duchessa di Frondosa avesse dovuto arrendersi, la difficile resa non sarebbe avvenuta in venti minuti. Quando uno è abituato a difendersi, si difende fino all'ultimo anche quando sa di dover perdere. Le buoni abitudini non sono, meno delle cattive, difficili a sradicarsi. La sera, l'ho detto, Sua Altezza mi raccontò quanto era avvenuto. Tutte le speranze erano di nuovo sfiorite. La visita della duchessa di Frandosa non era stata che una sfida, una spavalderia, e, per dir tutto, una maledetta presa in giro. E, quel che è peggio, la duchessa era stata più che mai prodiga di civetterie. Se fino a quel giorno il suo contegno si era contentato d'aprire uno spiraglio alla speranza, quel giorno l'indiavolata civetteria della duchessa aveva addirittura spalancato le finestre. E quando Sua Altezza s'era creduta autorizzata ad affacciarsi, le finestre gli erano state chiuse violentemente sul muso. Ne aveva ancora naso ed orgoglio ammaccati. E, su mia richiesta, Sua Altezza narrò succintamente anche la scena finale dopo l'uscita brusca della duchessa Isabella e il brusco richiamo di Manon Manette: — Si figuri! Si figuri il mio stato! — mi disse Sua Altezza. — Avevo tanto bisogno di sfogarmi.... Dopo avermi permesso tante speranze la duchessa m'aveva così inaspettatamente lasciato a mani vuote ch'era una vera fortuna trovar lì Manette a portata di mano. Ma lei, caro d'Aprè, le aveva fatto troppo bene la lezione. Aveva ricominciato come nella prima parte della sua visita a far la ritrosa, a sfuggirmi, a farsi pregare.... Oh, ma, le ho parlato chiaro, amico mio.... Non era più quello momento da sospiri..... «Cara mia, le ho detto, intendiamoci, ora basta, non resistete più oltre. So che lo fate per farmi piacere. Ma non insistete, vi prego.» — E Manette? — Ha gridato Vive le Roi e ha mandato per aria il berretto frigio. E, col berretto frigio, tutto il resto.... È andata avanti senza suggeritore. Se lei sapesse: recita a meraviglia.... Lo sapevo.

So benissimo che don Pedro de Aldana, se campa ancora abbastanza, finirà col dovermi una bella sera accompagnare alla frontiera. Ma a me poco importa. I miei capitali sono fuori di Fantasia, a Londra, a Roma, a Parigi. Con un po' di denaro, un po' di salute e un po' di buonumore si vive bene da per tutto, re o non re. Senza don Pedro dovrei lottare, aver partiti, essere con questo o con quello, vivere giorno per giorno una battagiia politica. Don Pedro invece addormenta tutto. Suggerisce dei sogni e poi fa sognare: è un ministro oppiaceo. E intanto dorme anche lui con le mani sul ventre e dormo anch'io pacificamente le notti di questi ultimi anni di regno, che, con o senza don Pedro, sarebbero sempre gli ultimi. Chè, oramai, caro d'Aprè, a uno a uno, piu presto o più tardi; siamo destinati a scomparire tutti quanti...» Poiche bisogna ricordare che non v'ha nulla di più repubblicano o almeno nulla di più anti-monarchico d'un re del secolo ventesimo. S'aggiunga che il re nell'intimità del quale ho avuto la fortuna e l'onore di vivere alcuni anni era quanto di piu apolitico si possa imaginare. Spingeva il suo disinteressamento per la politica fino a non leggere neppure, un quarto d'ora prima di recarsi al Congresso dei deputati a pronunziarlo, il discorso della Corona che i suoi ministri gli redigevano periodo per periodo all'apertura d'ogni nuova legislatura. Il discorso ch'egli leggeva ai senatori e ai deputati era cosi completamente nuovo anche per lui; e infatti, a mano a mano che leggeva, non riusciva molte volte a nascondere certi piccoli movimenti nervosi di compiacimento o di dispetto a seconda che le cose che i suoi ministri gli facevano dire e promettere gli piacevano o gli dispiacevano. La sua indifferenza giungeva a tal segno che una volta egli arrivò al Congresso coi foglietti del discorso della Corona nella tasca della sua marsina, ma senza neppure sospettare che, distrattamente, aveva preso quelli del discorso pronunziato sei mesi prima all'apertura di un'altra nuova legislatura. Era un discorso pieno di brillanti promesse e di oculate riforme, col quale sei mesi prima il governo di don Pedro de Aldana aveva tracciato il vasto programma dei lavori parlamentari ad un Congresso che, invece di mettersi a lavorare senza perdere tempo, s'era dato sùbito a far tanto chiasso che don Pedro aveva dovuto rimandarlo a riposarsi a casa dopo un semestre d'ostruzionismo, di chiassate infernali, di urne infrante, di vetri spezzati e di canzoni rivoluzionarie intonate con bellissime voci tenorili e baritonali sui banchi dell'Estrema Sinistra. Ed è d'innanzi al nuovo Congresso che aveva seguìto, tre mesi dopo, lo scioglimento di quel Congresso di sbarazzini, che Sua Maestà aveva cominciato a leggere con bella foga oratoria il vecchio discorso preso distrattamente invece del nuovo. È vero che Sua Maestà s'occupava poco di politica, ma aveva però una memoria di ferro e, detta una volta una sciocchezza, non la dimenticava più. Riconobbe quindi presto il discorso di sei mesi prima. Ebbe un breve momento di timor panico, ma poi andò avanti risolutamente sino alla fine, attendendo da un momento all'altro — mi raccontò egli dopo - che il Congresso rumoreggiasse o commentasse clamorosamente la scandalosa distrazione del sovrano. E, giunto senza inconvenienti alla fine del vecchio discorso, Sua Maestà, che aveva anche, dopo tutto, molto spirito, si credette in obbligo d'osservare che il Congresso doveva avere riconosciuto, nel discorso da lui letto pochi minuti prima, il discorso della legislatura precedente, al quale non era stata mutata neppure una virgola, e di dichiarare ai deputati che il suo Governo aveva preferito non redigere un nuovo discorso, poichè il vecchio Congresso disciolto dopo soli sei mesi di vita infeconda aveva lasciato al nuovo l'ereredità del vasto programma riformatore contenuto in quel precedente discorso. Sua Maestà, dopo questa trovata, ebbe la sorpresa di vedere che il Congresso cadeva dalle nuvole udendo le sue parole: nessuno aveva riconosciuto il discorso, poichè a Fantasia ed altrove breve è la fama delle più illustri orazioni regali. E dalle nuvole cadde anche più precipitosamente Sua Maestà il giorno dopo, quando dovette riconoscere una volta di più che se egli era un sovrano di spirito era però un monarca costituzionale che non capiva un'acca di politica e ancor meno, se possibile, di politica parlamentare. Tanto è vero che, proprio quando egli credeva d'avere accomodato con spirito una sua distrazione, commetteva una gaffe piramidale: quella di pretendere che un uomo politico al Governo mantenga fede almeno per sei mesi alle sue idee e al suo programma. Il primo discorso conteneva il programma del primo ministero Aldana; e Sua Maestà non previde il più piccolo inconveniente nel fare di quel discorso la bandiera del Ministero nuovo, poichè questo era ancora presieduto da don Pedro de Aldana, presidente inamovibile. Ma gli inconvenienti li vide invece il Congresso che il giorno dopo mandò, sotto una grandinata di palle nere, quel povero don Pedro ad imparare a casa sua quello che del resto egli sapeva benissimo: e cioè che bisogna, almeno ogni tre mesi, cambiar d'idee quando si vuole, ogni sei, cambiare partito. Sua Maestà, che voleva decisamente andare alla frontiera al più presto possibile, mandò don Pedro al Congresso per la terza volta, con un terzo Ministero. L'inevitabile presidente del Consiglio redasse un discorso à succès con le idee più fresche che avevano corso in quelle settimane su pei banchi della maggioranza. E, ringraziando Iddio che non si trattasse questa volta di un discorso della Corona, il discorso al Congresso andò a leggerselo lui stesso. Sua Maestà, commentando con me quegli avvenimenti la sera del giorno in cui al Congresso don Pedro de Aldana, scacciato come un cane il giorno prima, aveva raccolto l'unanimità più uno, concluse che decisamente. la politica non era fatta per lui e che la sua più irresistibile vocazione di re e di uomo era incontrastabilmente ed esclusivamente quella di fare all'amore. E l'amore infatti, continuava ad occupare tutte le sue ore libere che, contrariamente a quello che si crede, non sono poi molte per un povero diavolo che deve fare, almeno facendosi vedere, il duro mestiere di re. Il mio regale amico continuava come prima ad occuparsi sempre più delle dame della Regina che della Regina stessa. La povera piccola Regina, giallina, magrolina e silenziosa, si occupava della malferma salute e non compariva in pubblico se non alle cerimonie ufficiali e con un'aria di malinconia che faceva venir voglia di piangere su l'inclemenza del suo lacrimevole destino. La duchessa di Frondosa continuava ad essere l'indomabile passione di Sua Maestà, che, dopo avere avute, senza amarle, tutte le care donne che desiderava — care nel senso affettivo — non poteva logicamente innamorarsi come un pazzo se non di quella che ad ogni costo non voleva saperne di lui e che continuava tranquillamente, con la sua bella sanità morale di donna bene equilibrata e di signora veramente per bene, a infischiarsene della corte spietata e disperata del Re, come si era infischiata prima delle galanterie esuberanti del principe ereditario. Come tutti gli uomini — e come tutte le donne — che hanno qualche ora da buttar via inutilmente, il mio regale amico cercava adesso, nella lettura dei romanzi, un conforto alle sue pene di cuore. Leggeva i più romanzeschi e i più avventurosi. Continuava a considerarmi come l'indicatore ufficiale per le sue letture, e prima d'aprire un romanzo mi domandava se conteneva passioni esaltate e febbrili, storie di ratti e fughe, ogni specie insomnia di violenze d'amore. E, mentre divorava questi libri che lo eccitavano sempre di più, si teneva sempre vicina a Corte la duchessa Isabella. Aspettava con impazienza febbrile il mese in cui il duca e la duchessa di Frondosa erano di servizio. E non si contentava del servizio normale, ma studiava e trovava mille indiavolati pretesti per ridurre quella povera duchessa a fare anche degli extra. Ma la duchessa intanto, pur avendo l'aria di capire benissimo tutte quelle complicate manovre, non lasciava mai di sorridere nella sua serena invulnerabilità. Da parte sua il duca, con quella sua faccia impassibile, continuava ad aver l'aria di non vedere nè che sua moglie sorrideva, nè che il re si struggeva. E arrivammo così alla sera fatale. Durante tutta la giornata, Sua Maestà era stata più innamorata che mai. Nella mattinata aveva, avuto luogo una partita di caccia, alla quale anche la duchessa Isabella aveva assistito, più bella che mai a cavallo, più affascinante che mai in abito da caccia, più che mai sorridente e serena e tranquilla e sicura di sè. Dopo colazione avevo veduto il re parlare a lungo nervosamente; torcendosi i baffetti, muovendosi continuaniente su le gambe come se avesse l'argento vivo addosso o un esercito di formiche all'assalto su pei regali polpacci. Lo guardavo da lontano, fumando in compagnia del duca di Frondosa, il quale aveva cura di dirigere il luccichìo della sua caramella sempre dal lato opposto a quello ove passeggiavano Sua Maestà e la duchessa. Don Alvaro mi parlava di politica estera: è la sua fissazione da quando il suo carattere impetuoso ed impulsivo sollevò i tre famosi incidenti diplomatici e lo fece richiamare indisponibilmente a disposizione del Ministero. Io ero segretario alla Legazione di Lisbona quand'egli v'era ministro plenipotenziario. Io lo sostituii durante alcune settimane in cui non aveva saputo resistere ai fascini della season londinese. E poichè, a differenza da quando c'era lui, non avvenne il più insignificante incidente in quei ventun giorni — cosa veramente incredibile in quel gaio paese — il duca aveva preso a considerarmi come un diplomatico di primissimo ordine e a parlarmi di politica, ogni volta che m'incontrava, per avere da me dei lumi su la situazione internazionale che a lui sembrava sempre, invariabilmente, oltremodo oscura. Quella sera pranzavo dai Frondosa. Prima di pranzo, andai a palazzo a bere la consueta tazza di tè col mio regale amico, che trovai in uno stato di esaltazione indicibile. «Anche oggi, mi disse appena mi vide, anche oggi quella donno mi ha respinto. E la sola che mi resiste ed è la sola che adoro. Si ricorda, lei, il famoso scacchiere galante? Tutte le pedine, tutte le torri hanno ceduto al re, tutti gli alfieri si sono cortesemente fatti da parte per lasciarmi liberamente scorazzare. Ero giunto alla sazietà, lei lo sa, al disgusto di queste avventure troppo facili. Non avevo che da levare un dito.... Ma questa volta non un dito solo ho levato, ma ne ho levati dieci, e niente!... E una cosa che mi fa impazzire.... Lo sa lei, lo sa lei che io me ne infischio d'essere re se devo trovarmi davanti una torre che non posso mangiare?» E continuò a sfogarsi a lungo, in modo che mi sentivo davvero intenerire il cuore; e lo avrei una volta di più volentieri aiutato, senza tanti scrupoli, se mai fosse stato possibile di farlo. Quando mi levai per andarmi a vestire mi disse: «Ah, già, lei pranza stasera, dai Frondosa... Come le invidio di poterla vedere per tutta una serata.... Le darei la mia corona per il suo posto a tavola!» Non ebbi molta fatica a persuaderlo che questa forma di commercio delle corone regnanti non e ancora entrata nel protocollo mondano, e mi avviai con indifferenza verso quel pranzo per il quale il mio regale amico avrebbe barattato il su regno. Il che non mi sembrava, del resto, un'esagerazione. Se un suo famoso predecessore aveva offerto il suo regno per un cavallo, egli poteva benissimo offrire il suo per un pranzo, dato il deprezzamento contemporaneo del mestiere di re, e la poca solidità, oramai, della carriera. Sedendomi poco più tardi, con l'indifferenza di un uomo che vive a regime e ch'è bevitore di acqua, alla tavola da pranzo di casa Frondosa, non sospettavo neppur lontanamente di sedermi invece in una comoda poltrona per assistere alla più comica commedia che abbia mai veduta fuori di quelle del teatro le quali raccolgono, come sapete, in una sola d'un solo autore dieci commedie di altri autori perchè gli autori drammatici hanno memoria di ferro e, sentita una volta una scena, non se la dimenticano più. Era pranzo d'intimi, quella sera. Si doveva pranzare e poi accompagnare la duchessa all'Opera dove doveva aver luogo la prima rappresentazione del Boris Godounow di quel grande musicista russo che nel cognome per un paio di povere piccole vocali ha bisogno d'un mezzo squadrone di consonanti. Non eravamo che tre ospiti e i padroni di casa. Il pranzo volgeva alla fine quando il maggiordomo s'avanzò verso di noi, e rispettosamente avvertì che telefonavano da Palazzo, e che Sua Maestà desiderando di venire, a visitare la duchessa di Frondosa quella sera, voleva sapere se la duchessa poteva riceverlo. Guardai sùbito don Alvaro e, per la prima volta, vidi passare un'ombra di fastidio su quel volto impenetrabile e impassibile, mentre, tuttavia, con l'aria più naturale di questo mondo rispondeva al maggiordomo di far dire a Sua Maestà che la duchessa di Frondosa sarebbe stata felicissima di riceverla. Vidi sùbito la serata perduta. Addio, Opera! Addio, grand'uomo dalle troppe consonanti! Non mi disperai per questo, chè le commedie della vita m'interessano sempre più di quelle del teatro, e un presentimento mi avvertiva che, nella commedia dell'amor respinto recitata da Sua Maestà e dalla duchessa di Frondosa, stavamo per arrivare alla scena-madre. E anzi provai, poco più tardi, un vivo disappunto quando vidi che il re, senza tante cerimonie, proprio perchè presentiva che la scena-madre era vicina, licenziava gli spettatori. Ci levavamo infatti appena da tavola quando sentimmo sotto la vôlta del portone il rombo dell'automobile regale che entrava, quella piccola automobile dalle persianette chiuse con cui il mio regale amico s'abbandonava alle sue scappatelle notturne. Ed ecco poco dopo entrare il mio regale amico, irreprensibile nella sua marsina, col suo immancabile garofano rosso all'occhiello. Ed eccolo, appena entrato e scambiati i saluti, dirci che salendo le scale s'era ad un tratto ricordato che quella sera c'era all'Opera la prima rappresentazione del Boris Godounow, ch'era veramente desolato di questa dimenticanza, che chiedeva alla duchessa ed a noi di non privarci per questo d'una première così importante, poichè egli si sarebbe immediatamente ritirato. Vidi sùbito dove voleva andare a finire; e quello che egli desiderava avvenne infatti con la massima precisione. La duchessa, naturalmente, non volle permettere al re di ritirarsi, e questi allora ad insistere perchè al teatro andassimo almeno noi uomini! «Prego questi signori, egli disse, di non fare complimenti. E li prego vivamente di liberarmi, almeno per loro uomini, dal rimorso d'una serata perduta». Era, sotto la preghiera, un ordine, e non c'era che da inchinarsi, tanto più che già Frondosa s'era inchinato per primo ringraziando, già aveva baciato la mano di sua moglie, stretto quella del re e s'era diretto verso la porta. Noi lo seguimmo, io ultimo, con l'aria più mortificata di questo mondo. Proprio sul più bello, ahimè, mi toccava di andarmene. Un regno no perche non l'avevo, ma un anno di vita lo avrei dato certamente volentieri per poter rimanere dietro un paravento. Decisamente c'era una cattiva stella per quella première. Arrivati a teatro, la nostra automobile dovette tornarsene indietro. Il teatro era chiuso, la rappresentazione essendo rimandata per l'indisposizione d'un cantante. Vidi una seconda volta il viso di don Alvaro oscurarsi: un attimo. Eravamo all'ingresso dei palchi di Corte. Frondosa ed io eravamo scesi dall'automobile, e Frondosa domandava se quella sera Sua Maestà il Re avrebbe dovuto venire a teatro. Gli fu risposto di sì e che alle sette di sera era stato telefonato a Corte per avvertire del rinvio della rappresentazione. Mi sforzai di rimanere impassibile perchè don Alvaro non credesse che avevo rilevato la stranezza di queste circostanze. Ma vidi per la terza volta passare un'ombra sul volto del mio antico ministro. Tuttavia questi già risaliva in automobile e, ridendo del contrattempo, ordinava allo chauffeur d'andare al Circolo. Finimmo lì la serata. Cominciammo a giuocare. Frondosa a un pazzo chemin de fer, io a un tavolinetto di modesto, tranquillo e prudente écarté. Poi ci perdemmo di vista. Fui chiamato al telefono. Lessi i giornali. Alle undici già cascavo dal sonno e andai a dormire col rammarico d'uno spettatore che, dopo d'essersi annoiato ai primi due atti, trova le porte chiuse al terzo e non può rientrare in teatro mentre sente le omeriche risate degli spettatori che sono nella sala e che sono giunti finalmente al punto più bello della commedia. Questo spettatore ritardatario si farebbe, nel caso, raccontar la commedia da un amico, all'uscita dal teatro. All'uscita dal teatro io ebbi la fortuna di sentirmela raccontare dallo stesso protagonista. Dormivo già profondamente, a mezzanotte, quando sentii il mio domestico che gridava nel buio della mia stanza, cercando a tastoni la chiavetta della luce elettrica: «Signor marchese.....Sua Maestà! Sua Maestà!» Balzai sul letto, corsi all'idea d'un attentato ed ero per saltare giù, ma la luce elettrica s'era accesa, il domestico era scomparso e Sua Maestà entrava per la prima volta in casa mia, in camera mia, a mezzanotte, quand'io ero costretto a riceverla nella soverchia intimità d'un pijama. Aveva indosso la pelliccia aperta su lo sparato un po' spiegazzato e teneva la guancia sinistra coperta con un fazzoletto. E, dopo poche parole febbrili d'introduzione, mentre io cercavo di completare alla meglio la mia toilette troppo sommaria, mi raccontò quanto segue: — Amico mio, una tragedia! Una vera tragedia! Sono disonorato come re e come uomo! Ho commesso una vera pazzia, indegna d'un gentiluomo, del primo gentiluomo d'un nobile paese come il nostro. Ma la duchessa era cosi bella stasera, così indiavolatamente coquette! Per due ore ho continuato a parlarle d'amore, a dirle le mie pene, a invocare la sua pietà. Non avevo più fiato, non avevo più parole. E lei, niente, dura come un macigno. Quella donna non ha cuore! E, ad un tratto, è avvenuta la cosa terribile. Che vuole che le dica, caro d'Aprè? Ero fuori di me, ero pazzo, avevo la febbre, la volevo ad ogni costo. Mentre lei sorrideva, mentre lei si burlava di me con mezze paroline ch'erano altrettanti schiaffi per la mia vanità di uomo, io la guardavo.... Come era bella! E la mia passione, che durava oramai da tanti anni, non riusciva a piegarla. Mi sentii disperato. Mi tornarono in mente tante letture, tante scene di romanzo, tanti personaggi esaltati, le più drammatiche soluzioni dei drammi d'amore disperati come il mio. E poi, non so neppure io com'è stato. Ad un dato punto ho perduto la testa, una benda m'e caduta su gli occhi e.... Lei era su una larga dormeuse, era deliziosamente scollata, profumata squisitamente, irresistibilmente bella.... Ho sentito che quella donna che adoravo non sarebbe mai stata mia.... Il pensiero che in fondo io ero il re, il signore, il padrone, e che tuttavia quella donna mi respingeva, mi ha anche attraversato il cervello.... Insomma ho pensato cento bestialità e non so neppure più quali. Ricordo solo che a un dato punto mi sono gettato su lei, che l'ho afferrata per le braccia, che l'ho rovesciata indietro, che ho cercato affannosamente la sua bocca, la sua bocca che mi sfuggiva, senza neppure riuscire a raggiungerla.... L'avessi almeno raggiunta una volta sola!... È stata una lotta di trenta secondi, poi un grido di lei, una porta che si apre violentemente. Mi rialzo sùbito. Anche lei si solleva sui cuscini riaccomodandosi i capelli. Su la porta, pallidissimo, è don Alvaro, tornato a casa, forse insospettito dalla mia visita, in quel punto stesso. Sono rimasto al mio posto, inchiodato, esterrefatto. E Frondosa s'è avanzato verso di me. Aveva in mano una cravache presa in anticamera. Io lo guardavo avvicinarmisi, intontito, senza fare un gesto, senz'aver fiato Tier dire una parola. E, a un tratto, a due passi da me, Frondosa ha levato lo scudiscio, l'ha fatto ricadere violentemente sul mio volto, qui, su la guancia sinistra.... Guardi! E scoprì la guancia traversata dal lungo segno rosso del colpo di cravache. — E Vostra Maestà? — chiesi io febbrilmente, mentre il re ricopriva pudicamente col fazzoletto la sua ferita d'amore. — Io? E che potevo fare io? Dica lei. Reagire in casa sua?... Mettermi a fare a pugni come un facchino?... Nulla potevo fare, amico mio. Sembra strano, a prima vista, ma è cosi.... Intanto Frondosa s'era riavvicinato, sempre senza una parola, alla porta e l'aveva spalancata, rimanendo lì presso, per invitarmi ad uscire. Che potevo fare? Mi sono inchinato alla duchessa, sempre seduta, adesso pallidissima anche lei, con gli occhi chiusi, le labbra contratte, e mi sono avviato per uscire. Ho dovuto passare così, col volto segnato; d'innanzi a don Alvaro impassibile.... E avevo la ferita che mi bruciava, che mi bruciava, oh quanto mi bruciava.... Mi bruciava fuori e mi bruciava dentro!... E poi.. Poi ho ritrovata la mia automobile e sono corso da lei.... Durante il racconto Sua Maestà s'era a mano a mano calmata un poco. Adesso s'era levata, s'era tolta la pelliccia e sul mio tavolino da notte aveva preso una sigaretta. Io non sapevo che dire. Ero inebetito dall'ammirazione. La scena-madre superava decisamente ogni mia maggiore aspettativa. — Ebbene, lo crederà? — mi disse allora Sua Maestà accendendo la sigaretta. — Passando innanzi a Frondosa io non ho provato nessun sentimento d'ira o di rancore, nessun desiderio di vendetta.... E vuole che le dica tutto.... giacchè lei è lo specchio della mia coscienza?... Vuole che le dica tutto? Ho provato anzi, addirittura, un sentimento d'ammirazione. Caro d'Aprè, fra tante pedine, tante torri crollanti, tanti alfieri compiacenti, avevo trovato, finalmente, un uomo. — E dopo una pausa. — Tanto che, se non fosse stato per un sentimento di pudore, io gli avrei stretto la mano....

Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

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