Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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Nanà a Milano

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Arrighi, Cletto 1 occorrenze

Elisa teneva le palpebre abbassate. Aveva presa una mano della balia e la teneva stretta nella sua col braccio teso in giù. Pareva di marmo se la vita non si fosse rivelata dall'affannoso movimento del seno verginale. La vecchia tremava e teneva i suoi piccoli occhi pieni di amore fissati nelle sembianze del suo Enrico. - Ho udito - disse questi senza muoversi dal suo posto - quello che tu buona Elisa avresti voluto fare per me. Permettimi di ringraziartene e di domandarti perdono per quello che è passato. E stette commosso ad aspettare che la fanciulla gli rispondesse una parola, facesse un atto, gli alzasse gli occhi in fronte. Questa non disse che: - La mamma è di là. Debbo andare da lei. E fece atto di muoversi. La balia, quasi senza volerlo, la trattenne. - No - disse Enrico andando a lei e prendendole la mano che restava libera - per carità Elisa una parola sola di perdono, che non mi lasci partire così disperato. Fra poche ore io andrò a Firenze dove penso di arrolarmi nell'esercito. Forse non ci vedremo mai più. Ma per carità, non lasciarmi andar via così. - Che cosa importa a te del mio perdono? - disse Elisa con un'aria di risoluzione tranquilla, ma con una voce in cui si sentivano le lagrime. Sono forse io ancora qualche cosa per te? Va a cercare il perdono a quella donna che ha più diritto di me di concederlo. - Elisa ti supplico, non parlami di quella donna. Io non so più che ella esista, te lo giuro. Sì, lo confesso, fui un miserabile; ma ti giuro ancora per tutto ciò che ho di più sacro che io non l'ho amata mai. Ora lo sento con sicurezza.... - Oh, me l'avevi già detto un'altra volta! - sclamò Elisa. - E invece.... - È vero, ma quando ti dico che se mi guardo indietro ho vergogna di me stesso! E voi altre due potrete dire d'essere le sole a questo mondo che hanno potuto sentire da me parole simili. Io che non ho mai chiesto perdono neppur a mia madre. Si è vero. Io non so quel che sia accaduto di me. Ero pazzo! Era orgoglio! Ah, se credessi agli incantesimi, direi che la mi aveva stregato. Io la odiavo e pur non potevo staccarmi da lei. Elisa perdonami. Non ti chiedo più. Perchè dovrei ingannarti, ora che debbo partire per espiare i miei errori? Capisco che mi son reso indegno di te e non ti chiedo di più del perdono. Non ho più il diritto di dirti che io non amo, che non ho mai amata altra donna fuori di te. Oh, non lasciarmi partire in collera Elisa. E tu balia, pregala anche tu dunque.... - Ma perchè ora la vuol tornar via da Milano? - sclamò la buona vecchia scoppiando in lagrime. - Povera balia! Oh vedo che tu mi vuoi più bene di lei. Che cosa vorresti tu che io facessi ancora a Milano? Vorresti forse che mi fermassi per vederla forse diventare la moglie d'un altro? Non vedi che la mi odia? - Ah Enrico! - sclamò la Elisa con un gran sospiro. - Mi perdoni? - domandò Enrico ansiosamente. - No - rispose la fanciulla con un filo di voce - ormai io non ho più nulla a perdonarti. Io sono promessa ad altri. - Addio. Tu non mi vedrai più. E se accadrà del male, ricordati Elisa, ora sarà per colpa tua. Enrico si volse, e sull'uscio incontrò don Ignazio che entrava. Mentre questo colloquio accadeva nel gabinetto il domestico era rientrato in sala dove stavano donna Eugenia e il marchese d'Arco e le aveva detto sottovoce: - C'è qui fuori un signore e una signora che domandano di parlare a lei. - Chi sono? - Sono forastieri; parlano fra loro in tedesco. - Bene falli entrare. - Chi mai saranno? - domandò il marchese. - Ma! ora vedremo! Poco stante, duri come stoccafissi, con un'aria fra la compunzione e la dignità, facevano il loro poco solenne ingresso nella sala il signor Rikherwenzel e sua figlia Leopoldina, di Vienna. "Cosa vorranno mai da me questi signori" si domandò fra sè donna Eugenia, mentre il marchese dopo averli salutati con un cenno di testa si disponeva ad andarsene. - No, la si fermi - le disse la signora Eugenia sottovoce. - Siniora - disse Leopoldina - lei deve scusare nostra venuta da lei. Noi venire per affare di suo e nostro vantaggio molto importante. - Ah! - sclamò donna Eugenia - forse mi vogliono parlar in segreto? - Oh no, siniora. Il siniore può benissimo ascoltare non essendoci niente di segreto. - Tanto meglio. E a chi ho l'onore di parlare? - domandò la padrona di casa facendo ai due forestieri un cenno perchè si accomodassero. - Questo è mio padre Leopoldo Rikherwenzel che non parla bella lingua italiana e io sono sua figlia Leopoldina. Al marchese che si era messo a studiarli passò negli occhi un lampo umoristico. "Se quello è suo padre - pensò - questa sarà probabilmente sua figlia." - S'accomodino - disse donna Eugenia. - Noi essere venuti - ripigliò la Leopoldina - per scongiurare una sventura in questa casa. Noi avere saputo sua figlia essere promessa sposa al signor scultore Aldo Rubieri, non è vero? La signora Eugenia inarcò le sopracciglia e non rispose subito. "Cosa mai possono entrarci costoro nei fatti nostri?" pensò. Ma poi rispose subito: - A dire la verità nulla è combinato ancora, perchè egli non ha avuto ancora il nostro consenso. - Pene, tanto meglio per tutti allora - sclamò la Leopoldina sorridendo come una scimmia - perchè noi poter mostrare documenti per provare che sinior Aldo Rubieri non può sposare sua figlia. - Documenti! - sclamò un poco sorpresa donna Elena. - Sissignora. Lei deve sapere che sinior Aldo è mio promesso sposo da dieci anni e che io ho amato sempre sempre lui e che ho aspettato sempre lui, e lui non poter mancare a suo promesso senza molto sagrificio di danaro per contratto in carto pollato, e anche per sua parola d'onore. Così dicendo l'austriaca zitellona sporgeva alla signora Eugenia la lettera colla quale il Rubieri s'era impegnato a pagare quella somma, come è già noto ai lettori. - Io non leggo il tedesco - disse la signora Eugenia dopo aver dato uno sguardo su quella lettera. - Ma non conta. Tant'è che la mi dica di che si tratta e in che cosa possa entrarci io, madre della Elisa. - Lei sapere certamente - disse la Leopoldina - che sinior Rubieri è figlio di un generale austriaco al servizio di nostri Kaiser Ferdinando e Franz Joseph. - Certo che lo so - rispose donna Eugenia. - Ed è anzi un vanto della vita di suo figlio l'esser fuggito dalla famiglia per venir a battersi co' suoi compatrioti. Leopoldina leggermente imbarazzata a questo punto raccontò il resto della storia e terminò dicendo: - Noi in tribunale siamo decisi di fare grosso scandalo perchè avere trovato finalmente bravo avvocato che farà la nostra causa senza fare spendere a noi troppi danari, e abbiamo pensato di venire a prevenire la siniora per suo regolamento. Donna Eugenia a questo punto stava in forse tra il ridere e lo star seria. L'eteroclito stile dell'austriaca fanciulla le consigliava l'ilarità, ma la storiella a carico dell'uomo che ambiva alla mano della sua Elisa l'aveva un po' turbata. Ringraziò la signora Leopoldina delle sue buone intenzioni e soggiunse che avrebbe comunicate quelle notizie a suo marito, il quale avrebbe presa quella determinazione che fosse del caso. Li congedò con quella cortesia fredda e cerimoniosa che è più eloquente talvolta di un'insolenza e che a buon intenditore vuol dire: mi facciano però la finezza di non venirmi più fra i piedi. In fondo però la madre provava una segreta contentezza. Ella non s'era ancora persuasa che la sua Elisa non dovesse diventare la contessa O'Stiary. E quando aperse l'animo al marchese su questo punto trovò in lui un certo sorriso e un assentimento che le fu di buonissimo augurio. - Andiamo dunque a vedere che cosa ne dice mio marito - fece ella dando il braccio al marchese. E s'avviarono verso il gabinetto. - Io non ho più nulla a perdonarti. - Aveva detto la Elisa al conte. - Io sono promessa ad altri. - Addio - le aveva risposto Enrico - e se accadrà del male ricordati Elisa che sarà per tua colpa. In questo don Ignazio era comparso. Egli era ancora un poco acceso in volto per la collera di dianzi. - Come, è qui lei? - disse fermandosi e dando un'occhiata severa alla Elisa e alla balia. - Sì, zio - rispose Enrico rimettendosi - non ho voluto andare al mio destino prima di venire a salutarvi tutti in casa. - E... dove fai conto di tornare, se è lecito? - domandò il notaio con voce ironica e quasi stizzosa. La risposta di Enrico fu interrotta appunto dal comparire di donna Eugenia e del marchese d'Arco. Enrico salutò affettuosamente la signora poi mosse incontro al marchese e gli strinse la mano. - Ah testolina, testolina! - disse questi metà severo metà sorridente. Sentiamo un poco che cosa fai conto di fare dunque? - Sì, vediamo questi progetti fioriti - soggiunse don Ignazio. - Sono semplicissimi. Io partirò questa sera per Firenze dove mi arrolerò come volontario in qualche reggimento. Ho delle raccomandazioni pel ministro della guerra; sono già stato tenuto abile al servizio tre anni sono, e spero mi accetterà. Il mio amico Sappia è incaricato di venir da te, caro zio, per aggiustare tutte le mie faccende. - E dire che gli ho già pagato il cambio! - sclamò il notaio. - Tu vorresti dunque andar a far il soldato semplice? - Certo. Non potrei pretendere di più per ora. - Bel mestiere! Mangiar nella gamella e scopar i cessi. - Far il soldato per il proprio paese - rispose Enrico - è l'unico mestiere che convenga a chi ha fatta la vita che ho fatto io finora. - Eppure - riprese don Ignazio - se tu promettessi di far proprio giudizio una buona volta, ci sarebbe ancora la speranza di accomodare i tuoi imbrogli salvandoti parte di sostanza. Io mi impegnerei di risparmiare un centinaio e più di mille lire. - Via, non parlarne, caro zio - rispose Enrico con dolcezza. - Ho detto poc'anzi all'usuraio che i creditori saranno pagati tutti fino all'ultimo centesimo. Io rispetto troppo la mia firma. - Insomma non c'è verso di fargli mettere il capo a partito - borbottò il notaio ponendosi a sedere come sfiduciato. - È una testa falsa... e addio patria! Mentre don Ignazio pronunciava questo giudizio sul suo pupillo il marchese d'Arco, che come il suo solito non aveva ancora aperto bocca, avvicinatosi a Enrico e messogli una mano sulla spalla gli diceva: - Bravo Enrico. Hai fatto il tuo dovere d'uomo d'onore e questo deve essere sempre dinanzi ad ogni cosa. - Ma sì, ma bravo, ma benone! - sclamava il notaio dimenandosi ne' panni. - Cara zia - disse Enrico a donna Eugenia prendendole una mano - io ti ringrazio ancora di tutte le bontà che avesti per me e spero mi perdonerai se per causa mia hai dovute subir delle... seccature.... - Oh caro Enrico... io vorrei soltanto vederti un po' a posto. Enrico si valse alla Elisa. - Addio Elisa... e ricordati qualche volta del tuo compagno d'infanzia.... E siccome sentiva venir un fiume di lagrime agli occhi si volse alla balia. - E anche tu, povera balia, addio e perdona se qualche volta.... Non potè proseguire. Si sentiva strozzare dal pianto. Stava per fuggir via. - Enrico vieni qua - disse il marchese. - Io sono il tuo padrino e ora voglio mettere di esser tuo padre. Se tuo padre fosse qui... forse non sarebbe accaduto ciò che è accaduto... ma in caso ti direbbe: sì, va a far il soldato pel tuo paese, giacchè quella scuola di abnegazioni e di sagrifici la ti farà diventare un uomo come si deve. Ma io non ho il coraggio di lasciarti partire così; e poi non posso neanche vedere quella cara fanciulla e quella povera vecchia piangere in quel modo... e poi... e poi, ti dico la santa verità, non vorrei io stesso.... E per non piangere tentò di ridere. - La ringrazio marchese di queste buone parole - disse Enrico stringendogli affettuosamente la mano. - Ma ora tutto è impossibile; non potrei più stare a Milano lo stesso.... - Andiamo dunque lei, don Ignazio, signor burbero benefico, faccia la pace col suo pupillo e gli perdoni ogni cosa. Siamo stati giovani anche noi... che diavolo! - Oh per il male che ha fatto a me - rispose don Ignazio tirando una presa di tabacco - io gli ho già bell'è perdonato. Mi duole soltanto che ora sia troppo tardi in quanto alla morale e che il mio perdono non gli possa più fare nè caldo nè freddo a quest'ora. - La guardi quella sua povera Elisa com'è addolorata - riprese sottovoce il marchese. - La Elisa? Ah so bene poi che la mi burla, caro marchese - ripigliò don Ignazio levandosi. - No, no, no. Ha voluto lui essere uno spiantato? Tal sia di lui! Io non potrei in coscienza rompere il collo a mia figlia col pretesto che si vogliono bene. Il mal d'amore passa in fretta, ma i matrimoni sono eterni. - Vediamo, vediamo - ripigliò il marchese tirando don Ignazio in disparte. - Bisogna che non lo lasciamo andar a soldato. Io non voglio. Mi secca di vederlo partire. - Faccia lei! Trovi lei il mezzo. Che cosa vuol mai che io le dica? Io, se anche lei m'avesse lasciato fare, m'impegnavo di salvargli una parte di sostanza. Non ha voluto? Peggio per lui! E non fu anche lei a lodarlo? - Enrico - ripigliò il marchese volgendosi al giovine - prometti tu sul tuo onore di far giudizio, di non metter mai più il piede in una bisca e di essere degno insomma della Elisa? - Ma che cosa dice, marchese, che cosa dice? - sclamò il notaio con la voce d'un uomo che è risoluto a farsi intendere seriamente. - Lei dice delle cose impossibili; a questa cosa non c'è più da pensarci e da un pezzo. Sono suo padre o non sono suo padre? Benedetto uomo! Vuol dir tutto lui! - Non dubitare, caro zio - disse l'Enrico con dolcezza malinconica. - Tu sei esaudito lo stesso. Capisco anch'io che ora non potrei più accettare quello che avrebbe dovuto essere la mia... quello che dice il marchese. Spero di riuscire a farmi onore e a cercarmi una posizione indipendente e degna di un gentiluomo.... E allora... se la Elisa mi avrà perdonato... se non avrà sposato un altr'uomo.... - Ah questo è un altro paio di maniche! - sclamò don Ignazio. - Quanto a lei, marchese - ripigliò il giovine conte volgendosi al d'Arco - la mi permetta di ringraziarla, delle sue buone parole. Oh io sento che la Elisa sarebbe stata la sola donna al mondo che avrebbe potuto farmi felice, ma non ho saputo meritarmela ed è giusto che succeda ciò che deve succedere. Adesso non potrei, dovessi morire di dolore, aspirare a lei.... - Naturalmente! - osservò don Ignazio. - Non vorrei si dicesse che dopo avere sprecato in tre anni tutto il mio avere sono andato ad attaccare il cappello in casa di mia moglie. - Oh per questo sarebbe il minor male! - sclamò don Ignazio. - Ho piacere di sentirti a parlare così - disse allora il marchese alzandosi, d'ond'era seduto, con una specie di risoluzione di buon augurio. La Elisa, che con le gote irrigate di lagrime stava stretta a sua madre, alzò gli occhi roridi in faccia al marchese, e vide sulla di lui fisonomia uno di que' buoni sorrisi arguti, che il d'Arco possedeva quando stava per dire qualche cosa di molto bello e di molto buono. - Dunque allora se non è che questo - disse egli con voce posata e chiara dovete sapere cari miei, che quella persona da nominarsi, la quale ha trattato questa mattina la compera della possessione di Enrico e di questo palazzo, sono proprio io. Io non potevo permettere naturalmente, che la casa O'Stiary e la campagna, dove passai tanti bei giorni de' miei anni giovanili, andasse in mano di cani e boriani La somma fu già rimessa al marchese Sappia, che è garante anche pei debiti di Enrico, e che penserà a pagare ogni cosa. Io sono dunque il nuovo proprietario e credo di aver fatto un discreto contratto. Siccome però io sono solo al mondo e non so davvero che farne del superfluo, così tu, Enrico, mi permetterai di dirti, che tanto la tenuta quanto questa casa, sono ancora cosa tua. - Ah, questo è troppo, marchese! - sclamò Enrico. E rimase interdetto, e non pensò di buttarglisi al collo, come avrebbe fatto chiunque altri, che non avesse avuto il di lui orgoglio nelle vene. Il marchese era, lo sappiamo già, un vero filosofo, e non si lasciava mai influenzare dall'amor proprio. Anche quella titubanza dignitosa, anzi superba, di Enrico, gli piacque; egli non s'adontò che il giovine conte fosse restìo ad accettare la sua donazione. Gli si avvicinò e gli disse: - Sei tutto tuo padre! Ma pensa che la Elisa ti ama.... E additò la cara fanciulla che stava presso donna Eugenia. I di lei occhi, maravigliati, pieni di riconoscenza, intenti, inondati da una gioia che non lasciava più luogo a dubbio, stavano fissi in quelli del marchese. Ella si spiccò da sua madre, si slanciò con subitaneo moto verso di lui, gli prese la mano e sclamò: - Ah, come l'adoro lei, marchese. Come è buono! E questo valse all'Enrico come cento perdoni. Io ho fiducia che il lettore mi dispensi volentieri dal riferire la storia retrospettiva del viaggetto affannoso di Enrico verso Parigi, in cerca di Nanà, che viaggiava invece verso la Piccola Russia, col principe Kuvaloff; come pure che egli non desideri ch'io gli debba descrivere la delusione di Rubieri, quando venne a pranzo e si trovò pulita la bocca Nè come sia andata a finir la faccenda - che restò incruentissima del resto - fra Marliani e Cantis - nè a raccontargli del fallimento della Romea, inezie tutte che facilmente si sciolgono coll'imaginazione. Quanto a Nanà, non stette più di un mese col principe Kuvaloff. Quand'egli cominciò a trattarla a furia di knout, essa cercò in Kiew un suo compatriota parrucchiere, che tornava in occidente, e si fece rapire da lui. La sua fine è nota. Zola ci racconta, che essa morì di vaiuolo al Grand Hôtel a Parigi, in quei giorni in cui i Francesi, ebbri di certezze gloriose, che dovevano mutarsi in disastri incredibili, passavano in folla sui boulevards boulevardsgridando in cadenza: à Berlin, à Berlin! Berlin!Molti lettori hanno il difetto di venir qui in fondo a cercare come vada a finire la panzana. Qui panzana vera non c'è stata. In ogni modo mi permettano di non accontentare questa loro illegittima curiosità. La contessa O'Stiary è oggi viva ancora? È dessa felice? È infelice? Chi lo sa? Mettiamo ch'ella sia infelice. L'è questa un'ipotesi che sbaglia di rado. Un'ultima preghiera al lettore: Se non l'ha ancora letta, legga l' l'Entratura Mi farà un gran piacere. FINE.

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