Vocabolario dinamico dell'Italiano Moderno

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EH!La vita...(Novelle)

662450
Capuana, Luigi 1 occorrenze
  • 1913
  • Tipografia agraria
  • prosa letteraria
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Complimento che le aveva fatto abbassar gli occhi e abbozzare un lieve sorriso di modesta compiacenza. Da certe mosse, da certe parole quasi involontariamente scambiate, Biagi capì che tra marito e moglie non potevano esserci quelle cordiali relazioni supposte da tutti, vedendo la vita appartata che i Giani menavano. - Probabilmente - pensò - la povera donna è soffocata sotto il peso delle cortesie, delle amabilità, delle tenerezze del marito! Se è asfissiante fuori, con gli amici, figuriamoci che deve egli essere in casa! Era bella, fresca la signora Giani, ma un po' goffina, un po' impacciata, e con qualcosa di grossolano, di rozzo in certi atti, in certe espressioni della voce; ma per Biagi però era la moglie di Giani, quasi come dire del suo più fiero personale nemico, dell'opprimente, del soffocante, dell'inevitabile, gentilissimo, cortesissimo Giani! E questo bastava per fargli scorgere soltanto i pochi pregi esteriori della donna e non curarsi del resto. Tardi Biagi si avvide che invece di prendere era stato preso. Da principio si era inorgoglito del suo rapido trionfo. La signora Giani - Làlia, come era già arrivato a chiamarla - non aveva opposto molta resistenza.... - Fo male, lo so; ma se lo merita! Possibile? Battolo Giani, il mellifluo, il cortesissimo, il gentilissimo era un brutale tiranno nell'intimità? Làlia rappresentava dunque una schiava che rompeva le sue catene, una vittima che prendeva la sua rivincita? E se la sentiva tremare tra le braccia come scossa da terribili presentimenti, e cominciava a provare anche lui certi brividi, quando Làlia sembrava di divertirsi nell'immaginare tranelli, nel supporre raffinate combinazioni di vendetta da parte del marito che, per ora fortunatamente non si era accorto di nulla o... fingeva di non essersi accorto di nulla.... a fine di rassicurare i colpevoli e sorprenderli quando meno se lo sarebbero atteso. Quel che Làlia ideava per deviare i sospetti del marito era proprio incredibile: una specie di corsa vertiginosa da appartamentino ad appartamentino, da camera mobiliata a camera mobiliata, da albergo ad albergo fuori mano. E ciò contribuiva ad accrescere per Biagi il valore della vendetta. Aveva pensato, quando la realtà presente era un semplice maligno progetto, aveva pensato anche alla tragica scena finale, alla rottura irrimediabile con cui sarebbe riuscito a levarsi di torno l'oppressione, il soffocamento di quell'uomo, e sarebbe stato per sempre. Ma ora corniciava a riflettere: - Va bene! Va bene! E quando ni sarò liberato, di lui, anche a costo di un duello - vado agli estremi - come dovrò poi fare per liberarmi dalla moglie? Giacché non poteva rimanere con quel laccio al collo, laccio che cominciava ad essere impaccioso per le pretese, le esigenze, i capricci, le testardaggini con cui, a poco a poco, veniva fuori una Làlia molto diversa da quella che si era mostrata nelle prime settimane della loro luna di miele. Allora Biagi non aveva punto badato a certe rozzezze, a certe grossolanità; ma ora, dopo otto mesi - la cosa si era prolungata troppo - la vendetta contro Giani gli sembrava comprata un po' caramente. Spesso, davanti a quell'uomo che non cessava, in tutte le occasioni, di colmarlo di cortesie, di gentilezze di ogni specie, Biagi si sentiva avvilito, mortificato; ma quasi sùbito si lasciava vincere dalla incoercibile irritazione che le troppe cortesie e gentilezze gli producevano, e una volta, fu sul punto di gridargli, davanti ai colleghi di ufficio: - Ma lo sai che cosa ho fatto? Ti ho fatto.... Ti ho fatto!... E lui stesso non sapeva com'era riuscito a frenarsi. Da qualche giorno, Biagi aveva notato certi misteriosi confabulamenti dei colleghi di ufficio, dai quali egli era escluso. Giani andava da un tavolino all'altro, da una stanza all'altra, tirava in disparte ora uno, ora l'altro dei colleghi. E siccome Biagi, insospettito - aveva la coda di paglia domandò: - Io sono scartato? - Giani, con aria di insolita serietà, aveva risposto: Appunto! Appunto! Quantunque.... si tratti di te. - Di me? Ma io non permetto.... - Permetti o non permetti.... - Permetterai, fino a domattina - intervenne un collega ridendo. Si era dimenticato che il 16 di agosto avveniva il suo onomastico. Giani aveva organizzato una piccola festa di fiori e una colazione al Pozzo di S. Patrizio. Biagi trovò su la sua cartella un cumulo di carte da visita con augurii e l'invito a colazione disegnato a penna da uno dei colleghi che aveva pretese artistiche. Ma quando seppe che tutto questo era stato affettuosamente organizzato da Giani, fu preso da un incredibile impeto di collera misto a brevi scoppi nervosissimi di risa. Voleva protestare, e non riusciva a dir altro: - Ma.... Giani! È troppo!... Ma, Giani! - Troppo? Troppo?... Niente a petto del servizio che tu mi hai reso... Giani lo abbracciava, lo baciava, tornava ad abbracciarlo... E rivolto agli amici poi disse: - Si è preso mia moglie!... Mi ha liberato di mia moglie!... Da oggi in poi, ritornerò scapolo!... Non ne potevo più! Grazie, grazie, caro Biagi! Non ne potevo più! Biagi, pallido come un morto, stringeva i pugni, tremando da capo a piedi sentendosi ridicolo davanti a Giani e ai colleghi. I quali si erano guardati in faccia domandandosi con gli sguardi se Giani non era improvvisamente impazzito. Alcuni, per evitare un malanno, lo condussero via. - C'è un malinteso, Giani! Biagi non è capace... E tua moglie poi.... Allora Giani si sfogò rivelando che terribile donna fosse sua moglie nell'intimità: villana, prepotente, inesorabile, testarda, una lingua che non riposava mai, che assaliva da tutte le parti. Egli non sapeva spiegarsi come mai Rocco Biagi si fosse indotto... E, in ogni modo, gli era grato, gratissimo di quel che gli aveva fatto, qualunque fosse stata la sua intenzione. Povero Biagi!... Lo compiangeva! - Sarà difficile che se ne sbarazzi - soggiunse. - Io, per non commettere una enormità, ho dovuto far provvista di bontà, di cortesia, di amabilità fuori di casa; per distrarmi anche. Povero Biagi! Non saprò mai, mai, ringraziarlo abbastanza. L'ho abbracciato e baciato sinceramente. Diteglielo, per confortarlo. E ditegli che, per evitare d'incontrarci in ufficio, mi son fatto mutare di sezione. Biagi non si aspettava questo strano risultato. - L'arme si è ritorta contro di me! - disse a un amico che gli accennava dalla lontana quello che era avvenuto. Intanto, finalmente, mi sono liberato dalle asfissianti cortesie del marito! Non avrebbe confessato, per puntiglio, a qualunque costo, che ora lo avrebbe preferito volentieri a la moglie!

Pagina 196

IL Santo

668502
Fogazzaro, Antonio 1 occorrenze

Il Papa, che da quando Benedetto aveva ricominciato a parlare gli teneva gli occhi in viso, rispose con un lieve abbassar del capo. "Il terzo spirito maligno" riprese Benedetto "che corrompe la Chiesa, non si trasfigura in angelo di luce perché saprebbe di non poter ingannare, si accontenta di vestire una comune onestà umana. È lo spirito di avarizia. Il Vicario di Cristo vive in questa reggia come visse nel suo episcopio, con un cuore puro di povero. Molti Pastori venerandi vivono nella Chiesa con eguale cuore, ma lo spirito di povertà non vi è bastantemente insegnato come Cristo lo insegnò, le labbra dei ministri di Cristo sono troppo spesso compiacenti ai cupidi dell'avere. Quale di essi piega la fronte con ossequio a chi ha molto solamente perché ha molto, quale lusinga con la lingua chi agogna molto, e il godere la pompa e gli onori della ricchezza, l'aderire con l'anima alle comodità della ricchezza pare lecito a troppi predicatori della parola e degli esempî di Cristo. Santo Padre, richiami il clero a meglio usare verso i cupidi dell'avere, sieno ricchi, sieno poveri, la carità che ammonisce, che minaccia, che rampogna. Santo Padre!" Benedetto tacque, fissando il Papa con una espressione intensa di appello. "Ebbene?" mormorò il Papa. Benedetto allargò le braccia e riprese: "Lo Spirito mi sforza a dire di più. Non è opera di un giorno ma si prepari il giorno e non si lasci questo cómpito ai nemici di Dio e della Chiesa, si prepari il giorno in cui i sacerdoti di Cristo dieno l'esempio della effettiva povertà, vivano poveri per obbligo come per obbligo vivono casti, e servano loro di norma per questo le parole di Cristo ai Settantadue. Il Signore circonderà gli ultimi fra loro di tale onore, di tale riverenza quale ora non è nel cuore della gente intorno ai Principi della Chiesa. Saranno pochi ma la luce del mondo. Santo Padre, lo sono essi oggi? Qualcuno lo è; i più non sono né luce né tenebre." Qui, per la prima volta, il Pontefice assentì del capo mestamente. "Il quarto spirito maligno" proseguì Benedetto "è lo spirito d'immobilità. Questo si trasfigura in angelo di luce. Anche i cattolici, ecclesiastici e laici, dominati dallo spirito d'immobilità credono piacere a Dio come gli ebrei zelanti che fecero crocifiggere Cristo. Tutti i clericali, Santità, anzi tutti gli uomini religiosi che oggi avversano il cattolicismo progressista, avrebbero fatto crocifiggere Cristo in buona fede, nel nome di Mosè. Sono idolatri del passato, tutto vorrebbero immutabile nella Chiesa, sino alle forme del linguaggio pontificio, sino ai flabelli che ripugnano al cuore sacerdotale di Vostra Santità, sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di uscire a piedi e sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case. È lo spirito d'immobilità che volendo conservare cose impossibili a conservare ci attira le derisioni degl'increduli; colpa grave davanti a Dio!" Il petrolio veniva mancando nella lucerna, il cerchio delle tenebre si stringeva, si addensava intorno e sopra la breve sfera di luce in cui si disegnavano, l'una in faccia all'altra, la bianca figura del Pontefice seduto e la bruna di Benedetto in piedi. "Contro lo spirito d'immobilità" disse questi "io la supplico di non permettere che sieno posti all' Indice i libri di Giovanni Selva." Quindi, posta la seggiola da banda, s'inginocchiò nuovamente, stese le mani al Pontefice, parlò più trepido e più acceso: "Vicario di Cristo, io La scongiuro di un'altra cosa. Sono un peccatore indegno di venire paragonato ai Santi ma lo Spirito di Dio può parlare anche per la bocca più vile. Se una donna ha potuto scongiurare un Papa di venire a Roma, io scongiuro Vostra santità di uscire dal Vaticano. Uscite, Santo Padre; ma la prima volta, almeno la prima volta, uscite per un'opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. Ho vista dalla Galleria delle lapidi i lumi che fronteggiano un altro palazzo di Roma. Se il dolore umano chiama in nome di Cristo, là si risponderà forse: "no" ma si va. Dal Vaticano si risponde "sì" a Cristo, ma non si va. Che dirà Cristo, Santo Padre, nell'ora terribile? Queste parole mie, se fossero conosciute dal mondo, mi frutterebbero vituperî da chi più si professa devoto al Vaticano; ma per vituperi e fulmini che mi si scagliassero non griderei io fino alla morte: che dirà Cristo? Che dirà Cristo? A Lui mi appello." La fiammella della lucerna mancava, mancava; nella breve sfera di luce fioca che le tenebre premevano non si vedeva quasi più di Benedetto che le mani stese, non si vedeva quasi più del Papa che la destra posata sul campanello d'argento. Appena Benedetto tacque, il Santo Padre gli ordinò di alzarsi, poi scosse il campanello due volte. La porta della Galleria si aperse, entrò il fido cameriere già popolare in Vaticano col nome di don Teofilo. "Teofilo" disse il Papa, "in Galleria, è riaccesa la luce?" "Sì, Santità." "Allora passa in Biblioteca dove troverai monsignore. Digli che venga qua, che mi aspetti. E tu provvedigli un'altra lucerna." Ciò detto, Sua Santità si alzò. Era piccolo di statura e tuttavia un po' curvo. Mosse verso la porta della Galleria accennando a Benedetto di seguirlo. Don Teofilo uscì dalla parte opposta. Triste presagio, nella buia sala dov'eran corse tante fiammelle di parole accese dallo Spirito, non rimase che la piccola lucernina morente. La Galleria delle lapidi, là dove il Papa e Benedetto vi entrarono, era semibuia. Ma nel fondo una grande lampada a riflettore illuminava l'iscrizione commemorativa a destra della porta che mette nella loggia di Giovanni da Udine. Fra le grandi ali di lapidi schierate da capo a fondo della Galleria, che guardavano l'oscuro dibattito delle due anime viventi come testimoni muti che già conoscessero i misteri di oltre tomba e del giudizio divino, il Papa si avanzava lento, silenzioso, seguito, un passo indietro e a sinistra, da Benedetto. Sostò un momento presso il torso del fiume Oronte, guardò dalla finestra. Benedetto si domandò se guardasse i lumi del Quirinale, palpitò, attendendo una parola. La parola non venne. Il Papa riprese, tacendo sempre, il suo lento andare, con le mani congiunte dietro il dorso, e il mento appoggiato al petto. Sostò presso al fondo, nella luce della grande lampada; parve incerto se ritornare o procedere. A sinistra della lampada la porta della Galleria si apriva sopra uno sfondo di notte, di luna, di colonne, di vetri, di pavimento marmoreo. Il Papa si avviò a quella volta, scese i cinque gradini. La luna batteva per isghembo sul pavimento rigato dalle ombre nere delle colonne, tagliato in fondo alla loggia dall'obliquo profilo dell'ombra piena, dentro la quale mal si discerneva il busto di Giovanni. Il Papa percorse la loggia fino a quell'ombra, vi entrò, vi si trattenne. Intanto Benedetto, fermatosi molti passi indietro per non avere l'aria di premere irriverentemente nel desiderio di una risposta, mirava l'astro veleggiante fra nuvole grandi su Roma. Mirando l'astro, domandò a sé, a qualche Invisibile che gli fosse vicino, quasi anche allo stesso volto severo e triste della luna, se avesse troppo osato, male osato. Si pentì subito del suo dubbio. Aveva forse parlato egli? Oh no, le parole gli erano venute alle labbra senza meditazione, aveva parlato lo Spirito. Chiuse gli occhi in uno sforzo di preghiera mentale ancora levando la faccia verso l'astro, come un cieco che porgesse il viso avido al divinato splendore di argento. Una mano lo toccò lievemente sulla spalla. Trasalì e aperse gli occhi. Era il Papa e il suo viso diceva come avesse finalmente maturate nel pensiero parole che lo appagavano. Benedetto chinò il capo rispettosamente ad ascoltarlo. "Figlio mio" disse Sua Santità "alcune di queste cose il Signore le ha dette da gran tempo anche nel cuore mio. Tu, Dio ti benedica, te la intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a me perché io mi governi con essi secondo carità e prudenza; e devo sovratutto misurare i miei consigli, i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un povero Maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni e io non posso governare la Chiesa soltanto per te e per quelli che somigliano a te. Vedi, per esempio; Cristo ha pagato il tributo allo Stato e io, non come Pontefice ma come cittadino, pagherei volentieri il mio tributo di omaggio là in quel palazzo di cui hai veduto i lumi, se non temessi di offendere così i sessanta scolari, di perdere anche una sola delle loro anime che mi sono preziose come le altre. E così sarebbe se io facessi togliere certi libri dall' Indice, se chiamassi nel Sacro Collegio certi uomini che hanno fama di non essere rigidamente ortodossi, se, scoppiando un'epidemia, andassi, ex abrupto , a visitare gli ospedali di Roma." "Oh Santità!" esclamò Benedetto "mi perdoni ma non è sicuro che queste anime disposte a scandolezzarsi del Vicario di Cristo per ragioni simili poi si salvino, e invece è sicuro che si acquisterebbero tante altre anime le quali non si acquistano!" "E poi" continuò il Papa come se non avesse udito "sono vecchio, sono stanco, i cardinali non sanno chi hanno messo qui, non volevo. Sono anche ammalato, ho certi segni di dover presto comparire davanti al mio Giudice. Sento, figlio mio, che tu hai lo spirito buono ma il Signore non può volere da un poveruomo come me le cose che tu dici, cose a cui non basterebbe neppure un Pontefice giovine e valido. Però vi sono cose che anch'io, con il Suo aiuto, potrò fare; se non le cose grandi, almeno altre cose. Le cose grandi preghiamo il Signore che susciti chi a loro tempo le sappia fare e chi sappia bene aiutare a farle. Figlio mio, se io mi metto da stasera a trasformare il Vaticano, a riedificarlo, dove trovo poi Raffaello che lo dipinga? E neppure questo Giovanni? Non dico però di non fare niente." Benedetto era per replicare. Il Pontefice, forse per non volersi spiegare di più, non gliene lasciò né il modo né il tempo, gli fece una domanda gradita. "Tu conosci Selva" diss'egli. "Privatamente, che uomo è?" "È un giusto" si affrettò a rispondere Benedetto. "Un gran giusto. I suoi libri sono stati denunciati alla Congregazione dell' Indice. Forse vi si troveranno alcune opinioni ardite ma non vi è confronto fra la religiosità calda e profonda dei libri di Selva e il formalismo freddo, misero di altri libri che corrono, più del Vangelo, per le mani del clero. Santo Padre, la condanna di Selva sarebbe un colpo alle energie più vive e più vitali del Cattolicismo. La Chiesa tollera migliaia di libri ascetici stupidi che rimpiccioliscono indegnamente l'idea di Dio nello spirito umano; non condanni questi che la ingrandiscono!" Le ore suonarono da lontano. Nove e mezzo. Sua Santità prese tacendo una mano di Benedetto, la chiuse fra le sue, gli fece intendere con quella muta stretta sensi e consensi trattenuti dalla bocca prudente. La strinse, la scosse, l'accarezzò, la strinse ancora, disse finalmente con voce soffocata: "Prega per me, prega che il Signore m'illumini." Due lagrime brillavano nei belli occhi soavi di vecchio che mai non si macchiò di un volontario pensiero impuro, di vecchio tutto dolcezza di carità. Benedetto non riuscì, per la commozione, a parlare. "Vieni ancora" disse il Papa. "Dobbiamo discorrere ancora." "Quando, Santità?" "Presto. Ti farò avvertire." Intanto l'ombra, avanzando, aveva inghiottito la Figura bianca e la Figura nera. Sua Santità pose una mano sulla spalla di Benedetto, gli domandò sommessamente, quasi esitante: "Ricordi la fine della tua visione?" Benedetto rispose, pure sottovoce, abbassando il viso: "Nescio diem neque horam." "Non sono nel manoscritto" riprese Sua Santità. "Ma ricordi?" Benedetto mormorò: "In abito benedettino, sulla nuda terra, all'ombra di un albero." "Se così sarà" riprese il Santo Padre, dolcemente "ti voglio benedire per quel momento. Allora sarò ad aspettarti in cielo." Benedetto s'inginocchiò. La voce del Papa suonò solenne nell'ombra: "Benedico te in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti." Il Papa risalì rapidamente i cinque gradini, scomparve. Benedetto rimase ginocchioni, assorto in quella benedizione che gli era parsa venire da Cristo. Si alzò al suono di un passo nella Galleria. Pochi momenti dopo egli scendeva, accompagnato da don Teofilo, al Portone di bronzo.

CAINO E ABELE

678792
Perodi, Emma 1 occorrenze

Le parve che la sua anima, la sua carne, tutto l'essere suo fosse macchiato dal contatto morale, dal contatto fisico di quel forzato, che anch'olla dovesse arrossire, abbassar gli occhi dinanzi a tutti; e l'illusione era così grande che sentiva anche lei una stretta al collo del piede, la pressione di un anello, come se avesse trascinato, se trascinasse la catena. Oh! io impazzisco! - esclamò balzando in piedi dalla poltrona su cui erasi seduta e accendendo quante candele potè trovare. La luce parve la calmasse e, svestitasi lentamente, si coricò dopo avere spento i lumi. Ma, appena al buio, ecco di nuovo l'incubo a tormentarla. Questa volta prendeva la figura di Franco, di colui che l'aveva perseguitata, che sentiva la perseguitava ancora, che doveva aver fatto liberare il marito dal carcere, per infliggerle quell'onta. E se lo vedeva accanto con le braccia protese, ne sentiva l'alito infuocato e la pressione bramosa delle mani sulle carni nude. Le pareva addirittura di morire. Cercò i fiammiferi sul comodino senza trovarli, tastò per sentire se v'era la bottiglia della morfina e non riuscì a trovarla e allora urlò: Costanza! Costanza! Il grido fu udito subito dalla donna, che vegliava ancora, ebra dei baci d'Alessio. Ella comparve in camera col lume e ne accese altri. La morfina! la morfina! - diceva Velleda cui il professor Angelini aveva prescritto quel rimedio, raccomandandole di non abusarne. Costanza le versò la medicina in un bicchierino ed ella guardò la dose e quindi la bevve. Ora dormirò fino a domattina, - disse. - Andate pure a riposare. Costanza uscì, ma poco dopo ritornava scalza. Velleda dormiva già di un sonno profondo. Vedendo l'effetto prodotto da quel rimedio, che non aveva odore e che aveva l'apparenza dell'acqua sorgiva, Costanza sorrise malignamente, e nel suo cervello, in cui non aveva posto altro che un pensiero di vendetta, concretò l'infernale disegno che andava architettando da tanto tempo. Ella vegliò tutta la notte Velleda; la toccava, le tirava via le coperte, le faceva cambiar posizione, le metteva altri guanciali sotto il capo, come se volesse esperimentare la profondità del sonno; la dormente mugolava a pena, ma non apriva gli occhi, non faceva nessun movimento, dormiva sempre. E Costanza, con l'orologio alla mano, osservò che quel sonno aveva durato sei ore. È quel che ci vuole, - disse fra sé, mentre con premura domandava alla signora se si sentiva meglio. Molto meglio, ma stanca, stanchissima, - rispose, non ho forza di alzare un braccio. Ma quando Costanza le ebbe detto che il padrone non era ancora partito, riunì le forze e vestitasi in fretta, scese a recargli in giardino il suo augurio. Torni eletto, - gli disse. La carrozza si allontanò e Franco dalla finestra del suo stanzino da bagno la vide sparire sulla via maestra. Nessuno parlavagli mai, meno che Costanza, eppure da quella finestra e dalle altre che guardavano sul viale, aveva tanto veduto e udito, che avrebbe potuto far la storia degli avvenimenti di quegli ultimi giorni. Nulla eragli sfuggito, neppure l'arrivo dell'ex forzato, di cui aveva ottenuto la liberazione mercé donna Paola, dipingendole Velleda, la sirena, con tinte fosche, e supplicandola di far sì che il marito la strappasse da quel luogo, ove esercitava una funesta influenza. E quel giorno, come ogni volta quando vedeva che una delle sue perfidie, susurrate all'orecchio di un perverso o dette in confidenza a Costanza, producevano l'effetto voluto, sussultava di gioia credendosi anch'egli una forza. In quella solitudine, disprezzato da tutti, da tutti sospettato, Franco inasprivasi ogni giorno di più. Dal tristo che invidiava tutti, odiava tutti e si compiaceva nel commettere il male, all'indifferente disoccupato che non calcolava la portata delle azioni; dal don Franco di Selinunte al duca d'Astura di Roma, correva un gran divario. Finché la vita gli aveva sorriso, la ricchezza e la posizione gli avevano appianato la via, era rimasto un uomo relativamente onesto; ora che tutto gli mancava, ridiveniva tale quale lo avevano fatto la natura e l'educazione: uno sciagurato. Era ancora appoggiato alla finestra dietro le persiane, pregustando il piacere che avrebbe provato il giorno dopo nel veder Roberto tornare battuto dalle mene elettorali alle quali sentiva di aver fornito tanto contributo, quando si sentì battere familiarmente sulla spalla. Si voltò a un tratto e vide Costanza dinanzi a sé. Don Franco, la volete stasera la fiorentina? - gli disse brutalmente. Che dici? Stasera, dove? - domandò il duca sentendosi ribollire il sangue a quella notizia. Sì, stasera alle undici, nella grotta sul mare, dopo la villa. Costanza, come farai a indurla ... ? La donna abbassò gli occhi e alzò il mento con una mossa che significava: "Lasciate fare a me!. Ma dimmi ... ? Non saprete nulla; trovatevi là alle undici. Non è perché voi mi facciate compassione, che ve la metto nelle braccia, no. Rammentatevi che è per vendicarmi di lei. Queste sottigliezze importavano ben poco al duca; gli bastava che Costanza mantenesse la promessa, che alla fine, dopo tanti mesi di acre desiderio, egli potesse farla sua, procurarsi l'appagamento di quel desiderio e la soddisfazione di umiliarla. La conosceva bene, aveva su di lei concentrato tutta la sua osservazione in quegli ultimi tempi e sapeva che Velleda si sarebbe sentita così macchiata dai baci di lui, da ricusare la sua bocca a quelli di Roberto. Così li avrò divisi e dopo tornerà a me; poche donne sanno negare l'amore a chi glielo ha rubato una volta; Velleda sarà mia, mia! Impazziva davvero, ora che il sogno stava per avverarsi, che la brama stava per essere appagata. Sarà mia, mia! - ripeteva socchiudendo gli occhi.

MEMORIE DEL PRESBITERIO SCENE DI PROVINCIA

679357
Praga, Emilio 1 occorrenze
  • 1881
  • F. CASANOVA. LIBRAIO - EDITORE
  • prosa letteraria
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Entrando nell'onorato ma modesto sentiero in cui lo spingeva il bisogno, egli sentiva di abbassarsi, non in faccia agli altri ma in faccia a sè stesso; non voleva abbassar con sè l'altissimo ideale, la scienza; per Lei, per l'amor suo, pel suo culto ogni maggior sacrificio; ma ambiva di farle la carità delle sue veglie senza ch'Ella sapesse che cosa costassero al suo sacerdote. Come aveva diviso in due parti il proprio tempo, così aveva diviso in due parti sè stesso. Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest'ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l'Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato. La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l'uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l'ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela. Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l'aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo. Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita. Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, - rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, - era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l'unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza. Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell'Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l'influenza dei versi ... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna! Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine? Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, - finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell'andarsene a zonzo, - che adocchiava, dalle vetrine dei librai, - le nuove edizioni, - nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. - Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo. L'idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi. Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo. - È innamorato di miss Jenny! - È il suo amante, - ripetè il secondo. - Quel vecchio babbeo! ... osservò il terzo. E così di seguito. Che c'era di vero in tutto ciò? Eccolo detto in poche parole: De Emma non era l'amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. - De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva. Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno. Venne l'ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo. Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d'ambrosia, l'altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c'erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest'ultimo. Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l'indomani; era sottoscritto «Jenny». Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all'invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri. Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l'angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll'alba, quando l'orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l'esistenza sua tutta intiera? Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora. Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell'animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d'improvviso sull'ultima vetta dell'Imalaia, o all'estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l'abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta ..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell'abbrutimento e della pazzia. Guardata faccia a faccia la via del dovere, l'angusta via del dovere come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino. Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l'alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell'amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall'allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore. Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all'involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione. Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov'era l'uomo serio d'una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici. Con esse cominciò ad insinuarsegli nell'animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell'Ortis si era versato in tutta la letteratura dell'epoca. La sirena del suicidio venne a cantargli nell'animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell'orgie: il ritornello vi trascina. E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell'uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi. Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L'acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo. Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c'era ragione di rimanervi. Ma s'ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita. A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia. Subitamente gli colpì l'occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell'onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero. Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche. Si mosse istintivamente e discese anch'egli alla riva. Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento. - Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume. De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio. Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell'infelice. Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell'impresa. Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna. I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell'uscio in faccia alla curiosità invadente della folla. Dopo qualche minuto, un finestrello s'aperse; una voce gridò: - Un medico! ... - Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo. L'uscio si riaperse e fu introdotto nella camera. La donna distesa sopra un mucchio di reti non s'era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente. Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo. Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita. De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane. Dopo un quarto d'ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano. Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all'operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere. Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamo: - Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò: - Sta qui vicino? - A due passi. Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua. Colà nessuno s'era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora. Attraversando l'appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d'uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo. I meno cotti, all'inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all'ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti. Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria. Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni. Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l'articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia. Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta. Dopo un'ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe' una smorfia di disgusto. Volle sapere come c'era tornata e bisognò contentarla. Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo: - Prendi, spetta a te; io l'avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po' troppo sollecitamente, - ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino. - Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto. De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo. Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito. Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l'inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate. Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d'averla vinta scoprì d'aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l'aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile. Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole: - Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll'indice sul suo seno ansimante per l'asma, eh! che ne dite, patria? - Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione. - Davvero? ebbene proviamo. Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita. Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione. Un po' la nuova speranza, un po' la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie. Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva: - Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno. Voleva dire il De Emma. Nessuno l'aveva mai veduto. Qualche volta egli veniva mentre c'era gente; e la Rosilde s'alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia. Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi. Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico. De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia. La sua riputazione si estese nella alta società di Londra. Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga. La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l'importanza dell'igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo. La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza. Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton. L'aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione. De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l'accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione. Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all'amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, - a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso. Una mattina di estate, all'ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny. Costui gli tenne questo strano discorso: - Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela. Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l'un dell'altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c'era presente una giovanetta un po' pallida che singhiozzava di gioia. Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente. Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione. Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia. Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze. Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde. Solo aveva risaputo ch'ell'era tornata verso il fine dell'estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico. Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l'Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita. Una mattina, era pressapoco l'anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l'invito dì passare da lei. La poveretta era ricaduta malata: l'aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore. Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell'inverno. Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata. Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente. La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l'Inferma. Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai. Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza. Ella non aveva più parenti all'infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto? Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch'egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla. La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall'inferma e tanto fece e tanto disse che l'indusse a seguirli in Italia. Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l'accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell'avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità. Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio. Il sereno non tardò ad intorbidarsi. Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po' tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza. Qualche ciarla cominciò a salire fino all'orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare. Il sospetto è un miraggio che ha l'aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un'apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s'incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà. La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l'espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole. Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì. Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto. La triste scoverta la fe' pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all'incerto avvenire, ma sovr'ogni altra cosa all'umiliazione di essere a carico de' suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l'aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com'egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L'amicizia si contenta spesso della somiglianza, l'amore esige quasi sempre l'antitesi dei caratteri; cerca l'armonia nelle differenze. Per invaghire un'indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo Ella deliberò di lasciare senz'indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l'aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l'indomani, - così senz'altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l'imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l'impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l'ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: - tornerete? Rosilde le rispose: - A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l'Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla. Il dottore s'era accorto all'ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla. La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale. La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L'infelice s'era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton. La quiete del Presbitero l'aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant'anni sonati. Per certe donne l'amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità. Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c'è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura. La triste solitudine di quest'uomo così buono, così degno d'affetto la commosse. Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione. Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso. Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un'idea, di un sentimento soprannaturale l'interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta. Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell'orto, e là rimanere immobile per dell'ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, - ella s'immaginava che fossero le torture di un'indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè. Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l'ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, - potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, - il quale penetra l'umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell'arcano principio onde si congiunge l'elemento morale colla materia. Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all'improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, - e riesce spesso a sopraffarla. Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani. Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, - eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia. Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo. Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall'una all'altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni. Egli non tardava a scorgerla. Non l'evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll'agilità di una farfalla dall'uno all'altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde. Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l'altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione. Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l'alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei. Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse. Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, - questi ossessi dell'idea e dell'immagine, - dovrebbero trovare sempre sull'aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell'uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell'evangelo. Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi. Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, - e sempre ne attribuiva il merito al padrone: - don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest'altro. Ell'erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d'uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano: - Che dite mai, che dite mai .... un piacere, un dovere .... Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato. Don Luigi aveva soggiunto: - Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità. La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d'invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile. Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità. Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: - umile e sublime missione! Il suo mestiere l'aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, - ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l'aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità. Però fu con viva gioia ch'ella si accorse d'essergli cara. Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo. Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l'effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi. Ella ci teneva a non farsi illusioni, - e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni. Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, - ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere. Ella non pensò mai a calcolar sull'avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di .... Ma non precipitiamo gli avvenimenti. Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine. A quell'ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll'abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza. Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L'aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l'epopea splendida delle spighe d'oro. In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti. Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l'umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz'altro Rosilde. Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L'attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell'anacoreta. Riguardava con uno sgomento d'ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore. Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente. Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente. Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl'incanti ch'ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, - e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza. Nè l'uno nè l'altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l'idillio era incominciato: - e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi. Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l'amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell'amicizia, nulla sarebbe accaduto. Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un'aspirazione, un desiderio ... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.

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