Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Risultati per: abbasso

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ARABELLA

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De Marchi, Emilio 9 occorrenze

Con tanta ressa di gente che ingombrava la scala e il portico la povera vecchia Ratta stentò a farsi strada, quando la portarono abbasso nel suo ultimo vestito di legno bianco. Intanto la processione dei preti e dei chierici colla croce, preso in mezzo Lorenzo Maccagno, lo trascinò, rimorchiandolo fin presso le ruote del carro, tenendolo imprigionato in un cerchio di candele accese. I preti cominciarono a brontolare orazioni. Lorenzo, chiuso in mezzo dalle cotte, cercò di salvare il cappello nuovo dalle sgocciolature, e se ne servì come di scudo per difendersi dagli occhi maliziosi della zia Sidonia, che rideva dietro le spalle massiccie del cavalier marito. Nell'andar via cogli occhi da quella tentazione, ne incontrò un'altra, a una finestra del secondo piano, dove la bella Olimpia, ancora spettinata, stava spiando nello spiraglio tra due gelosie. Il brontolamento dei preti rimescolò subito le viscere del cavalier Borrola, libero pensatore e framasson padovan, che non poté trattener anche lui il suo rosario contro il botteghin e il bottegon, contro una razza di mangiapan, che vivono alle spalle dei credenzoni... Il bravo fallito, gonfiando gli occhi, esprimeva questi suoi sentimenti con una voce di moscone irritato, movendo la punta dei baffi come gli indici d'un grosso orologio. Un poco di più avrebbe fatto nascere uno scandalo, se a un tratto la voce stizzosa e chiara del sor Tognino in cima alla scala e lo scalpitare dei cavalli, che menavan via la morta, non avessero sviata l'attenzione dei dolenti per così chiamarli. Una donna, certa Angiolina, ortolana di professione, parente anche lei della defunta, essendo venuta in cognizione che la vecchia Ratta aveva lasciato delle disposizioni a favore dei parenti poveri, sgusciando tra la folla in coda ai becchini, aveva colto il bravo sor Tognino sulla soglia dell'appartamento e pretendeva avere da lui qualche notizia positiva. Il sor Tognino la fermò sull'uscio e cercò mostrarle che non era proprio il momento più opportuno di parlar di affari, per bacco! Le carte erano nelle mani del notaio Baltresca... "Baltresca o Baltrosca..." ribatté la donna, che dalle voci era indotta a creder poco al bravo parente, "vuol dire che ci saremo anche noi." E usando la metafora che in verziere è come un manico d'avorio infilato sopra una lama ordinaria, seguitò, alzando la voce: "Badiamo a non fare il gatto, perché noi ai gatti che allungano troppo lo zampino tagliamo la coda e se non basta la coda tagliamo anche gli orecchi..." Il sor Tognino colse un buon momento e chiuse l'uscio sul muso alla pettegola. Il corteo, infilato l'androne della porta piegò a sinistra e si distese come una vera biscia lungo il corso di Porta Ticinese, verso la parrocchiale di San Lorenzo. Ai cordoni si trovarono, un po' per caso, un po' per accordi presi, Sidonia Maccagno maritata al cavalier Borrola, Celestina maritata a Michele Ratta lattivendolo, Paolina Bianconi maritata a un Maccagno, orefice all'insegna dell'àncora, e Arabella Pianelli, da tre mesi sposa a Lorenzo Maccagno. Casa Maccagno su tutta la linea. Nel via vai delle vetture, dei carri, dei tram, della folla che brulica in quel popoloso quartiere, il funerale si allungò nel piacicchiccio sudicio della strada, dove il fango affogava la neve, passando a sinistra delle antiche colonne romane, che sfidano nella loro marmorea indifferenza l'indifferenza più che marmorea che i cinquemila bottegai della parrocchia dimostrano per la loro classica antichità. La gente si arrestava a guardare un poco, sbadatamente, a questo fatto così comune del morto che passa, che nelle grandi città non suscita più in chi vede se non il fastidio di aspettare che passi. Quindi la folla si rimescola e seguita a scorrere nel declivio dolce e potente della vita. Il sor Tognino aspettò che tutti fossero usciti e, chiuso l'appartamento, tenne dietro al funerale col suo passetto corto e strisciato, mentre andava infilando un paio di guanti di pelle. Raggiunto il corteo si accostò a Lorenzo e gli disse: "Perché hai permesso ad Arabella d'uscire con questo tempo? Non avete proprio nessun giudizio". "Se tu sai persuadere le donne quando si fissano un'idea..." osservò sorridendo il giovine. "Nel suo stato è giusto prudenza uscir di casa e il cacciarsi nella folla!" "Bravo, diglielo..." Il vecchio Maccagno aspettò il momento che la morta stava per entrare in chiesa, chiamò in disparte la nuora, e le disse: "Non voglio che lei resti a prender altro freddo. Dia ascolto a me, torni a casa..." "Mi sento bene..." "Oggi si sente bene e domani potrebbe sentirsi male. Venga con me, abbia pazienza. Passa il tram, torni a casa, e si faccia dare una bell'acqua calda dall'Augusta. E cambi subito le scarpe. Nel suo stato non deve esporsi agli strapazzi." "Obbedirò..." disse Arabella con un leggiero sorriso. "Brava, venga con me." Il suocero tornò dieci passi indietro, fece arrestare un tram, accompagnò la nuora fino al carrozzone, ne pagò il posto, osservando che non fosse sulla corrente dell'aria, e tornò a dire: "Faccia fermare davanti alla porta". E rivoltosi al conduttore, soggiunse: "Fermati in via Torino, alla porta del dentista..." "Lo so" disse il conduttore, salutando il signor Maccagno come persona conosciuta. Il vecchietto seguitò cogli occhi un pezzo la carrozza, e indicando colla mano le scarpe, raccomandò ancora una volta all'Arabella di cambiare le sue appena a casa. Quindi tornò in chiesa, mentre i preti intonavano il "Beati mortui", e andò a collocarsi vicino al Botola, un suo vecchio amico d'infanzia, col quale cominciò un discorso molto vivo. Tre passi dietro di lui l'ortolana, alzando la voce come se fosse in verziere, ripeteva al Boffa e ad Aquilino Ratta: "Per me, se non vedo le cose chiare, l'ho dichiarato a questo impostore: faccio un altro quarantotto".

ordinò Arabella al cocchiere che aspettava abbasso. Ferruccio andò a sedersi sulla seggioletta della zia Nunziadina, davanti al telaio sul quale era steso un gran pizzo. E rimase in contemplazione dei ricami tutto il tempo, meravigliandosi di non sentir nulla, come se non si trattasse più di lui. Le due donne scesero davanti la Questura e chiesero a una guardia di poter parlare al delegato Galimberti. Fu loro indicato un lungo corridoio, mezzo cieco, che metteva ai piedi di una scaletta umida e sporca. Salirono a un portico superiore, dov'erano molti usci con delle scritte sopra, che Arabella non ebbe gli occhi per decifrare. Sentiva e vedeva, come in sogno, quasi per una visione interna. Sulla soglia d'una di quelle porticine molta gente mal vestita, dalle faccie slavate, tra cui molte donne piangenti, si addossava per spiare quel che si faceva di dentro, mentre altre guardie passeggiavano lentamente in su, in giù, per il lungo del portico. Un usciere, a cui la Colomba si rivolse timidamente a chiedere di nuovo del signor Galimberti, rispose con voce seccata: "Dabbasso" e scomparve, sbattendo furiosamente un usciolino. Si rassegnarono a tornar giù. Allo svolto del pianerottolo furono quasi brutalmente urtate e respinte da un corteo di guardie, che tenevano in mezzo un ragazzaccio a sbrendoli, colle mani legate, una figura smilza e imbozzacchita dai vizi e dalle prigioni, che all'incontrare una signora sulla soglia di casa sua, tese il collo, sgranò gli occhi, e urlò con voce rauca e sguaiata: "Viva l'Italia, bella bionda!" La Colomba, vedendo la signora diventar smorta e tremare, le fece scudo col corpo, ma tremava anche lei come un coniglio. Rimasero due respiri in silenzio, incapaci di muoversi, sostenendosi a vicenda cogli occhi, sforzandosi di sottrarsi al pensiero che la vista del ragazzotto arrestato veniva naturalmente a suggerire. "Se Dio tien conto di quel che lei fa..." balbettò la Colomba. Arabella fe' segno di tacere, stringendole forte la mano, e scesero insieme gli ultimi scalini quasi correndo. Un vecchio portiere, che veniva su portando con fatica un secchiolino d'acqua, indicò loro l'ufficio del delegato Galimberti, a man sinistra, sotto il portico, e stette sulle gambe arrembate a contemplare la bella figurina. Ne càpitano molte in Questura, di brutte e di bionde. Il Galimberti, riconosciuta la Colomba, capì di che si trattava e le fece passare in uno stanzino contiguo alla sala d'ufficio, dove c'era un gran puzzo di sigaro, sbarazzò due sedie dalle carte, le invitò a sedere chiudendo per precauzione la porta. La Colomba colla foga della passione cominciò a dire che la signora era pronta a dare delle testimonianze per Ferruccio. "La signora è forse una parente?" "È la padrona di Ferruccio" rispose la vecchia, che lì per lì non seppe trovare una parola migliore. "Ho capito" disse il delegato, fissando uno sguardo paterno su Arabella, mentre andava a pescare in una scatoletta di cartone una pastiglietta di poligala. "È la nuora di quel povero signor Tognino? povero uomo, morto giovine anche lui. Ma...! nido fatto gazza morta..." "E questo nostro figliuolo?" chiese la Colomba. "Le testimonianze non fanno male, e non fanno male nemmeno le raccomandazioni delle buone signore. Ma, ma, ho di nuovo esaminato il caso, la mia donna, e non so come potremo cavarcela. È una disgrazia, capisco, il ragazzo non è cattivo, è tutt'altro che un socialista e un anarchico: ma i tempi son cattivi sotto questo rispetto, e gli ordini superiori son chiari. C'è stata ribellione alla pubblica forza... L'avrà fatto per imprudenza, per buon cuore, ma la legge è legge, cara la mia donna, e non guarda in faccia a nessuno. La ribellione è diventata quasi un tratto di spirito per questi giovinotti della giornata, che credono, chi sa?, di cambiare il mondo come si cambia un paio di scarpe vecchie. E naturalmente l'autorità stringe i freni e manda delle istruzioni categoriche, precise, che non scherzano. Si sa che chi va di mezzo siam sempre noi poveri agenti. Se si fa troppo, gridano che si fa troppo; se si fa poco gridano che non si fa nulla. I giornali ci mordono ai polpacci, la Prefettura ci picchia sulla testa, il Ministro ci trasloca, ci destituisce, talché si può dire che i nostri migliori amici sono ancora i birbanti... Questo per darvi un'idea che anche noi abbiamo le mani incatenate. Nel caso nostro poi c'è un aggravante serio, serio, serio…" Il delegato socchiuse gli occhi e tentennò un poco la testa. "Oltre alla ribellione c'è la deposizione di una guardia, che è stata sbattuta in terra e ha dovuto rimanere dieci giorni fuori di servizio per una slogatura alla mano. Caso grave! Una mano per una guardia di questura è come l'archetto per un suonatore di violino. C'è stato del danno..." "La signora è pronta a dare un indennizzo." "Anche il denaro è un bel rimedio che guarisce molte slogature. Protezioni, alte testimonianze, denaro, potranno esser tant'olio per far correre le ruote e per non lasciarle stridere; ma voi, la mia Colomba, domandate troppo. Mi par già di essere compromesso per quel che ho fatto, avvisandovi del pericolo e offrendo al ragazzo i modi di accomodare i suoi cenci in famiglia. Mi rincresce anche per questa buona signora, alla quale non vorrei proprio dir di no; ma c'è una deposizione, Dio benedetto! c'è la legge." Arabella, che stava ad ascoltare colla faccia impassibile, mosse due o tre volte le palpebre per asciugare un leggero velo di lagrime. Il delegato se ne accorse, e fece qualche passo nella stanza. Non poteva veder piangere le donne. Era il suo debole. Dopo uno sforzo riprese a dire: "Ho già parlato col ragazzo e gli ho fatto capire che gli conviene fidarsi di me. Mi sta a cuore anche a me, povero figliuolo, perché ho conosciuta la sua mamma e con queste donne siamo amici vecchi. Ci sono delle circostanze attenuanti, che non gli fanno disonore... Quindi gli conviene mettersi nelle mie mani". "O povero martire!" scoppiò a dire lagrimando la Colomba. "Non esagerate il male, benedette! Anzi fategli coraggio e persuadetelo a seguire il mio consiglio. Credete forse che lo si abbia a caricare di catene e a far marcire in un tetro carcere come si diceva una volta? Saranno due o tre mesi, al più, di ritiro, una specie di esercizi spirituali, che a un giovane un po' vivo non faranno male." "O signore..." balbettò la Colomba. "Quel ragazzo mi muore." Arabella aggrottò la fronte in un pensiero doloroso. "Benedetta gente!" riprese dopo un istante il povero Galimberti, che non aveva il cuore di sasso. "Tutto quello che io posso fare è di tirar in lungo la pratica, per lasciargli il tempo, va bene?, di preparare terreno. Così nessuno si accorge nemmeno ch'egli sia scomparso. Dà ad intendere d'aver trovato un posto, che so io? a Bergamo, a Como, a Melegnano... va bene? e tra quindici, venti giorni, una mattina, dietro un mio biglietto, viene da me, quieto quieto, noi lo esaminiamo in camera caritatis , lo trattiamo con indulgenza. Se poi si comporta bene, io lo farò accettare negli uffici d'amministrazione, dove, tranne il catenaccio, è come esser qui. Vedete dunque che in realtà si riduce a una commedia, mentre se invece vuol suscitare rumori, scandali, o pretende che la legge si abbia a cangiare pe' suoi begli occhi, allora si taglia la strada sotto i piedi, lega le mani a noi, ci compromette e da un maluccio fa nascere un malaccio." "Posso quasi assicurare che il giovane non sopporterà il suo disonore" prese a dire Arabella con accento che aveva in sé qualche cosa di tagliente e di sprezzante. "A ogni modo non possiamo sopportarlo noi, non è vero, Colomba?" Il Galimberti aprì le due braccia come se volesse dire: "Non c'è rimedio..." e voltò la faccia verso il muro per non saper che cosa rispondere. "Il signor delegato che dice di voler bene a queste povere donne vorrà, come ha promesso, tirar le cose in lungo." "È tutto quello che posso fare, cara la mia signora: e lo farò volentieri, perché non solo voglio bene a queste povere donne, ma il figliuolo mi ricorda la sua povera mamma. La Colomba sa che... che... che..." E con una scossa del capo si sforzò d'inghiottire un grosso stranguglione di reminiscenze. Arabella si alzò, e trasse in un angolo vicino alla finestra il delegato, mentre la Colomba pareva diventata sulla sedia un sacco di stracci. Prese famigliarmente le mani del pacifico tiranno e gli mosse una serie di questioni, alle quali egli rispose benevolmente, fissando con crescente meraviglia gli occhi negli occhi di questa cara donnina, che gli parlava con tanto calore e con tanta seduzione. Il mestiere non gli aveva ancora fasciato il cuore d'una corazza di bronzo; e posto in mezzo tra una povera vecchia che gli risuscitava il passato, e una simpatica bellezza che lo pregava cogli occhi bagnati, si lasciò trascinare a promettere, non solo che avrebbe cercato di mandar la pratica in lungo, ma che avrebbe anche rilasciato un foglio di via per Ferruccio, una patente netta... Al resto avrebbero pensato le donne. "Le donne, le donne, le donne…" seguitò un gran pezzo a ripetere il povero uomo, quando rimase solo, rotto e sfasciato anche lui sotto l'emozione e sotto il peso della responsabilità che gli addossavano. Quantunque vedesse di non far nulla di male a tirar la pratica in lungo, quantunque una dichiarazione di buona condotta la potesse sempre rilasciare a un giovane non ancora giudicato, tuttavia nella sua coscienza di onesto impiegato sentiva di servir male la sua padrona, questa volta. Il giovinotto avrebbe preso il volo... Oh le donne; vive e morte, son sempre le più forti...

C'erano abbasso molti altri parenti interessati a far nascere scandali, che aizzavano l'ortolana a gridare più forte, che suggerivano le parole delle litanie. La donna, coi pugni appoggiati alle anche, il viso in una fiamma, l'occhio grosso e lucente, tirava un mezzo fiato, commentava alla gente, che prese subito a radunarsi, chi era il Maccagnaccio ladro, che cosa aveva fatto, che cosa aveva rubato: poi subito tornava da capo: "Gattone, Battista Scorlino, Boggia della povera gente!" Ferruccio sentivasi venir male, gli tremavano le gambe. A questi insulti, che salivano dalla pubblica strada, il signor Maccagno non seppe più star fermo. Saltò in piedi, venne a dare un'occhiata breve e tagliente attraverso i vetri polverosi, stringendo ancora il tagliacarte di bronzo come un coltello, masticò senza inghiottirle delle parole amare e avvelenate, trovando nell'irritazione dell'oltraggio la forza che non gli veniva data dalla buona coscienza. Nel livore dell'odio e della reazione selvaggia, l'egoismo, ingannando se stesso, confondeva il legittimo diritto della difesa col diritto del più forte, che non è sempre il migliore, come pare al lupo della favola. L'uomo arido e sprezzante ritrovava nella necessità della battaglia quasi un senso di orgoglio, che si accompagna sempre al valore, qualunque sia la causa per la quale si combatte. E come si sa, l'orgoglio si confonde spesso coll'onorabilità e aiuta con questa a confondere le idee, o almeno quelle che non desiderano troppo d'essere chiarite. Erano nell'affarista quasi due creature in cozzo tra loro. L'una, la primitiva, capace di idee buone e generose; e una seconda, quella del mestiere, che non intendeva che una ragione sola, l'interesse. Queste due nature s'erano fatte quasi due abitazioni nella sua coscienza, e come due vicine in discordia, cercavano sempre di non incontrarsi e di non farsi vedere insieme; si può dire che invecchiassero nella stessa casa, quasi senza conoscersi, odiandosi, respingendosi a vicenda, in una paurosa attesa, quale di loro due sarebbe morta prima, e quale sarebbe rimasta padrona assoluta della casa. "Grida, squàrciati, strega!" brontolò, pensando che tutti i cenci di quei pidocchiosi miserabili non avrebbero mai potuto mettere insieme il piccolo cencio di carta che le fiamme del caminetto avevano divorato insieme alla malizia dei preti e degli avvocati. "Sgòlati, crepa! Una carta abbruciata non c'è Dio che la risusciti." Da questa parte potevano assalirlo in cinquecento, ma la prova che la vecchia avesse fatta una carta non l'aveva che lui, e nemmeno lui era più in grado di presentarla. Le ingiurie e le insolenze pubbliche non facevano che dargli qualche ragione di più, se non si vuol dire che le sue ragioni cominciassero da queste. Un cagnolino debole ha bisogno d'essere aizzato per risolversi a mordere. Bene! le ingiurie e le insolenze aiutavano a farlo comparire vittima perseguitata. Si aggiunga che un torto fin che dorme (e in fondo sentiva d'aver torto in questa guerra) è come un lupo addormentato che si lascia ammazzare stupidamente a colpi di bastone. Queste punture obbligavano la bestia a dormire con un occhio aperto e a mandare di tanto in tanto un sordo ruggito d'avvertimento ai ragazzacci e ai villani della contrada. "Piglierò le mie note, stupida creatura." Tornò al tavolino, e tolto un foglio di carta, notò il giorno e l'ora, come se pigliasse gli appunti per un processo verbale. "Tognino, ladro di testamenti" urlò la donna. "Benissimo" e scrisse anche queste parole sulla carta. "Assassino della povera gente!" "Brava, dinne un'altra, brutta cagna." "Schifoso!" "C'è abbastanza per cacciarti in galera. Aspetta." Si mosse ancora dal suo posto e buttata nella viuzza un'altra rapida occhiata, notò molta gente sulle botteghe, riconobbe l'albergatore, il tabaccaio, il lattivendolo, qualche altro, dei quali volle scrivere i nomi nel verbale, per chiamarli tutti come testimoni d'accusa nel terribile processo d'ingiuria, oltraggio e diffamazione ch'egli avrebbe domani intentato all'ortolana e a' suoi compari. Oh se li avrebbe fatti ballare! "Ferruccio!" chiamò a mezza voce, aprendo un poco l'uscio verso la scala. Il giovinetto, colle convulsioni nelle gambe, era disceso in corte e andava cercando cogli occhi qualche sorvegliante o una guardia di questura che facesse smettere la spiritata. Non pareva più Milano. La strada in poco tempo fu piena di curiosi e di sfaccendati e anche di gente che aveva qualche cosa di meglio da fare, ma che il caso nuovo e stuzzicante teneva lì, fermi a guardare e a pestar la premura coi piedi. Chi rideva, chi canzonava, chi eccitava la donna, credendola ubriaca, a dirne sempre delle più grosse. Intorno a lei si parlava (come si può parlare tra gente male informata) della vecchia Ratta, che aveva lasciato un milione: del canonico Pianelli che aveva, d'accordo col Maccagno, rubato il testamento e s'eran diviso mezzo milione ciascuno: dell'avvocato Baruffa, il quale aveva le prove in mano che la vecchia era stata avvelenata: e altre siffatte fanfaluche, che parevan vere a chi le diceva, in proporzione del gusto che ci pigliava a dirle. E siccome questo gusto è sempre un po' meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d'esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d'impiccare, di bastonare, di cavare il denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso. Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce dell'Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell'ammezzato, quando nell'arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso susurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala. Tornava dall'aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via Torino, invece d'entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per ripetere e per aggiungere una nuova raccomandazione a Ferruccio in favore della povera Stella, e per incaricarlo di qualche sussidio. Svoltato appena l'angolo, era stata ravvisata dall'Angiolina, che a vederla, fu presa da una nuova idea. Lasciato il posto, dove sbraitava all'aria, l'ortolana andò incontro alla moglie di Lorenzo Maccagno, che veniva rallentando il passo, coll'animo sospeso allo spettacolo della folla insolita che ingombrava la strada, le piombò subitamente addosso come un'aquila che ghermisce una tortora, e presala per un lembo del vestito cominciò a chiamarla ladra, moglie di ladri, nuora di ladri, manutengola... Arabella, còlta all'improvviso, trasalì, stentò a capire, e per l'istinto prese a correre verso la porta. E l'altra dietro: "Mettilo giù quel cappellino, smorfiosa, figlia di ladri..." Arabella vide come una gran fiamma rossa, un fuoco agli occhi, affrettò di nuovo il passo, mentre sentiva il sangue precipitare. E l'altra sempre dietro, a incalzarla, a tormentarla fin sotto la porta, dove allungò la mano al collo della giovine, che inorridita gettò un grido, quel terribile grido, si rivoltò, vacillò, si resse colle mani al muro, poi vide scendere il buio, sentì la morte venire... e cadde sugli ultimi scalini. Molti uomini, disgustati a quella scena, presa in mezzo l'ortolana, la cacciarono via, bistrattandola e battendola. Essa corse e sparì come una grossa talpa, tirandosi dietro un nugolo di ragazzi. "È niente. State lontano, non toccatela... È niente, Arabella. Un po' d'acqua. È meglio portarla di sopra. Fate stare indietro la gente, per bacco! Arabella, è nulla, mi creda; è uno sbaglio. Pigliala, Ferruccio, che la portiamo su." Era il signor Tognino Maccagno che parlava così, che ordinava, che teneva lontano la gente, sorreggendo il corpo della giovane svenuta, trascinandola con uno sforzo verso la scala, mentre Ferruccio, cogli occhi velati da un fiume di lagrime, la prendeva fasciandole modestamente i piedi nel vestito, e aiutava a portarla su per le quattro scalette fino all'ammezzato. Pareva che portassero una morta. Aquilino si collocò ai piedi della scala e col tono irritato di chi non ama le vigliaccherie, persuase i parenti a non far scene, ch'era una vergogna. Pigliarsela colle donne è più che una vigliaccheria, è una sporchezza. Il veterano, fremendo, cominciò egli stesso colle mani e col fazzoletto rosso di cotone a mandar via la ragazzaglia, che si caccia dappertutto come le mosche. Quando fu tutto finito, arrivarono le guardie. Arabella, posta a sedere sopra la poltroncina di pelle, cominciò leggermente a sospirare. Il suocero le sorresse colle mani la testa cadente, premendosela sul petto, mentre due o tre buone donne accorrevano con dell'acqua, con dell'aceto, con del rum. Essa riaprì gli occhi, li girò mollemente intorno con aria trasognata, sospirò, si ricordò, strinse la mano del parente per ringraziarlo, e dopo aver mormorato delle parole chiuse, uscì a dire: "Non c'è più quella donna?" "Nossignora, non c'è più" disse in fretta Ferruccio, che tremava sempre come una foglia. "Non c'è più nessuno. È stato un equivoco... Ha creduto che fosse chi sa chi... Come si sente? vuol andare di sopra, Arabella?" Il vecchio Maccagno parlava con una voce così alterata, che egli stentò a riconoscerla per sua. "Se queste buone vicine mi accompagnano..." Entrano l'Augusta e la Gioconda, che si strinsero amorosamente intorno alla padroncina. Arabella si sforzò di alzarsi, ma non poté reggersi. Sentiva la testa in fiamme e la vita fuggire. Le due donne presero la poltrona e la sollevarono così, mentre Ferruccio correva innanzi a spalancar gli usci. Il giovine gemeva senz'avvedersene, come quando si soffre in sogno. Fu portata su e messa subito a letto. Una delle vicine, la moglie del mercante, capì che bisognava il dottore e ne avvertì subito il signor Tognino. "Perché, perché?" domandò il vecchio sbarrando gli occhi. "Ho paura che perdiamo le belle speranze." Tognin Maccagno si portò i pugni stretti e angolosi alla bocca; ma non volendo mostrarsi avvilito, voltò le spalle e uscì. In anticamera trovò Ferruccio, fermo in mezzo, come un mobile dimenticato. "Hai visto Lorenzo?" Il ragazzo disse di no colla testa. "Sai dove sta il dottor Taruzzi?" "Sì, lo so." "Va a chiamarlo." Il giovane s'avviava già per uscire, quando il principale lo richiamò di nuovo: "Se vedi Lorenzo, non dirgli nulla com'è stato. Chiama il dottore e poi to'... son dieci lire..." Tognin Maccagno trasse con mano tremante il portamonete e dette il denaro. "Vai a Porta Romana, pigli il tram di Lodi, e se non c'è, pigli una carrozza e avverti la sua mamma, sai? alle Cascine..." "Sì, sì" disse il ragazzo, non accorgendosi che per la prima volta il principale gli dava del tu. E tornò a discendere le scale correndo. "Il soggetto è per natura delicato," osservò il dottor Taruzzi sul pianerottolo, dopo aver visitata la malata, "però, dopo l'accidente, il fenomeno è regolare e non presenta pericolo. C'è bisogno di un'assoluta quiete per una ventina di giorni e raccomando una continua vigilanza. Poi farebbe bene l'aria di campagna. Del resto, gli sposi son giovani e non sono i figliuoli che mancano a questo mondo. In quanto al nonno, caro signor Tognino, abbia pazienza anche lui per questa volta."

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