Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

UNICT

Risultati per: abbassavano

Numero di risultati: 7 in 1 pagine

  • Pagina 1 di 1

Sull'Oceano

171453
De Amicis, Edmondo 1 occorrenze
  • 1890
  • Fratelli Treves, Editori
  • Milano
  • Paraletteratura - Divulgazione
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Pagina 254

Nuovo galateo

189690
Melchiorre Gioja 1 occorrenze
  • 1802
  • Francesco Rossi
  • Napoli
  • paraletteratura-galateo
  • UNICT
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Pagina 113

D'Ambra, Lucio

220384
Il Re, le Torri, gli Alfieri 2 occorrenze
  • 1919
  • Fratelli Treves
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
  • UNICT
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Nella penombra violetta del crepuscolo le corazzate, tutte insieme, al suono delle musiche, abbassavano le bandiere e punteggiavano il mare e il cielo con le leggere architetture d'oro delle loro illuminazioni. Io ero rimasto verso poppa, appoggiato al parapetto della bella nave, conversando in un gruppo d'ufficiali. Una mano invisibile, nell'ombra, sul terrazzino del comandante, aveva acceso sotto un paralume di tulle rosa una minuscola lampadina elettrica ch'era come ma piccola rosa fiorita per incantesimo sul tavolinetto di vimini da cui la duchessa e Sua Altezza erano appena separati. Non distinguendo più, nella penombra rischiarata in un sol punto da quel Fiore roseo, nè gli atteggiamenti dei due, nè chi parlasse, scorgevo appena due figure, una tutta bianca e l'altra tutta nera, vicine, allungate, schiacciate come due ombre profilate sopra un muro illuminato. Cessata la cerimonia dell'ammàina bandiera, la musica aveva attaccato l'ultimo valzer. Gli ufficiali andavano attorno pel ponte invitando le dame agli ultimi giri sul ritmo voluttuoso e appassionato della danza viennese. Qua e là, attorno alle tavole bianche dei buffets, gli ultimi tintinnii delle ultime coppe di sciampagna. Dovunque bandiere spiegazzate, vasi di fiori sguarniti di corolle e a terra tutto un tappeto malinconico di poveri petali già sfioriti e calpestati. A destra e a sinistra, vicino e lontano, nelle parti meno illuminate della corazzata, s'accendevano e si spegnevano le lucciole irrequiete delle sigarette dei fumatori. E, dovunque, la malinconia accorata delle feste che finiscono. Di tanto in tanto, nelle pause del valzer s'udiva il fischio stridulo dell'ufficiale di guardia che dava i segnali alle lancie che imbarcavano e portavano via gli invitati più solleciti ad andarsene. Nella distrazione della nostra gaia conversazione io avevo completamente dimenticato Sua Altezza. Ma non dovevo tardare ad essere richiamato alla mia ininterrotta attenzione di spettatore e ad imaginare quale piega stava per prendere la commedia che già seguivo con tanto interesse. I miei sguardi erano ritornati, senza volerlo, al terrazzino di poppa e alle due figurine bianca e nera profilantisi appena nell'oscurità, quando vidi d'improvviso la figurina bianca levarsi e allontanarsi bruscamente dalla figurina nera, mentre la voce della duchessa di Frondosa gridava il mio nome. Accorsi. Trovai la duchessa in piedi, appoggiata al parapetto, sorridente; e d'innanzi a lei il principe, ora anch'esso in piedi, che si torturava con una mano nervosa i baffettini nascenti. E, prima che io avessi avuto il tempo d'interrogare, la duchessa, col suo più bel sorriso pacato, con la sua voce più tranquilla, con un volto che respirava la più sicura pace, mi spiegava d'avermi chiamato perchè Sua Altezza voleva già andarsene e desiderava che io l'accompagnassi a cercare il suo aiutante di campo. In pari tempo donna Isabella tendeva la mano a Sua Altezza e disegnava col piede e il ginocchio destro la più leggiadra riverenza del tempo in cui le donne non avevano ancora sostituito alle riverenze delle Corti una ginnastica da cortile. In pari tempo Sua Altezza s'inchinava a sua volta profondamente, prendeva il mio braccio e s'allontanava con me verso il centro della nave mentre la duchessa accoglieva festosamente gli omaggi del gruppo di ufficiali che avevo or ora lasciati e che avevan dovuto aspettare, per inchinarlesi, che quella pittima di Sua Altezza se ne fosse finalmente andata. Se la duchessa di Frondosa rivelava una così sorridente serenità, Sua Altezza invece doveva essere letteralmente fuori di sè. Difatti, senza voler neppure accordarmi un minuto per cercare il suo aiutante di campo, mi trasse verso la scaletta e saltò su la prima lancia che trovò lasciando in asso quel povero sottotenente di vascello di guardia che già col suo fischietto s'era affrettato a chiamare la lancia reale. E c'era di peggio. Sua Altezza abbandonava così la festa prima che se ne fossero allontanati suo padre e l'imperatore Goffredo: il che poteva anche essere assolutamente necessario per un uomo che una donna desiderosa di metter le cose a posto aveva garbatamente ma esplicitamente licenziato, ma non era niente affatto protocollare per un principe reale che giungeva così a filar via all'inglese, senza salutare nessuno, come fosse il più libero ed il più oscuro degli invitati. Per il momento il malumore del principe si sfogò in un silenzio ostinato. Ma, giunti a terra e saliti che fummo nella vettura di Corte che ci riaccompagnava a palazzo, Sua Altezza mi fece capire che anche io non ero affatto escluso dal suo risentimento. Aveva preso una sigaretta e tentato d'accenderla — altra negligenza di etichetta — contro il vento della sera. Ma s'era bruciato le dita e gittando via, con gesto irritato, sigaretta e fiammifero, aveva brontolato a denti stretti: «Ma anche lei poteva dirmelo, perdio, che quella duchessa era una Giovanna d'Arco!». Povero, dimenticato capitano dei Dragoni azzurri che aveva passato le sue più belle ore a insegnare storia a Sua Altezza senza che Sua Altezza riescisse a farsi, per esempio, almeno un'idea approssimativamente chiara della vergine guerriera! Per pigro abito di semplificazioni il giovane principe aveva solo ritenuto di tanti lunghi commenti che Giovanna d'Arco era vergine e però ritrosa e restia. Ciò gli bastava, poichè non aveva seguito alla Sorbona i corsi del professor Thalamas, per raffigurare in lei il tipo rappresentativo dell'austerità femminile. Mi guardai bene quindi dal ripetere schiarimenti che il capitano dei Dragoni azzurri aveva già dovuti somministrare inutimente e mi limitai a chiedere rispettosamente al principe che cosa fosse avvenuto. E il principe, com'era sua abitudine, non in avaro di spiegazioni. La conversazione sera fatta a mano a mano molto galante e la duchessa sembrava ed era semplicemente incantevole. Abituato a non incontrare mai difficoltà, Monsignore credeva che la via dell'avanzata gli fosse facile e piana anche con quella bella signora. Io l'avevo avvertito, è vero, della sua incensurabile fama. Ma Monsignore, ch'è testardo come son testardi tutti gli «enfants gatés», si era ficcato in mente che io ero, che non potevo essere che male informato. Lo provava anche il fatto, del resto, che la duchessa civettava deliziosamente e che si lasciava far la corte con la più affabile condiscendenza, tanto che a un dato punto l'odore dei fiori, la bellezza della duchessa, il fascino della notte primaverile, la voluttuosa carezza del valzer viennese avevano provocato l'ardire del principe e l'ombra che circondava la coppia l'aveva decentemente favorito. Che cos'è mai, del resto, alla stregua dei peccati mortali, prender la mano d'una bella signora e baciarla lungamente schiacciandovi un po' sopra le labbra? Senonchè la duchessa aveva ritratto la mano e aveva tranquillamente invitato il principe a rimanere al suo posto. E perchè vi rimanesse ve l'aveva prima rimesso. Ma il principe, che per le gaffes grandi e piccine non aveva mai avuto una istintiva ripugnanza, stimando che fosse il caso di scherzare ancora e tentando di riprendere la mano restia, aveva detto alla duchessa con un sorrisetto superiore e maleducato:«Via, duchessa, perchè volete essere tanto difficile?». E proprio a questo punto donna Isabella s'era bruscamente levata rispondendogli di botto chemcertamente il principe da Sua Altezza l'Infante Anna-Maria, sua zia, era stato abituato a un'assai minore severità. E quindi, dopo la botta e la risposta, la scena innocente cui anch'io ero stato chiamato a partecipare. La poca severità dell'Infante Anna-Maria verso di tutti e specialmente verso il suo regale nipote che sin dalla più tenera adolescenza, prima ancora di recarsi ad Oxford, aveva portato alla vetusta e venusta parente i suoi lion d'arancio, era notissima a tutto il regno di Fantasia ed era per, difficile per Sua Altezza considerare come un'offesa alla regale famiglia il richiamo ad una verità ch'era ormai incontrastabile per voce di popolo confermata anche dall'esperienza personale di varie centinaia di sudditi. Non tenne quindi, oltre quella sera della prima impressione, alcun rancore per quella mancanza di rispetto ad una zia cui egli doveva la rivelazione precoce della sua sola e vera vocazione; e, nei giorni e nelle settimane seguenti, ricercò e rivide la duchessa di Frondosa come se nulla fosse stato, sperando di riuscire col tempo, con la pazienza e col fascino della sua futura corona, a ridurre Giovanna d'Arco a più miti e condiscendenti consigli. Cominciò a frequentare i salotti che la duchessa frequentava, a correre in vettura, lui che amava tanto di vedere e di farsi vedere, le passeggiate eccentriche e solitarie che la duchessa prediligeva, a frequentare assiduamente il teatro di musica cui la duchessa non mancava mai, lui che in fatto di musica non poteva sopportare idee melodiche più complicate di quelle d'una canzonetta da caffè-concerto o d'una marcia da circo equestre. La duchessa leggeva molto e il principe faceva la fortuna delle librerie. La duchessa era assidua alle conferenze e il principe non ne trascurò più una. Cercava di vederla ogni mattina, ogni giorno, ogni sera. La giornata gli sembrava insopportabile se non aveva alcuna possibilità d'incontrare la duchessa. Io ero il suo lieto confidente nelle buone giornate. Scontavo il suo malumore nelle cattive. E, finalmente, si decise a mancarmi di rispetto per la prima volta e, poichè mi vide docile ai suoi capricci, non fu certo l'ultima. Eravamo a colazione a palazzo, due ore prima d'una garden-party che Sua Altezza offriva, per completare le presentazioni, alla società pulquerrimese. Facevamo colazione soli, come quasi tutti i giorni. Intuii che aveva qualche cosa di serio da dirmi poichè vedevo che non apriva bocca neppure per mangiare e che non cessava d'arricciarsi i baffetti. N'ebbi la conferma quando fummo al caffè e quando, ordinato al maggiordomo di lasciarci, cominciò a parlare. Capii sùbito che voleva qualche cosa da me e lo capii appunto perchè aveva l'aria di non volermi chiedere nulla. Parlava invece della nostra buona amicizia, della grande fortuna che aveva avuto di ritrovarmi inopinatamente a Pulquerrima e faceva l'elogio sperticato, che io ascoltavo senza arrossire come una bella donna che si guardi e, si ammiri allo specchio, della mia abilità diplomatica, del mio tatto, della mia mia astuzia, della mia esperienza mondana. E quand'ebbe esaurito gli aggettivi, ch'erano per lui un lusso forzatamente limitato, ricorse alle imagini. Io ero il pilota abilissimo della sua navicella gettata, al suo primo viaggio, in pieno alto mare. Avevo anche la suprema delicatezza di non far punto sentire la mia presenza e di tenere silenziosamente il timone in modo da lasciare a lui l'illusione d'essere già un vecchio capitano di lungo corso, sicuro del mare. Ma la sua navicella andava oramai purtroppo per una rotta che non seguiva la mia traccia ma che dipendeva unicamente dalla sua volontà. E dopo gli aggettivi e le imagini, quando si accorse che queste erano molto comode per dire quasi con facilità la cosa molto difficile che aveva da dire, le imagini si complicarono di metafore e imagini e metafore, incrociandosi e confondendosi, davano luogo ad un discorso straordinario col quale Sua Altezza, con l'aria piu serena di questo mondo, mi proponeva semplicemente di aiutarla, se non in tutti i suoi amori, almeno nei suoi amori difficili. Insomma, per far breve il discorso, si trattava nè più nè meno che di questo: la navicella dell'amore di Sua Altezza faceva rotta verso l'isola di felicità promessa dall'amore restio della duchessa di Frondosa. Per non rischiar d'incagliare in qualche secca e per non perdere inutilmente e faticosamente molte ore di navigazione occorreva sapere se in quell'isola inesplorata c'era almeno la più lontana speranza di trovare un punto d'approdo. E a chi domandarlo, per avere un dato geografico sicuro, se non alla duchessa in persona? Lei sola conosceva la sua isola. Continuava ella, infatti, a scherzare, a civettare col Principe, a giuocare col fuoco. Il faro, dunque, era acceso. Ma era mai possibile che quel faro fosse una burla tentata ai danni dei navigatori più arditi e più ostinati e che veramente poi, dietro quel faro, come la duchessa pretendeva, non ci fosse alcun porto? Questo, io dovevo tentar di sapere, poichè purtroppo le carte galanti dei più esperti marinai di Pulquerrima erano mute al riguardo. E saperlo era facile. Bastava parlare alla duchessa Isabella della lunga e disperata navigazione di Sua Altezza, di quella sua povera navicella sentimentale sbattuta dalle onde che volta a volta l'avvicinavano e l'allontanavano dall'isola irraggiungibile e misteriosa. Si trattava, insomma, di far sapere all'austera signora dell'isola che la povera navicella non navigava così a casaccio per puro capriccio, ma che il suo povero capitano aveva veramente e definitivamente perduto la bussola e che in tal caso era elementare dovere di umanità e di pietà aprire al fragile legno le braccia tranquille d'un dolce porto ospitale. Non esito a confessarlo. Non so quale specie di sadismo morale mi traeva ad ascoltare quasi con voluttà da Sua Altezza quest'inconcepibile discorso di cui non avrei tollerato da nessun altro neppure la prima sillaba. Questa condiscendenza tacita della prima volta doveva essermi fatale in seguito. Tuttavia, per quella prima volta, riuscii a declinare il poco onorevole incarico. Continuando le metafore di Sua Altezza, che comodamente permettevano a entrambi di non arrossire, dichiarai che la mia esplorazione era forse impossibile, ma che era, ad ogni modo, sopratutto superflua. Affermai recisamente che l'isola non aveva porti nè grandi nè piccini, che l'isola era stata sempre disabitata e che la luce che Sua Altezza scambiava per quella d'un faro era invece quella d'una dolce capanna sotto la quale la duchessa e suo marito filavano un amore perfetto degno dei più leggendarii amanti. Non c'era quindi altro da fare che macchina indietro. Per approdare c'erano cento isole abitabilissime attorno a quell'isola inospitale, isole con porti garentiti e provati, con visibilissimi fari accesi che veramente invitavano i navigatori, isole che costituivano tutto l'arcipelago del salotti di Pulquerrima e tra le quali non c'era, per navigare, altro imbarazzo che della scelta. Sua Altezza, bontà sua, non insistè. Mi chiese solamente, lasciando le metafore, se veramente credevo la duchessa di Frondosa così onesta e risposi che la reputavo veramente onestissima. Monsignore volle anche degnarsi di farmi osservare che in tal caso disperato egli avrebbe finito per innamorarsene sul serio. Ed io non potei che stringermi nelle spalle, senza rispondere. Non se ne parlò più. Venne l'estate. Passarono giorni, settimane e mesi. Sua Altezza continuava intanto a muoversi come voleva su lo scacchiere galante di Pulquerrima, ma io comprendevo che tutte le pedine cui dava caccia fortunata, che tutte le torri che faceva cadere con un sospiro e qualche volta anche con uno sbadiglio non erano altro per lui che tentativi per distrarsi dalla sua idea fissa, che pretesti per sfogare su le torri che precipitavano le esuberanze d'ogni genere che la torre incrollabile provocava in quel cuore e in quel sangue di ventitrè anni. Intanto Sua Altezza continuava a vedere ogni giorno la duchessa di Frondosa, la quale, dal canto suo, continuava a giuocare con lui di parole con quella sua bella serenità che non si turbava mai. Educata dalla prima aspra lezione, Sua Altezza non tentava più il passaggio troppo rischioso dalle parole molto vaghe ai gesti abbastanza precisi. E, una sera, tornando da un pranzo dai Frondosa al quale avevamo assistito insieme, Sua Altezza mi confessò che non solo il fascino della duchessa Isabella lo attirava in quella casa, ma che anche il duca Alvaro gli era oramai simpaticissimo. Non aveva mai visto, mi diceva, uomo più compìto, gentiluomo più perfetto, diplomatico più illuminato e padron di casa che gli fosse paragonabile. Contava di farne oramai un suo amico, un suo strettissimo amico, senza nulla togliere per altro all'affetto di lunga data ch'egli aveva per me. Lo lasciai dire e mi proposi di lasciarlo fare. Non c'era più d'altronde da discutere. Dopo la moglie, il marito.... Era, decisamente, l'amore.

Pagina 13

Mitchell, Margaret

220938
Via col vento 1 occorrenze
  • 1939
  • A. Mondadori
  • Milano
  • Paraletteratura - Romanzi
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Dalle stanze da letto al piano di sopra giungeva un incessante ronzio di voci, che si alzavano e si abbassavano punteggiate da scoppi di risa e da «Ma no! Gli hai proprio detto cosí?» e da «E lui che disse?» Sui letti e sui divani delle sei grandi camere le ragazze riposavano, dopo essersi tolte il vestito e avere allentato il busto, coi capelli sciolti. La siesta pomeridiana era un'abitudine locale e non era mai cosí necessaria come nelle riunioni che duravano tutto il giorno, avendo inizio la mattina presto e terminando col ballo. Per mezz'ora le ragazze discorrevano e ridevano; poi le serve chiudevano le imposte e nella calda semioscurità le voci diminuivano in bisbigli e infine cessavano in un silenzio interrotto solo da respiri regolari. Prima di sgusciare nel vestibolo superiore e di affacciarsi alla ringhiera, Rossella si era assicurata che Melania era coricata sul letto insieme con Gioia e Etta Tarleton. Dalla finestra del pianerottolo vedeva il gruppo degli uomini seduti sotto gli alberi a bere, e sapeva che vi sarebbero rimasti fino al tardo pomeriggio. I suoi occhi scrutarono il gruppo, ma Ashley non vi era. Tese l'orecchio e udí la sua voce. Come aveva sperato, egli era ancora nel viale d'accesso, a salutare le signore che se ne andavano coi bambini e ad assistere alla loro partenza. Scese velocemente le scale, col cuore in gola. E se avesse incontrato il signor Wilkes? Che scusa avrebbe trovato per giustificare quel suo gironzolare per casa mentre tutte le altre ragazze riposavano per esser belle la sera? Beh, comunque, valeva la pena di arrischiare. Giunta in fondo alle scale, udí le serve che si muovevano in sala da pranzo agli ordini del maggiordomo, togliendo la tavola e le sedie per preparare per il ballo. Al di là dell'ampio vestibolo era la porta aperta della biblioteca; ella si affrettò a entrarvi senza far rumore. Attenderebbe là dentro che Ashley finisse i suoi saluti e lo chiamerebbe vedendolo rientrare. La biblioteca era nella semioscurità, perché le persiane erano chiuse. La stanza cupa dalle alte pareti completamente coperte di libri neri le diede un senso di oppressione. Non era quello il luogo che avrebbe scelto per un colloquio come sperava sarebbe stato quello a cui si preparava. La grande quantità di libri la opprimeva sempre, come pure le persone che amavano legger molto. Ad eccezione di Ashley. I mobili pesanti le sembravano enormi nella mezza luce, e cosí le sedie a spalliera alta e sedile profondo, fatte per i Wilkes che erano di statura elevata, e le solide e morbide sedie coi cuscini di velluto per le ragazze, con davanti sgabelli anch'essi coperti di velluto. All'altra estremità della lunga stanza, dinanzi al caminetto, il divano di due metri - il posto preferito di Ashley - drizzava la sua massiccia spalliera come un enorme animale. Chiuse la porta lasciando una fessura e cercò di calmare i battiti del proprio cuore. Si sforzò di ricordare con precisione quello che la sera prima aveva progettato di dire ad Ashley, ma non vi riuscí. Aveva pensato qualcosa e lo aveva dimenticato... o aveva soltanto progettato di far parlare Ashley? Non ricordava; e improvvisamente fu invasa da un gelido terrore. Forse, se il suo cuore smettesse di battere in modo cosí assordante, potrebbe pensare che cosa dire. Ma il rapido battito non fece che aumentare quando ella udí Ashley rivolgere un ultimo saluto ai partenti e rientrare nel vestibolo. Riusciva a pensare soltanto che lo amava... che amava tutto di lui, dall'altero portamento del suo capo dorato alle sue scarpe nere; amava la sua risata anche quando la canzonava, amava i suoi strani silenzi. Oh, se entrasse e la prendesse fra le braccia sicché ella non dovesse parlare! Doveva amarla... «Forse, se pregassi...» Chiuse gli occhi e cominciò a mormorare «Dio ti salvi, Maria, piena di grazia...» - Oh, Rossella! - Era la voce di Ashley che interrompeva il rombo delle sue orecchie gettandola nella piú gran confusione. Egli si era fermato nel vestibolo, scrutandola attraverso la porta. parzialmente aperta, con un sorriso enigmatico sul volto. - Per chi vi nascondete? Per Carlo o per i Tarleton? Ella inghiottí la saliva. Dunque Ashley si era accorto degli uomini che le erano stati intorno! Com'era adorabile coi suoi occhi che ammiccavano, completamente ignaro del turbamento di lei! Non fu capace di dire una parola, ma sporse una mano e lo trasse nella stanza. Egli entrò, perplesso ma interessato. Vi era in lei una tensione e nei suoi occhi una luce che non vi aveva mai visto prima; e anche nella semioscurità si distingueva il colore acceso delle sue guance. Automaticamente egli chiuse la porta dietro di sé e le prese la mano. - Che c'è? - chiese, quasi in un bisbiglio. Al contatto della sua mano ella cominciò a tremare. Ecco che stava per accadere quello che aveva sognato. Mille pensieri incoerenti si agitarono nella sua mente, ma non fu capace di afferrarne uno solo da forgiare in parole. Riuscí solo a crollare la testa e a guardarlo in faccia. Perché non parlava lui? - Che c'è? - ripeté Ashley. - Un segreto che volete dirmi? A un tratto ella ritrovò la parola e nello stesso istante tutti gli anni di insegnamento di Elena scomparvero e lo schietto sangue irlandese di Geraldo parlò sulle labbra di sua figlia. - Sí... un segreto. Vi amo. Per un attimo fu un silenzio cosí profondo come se nessuno dei due respirasse. Quindi ella smise di tremare, mentre si sentiva invadere dalla felicità e dall'orgoglio. Perché non lo aveva fatto prima? Quanto era piú semplice di tutte le manovre da signora che le avevano insegnato! E i suoi occhi cercarono quelli di lui. In questi era un'espressione di costernazione, di incredulità e di qualche altra cosa... Che cos'era? Sí, Geraldo aveva la stessa espressione il giorno in cui il suo cane preferito si era rotto una gamba, e bisognò abbatterlo. Perché le veniva in mente questo adesso? Che pensiero stupido. E perché Ashley la guardava cosí stranamente e non parlava? Qualche cosa di simile a una maschera di buona educazione apparve ora sul suo viso, ed egli sorrise galantemente. - Non vi basta di aver fatto oggi collezione dei cuori di tutti gli altri uomini? - E la sua voce aveva l'antica nota carezzevole e scherzosa. - Volete proprio l'umanità? Ebbene, avete sempre avuto il mio cuore e lo sapete benissimo. Da quando vi sono spuntati i primi denti. No... nulla di tutto questo. Non era cosí che ella aveva immaginato la cosa. Nel pazzo vortice di idee che si agitavano nel suo cervello, una stava cominciando a prendere forma. Per una ragione che ella ignorava, Ashley si comportava come se ella stesse civettando con lui. Ma egli sapeva che non era cosí. Era sicura che lo sapeva. - Ashley... Ashley... dite... dovete... Oh, non scherzate adesso! Io ho il vostro cuore? Oh caro, io vi a... La mano di lui le chiuse le labbra rapidamente. La maschera era scomparsa. - Non dovete dire queste cose, Rossella! Non dovete. Non è questo il vostro pensiero. Odierete voi stessa per averle dette, e odierete me perché le ho ascoltate. Ella volse la testa altrove. Un fiotto caldo correva velocemente nelle sue vene. - Non potrò mai odiarvi. Vi dico che vi amo e so che voi dovete volermi bene perché... - s'interruppe. Non aveva mai visto un'espressione cosí dolorosa sul viso di nessuno. - Ashley, mi volete bene... non è vero? - Sí - rispose egli con voce opaca. - Vi voglio bene. Se le avesse detto che l'odiava ella non si sarebbe spaventata di piú. Afferrò la sua manica senza parlare. - Rossella, - riprese egli - non possiamo andar via e dimenticare che abbiamo detto queste cose? - No, - bisbigliò la fanciulla. - Non posso. Non desiderate... sposarmi? Egli replicò: - Sto per sposare Melania. Senza saper come, si accorse di esser seduta sulla bassa sedia di velluto; Ashley, sullo sgabello ai suoi piedi, le teneva ambo le mani in una stretta tenace. Le diceva delle cose... delle cose che non avevano senso. La mente di Rossella era vuota, completamente vuota di tutti i pensieri che vi si erano affollati solo un momento prima, e le sue parole le facevano cosí poca impressione come la pioggia sul vetro. Cadevano in un orecchio che non ascoltava; erano parole tenere e buone, piene di compassione come quelle di un padre che parla a un bambino offeso. Nella sua incoscienza afferrò il nome di Melania e allora lo fissò negli occhi grigi. Vide in essi quell'aria distante che l'aveva sempre contrariata... e anche un'espressione di odio verso se stesso. - Il babbo annunzierà il fidanzamento stasera. Ci sposeremo presto. Ve lo avrei detto, ma credevo che lo sapeste. Credevo che lo sapessero tutti... da tanti anni. Non ho mai supposto che voi... avete tanti corteggiatori. Immaginavo che Stuart... In lei tornavano ora la vita, il sentimento e la comprensione. - Ma avete detto or ora che mi volevate bene. Le sue mani ardenti le fecero male. - Cara, perché volete costringermi a dirvi delle cose che possono ferirvi? Il silenzio di lei lo costrinse a proseguire. - Come posso farvi capire queste cose? Siete cosí giovane e irriflessiva che non sapete che cos'è il matrimonio. - So che vi amo. - L'amore non basta per fare un matrimonio felice, quando due persone sono cosí diverse come noi. Voi, Rossella, da un uomo volete aver tutto: il corpo, il cuore, l'anima, i pensieri. E se non li aveste sareste infelice. Ed io non potrei darvi tutto di me. Non posso dar tutto a nessuno. E non desidererei tutto il vostro cuore e la vostra anima. Voi ne sareste offesa e arrivereste a odiarmi... oh, amaramente! Odiereste i libri che leggo e la musica che amo perché mi toglierebbero a voi anche per un momento, ed io... forse io... - La amate? - Essa è come me, è del mio sangue e ci comprendiamo a vicenda. Rossella, Rossella! Come posso farvi capire che un matrimonio può essere sereno e felice soltanto fra due persone simili? Qualchedun altro aveva detto questo: «I simili devono sposare i loro simili, altrimenti non vi sarà felicità». Chi era stato? Le sembrava che fosse passato un milione di anni da quando aveva udito queste parole, che pure non la convincevano. - Ma avete detto che mi volevate bene. - Non avrei dovuto dirlo. In fondo al suo cervello si accese una piccola fiamma e l'ira cominciò ad avvampare in lei. - Dal momento che siete stato tanto mascalzone da dirlo... Egli impallidí. - Sono stato un mascalzone, perché sto per sposare Melania. Ho fatto torto a voi, ma l'ho fatto ancor piú grande a Melania. Non avrei dovuto dirlo perché sapevo che non avreste capito. Come potevo fare a meno di volervi bene... a voi che avete tutta la passione di vivere che io non ho? Voi che potete amare e odiare con una violenza che per me è impossibile? Perché siete elementare come il fuoco e il vento e le cose selvagge, mentre io... Ella pensò a Melania e improvvisamente vide i suoi tranquilli occhi bruni con la loro espressione distante, le sue placide manine nei mezzi guanti neri di pizzo, i suoi dolci silenzi. E allora la sua ira proruppe, la stessa ira che aveva condotto Geraldo al delitto, ed altri irlandesi loro antenati ad azioni che avevano pagato con la loro testa. Non vi era adesso in lei piú nulla dei beneducati Robillard che sapevano sopportare in silenzio qualsiasi insulto. - Perché non lo dite, vigliacco! Avete paura di sposarmi! Preferite vivere con quella stupida cretina, che apre la bocca soltanto per dire «sí» e «no» e che alleverà una schiera di marmocchi sciocchi e melliflui come lei! Perché... - Non dovete parlare cosí di Melania! - Non debbo, che l'inferno vi sprofondi?! E chi siete voi per dirmi che non debbo? Vigliacco, mascalzone... Mi avete fatto credere che mi avreste sposata e... - Siate giusta - pregò la voce di lui. - Quando mai io vi ho... Ella non voleva essere giusta benché sapesse che egli diceva la verità. Non aveva mai oltrepassato i limiti dell'amicizia con lei; e, nel ricordare questo, una nuova collera l'invase, la collera dell'orgoglio ferito e della vanità femminile. Gli era corsa dietro mentre egli non la voleva. Preferiva a lei una stupidina, con la faccia linfatica come Melania. Oh, come sarebbe stato meglio se avesse seguito i precetti di Elena e di Mammy e non gli avesse mai rivelato neppure che le era simpatico... meglio qualunque cosa che affrontare questa ardente vergogna! Balzò in piedi coi pugni stretti ed egli si alzò col volto pieno della muta angoscia di chi è costretto a guardare in faccia alla realtà quando la realtà è dolore. - Vi odierò finché vivrete, mascalzone... abbietto, abbietto... - Che altra parola voleva dirgli? Non riusciva a trovarne nessuna abbastanza violenta. - Rossella... vi prego... Tese la mano verso di lei e in quel momento ella lo percosse sul viso con tutte le sue forze. Nella stanza silenziosa il rumore fu come uno schiocco di frusta; e improvvisamente la sua ira scomparve lasciandole il cuore pieno di desolazione. L'impronta rossa della sua mano risaltava sul volto pallido e stanco. Egli non disse nulla, ma le prese la mano sinistra, la portò alle labbra e la baciò. Poi, prima che ella avesse potuto dire ancora una parola, uscí chiudendo piano la porta. Ella sedette di nuovo, perché la reazione le fece piegare le ginocchia. Se n'era andato e la memoria del suo viso addolorato l'avrebbe perseguitata fino alla morte. Udí il rumore attenuato dei suoi passi allontanarsi lungo il vestibolo, e l'enormità della sua azione le apparve. Lo aveva perduto per sempre. Ora egli la odierebbe, e ogni qualvolta la vedesse, si ricorderebbe che ella gli aveva dichiarato il suo amore senza essere stata menomamente incoraggiata da lui. «Sono come Gioia Wilkes» pensò all'improvviso; poi ricordò che tutti quanti, e lei piú degli altri, avevano riso con disprezzo della condotta di Gioia. Vide la goffa agitazione di Gioia e udí le sue sciocche risatine quand'era al braccio di qualche giovanotto; e questo pensiero destò in lei una nuova ira, ira contro se stessa, ira contro Ashley, ira contro il mondo. Odiando se stessa, odiava tutti quanti con la forza dell'umiliato e contrastato amore dei sedici anni. Solo una briciola di vera tenerezza era mescolata a quell'amore. In massima parte esso era composto di vanità e di compiacente fiducia nel proprio fascino. Ora aveva perduto e, piú grande del dolore della perdita, era in lei il timore di aver dato spettacolo di se stessa. La sua simpatia era stata palese? Chi sa se tutti ormai ridevano di lei? Questo pensiero la fece tremare. La sua mano si posò su un tavolino lí accanto, giocherellando con un piccolo portafiori di porcellana sul quale sorridevano due amorini. La stanza era cosí silenziosa che le venne voglia di gridare per rompere il silenzio. Doveva fare qualche cosa, altrimenti sarebbe impazzita. Prese il vasetto e lo scagliò violentemente attraverso la camera contro il caminetto. Esso oltrepassò l'alta spalliera del sofà e andò a infrangersi contro il marmo del caminetto. - Questo è troppo - disse una voce dalla profondità del divano. Nulla l'aveva mai spaventata tanto. E la sua bocca divenne troppo arida per permetterle di emettere un suono. Si afferrò alla spalliera della sedia sentendosi mancare le ginocchia, mentre Rhett Butler si alzava dal divano dov'era sdraiato e le faceva un inchino esageratamente cortese. - È già abbastanza noioso avere la propria siesta disturbata da un colloquio come quello che sono stato costretto a udire; ma perché anche la mia vita dovrebbe correre pericolo? Era proprio vero. Non era uno spettro. Ma, Dio ne guardi, egli aveva dunque udito tutto! Rossella raccolse tutte le sue forze in un tentativo di assumere una certa dignità. - Signore, avreste dovuto palesare la vostra presenza. - Davvero? - I suoi bianchi denti brillarono e i suoi audaci occhi neri risero. - Ma eravate voi l'intrusa. Io sono costretto ad aspettare Mr. Kennedy; e avendo la sensazione di essere forse individuo non grato alla società, ho avuto il tatto di allontanare la mia persona poco gradita e ritirarmi qui dove credevo di essere indisturbato. Ma ahimé! - Crollò le spalle e rise dolcemente. La collera stava ricominciando a invadere Rossella al pensiero che quell'uomo rozzo e impertinente aveva udito tutto; udito delle cose che per le quali ella avrebbe preferito esser morta piuttosto che averle pronunciate. - Spione... - cominciò furibonda. - Gli spioni odono spesso delle cose molto divertenti e istruttive - sogghignò l'uomo. - Avendo una lunga esperienza nell'origliare, posso... - Non siete un gentiluomo! - Osservazione giustissima - replicò egli allegramente. - E voi, Miss O'Hara, non siete una signora. - Sembrò trovare la cosa molto divertente, perché rise di nuovo. - Nessuna donna può considerarsi una signora dopo aver detto e fatto quello che ho udito. Però le signore hanno raramente avuto un fascino ai miei occhi. Io so ciò che esse pensano; ma esse non hanno mai il coraggio o la mancanza di educazione di dire il loro pensiero. E questo, coll'andar del tempo, diventa una noia. Ma voi, mia cara Miss O'Hara, siete una ragazza di spirito, di una spirito veramente ammirevole, ed io vi faccio tanto di cappello. Capisco benissimo quale simpatia l'elegante Mr. Wilkes può provare per una ragazza che ha la vostra natura impetuosa. Egli deve ringraziare Dio in ginocchio, perché una ragazza col vostro... Come ha detto? Con la vostra «passione di vivere», ma povera di spirito.... - Non siete degno di pulirgli le scarpe! - urlò esasperata. - E voi lo odierete tutta la vita! - Egli ripiombò a sedere sul sofà e rise. Se avesse potuto ucciderlo, Rossella lo avrebbe fatto. Invece chiamando a raccolta tutta la dignità che le fu possibile, uscí dalla stanza, sbattendo dietro di sé la porta pesante.

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Il drago. Novelle, raccontini ed altri scritti per fanciulli

246577
Luigi Capuana 1 occorrenze
  • 1895
  • Enrico Voghera editore
  • Roma
  • Verismo
  • UNICT
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I quattro monelli poi non stavano fermi; si abbassavano per prendere i sassi da lanciare, si accapigliavano per raccorre le albicocchine cascate, giravano di qua e di là attorno all'albero per colpire — si capiva bene dai gesti — i rami più carichi; insomma pareva sguizzassero a posta per non farsi riconoscere. Il pecoraio aveva assistito cinque buoni minuti allo strazio del povero albicocco dai cui rami veniva giù un nugolo di foglie e di fronde per la grandinata di sassi che lo colpiva; poi non ne aveva potuto più e aveva gridato: — Oohh! Oohh! — in tono di minaccia. I monelli si erano fermati, avevano guardato in direzione della voce e, riconosciutolo, avevano risposto con un urlo di gioia: — Pecoraio! Pecoraio ! E gli si erano slanciati incontro di corsa. Allora li aveva riconosciuti anche lui, e subito gli era sfuggita quell'esclamazione: — Madonna mia !... I padroncini ! — che non significava certamente un bell'elogio a quei monelli. Infatti, ogni volta che i quattro figliuoli minori del padrone arrivavano alla fattoria, si poteva dire che arrivavano quattro diavoli scatenati. E ogni anno, nel mese di maggio, il caso si dava tutti i sabati dopo pranzo. Venivano a piedi dal paesetto vicino, affidati alla custodia di un contadino che, non avendo voglia di correre come loro, spesso li perdeva di vista a metà di strada; e per quella mezza giornata e l'intera giornata della domenica, la fattoria era proprio messa sossopra, senza un minuto di tregua. Galline e tacchini sbandati, inseguiti pei campi di frumento; asini fatti imbestialire da mazzi di spine introdotti sotto la coda; vitellini perseguitati a colpi di canna o di bastone, e che il ragazzo del bovaro stentava a rimenare in istalla; aratri trascinati attorno; carrettelle rovesciate pei burroncelli; zappe, tridenti seminati da per tutto, secondo il capriccio del momento. E non dico niente del saccheggio all'uva agresta, alle mele, alle susine immature, agli alberi di albicocco e di ciliegio; niente delle scalate ai tetti del casamento in cerca di nidi di passerotti. Come mai quei diavoletti non si facessero male, non ricevessero qualche calcio dalle bestie, anzi non si rompessero l'osso del collo, pareva proprio un miracolo. Ma i contadini avevano ordine di lasciarli fare; e li lasciavano fare, brontolando però sotto voce, perchè poi toccava a loro rimenare al posto gli oggetti dispersi, rassettare e far sparire ogni traccia di quella specie di saccheggio. Per ciò, al riconoscerli, il pecoraio aveva esclamato : — Madonna mia!... I padroncini ! Egli era arrivato soltanto da una settimana alla fattoria, con le pecore che dovevano pascolare su per le colline e per la vallata dello Sgombo, e ricordava con spavento quel che gli era toccato di tollerare il maggio dell'anno passato. Dopo pochi minuti, li vide scoppiare in mezzo alle pecore che pascolavano tranquille e che si sbandarono, impaurite anche dagli urli di gioia dei quattro ragazzi datisi ad afferrarle pei velli, per le corna, per le code, a rincorrerle chi di qua, chi di là. — Ecco la ricotta! — gridò il pecoraio, per impedire che continuassero. E alzando il braccio, mostrò il cestino che la conteneva. — Bravo, pecoraio! La ricotta! la ricotta! Gli saltarono addosso; ognuno voleva essere il primo a levargli di mano il cestino, e dava spinte e urtoni all'altro, urlando, ridendo; tanto che il pecoraio si senti intenerito di quella allegra gazzarra fanciullesca, sorrise, abbassò il braccio e consegnò il cestino con la ricotta al maggiore, dicendo : — Portatela alla fattoria; qui non c'é piatti. E sospirò, come sollevato da un peso, quando li vide andar via di corsa, il maggiore avanti, col cestino in alto quasi fosse stato una spoglia di vittoria, e gli altri dietro, acclamanti, facendo sollevare un nugolo di polvere, peggio che se passasse per la via una mandra di capre. ***

La sorte

247867
Federico De Roberto 1 occorrenze
  • 1887
  • Niccolò Giannotta editore
  • Catania
  • Verismo
  • UNICT
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E quelli abbassavano ancora la voce, e Alfio spalancava ancor più gli occhi. A un tratto, al chiassuolo di San Rocco, s'intese un rumor di passi. - Chi è che viene? - Tò - s'interruppe Vacirca - quella lì non è Anna Laferra? - Con Vincenzo Sutro, guarda! - disse Manfuso - E quel povero Salvatore che abbiamo lasciato a Napoli disperato per lei! Alfio Balsamo non disse niente; ma come se la vide passare dinanzi, dritta e superba, con la faccia pallida e i capelli scomposti, esclamò, in una risata: - Va', puttana!

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